Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2019
GLI STATISTI
DI ANTONIO GIANGRANDE
ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.
L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
INDICE SECONDA PARTE
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
INDICE TERZA PARTE
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
INDICE QUARTA PARTE
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
INDICE QUARTA PARTE
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
INDICE QUINTA PARTE
LA SOCIETA’
PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.
STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.
INDICE SESTA PARTE
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
INDICE SESTA PARTE
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
Il Memoriale di Aldo Moro.
Il terrorismo rosso aveva contatti con i Paesi dell'Est. Tutto fu insabbiato.
Apuzzo e Falcetta. Strage Alcamo Marina: non fu Gladio (e nemmeno Gulotta).
Il patto di non belligeranza tra i Servizi italiani e quelli palestinesi.
Sequestro Moro: le storie dei cinque uomini uccisi dalle Brigate Rosse.
I convegni dei brigatisti.
I Ribaltoni quando erano cosa seria. Il Compromesso Storico.
Aldo Moro e la sua idea di centro.
Chi amò e chi odiò Aldo Moro.
In ricordo del Presidente Francesco Cossiga.
Le auto di Moro.
Agnese Moro. Quando la vittima dice al carnefice: tu stai peggio di me.
Maria Fida Moro: Santo non s’ha da fare.
Aldo Moro contro il fascismo nel ’43.
Aldo Moro e la Tangentopoli ante litteram.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
Le lettere ed i diari di Giulio Andreotti.
Quando la politica era la politica. E aveva un re: Giulio Andreotti.
Giulio Andreotti ed Aldo Moro.
Andreotti, potere e misteri. Dai nastri di Aldo Moro ai processi di mafia.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
Così finì la Prima Repubblica.
L’Italietta Vigliacca, la Fine della Prima Repubblica e la Misteriosa Morte di Lodovico Ligato.
La Cultura della Legalità.
Quelle valigie piene di rubli per Pci.
Politica e corruzione, l’eterno ritorno.
Morto Francesco Saverio Borrelli.
Cirino Pomicino.
Gianni De Michelis è morto.
Parla Claudio Martelli.
Le lettere del giovane Craxi: ho tante grane politiche.
"Una volta ladro sempre ladro".
Di Pietro, i tuoi segreti sono affari di Stato.
Sergio Castellari, il giallo dell’uomo senza volto «Fu suicidio».
Bersani: Bettino Craxi. I guai se li è meritati.
I moralizzatori di sinistra anti Trump.
Lobbia e la prima Tangentopoli.
"Tangentopoli nera". La verità sulla corruzione del Ventennio fascista.
Tangentopoli Bianca. Così Moro avvertì i giudici: «Noi Dc non ci lasceremo processare nelle piazze!».
Poggiolini, verso l’assoluzione (a 90 anni).
Quando Craxi disse: «Non tornerò in Italia neanche da morto…».
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
Berlusconi e le donne.
Berlusconi e gli animali.
Silvio Berlusconi: “Io, un padre orgoglioso”.
E’ morto Paolo Bonaiuti, ex portavoce di Silvio Berlusconi.
Berlusconi, Cicchitto e la cronistoria del romanzo azzurro.
Silvio Berlusconi, la Mafia e la Giustizia.
Bunga. Bunga. La morte di Imane Fadil e la condanna di Emilio Fede.
Scarantino: "Mio fratello vendeva droga a Berlusconi".
Corruzione sulle sentenze del Consiglio di Stato.
Giacomo Properzj. Storia di Canale 5 che costò a Berlusconi solo una lira.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
Fascismo di sinistra.
Gli antifascisti radicali al tempo dell'accordo nazi-comunista del 23 agosto del 1939.
Il Fascismo in Italia era l’equivalente del Comunismo in Russia.
Il Cinema e la dittatura.
Geni in Fuga.
1919, cent'anni fa nasceva il Nazismo.
Le cavie del Nazismo.
Le madri dei cattivissimi? Buone, semplici e devote.
Più socialista che nazionalista. Ecco il "compagno" Hitler...
Hitler: la faccio finita oggi…
Hitler. Quella bomba sotto il culo.
I Testicoli di Hitler.
L’anestesista che catturò Eichmann (e non ne parlò mai).
Witold Pilecki: dentro l’orrore ed ucciso dai comunisti.
I Medici dei dittatori.
Il "quadrato Monforte" di Pavolini, ultima difesa di Salò a Milano.
Quando Badoglio dormiva.
La Liberazione degli Alleati.
La guerra civile del 25 aprile.
La Resistenza accusata di terrorismo e genocidio.
La guerra civile del 25 aprile che continua tutt’oggi.
“Bella ciao” canzone di tutti gli italiani?
Cancellare il 25 aprile. Per tornare a parlare di presente (e futuro).
I Catto-Comunisti vincenti la guerra civile. Per me il 25 aprile è...
I Fascio-comunisti perdenti la guerra civile. Per me il 25 aprile è...
Prima e dopo la cosiddetta “Liberazione”.
Fascismi.
I figli del duce…
La doppiezza di Casapound.
Il saluto romano: manifestazione del pensiero (come il pugno chiuso comunista).
Il fantasma di Mussolini: "Fa parte della storia".
Mussolini e Napoleone.
Il Duce ed Il Jazz.
Il Duce e le Donne.
Il Duce e gli Omosessuali.
Il bisnipote del Duce in politica: censurato, non sono fascista.
Il Duce è tornato. È Mr Facebook.
I 100 anni di Giulio ultimo corazziere del re.
Pochi ma buoni. Albertazzi ed i partigiani codardi.
Gap. Azioni e ritorsioni: Resistenza, Guerriglia o Terrorismo?
Piazzale Loreto, sacrificio rituale: morte del nuovo Cesare.
La Grande Guerra. Perché la Guerra Civile.
Erano arditi e scapigliati ma a San Sepolcro nacque il fascismo…
Galeazzo Ciano, una vita sbagliata in un tempo crudele.
Gabriele D’Annunzio. Libertario, non libertino.
Mussolini campione di bluff?
La pagina nera dei giudici complici sulle leggi razziali.
Il Fascismo filo-islamista.
Ma chi l'ha detto che il fascismo non ha fatto cose buone?
LA POLITICA E GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Il Memoriale di Aldo Moro.
Gianni Barbacetto per il “Fatto quotidiano” il 25 novembre 2019. "Uno scandalo veramente senza fine". È il caso Moro, secondo Sergio Flamigni, ex senatore e infaticabile ricercatore che da anni indaga sulla P2 , sul terrorismo italiano, sul sequestro del presidente della Dc. Il suo ultimo lavoro, Rapporto sul caso Moro (Kaos edizioni), presenta il suo contributo ai lavori della seconda Commissione parlamentare d' inchiesta sul sequestro di Aldo Moro (2014-2017). Ma rende pubblica anche una denuncia secca per come il presidente della Commissione, il Pd Giuseppe Fioroni (preferito al più esperto Miguel Gotor), ha condotto i lavori. "In modo autocratico e disordinato", "abusando della secretazione", lavorando "quasi solo attorno all'agguato di via Fani, senza affrontare il nodo del 18 aprile, ossia la scoperta del covo di via Gradoli e il falso comunicato del Lago della Duchessa". Risultato finale: "Mantenere il delitto Moro un enigma irrisolto". Eppure alcuni elementi raccolti dalla Commissione sono riusciti a confermare "che la verità di Stato sul delitto Moro - confezionata dalla Dc di Francesco Cossiga insieme agli ex Br Valerio Morucci e Mario Moretti e avallata dalla magistratura romana - è una colossale menzogna". Flamigni segnala "tre dati di fatto che sbugiardano quella versione dall' inizio (strage di via Fani) alla fine (uccisione di Moro)".
Il primo dato accertato è che subito dopo la strage di via Fani, la mattina del 16 marzo 1978, i terroristi delle Brigate rosse si sono rifugiati con l'ostaggio in uno stabile di via Massimi 91 di proprietà dello Ior (la banca del Vaticano), su cui non è mai stato fatto alcun approfondimento. Non ci sono stati - come raccontato "dalla menzognera versione di Stato" - trasbordi del rapito in piazza Madonna del Cenacolo; non c' è stata una tappa successiva nel sotterraneo del grande magazzino Standa dei Colli portuensi; e non c' è stato l' approdo finale nel covo-prigione di via Montalcini.
Il secondo dato accertato dalla Commissione è che "sono una sequela di menzogne" anche il luogo e le modalità dell'uccisione del presidente della Dc raccontate dai brigatisti. Secondo la loro versione, Aldo Moro sarebbe stato ammazzato nel box auto di via Montalcini, nel baule della Renault rossa, con 11 colpi sparati alle 6-7 del mattino. Con successivo trasporto del cadavere per alcuni chilometri, da via Montalcini fino in via Caetani, al centro di Roma. Falso, secondo Flamigni: "Le vecchie e le nuove perizie hanno definito improbabile il luogo, ben diverse le modalità, e falso l' orario del delitto indicato dalla versione brigatista avallata dalla magistratura romana".
Il terzo dato di fatto è che la "verità ufficiale" sulla prigionia e sull' uccisione di Moro in via Montalcini (quella del "memoriale Morucci") è stata confezionata in carcere dal brigatista dissociato Valerio Morucci con la regia del Sisde, il servizio segreto del Viminale, con "la fattiva collaborazione della Dc cossighiana". "Il sequestro del presidente della Dc è rimasto un delitto senza verità", scrive Flamigni. "Infatti a distanza di più di quarant' anni non c' è alcuna certezza sul luogo (o i luoghi) dove Moro fu tenuto segregato per quasi due mesi, né si sa chi, come e perché lo abbia ucciso". Secondo Flamigni, "è certo che alla strage di via Fani partecipò un tiratore scelto". Ne parla anche uno dei testimoni oculari, il benzinaio Pietro Lalli, pratico di armi: raccontò di "aver visto sparare un esperto e conoscitore dell'arma in quanto con la destra la impugnava, e [teneva] la sinistra guantata sopra la canna in modo che questa non si impennasse".
Per scoprire gli eventuali professionisti in via Fani, "la Commissione avrebbe dovuto occuparsi dell' aereo libico, diretto a Ginevra, che nel tardo pomeriggio del 15 marzo 1978 (vigilia della strage di via Fani) atterrò invece a Fiumicino con quattro persone a bordo, e che ripartì l' indomani mattina alle ore 10,05 (un' ora dopo la strage) alla volta di Parigi. Un volo fortemente sospetto di avere trasportato uno o più killer di una particolare struttura di addestramento e supporto per organizzazioni terroristiche formata a Tripoli (Libia) dagli americani Edwin P. Wilson e Frank Terpil, entrambi ex agenti della Cia". Flamigni segnala come "episodica eccezione" al "quarantennale disastro giudiziario relativo al delitto Moro" il lavoro del procuratore generale di Roma Luigi Ciampoli, che avocò un' indagine della Procura guidata da Giuseppe Pignatone. La requisitoria di Ciampoli dell' 11 novembre 2014 "ha confutato la versione di Stato del duo Morucci-Moretti sulla dinamica dell' agguato e della strage. E non ha mancato di menzionare la 'protratta inerzia' del pubblico ministero romano che lo aveva indotto a esercitare il potere di avocazione". La "protratta inerzia" ha riguardato anche la figura e il ruolo dell' americano Steve Pieczenik (insediato al Viminale per conto del Dipartimento di Stato Usa durante il sequestro Moro). Venne mandato a Roma da Washington - secondo Ciampoli - per quella che era una vera e propria operazione di "guerra psicologica" con tre obiettivi: garantire l' uccisione dell' ostaggio; recuperare le registrazioni degli interrogatori e degli scritti di Moro; ottenere il silenzio dei terroristi. Ciampoli ha riferito anche di aver indagato sulla presenza in via Fani di due uomini dei servizi segreti, a bordo di una moto Honda, al comando del colonnello Camillo Guglielmi. E si è detto convinto che "in via Fani vi fosse la presenza anche di servizi segreti di altri Paesi interessati, se non a determinare un processo di destabilizzazione dello Stato italiano, quantomeno a creare del caos". È stata secretata l'audizione in seduta segreta del 29 luglio 2015 di Luca Palamara, sostituto procuratore a Roma e membro del Consiglio superiore della magistratura: riguardava l' interrogatorio di Pieczenik svolto per rogatoria da Palamara il 27 maggio 2014. "Da allora", commenta Flamigni, "la posizione giudiziaria di Steve Pieczenik si è inabissata, col suo carico di segretezza, nel porto delle nebbie".
Maria Antonietta Calabrò per il “Fatto quotidiano” il 26 novembre 2019.
La STASI, il potente servizio segreto della defunta Repubblica democratica tedesca, in un appunto dell' 8 giugno 1978, pubblico dal 2014, metteva in evidenza le somiglianze dell'intera azione brigatista con la notissima vicenda del rapimento dell' industriale Hanns-Martin Schleyer, compiuta dalla RAF (Rote Armeee Fraktion) alla fine del 1977, e segnalava una possibile "prigione del popolo" vicina al luogo del sequestro, via Fani.
La STASI era particolarmente ben informata visto che, secondo il suo leggendario capo Markus Wolf, la RAF (che oggi sappiamo essere stata presente con almeno due terroristi sulla scena di via Fani), era nelle sue mani. Se oggi questa "prigione" - la prima e più importante - è stata "scoperta", si deve ai lavori parlamentari della scorsa legislatura. Era in via Massimi 91. Ne parlo in più capitoli del libro che ho scritto a quattro mani con Giuseppe Fioroni, Moro, il caso non è chiuso, la cui seconda edizione è stata pubblicata in occasione del trentesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. I riscontri sono stati trovati negli atti desecretati a partire dal 2014, e hanno portato a individuare questa prigione in un miniappartamento ricavato nell'attico della palazzina B di via Massimi 91, di proprietà allora dello IOR , la cosiddetta banca vaticana. Un attico che ha un' altra caratteristica: era allora sicuramente l' appartamento più alto di Roma. Quindi vista libera, nessun occhio indiscreto e la possibilità per Moro di poter stare all'aria aperta e di muoversi (tanto che il suo tono muscolare era buono e quindi incompatibile con una lunga detenzione su una brandina in via Montalcini). Oggi sappiamo che una "fonte riservata", già il giorno successivo al sequestro, il 17 marzo 1978, aveva avvertito il comandante della GdF Raffaele Giudice, che "le 128 dei brigatisti sarebbero state parcheggiate in un box o garage nelle immediate vicinanze di via Licinio Calvo", presso una base situata a un piano elevato, con accesso dal garage mediante ascensore, una tipologia di edilizia residenziale signorile e moderna. Grazie alla collaborazione del Comando della GdF, sono stati acquisiti dalla Commissione Moro, presieduta da Fioroni, tutti i documenti che riguardavano la localizzazione di questo covo-prigione. Le palazzine erano gestite dal padre di don Antonio (che le Br scelsero come interlocutore e mediatore con la famiglia Moro), Luigi Mennini, all' epoca ai vertici dello IOR . Gli accertamenti sviluppati dalla Commissione Moro 2, a partire dal 2015 hanno dimostrato che mai, dal 1978 a oggi, era stato svolto un serio lavoro investigativo sui condomini di via Massimi 91. Un miniappartamento nell' attico della Palazzina B Nel complesso di via Massimi 91, tra il 1977 e il 1978, furono fatte modifiche che sono state oggetto di recenti approfondimenti. Nell' attico della Palazzina B fu realizzata una camera compartimentata, costruita sul terrazzo e appoggiata a uno dei muri perimetrali. Situata nella zona di servizio, la stanza poteva ospitare un eventuale soggetto temporaneamente custodito nella "cameretta" con gli spazi e i servizi di un vero e proprio miniappartamento. E ciò combacia con quanto descritto in un appunto del 28 settembre 1979 dal generale Grassini (Sisde), in cui fa riferimento a un' intercettazione ambientale di una conversazione tra detenuti, "uno dei quali di alto livello terroristico": "Non gli hanno mai messo le mani addosso", "Non gli è stato torto un capello"; Moro otteneva tutto ciò di cui "aveva bisogno, si lavava anche quattro volte al giorno, si faceva la doccia, mangiava bene, se voleva scrivere scriveva []". Si torna sempre sul luogo del delitto Le indagini compiute tra il 2014 e il 2017 hanno consentito di identificare per la prima volta due persone, allora conviventi in via Massimi 91, hanno esplicitamente ammesso di aver ospitato per alcune settimane, nell' autunno 1978, Prospero Gallinari il carceriere di Moro in un'abitazione sita in quello stesso condominio. Non è un caso se Gallinari entrò in quella abitazione in un periodo in cui la caduta della base di via Monte Nevoso a Milano e di altri covi brigatisti dovette indurre a cercare sistemazioni più sicure per il carceriere di Moro. All’interno del complesso di via Massimi 91, oltre quella degli alti prelati vaticani (tra cui Marcinkus) , la Commissione Moro 2 ha riscontrato altre presenze. Vi abitava la giornalista tedesca Birgit Kraatz, corrispondente in Italia dei periodici tedeschi Der Spiegel e Stern, a quel tempo legata a Franco Piperno, il leader di Autonomia Operaia. Nella palazzina c' era poi la sede operativa di una società statunitense, la Tumpane Company (TumCo), con sede legale negli Stati Uniti e domicilio fiscale proprio in via Massimi 91. Ha cessato le proprie attività nel 1982, ma dal 1969 forniva assistenza alla presenza Nato e statunitense in Turchia, ed esercitava anche attività di intelligence per l'organismo informativo militare statunitense. Vivevano o lavoravano in via Massimi 91 anche diversi personaggi legati alla finanza e ai traffici tra Italia, Libia e Medio Oriente. Come Omar Yahia che mise in contatto con il Sismi la fonte Damiano, particolarmente informata sulle dinamiche terroristiche palestinesi. Il rapimento e l'omicidio di Aldo Moro, quindi non appaiono come una vicenda puramente interna all' eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale, che i brigatisti hanno sempre negato. Roma a quei tempi, come Berlino, era occidentale per tre quarti e orientale per un quarto. Era in via Massimi 91 il Checkpoint Charlie della capitale italiana? Tutti gli atti e la documentazione raccolti dalla Commissione Moro 2 sono stati desecretati a eccezione degli atti prodotti dai magistrati o dagli ufficiali di Polizia giudiziaria consulenti della Commissione che hanno esplicitamente chiesto di mantenere la documentazione segreta, in quanto si tratta di indagini ancora in corso di approfondimento. Infatti "il caso non è chiuso".
Aldo Moro: “Il giorno di Piazza Fontana il Pci mi consigliò di non tornare a Roma”. Mentre si avvicina il cinquantenario della strage milanese, ecco quel che nel 1978 il leader Dc rivelava nel memoriale consegnato alle Brigate Rosse. Maurizio Tortorella il 20 novembre 2019 su Panorama. Manca meno di un mese al cupo anniversario della strage di Piazza Fontana, con i suoi 17 poveri morti causati dai candelotti di gelignite piazzati dai neonazisti di Ordine Nuovo il 12 dicembre 1969. Mentre stanno per partire celebrazioni e manifestazioni per il cinquantenario della prima grande strage italiana, va ricordato un particolare importante, ma del tutto ignorato dalle cronache di questi ultimi anni. E cioè che anche Aldo Moro, che nel 1969 è ministro degli Esteri del governo Rumor, e quel 12 dicembre si trova a Parigi, scrive di piazza Fontana. E si convince presto che sia una strage “nera”. Moro lo dichiara con estrema chiarezza nel memoriale che affida alle Brigate Rosse durante la sua prigionia del marzo-maggio 1978: “Personalmente ed intuitivamente”, annota il presidente del Consiglio, poche settimane prima di essere ucciso dai suoi carcerieri, “io non ebbi mai dubbi e continuai a ritenere (…) che questi e altri fatti che si andavano sgranando fossero di chiara matrice di destra e avessero l’obiettivo di scatenare un’offensiva di terrore indiscriminato (…) allo scopo di bloccare certi sviluppi politici che si erano fatti evidenti a partire dall’autunno caldo e di ricondurre le cose, attraverso il morso della paura, a una gestione moderata del potere”. Poco più in là, sempre nel suo memoriale, Moro offre alle Br una rivelazione interessante, che dimostra come già nel dicembre 1969 gli stessi potenti apparati d’intelligence del Partito comunista italiano avessero presente il rischio di una svolta autoritaria collegata alla bomba di Milano. Moro scrive che “Tullio Ancora, un alto funzionario della Camera dei Deputati e da tempo mio normale organo d'informazione e di collegamento con il Partito comunista, mi telefonò in ambasciata a Parigi, per dirmi con qualche circonlocuzione che non ci si vedeva chiaro e che i suoi amici (cioè proprio i comunisti) consigliavano qualche accorgimento sull'ora di partenza, sul percorso, sull'arrivo e sul trasferimento di ritorno. (…) Io ritenni, poiché ne avevo la possibilità, di adottare le consigliate precauzioni e rientrai a Roma non privo di apprensione”. Moro, comunque, ha una certezza: esistono centrali dell’intelligence straniera che hanno interferito nella strage. Nel memoriale, il prigioniero indica i due regimi di destra che nel 1969 sono al potere in Spagna e Grecia, poi aggiunge una frase sibillina: “Ci si può domandare” scrive “se gli appoggi venivano solo da quella parte o se altri servizi segreti del mondo occidentale vi fossero comunque implicati”. È una lettura interessante, che non andrebbe sottovalutata. Di certo, va conosciuta.
Storia d'Italia. Il memoriale che finalmente ci restituisce il vero Aldo Moro. Il documento, scritto a mano dal prigioniero durante il sequestro nel 1978, da sempre considerato la chiave dei cinquantacinque giorni più oscuri della Repubblica, approda a una nuova edizione critica. Che riconsegna allo Statista ucciso il suo tempo e la sua scrittura. Marco Damilano il 15 novembre 2019 su L'Espresso. La scrittura e il tempo. Erano queste le uniche armi, fragili, su cui poteva contare l’uomo di Stato spogliato del suo potere, diventato prigioniero, «nel cuore del terrore», come lo immaginò Italo Calvino, nelle mani dei suoi carcerieri e delle forze esterne al covo che si muovevano per condizionare gli esiti del sequestro di cui sapeva, lui soltanto, decifrare i fili invisibili. Scrivere per prendere tempo, come in una favola antica, e prendere tempo per scrivere, come in una lenta caduta in cui si sono avvinghiati, una volta per tutte, in un solo destino, la storia della Repubblica e il dramma di una persona. «Saper leggere il libro del mondo, con parole cangianti e nessuna scrittura, nei sentieri costretti in un palmo di mano, i segreti che fanno paura», è il testo di una canzone di Fabrizio De André, che viene in mente recuperando oggi, finalmente ricomposte con rigore scientifico, con dedizione e con umanità, le parole di Aldo Moro nel memoriale consegnato alle Brigate rosse più di quarant’anni fa, durante i 55 giorni del sequestro, dal 16 marzo 1978, il giorno del rapimento a Roma in via Mario Fani e della strage dei cinque agenti della scorta, al 9 maggio, quando il cadavere del presidente della Democrazia cristiana fu ritrovato nel bagagliaio di una Renault rossa in via Michelangelo Caetani. Il cosiddetto Memoriale di Moro fu scoperto in forma dattiloscritta e parziale nell’ottobre 1978, in un covo delle Br a Milano, in via Montenevoso, e poi, dodici anni dopo, nel 1990, rispuntò da un’intercapedine dello stesso appartamento in forma autografa e fotocopiata, dando il via a una serie infinita di congetture. È considerato una delle chiavi possibili dei misteri del caso Moro, i «segreti che fanno paura», quelli che il prigioniero minacciava di svelare, quelli legati al possesso del manoscritto originale che nel corso dei decenni avrebbe giustificato altre guerre di potere e il sospetto di altri morti e altro sangue. Oggi, a distanza di più di quarant’anni, il Memoriale viene pubblicato dalla direzione generale Archivi del ministero dei Beni culturali e dall’archivio di Stato di Roma in una nuova edizione critica, grazie al lavoro di cinque anni di un gruppo di studiosi, coordinati da Michele Di Sivo, vicedirettore dell’Archivio di Stato di Roma, esperto di fonti giudiziarie: gli storici Francesco Biscione e Miguel Gotor e l’ex senatore Sergio Flamigni, che in passato del memoriale hanno curato edizioni e pubblicazioni, Ilaria Moroni, direttrice dell’archivio Flamigni che conserva le carte personali dell’uomo politico, la grafologa Antonella Padova, l’archivista Stefano Twardzik. La storia, la filologia, la freddezza dell’analisi per un testo rovente consentono il passaggio fondamentale, definitivo, per la comprensione di quanto accadde nel 1978, nella vicenda spartiacque della nostra storia.
La conclusione in cui Moro immagina vicina la sua liberazione. «Il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro ruotano attorno a una sola azione dell’ostaggio: il suo scrivere», afferma Di Sivo nell’introduzione. Le lettere, pensate dall’ostaggio per comunicare con l’esterno, utilizzate dai terroristi come arma di pressione, rese pubbliche o tenute segrete ovvero mai consegnate. E il Memoriale, fino ad ora considerato come il testo con cui Moro rispondeva alle domande dei suoi carcerieri, nel grottesco “processo del popolo” annunciato dalle Br nei loro comunicati: i 239 fogli ritrovati in fotocopia in via Montenevoso nel 1990, parte di un corpus di documenti più ampio, 420 fogli tra lettere e biglietti mai consegnati. Ricostruire il testo, in fotocopie rovinate e per di più mutilate dai prelievi della polizia scientifica, tondini conservati in bustine, come coriandoli. Ricostruire le modalità di stesura del prigioniero e le condizioni in cui Moro scriveva. «Ricostruire l’elaborazione da cui le scritture di Moro furono originate e il loro disporsi nel tempo, riconoscere il testo più prossimo alle intenzioni di un autore inquisito e condizionato da pieno dominio e da totale cattività, accostarsi alla tortuosa morfologia di questa fonte sono stati i nostri obiettivi», spiega Di Sivo. La grafologa Antonella Padova rivela che nel 1970 Moro si era rivolto a un medico psico-grafologo, Tonino Bellato, per risolvere un problema pratico, solo in apparenza banale: i suoi più stretti collaboratori non riuscivano a decifrare la sua scrittura, un impaccio non da poco perché Moro usava buttare giù a mano i discorsi e gli articoli, per poi arrivare alla stesura definitiva dopo una serie infinita di correzioni, integrazioni, cancellature, ricopiature. Tra i testi presi a paragone c’è l’intervista che il nostro Guido Quaranta gli fece nell’agosto 1972 per Panorama, dove la grafia ordinatissima di Quaranta convive sullo stesso foglio con l’appunto del leader politico: «Ho raggruppato le domande, collegando quelle affini. I numeri a margine sono quelli delle mie risposte, che seguono, mi pare, un ordine logico. Ho messo “no” per le domande cui non intendo rispondere. L’intervista è già lunghissima». Una notazione preziosa perché per gli studiosi fu lo stesso metodo utilizzato da Moro per rispondere ai suoi carcerieri. Raggruppare, ricopiare, riscrivere. Un lavoro meticoloso che ora consente di dare una risposta finale alla questione dell’autenticità degli scritti e della possibilità che Moro fosse stato drogato o costretto a scrivere messaggi non suoi. Paragonati (in modo emozionante) con l’ultima nota a mano da uomo libero, la firma del libretto del professore universitario con l’argomento della lezione (15 marzo 1978: La recidiva. All’agguato di via Fani mancavano meno di ventiquattr’ore, le caselle delle lezioni numero 41 e 42 del professor Moro docente di Istituzioni di diritto e procedura penale resteranno per sempre vuote), i fogli dalla prigionia portano a osservazioni molto lontane da quelle della grafologa Giulia Conte Micheli che giudicò la grafia di Moro «abulica, passiva, inerte», segno di «uno stato depressivo di angoscia interiore». Moro per primo aveva intuito di essere finito in una trappola nella trappola: se la sua scrittura fosse apparsa nervosa lo avrebbero fatto passare per un pazzo incapace di ragionare, se troppo ordinata come il diligente copista di testi scritti da altri. Protestava nelle sue lettere con i suoi compagni di partito: «Scrivo con il mio stile, per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio». E ancora: «Moro insomma non è Moro... Per qualcuno la ragione di dubbio è nella calligrafia, incerta, tremolante, con un’oscillante tenuta delle righe. Il rilievo è ridicolo, se non provocatorio. Pensa qualcuno che io mi trovi in un comodo e attrezzato ufficio ministeriale o di partito? Io sono, sia ben chiaro un prigioniero politico ed accetto senza la minima riserva, senza né pensiero, né un gesto di impazienza la mia condizione. Pretendere però in queste circostanze grafie cristalline e ordinate e magari lo sforzo di una copiatura, significa essere fuori della realtà delle cose». «Lo studio dei comportamenti grafomotori consente di restituire ad Aldo Moro non solo l’autografia ma anche la paternità dell’impianto generale» del Memoriale, arrivano a dire gli studiosi. Sono di Moro i brani, le correzioni, l’ordine delle domande e delle risposte. Sua l’organizzazione interna del discorso. Sua, e non dei carcerieri, la struttura del Memoriale. Ricostruita la cronologia del testo si arriva ad altre due conclusioni decisive. La prima: i rinvii interni al testo trovano la loro sistemazione, come un enigma che si scioglie. E l’attività grafomotoria del prigioniero evidenzia il cambiamento del piano d’appoggio su cui scrivere, orizzontale nei primi testi, e dunque il mutamento logistico delle condizione di scrittura nella seconda fase del sequestro. Il testo del Memoriale appare ora nella sua integrità, anche con correzioni notevoli. «Lei sbaglia da sempre e sbaglierà sempre perché costituzionalmente chiamato all’errore. E l’errore è, in fondo, senza cattiveria», sembrava aver scritto Moro del capo doroteo Flaminio Piccoli, suo avversario interno nella Dc. Ma ora la frase diventa: «E l’errore è, in fondo, sempre cattiveria». Che non è la stessa cosa. Il Memoriale consente di penetrare nella scrittura di Moro, nella sua materialità. Le penne utilizzate, la pressione sulla carta, la povera carta straccia di cui sono rimaste le fotocopie che odorano di ciano. Entrare nel covo delle Br. E ancora di più, entrare nell’interiorità, nello stato d’animo di Moro. L’ottimismo e il pessimismo, le salite, le discese, il precipitare delle speranze, il senso di morte e l’attesa della liberazione che è evidente in una pagina drammatica: «Il periodo, abbastanza lungo, che ho passato come prigioniero politico delle Brigate Rosse, è stato naturalmente duro, com’è nella natura delle cose, e come tale educativo». In quelle stesse righe Moro spiega di aver avuto il tempo di valutare «gli avvenimenti, spesso così tumultuosi della vita politica e sociale», il loro ritmo, il loro ordine. «Motivi critici, diffusi ed inquietanti, che per un istante avevano attraversato la mente, si ripresentavano, nelle nuove circostanze, con una efficacia di persuasione di gran lunga maggiore che per il passato. Ne derivava un’inquietudine difficile da placare e si faceva avanti la spinta ad un riesame globale e sereno della propria esperienza, oltre che umana, sociale e politica». Si può così rileggere di seguito il testo del Memoriale carico di rimandi, come le uniche pagine diffuse durante i 55 giorni del sequestro, quelle relative al ruolo di Paolo Emilio Taviani, l’ex ministro democristiano che nel 1978 aveva un ruolo secondario ma che invece da ministro della Difesa, nel 1956, aveva fondato la struttura Stay-behind Gladio per operazione di difesa e anti-guerriglia in caso di invasione sovietica, ma di questo si venne a sapere soltanto all’inizio degli anni Novanta, proprio mentre il memoriale di Moro riemergeva dall’intercapedine di via Montenevoso, resistente come il muro di Berlino. E trovare in quel memoriale la spiegazione dell’ordine politico che sarebbe arrivato negli anni successivi, in un’epoca distante dalla sua. Quell’uomo che scriveva in condizioni di prigionia, a rischio della vita, aveva visto molte cose del futuro. La fine della rappresentanza dei partiti e l’emergere di un’organizzazione leggera, nella politica interna e internazionale. L’impossibilità dei partiti ad auto-riformarsi che avrebbe portato a scaricare la colpa dell’impasse sulle istituzioni e sulla Costituzione: «Ogni volta che c’è una difficoltà politica obiettiva, sembra sbucare lo strumento elettorale che dovrebbe permettere di superarla... in generale si può dire che si tratta di false soluzioni di reali problemi politici e che è opportuno non farsi mai delle illusioni. Non si accomodano con strumenti artificiosi situazioni obiettivamente contorte». Intuiva «il nerbo della nuova economia, assunto come condizione di efficienza, l’imprenditorialità privata ed anche pubblica con opportuna divisione del lavoro», la riduzione dell’Europa a «dimensione regionale» operata dagli Stati Uniti. Sfogliava le sorti future della stampa italiana che «costituisce un enorme problema sia per quanto riguarda il suo ordinamento e sviluppo, sia per quanto riguarda la sua indipendenza... Il Paese è così dominato da cinque o sei testate. Questi giorni hanno dimostrato come sia facile chiudere il mercato delle opinioni. Non solo non troverai opinioni, ma neppure notizie. Forse è questo un aspetto particolare di una crisi economica, che non può non essere anche una crisi editoriale. Infatti su 20-25 seri giornali è difficile bloccare; su 5 o 6 sì...». Guardava l’evoluzione futura della società italiana che avrebbe cambiato la politica: «Per chi abbia visto “Forza Italia”, fa impressione il linguaggio, a dir poco, estremamente spregiudicato, che i democristiani usano al Congresso tra un applauso e l’altro all’On. Zaccagnini. Sono modi di dire e di fare che un tempo sarebbero apparsi inconcepibili. Oggi sono accettati e mettono in moto una sovrastruttura politica che presumibilmente, poiché le cose non nascono a caso, corrisponde all’esigenza di una parte almeno della società italiana di oggi». In quella scena del film di Roberto Faenza che Moro aveva visto al cinema (fu ritirato dalle sale il giorno del suo sequestro), un montaggio di immagini e sonori in cui i notabili di governo uscivano a pezzi, i delegati del congresso democristiano venivano alle mani, si affrontavano come nemici che non avevano più nulla in comune, si scambiavano i vaffa pur essendo dello stesso partito. Era già l’immagine del tutti contro tutti, nel cambiamento del linguaggio il prigioniero Moro una mutazione, un’esigenza della società italiana. E lo scrisse nel covo delle Brigate rosse, come una premonizione, non potendo sapere che sarebbe nato un partito chiamato Forza Italia e un altro originato da un vaffa-day, entrambi tutt’altro che estranei a quella spregiudicatezza, a quell’esigenza della società italiana, perché «le cose non nascono a caso». Inoltrarsi in quelle pagine, come ha fatto l’attore Fabrizio Gifuni che lo ha portato a teatro ritrovandone gli echi di Pasolini e di Gadda, attraversare il memoriale di Moro e della Repubblica significa provare a comporre con pietà le parole del condannato a morte e ridare vita a chi le ha scritte con disperazione e con fiducia, perché la scrittura è sempre un atto di apertura, e soprattutto continuare a compiere un passo essenziale per capire l’Italia di oggi. Strappare Moro dal caso Moro e restituirgli il suo onore politico e la sua dignità umana perché, come conclude Michele Di Sivo, «quella rappresentazione, così ricostruita, sembra dirigere il lettore verso una vertigine: il Memoriale di Moro si squaderna come l’ultimo atto della storia che si rivela».
· Il terrorismo rosso aveva contatti con i Paesi dell'Est. Tutto fu insabbiato.
Da Ansa il 28 aprile 2019.- "Potevo salvare Moro, fui fermato". Così il super boss della camorra, Raffaele Cutolo, in carcere da anni, in un verbale inedito di un interrogatorio del 2016 di cui riferisce oggi in esclusiva Il Mattino. "Aiutai - spiega Cutolo - l'assessore Cirillo (rapito e successivamente rilasciato dalle Br, ndr), potevo fare lo stesso con lo statista. Ma i politici mi dissero di non intromettermi". Nel '78 Cutolo era latitante e si sarebbe fatto avanti per cercare, sostiene lui, di salvare Moro. "Per Ciro Cirillo si mossero tutti, per Aldo Moro nessuno, per lui i politici mi dissero di fermarmi, che a loro Moro non interessava". Le dichiarazioni di Cutolo risalgono al 25 ottobre del 2016, come risposte alle domande del pm Ida Teresi e del capo della Dda, Giuseppe Borrelli.
Paolo Guzzanti, quando era presidente della Commissione Mitrokin, fu a un passo dalle prove che il terrorismo rosso aveva contatti con i Paesi dell'Est. Ma poi tutto fu insabbiato, scrive Paolo Guzzanti, Martedì 09/04/2019 su Il Giornale. «Venga a Budapest e troverà tutte le risposte che cerca» mi aveva scritto nell'estate del 2005 il procuratore generale di Budapest per posta diplomatica. E mi dette un assaggio: il terrorista venezuelano Ilich Ramirez Sanchez, detto Carlos lo Sciacallo - mi disse - fu trapiantato dal Kgb sovietico a Budapest negli anni Ottanta e gli ungheresi furono costretti a sopportarlo mentre scorrazzava per la città con i suoi pistoleros, protetto dalla Stasi tedesca. Quando Carlos andava in missione terroristica in Europa occidentale, mi spiegò ancora il magistrato, gli ungheresi furono autorizzati a fotografare i documenti che si trovavano nelle abitazioni della banda: «Dovevamo consegnare tutto, ma abbiamo fatto le copie: venga a Budapest e saprà tutto sui rapporti fra terrorismo e Kgb». La Commissione bicamerale Mitrokhin di cui ero Presidente stava per chiudere i battenti avendo ultimato i suoi compiti ma, insieme al deputato Enzo Fragalà (uno squisito dandy e intellettuale palermitano) riuscimmo a vincere le resistenze delle sinistre e ottenere una rogatoria internazionale. Ci presentammo dunque a Budapest dove la Commissione fu ricevuta in un palazzo di stile sovietico-babilonese. Aleggiava ancora l'odore inconfondibile dei Paesi comunisti: varechina e scarpe vecchie, the perfect mix. Fummo accolti sontuosamente con tè, pasticcini, discorsi e grandi applausi per la ritrovata democrazia. Poi il procuratore si schiarì la voce e ci presentò un giovane maggiore in uniforme dal nome impronunciabile il quale issò sul tavolo una grande valigia di cuoio verde dagli angoli lisi. La aprì e mostrò il contenuto: pacchi di fogli ingialliti, contenitori di dossier a soffietto con la costa cartonata e disse: «Qui troverete tutto: nomi e cognomi, foto, date e recapiti degli uomini delle Brigate Rosse eterodirette dalla Stasi e dal Kgb e tutto ciò che abbiamo raccolto in questi anni». Mi sembrava di sognare. Chiesi: «Anche ciò che riguarda il rapimento e la morte di Moro?». Certo, disse. Tutto. Troppo bello per essere vero. Infatti, ecco la postilla avvelenata: «Purtroppo non siamo liberi di consegnarvi questo materiale senza il permesso di quelli del piano di sopra». E chi sono quelli del piano di sopra? «Noi abbiamo un trattato con la Federazione Russa come ogni Paese dell'ex Patto di Varsavia e non siamo proprietari dei documenti di quell'epoca. Ma entro una settimana spediremo tutto per valigia diplomatica». La fine è nota. Non arrivò nulla perché gli amici del piano di sopra dissero di no. Andai a protestare col un certo generale Ollo, l'uomo del collegamento con i Paesi della Nato, e quello allargò le braccia. Non possiamo farci nulla. Fine dell'illusione. Il tesoro restò sepolto. Pochi mesi dopo finì la legislatura e dunque anche la Commissione Mitrokhin. Non vorrei sembrare patetico con questo ricordo. Vorrei invece pronunciare un atto d'accusa. Non contro i russi o gli ungheresi, ma contro coloro che in Italia ebbero le informazioni che ho appena riferito (atti ufficiali di una rogatoria internazionale) che una Commissione del Parlamento raccolse con le stesse funzioni di un magistrato. Invece, tutti zitti. Come mai, pur avendo la notizia del tesoro contenente i legami del terrorismo italiano con i servizi segreti dell'Est, comprese le coperture di fiancheggiatori, esecutori e complici di delitti come la cattura, interrogatorio ed esecuzione di Aldo Moro, nessuno delle varie Commissioni e processi Moro Ter, Quater, Quinque e così via, abbia fatto un salto sulla sedia gridando che si doveva a tutti i costi recuperare il materiale di Budapest? Soltanto l'onorevole Enzo Fragalà, anima di quella rogatoria, insorse contro gli insabbiatori ma fu barbaramente assassinato a bastonate sotto la porta del suo studio il 23 febbraio 2010. A questi ed altri eventi ho pensato leggendo gli eccellenti interventi ieri e l'altro ieri sul Giornale sul tema del terrorismo dopo il caso Battisti firmati da Alessandro Gnocchi e del mio ex consulente Gianni Donno, storico ed accademico. E vedo che ancora una volta si torna sulla segretezza di alcuni documenti e all'invocazione al governo affinché imponga di aprire la gabbia in cui la colomba della verità è imprigionata. Questo nobile impulso può essere, se preso da solo, alquanto fuorviante perché l'esperienza di investigatore storico mi suggerisce che la «ciccia» sia altrove che non in un armadio blindato. Ogni Commissione parlamentare ha infatti diritto di ottenere documenti, non importa quanto riservati, segreti o segretissimi, da tutte le agenzie ed enti dello Stato come magistratura, servizi segreti, polizie e carabinieri. Questi enti, a norma di legge, consegnano documenti su cui è scritto riservato, segreto o segretissimo e restano proprietari di questa classifica («classified» è la parola inglese per segretato). Il Parlamento è autorizzato a leggere, ma non a riprodurre. Un consulente di Commissione può apprendere ma non può svelare l'originale. Io ho personalmente letto centinaia di documenti segretissimi (e come me ogni commissario) e posso garantire che dentro c'è soltanto burocrazia. Direte: dunque sarebbe tutto pulito? No, al contrario. Tutto è molto più sporco di quanto si immagini. Solo che il marcio è nascosto molto meglio. Un solo esempio: la mia Commissione deve moltissimo a un servitore dello Stato, militare e galantuomo (che non nomino per non arrecargli ulteriori danni) il quale ci spiegò a tutti e quaranta senatori e deputati che un documento si nasconde dandogli un nome diverso o cambiando la sua collocazione. Per la mia esperienza, i documenti ci sono, basta cercarli e i famosi «misteri italiani» sono tutti risolvibili. Ho trovato un documento della Stasi tedesca (il servizio segreto della DDR) che apparteneva a un magistrato illustre, ma era illeggibile per le righe nere della censura. Dandomi da fare ottenni lo stesso documento da una fonte diversa e appresi così che proprio il terrorista Ilich Ramirez Sanchez detto Carlos lo Sciacallo, dava conto ai suoi referenti tedeschi e russi di essere l'attentatore del cosiddetto «treno di Natale» del 1983, per cui furono condannati dei neofascisti. Qualcuno ha forse fiatato? Nulla. Quando con la Commissione andammo a Parigi per un'altra rogatoria presso la Procura, non soltanto scoprii che il parquet dei magistrati inquirenti d'Oltralpe funziona, ma feci amicizia con il «Giovanni Falcone francese», ovvero Jean-Louis Bruguière, colui che ha stroncato le attività di Carlos e dei suoi affiliati terroristi arabi, il quale mi disse: «So da un ufficiale del Kgb che l'attentato al Papa del 13 maggio 1981 fu organizzato dal servizio segreto militare Gru sovietico che aveva assoluto bisogno di garantirsi lo spazio di manovra di una Polonia sgombra dal Papa e da Solidarnosc». Con Fragalà organizzammo e facemmo votare una analisi medico legale computerizzata delle foto dell'attentato in piazza San Pietro e scoprimmo attraverso i periti che l'uomo che era accanto ad Ali Agca mentre sparava al Papa era il signor Antonov, cioè il capo del servizio segreto bulgaro e referente delle forze armate sovietiche. Le sinistre della Commissione, profondamente irritate, chiesero un secondo expertise di loro scelta, che però confermò senza esitazione il primo e fu questa la svolta e anche l'inizio della fine della più delicata e maltrattata inchiesta che il Parlamento abbia avviato e poi con poco coraggio seppellito. L'accesso ai documenti è dunque molto importante e va sostenuto, ma senza nutrire illusioni superflue sulla localizzazione del tesoro. Il tesoro, vi assicuro, è in genere altrove.
Così fu bloccato da Est il "compromesso storico". Il piano di staccare il Pci da Mosca scatenò il Kgb Anche Orbán dovrebbe riaprire gli archivi..., scrive Paolo Guzzanti, Mercoledì 10/04/2019, su Il Giornale. Intanto, sono grato anch'io al ministro Salvini per i suoi propositi e, visto che è amico del premier ungherese Viktor Orbán, mi permetto di suggerirgli di chiedere a quel leader di recuperare la promessa valigia di cuoio verde e farmela recapitare o almeno invitarmi a Budapest per esaminarla. Sarebbe l'ora che l'Italia reclamasse ciò che fa parte della sua storia. In questo articolo vorrei spiegare, specialmente a chi è più giovane e non sa, per quale motivo il dossier Mitrokhin che tutti i Paesi occidentali ricevettero dagli inglesi, soltanto in Italia diventò una vicenda furiosa e scalmanata, conclusa da un bel po' di morti, sfuggiti all'attenzione dei giornalisti eroici. Il fatto: quando gli inglesi annunciarono per via diplomatica negli anni Novanta di voler distribuire ai Paesi alleati le schede di loro interesse redatte dal maggiore Vasilij Mitrokhin, in Italia e soltanto in Italia successe il finimondo in casa comunista, divisa verticalmente fra l'ala americana (Giorgio Napolitano era da tempo uno stimato amico di Henry Kissinger) e quella pro-sovietica capeggiata da Armando Cossutta. Il comunismo sovietico era già crollato e avevano proposto nel 2000 una commissione parlamentare d'inchiesta che non andò in porto, io fui eletto nel 2001 in Senato come giornalista esperto dei fatti e l'anno successivo, varata faticosamente la legge, fui dichiarato presidente eletto da un lividissimo Giulio Andreotti che mi fu contro da subito e per sempre. Il terrorismo rosso (e in parte nero) era già finito da oltre dieci anni e il presidente emerito Francesco Cossiga era già andato in pellegrinaggio nelle carceri per visitare i brigatisti e certificarli come «bravi ragazzi che avevano un po' esagerato» o anche «boys scout della rivoluzione». Quando ero un redattore del quotidiano socialista Avanti!, negli anni Sessanta, fui personalmente avvicinato da uomini del Kgb un po' troppo entusiasti dei miei articoli, anche perché i sovietici preferivano reclutare fra socialisti e democristiani per non esporre gli iscritti al Pci. Quando interrogammo nella commissione Mitrokhin l'ex capo della Rezidentura sovietica a Roma, Leonid Kolosov, quello raccontò un sacco di balle, ma era certamente sincero quando disse che davanti alla sua porta «c'era la fila» degli informatori che odiavano l'America e volevano collaborare con i russi. Ma sui reali informatori e agenti di influenza non indagò nessuno perché era considerata un'attività poco amichevole nei confronti del Pci il cui segretario, Enrico Berlinguer, aveva del resto fallito nel tentativo di sottrarre il suo partito ai finanziamenti di Mosca (vedi L'Oro di Mosca del nostro Valerio Riva). Berlinguer aveva tentato di installare una nuova ideologia: quella del comunista geneticamente ariano del bene che guarda più a Santa Maria Goretti che a Lenin. Il Kgb sosteneva allora anche gli estremisti di destra e qualsiasi gruppo eversivo in Europa. Pochi si sono presi la briga di leggere un testo fondamentale: A Cardboard Castle? An Inside Story of the Warsaw Pact 1955-1991. Il grosso tomo, 720 pagine, contiene tutti i verbali delle riunioni del Patto di Varsavia (l'anti-Nato del blocco sovietico) da cui si può vedere come, fino al 1991, l'Est progettasse ogni anno una nuova invasione dell'Europa occidentale anche con atomiche tattiche sull'Italia, col pretesto di reagire preventivamente a un imminente attacco della Nato. Il progetto era politico oltre che militare: l'Europa tecnologica sarebbe stata resa irrecuperabile agli Stati uniti con una guerra lampo che sigillava porti e aeroporti e sarebbe stata aggregata al sistema sovietico, come spiegò Vladimir Bukowskij in EURSS. Unione europea delle Repubbliche Socialiste Sovietiche nel 2007 quando a suo parere il progetto politico era ancora in svolgimento. Questo piano aveva bisogno di una continua pressione terroristica in Occidente (Francia e Italia con la banda Carlos e i suoi agenti interni, la Frazione Armata Rossa in Germania, l'appoggio all'Ira irlandese e all'Eta basca, per azioni di infiltrazione). In Italia il progetto del Compromesso storico era stata benedetto dalla Cia americana (vedi Maurizio Molinari L'Italia vista dalla Cia con i documenti originali) con la garanzia di Aldo Moro nelle vesti di Presidente della Repubblica (si dovette estromettere con una falsa campagna mediatica l'innocente presidente Giovanni Leone sulla base di documenti americani fatti apparire ad hoc) e il senso strategico era di distaccare per sempre il Pci dall'Unione Sovietica e portarlo al governo dopo aver scatenato la famosa operazione «Clean Hands» (Mani Pulite) che avrebbe decapitato la corrotta Prima repubblica per far posto ai comunisti italiani. Tutto ciò è narrato per filo e per segno con tutti i documenti in The Italian Guillotine: Operation Clean Hands and the Overthrow of Italy's First Repubblic scritto in inglese da Stanton H. Burnett e Luca Mantovani, un libro che, curiosamente, nessun editore italiano ha avuto il fegato di pubblicare. La reazione sovietica non si fece aspettare: dopo un primo tentativo fallito di uccidere Berlinguer mandato da Cossutta a visitare la Bulgaria, con la consolidata tattica del camion che sbuca all'improvviso (morì l'autista di Berlinguer il quale rimase lievemente ferito e fu subito fatto riportare in Italia dai corpi speciali, mandati da Cossiga). Poi arrivò la strage di Via Fani, dove tutti furono uccisi da una sola arma e un solo killer e la neutralizzazione del garante del Compromesso destinato al Quirinale. L'operazione era politicamente ovvia. Attendiamo da Orbàn le carte. Il Compromesso storico fallì, il Pci tornò ad elemosinare la sua paghetta al Cremlino anche se l'operazione mani pulite portò realmente alla ghigliottina la prima Repubblica e certamente Achille Occhetto, leader del rinominato partito comunista, avrebbe vinto con la sua Gioiosa macchina da guerra se l'imprenditore Silvio Berlusconi non si fosse messo di traverso costruendo il bipolarismo impossibile e battendo il vecchio piano degli anni Settanta. Ciò accadde dopo la fine della Guerra fredda, ma l'apparato di sostegno a tutte le forme di terrorismo in funzione tattica era rimasto funzionante. Il mea culpa dello scrittore francese Daniel Pennac, ipocrita e conformista anche se avverte rossore sulle guance, è esemplare. Quando nel 1999 a dieci anni dalla caduta del Muro di Berlino, per iniziativa di Berlusconi, organizzammo un grande convegno internazionale di cui fui il chairman, conobbi un uomo dagli enormi baffi rossicci furibondo e aggressivo. Era Lech Walesa, l'elettricista cattolico che aveva organizzato, insieme al papa polacco Karol Wojtyla, il sindacato Solidarnosc che aveva conquistato le piazze polacche, occupato il Paese e paralizzato le manovre militari sovietiche. Walesa parlava soltanto polacco e una ragazza mesta e gentile traduceva con sbalorditiva rapidità: «Che diavolo vi è venuto in mentre di celebrare la caduta del Muro di Berlino decisa da Gorbaciov? Siamo noi, i polacchi, che abbiamo fatto cadere il sistema, noi del Paese da cui doveva partire la guerra, noi destinati al sacrificio, noi polacchi che ci siamo ribellati e abbiamo vinto. Altro che muro! altro che Berlino!». Aveva perfettamente ragione. Il Muro venne giù quando Gorbaciov lo decise d'accordo con il presidente Reagan che pronunciò lo storico invito: «Mister Gorbaciov, tear down this wall!». La nostra storia, quella della contiguità culturale e militare fra terroristi alla Cesare Battisti e sistema sovietico è però ancora tutta da raccontare e da rivelare, almeno per le nuove generazioni che si affacciano al mondo fresche e pulite e che chiedono il sacrosanto rispetto della verità.
· Apuzzo e Falcetta. Strage Alcamo Marina: non fu Gladio (e nemmeno Gulotta).
FU UN ASSASSINIO SU COMMISSIONE? Forse una svolta nel barbaro eccidio di Alcamo. Da indiscrezioni confermata questa ipotesi -1 due CC sarebbero stati uccisi per caso dai malviventi che preparavano un sequestro. Sembra che il personaggio preso di mira fosse l’on. Sinesio, grosso esponente DC - Lo strano comportamento di «Dino u pazzu». Vincenzo Vasile martedì 17 febbraio 1976, pag. 5, L’Unità. C’è una svolta nelle indagini sul barbaro eccidio dell'appuntato Salvatore Falcetta e dell'allievo Carmine Apuzzo, trucidati a pistolettate la notte del 27 gennaio dentro la casermetta di Alcamo Marina: così sembra, stando alle indiscrezioni che circolano alla vigilia della presentazione al magistrato del rapporto elaborato sulla vicenda dal nucleo investigativo dei carabinieri, prevista per domani. Naturalmente, visti i precedenti. bisogna prendere tutto co' beneficio dell'inventario. Però — a quanto sembra — sarebbe innanzitutto ormai i accertato che non era semplicemente «dimostrativo» lo scopo prefissato dal commando composto da Giuseppe Vesco, Giuseppe Ferratelli, Gaetano Sant' Angelo, Giovanni Gulotta e Giovanni Mandala, con l'uccisione dei due militari e l'irruzione. quella tragica notte, nel posto fisso della frazione balneare semideserta di Alcamo. Circola voce. anzi, che il massacro dei due carabinieri sarebbe avvenuto praticamente «per caso» e che cioè uccidere i due militari sarebbe divenuto necessario, una volta che uno dei due carabinieri, svegliatosi di soprassalto, aveva riconosciuto alcuni degli intrusi. La banda — si dice — nella stazione di Alcamo Marina, in realtà, cercava armi, bandoliere, divise e pilette rifrangenti. Quanto occorreva ad un regista accurato — con tutta probabilità esterno al gruppo di « mezze figure » che «sinora sono state individuate — per predisporre un tranello, un sequestro. Dal formicaio di voci che sembra essersi scoperchiato, è uscito anche un nome, quello di un esponente democristiano, il sottosegretario ai trasporti, Giuseppe Sinesio, che sarebbe il « grosso personaggio » da rapire, di cui si è insistentemente parlato in queste ore. In serata, comunque, questa circostanza è stata « fermamente smentita » dagli investigatori. Nel rapporto che sarà consegnato domani all'autorità giudiziaria, figurerebbero. comunque, oltre ai nomi dei cinque, anche altre due o tre persone sulla cui identità, per non intralciare l'inchiesta, vice il riserbo. Ed il fatto è che. indiscutibilmente, delle svariate versioni interpretative che sono circolate in questi giorni sul massacro di Alcamo, nessuna ancora soddisfa e convince pienamente. C'è financo chi ha parlato, a proposito dell'eccidio, di un «delitto gratuito ». Ma come pensare che un «raptus» » inconsulto abbia condotto questi quattro ragazzi e questo botta-sofìsticatore di vini dentro la casermetta di Alcamo Manna ad uccidere, con tecnica da professionisti i due carabinieri? Le «arance meccaniche » non crescono facilmente in una zona di solidi equilibri mafiosi come questa. «La Mafia non c’entra» ha sostenuto qualcuno degli inquirenti all'indomani dell’eccdio. con una fretta ed una sicumera che appare eccessiva, pensando solo a questo scenario che è, come testimonia anche l'inconfondibile « identikit » del p:ù anziano dei banditi, il 34enne sofisticatore di v.ni di Partinico. Giovanni Mandalà, lo scenario ben noto di una zona dove arricchimenti rapidi, violenza criminale, equilibri politici, fortune elettorali recano spesso un'unica matrice mafiosa. I dubbi non sono affatto dissipati: tre delie quattro confessioni, come si ricorderà sono state ritrattate. I giovani arrestati hanno addirittura lanciato accuse contro i carabinieri. Hanno detto di essere stati picchiati, costretti a firmare. Al verbale che è all'esame del magistrato, è stata aggiunta questa dichiarazione di Vincenzo Ferrandoli: « E" tutto falso: mi hanno messo in testa un cappuccio. m'hanno condotto fuori della caserma e hanno detto: ora ti fuciliamo ». I carabinieri hanno replicato sostenendo che gli interrogatori si sarebbero svolti alla presenza dei difensori d'ufficio. Ma rimane ancora da spiegare come e perché, se il fermo di Vesco — quello che ha confessato per primo — e avvenuto mercoledì, la procura e stata lasciata all'oscuro di tutto sino al giorno dopo. « C'è una banda — commenta stupito un investigatore — che si macchia d'un delitto casì infame correndo rischi terribili. E poi. tutto all’improvviso, uno di loro, il Vesco, si fa trovare praticamente con le mani nel sacco; indica i nomi dei complici, infine conduce gli inquirenti quasi per mano nel luogo dove essi troveranno tutti i riscontri obiettivi, tutte le prove; un garage di Partinico, dove c'è mezzo milione in contanti, la refurtiva, rimasto pressoché intatto, e poi le bandoliere e le divise». Un particolare singolare che fa pensare ad un cervello esterno alia banda Vesco Mandalà: Dino u pazzu, custode del garage deposito di Partinico, aveva utilizzato una piccolissima parte del bottino (tremila lire in tutto) per le piccole spese ed aveva annotato il fatto in una specie di «libro mastro». come se, all'occorrenza. esso avesse dovuto essere esibito ad un regista dietro le quinte. Di simili mister è stato contrassegnato anche tutto il complicato e contraddittorio svolgersi delle indagini. Cosi e nata l'inquietante ridda di notizie contraddittorie; di nervose e polemiche smentite e controsmentite a distanza, che le vane polizie che si occupano di questo tragico caso sono andate diramando in questi giorni, malgrado le violente e pubbliche reprimende ad uso interno che sono state fatte dal comandante generale dell'Arma, e dal questore di Trapani, a proposito di presunte, e a tuttora imprecisate « piste terroristiche. Vincenzo Vasile
È doveroso puntualizzare , che le persone, i cui nomi sono citati nell’articolo, che furono accusate all'epoca, sono state tutte assolte.
Apuzzo e Falcetta. Strage Alcamo Marina: non fu Gladio (e nemmeno Gulotta). Francesca Scoleri su themisemetis.com il 12 Luglio 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Era la notte del 27 gennaio del 1976 , quando un commando fece irruzione nella casermetta di Alcamo Marina, in provincia di Trapani e uccise i carabinieri Apuzzo e Falcetta. Le indagini furono condotte dal Colonnello Russo, ucciso un anno dopo a Ficuzza da un commando agli ordini di Totò Riina. Dopo circa quindici giorni dal duplice omicidio, una volante dei carabinieri, fermò un giovane di Alcamo, tal Giuseppe Vesco, monco di una mano, alla guida di una Fiat 127. Era in possesso dell’arma che aveva ucciso i due carabinieri e di una pistola di ordinanza, di uno dei due carabinieri uccisi nell’agguato. Vesco fu interrogato e confessò. Indicò agli inquirenti il covo dove era nascosta la refurtiva, e accusò i suoi complici, tre giovanissimi ragazzi, suoi amici di Alcamo e un suo conoscente di Partinico. Tutti condannati nei processi che seguirono nei successivi anni. Vesco però non arrivò mai al processo, perché un anno dopo, fu trovato impiccato nel bagno dell’infermeria del carcere San Giuliano di Trapani. Nel 2008 il colpo di scena. Un ex carabiniere Renato Olino, che aveva partecipato alle indagini, raccontò che Vesco confessò tutto sotto tortura. Gli avvocati di Giuseppe Gulotta, uno dei quattro condannati, chiedono e ottengono il processo di revisione e alla fine, vengono assolti tutti, inclusi Ferrantelli e Santangelo che, dopo la sentenza in cassazione, erano scappati in Brasile con l’aiuto di Padre Mattarella, cappellano del carcere di Trapani, che a suo dire, illuminato dal Signore, era certo della loro innocenza. Tutto da rifare dunque per gli inquirenti, anche se sono passati 36 anni. Nel frattempo si susseguono le piste sui possibili moventi e mandanti. Un ex poliziotto di Alcamo, Federico Antonio, racconta al sostituto procuratore di Trapani, che nel 1992, un suo confidente, gli raccontò che Apuzzo e Falcetta furono uccisi il pomeriggio del 26 Gennaio, esattamente alle 15.30 perché fermarono un furgone carico di armi, condotto da appartenenti alla Gladio. Dopo un breve controllo, i due carabinieri, invitarono i passeggeri del furgone all’interno della casermetta, e li furono uccisi. Il movente Gladio è stato ripreso da più organi di stampa, inclusa la trasmissione Blu Notte di Lucarelli, ma nessuno ha mai fatto i dovuti riscontri. Stefano Santoro operatore video free lance residente a New York, ha prodotto un lungo video dossier sulla vicenda e ha dimostrato che in realtà, l’ipotesi tanto declamata dagli organi di stampa, dell’omicidio alle 15.30 è irreale. La sorella di Carmine Apuzzo ricorda la telefonata del fratello alle 18.30 , mentre i familiari di Falcetta hanno ricostruito le ultime ore dell’appuntato che nel pomeriggio, dopo aver trascorso alcune ore con i familiari, si recò al comando provinciale di Trapani, poiché doveva ultimare il suo imminente trasferimento a Buseto, per essere più vicino alla madre sofferente. Altro tassello che esclude il posto di blocco all’equipaggio Gladio, con l’immediato duplice omicidio, è la testimonianza a poche ore dalla strage, di due persone che raccontarono agli inquirenti di essere stati insieme ai due militari all’interno della casermetta di Alcamo Marina fino a mezzanotte circa, per giocare a carte. Inoltre i due carabinieri furono trovati in pigiama, Apuzzo ancora a letto sotto le coperte, mentre Falcetta, dopo un tentativo di reazione, rimase incastrato tra il letto e il muro, con le gambe attorcigliate alle lenzuola. Una scena raccapricciante che non lascia spazio a ricostruzioni false e artificiose, di riproduzioni della scena del delitto. Nonostante ciò nessuno ha mai smentito questo inconcepibile teorema, accostato suggestivamente più volte anche al ritrovamento, nel 1992, di un deposito di armi, custodito da due carabinieri . Il professore Romano Davare, noto scrittore, regista teatrale e all’epoca dei fatti corrispondente del Secolo D’Italia, racconta che la sera precedente alla strage, si trovava nei pressi di Trapani, per un convegno del Msi, con ospite il segretario Giorgio Almirante. Il professore Davare scrisse della strage, ma il direttore del Secolo D’Italia gli proibì di parlare del possibile movente, da lui ipotizzato alla luce dei fatti. Sul gruppo Facebook Giustizia per Apuzzo e Falcetta, Stefano Santoro ha approfondito questa ipotesi e scrive “L’assalto alla casermetta a quattro ore dal passaggio di Almirante, in un arco di 365 giorni, e sotto una pioggia torrenziale, fu solo una casualità ? No a mio parere. Gli ingredienti per un sequestro ci sono tutti. Covo pronto a Partinico, divise, (non quelle in grande uniforme lasciate invece a terra nella casermetta) armi, cibo, (preso dalla casermetta) indumenti intimi, soldi, passamontagna, materasso, lenzuola, guanciale, soldi di altri sequestri, stralci di giornali relativi ai sequestri Corleo e Campisi e ancora, cavi di telefono e ruote tagliate dell’auto di Falcetta, per isolarli e avere un vantaggio di tempo, al loro risveglio prima che potessero avvisare i colleghi (Vesco scrisse nelle lettere che non era prevista la loro esecuzione, evidentemente perché dovevano essere sedati), e ancora, la scorta di Almirante non comunicò al segretario del Msi della tragedia, ed infine, la parola fine ai sequestri, in provincia di Trapani ,dopo l’episodio di Alcamo Marina, come se qualcosa si ruppe. Insomma, cosa altro serve, per dimostrare che ci fu un tentativo di sequestro di Almirante.
La domanda è: chi fu il mandante e a quale scopo?” Il professore Davare, sostiene nell’intervista che il direttore del Secolo D’Italia declinò il tentativo di scrivere sul possibile sequestro di Almirante, per evitare uno scontro sociale. Dopo 43 anni è difficile smascherare la verità, ma intanto alla vicenda si è aggiunto un altro enigma. La sorella di Giuseppe Vesco, il giovane trovato impiccato all’interno del carcere, sostiene di avere visto suo fratello nel corso principale di Alcamo, ma aggiunge altri particolari. Racconta, in esclusiva ai microfoni di Stefano Santoro, che al momento del riconoscimento del cadavere, suo fratello non aveva segni di impiccagione al collo , che il corpo del fratello giaceva su una normale barella, che non fu permesso ai familiari di avvicinarsi per un ultimo abbraccio e che, al padre e allo zio del giovane, non gli fu autorizzato di assistere alla saldatura della bara. La sorella ha presentato regolare denuncia al commissariato di Alcamo, ha fatto richiesta per l’apertura della bara, ha appeso per le vie di Alcamo, la foto di suo fratello, per denunciarne l’esistenza in vita, ma non ha ancora ricevuto nessuna risposta. Una persona in cerca di verità e giustizia.
La strage di Alcamo Marina.
Premessa. Vi sto raccontando in queste pagine le storie che hanno riempito di mistero la nostra storia recente. Alcune di queste sono conosciutissime, come quella relativa ad Ilaria Alpi, allo scandalo Lockheed, l’incendio della Moby Prince e così via. Altre invece sono poco conosciute, spesso del tutto sconosciute al grande pubblico, perfino a quello nella cui zona le vicende si sono verificate. Un esempio è l’abbattimento dell’elicottero della Guardia di Finanza Volpe 132 e un altro esempio è il fatto di cui vi voglio parlare adesso. É conosciuto come la strage di Alcamo Marina. Ci sono stati due morti, due carabinieri, ma il caso è estremamente intricato e quindi vi consiglio di seguire tutta la puntata con attenzione. In ogni caso potrete riascoltarla con calma visitando il mio sito noncicredo.org, dove trovate tutte le puntate trasmesse negli ultimi anni da questa emittente. E adesso possiamo cominciare. Alcamo è un paese a metà strada tra Trapani e Palermo. Si affaccia sul mar Tirreno. Oggi parleremo di un fatto avvenuto il 27 gennaio 1976 nella frazione Alcamo Marina, località balneare grazie ad una bella spiaggia sabbiosa sul golfo di Castellamare, quella in provincia di Trapani. Nella caserma dell’arma, la Alkamar, quella notte stanno dormendo due militari, l’appuntato Salvatore Falcetta di Castelvetrano (TP) e un ragazzo di 19 anni, il carabiniere Carmine Apuzzo, di Castellamare di Stabia (NA). É una notte di temporale con tuoni e molta pioggia. Del resto siamo in pieno inverno e la località balneare è praticamente deserta di turisti. Verso le 7 della mattina del 27 gennaio, la scorta di Giorgio Almirante, che passava di là, si accorge che qualcosa non va nella caserma. Il portoncino è stato scassinato, usando la fiamma ossidrica. Fanno intervenire i carabinieri di Alcamo, i quali, entrando, si trovano di fronte ad una scena raccapricciante. Carmine è steso nella sua branda crivellato di colpi: non si è neppure accorto di quello che stava accadendo. Salvatore invece i rumori li sente, cerca di prendere la sua pistola, ma non fa in tempo: viene assassinato come il suo collega. Dalla caserma sono sparite pistole, divise e altri oggetti. Perché dedicare un articolo ad un fatto che con ogni probabilità nessuno ricorda, forse nemmeno conosce se non chi è rimasto coinvolto direttamente: i familiari delle vittime, quelle uccise e quelle ritenute colpevoli? In fondo – si potrà dire - si tratta di due morti che non hanno nomi importanti e quindi passano inosservati nell’insieme delle storie che vi sto raccontando. Ma questa vicenda è allucinante per le conseguenze che ha avuto e per il fatto che, ancora oggi a così tanti anni di distanza nessuno sa chi sia stato né il motivo di questo eccidio. Certo, si sono fatte ipotesi e qualche racconto è emerso ed è proprio di questo che voglio parlare questa sera, perché qualche colpevole è stato riconosciuti e sbattuto in galera con sentenze durissime. Peccato che quelle persone fossero innocenti.
I fatti. Cominciamo con il racconto formale dei fatti, quello che scrive Wikipedia, una fonte semplice, ma che può essere controllata dai diretti interessati. Poi entreremo nelle pieghe della storia e cercheremo di capire meglio. Prima di cominciare è bene ricordare in che clima vive il paese in quel periodo a metà anni ’70. Sono anni difficili, anche e soprattutto in Sicilia: il pericolo terrorismo, le brigate rosse, la mafia, i servizi segreti “deviati” presenti in provincia. E poi d’inverno non c’è nessuno su quelle spiagge del Golfo di Castellammare proprio dove si trova la casermetta di Alkamar: un luogo ideale per interi sbarchi di sigarette di contrabbando, di droga e forse anche di armi. Il primo sospetto cade sulle Brigate Rosse, anche se, a dire il vero, c’è una rivendicazione di un gruppo mai sentito prima. Poche ore dopo l’eccidio, infatti, il Nucleo Sicilia Armata, diffonde questo messaggio telefonico con una voce priva di inflessioni al centralinista de La Sicilia. “La giustizia della classe lavoratrice ha fatto sentire la sua presenza con la condanna eseguita alle 1.55 ad Alcamo Marina. Il popolo e i lavoratori faranno ancora giustizia di tutti servi, carabinieri in testa, che difendono lo stato borghese. Il bottone perso da uno dei componenti del nostro commando armato che ha operato ad Alcamo Marina è una traccia inutile perché l’abbiamo preso da una giacca tempo addietro a Orbetello. Carabinieri e polizia fanno meglio a difendersi e a dedicare le loro energie ad altro. Fanno meglio a difendersi assieme ai loro padroni fascisti e americani. Sentirete ancora molto presto parlare di noi. Possiamo agire ad Alcamo, a Roma, ovunque”. Di questo fantomatico gruppo, di evidente matrice rossa, nessuno sentirà mai più parlare, segno che il messaggio aveva una funzione di depistaggio. Ma è altrettanto certo agli inquirenti che chi telefonava era stato sulla scena del crimine o, quanto meno, ne era molto ben informato. Del resto in quegli anni ad Alcamo erano stati ammazzati due altri personaggi pubblici: l’assessore ai lavori pubblici di Alcamo Francesco Paolo Guarrasi (ex sindaco DC) viene ucciso nel maggio del 1975 con 4 colpi di pistola, mentre scende dalla sua auto proprio sotto casa. La pistola che lo uccide è la stessa calibro 38 che soltanto un mese prima aveva ucciso ad Alcamo il consigliere comunale Antonio Piscitello. E poi di spari contro i carabinieri in piena notte ce n’erano già stati, ma senza provocare feriti. Anche in quell’occasione il responsabile non era stato trovato. Passano solo tre giorni quando, il 30 gennaio, le Brigate Rosse emettono un comunicato, negando con fermezza di aver partecipato ai due assassinii. Nonostante questo la pista che viene seguita è sempre quella del terrorismo rosso. Le indagini sono guidate da Giuseppe Russo, allora capitano del nucleo operativo di Palermo, braccio destro del generale Dalla Chiesa. Mentre si cerca tra i vari gruppi e gruppuscoli dell’estremismo di sinistra, ecco il colpo di scena.
Il colpevole? Qualche settimana più tardi, è il 13 febbraio, ad un posto di blocco viene fermato Giuseppe Vesco, di Alcamo su una fiat 127 verde. É un tipo stravagante, tanto che in paese lo chiamano “Giuseppe il pazzo”. La targa della sua automobile è falsa. Gli manca la mano sinistra, amputata dopo che, un paio di anni prima, aveva fatto brillare un ordigno esplosivo forse trovato in un prato. Lo perquisiscono: ha addosso una pistola calibro 7,65, dello stesso tipo di quella usata per l’eccidio dei due carabinieri. Poi, salta fuori un’altra pistola: una Beretta in dotazione ai carabinieri. La conclusione è quasi immediata: è una delle armi rubate dalla casermetta: Il colpevole è stato trovato. Giuseppe, o Pino, come molti lo chiamano, si chiude in un silenzio ostinato, rotto solo da frasi del tipo: “Mi considero un prigioniero di guerra”, giocando il ruolo del terrorista come quelli veri delle Brigate Rosse. Si dichiara colpevole, ma al processo ritratta. I giornali dell’epoca non danno risalto a questo cambiamento di strategia. Cosa è accaduto tra l’arresto e il processo? Abbiamo la possibilità di usare due fonti. La prima è l’insieme di lettere che Pino scrive dal carcere, anche se a volte non si conosce l’identità dei destinatari. la seconda è la deposizione di un ex carabiniere, che aveva partecipato all’interrogatorio dopo il quale Vesco aveva confessato tutto. Cominceremo ad esaminare la prima fonte. Trovare quelle lettere non è facile. Un paio di esse vengono pubblicate nel 1978 dalle riviste “Controinformazione” e “Anarchismo” e vengono poi raccolte da un’associazione, alla quale si rivolge Roberto Scurto, giornalista che tiene un blog chiamato “Liberi di informare”. Ho già detto all’inizio che seguiamo la vicenda con le informazioni che sono state pubblicate. In ogni caso si tratta di una storia scottante, a volte cruda e pesante, in cui intervengono sevizie e torture e altre questioni poco chiare. Il racconto del carabiniere, avvenuto nel 2007, a 32 anni dai fatti, coincida in larga misura con il contenuto delle lettere non fa che confermarne la veridicità.
Dunque cominciamo. Nella prima lettera Pino assume l’atteggiamento di un guerrigliero che fa della lotta di classe a difesa del proletariato la sua bandiera. Inneggia alla lotta armata ed è chiaro che l’eccidio di Alcamo in questa lotta armata ci starebbe benissimo. Dunque è giustificato che gli inquirenti seguano la pista del terrorismo rosso. Ma il ragazzo ha anche a preoccupazione che vogliano farlo passare per pazzo e rinchiudere in un manicomio, per poi eliminarlo fisicamente. Quello dell’eliminazione è un chiodo fisso come vedremo tra poco. La parte più dura degli scritti di Giuseppe è quella in cui descrive la tortura subita perché si decida a far sapere dove si trova il materiale rubato nella casermetta e a dire i nomi dei suoi complici. La descrizione è di una lucidità estrema, descrivendo non solo il male subito, ma anche gli stati d’animo che mano a mano egli ha attraversato. Immobilizzato su due casse gli viene versato con un imbuto in gola un liquido che lui, perito chimico, stabilisce essere acqua con molto sale, olio di ricino e terra. L’effetto è quello del soffocamento. Resiste un po’ ma poi deve cedere. Tra l’altro non è uno con un fisico bestiale e non ci vuole molto perché quella tortura produca i suoi effetti. Così i carabinieri riescono a trovare quello che cercano: pistole, divise e quant’altro. Poi ritornano e adesso vogliono i nomi dei complici. La tortura riprende e Pino a quel punto fa dei nomi a caso, coinvolgendo quattro amici con i quali è solito passare parte del suo tempo libero. Dalle lettere non si capisce bene se Giuseppe sia coinvolto o meno negli omicidi. Da un lato c’è tuttavia il ritrovamento della refurtiva, dall’altro il fatto che lui continui a dichiarare di non aver avuto niente a che fare con quel fattaccio. Già al processo Giuseppe Vesco dichiarerà che tutte le confessioni gli sono state estorte con la tortura, il che, per la legge, rende inutile qualsiasi deposizione. I nomi coinvolti da Pino sono: Giovanni Mandalà, fabbricante di fuochi di artificio: Vincenzo Ferrantelli, Getano Santangelo, Giuseppe Gullotta. Quattro amici, un paio ancora minorenni che di politica e di lotta armata non sanno proprio nulla. Eppure anche loro confessano. Poi al processo diranno che le loro deposizioni sano il risultato di torture pesanti subite durante gli interrogatori. Si va verso il processo, ma Pino Vesco non fa in tempo a raccontare la sua storia. Lo trovano impiccato nella sua cella. “Suicidio” sentenziano gli inquirenti, ma come abbia fatto a fare il nodo scorsoio con una sola mano resta davvero un grande mistero. Proprio di questo scriveva alla madre: il timore di essere suicidato. La prima sentenza è di assoluzione. Nell’attesa dell’appello, i due minorenni, Ferrantelli e Santangelo fuggono in Brasile, chiedono e ottengono asilo politico. L’appello darà sentenze durissime: ergastolo per i due rimasti in Italia, 20 anni per gli altri. Nel 1995 Santangelo tornerà in patria a disposizione della magistratura, mentre l’altro rimarrà latitante. Mandalà muore in carcere nel 1998 di malattia, mentre Gullotta sconta l’ergastolo, finché …
Io c'ero...Prima di continuare con la storia, passiamo alla seconda fonte, l’ex brigadiere Giuseppe Olindo, che nel 2008 si presenta ai magistrati per fare le dichiarazioni che tra poco ascolteremo. Quelle che ascolteremo di seguito sono le voci tratte da un documento filmato che è facilmente reperibile in rete. Si tratta, tra l’altro anche di alcune deposizioni durante il processo per la revisione della posizione dei condannati, oltre che di interviste e filmati su altri temi che toccheremo. Derivano anche da trasmissioni radiofoniche e televisive, come ad esempio Blu Notte e La storia siamo noi. Ringrazio gli autori di questi documenti che sono fondamentali se non altro per dubitare di quello che viene passato per verità e ci induce ad indagare ancora per cercare di capire, anche se spesso purtroppo non ne siamo oggettivamente capaci. Dunque nel 2008 l’ex brigadiere dei Carabinieri Giuseppe Olindo si presenta alla magistratura e racconta quanto segue.
Insomma in quella caserma vengono inflitte tremende torture e vengono condannati all’ergastolo degli innocenti; la vita di quattro ragazzi, privati della libertà e condannati ad atroci sofferenze, è rovinata per sempre. Perché i carabinieri usano tanta violenza e tanta ingiustizia? Da chi hanno l’ordine di procedere in quel modo? Perché la squadra antiterrorismo ha così fretta di chiudere il caso?
Lo stesso Olino riferisce che quando arrivano ad Alcamo, non hanno alcuna idea di come muoversi, non hanno una pista da seguire. Ma ad essi viene imposto di indagare nei gruppi dell’estrema sinistra e solo in quelli. Lo stesso Peppino Impastato si interessa della vicenda e raccoglie documentazioni importanti, ma di questo parleremo tra poco. Adesso ascoltiamo di nuovo Olindo.
Peppino Impastato. In effetti Peppino Impastato si occupava in quel periodo delle molte illegalità che avvenivano in Sicilia e quell’omicidio non era certo cosa da poco. Fa uscire un volantino molto duro nel quale sostiene che i carabinieri stavano cercando di depistare l’azione investigativa e che a lui sembrava strano questo accanirsi contro le organizzazioni di sinistra, non prendendo neppure lontanamente in considerazione un’origine mafiosa della strage.
Che i depistaggi di cui Peppino parla ci siano stati è abbastanza evidente. I carabinieri che conducono le indagini vengono dal nucleo anti-crimine di Napoli. Li comanda il capitano Gustavo Pignero, che diventerà generale e dirigerà una sezione dei Servizi segreti militari (il SISMI). Quando il caso viene riaperto, i carabinieri che avevano partecipato alle torture e che facevano capo al colonnello Giuseppe Russo, finiti tutti sotto inchiesta, sono ormai ottantenni e si avvalgono della facoltà di non rispondere. Resta in piedi la domanda senza risposta: chi ha guidato i depistaggi e per quale motivo? Cosa è successo realmente quella notte di gennaio ad Alcamo?
I dubbi e le nuove inchieste. Le ipotesi sono diverse, alcune coinvolgono direttamente lo stato, altre la mafia, altre ancora dei contrabbandieri di armi o di altra merce. Ma quello che emerge è che in tutta la storia ci sono tante, troppe cose che non tornano o che sono, quanto meno, molto, ma davvero molto strane. In effetti c’è il suicidio di Pino Vesco che suona di falso lontano un miglio. C’è il ritrovamento dei corpi che fa storcere in naso. Come è possibile che le guardie del corpo di Almirante passino per caso la mattina seguente l’eccidio e si fermino in una stradina di nessun conto, vedano il portoncino divelto e scoprano i cadaveri? Come mai il tribunale condanna senza mezzi termini quattro balordi che non hanno precedenti di un delitto così atroce e, a ben vedere, effettuato con estrema efferatezza e, passatemi l’espressione, mestiere. Eh già, Gullotta, dopo aver passato 21 anni in carcere, viene riconosciuto innocente, viene liberato e il fatto di aver passato gran parte della vita dietro le sbarre viene compensato con 6 milioni e mezzo di euro. Credo non sia difficile immaginare quanto poco quel denaro abbia alleviato le sofferenze di un uomo che non aveva fatto niente e si è trovato privato del bene più prezioso che abbiamo, la propria libertà. E questa assoluzione si porta dietro altre conseguenze importanti. Prima di entrare nel merito mi sento di fare una considerazione. É curioso che serva un riesame di questa portata per capire che le conclusioni su molti delitti, dei quali la storia del nostro paese è piena, sono state falsate. La gente lo sa, ma servono sempre prove e documentazioni per poter procedere e soprattutto ci volgliono decenni per venirne a capo, le rare volte in cui questo succede. Ecco dunque che la sentenza Gullotta spinge il sostituto procuratore Antonino Ingroia, che lavora nella procura di Trapani, a riaprire due inchieste: quella sulla strage di Alcamo Marina e quella su Peppino Impastato, ucciso il 9 maggio 1978. E, di conseguenza, salta fuori anche una terza inchiesta, quella sul suicidio di Pino Vesco. Secondo la procura tutto quello che è avvenuto è stato fatto con il preciso scopo di evitare che le indagini arrivassero a svelare l’esistenza e soprattutto le opere (certo non benemerite) di un esercito segreto, la struttura segreta Gladio. Certo, Peppino è stato ucciso dalla mafia, dal clan Badalamenti. Per questo il processo ha condannato Tano Badalamenti all’ergastolo e il suo vice, Vito Palazzolo, a 30 anni. É il 2002 e Tano muore due anni più tardi. Il corpo di Peppino viene ritrovato lo stesso giorno in cui le BR (o chi per loro) riconsegnano quello di Aldo Moro. La sentenza è immediata. Per i carabinieri si tratta di suicidio o quanto meno di un incidente mentre il giovane sta mettendo dell’esplosivo sui binari. Un’ipotesi assurda per chiunque conosca Peppino. Lui è un militante di Democrazia Proletaria e soprattutto è responsabile di una radio di denuncia contro la mafia, la radio Aut. Quello che qui interessa è che, in quell’occasione, viene eseguita una nuova perquisizione nella casa di Impastato. Si trova un dossier, con scritto sulla copertina “Giuseppe Vesco”. Questa notizia è certa, perché il ritrovamento dell’incartamento compare nel rapporto redatto dai carabinieri. Ma del dossier o di notizie sul suo contenuto non c’è alcuna traccia, da nessuna parte. Il materiale è semplicemente sparito. E torniamo ancora e sempre alle stesse domande su chi è stato e perché. Sappiamo che sono domande che restano senza risposta. Nel caso appena esaminato è anche evidente come la mafia abbia partecipato direttamente alla strategia. Carabinieri, Servizi segreti, mafia, probabilmente Gladio … ecco la strada indicata da Peppino. I due carabinieri, secondo la sua ipotesi, avevano fermato quella sera un carico di armi che la mafia doveva consegnare a Gladio o viceversa. Per questo vengono fatti fuori e poi viene inscenata tutta la faccenda della casermetta ad Alcamo Marina. E c’è anche la scorta di Almirante che, per caso, passa per una stradina di nessun conto, sperduta nel nulla e scopre il portoncino divelto e tutto il resto … ma dai!
Gladio ... che roba è? Ho accennato a Gladio. Di cosa si tratta? Quando è nato? Come è organizzato e, soprattutto, a cosa serve? Di questo parleremo dopo una breve pausa. A partire dall’esplosione di una bomba nella banca dell’agricoltura in piazza Fontana a Milano nel 1969 si susseguono una serie di attentati che spesso non hanno alcuna ragione, come quello in Belgio dove un commando perfettamente addestrato fa una strage di clienti sparando senza alcuna remora anche sui bambini. Non esiste ancora una matrice di terrorismo pseudo-religioso come ai giorni nostri e non si era mai visto prima un bandito uccidere senza pensarci su dei bambini. Gli occhi degli inquirenti, di quelli che riescono a capirci qualcosa, puntano su un’organizzazione militare segreta, che ha sedi in tutta Europa e negli Stati Uniti e ci chiama “Stay behind”, che significa sostanzialmente di rimanere dietro, ma dietro a che cosa? Dopo la seconda guerra mondiale il mondo si spacca in due: da una parte l’Occidente, guidato (il verbo è un eufemismo) dagli Stati Uniti e dall’altro il blocco orientale socialista guidato (anche questo è un eufemismo) dall’Unione Sovietica. Le due superpotenze si fronteggiano in ogni settore della vita pubblica e si armano come se stesse per cominciare una nuova guerra, la terza guerra mondiale, di cui in quel periodo si parla continuamente con grande terrore. Noi italiani viviamo nel blocco occidentale e, anzi, siamo un paese di confine e per questo da tutelare in modo particolare contro il pericolo più grande: l’invasione delle truppe comuniste che arriveranno per mangiare i nostri bambini e fare delle nostre chiese stalle per i cavalli dei cosacchi. Detta così è certamente sarcastica, ma il fatto è che l’esercito sovietico è probabilmente il più potente in quel momento e quindi arrestarne una eventuale avanzata sarà impossibile. Ecco allora l’idea. Creare dei gruppi di specialisti che operino dietro le linee nemiche (di qui il nome Stay behind = stare dietro) e servano da appoggio per azioni da parte delle forze alleate inglesi o americane che arriveranno a salvarci come nei film americani sui cowboy. L'organizzazione di questo esercito è della NATO, l’alleanza atlantica. Ci sono mezzi enormi messi adisposizione sia come addestramento (che avviene a Sud di Londra) che come mezzi in ogni senso: trasporto, armi, e qualsiasi altra cosa. Le formazioni assumono nomi diversi a seconda della nazione. In Italia Stay Behind si chiama Gladio. É chiaro che qualcuno degli ascoltatori a questo punto si chiederà cosa diavolo c’entri Gladio con Alcamo Marina, gli eserciti segreti con i due carabinieri ammazzati nella casermetta siciliana. Arriveremo a rispondere anche a questa domanda: ci vuole solo un po’ di pazienza. Ci sono sicuramente indizi che lasciano pensare che non sia poi così assurdo pensare ad un coinvolgimento di Gladio. I depistaggi e le modalità con cui i carabinieri eseguono le indagini non sono quelle solite dell’arma. E poi, negli anni ’90, viene scoperto ad Alcamo un nascondiglio di armi dentro un seminterrato di una villa. Lo custodiscono due carabinieri. Siano in Sicilia, si può pensare ad un covo della mafia, ma il deposito è davvero molto particolare. La quantità di armi presenti è impressionante e anche la loro tipologia lascia perplessi gli inquirenti. Non solo: c’è anche il materiale e gli strumenti per fabbricare proiettili di vario genere. La procura si affida ad un consulente esterno, il quale certifica che la possibilità della costruzione di munizioni da guerra è la stessa che potrebbe rifornire la polizia di un intero piccolo stato. I due guardiani, Vincenzo La Colla e Fabio Bertotto, si giustificano con la loro passione per le armi e per esercitarsi al tiro, giustificazione del tutto improbabile visto il tipo di arsenale. Tra l’altro il Bertotto faceva parte (anche mentre si occupava dell’arsenale) dei Servizi segreti, come responsabile della sicurezza delle ambasciate estere. Le armi sequestrate sono 422, tra cui un centinaio di armi da guerra, mitra statunitensi, armi degli eserciti dell’Est europeo, duecento pezzi da assemblare, perfino una munizione per contraerea. É piuttosto ingenuo pensare a semplici collezionisti. L’indagine deve adesso scoprire a quale rete tutto questo fa riferimento. In quel periodo è procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Anche lui indaga su questi fatti ed esclude categoricamente che quell’arsenale sia in qualche modo legato alla mafia. Quelli della mafia – dice Ingroia – non solo sono molto diversi come tipologia di armi, ma vengono protetti da profili completamente diversi di guardiani. Insomma c’è dell’altro, ci sono organizzazioni nascoste, come si evidenzierà con l’omicidio Rostagno, di cui parleremo tra poco. Che poi ci siano interazioni tra queste organizzazioni e la mafia è molto probabile ma che sia la mafia ad agire ad Alcamo è, per Ingroia, del tutto fuori discussione.
Mauro Rostagno, Li Causi, la Somalia, le armi e ancora Gladio. E adesso entra in scena un nuovo personaggio, morto ammazzato nel 1993 in Somalia in un agguato per motivi mai accertati. Si chiama Vincenzo Li Causi, trapanese di nascita, militare di carriera e appartenente ai servizi segreti militari. É un nome importante: partecipa alla liberazione del generale Dozier, sequestrato dalla BR a Padova; viene inviato in molte missioni che richiedono abilità e competenza. Insomma è uno che conta. Dal 1987 al 1990 è a capo del Centro Scorpione, una sezione di Gladio a Trapani. Dal 1991 viene mandato più volte in Somalia. In una di queste missioni viene ammazzato nel novembre 1993. La cosa più strana è che il giorno dopo è atteso a Roma per testimoniare su Gladio e sui traffici di armi e rifiuti tossici e radioattivi provenienti da mezzo mondo e di cui abbiamo parlato a lungo nelle puntate di Noncicredo. Tutto questo pochi mesi dopo la scoperta dell’arsenale vicino ad Alcamo. Il nome di Li Causi emerge un anno più tardi quando si indaga sull’uccisione di Ilaria Alpi, di cui egli sarebbe stato un informatore che ben conosceva i traffici sui quali la giornalista romana stava conducendo da anni la sua inchiesta. Un ex appartenente a Gladio, protetto dall’anonimato ci dice quanto segue. La sua voce è contraffatta. I compiti di Gladio in Sicilia non sono tuttora molto chiari. Probabilmente fungeva da collegamento con la Gladio all’estero, che operava nei Balcani, nel Nord Africa e nel Corno d’Africa. C’è anche la questione del traffico di armi che avviene nell’aeroporto militare di Chinisia, località a Sud di Trapani. Qui si trova il giornalista torinese Mauro Rostagno, uno dei fondatori di Lotta Continua, che in Sicilia vive e lotta contro la mafia nell’ultima parte della sua breve vita. Trasmette servizi importanti contro il potere di Cosa Nostra dall’emittente Radio Tele Cine. Uno di questi lo realizza proprio a Chinisia, quando atterra un aereo militare che viene subito circondato da camion militari e molti uomini in mimetica. Torna rapidamente in studio per montare il servizio che quella sera dovrà fare un botto. In effetti quell’aereo trasportava armi da consegnare evidentemente non tanto alla mafia quanto ad una organizzazione militare. Quelle immagini spariranno la sera del 26 settembre 1988, giorno in cui Mauro Rostagno viene ammazzato nella sua auto. Chi è stato? La pista seguita è quella della mafia. Ma i dubbi sono enormi, soprattutto a causa dei modi di procedere con le indagini e degli evidenti depistaggi che avvengono. Questa è un’altra storia che si intreccia con quelle fin qui raccontate. Molte indagini sono state fatte e molte ipotesi sono state avanzate sulla morte di Mauro: la mafia, Gladio, i servizi, la massoneria deviata. Restiamo semplicemente agli atti più recenti, che dicono che, nel maggio 2014, la Corte d'Assise di Trapani condanna in primo grado all'ergastolo i boss trapanesi Vincenzo Virga e Vito Mazzara. I legami tra mafia e Gladio vengono rivelati in diverse indagini, di recente è saltato fuori che l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, avrebbe potuto far parte della struttura segreta. Lo ha detto il figlio Massimo durante le rivelazioni sulla trattativa tra Mafia e Stato. Giovanni Falcone, mentre sta seguendo piste in merito all’uccisione di Pio La Torre da parte della mafia nel 1982, crede che sia importante confrontarsi con i colleghi romani, che stanno indagando su Gladio, ma si trova davanti un muro posto dal Procuratore Capo. Non si può e non si sa perché.
I pentiti di mafia. Sull’eccidio della casermetta nel tempo ci sono altre voci che intervengono. Quella, ad esempio, di Giuseppe Ferro, un pentito della famiglia di Alcamo, che conferma che la strage non fu certo eseguita dai ragazzotti accusati e incarcerati. Nella sua testimonianza si legge: “Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati. Erano solamente delle vittime, pensavamo che era una cosa dei carabinieri, che fosse qualcosa di qualche servizio segreto.” C’è poi Vincenzo Calcara, altro pentito di mafia di Castelvetrano, il quale racconta di essere stato compagno di cella di Pino Vesco. Quando arriva l’ordine da parte di Antonio Messina, boss di Campobello di Mazara del Vallo, di lasciare da solo il ragazzo senza una mano. “Fu ucciso da un mafioso con la complicità di due guardie carcerarie” dichiara il pentito. É lo stesso Messina a spiegare la situazione a Calcara. Vesco deve morire perché è stato uno strumento e deve sparire. I due carabinieri sono stati ammazzati perché hanno visto cose che non dovevano vedere e è stato impedito loro di fare cose che potevano danneggiare non personaggi di cosa nostra ma anche collegati ad essa. É dunque questa la pista: una connivenza tra mafia e Gladio (o comunque organizzazioni segrete all’interno dello stato) che nel trapanese si sono sempre incrociate e frequentate in un anomalo scambio di favori. Ma l’invasione sovietica, come ben sappiamo, non c’è mai stata e quindi negli anni l’organizzazione Gladio viene utilizzata per scopi diversi. Tra questi un piano elaborato dalla CIA, l’intelligence statunitense, chiamato Demagnetize (Smagnetizzare). Il suo scopo è quello di togliere ossigeno e depotenziare il Partito Comunista Italiano, che negli anni ’70 comincia ad assumere l’importanza di un partito di governo. Questo coinvolge diversi movimenti di estrema destra, che diventano attivi nella strategia della tensione con numerosi attentati in tutta Italia. Abbiamo ricordato quello di Gorizia, per fare un esempio. Ci sono stati anche tentativi di golpe, a dire il vero piuttosto velleitari, in uno dei quali interviene anche una delle famiglie mafiose di Alcamo, la famiglia Rimi. É il 1970 e il fallito attentato alle istituzioni italiane è quello di Junio Valerio Borghese, ex fascista, ex presidente del Movimento Sociale, frequentatore di Pinochet e del suo capo della polizia segreta … insomma un personaggino tutto pepe. Dopo la guerra viene condannato a due ergastoli, ma l’intervento dei servizi segreti americani fa sì che quella condanna si riduca a 12 anni, di cui nove condonati. Sfruttando l’amnistia voluta da Palmiro Togliatti viene rilasciato immediatamente. Muore nel 1974 in circostanze abbastanza strane in Spagna, dove si è rifugiato. Nella provincia di Trapani le organizzazioni segrete sono ben radicate in quel periodo. In un ambiente in cui conta molto più la mafia dello stato, le attività sommerse sono all’ordine del giorno e può quindi accadere che due carabinieri in servizio si imbattano in un trasporto strano, in qualcosa di più grande di loro. La presenza di Gladio nel trapanese viene certificata ufficialmente solo nel 1990, ma i vertici dell’organizzazione continueranno a ribadire la propria estraneità ai fatti di Alcamo Marina, e a tutte le nefandezze che la popolazione ha dovuto subire in quegli anni. Di questo parla Paolo Inzerilli, responsabile di Gladio dal 1974 al 1986. Un altro personaggio, al quale ha accennato il giudice Casson nel suo primo intervento ha avuto una storia notevole. Si tratta di Vincenzo Vinciguerra, condannato all’ergastolo per la strage di Peteano, quella in cui sono rimasti uccisi tre carabinieri e feriti altri due. Vinciguerra non si è mai tirato indietro, considerandosi un “soldato politico”, facendo rivelazioni e non chiedendo mai uno sconto di pena, anzi volendo rimanere in carcere per tutta la sua durata, ritenendolo un mezzo di protesta. Durante il processo, che vedeva come giudica Felice Casson, lo scontro è durissimo. Il giudice cerca in ogni modo di dimostrare che l’esplosivo usato nell’attentato proviene da un deposito di armi di Gladio, trovato vicino a Verona. Si tratta di C-4, il più potente esplosivo disponibile all’epoca, in dotazione alla NATO. Nel 1984, a domanda dei giudici sulla strage alla stazione di Bologna, Vinciguerra dice: « Con la strage di Peteano, e con tutte quelle che sono seguite, la conoscenza dei fatti potrebbe far risultare chiaro che esisteva una reale viva struttura, segreta, con le capacità di dare una direzione agli scandali... menzogne dentro gli stessi stati... esisteva in Italia una struttura parallela alle forze armate, composta da civili e militari, con una funzione anti-comunista che era organizzare una resistenza sul suolo italiano contro l'esercito russo ... una organizzazione segreta, una sovra-organizzazione con una rete di comunicazioni, armi ed esplosivi, ed uomini addestrati all'utilizzo delle stesse ... una sovra-organizzazione, la quale mancando una invasione militare sovietica, assunse il compito, per conto della NATO, di prevenire una deriva a sinistra della nazione. Questo hanno fatto, con l'assistenza di ufficiali dei servizi segreti e di forze politiche e militari.» Una posizione personale, ma molto chiara, come quella che esprime a parole. Ma Gladio è stato davvero il demonio responsabile di ogni nefandezza che nel paese si veniva compiendo? Adesso ascoltiamo due testimonianza. La prima, brevissima, è di Francesco Gironda, capo della rete Gladio di Milano, mentre la seconda è ancora di Felice Casson, magistrato chioggiotto e più tardi politico dell’Ulivo e poi del Partito Democratico. Ascoltiamoli, poi chiuderemo il nostro racconto.
Conclusioni. Siamo partiti da un fatto particolare, quello dell’uccisione di due carabinieri nella casermetta di Alcamo Marina e siamo finiti a parlare di strategia della tensione, di attentati come quello di Bologna che apparentemente non hanno nulla a che fare con l’inizio della nostra storia. Questo dimostra quello che in questi mesi ho sempre cercato di sottolineare e cioè che le storie sono tutte legate tra loro, perché è periodo in cui esiste una strategia ben precisa che coinvolge lo stato e le sue istituzioni, per mantenere il potere e fare profitti. Oggi Gullotta è un uomo libero e ricco, libero perché non ha commesso quel reato infamante, così come i suoi amici, quelli sopravvissuti per lo meno. Ma non è libero dagli incubi che nessuno di noi credo possa neppure immaginare di aver passato un terzo della sua vita rinchiuso in un carcere dove non doveva stare. Rinchiuso mentre altre persone e non una sola sapevano perfettamente che era innocente. Prima di chiudere un’ultima osservazione su Gladio. Nell’estate del 2014 viene proposta una legge intitolata: “Riconoscimento del servizio volontario civile prestato nell’organizzazione nordatlantica Stay Behind”. La firma Luca Squeri di Forza Italia. In essa si sostiene che i volontari che hanno prestato servizio all’interno di Gladio devono essere trattati come i partigiani e quindi meritano una legittimazione per aver difeso la patria dal nemico. Nessun riconoscimento in denaro, si intende, un riconoscimento sotto il profilo politico e anche militare. Quindi nessun legame con le trame nere, con brandelli impazziti dell’eversione di stato. Sotto sotto la proposta porterebbe dritto al finanziamento pubblico dell’associazione. Il fatto che, una volta capito che il patto di Varsavia non aveva intenzioni di invadere l’Occidente, questa organizzazione si sia mossa in segreto, sfruttando le risorse dei servizi segreti semplicemente per impedire l’accesso al governo del Partito Comunista Italiano è un fatto riconosciuto anche da due dei politici più dentro le questioni delle segrete stanze, come Andreotti e Cossiga. Del resto quella di Squeri non è la prima volta di una simile richiesta strampalata. La prima in assoluto è del 2004 e porta la firma, guarda caso, di Cossiga. Iniziativa seguita, pochi mesi dopo alla Camera, da un testo identico presentato dal forzista Paolo Ricciotti. Ma Cossiga torna alla carica ancora altre volte: nel 2006, nel 2007, nel 2008 e nel 2009. Sempre nel 2009 un testo identico viene presentato a Montecitorio da Renato Farina, quello famoso per aver partecipato coi servizi segreti alla diffusione di notizie false contro Romano Prodi. Condannato per vari reati e radiato dall’ordine dei giornalisti, oggi collabora con Il Giornale e sarebbe difficile pensare il contrario. Insomma per la destra istituzionale (Forza Italia, PDL e tutte le altre sigle berlusconiane) Gladio è una organizzazione di eroi positivi, che hanno cercato di fare il bene del nostro paese. Non mi sembra il caso di aggiungere alcun commento. Termino qui. É stato un articolo forse più faticoso del solito, che ha cercato di raccontare una storia poco conosciuta in cui, ancora una volta, si mescolano affari loschi, mafia e reparti deviati della repubblica, ma, in questo caso, ben conosciuti e sostenuti dallo stato. Alcamo Marina in fondo non è stata nulla come tributo di sangue rispetto a molte altre tragedie di cui vi ho raccontato: penso alle bombe della strategia della tensione: piazza Fontana, Brescia, l’Italicus, Bologna o alle tragedie di cui sappiamo poco o nulla perché occorre che non si sappia chi andava coperto, come nel caso dell’elicottero Volpe 132, della Moby Prince, di Ustica. Purtroppo si potrebbe continuare l’elenco. Purtroppo ...
Strage alla caserma “Alkamar”, ecco come venne riaperto il caso. Il racconto del cronista trapanese Maurizio Macaluso, la sua inchiesta portò alla revisione del processo. Michele Caltagirone su Blasting News Italia il 27 gennaio 2016. Il giornalista Maurizio Macaluso lavorava nella redazione del settimanale “Il Quarto Potere”, diretto da Vito Manca. Nel 2007, in una rubrica da lui curata su fatti di cronaca ancora avvolti nel mistero, iniziò ad occuparsi della strage alla caserma “Alkamar” del 27 gennaio 1976, sollevando dubbi sulla reale colpevolezza di Giuseppe Gulotta, Vincenzo Ferrantelli, Gaetano Santangelo e Giovanni Mandalà, i quattro giovani condannati per il duplice omicidio dei carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. “Mi recai anche ad Alcamo – ricorda Macaluso, contattato dalla redazione di Blasting News Italia – ad intervistare Marta Ferrantelli, sorella di uno dei presunti colpevoli. Tra i miei obiettivi c’era ovviamente quello di contattare direttamente Vincenzo Ferrantelli, tanto lui quanto Gaetano Santangelo all’epoca si trovavano in Brasile. Entrambi, a qualche settimana di distanza, fecero pervenire una e-mail in redazione raccontando la loro versione dei fattiche venne pubblicata sul nostro settimanale. In risposta ricevetti anche un’altra e-mail con parole di fuoco da parte dei familiari di Salvatore Falcetta che contestarono il contenuto dell’articolo. Per quasi un anno non ci furono altre novità sul caso”.
Contattato dall’ex brigadiere Olino. “A quasi un anno di distanza – prosegue Maurizio Macaluso – ricevetti una mail anonima. Qualcuno sosteneva di essere a conoscenza della verità, affermando che erano stati condannati quattro innocenti. Si faceva riferimento anche alla mail dei familiari di Falcetta, ‘chissà cosa direbbero se sapessero la verità’, tra le parole che mi vennero scritte. Il misterioso mittente rivelò successivamente la sua identità, si trattava dell’ex brigadiere Renato Olino che aveva assistito agli interrogatori dei giovani arrestati nel 1976. Ci incontrammo successivamente a Trapani, venne in redazione e mi espose ifatti ai quali aveva assistito. Si trattò di confessioni forzate; ad esempio, nel caso di Giuseppe Vesco, le confessioni gli vennero estorte nel corso dell’interrogatorio con latorture. Da quel momento la stragedi Alcamo Marina divenne un tormentone del nostro giornale, mi sforzavo settimana dopo settimana per mettere insieme nuovi elementi. La Procura, che conservava anche le copie dei miei articoli, raccolse poi elementi a sufficienza per riaprire il caso”.
C'è un altro segreto. Maurizio Macaluso Linea Rossa 12 anno 3 - numero 45. Un giovane alcamese, Giuseppe Tarantola, fu ucciso nel 1976 nel corso di un conflitto a fuoco con i Carabinieri. Si disse che era in possesso di una pistola ma un ex brigadiere rivela che non era armato. Un altro morto che attende giustizia. Un'altra storia scomoda che riemerge dal passato. Si chiamava Giuseppe Tarantola. Aveva venticinque anni ed era di Alcamo. Morì trentuno anni fa durante una sparatoria con i carabinieri. Si disse che era armato, che voleva uccidere i militari, che era pronto a compiere una strage. Un testimone rivela però ora che in realtà Giuseppe Tarantola non era armato. Che la pistola sequestrata sarebbe stata apposta dai carabinieri per coprire le responsabilità di colui che aveva sparato. A rivelare il nuovo sconvolgete episodio è un ex brigadiere, lo stesso che, due mesi fa, ha parlato dell'uccisione dell'appuntato Salvatore Falcetta e del carabiniere Carmine Apuzzo. Lo stesso che ha sostenuto che Giuseppe Vesco e gli altri giovani coinvolti nelle indagini sull'uccisione dei due carabinieri furono picchiati e seviziati e costretti a confessare. Giuseppe Tarantola fu ucciso nel corso della notte tra il 10 e l’11 febbraio del 1976 alla periferia di Alcamo nel corso di un conflitto a fuoco con i carabinieri. Erano trascorse due settimane dall'uccisione di Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. L'assassino dei due carabinieri aveva destato grande scalpore. La vicenda era arrivata anche in Parlamento. Qualche giorno prima, nel corso di una seduta parlamentare, l'onorevole Giomo aveva presentato un'interrogazione ai ministri dell'interno e della difesa. "Chiedo di conoscere - aveva detto il parlamentare - se ritengano rendere edotta l'opinione pubblica ed il Parlamento sull'offensiva che si sta attuando da parte di forze extraparlamentari contro i carabinieri, offensiva culminata nel selvaggio agguato contro la caserma di Alcamo Marina dove hanno perso la vita due giovani militari. È ormai noto a chi segue la cronaca quotidiana che nei soli mesi di dicembre e gennaio nelle città di Milano, Roma e Genova sono state attaccate più volte caserme di carabinieri con bombe a mano, bottiglie incendiarie e raffiche di mitra, che hanno portato alla distruzione di automezzi militari e danneggiamento di edifici pubblici. Si è passati ora in questa escalation di guerriglia contro l'Arma, che ha il difficile compito della tutela dell'ordine pubblico, all'assassinio. L'interrogante chiede se di fronte alla brutale e violenta campagna istigatrice di odio contro i carabinieri organizzata dalla stampa extraparlamentare con le conseguenti offensive di guerra che in questi ultimi mesi sono state scatenate, il governo intenda intervenire con tutti i mezzi a sua disposizione rendendo note all'opinione pubblica tutte le informazioni in suo possesso sull'attività dei mandanti e degli esecutori di questi gruppi sovversivi paramilitari che operano nel paese". L'uccisione di Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo aveva generato preoccupazione nella popolazione di Alcamo. La gente era allarmata. Temeva che la morte dei due carabinieri potesse essere soltanto l'inizio di una lunga serie di omicidi. Gli investigatori erano intenzionati a chiarire al più presto il contesto in cui era maturato il delitto. Bisognava fare presto e restituire serenità ai cittadini. Interrogatori e perquisizioni si susseguivano giorno e notte. Tutte le persone sospette venivano fermate. La notte tra il 10 e l'11 febbraio una pattuglia dei carabinieri intercettò un'auto sulla quale viaggiavano quattro giovani. Alla vista dei militari il conducente proseguì la corsa senza fermarsi. Dopo un lungo inseguimento per le vie della città, l'auto sbandò finendo contro un edificio. I quattro giovani, inseguiti dai carabinieri, scesero dalla vettura e tentarono di fuggire a piedi. Scoppiò un conflitto a fuoco. Giuseppe Tarantola fu colpito da una raffica di mitraglia. Il giovane, gravemente ferito alla gola ed al petto, morì mentre veniva trasportato in ospedale. Gli investigatori sostennero che, dopo essere stato bloccato, Giuseppe Tarantola era sceso dall'auto e si era lanciato contro i carabinieri con una pistola in pugno pronto a far fuoco. L'arma, una pistola calibro trentotto, era stata rinvenuta dopo la sparatoria sull'asfalto. L'auto sulla quale viaggiavano i quattro giovani era rubata. Due dei tre sopravvissuti, interrogati dagli investigatori, confessarono di avere rubato, qualche giorno prima, anche un'altra vettura. Le auto erano destinate ad un meccanico di Alcamo che avrebbe dovuto smontarle e rivendere i pezzi. I tre giovani furono arrestati. La morte di Giuseppe Tarantola destò grande scalpore ad Alcamo. Ventiquattro ore dopo però i carabinieri arrestarono Giuseppe Vesco. Nella città si diffuse immediatamente la notizia che il giovane aveva confessato. Che aveva ammesso di avere ucciso i due carabinieri. Che aveva indicato i nomi dei complici. La gente si precipitò dinanzi la caserma. La morte di Giuseppe Tarantola fu presto dimenticata. Trentuno anni dopo, però, c'è però chi sostiene che c'è un'altra verità. Che Giuseppe Tarantola non era armato. Che non voleva compiere alcuna strage. Che la sua morte va inserita nel clima di tensione che in quei giorni si respirava ad Alcamo. "Non si fermò all'alt", racconta l'ex brigadiere, che in quei giorni si trovava ad Alcamo per partecipare alle indagini sull'uccisione di Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. "Dopo un breve inseguimento finì contro un muro. Scese dall'auto e tentò di fuggire. Un brigadiere esplose alcuni colpi di mitra uccidendolo. Dopo la sparatoria fu rinvenuta sotto l'auto una pistola a tamburo. La magistratura archiviò il caso ritenendo che il brigadiere avesse operato legittimamente. Ma in realtà quel giovane non era armato. Fui io a collocare la pistola su ordine di un ufficiale prima dell'arrivo del magistrato". La clamorosa rivelazione getta nuove ombre sull'operato dei carabinieri. L'episodio è stato riferito dall'ex brigadiere nel corso dell'intervista rilasciata al nostro giornale due mesi fa. Avevamo deciso di non pubblicarla in attesa di effettuare le necessarie verifiche. La ricerca si è rivelata più lunga del previsto. Ad Alcamo nessuno ricorda più questa storia. Tutte le persone interpellate non hanno saputo fornirci alcuna informazione in merito alla vicenda. La tragica morte di Giuseppe Tarantola è stata rimossa dalla memoria collettiva. Abbiamo quindi effettuato una ricerca negli archivi della biblioteca di Paceco ed abbiamo accertato che l'episodio riferito dall'ex brigadiere è realmente avvenuto. Il 12 febbraio del 1976 il Giornale di Sicilia pubblicò un articolo in prima pagina nel quale era riportata la cronaca degli avvenimenti che avevano condotto all'uccisione di Giuseppe Tarantola. "Alcamo - Tragica fine di un giovane ladro. Scappa all'alt. Ucciso dal mitra di un carabiniere - Arrestati i tre ragazzi che erano con lui in auto". Nell'articolo si riferiva che Giuseppe Tarantola non si era fermato all'alt dei carabinieri e che dopo essere stato bloccato era sceso dalla vettura con una pistola in pugno pronto a far fuoco contro i militari. Una raffica di mitra lo aveva fermato uccidendolo. La rivelazione dell'ex brigadiere potrebbe ora riaprire il caso. Intanto le dichiarazioni dell'ex sottufficiale sui presunti pestaggi subiti da Giuseppe Vesco e dagli altri giovani alcamesi coinvolti nelle indagini sull'uccisione dell'appuntato Salvatore Falcetta e del carabiniere Carmine Apuzzo hanno aperto un ampio dibattito. Numerosi alcamesi si sono ricordati della tragica fine dei due militari. Tanti sono tornati ad interrogarsi. Anche numerosi giovani stanno seguendo con grande attenzione gli sviluppi della vicenda. Roberto Scurto ha ventuno anni. "Sono passati tantissimi anni, è ora che finalmente si faccia giustizia", scrive in un articolo pubblicato sul portale Alcamo.it. "Chi sa qualcosa parli! È incredibile come questa storia possa ancora dare fastidio a qualcuno dopo tutto questo tempo. E se qualcuno pensasse che non interessa a nessuno si sbaglia". Il suo appello è stato accolto da tanti concittadini che sono intervenuti nel blog. C'è chi pone domande, chi avanza dubbi. C'è chi, come Anna, chiede di sapere perché l'ex brigadiere si è deciso soltanto ora a parlare. Perché per trentuno anni è rimasto zitto. L'ex sottufficiale ha voluto chiarire, intervenendo personalmente sul blog, la sua pozione. "Per motivi di opportunità al momento molte domande restano senza risposta. Grazie al giornalista Maurizio Macaluso oggi, dopo trentuno anni, qualcuno mostra finalmente interesse su questa brutta storia. Quando venni a conoscenza che Giuseppe Vesco si era impiccato portando con sé tutti i segreti di questa tragedia, rimasi profondamente ferito e ritenni di non essere più degno di portare la divisa. Lasciai l'Arma dei Carabinieri senza alcuna spiegazione. Ho sempre pensato che la tortura non porta alla vera verità. Mi rivolgo a tutti quei colleghi che quella notte erano presenti a sostenere la mia testimonianza. Voglio ricordare che il giuramento di fedeltà alla Repubblica, alle Leggi di questo Stato, alla Costituzione vennero quella notte calpestate da chi era posto dalle stesse alla difesa ed al rispetto. Gli stessi militari che quella notte, ritenendo di fare Giustizia usarono metodi cileni, sono gli stessi che nel corso dei successivi trent'anni hanno dato la vita per combattere la mafia. Questo mio appello, questa mia decisione di contribuire alla ricerca della verità può solo dare dignità all'Arma dei Carabinieri ed a coloro che hanno pagato con la vita il loro impegno per il rispetto della legalità". Tra coloro che scrivono c'è però anche chi va controcorrente. Chi non si scandalizza, chi invita a riflettere, a considerare il contesto in cui maturò la vicenda. "Non mi scandalizzerei più di tanto.... anche perchè chi uccide, chi ruba chi estorce non si fa di certo scrupoli", scrive un ex carabiniere. "Con questo non voglio dire che voglio difendere l'operato delle forze dell'ordine, però vorrei evidenziare come ogni qual volta succede qualcosa di negativo operato dalle forze dell'ordine si strumentalizzi.... Io penso che bisogna considerare i contesti storici, politici del momento che spingono a certi comportamenti. Sicuramente nella strage citata, ci sono molti risvolti oscuri, ma non credo che si sia volutamente operato per non far emergere la verità.... Ps. Sono un ex carabiniere e sono orgoglioso di esserlo stato". "Questa equazione mi sconcerta", risponde Zagor. "Se i delinquenti non si fanno scrupoli... neanche le forze dell'ordine se ne debbono fare!!! Sicuramente non gli sarà mai capitato di essere dall'altra parte della scrivania, quando con metodi da boia - questa è la giusta definizione - si estorcono le verità che perseguono gli inquirenti, non certamente la verità assoluta. Potrebbe essere vero che non si voleva occultare la verità in quel caso, questo però non esclude che si volessero trovare velocemente dei colpevoli a caso e non i reali colpevoli!". "Poveri ragazzi, loro hanno perso la vita, hanno sacrificato l'unica vita che avevano per garantire lo Stato e proteggere noi cittadini, e noi anziché pensare a loro parliamo dei metodi poco ortodossi che usano a volte le forze dell'ordine nei riguardi dei delinquenti", scrive Caterina, invitando tutti a non dimenticare il sacrificio dell'appuntato Salvatore Falcetta e del carabiniere Carmine Apuzzo, vittime di questa tragedia. "Non dico che si dovrebbe fare dente per dente, ma certo non riesco a provare tutto questo falso buonismo su chi non rispetta le leggi. A mio avviso noi stiamo confondendo il perdono dalla giustizia, perdonare non significa che non venga fatta giustizia, e chi sbaglia paga o in questa o nell'altra vita". C'è anche chi scrive alla nostra redazione. Chi pone altre domande, chi avanza altri sospetti. "Come mai ancora oggi si sentono casi di barbare torture per estorcere confessioni, come in certi paesi incivili?", chiede Lydia Adamo "Come mai uno Stefano Santoro s'indigna per le foto da lei pubblicate e non batte ciglio per "lo stupro della legalità" commesso dai carabinieri? La tortura è illegale in Italia, giusto? Ultimo ma non meno importante, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo sono morti si, ma siamo certi che fossero davvero innocenti? O forse erano incappati in qualcosa più grande di loro e andavano eliminati? Poi, come la storia ci ha dimostrato, tutto viene messo a tacere torturando quattro sventurati.... ". Un altro dubbio, un altro inquietante sospetto di questa torbida storia. Maurizio Macaluso
Alcamo e la strage della casermetta. Rino Giacalone il 14 luglio 2008 su liberainformazione.org. Si negano continuamente, e invece ecco che spuntano sempre i misteri e le deviazioni, mischiati alla storia di una Sicilia che non è possibile leggere in modo chiaro, per questi gialli irrisolti, per delle pagine se scritte sono state fatte sparire, o inghiottite negli archivi del «segreto di Stato», come è accaduto per la storia del bandito Giuliano (forse primo vero esempio di accordo tra mafia e settori dello Stato). Ci sono le commistioni che accompagnano la Sicilia da sempre, da quando Garibaldi sbarcò a Marsala e cercò subito i «picciotti» per sbarazzarsi dei Borboni, e la stessa cosa fecero gli americani che per occuparci fecero accordi con i «mammasantissima» di Cosa Nostra degli States e poi fecero ancora più potenti i mafiosi consegnando loro le città, continuando un rapporto fino ai giorni nostri se è vero come è vero che il super latitante Matteo Messina Denaro cercò sino agli anni ’90 aiuto negli Usa, attraverso i «re» del narcotraffico, come Rosario Naimo, per far diventare la Sicilia stato americano. In mezzo ci sono anche le storie dei tentativi di golpe, dei mafiosi che dovevano essere alleati della destra eversiva, di principi e generali, ma non se ne fece nulla perchè qualcuno a Roma dei capi del golpe chiese i nomi di chi avrebbe fatto parte dell’esercito dei mafiosi che avrebbero partecipato al colpo di stato del principe Borghese. In questa «pentola» ogni tanto ci sono episodi che emergono, che chiedono di essere riletti. Uno di questi è quello della strage della casermetta dei Carabinieri di Alcamo Marina. Era la notte del 26 gennaio 1976, la mattina successiva due agenti dell’allora «squadra politica» della questura di Palermo di scorta al segretario Msi Giorgio Almirante passando da Alcamo Marina videro il cancello aperto e la porta della stazione sfondata, diedero l’allarme dentro furono trovati i corpi di Carmine Apuzzo, carabiniere semplice, e Salvatore Falcetta, appuntato, crivellati a colpi di pistola. Al delitto di mafia pensò subito la Polizia, i Carabinieri con le loro indagini presero altre direzioni, inquadrarono il movente nella vendetta di una sorta di anarchico, Giuseppe Vesco, lo arrestarono, lui accusò altre 4 persone, poi ritrattò e disse che altri erano stati i suoi complici, prima di uccidersi in carcere. Vesco aveva fatto i nomi di Giovanni Mandalà, Giuseppe Gulotta e due minorenni, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo. Secondo il racconto di Vesco Mandalà avrebbe forzato la porta della caserma con la fiamma ossidrica, a sparare sarebbero stati Giuseppe Gulotta e Gaetano Santangelo, Ferrantelli avrebbe solo messo a soqquadro le stanze. I 4 arrestati confessarono dopo estenuanti interrogatori successivi al loro arresto avvenuto il 13 febbraio successivo all’eccidio dei carabinieri della «casermetta», ma davanti al procuratore ritrattarono, raccontarono delle torture subite e delle confessioni estorte. Vesco nel frattempo cambiava versione e assumeva ogni colpa su di se rilevando che «altri soggetti erano stati suoi correi». Fu trovato morto, suicida, in carcere. Erano trascorsi pochi mesi dalla strage e dall’arresto. Privo di una mano Vesco riuscì ad impiccarsi con una corda sistemata in una finestra della cella a due metri da terra. Erano dei balordi, questa la conclusione di un tormentato iter giudiziario, concluso da condanne, scaturite da una serie di atti contenuti in faldoni dove oggi le indagini riaperte non hanno tardato a riconoscere che ci sono elementi più per assolvere che per condannare. Giovanni Mandalà di Partinico, è uscito da questa storia perchè deceduto,Vesco come si diceva si è suicidato prima ancora di presenziare al processo di primo grado (che si era concluso con le assoluzioni per tutti tranne che per Mandalà), Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo sono fuggiti via dall’Italia e sono in Brasile al sicuro dall’estradizione (condanne definitive rispettivamente a 14 e 22 anni anche per la loro minore età all’epoca del duplice delitto), unico a finire a scontare la pena, l’ergastolo, Giuseppe Gulotta: lui ha presentato istanza di revisione del processo (con l’avvocato Pardo Cellini), indicando la persona che lo (li) scagiona, un ex brigadiere dei carabinieri che ha svelato che in quei giorni a tavolino fu deciso di incolpare quei ragazzi della morte dei due carabinieri, torturati e minacciati, costretti a confessare. È stato il quotidiano «La Stampa» e il giornalista Francesco La Licata a raccogliere il suo racconto dopo che una puntata della serie «Blu Notte» di Carlo Lucarelli, ha rilanciato i misteri di quella strage «Nel 1976 – raccontò l’ex brigadiere a La Licata – facevo parte del Nucleo Anticrimine di Napoli e fui mandato ad Alcamo per indagare sull’uccisione dei due militari. Mi porto dentro un peso che non sopporto più. E’ vero che i giovani fermati furono torturati. Io stavo lì e ho visto. A Vesco, che poi accusò gli altri, gli fecero bere acqua e sale e lo seviziarono. Fece ritrovare anche alcuni oggetti e due pistole. Ma non bastò, volevano i nomi dei complici. Anche le confessioni di questi furono ottenute in quel modo». «Ci sarebbe – svela La Licata in un suo articolo riprendendo ancora la confessione dell’ex brigadiere dell’Arma – anche una registrazione audio dove è impressa la voce dell’ufficiale che quella notte dirigeva le operazioni». Giuseppe Gulotta da tempo ormai vive in Toscana, con moglie e un figlio, ha trascorso 17 anni in carcere, da poco ha ottenuto il regime di semi libertà. la sua storia e complessivamente quella della strage è stata anche ripresa e ricostruita da una settimanale locale a Trapani, «QP» e dal giornalista Maurizio Macaluso. Gulotta pochi giorni addietro hanno riferito i quotidiani «La Stampa» e «La Sicilia» è stato sentito in procura a Trapani: ha detto ai magistrati che hanno riaperto le indagini sulla strage di non avere mai ucciso nessuno. «Mi sono commosso – ha raccontato Gulotta a La Licata per “La Stampa” – quando ho riproposto il film del mio arresto. Io che non capivo perchè mi mettevano le manette, io che venivo picchiato per confessare quello che non avevo fatto. Mi sono commosso quando ho ricordato la sentenza definitiva, coi carabinieri di Certaldo che mi sono venuti a prendere a casa. Piangevano pure loro, perchè mi conoscevano e sapevano che non avrei mai potuto commettere quei crimini. Piangevano, quando hanno dovuto strapparmi dal collo il mio bambino, che allora aveva un anno e mezzo». È partita una sorta di caccia – investigativa – su chi può avere ucciso i due carabinieri. Sui depistaggi e le torture, svelati dall’ex carabiniere, niente si può più fare, reati prescritti, ma su chi ha sparato, ancora è possibile indagare. Si stanno rileggendo vecchi atti giudiziari, ma anche verbali non proprio antichi, ce ne sono anche risalenti al 1999. Pentiti che parlando di quegli anni ’70 hanno confermato l’esistenza di piani di attacco allo Stato concordati tra mafia, eversione di destra, settori deviati dello Stato. Circostanze che non sono nuove raccontando di quell’Italia del 1976, travolta dalla cosiddetta «strategia della tensione», anni dopo si scoprirà che c’erano «poteri forti» come la massoneria, servizi segreti che servivano infedelmente lo Stato, a disposizione di politici rimasti nell’ombra, avevano stretto «patti» con uomini del terrorismo, della mafia, delle organizzazioni criminali. Uno «scambio di favori» per il quale tantissima gente è finita vittima innocente di bombe e attentati. La mafia fece parte di quel piano, dove comparve pure la figura di un principe «nero», Junio Valerio Borghese che chiamò i mafiosi per un golpe rimasto tentato. Ciò che avvenne in quei giorni di gennaio ad Alcamo sembra proprio frutto di una strategia. Vennero dapprima uccisi un sindacalista socialista, Antonio Piscitello e poi il democristiano Francesco Guarrasi; la notte dell’omicidio Piscitello, in una strada di Alcamo furono trovati anche 14 candelotti di dinamite che non esplosero per caso. Nella notte del 26 gennaio vennero trucidati i due carabinieri. Per gli omicidi Piscitello e Guarrasi nel 1977 la polizia avrebbe arrestato tre personaggi che diventeranno famosi anche per altro, Armando Bonanno, Giacomo Gambino e Giovanni Leone che nel giro di qualche anno si sarebbe scoperto essere uomini d’onore, legati a quelle cosche invischiate in delitti ancora più gravi. Leone si trovò coinvolto nel sequestro dell’esattore Luigi Corleo, imparentato con i Salvo di Salemi, i potenti esattori, rapito e mai restituito alla sua famiglia. La banda Vannutelli si scoprì essere bene in contatto con ambienti della destra eversiva. Un quadro esatto di quello che accadeva in quegli anni in provincia di Trapani lo scrisse in un rapporto, del 2 dicembre 1976, il capo della squadra Mobile Giuseppe Peri: mafia ed eversione di destra alleate, colpevoli dei crimini del tempo, forse anche dell’incidente aereo del Dc9 caduto a Montagna Longa. Nella vicenda della strage della casermetta spunta anche il nome di Peppino Impastato, il giornalista ucciso nel 1978 dalla mafia a Cinisi. I carabinieri andarono anche nella sua abitazione a fare perquisizioni cercando prove di un coinvolgimento della sinistra extraparlamentare in quella strage e da Impastato fu trovato un volantino sulla strage della casermetta e che raccontava altro, denunciava che le indagini erano apposta pilotate verso ambienti politici della sinistra, un volantino scomparso, nei faldoni del processo per la uccisione dei carabinieri Falcetta e Apuzzo non se ne trova traccia, c’è il verbale di perquisizione in casa Impastato, ma quel volantino non c’è. In fin dei conti in questa vicenda questo sembra essere il passaggio più marginale. Ce ne sono di altre cose strane, anomale, alle quali la procura di Trapani oggi sta provando a fare chiarezza. Muovendosi doppiamente in maniera cauta, per il riserbo investigativo ma anche perchè i protagonisti di questa storia sono ancora «operativi». Ci sono indagini che in questi anni hanno riproposto scenari aggiornati rispetto a quelle commistioni del 1976, il «sistema» è rimasto in piedi, magari ha cambiato funzionamento e addentellati, si può anche essere chiamato «Gladio» o qualcos’altro, può avere avuto trovato utili riferimenti nelle logge massoniche di Palermo e Trapani o anche di Mazara del Vallo, dove c’erano comunque dei «punciuti» o per i riti esoterici o per quelli mafiosi, o per tutte e due le cose. Mentre Giuseppe Gulotta è tornato in Toscana alla sua semilibertà, e Ferrantelli e Santangelo stanno in Brasile. L’ultima volta furono rintracciati dai carabinieri, alcuni anni addietro: i militari partiti apposta da Trapani pedinando un sacerdote che faceva il fattorino per conto delle loro famiglie avevano, annunciato il loro arresto poi però negato, niente estradizione. Anche allora Ferrantelli e Santangelo dissero che loro non hanno mai ucciso nessuno.
Le memorie dal carcere di Giuseppe Gulotta, "mostro" d'innocenza. Accusato ingiustamente dell'omicidio di due carabinieri, ha passato vent'anni in galera. E ora li racconta in un libro. Matteo Sacchi, Venerdì 03/05/2013, su Il Giornale. È una storia da brividi. Uno strano incrocio tra gli eventi narrati ne La colonna infame di Manzoni e il caso Dreyfus. Eppure non è accaduto nel Secolo di Ferro o nella Francia dell'Ottocento. È accaduta in Italia, in Sicilia, in pieno regime di democrazia. Ed è costata più di un ventennio di galera a un innocente, come ha stabilito una sentenza della Corte d'Appello di Reggio Calabria il 13 febbraio 2012. Ora Giuseppe Gulotta che a lungo ha dovuto convivere con l'infamia di essere considerato il mostro di Alcamo, ha deciso di raccontare (con Nicola Biondo) la propria storia in un libro prossimo all'uscita: Alkamar. La mia vita in carcere da innocente (Chiarelettere). Ecco i fatti. Il 27 gennaio 1976 ad Alcamo Marina, in provincia di Trapani, la stazione dei Carabinieri viene attaccata. Agli inquirenti la scena si presenta così: la porta della casermetta è stata abbattuta usando una fiamma ossidrica. Nelle loro brande giacciono, freddati, due giovani carabinieri, Carmine Apuzzo e l'appuntato Salvatore Falcetta. Sembra siano stati colti nel sonno, soltanto uno ha avuto un accenno di reazione. Da subito le indagini si rivelano complesse. L'attacco sembra un lavoro da professionisti, il fatto che i carabinieri siano colti nel sonno è poco spiegabile. Per non parlare del movente. Due le piste battute: quella mafiosa (l'anno prima erano stati uccisi l'assessore ai lavori pubblici di Alcamo, Francesco Paolo Guarrasi, e il consigliere comunale Antonio Piscitello) e quella dell'attacco terroristico (arrivò un comunicato di rivendicazione, subito dopo smentito dalle stesse Br). Viene spedita sul posto in maniera piuttosto informale una squadra investigativa dei carabinieri comandata da Giuseppe Russo (colonnello dei carabinieri poi ucciso dalla mafia il 28 agosto 1977 e insignito della medaglia d'oro al valor civile). Poi finisce nelle mani degli inquirenti un certo Giuseppe Vesco. È un carrozziere della zona, monco di una mano, viene trovato in possesso di armi e oggetti che sembrerebbero provenire dalla Stazione di Alcamo. La pista sembra buona e gli uomini di Russo si fanno prendere la mano. Come rivelerà, troppi anni dopo, uno di loro, Renato Olino, usano le maniere forti, molto forti. Vesco per sfuggire al dolore fa i nomi di una serie di ragazzi di Alcamo tra cui Giuseppe Gulotta. Olino non è convinto, vorrebbe attendere i riscontri della scientifica, gli altri vogliono giustizia subito, portano in caserma quelli nominati da Vesco. Secondo Gulotta, all'epoca manovale diciottenne che aveva appena fatto il concorso per entrare in Finanza, anche a loro tocca la linea dura. Ecco che cosa racconta nel libro: «Schiaffi, tre, quattro, a mano aperta... Mani coperte di guanti neri continuano a colpirmi... Il ferro freddo mi scortica la parte sinistra della faccia: è una pistola. Il clic del cane che si alza e si abbatte a vuoto». L'interrogatorio per cui non è stato fatto nessun verbale e a cui non presenzia l'avvocato dura diverse ore. Alla fine Gulotta cede: «Vi dico tutto quello che volete, basta che la smettete». Nella testa di questo ragazzino terrorizzato ciò che conta è farli smettere. Non capisce che firmare una confessione può distruggergli la vita. Quando arriva al carcere di Trapani e finalmente incontra i magistrati prova a dire la sua verità: «Lei conferma quello che ha detto a verbale?. Se ho fatto quelle dichiarazioni è perché sono stato picchiato tutta la notte». Secondo Gulotta gli rispondono: «È impossibile che per le botte si confessi un omicidio». Gli fanno una visita medica, risultano delle contusioni, ma secondo i Carabinieri purtroppo è caduto...E da questo punto in poi la storia giudiziaria di Gulotta oscilla fra la sua testimonianza iniziale, le prove labili, e la modalità in cui si sono svolti gli interrogatori. Anche perché Vesco, il testimone chiave che ha coinvolto gli altri, in carcere si suicida. Pur essendo monco riesce a impiccarsi a una grata altissima e, per non disturbare, si posiziona anche un fazzoletto in bocca. La prima sentenza della corte di Assise di Trapani assolve Gulotta per insufficienza di prove. Però è vaga sulle violenze. Per ciò che è avvenuto nella caserma di Alcamo si limita a un «critico giudizio» e parla di «maltrattamenti e irregolarità». Nel 1982 si passa alla Corte d'Appello di Palermo che ribalta la sentenza: Gulotta è condannato all'ergastolo. Si accumuleranno i processi, sino a che il 19 settembre 1990 la sentenza diventa esecutiva. Gulotta deve entrare in prigione, per lo Stato è un assassino. Per un attimo ha la tentazione di fuggire, poi rinuncia. Entra in carcere, affronta il calvario cercando di essere un detenuto modello, per uscire il prima possibile. Nel 2010 arriva la libertà vigilata. Intanto qualcuno ha dei terribili rimorsi di coscienza. È l'ex brigadiere Renato Olino. Aveva già provato a raccontare di quegli interrogatori, soprattutto di quello di Vesco. Non trovò sponda istituzionale e nemmeno in certi giornalisti, che non vollero saperne delle sue verità. Poi però sul caso torna la televisione con la trasmissione Rai Blu notte - Misteri italiani, ricostruisce la storia anche se con alcune inesattezze e Olino via web si fa avanti per raccontare. Così la magistratura di Trapani apre un'inchiesta e arriva anche il processo di revisione: il 26 gennaio 2012 il procuratore generale della Corte d'Appello di Reggio Calabria ha chiesto il proscioglimento di Giuseppe Gulotta da ogni accusa; proscioglimento raggiunto in via definitiva il 13 febbraio 2012. Sulle cause di un'indagine condotta così male si indaga ancora. Giuseppe Gulotta, che ha chiesto allo Stato un risarcimento di 69 milioni di euro, racconta di essere tornato sul luogo dove c'era la stazione dei carabinieri di Alcamo Mare. Ora li c'è un cippo per i due carabinieri morti. A loro nessuno ha ancora dato giustizia, a lui l'hanno data con 36 anni di ritardo. Anni che non torneranno più.
Stefano Santoro pagina Facebook 15 novembre 2019 alle ore 22:20 ha condiviso un link. Vesco in contatto con Curcio .Fogli con stemma delle Br trovati nelle perquisizioni ad Alcamo nel 76., lo stato maggiore delle Br a Catania un mese prima della strage di Alcamo Marina, ovvero gli uomini del sequestro Moro. Una autovettura intercettata a Cefalù con dei brigatisti. Un tentativo di attentato con uomini vestiti da carabinieri, nei pressi di Messina, dopo la strage. Puzza di Br a Cinisi. Vesco disse nelle sue lettere, che chi fece quella incursione, non aveva esperienza di guerriglia.....Fossero stati estremisti di destra ,oggi ne parlerebbero tutti i giornali e si aprirebbero fascicoli contro ignoti. Viva la democrazia sinistriota!
MISTERI CATANESI. Aureliano Buendìa Sud Press 9 Luglio 2013. Lentamente, le timide scoperte delle indagini della Magistratura da una parte e il contributo di vari autori storici dall’altra, viene emergendo il ruolo strategico della città di Catania in alcuni Misteri italiani. Una città affidabile la nostra, che tiene per decenni i segreti nel suo ventre molle, un po’ come la lava che sembra inghiottire tutto ma che talvolta invece conserva in una sorta di bolla senza distruggere. Allo stesso modo alcuni ambienti hanno saputo nascondere, coprire e ricattare grazie a verità insopportabili. D’altra parte, Catania è periferia, persino rispetto a Palermo, e qui l’afa soffoca tutto, qui lo Stato, salvo qualche episodico errore, manda funzionari levantini, annoiati, preoccupati di passare indenni sotto l’Etna per poi incassare il premio alla loro omertà.
Quali sono questi ambienti e cosa nascondono e cosa hanno avuto in cambio? Si tratta di fatti delicatissimi, per alcuni dei quali non sarebbe ancora intervenuta alcuna prescrizione, ma noi del resto ce ne occupiamo per quel piacere della verità che coltiviamo non come esteti ma come cittadini che non dimenticano, come debito che manteniamo nei confronti di quanti hanno pagato con la vita. In questo pezzo ci occuperemo del delitto Moro e prima ancora dei contatti delle Brigate Rosse a Catania. Pochissimi sanno che il 12 dicembre del 1975 presso il centrale Hotel Costa – in via Etnea – alloggiavano Giovanna Currò con il suo compagno. In verità si trattava di Mario Moretti, capo storico delle BR, e della sua compagna Barbara Balzerani.
Cosa facevano i due brigatisti a Catania? Sono oramai centinaia i documenti che attestano come gli esponenti delle BR abbiano in diverse occasioni “preso un caffè” con i rappresentanti di Cosa Nostra e Catania aveva la sua influente Famiglia, della quale non a caso si ricorderà il Prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa riprendendo la sua attività svolta come Generale e come responsabile delle carceri italiane. Sempre Moretti tornerà a Catania, nelle settimane successive, questa volta alloggiando all’Hotel Jolly di Catania, e cioè a 200 metri dal Palazzo di Giustizia e dal Comando provinciale dei Carabinieri. A Catania operava già un Nucleo di Lotta Continua, che era stato organizzato fino al 1976 da Franca Fossati, appositamente trasferitasi nella nostra città appunto per organizzare il gruppo etneo ed è noto che alcuni militanti di Lotta Continua passeranno alle Brigate Rosse proprio in quegli anni. Allo stesso modo sono più o meno noti gli spostamenti che la Faranda, storica carceriera brigatista, poi dissociatasi e che pare si sia opposta alla sentenza di morte nei confronti di Aldo Moro, effettuava da e verso Catania, godendo di una certa libertà. Nei 55 giorni del rapimento di Aldo Moro a Catania succedeva qualcosa di particolarmente grave, su cui non si è mai fatta piena luce, e cioè, mentre gli uomini di Dalla Chiesa si occupavano di prendere contatto nelle carceri con quei detenuti, anche appartenenti a Cosa Nostra, che potessero collaborare con lo Stato per dare informazioni utili alla liberazione dello statista e la Mafia da parte sua non vedeva l’ora di rendersi utile, agli uni (chi trattava) e agli altri (che volevano morto l’On. Moro), il 3 aprile – 16 giorni dopo la strage di via Fani ed in pieno rapimento – ignoti gambizzavano il Comandante delle guardie carcerarie di piazza Lanza. Qualcuno, ed anche chi scrive, ricorda nitidamente l’arrivo dei Carabinieri in assetto antisommossa entrare in forze dentro la Casa circondariale mentre altri uomini cinturavano letteralmente piazza Lanza e le vie limitrofe.
Cosa era accaduto? Cosa si cercava? Chi era detenuto a Catania in quel momento? Qualcuno voleva interrompere quel tentativo trattativista? Non risulta, di contro, che mai collaboratore di giustizia abbia chiarito la circostanza, probabilmente trattandosi di questione troppo alta e delicata per essere trattata da pentiti comunque di piccolo cabotaggio ed in ogni caso terrorizzati per le conseguenze. A Catania, si vivevano gli anni dello splendore dei Cavalieri mentre la Democrazia Cristiana – sul libro paga dei primi – era targata Andreotti, con il suo luogotenente l’on. Nino Drago, ed era fermamente contraria alla trattativa. Erano gli anni in cui un capomafia in piazza Università, alla fine di un comizio si era permesso, e si poteva permettere, di schiaffeggiare ostentatamente il rappresentante andreottiano e ciò accadeva senza che alcuno tra le forze dell’ordine osasse intervenire. Santapaola completava la sua scalata, eliminando di lì a poco proprio quel capomafia schiaffeggiatore. Pippo Fava osservava e scriveva, e sarebbe interessante indagare anche in questa direzione, su cosa cioè il coraggioso giornalista avesse scoperto della complicità tra mafiosi e settori dello Stato, in quella che sarebbe stata la madre di tutte le trattative ed anche di quella più scellerata che si sarebbe consumata 15 anni dopo. L’omicidio di Fava fu un fatto eclatante che non portò bene ai mafiosi e quindi non si può escludere che in quel 5 di gennaio del 1984 – siamo a meno di 6 anni dall’omicidio Moro, in piena celebrazione di uno dei tanti processi su quel mistero della Repubblica (il processo era cominciato il 14 aprile 1982), ad appena due anni dalla eliminazione “mafiosa” (la pista catanese?) del Prefetto Dalla Chiesa – qualcuno abbia fatto un favore a qualcun altro, secondo la teoria dei cosiddetti cerchi concentrici. I Siciliani di Fava, di Orioles e degli altri "ragazzi", scrivevano di Ciancimino, degli esattori di Salemi, dei rapporti con i Cavalieri del Lavoro; Calogero Mannino diventava segretario regionale della DC, Rocco Chinnici insisteva sul terzo livello. Il cav. Costanzo e Mario Ciancio Sanfilippo nel 1981 acquistavano il 16% del Giornale di Sicilia. Incredibile, quanti uomini della trattativa si incontrino già in quegli anni. Tornando all’anno del sequestro Moro – il 1978 – dobbiamo registrare un altro episodio inquietante, che assume i contorni di un messaggio probabilmente indirizzato alle alte sfere della Politica nazionale: il 14 di settembre di quell’annus orribilis diversi colpi di pistola attingono il segretario della federazione socialista di Catania. I socialisti di Craxi erano stati favorevoli alla trattativa per liberare l’on. Aldo Moro e Craxi aveva ricevuto dal Gen. Dalla Chiesa informazioni riservatissime sul rapporto delle BR a Catania con ambienti malavitosi organizzati e con i potentati cittadini che si apprestavano a conquistare l’Italia. Qualche mese dopo Salvo Andò veniva eletto per la prima volta alla Camera dei Deputati, rompendo il predominio democristiano che in Sicilia aveva visto fino ad allora i socialisti di Capria subalterni agli andreottiani. Interessante, sulle relazioni pericolose mafia-terrorismo, saranno anche le rivelazioni di un funzionario di polizia come Giovanni Palagonia, mentre più di tutti al cerchio magico catanese si avvicinerà, dopo Chinnici, Falcone e Borsellino, il PM Carlo Palermo, scampato all’attentato in cui persero la vita una mamma con i suoi due bambini trovatisi nel momento sbagliato nel luogo sbagliato. Catania, quindi, in quei giorni del rapimento Moro aveva il suo ruolo e le inconfessabili trame di quei giorni testimoniano il livello dei contatti catanesi, la commistione tra apparati dello Stato e crimine organizzato, il ruolo di alcuni imprenditori che avevano mostrato appoggi ed ambizioni smisurate, osservatori che avevano forse intuito tutto e che sarebbero caduti negli anni successivi sotto i colpi di quell’Anti Stato mentre altri avrebbero fatto e, pensiamo, alcuni continuano a fare carriera nelle Istituzioni. D’altra parte sono passati appena 35 anni, un tempo breve per i nostri longevi politici. Certi segreti, fino a tanto che rimangono tali, pesano sulla coscienza di una città e sul suo futuro come macigni, ciclopi di lava che tutto coprono ma non distruggono, perché i segreti come la lava si ingrottano. E tutto scorre. Le Brigate Rosse a Catania, i contatti con la Mafia, i Cavalieri e Dalla Chiesa…Autore Aureliano Buendìa
Stefano Santoro pagina Facebook 14 novembre 2019 alle ore 19:20 ha condiviso un post. Fabio Lombardo è il figlio del maresciallo Lombardo trovato morto nella sua auto, all'interno del cortile, del comando regionale dei carabinieri a Palermo. Alcuni giorni prima era stato attaccato dal sindaco Leo Luca Orlando, nello stesso modo, come era stato fatto con Falcone. Nell'auto del sottufficiale non c'era traccia di polvere da sparo. Si parlò di suicidio.
Fabio Lombardo pagina facebook 14 novembre 2019 alle ore 15:15. Negli ultimi 24 anni ho incontrato tanti giornalisti, la stragrande maggioranza dei lecchini e vigliacchi. Tra questi, 3 palermitani sono stati codardi: Salvo Palazzolo (La Repubblica ), una volta ha scritto un pezzo sulla borsa di mio padre scomparsa dall'auto. Ricordo di averlo incontrato dopo qualche mese e gli dissi: Salvo, perché non hai più scritto? Perché non ti sei fatto più sentire? Risposta: "Da quando ho scritto quell'articolo, i giudici non mi fanno più entrare negli uffici....quindi DEVO LAVORARE. Ah bene!
Salvo Sottile, dopo il 4 marzo 95 chiamava decine di volte al giorno perché voleva notizie, dicendo che era un amico e che il caso lo aveva toccato tanto....Infatti! Qualche anno fa ha inviato un suo giornalista per fare un servizio sulle irregolarità del caso Lombardo. La puntata non andò mai in onda. Perché? Un mistero.
Infine la nostra iena palermitana Ismaele La Vardera, direi più un gattino che gioca a fare il giornalista. Quest'estate mi contatta dicendo che vuole realizzare un servizio sul caso Lombardo, come quello Cucchi o Rossi. Intanto quando parlavo con lui mi sembrava di avere di fronte un bambino, perché, vista l'età, non conosceva i personaggi e diceva sempre: ma vero? Stai scherzando? Io penso che la redazione delle Iene non sapeva nulla su questa sua iniziativa. Chiedeva documenti particolari, nomi particolari...per fare cosa? Mi viene da ridere quando mi trovo giornalisti come questi. Un altro giornalista palermitano mi ha intervistato ma, prima di iniziare la conversazione gli chiesi se potevo parlare di Orlando. Risposta: No perché a Palermo ci devo lavorare....e Minchia! I giornalisti che hanno seriamente affrontato questa storia hanno dovuto pagare con la giustizia italiana... E ci tengo a ricordare Daniela Pellicanò, Giammarco Chiocci e Roberta Ruscica.
Stefano Santoro 13 novembre 2019 alle ore 06:10 pagina Facebook ha condiviso un link. Ecco chi è NICOLA BIONDO, colui il quale chiama bestie in divisa i carabinieri di Alcamo , ecco a chi ha affidato Giuseppe Gulotta, la stesura del suo libro. Leggete l'articolo. Mitrokhin, “palestra” per manipolatori occulti Il caso Nicola Biondo di Gabriele Paradisi – Gian Paolo Pelizzaro – Sextus Empiricus il 24 ottobre 2011. La Commissione parlamentare d’inchiesta sul dossier Mitrokhin ha fatto da palestra ad alcuni manipolatori più o meno occulti. Come abbiamo più volte scritto, il caso più eclatante di manipolazioni multiple riguarda il “Documento conclusivo” di minoranza, presentato il 23 marzo 2006 dai commissari di centrosinistra. A quella relazione lavorò un agguerrito pool di consulenti, composto da magistrati, storici, ricercatori, giornalisti e aspiranti tali, fra cui tale Nicola Biondo. Durante i lavori della Commissione, Biondo ha vissuto in una sorta di totale anonimato. Raramente è uscito allo scoperto, mai è stato delegato a svolgere attività istruttorie come ricerche d’archivio, in Italia o all’estero, rare le sue comparsate durante le audizioni, sporadiche le sue presenze a Palazzo San Macuto per lo svolgimento di quelle attività di studio e lettura degli atti. Questa sorta di apatia, però, ha subito uno scossone nel luglio del 2005 quando Gian Paolo Pelizzaro, dopo 25 anni di totale segreto, ha trovato negli atti della Questura di Bologna il nome di Thomas Kram, ossia del terrorista tedesco presente in città il giorno della strage. Da quel momento, Biondo ha ritrovato il fuoco sacro del lavoro di ricercatore, vestendo immediatamente i panni di un inflessibile e zelante investigatore. Ha iniziato ad estrarre copia degli atti depositati in Commissione, ha fatto le ore piccole a leggere, studiare e congetturare. Si è documentato, a modo suo, facendo una sorta di corso accelerato sulla storia del superterrorista Carlos e della sua organizzazione “Separat”, scaricando da internet intere rassegne stampa e quant’altro. Da un giorno all’altro, si è trasformato in un “grande esperto” di terrorismo internazionale e in particolare di quello di matrice arabo-palestinese (per il quale ha tradito una “passione” molto speciale), capace di dispensare – a destra e a manca – patenti e certificati di attendibilità di questo o quel documento, su questa o quella ricostruzione dei fatti. Il personaggio, dall’alto della sua profonda conoscenza e suprema competenza, ha iniziato ad esprimere giudizi e a sparare sentenze su questo o quell’argomento: l’importante è che si parlasse di Carlos e del suo ipotetico ruolo (come capo di “Separat”) nell’organizzazione della strage alla stazione di Bologna. Obiettivo: demolire, anche con informazioni e notizie fasulle, ogni ipotesi di collegamento tra il gruppo del terrorista venezuelano, il terrorismo di matrice arabo-palestinese e l’attentato del 2 agosto 1980. Lentamente, ma inesorabilmente Biondo, da anonimo e svogliato collaboratore della Mitrokhin, si è tramutato in un infaticabile censore e castigatore. Uno dei più severi e spietati. Meglio tardi che mai, si potrebbe obiettare. Il suo nome è venuto fuori prepotentemente un anno dopo la scoperta del nome e del ruolo di Kram a Bologna e quattro mesi dopo la formale chiusura dei lavori della Commissione Mitrokhin, in due articoli-fotocopia pubblicati il 28 luglio del 2006 dai quotidiani di sinistra Liberazione e l’Unità, basati su un medesimo elaborato, proprio a firma Biondo. Gli articoli erano titolati “2 agosto strage di Bologna: smentita la pista araba” (Saverio Ferrari, Liberazione”) e “Quanti depistaggi per coprire la strage fascista” (Vincenzo Vasile, l’Unità) e cercavano, partendo proprio dalle avventurose “ricostruzioni” di Biondo, di dimostrare l’esistenza di un fantomatico piano da parte di alcuni esponenti di An per depistare (non si sa cosa, visto che su Bologna dal 1995 c’è il giudicato della Cassazione), dalla matrice fascista della strage. In uno degli articoli si leggevano frasi di questo tenore: «Smascherato l’ultimo depistaggio di Alleanza nazionale costruito con documenti mai esistiti». Non solo temerari, ma pericolosamente superficiali. Ebbene, grazie a Biondo e alle sue teorie, i direttori responsabili dei due quotidiani, così come gli estensori degli articoli, sono stati tutti querelati e rinviati a giudizio per diffamazione aggravata dal mezzo stampa. C’è un processo in corso davanti al Tribunale Penale di Roma e la prossima udienza dibattimentale è fissata al 7 novembre 2011 (per un approfondimento sulla vicenda, si veda anche l’articolo “Un omicidio senza colpevoli”, LiberoReporter, febbraio 2011). Anche con un certo coraggio (vista la palese violazione delle norme e delle regole sulla tenuta del segreto e sulla riservatezza alle quali si devono attenere coloro che hanno fatto parte delle commissioni d’inchiesta), Biondo è citato come teste da parte degli imputati. Vedremo cosa dirà, sotto giuramento, il nostro castigatore. Intanto, abbiamo scoperto un altro prezioso riscontro al metodo scientifico impiegato da Biondo per svolgere il suo lavoro di ricercatore attento e scrupoloso. Abbiamo così preso in esame l’edizione italiana del libro di Emmanuel Amara, “Abbiamo ucciso Aldo Moro. Dopo 30 anni un protagonista esce dall’ombra” (Cooper, febbraio 2008, pp. 205), con introduzione di Giovanni Pellegrino, traduzione di Alice Volpi e curato proprio da Nicola Biondo. Per apprezzare la qualità e la raffinatezza dei suoi interventi, è però necessario procurarsi l’edizione originale francese del libro di Amara, “Nous avons tué Aldo Moro” (Patrick Robin Éditions, novembre 2006, pp. 175). Mettendo a confronto i due testi si rileva una serie impressionante di modifiche che spesso cambiano il senso del discorso. Interventi, questi, che non possono certo essere imputati alla traduzione. Volendo farne una dettagliata classificazione, possiamo riconoscere:
1. L’aggiunta di 46 note a pie’ di pagina, intervento in apparenza migliorativo, ma non segnalato come tale (nel testo originale francese non vi è infatti alcuna nota).
2. L’eliminazione di brani (significativa ci sembra la soppressione delle cinque pagine di testo con le dichiarazioni di Giulio Andreotti sul caso Gladio dell’ottobre 1990).
3. Traduzioni modificate mediante aggiunte o sottrazioni di parole o manipolazioni di testo.
4. Trasformazioni di parti di testo virgolettate (ossia citazioni degli intervistati) in brani apparentemente attribuiti all’autore (ossia Amara).
Va dato atto che Biondo, a pagina 14, ha avuto l’accortezza di preavvisare i lettori con una dichiarazione pedagogico-programmatica: «La versione originale di questo volume ha subito alcune modifiche nell’edizione italiana. Ciò è dipeso dalla necessità di rendere il testo quanto più comprensibile a coloro che non hanno vissuto direttamente quella storia e a chi l’ha dimenticata. Altre modifiche si sono rese necessarie a causa dell’emergere di documenti e testimonianze successive alla pubblicazione dell’opera in Francia». Il lettore dell’edizione italiana non è tuttavia in grado di identificare nessuna delle modifiche apportate dal curatore. Volendo anche seguire il ragionamento di Biondo (excusatio non petita?), non si capisce nemmeno quali siano i nuovi documenti emersi tra la pubblicazione in Francia del lavoro di Amara (novembre 2006) e la pubblicazione in Italia dell’edizione curata da Biondo (febbraio 2008). Ad ogni modo, veniamo al dunque per fare apprezzare alcuni eclatanti e macroscopici esempi di “chirurgia giornalistica”, veri e propri “trapianti multipli” eseguiti da quel ligio e solerte “gendarme della memoria” di Nicola Biondo. Cerchiamo ad esempio di verificare cosa c’era nel testo originale francese di così poco fruibile per il pubblico italiano. Presto detto: c’erano alcuni “organi” decisamente corrotti e impresentabili che andavano assolutamente e tempestivamente rimossi e sostituiti con organi “sani”. Qui di seguito alcuni esempi.
Testo originale edizione francese
Testo manipolato edizione italiana
[p. 15] “L’OLP de Yasser Arafat fournit des armes de tous calibres aux Brigades rouges et le magistrat [Ferdinando Imposimato] y voit également une connexion entre le KGB et les brigadistes.”
[traduzione] “L’OLP di Yasser Arafat fornisce armi di tutti i calibri alle Brigate rosse e il magistrato [Ferdinando Imposimato] vede anche una connessione tra il KGB e i brigatisti.”
[p. 31] “Una fazione dell’Olp di Yasser Arafat riforniva le Brigate rosse di armi di ogni calibro e il magistrato [Ferdinando Imposimato] si chiede se attraverso questi rapporti accertati le Br siano entrate in contatto con i servizi segreti di altri Paesi.”
Subdolo intervento di sublime maestria. L’Olp di Yasser Arafat, icona della sinistra fin dagli anni Sessanta, non poteva certo essere citata e messa sul banco degli imputati come responsabile dei traffici di armi con le Brigate rosse. Quindi era meglio coinvolgere qualche imprecisata fazione palestinese, magari eretica ma pur sempre in termini generici, senza calcare la mano su Arafat. Poi, la certezza di un magistrato [“che vede connessioni”] si trasforma in una semplice domanda [“si chiede se esistano connessioni”]. Ma il finale indubbiamente ha qualcosa di straordinario, di funambolico. Il famigerato Kgb, che però dobbiamo ricordare è stato pur sempre il potente servizio segreto della Grande Madre Sovietica “sol dell’avvenire”, è eliminato dal testo e soppiantato da più rassicuranti e imprecisati “servizi di altri Paesi” (quali poi? non è dato saperlo), con la speranza che nella testa di un lettore qualsiasi possa spuntare anche l’idea della Cia, perché no. Ora viene da domandarsi se l’autore del libro, Amara, sia stato consultato e se abbia concordato con Biondo queste manipolazioni che, da un punto di vista tecnico, alterano in profondità il significato originale. Biondo nello stesso libro si è adoperato anche in difesa di un’altra “sacra icona” della sinistra, ovvero il mitico Sessantotto. In questo caso il trapianto ha comportato anche un leggero spostamento temporale.
Testo originale edizione francese
Testo manipolato edizione italiana
[p. 29] “Depuis la fin des années 60, L’Italie est plongée dans le chaos”.
[traduzione] “Sin dalla fine degli anni Sessanta, l’Italia è immersa nel caos”.
[p. 50] “Dalla metà degli anni Settanta l’Italia è piombata nel caos”. Tutto questo non può essere derubricato come un banale caso di (scorretta o errata) esegesi. È qualcos’altro. Nasconde dell’altro. Ha altre e più inquietanti implicazioni. Il mettere mano ai testi, ai documenti, manipolare il contenuto, alterare il loro significato è un’attività non casuale, non banale, non innocente. È un’attività che ha delle finalità. Tutto questo nasconde una volontà e un movente. Tutto questo deve avere un perché. Ciò che stupisce e inquieta è l’assoluta mancanza di rispetto del dato reale. In Italia, c’è un piccolo esercito di “gendarmi della memoria” che lavora per imbrogliare, occultare e manipolare i fatti. C’è ancora chi, a distanza di 22 anni dalla caduta del Muro di Berlino e dal crollo dei regimi dell’Est, teme la verità come fosse un morbo mortale per la coscienza collettiva. Per questi signori, cresciuti nelle menzogne della propaganda ideologica, la verità deve essere funzionale al dato politico. Altrimenti va estirpata come una pianta malata.
Pillole di saggezza «La cultura, la lingua, la forma mentis del falsario finiscono sempre per fare capolino, anche nelle più sagaci fabbricazioni». (Luciano Canfora, “Il viaggio di Artemidoro”, Rizzoli, Milano 2010, pp. 313). (Dal nostro portale tematico segretidistato.it)
Stefano Santoro pagina facebook 27 ottobre 2019 alle ore 15:09. Il movente, solo il movente resta il mistero sulla morte di Salvatore e Carmine. Di recente ho appreso ,da fonte autorevole, che in Calabria la stessa notte, in una casermetta di campagna , un plotone di carabinieri era pronto ad affrontare una incursione di alcuni terroristi. Non accadde nulla, o meglio, una strage avvenne ad Alcamo Marina, e quei carabinieri si spostarono ad Alcamo per i rastrellamenti. Rimane il mistero sulla figura di Giuseppe Vesco, i suoi rapporti con i Nap, le sue lettere inviate al più grande anarchico italiano, Alfredo Maria Bonanno, che non solo pubblicò le lettere sulla rivista Anarchismo, ma commentò il "fatto" . Perché Bonanno le pubblica , e ne trae spunto per esprimere le sue idee , e perché Vesco fa riferimento a Sansone ,ex brigatista e ai compagni ? Chi conosceva Vesco, nell'ambiente anarchico? Siamo certi che non aveva una preparazione letteraria, anarchica ideologica, tale , da non poter scrivere quelle lettere ? Perché Giuseppe Vesco , tentò di arruolare ad Alcamo, suoi coetanei , proponendo una lotta di classe (vedi intervista nel dossier Ammazzaru du sbirri) . È chiaro che i carabinieri non approfondirono all'epoca, la figura di Vesco . Quali soggetti , quali mandanti, o quali complici Vesco coprì durante le sue rivelazioni ? Perché i carabinieri si spinsero fino a Cinisi, a casa di Peppino Impastato , dopo aver perquisito attivisti di sinistra e di destra , nel territorio tra Alcamo e Castellammare ? Chi aveva l'interesse di "suicidarlo" ? Esiste ancora oggi qualcuno, che potrebbe dare risposte a queste domande ? Voi che leggete come al solito rimarrete muti , si dice in gergo alcamese..."mi fazzu lu me filaru". Siamo un popolo a cui hanno imposto una cultura del mutismo, dinanzi a certe situazioni. La libertà di ogni uomo, è anche partecipazione, senza la paura di dover esprimere la propria opinione. Questa società d'altronde, ci ha lasciato solo la libertà di opinioni, e poco, pochissimo potere decisionale sulla vita pubblica. Grazie per la lettura.
· Il patto di non belligeranza tra i Servizi italiani e quelli palestinesi.
Fabio Martini per “la Stampa” il 31 ottobre 2019. Tanti segreti italiani, a cominciare dall' inesauribile caso Moro, si sono puntualmente incagliati sul segreto di Stato che per decenni ha coperto il patto di non belligeranza tra i Servizi italiani e quelli palestinesi. Basato su uno scambio indicibile: la promessa palestinese a non realizzare attentati in Italia, in cambio della libertà di trasporto di armi sul territorio nazionale. Ma a forza di scavare, si sta scoprendo che all' ombra di quel patto si sono consumati alcuni misteri italiani: la scomparsa in Libano di due giornalisti italiani, la strage alla Stazione di Bologna, ma anche il ruolo delle fazioni palestinesi nella trattativa per liberare Moro, prima disponibili ad attivare la propria "rete", poi dileguate in un batter di ciglia. I documenti desecretati Un contributo decisivo nel focalizzare gli effetti di quel patto, passato alla storia come "lodo Moro", lo ha dato la Commissione Moro 2, che in quattro anni di lavoro (conclusi con irrituale voto unanime della Camera) ha scelto di avvalersi di migliaia di documenti desecretati dagli archivi dei Servizi italiani, di nuove prove di Polizia scientifica e Ris dei Carabinieri, di testimonianze mai attivate. Una gran quantità di "fili scoperti" sono ora riconnessi nella seconda edizione del libro "Moro, il caso non è chiuso. La verità non detta", scritto da Giuseppe Fioroni, già Presidente della Commissione e da Maria Antonietta Calabrò, per molti anni giornalista di giudiziaria al Corriere della sera. Durante un' audizione davanti alla Commissione Moro sul tema dei traffici di armi tra palestinesi e Br, l' ex pm Giancarlo Armati ha lasciato "esterrefatti" i commissari, raccontando gli intrecci occulti tra lo Stato italiano e i palestinesi. Armati ritiene esista la "prova" che sia stato il Fronte di Liberazione della Palestina di George Habbash ad uccidere a Beirut i due giornalisti italiani Italo Toni e Graziella De Palo, che in un articolo aveva scritto: «La strage di via Fani è stata compiuta con armi italiane destinate all' Egitto e rientrate per vie tortuose in patria». Nel 1980 i due giornalisti arrivano a Beirut per indagare sui traffici di armi e scompaiono immediatamente. In un rapporto scritto per Armati, l' allora ambasciatore in Libano Stefano D' Andrea indicò fatti e ricostruì come nella sua ambasciata telex cifrati venissero passati al colonnello Giovannone, che da garante del patto con i palestinesi, li avvisava su ogni grana che li riguardasse. Ma non basta. Armati ha rivelato che dopo aver raccolto indizi per emettere un mandato di cattura contro Habbash, si presentò dal giudice istruttore Squillante, «che cominciò a saltare sulla sedia» e disse: «No, gli elementi non sono sufficienti!».
Dopo il rapimento dello statista. Dopo il rapimento di Moro, marzo '78, i palestinesi offrono collaborazione alle autorità italiane. Il canale individuato è Wadi Haddad, un capo palestinese a Berlino est, organico a Stasi e Kgb. Ma Haddad è ucciso senza che i Servizi dell' Est lo proteggano. Il ministro dell' Interno Cossiga - conoscendo il "lodo Moro" - capisce che una collaborazione troppo stretta con i palestinesi può diventare pericolosa e lascia cadere una richiesta di incontro avanzata da Nemer Hammad, uomo di Arafat in Italia. Ma il 21 giugno, con Moro appena ucciso, comunicazione «segretissima» di Giovannone: le Br hanno consegnato «personalmente ad Habbash» copia delle dichiarazioni rese dal leader Dc in prigionia su questioni di interesse palestinese. Si trattava del famoso Lodo, che i palestinesi volevano a tutti i costi secretare? E' molto probabile. Anni dopo Arafat ha scritto nelle sue memorie: il "Lodo", nel 1973, lo sottoscrisse Andreotti, non Moro. In merito alla strage alla Stazione di Bologna del 1980 (attribuita a terroristi neri e servizi deviati), di recente, tra macerie dimenticate per anni, è stato scoperto un «interruttore artigianale» possibile innesco per l' esplosione, «simile a quello dei tergicristalli di un' auto», incompatibile con attentatori professionali come i Servizi, pur deviati. Una scoperta che fa tornare d' attualità la tesi di Francesco Cossiga di un «trasporto finito male della "resistenza" palestinese». Nel libro di Calabrò e Fioroni - edito da Lindau e che punta a superare quella "verità accettabile" frutto di un compromesso tra gli apparati dello Stato e i brigatisti - un capitolo riguarda Alessio Casimirri, «figlio del numero due della Sala stampa vaticana per 30 anni, l' unico brigatista, che pur condannato a sei ergastoli, non ha scontato un giorno di carcere. Da anni vive indisturbato in Nicaragua, il Paese nel quale approdò un miliardo di dollari sottratti al Banco Ambrosiano» e dove Maurizio Gelli, figlio di Licio, è stato nominato chargé d' affaires dell' ambasciata nicaraguense in Uruguay. Casimirri ha confidato alcune delle sue reti di protezione a un agente dei Servizi italiani che lo aveva agganciato. Raccontò che la sua fuga dall' Italia fu aiutata dal Kgb. Questo e altro stava raccontando Casimirri, quando tutto precipitò. Il 16 ottobre 1993, l' Unità sparò la notizia dell' intenzione di Casimirri di vuotare il sacco. Come ha raccontato alla Commissione Carlo Parolisi, allora agente Sisde: «Eravamo a un passo dal farlo rientrare in Italia, quel maledetto scoop fece saltare tutto».
· Sequestro Moro: le storie dei cinque uomini uccisi dalle Brigate Rosse.
Dai delitti delle Br alle trame della P2: la storia italiana negli archivi del tribunale di Milano. Nell'ufficio corpi di reato sono custoditi i volantini delle Br, i nastri con le telefonate minatorie a Giorgio Ambrosoli, la bici del terrorista Alunni e tantissimi documenti legati alle inchieste sugli anni di Piombo. Massimo Pisa il 07 luglio 2019 su La Repubblica. Il pacco 51186 è alto e largo come una risma di carta. E quella contiene, grosso modo. Volantini, appena più di un migliaio: "nr. 320 rinvenuti in data 25.4.78 alle ore 7,00 in piazza S.Babila; nr. 188 in Piazza Beccaria...". Così usava allora, con le rivendicazioni degli omicidi delle Brigate Rosse lasciate a mazzi in vari punti della città. Per dimostrare, anche in questo modo, che loro - i brigatisti - la città la controllavano e si muovevano come volevano. In quel mattino di martedì, con Milano e l'Italia appese da quaranta giorni alle sorti di Aldo Moro, l'omicidio del maresciallo Francesco Di Cataldo della Penitenziaria di San Vittore era già vecchio di cinque giorni, già dimenticato. Quei deliri con la stella a cinque punte lo additavano come "torturatore" della colonna Walter Alasia. Non era vero, lo sapevano soprattutto i detenuti. Digos, carabinieri e vigili raccolsero quei 1.025 fogli. Divennero un unico corpo di reato da conservare fino al processo. Divennero questo pacco ancora annodato con lo spago e sigillato a piombo, con l'elenco del contenuto battuto a macchina in puro "poliziottese", che dorme da quarantun'anni con migliaia di altri reperti nella stanza quattro di uno dei corridoi dell'Ufficio corpi di reato del tribunale. Due scaffali enormi, sono quelli su cui sono appoggiati i reperti degli Anni di piombo. I pezzi superstiti. Quelli non ancora reclamati da nessuno, non restituiti agli aventi diritto, non ancora consegnati a un museo, a una fondazione, alla storia. Giacciono, affidati alle metodiche cure del magistrato Alfredo Nosenzo, del funzionario Giannino Talarico e della mezza dozzina di impiegati chiamati a gestire enormi spazi e volumi di oggetti per contro del presidente del tribunale, Roberto Bichi. Questo pezzettino di archivio è quello storicamente più prezioso. Di qui si dice che sia transitato per anni l'originale della scheda di affiliazione di Silvio Berlusconi alla Loggia P2. Qui, di certo, di quell'intreccio infernale di massoneria, poteri deviati e criminalità che marchiò la storia d'Italia, sono custodite le voci. Reperto 56979: "una cassetta con nastro registrato della prima e della seconda telefonata minatoria a Enrico Cuccia il 28/ 3/ 1980; una cassetta con nastro registrato della telefonata minatoria a Giorgio Ambrosoli il 9/1/1979". L'ombra di Michele Sindona e di quel milieu atlantico e cattolico, che travolgerà la vita dell'eroe borghese e sfiorerà quella del gran capo di Mediobanca. Busta 55129: altre due telefonate di avvertimento a Cuccia e Ambrosoli, e una piantina di Milano sequestrata a William J. Aricò, il killer mafioso dell'avvocato milanese assoldato da Sindona. Plico 54746: agenda, rubrica e corrispondenza sequestrate alla Giole di Castiglion Fibocchi, la fabbrica di camicie di Licio Gelli che di quelle trame era il sommo tessitore. Pacchi numero 57055 e 57061, con le firme in calce dei giudici istruttori Giuliano Turone e Gherardo Colombo: foto e negativi portati via da Villa Wanda, sempre in quel fatidico 17 marzo 1981, il giorno in cui i vertici dello Stato compromessi con grembiuli e compassi cominciarono a tremare. E ancora, dagli armadi e dai registri originali del tribunale, catalogati a penna e con quelle antiche etichette battute a piombo, riaffiorano documenti bancari, schede, biglietti: fonti di prova che entrarono in quei processi e da allora sono in attesa di destinazione. Ma almeno, adesso, hanno un loro posto. "Per decenni - spiegano all'Ufficio - in questi corridoi e nelle stanze ogni scaffale era stracolmo di materiale lasciato lì senza nessun criterio. In alcuni ambienti non si poteva nemmeno entrare". L'idea, spiega Nosenzo, è "di ragionare tra qualche mese con Archivi e fondazioni pubbliche per capire cosa fare di questo materiale". Ritroverebbero una casa le videocassette di Mistero Buffo e delle altre rappresentazioni teatrali di Dario Fo trasmesse in tv, che qualche zelante ufficiale periodicamente registrava in caso di futura denuncia. Ritroverebbe un suo spazio la Legnano nera col cestello e "col freno posteriore rotto" (ricorda il cartellino) portata via il 13 settembre 1978 dal covo di via Negroli di " Massimo Turicchia", nome di Corrado Alunni, ex fondatore delle Br e ideatore delle Formazioni Comuniste Combattenti. Sarebbero visibili ai feticisti del genere le macchine da scrivere e i ciclostile portati via dalle varie basi del terrorismo rosso. Le valigie con gli striscioni originali che venivano appese nelle fabbriche dai fiancheggiatori: alla Breda, alla Pirelli, alla Magneti Marelli. Il 759 volantini con la rivendicazione del sequestro del generale statunitense Lee Dozier, ritrovate nel 1982 in un appartamento di via Verga. I nastri dei sequestratori di Renzo Sandrucci, le telefonate dei killer di Prima Linea. Passato remoto, vicinissimo, ancora inciso nella carne della città.
Sequestro Moro: le storie dei cinque uomini uccisi dalle Brigate Rosse. Poliziotti e carabinieri con storie simili. Cinque ritratti nell’Italia ai tempi bui del terrorismo, scrive Giovanni Belfiori il 16 marzo 2019 su Democratica. Ci sono vittime di serie A, di serie B e anche di serie C. Quel 16 marzo 1978 i cinque uomini della scorta di Aldo Moro furono massacrati in via Fani senza pietà dai terroristi delle Brigate Rosse, ma nelle commemorazioni, nei ricordi del rapimento dello statista democristiano, rischiano di passare inosservati, quasi fossero una nota a margine. Gli stessi terroristi, oggi liberi di parlare, di rilasciare interviste dalle loro case, non fanno menzione di quei cinque uomini trucidati, come se si fosse trattato non di esseri umani, ma di oggetti da eliminare sul percorso della ‘rivoluzione’. Claudio Magris, in un editoriale sul 40esimo anniversario agguato di via Fani intitolato significativamente “Le vittime di terza categoria”, scriveva: «I tre poliziotti e i due carabinieri scannati, e come loro innumerevoli uomini e donne senza nome bestialmente massacrati, non trovano posto nella mente, nel cuore, nella memoria, quasi non fossero uomini come chi ha un nome o un ruolo un po` più noti. Ogni tanto si ricordano quegli agenti ma assai flebilmente; ad esempio non ho sentito alcuna loro menzione in una delle recenti trasmissioni televisive su quegli eventi. Restano vittime di terza classe».
Agguato di via Fani: gli uomini della scorta di Aldo Moro. La scorta armata, composta da cinque agenti dei famigerati Corpi Speciali, è stata completamente annientata (Dal comunicato n. 1 delle Brigate Rosse, 18 marzo 1978)
Chi sono, dunque, i cinque “famigerati”, uccisi dal commando delle Brigate Rosseche in via Fani a Roma, aveva rapito Aldo Moro? Chi ricorda il Pasolini della poesia sui fatti di Valle Giulia, rammenta, con una interpretazione assai parziale, soltanto i versi in cui il poeta dichiara di ‘simpatizzare’ coi poliziotti. Ma poco più avanti, nella stessa lirica, c’è una descrizione forte, quasi icastica e sensoriale di quegli uomini in divisa: “E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio, fureria e popolo”.
Rancio, fureria e popolo: sono loro. Il più ‘vecchio’ degli uomini di scorta ha 52 anni, il più giovane 24: nessuno torna a casa, quel mattino di quarant’anni fa. Uno viene da una famiglia contadina della Campania: il fratello lavorava nei campi quando apprende dalla radiolina la notizia dell’attentato, un altro vive in caserma (lo stipendio di un agente non consentiva molto di più) e aspetta di essere promosso prima di sposarsi, un altro ancora era migrato dalle campagne molisane. Non sono solo “divise”, sono uomini che hanno famiglia, figli, genitori, fratelli. Fanno un lavoro difficile e hanno una paga da fame. Sono loro i figli del popolo, uccisi ‘in nome del popolo’ da assassini che di popolare non hanno nulla.
La scorta di Aldo Moro. Poliziotti e carabinieri della scorta di Moro: uomini con storie simili, un magro reddito familiare e spesso la miseria, la volontà di trovare un lavoro, la necessità di emigrare, la divisa indossata con l’orgoglio di chi serve lo Stato. E poi i figli, la vita quotidiana fra turni massacrati di lavoro e la voglia di stare in famiglia. Cinque storie dell’Italia ai tempi bui del terrorismo, cinque storie di uomini normali ammazzati in nome della ‘rivoluzione’. E oggi i ricordi di chi è rimasto: le moglie, i figli, i genitori. Uno di loro, Giovanni Ricci, ha avuto la determinazione di incontrare «chi mi aveva fatto del male». Nel 2012 guarda negli occhi Morucci, Bonisoli, Faranda. Lo ha raccontato al giornalista di Repubblica Tv Concetto Vecchio. Ha detto: non odio più da quanto li ho visti. Che cosa ha visto Giovanni Ricci? Ha visto persone normali, davanti a lui, altri esseri umani. Persone normali: il male non ha un cartellino di riconoscimento, la “banalità del male” del resto è la cosa che, come essere umani, più ci spaventa e ci sconcerta. Perché avete voluto fare questo? ha chiesto Giovanni Ricci agli assassini del padre.
Oreste Leonardi, 52 anni: il “nemico del popolo” che difese Moro col suo corpo. Il maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi era nato nel 1926 a Torino. Mentre frequenta il ginnasio, rimane orfano del padre che muore in guerra. Dopo aver terminato gli studi, si arruola nell’Arma. Lavora in diverse sedi, poi è inviato a Viterbo come istruttore alla Scuola Sabotatori del Centro Militare di Paracadutismo. A una festa di carnevale conosce una ragazza, Ileana Lattanzi che sposa dopo neanche un anno di fidanzamento. Nel 1963 è chiamato a far parte della scorta di Aldo Moro. Leonardi, detto Judo, era il caposcorta e come tale quasi un’ombra di Moro, la sua guardia del corpo più fedele. Quel 16 marzo 1978 si trova nel sedile anteriore della macchina del presidente, vicino a Domenico Ricci. È Leonardi a compiere il tentativo estremo di proteggere Moro con il proprio corpo. Lo ammazzano a 52 anni. Con la la moglie, lascia anche due figli Sandro e Cinzia di 17 e 18 anni. Ha raccontato Ileana una decina di anni fa: «La nostra disperazione è derivata anche dal fatto che durante tutti questi anni ci siamo trovati soli. Lo Stato non ci ha messo a disposizione psicologi, come si usa fare adesso».
Domenico Ricci, 44 anni: il “nemico del popolo” che salutò il suo bambino. A 44 anni è assassinato Domenico Ricci, appuntato dei carabinieri. Era marchigiano, nato a San Paolo di Jesi, in provincia di Ancona, nel 1934. Ottimo motociclista, entra a far parte della scorta di Moro alla fine degli anni Cinquanta. Diviene il suo autista di fiducia e quel 16 marzo 1978 si trova al posto di guida della Fiat 130 su cui viaggiava il presidente della DC. Gli contano sette proiettili sparati alla testa. A casa lascia la moglie Maria e due bambini. Uno di loro si chiama Giovanni ed ha 11 anni quando assassinano suo padre. Anni fa dichiarò al Corriere della Sera: «Non vorrei che fossero solo i brigatisti a scrivere la storia. Perché mio padre era un carabiniere, ma dentro la divisa c’era un uomo che la sera prima di essere ammazzato ha salutato il suo bambino, cioè io, con una carezza e un complimento per la prima partita di calcio giocata coi compagni di scuola». In una recente intervista a Repubblica Tv ha detto: «Non dico mai che si è sacrificato né che è un eroe. Non si è sacrificato, perché l’adorava quel lavoro, era tutta la sua vita. Mio papà è un eroe del quotidiano, così come tanti suoi colleghi, ma così come tante di quelle persone che si alzano la mattina alle 4 per andare a lavorare in un panificio o nelle fabbriche».
Francesco Zizzi, 30 anni: il “nemico del popolo” che progettava le nozze. Quel 16 marzo Francesco Zizzi è al suo primo giorno di scorta al servizio dell’onorevole Moro. Lui, nato a Fasano, in provincia di Brindisi, nel 1948, era entrato in Polizia nel 1972. Quattro anni dopo aveva vinto il concorso per la scuola allievi sottufficiali di Nettuno. All’epoca Francesco vive, come molti altri poliziotti giovani, nella caserma Cimarra, di via Panisperna. Dopo aver ottenuto i gradi di vice brigadiere, inizia a progettare le nozze con la fidanzata Valeria.
Si trova nell’Alfetta bianca che precede la macchina di Moro, seduto al posto del passeggero. I brigatisti gli sparano, ma non muore subito. Il cuore si fermerà all’ospedale Gemelli di Roma. Aveva trent’anni e una grande passione: amava cantare e si esibiva con la chitarra. La sorella Adriana, al sito di informazione locale Osservatoriooggi.it racconta che quel 16 marzo era «un giorno qualunque per me. Ero un’insegnante ma quel giorno non ero andata a scuola. Stavo svolgendo normali mansioni domestiche quando venne a trovarmi mio suocero che mi spinse ad accendere la tv in quanto raccontava di un grave evento accaduto a Roma. Appresi la notizia così, dalla tv, in modo brusco e con un’aspirapolvere in mano. E poi la nostra vita è cambiata». Anni fa aveva detto: ««Non piango mai per la morte di mio fratello in presenza di altri e a maggior ragione con mia figlia. Lei voleva sapere, e capire. Le ho raccontato ma in maniera pacifica senza disturbare la sua coscienza. La mia è stata già abbastanza disturbata».
Raffaele Iozzino, 25 anni: il “nemico del popolo” emigrato per lavoro. L’unico che riesce ad uscire dall’auto, tentando la difesa, è la guardia Raffaele Iozzino. I terroristi lo finiscono a terra sparandogli in fronte. Non aveva ancora compiuto i 25 anni. Raffaele era nato in provincia di Napoli, a Casola, nel 1953, in una modesta famiglia contadina. Raffaele per lavorare deve emigrare. Nel 1971 si arruola nella Pubblica Sicurezza, frequenta la scuola della Polizia di Alessandria e viene poi aggregato al Viminale e comandato alla scorta di Aldo Moro. «Lui per non metterci preoccupazione, non ci diceva nulla dei pericoli – ha raccontato il fratello Ciro al Corriere Tv – io ero tra i campi ad aiutare mio padre avevo la radiolina accesa quando, purtroppo, interruppero le trasmissioni per dare la notizia del sequestro».
Giulio Rivera, 23 anni: il “nemico del popolo” figlio di contadini. Il più giovane è il poliziotto Giulio Rivera. Giulio guida la macchina che precede quella di Moro. I brigatisti lo crivellano con otto colpi di pistola. Era nato nel 1954 a Guglionesi, in Molise, in provincia di Campobasso. I genitori e i fratelli lavorano la terra. La sorella Carmela: «Se solo chiudo gli occhi e lo rivedo in quella bara…non è piacevole. A casa non ho una sua foto in divisa: non riesco a sopportarlo».
· I convegni dei brigatisti.
Bari, bufera sul convegno con fondatore delle Br: «Via patrocinio Puglia». L'incontro, previsto il 14 marzo, è incentrato sulla figura di Aldo Moro, con la partecipazione di Alberto Franceschini, fondatore delle Br, scrive il 09 Marzo 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Un incontro sulla figura di Aldo Moro, con la partecipazione di Alberto Franceschini, fondatore delle Brigate Rosse, fa esplodere la polemica a Bari. «È vero che il diritto di parola non deve essere negato a nessuno perché è quello che eleva il nostro stato di esseri umani. Ma è anche vero che non può essere dato in questa maniera a chi è stato uno degli artefici di quello che è il periodo più buio della nostra Italia, soprattutto se ci saranno dei ragazzi di fronte a lui», il messaggio di protesta di Potito Perruggini, nipote di Giuseppe Ciotta, brigadiere di polizia ucciso nel 1977 da Prima Linea. Al convegno, promosso dal consiglio regionale della Puglia, è in programma giovedì 14 marzo, parteciperanno anche il presidente del consiglio, Mario Loizzo, e Gero Grassi, componente della commissione d’inchiesta Moro 2». In chiusura dell’incontro la discussa intervista all’ex capo delle Br. «Cosa aspetta la regione Puglia a ricordare invece i nomi e i volti di tutti quei pugliesi che sono stati uccisi dai killer degli anni di piombo? - si chiede Perruggini, presidente anche di «Anni di piombo», osservatorio nazionale per la verità storica -. Chiedo anche come cittadino italiano che le istituzioni che ci rappresentano monitorino queste situazioni e le blocchino sul nascere così come fece il ministro Salvini tempestivamente a febbraio scorso a Settimo Milanese». Intanto scoppia la polemica politica. «Come può un’istituzione promuovere un convegno in memoria di una vittima e invitare anche il fondatore dell’associazione criminale che l’ha ucciso?», si domanda il capogruppo di FI al Consiglio regionale, Nino Marmo, che chiede conto al presidente del Consiglio regionale della Puglia, Mario Loizzo, «di questa notizia incresciosa, odiosa e inaccettabile» e chiede che Loizzo "tolga il patrocinio del Consiglio regionale». «Si tratta - accusa Marmo - di uno scempio irrispettoso dei familiari di Moro e dei familiari delle tante vittime delle barbarie brigatiste». Per Marcello Gemmato, deputato di FdI, «è inopportuno, fuori luogo e disdicevole, che in un convegno di commemorazione di Aldo Moro, vi sia Franceschini. Altrettanto disdicevole che a patrocinare l’evento vi sia la massima istituzione regionale». "Invito il presidente del Consiglio - dice - a ritirare immediatamente il patrocinino dando così un tardivo contributo di gratitudine e di verità». All’incontro, oltre al presidente del consiglio Loizzo, è annunciata la partecipazione di Gero Grassi, componente della commissione d’inchiesta Moro 2.
Dal “Corriere della Sera” del 10 marzo 2019. A febbraio la presentazione di un libro sulle Br a Settimo Milanese fu annullata fra le polemiche. Stavolta Alberto Franceschini, tra i fondatori delle Brigate Rosse, parteciperà all' incontro promosso dal Consiglio regionale della Puglia su Aldo Moro. Le proteste di Potito Perruggini, nipote del brigadiere Giuseppe Ciotta ucciso nel '77 da Prima Linea, non hanno fatto cambiare idea agli organizzatori. Il convegno di giovedì, promosso in collaborazione col Miur, prevede la partecipazione di docenti delle superiori e circa 400 studenti. Tra i relatori ci saranno anche il presidente del Consiglio Mario Loizzo (Pd) e l'ex parlamentare Gero Grassi, componente della commissione d' inchiesta «Moro 2». In chiusura è in programma una intervista all' ex Br. «Cosa aspetta la regione Puglia a ricordare tutti i pugliesi che sono stati uccisi dai killer degli anni di piombo?» chiede Perruggini. Dalla Regione vanno avanti: «Capisco il dolore delle vittime del terrorismo - dice Loizzo -, domani le ricorderemo in una mostra fotografica, ma Franceschini ha pagato il suo debito scontando 18 anni e non ha mai ucciso. Incontrarlo vuole essere la testimonianza di un periodo buio e un messaggio alle nuove generazioni, perché costruiscano il futuro senza violenza».
Polemica convegno Moro a Bari, Grassi: «Franceschini, ex brigatista, viene a chiedere scusa». Così Gero Grassi, ex presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro: «Franceschini non ha mai ucciso nessuno», scrive l'11 Marzo 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. «Alberto Franceschini, brigatista che non ha mai ucciso nessuno, viene a dire 'scusate, abbiamo sbagliato, non copiateci'». Così Gero Grassi, ex presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, risponde alle polemiche dei giorni scorsi sulla partecipazione dell’ex brigatista ad uno degli eventi organizzati dal Consiglio regionale della Puglia per ricordare lo statista pugliese, in programma il prossimo 14 marzo. Grassi ne ha parlato con i giornalisti a margine della inaugurazione della mostra dedicata ad Aldo Moro nella nuova sede del Consiglio regionale. «Non c'è un incontro del 14, c'è un progetto 'Moro educatore' - precisa Grassi - nel quale per due anni magistrati, procuratori nazionali antimafia, professori universitari spiegano ai docenti di Puglia che cos'è il caso Moro. Una di queste puntate è con Alberto Franceschini, uno che dice che in via Fani non c'erano solo le Brigate rosse, dice che le Brigate rosse sono state utilizzate da servizi segreti italiani e stranieri per uccidere Moro, quindi credo che sia una voce autorevole in un campo nel quale noi abbiamo bisogno di recuperare la verità». «Rispetto alla conclusione della commissione di inchiesta, nessuno si indigna - continua Grassi - che esiste un filmato che ci dice chi ha rubato la borsa di moro in via Fani. Quel filmato dice che la borsa l’ha presa un ufficiale dei carabinieri, che era scortato da due generali dell’Esercito». «Credo - conclude - che l’indignazione del Paese debba essere di gran lunga superiore rispetto a polemiche strumentali». «Voglio un incontro ma deve essere prima di tutto un confronto dove dicano le verità ai familiari delle vittime e a chi ha indagato e vissuto quegli anni sulla propria pelle. Sono pronto a guardare negli occhi non solo Franceschini ma addirittura Enrico Galmozzi, il killer di mio zio, perché finora comunque non ho mai visto nessuno andare a chiedere perdono davanti a una delle tombe delle persone da loro brutalmente uccise». Così Potito Perruggini, nipote di Giuseppe Ciotta, poliziotto ucciso nel 1977 da Prima Linea, risponde a Gero Grassi che è intervenuto sulla polemica nata in seguito all’invito di Alberto Franceschini, tra i fondatori delle Br, ad un convegno su Aldo Moro a Bari. «Domani è l’anniversario dell’omicidio Ciotta - continua -, aspetto Enrico Galmozzi al cimitero di Ascoli Satriano dove mio zio riposa da 42 anni». Perruggini si dice poi disposto ad "incatenarsi per non consentire l’accesso al teatro dove di terrà l’evento», giovedì prossimo.
LA MOSTRA - In 84 pannelli allestiti nell’agorà della nuova sede del Consiglio regionale della Puglia è raccontata la cronaca dei 55 giorni di prigionia di Aldo Moro e quello che ne seguì. L’esposizione dal titolo «Aldo Moro: per ricordare», con una pagina del Corriere della Sera e gli altri 83 pannelli che riproducono le pagine ingiallite della Gazzetta del Mezzogiorno di quei giorni, sarà aperta fino alla prima decade di maggio. Alla cerimonia di inaugurazione della mostra hanno partecipato circa 300 studenti di sei scuole superiori della provincia di Bari. «A distanza di quarant'anni, il sacrificio di Moro, coi suoi terrificanti segreti non ancora svelati, ci ha consentito di leggere negli occhi degli studenti l'incredulità e lo sgomento di chi viene a conoscenza, per la prima volta, di quel periodo tragico» ha detto il presidente del Consiglio regionale pugliese, Mario Loizzo.
Per Gero Grassi, ex presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, lo statista pugliese rappresenta un "patrimonio dell’umanità che il Consiglio regionale della Puglia sta riattualizzando ed esportando nel mondo scolastico, in quello associativo, in quello delle biblioteche, in Puglia e in Italia». Il direttore della Gazzetta del Mezzogiorno Giuseppe De Tomaso, ha ricordato come la figura di Moro abbia «inciso non soltanto sulla storia del Paese, della Dc e del Sud ma anche della Gazzetta del Mezzogiorno, perché in un’altra circostanza in cui il giornale si trovava a vivere un momento molto difficile, Moro riuscì a trovare una soluzione», auspicando che «la lezione di Moro serva di aiuto morale ma anche come formula per uscire dalle secche societarie in cui ci troviamo oggi». Per il direttore dell’Ufficio Scolastico Regionale, Anna Cammalleri, «la verità è libertà e per questo cerchiamo di diffondere tra gli studenti la conoscenza di quegli eventi». La cerimonia si è conclusa con la consegna di premi, su iniziativa dell’Associazione Consiglieri regionali, a sei componenti del Consiglio regionale della prima legislatura costituente (1970-75) e a tutti i presidenti di Giunte e Consigli regionali, dall’istituzione alla nona legislatura. È stato ricordato anche il poliziotto Francesco Zizzi di Fasano, agente della scorta di Moro, ucciso in via Fani, il 16 marzo 1978.
M5S: PATROCINIO CONSIGLIO INOPPORTUNO - I consiglieri regionali pugliesi del M5S annunciano una interrogazione al presidente Emiliano e all’assessore Nunziante sul ruolo di Gero Grassi nelle iniziative dedicate ad Aldo Moro e ritengono «inopportuno» il patrocinio del Consiglio regionale ad un evento con l’ex brigatista Alberto Franceschini. «Siamo assolutamente favorevoli a tutte le iniziative per ricordare Aldo Moro - dicono in una nota i consiglieri regionali pentastellati - ma ci chiediamo se sia opportuno affidare tutti i progetti del Consiglio Regionale dedicati allo statista, a Gero Grassi (ex presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, ndr), dopo che Maria Fida Moro lo ha diffidato dal 'parlare pubblicamente, in modo inopportuno e blasfemo, della terribile agonia e della mortè di suo padre». "Ci chiediamo come mai a iniziative così importanti - continuano - non prenda parte anche Maria Fida Moro, che più volte ha chiesto di essere ricevuta dal Presidente Emiliano, senza ricevere alcuna risposta. Così come ci sembra quantomeno inopportuno che il Consiglio dia il patrocinio ad un incontro con la partecipazione di Alberto Franceschini, il fondatore delle Brigate Rosse, organizzato per il 14 marzo nell’ambito del progetto 'Moro: Educatorè». Il M5S pugliese evidenzia, inoltre che «il link con la locandina dell’evento è stato cancellato dal sito del Consiglio regionale ma di certo questo non basta. Se il presidente Loizzo è convinto della bontà dell’incontro che senso ha farlo sparire dal sito?».
COMUNE DI TERLIZZI DISERTA - Il Comune di Terlizzi non ha partecipato questa mattina alla cerimonia di inaugurazione della mostra «Aldo Moro: per ricordare», annunciando che non prenderà parte anche ai prossimi eventi dedicati allo statista pugliese organizzati dal Consiglio regionale. «Una forma di dissenso - è spiegato in una nota - legata alla scelta, sempre da parte del Consiglio regionale pugliese, di promuovere altri due eventi dedicati alla figura di Aldo Moro che si terranno il prossimo 14 marzo, entrambi con la presenza di Alberto Franceschini, fondatore delle Brigate Rosse». «I grandi uomini del nostro tempo si ricordano attraverso lo studio della storia e il racconto delle loro azioni, - dice il sindaco, Ninni Gemmato - non certo facendo salire sul palco e facendo entrare in un’aula di scuola personaggi discutibili fautori di una stagione di terrore che seminò sangue nel nostro Paese». «Chiedo a tutte le autorità istituzionali regionali - dice il sindaco - di rivedere l’organizzazione di questi eventi per non offendere la memoria delle vittime delle Brigate Rosse e il dolore delle loro famiglie».
La Regione Puglia sceglie le Brigate Rosse per celebrare Aldo Moro. Il co-fondatore delle Br, Alberto Franceschini, chiamato a parlare della storia brigatista agli studenti in occasione delle commemorazioni per la strage di via Fani, scrive Giuseppe D. Vernaleone, Lunedì 11/03/2019, su Il Giornale. Le Brigate rosse un esempio? Assolutamente no ma per il consiglio regionale pugliese è più utile la parola di uno dei fondatori del terrorismo anziché far ascoltare chi ha patito la violenza rossa o chi l’ha combattuta. L’aggravante è costituita anche dalla composizione della platea che il 14 udirà il mea culpa del brigatista: centinaia di studenti. Cosa diversa se venisse a relazionare "del fallimento umano e politico delle Br" al cospetto di profondi conoscitori, quali storici-giornalisti od investigatori, con capacità di conoscenze già acquisite al fine di valutare ulteriormente quelle pagine oscure in cui la battaglia politica si trasformò in orribile violenza criminale. Invece no e per il Consiglio Regionale pugliese, per l'Ufficio scolastico regionale, per l'Istituto per la storia dell'antifascismo e della storia del Risorgimento e per la Società Italiana per le Scienze Umani e Sociali un buon maestro e buon educatore, per coloro che saranno i futuri gruppi dirigenti di questo Paese, è colui che ha scontato di 18 anni di carcere per esser stato uno dei protagonisti della organizzazione che fece, dell’azione omicida, un metodo di lotta. Per l’ex componente della commissione di inchiesta sul Caso Moro di Montecitorio, l’ex deputato pd Gero Grassi il tutto appare plausibile per il sol fatto che Alberto Franceschini, si legge in un comunicato inviato a fine gennaio dal Consiglio Regionale, venga a parlare del "fallimento umano e politico delle Br... e verrà a dire agli studenti: abbiamo sbagliato". Insorgono le opposizioni ed in primis il presidente del gruppo regionale di Forza Italia, Nino Marmo: "Come può un'istituzione promuovere un convegno in memoria di una vittima e invitare anche il fondatore dell'associazione criminale che l'ha ucciso?". Non è il solo a sollevare un interrogativo simile, della stessa idea tutti gli esponenti dell'opposizione a Michele Emiliano da Fratelli d'Italia alla Lega, pur nel silenzio delle altre forze che governano, da centrosinistra, la Regione di origine del leader dc ucciso assieme alla sua scorta. Alla base dell’indignazione non la libertà di parola per chi si è pentito della propria storia collaborando anche con la giustizia ma l'esempio che questo possa rappresentare su una platea non abbastanza informata sul clima degli anni Settanta. Cosa penserebbero i familiari degli agenti di scorta, e dello stesso Aldo Moro, ad ascoltare una lezione di politica terroristico/giudiziaria da parte di chi fu uno dei principali ideologi dell’organizzazione criminale di tanti omicidi? La Puglia chiede di togliere il patrocino da parte dell’Istituzione ed evitare che Franceschini venga visto, dalle scolaresche, come un simbolo di pentimento dopo anni di violenze. Titolo dell’incontro: "Moro educatore. Le Brigate rosse e il loro fallimento storico sociale e politicò" ma a Bari scelgono come educatore colui che, secondo Potito Perruggini, presidente dell’Associazione Anni di Piombo e nipote di Giuseppe Ciotta brigadiere di Polizia ucciso nel 1977, hanno una responsabilità diretta di tante violenze. Per Perruggini la Regione Puglia avrebbe fatto meglio a "ricordare nomi e volti di tutti quei pugliesi che sono stati uccisi dai killer degli anni di piombo. Il fallimento del terrorismo è di qualcosa che nasce già deviato e malvagio. Questo messaggio non può essere oscurato dalla parola “fallimento” che potrebbe implicare anche il negativo esito di qualcosa che nasce da giusti ideali e da uomini giusti. Infatti anche lo stesso Napolitano nel 2007 esortò a non renderli protagonisti rischiando di dare falsi insegnamenti storici soprattutto ai giovani". Ma in Puglia il pentimento di qualcosa di errato lascia intendere che le originarie motivazioni ideali possano essere considerate positivamente se a relazionare non siano studiosi degli eventi ma i promotori delle azioni rivoluzionarie poi sfociate in criminali omicidi.
· I Ribaltoni quando erano cosa seria. Il Compromesso Storico.
Quando Moro bocciò i due ministri del Pci e rifiutò di sostituire Bisaglia e Donat Cattin. Erano le richieste di Berlinguer per votare la solidarietà nazionale, ma la Dc rifiutò. Francesco Damato il 21 Settembre 2019 su Il Dubbio. Nella ricerca ormai ossessiva delle discendenze o analogie politiche si è cercato di scavare nel passato anche a proposito della scissione del Pd consumata questa volta da Matteo Renzi, come due anni e mezzo fa dai suoi nemici ormai per la pelle Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni. Che avevano brindato alla sua sconfitta referendaria sulla riforma costituzionale, dopo averla apertamente osteggiata. Ho sentito da qualche parte evocare persino il povero Aldo Moro, già scomodato durante la crisi d’agosto come anticipatore di Giuseppe Conte, per usarne il ricordo stavolta contro Renzi. Che si sarebbe comportato con la stessa irrazionalità e assurdità di un Moro che nel 1976, dopo avere spinto la Dc verso l’intesa di carattere eccezionale col Pci di Enrico Berlinguer, nonostante la contrapposizione elettorale, se ne fosse andato dal suo partito. Il paragone, sia pure rovesciato – ripeto- in negativo, fatto per deplorare e non per giustificare l’iniziativa di Renzi, è di una evidente esagerazione per l’abisso, più che per la differenza, fra i due personaggi, anche se l’ex segretario del Pd e fondatore di “Italia Viva” è in qualche modo riconducibile alla storia della Dc: più a quella però del suo corregionale Amintore Fanfani che a quella di Moro, l’altro “cavallo di razza” dello scudo crociato. Eppure, scavandoci sotto o riflettendoci sopra, il riferimento a Moro potrebbe diventare meno stravagante e assurdo di quanto non abbia pensato chi vi ha fatto ricorso in funzione antirenziana. E spero che quanto sto per scrivere, ove mai letto dall’interessato, non lo imbaldanzisca troppo facendolo molto, troppo paradossalmente sentire un nuovo Moro. Cui Renzi potrebbe paragonarsi davvero se solo volesse esprimere pubblicamente eventuali riserve sulla natura strutturale, persino a livello locale, che la dirigenza del Pd vorrebbe dare all’accordo con i grillini da lui proposto, a sorpresa, in via del tutto eccezionale, e con una prospettiva non di legislatura. Moro fu certamente l’artefice dell’intesa del 1976 con Berlinguer, al quale però fece ingoiare persino un governo monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti: uno degli esponenti della Dc fra i più lontani, obiettivamente, dal Pci. E che proprio per questo costituiva un elemento di riequilibrio e di garanzia oltre Tevere e Oceano Atlantico. Il guaio fu, per l’allora presidente ella Dc, che ad un certo punto la gestione di quell’intesa da parte di Andreotti a Palazzo Chigi e del suo amico ed estimatore Benigno Zaccagnini a Piazza del Gesù, come segretario del partito, andò ben oltre i suoi progetti o intenzioni. Se ne accorse, poveretto, un anno e mezzo dopo, verso la fine del 1977, quando Berlinguer non ce la fece più a trattenere i mal di pancia nel Pci e provocò la crisi reclamando un passo avanti sulla strada di nuovi equilibri politici. Il leader comunista chiese ad Andreotti e a Zaccagnini per via riservata, ma non tanto da sfuggire alle orecchie e all’intuito di Moro, di fare entrare nel governo almeno due indipendenti di sinistra eletti nelle liste del Pci. Quando Moro se ne accorse non si lasciò certo tentare – figuriamoci, col suo carattere- di minacciare e tanto meno di preparare e realizzare un’uscita dalla Dc, come ha appena fatto Renzi col Pd. Egli lavorò con pazienza e ostinazione per impedire che la richiesta di Berlinguer fosse accettata da Andreotti e da Zaccagnini, che ne erano molto tentati pur di non chiudere anzitempo la stagione politica della cosiddetta “solidarietà nazionale” e trattare un nuovo centrosinistra col Psi passato nel frattempo dalla guida di Francesco De Martino a quella di Bettino Craxi. Che era disponibile a riprendere la collaborazione con lo scudo crociato, e ricacciare il Pci all’opposizione, ma non a buon mercato, diciamo così. Moro afferrò nelle sue mani le trattative, dietro e davanti alle quinte, e convinse Berlinguer della impraticabilità politica della sua richiesta, sul piano interno per i rischi di rottura dell’unità democristiana e sul piano internazionale per i rapporti con gli Stati Uniti. Dove già avevano storto il muso per la mezza partecipazione del Pci alla maggioranza, astenendosi nelle votazioni di fiducia al governo Andreotti, e avrebbero storto qualcosa di più e di diverso in caso di nomina a ministri di eletti nelle liste comuniste. Berlinguer si acquietò ripiegando su un programma di governo da concordare più dettagliatamente e incisivamente di quanto non fosse stato fatto nel 1976. E ciò per consentire al Pci di passare dall’astensione al voto di fiducia vero e proprio, dalla mezza maggioranza alla maggioranza intera, dall’anticamera alla camera della spartizione del potere e sottopotere, perché esistevano già allora enti pubblici, consigli d’amministrazione, cariche di alta burocrazia e quant’altro da assegnare con criteri politici. A trattativa conclusa, tuttavia, Berlinguer tentò, con un altro approccio diretto ad Andreotti e a Zaccagnini, di ottenere qualcosa in più da spendere sul terreno della propaganda: la testa di qualche ministro uscente. Furono individuate, in particolare, quelle di Antonio Bisaglia e di Carlo Donat- Cattin, distintisi nella Dc durante la crisi per le resistenze opposte ad una maggiore apertura al Pci. Ma quando Moro se ne accorse, leggendo la lista dei ministri portata di sera da Andreotti a un vertice democristiano alla Camilluccia, prima di salire al Quirinale per sottoporla alla firma del capo dello Stato, il presidente del partito disse no. E impose la conferma di entrambi i democristiani dicendo che la Dc sarebbe finita se avesse accettato di farsi selezionare la classe dirigente dagli altri. Alcune decine di migliaia di copie del giornale ufficiale del Pci già stampate con la lista dei ministri promessa a Berlinguer dal presidente del Consiglio furono ritirate dalla spedizione e macerate. Nei gruppi parlamentari comunisti il malumore crebbe sino alla minaccia di non votare più la fiducia al governo che stava per presentarsi alle Camere. Lo stesso Zaccagnini nella Dc voleva dimettersi da segretario. Tutto rientrò solo perché la mattina del 9 marzo 1978, andando proprio alla presentazione del governo a Montecitorio, Moro fu sequestrato dai brigatisti rossi fra il sangue della sua scorta, decimata. Dopo 55 giorni di drammatica prigionia, e di convulsa gestione governativa e partitica della cosiddetta linea della fermezza imposta dal Pci ad una Dc a dir poco sconvolta dagli eventi, sarebbe stato ucciso pure Moro. Meno di un anno dopo sarebbe finita anche la maggioranza di “solidarietà nazionale”, o di “compromesso storico”, come preferiscono chiamarla persone di cattiva memoria o storici improvvisati. Il compromesso storico proposto da Berlinguer era tutt’altra cosa dall’operazione concepita e gestita da Moro.
· Aldo Moro e la sua idea di centro.
Il genio politico di Aldo Moro e la sua idea di centro: la persona perno di un cambiamento reale e duraturo. Sergio Carlini il 24 luglio 2019 su Il Dubbio. Un genio politico che, dal carcere brigatista, profetizza, dopo la sua morte, “un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco” per il nostro Paese. Giuseppe Genna ha svolto sull’ultimo numero de L’Espresso una riflessione mirabile. Tanto che chi volesse cimentarsi con essa – come in questo momento fa il sottoscritto – corre il serio rischio di una semplificazione o peggio di una banalizzazione. Credo che la questione fondamentale posta da Genna sia la seguente: che cosa sostiene un’azione giusta, soprattutto da parte di un uomo politico? Un uomo politico che si trova di fronte e alle prese con le forze spurie, primordiali, caotiche e drammatiche della società e della storia. L’azione giusta è sempre e comunque giustificata e motivata da principi morali oppure è quella che, guidata dall’intuito del genio politico e dalla conoscenza del “tempo giusto per ogni cosa”, conduce a sminare i pericoli e aprire prospettive nuove? Machiavelli ha risposto una volta per tutte a questa domanda, dimostrando non solo che il fine giustifica i mezzi, ma che l’azione politica è volta, soprattutto, a ristabilire le condizioni in cui le leggi morali e la retta coscienza dell’individuo possono reggere autonomamente una società armonica. Giuseppe Genna conduce questa riflessione fino alla realtà italiana, individuando giustamente in Aldo Moro l’artefice di un genio politico capace di “tenere unito il molteplice, rallentare, accelerare, comporre”. Nel contesto di un Paese, l’Italia, attraversato da drammatiche tensioni internazionali, segnato da arretratezze storiche, dilaniato da forze oscure e dalla presenza del più potente partito comunista dell’Occidente. Un genio politico che, dal carcere brigatista, profetizza, dopo la sua morte, “un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco” per il nostro Paese. La linea di condotta di Aldo Moro, “fare della Dc una forza di mediazione di tutta la realtà politica e sociale italiana ivi compresa la sinistra”, è stata per lo più fraintesa, anche dai suoi interlocutori comunisti più avveduti, i quali si piegarono, anzi imposero l’infausta linea della fermezza. A questo punto Giuseppe Genna introduce il concetto di centro, non come punto intermedia di una linea retta, bensì come centro di un cerchio. Mi ha fatto piacere che Genna abbia citato Gianni Baget Bozzo, che pochi oggi ricordano come una figura davvero importante del dibattito religioso, della cultura e della politica in Italia, il quale concepiva il centro in termini dinamici, come mediazione. Certo, si potrebbe dire che questo concetto e soprattutto la pratica della mediazione, sottratta dal rigore intellettuale e morale di Aldo Moro e affidata al doroteismo democristiano, ha condotto anche alla piega del clientelismo, del consociativismo più deteriore e, infine, ad accumulare un enorme debito pubblico, che oggi pesa come un macigno sul nostro futuro. Così come si potrebbe affermare con ragione che questo concetto di mediazione, di cui peraltro Franco Cassano, nel volume “Il teorema democristiano”, metteva in luce gli aspetti di autonomia rispetto alla sfera dell’economia, confligge alla lunga con un’autentica visione liberale dello Stato, del sistema politico e dell’economia. Ma qui tocchiamo con mano le caratteristiche dell’Italia del dopo Moro, l’Italia violenta di tangentopoli, l’Italia volgare del berlusconismo, l’Italia della speranza fulminea rappresentata da Renzi e, in ultimo, l’Italia del governo più populista e sovranista d’Europa. Evidentemente se siamo finiti in questa situazione qualcosa non ha funzionato. Di Aldo Moro rimane, però, come ricorda Genna, l’ispirazione “di una politica condotta, se non dal centro, in nome del centro stesso. E quel centro è la persona: il valore dell’inalienabilità della persona da se stessa e da tutto ciò che il fenomeno umano produce”. La vera rivoluzione per Aldo Moro è la metanoia, una rivoluzione interiore attraverso cui l’umano si arricchisce e di trasforma, diventando il perno solido di un cambiamento reale e duraturo. In fondo, ciò che auspicava anche Machiavelli, anche se quando cadono queste solide strutture morali diventa imprescindibile farsi guidare dal dovere, di cui ha parlato Marco Damilano, che consiste in qualcosa di “trascendente che supera anche le leggi dell’uomo, imparziali o addirittura ingiuste”.
· Chi amò e chi odiò Aldo Moro.
Vittoria Leone: «Un anonimo mi scrisse dov’era il covo di Moro, la lettera fu ignorata». Pubblicato sabato, 05 ottobre 2019 su Corriere.it da Aldo Cazzullo. La moglie del presidente Leone: «Ogni sforzo di mio marito per liberarlo fu inutile. Venivo definita l’ambasciatrice della moda italiana, ne ero orgogliosa. Andreotti? Un ingenuo»
Lei si sente donna Vittoria, come la chiamavano i giornali, o la signora Leone?
«Per me non ha mai fatto differenza. La mia vita privata ha sempre coinciso con quella pubblica di mio marito. Avevo 28 anni quando divenne presidente della Camera, 36 quando fece per la prima volta il presidente del Consiglio, 44 quando fu eletto capo dello Stato. Ora non ci sento così bene come prima; e mi piace pensare di essere chiamata semplicemente Vittoria dalle persone più vicine».
Qual è il suo primo ricordo?
«La mia bicicletta Wolsit di Legnano. Andavamo a scuola a piedi o in bici, con qualsiasi tempo. Mio padre, medico, aveva una macchina; ma non veniva messa a disposizione dei bambini. Allora non si cresceva viziati. Avevo anche un cane. Mi morse, ma non lo dissi: temevo che lo punissero. Ero sicura di aver preso la rabbia, la notte pregavo di morire in fretta».
Come finì?
«Feci la cura antirabbica».
La sua famiglia è di origine inglese?
«Un trisavolo, Andrea Graefer, architetto botanico, fu chiamato dai Borbone per progettare i giardini inglesi della reggia, che ancora oggi portano il suo nome. Si innamorò di una casertana. La mia famiglia viene da lì».
Quando ha visto per la prima volta l’uomo che sarebbe diventato suo marito?
«Giovanni venne a casa nostra con mio fratello Luigi. La guerra era appena finita. Era professore universitario, e tenente colonnello alla procura militare di Napoli: aveva liberato tutti i prigionieri per sottrarli alla vendetta nazista, poi era scappato travestito da prete. Mio fratello era tenente. Divennero amici. Così me lo vidi comparire a casa».
È vero, come ha scritto Vittorio Gorresio, che si offrì di raccomandarla per l’esame di maturità?
«È vero, e io pensai: ma che invadenza! Alla fine l’esame non lo diedi. Mi sposai prima, il giorno del mio diciottesimo compleanno».
Lo sa cosa viene da pensare nel vedere le vostre fotografie? Lei era bellissima; lui no. E aveva vent’anni di più. Com’è potuto nascere il vostro amore?
«Me lo sono chiesto anch’io. Non esistono spiegazioni razionali. Accadde. Certo lui mi aveva affascinato con fiumi incessanti di parole. Mi aveva stordito con la sua testa».
Cosa l’ha colpita di Giovanni Leone?
«Un carattere fuori dagli schemi, un’immensa cultura, una rara capacità di ragionare e convincere. E un grande senso dell’umorismo. Era molto curioso, di mente aperta, di una lungimiranza fuori dal comune, di un’umanità straordinaria. Non mi dette il tempo di capire quello che stava succedendo, ed eravamo già sposati».
Com’era la vita quotidiana al suo fianco? È vero che lui di notte leggeva, mangiava, accendeva e spegneva la luce di continuo?
«Giovanni ha sempre sofferto di insonnia. Libri e discorsi li scriveva di notte. Era il terrore delle dattilografe che dovevano trascrivere blocchi interi partoriti nottetempo. A un certo punto abbiamo deciso di dormire in stanze separate, ma comunicanti. Non era facile reggere i suoi ritmi forsennati. Amava stare in compagnia, spesso mi trovavo ospiti a casa senza preavviso. Una cosa è certa: con lui non ci si poteva annoiare».
Leone era presidente del Consiglio quando incontraste Kennedy. Che impressione le fece?
«Volendomi fare un complimento galante, mi disse, in inglese: “Ora capisco il successo di suo marito”. Risposi che all’evidenza gli sfuggivano le doti di Giovanni».
In sostanza, ci provò...
«Ma no, voleva essere simpatico. Era una persona affascinante, nello stesso tempo educata e concreta. Adorava Napoli, dove fu accolto da due milioni di persone. Ho ancora la lettera che scrisse a Giovanni. Vuole vederla? Guardi qui in fondo. Kennedy scrisse “Viva Napoli” di suo pugno. È datata luglio 1963. Gli restavano quattro mesi».
E Jackie?
«Bella. Elegante. Altera».
Fanfani e Moro: i cavalli di razza democristiani. Chi erano veramente?
«Moro era molto legato a mio marito, era stato suo assistente di diritto penale all’università di Bari. Il destino li volle entrambi candidati della Dc al Quirinale: votarono i gruppi parlamentari; Giovanni vinse per otto voti, e Aldo fu leale, non armò i soliti franchi tiratori».
Com’era Moro?
«Un uomo triste. Veniva a trovarci nella nostra casa di Roccaraso, si sedeva, e stava zitto. Non parlava quasi mai, ma quando parlava non smetteva più; e non si capiva niente. Avevamo un barboncino nero e l’avevamo chiamato Moro. Suonarono alla porta e lui si agitò, io lo rimproverai: “Moro piantala, Moro stai buono!”. Poi andai ad aprire: era Moro, quello vero. Ci era rimasto malissimo».
Come ricorda i giorni del suo rapimento?
«Mio marito è l’unico democristiano che Moro non abbia maledetto nelle sue lettere. Fece disperatamente e inutilmente di tutto per farlo liberare. Ma avemmo la sensazione che fosse un destino segnato».
Perché dice così?
«Arrivò una lettera anonima, indirizzata a me, che segnalava il covo brigatista. La portai al ministero dell’Interno. La ignorarono. Quando la chiesi indietro, mi dissero che era sparita. E le Br lo uccisero poche ore prima che Giovanni firmasse la grazia per una terrorista malata che non aveva sparso sangue, Paola Besuschio».
Anche Fanfani era per la trattativa.
«Fanfani era uomo di partito, oltre che delle istituzioni, mentre mio marito incarichi di partito non ne volle mai, per non trovarsi a gestire troppi compromessi e giochi di potere. Questo talvolta li allontanava, nonostante avessero un ottimo rapporto personale. Io ero molto amica di sua moglie Biancarosa, che scomparve prematuramente. Poi lo sono stata di Mariapia».
Su cosa Leone e Fanfani si trovarono lontani?
«Il referendum sul divorzio. Lo scontro fu duro e lungo. Fanfani lo volle a tutti i costi. Giovanni era contrario: “Servirà solo a sancire che siamo minoranza” diceva. E questo non lo fece amare da Papa Montini».
Che opinione si è fatta di Andreotti?
«L’ho sempre considerato un amico di famiglia. Adorava giocare a carte con me e alcuni amici comuni. Giovanni condivideva la sua apertura a Mosca e al Medio Oriente. Lo considerava un grande politico che, a dispetto di quel che si crede, alternava all’astuzia anche momenti di ingenuità».
Ingenuo, Andreotti?
«A volte si fidava troppo degli altri».
Come ricorda i leader che incontrò? Ford, lo Scià, Pompidou...
«Pompidou e la moglie erano due persone straordinarie: lei simpatica e cordiale, lui statista con una visione. Ford era una persona schiva e sincera, però la sensazione era che comandasse Kissinger: uomo brillante, di apparente bonomia, ma dagli occhi cattivi. Anche al Cremlino si faceva notare di più Gromyko, che parlava un ottimo inglese, che non Breznev, uomo timido, introverso. Lo Scià era un leader illuminato ma taciturno: sapeva molte lingue e non ne parlava nessuna».
Franco lo incontrò mai? E Peron?
«Franco mai. Ho un bel ricordo di Juan Carlos, che conversava amabilmente in un ottimo italiano. Peron venne con Isabelita e propose che il nostro governo comprasse un pezzo di Argentina, per risanare il loro debito pubblico. Mio marito e io ci guardammo imbarazzati; poi lui con le sue doti diplomatiche sbrogliò la situazione».
E tra le mogli chi la colpì di più? Farah Diba?
«Una donna dolcissima e intelligente. A Teheran parlammo in inglese a lungo e ci trovammo d’accordo su molte cose, dall’educazione dei figli alla moda. Volle sapere chi era il mio stilista. Quando le dissi Valentino, non si stupì: sapeva riconoscere l’eleganza. Erano gli anni in cui mi definivano l’ambasciatrice della moda italiana nel mondo, ne ero così orgogliosa... Mi colpì molto anche la regina Fabiola. Lei e Baldovino erano visceralmente legati al loro popolo».
La regina Elisabetta era ancora giovane.
«La prima volta che la incontrai aveva 35 anni, mio marito era presidente della Camera. I nostri figli avevano una governante inglese, miss Bertha. Elisabetta la volle conoscere. Miss Bertha svenne in avanti per l’emozione. Ci spaventammo».
E la regina?
«Imperturbabile».
Con suo marito andaste da padre Pio.
«Non amava i politici e ci trattò con durezza. Però mi diede tre rosari: “Per i suoi figli”. “Ma io ne ho solo due, Mauro e Paolo”. “Ne prenda tre” disse. L’anno dopo nacque Giancarlo».
Lei è considerata la prima e ultima first-lady italiana. Perché siamo allergici a questo ruolo?
«La prima fu Ida Einaudi. Si affezionò molto a me. Anche troppo, voleva sempre che la accompagnassi... Saragat, presidente prima di Giovanni, era vedovo. Gli altri predecessori erano molto più anziani. Il Paese non era abituato a vedere al Quirinale una famiglia al completo, con moglie giovane e figli piccoli. Del resto, né Mussolini né i Savoia hanno evidenziato figure femminili accanto a loro, per scelta. Veniamo da un passato maschilista. E restiamo il Paese dove la maldicenza primeggia e il rispetto delle istituzioni è dote rara».
Da sinistra foste accusati di aver trasformato il Quirinale in una reggia. Poi venne il libro della Cederna. Cosa provò nel leggerlo?
«Ero troppo impegnata a sostenere mio marito per avere il tempo di metabolizzare quelle ingiurie. Eravamo una famiglia normale, che conduceva una vita normale in un contesto eccezionale. La campagna denigratoria del gruppo Espresso e il libro della Cederna furono palesemente un’orchestrazione per colpire il cuore dello Stato, il cui presidente veniva dalla Democrazia cristiana, e un’ambigua operazione anche commerciale, per accreditarsi come la vera controinformazione. La fonte principale della Cederna era OP di Mino Pecorelli, agenzia ricattatoria e legata ai servizi segreti deviati e ai poteri occulti dell’epoca. La maldicenza trovò terreno fertile anche nel Pci e nei radicali».
Un capitolo era intitolato «I tre monelli»: i suoi figli. Come reagì?
«I tre monelli era il nome della nostra casa di Roccaraso. Neanche i ragazzi, nonostante fossero giovanissimi, furono risparmiati dalle diffamazioni della Cederna: talmente ridicole da non poter essere prese sul serio. E così fu. Io però capii che si stava aprendo una voragine nel nostro Paese: in nome della faziosità e di interessi di varia natura, nessuno sarebbe stato più risparmiato».
Chi costrinse suo marito a lasciare, i democristiani o i comunisti? Leone era un intralcio sulla via del compromesso storico?
«Lo scopo era favorire un cambio nella gestione del Paese a favore della sinistra, spostando il baricentro democristiano. Alla campagna si unirono altri soggetti interessati: la P2, già in azione ma ancora ignota ai più; politici e ministri Dc in odore di corruzione; membri del governo contrari all’apertura di mio marito per salvare Moro. Quell’immenso polverone riuscì per un po’ a distrarre l’opinione pubblica dai veri scandali, destinati comunque a esplodere. Leone si dimise perché la Dc non lo difendeva dagli attacchi interessati del Pci. Proprio quella Dc che qualche mese prima lo aveva implorato di non dimettersi come lui avrebbe voluto, per potersi difendere meglio. Tutto cambiò con la terribile morte di Moro».
Perché?
«Quella tragedia, che si poteva evitare se gli avessero lasciato firmare la grazia, spinse Dc e Pci a forzare un ricambio, una ripartenza scioccante, fornendo al Paese un capro espiatorio. Così uccisero anche Giovanni Leone, psicologicamente e umanamente».
Lei provò a convincerlo a non dimettersi?
«Non dovevo, perché lui era determinato da tempo a lasciare. Voleva farlo già nel 1975, quando il suo messaggio alle Camere rimase ignorato. La politica gli chiese di restare e lui, galantuomo fino in fondo, aderì fino a quando la politica gli chiese il passo indietro. In questo dimostrò di essere molto diverso dal suo partito, per correttezza e onestà. Come quando disse no a Togliatti...».
Togliatti?
«Quando Giovanni era presidente della Camera, il leader comunista gli disse riservatamente che avrebbe fatto convergere voti del Pci su di lui per il Quirinale, se avesse preso tempo prima di indire una nuova votazione. Lui declinò l’offerta, e convocò subito la votazione che elesse Segni. Quanti altri politici si sarebbero comportati così?».
È vero che cadde in depressione?
«Era amato e popolare; una campagna infondata lo precipitò nel mondo che aveva sempre combattuto, quello dell’illegalità e del sospetto. Fu come essere colpito da un fulmine. Non era preparato, non poteva esserlo. Non aveva gli strumenti di difesa tipici dei corrotti, che sono sempre pronti a tutto. Lui era del tutto indifeso. Sì, cadde in una depressione da cui non si riprese più. Gli sono stata accanto per altri 23 anni, e con me i figli. Ma non era più lui. Era la testimonianza vivente e dolente del sacrificio di una persona troppo perbene».
Però lei conosceva il dolore. Aveva perso un figlio, Giulio, a 5 anni, per la difterite.
«Dopo aver visto la guerra, la morte di Giulio, la malattia di Mauro, che da piccolo fu colpito dalla poliomelite, non potevo impressionarmi di fronte alla meschinità e alla falsità. Per il nostro bambino, Giovanni scrisse allora un libro per pochi, Dialoghi con Giulio. Non riesco a rileggerlo perché ancora oggi mi commuove. Penso a lui sempre. Era di una dolcezza senza confini».
Come si comportò con voi il successore, Pertini?
«Rapporti formali. Giovanni non se ne meravigliò. Lo conosceva troppo bene».
Molti anni dopo i radicali chiesero scusa.
«Ne fui sorpresa. Mi ero fatta un’idea molto diversa di Pannella. Con la Bonino fece un atto di onestà intellettuale, scusandosi per le accuse ingiuste di anni prima. Mi commossi: Giovanni lo meritava. Il Pci invece non si è mai scusato. Anche se Napolitano da presidente ebbe parole durissime contro quella campagna».
Suo marito però fu al centro di altre polemiche: dalla difesa della Sade nel processo sul Vajont, alla famosa foto delle corna agli studenti di Pisa. «Da avvocato ha sempre sostenuto le cause giuste. La difesa della Sade non andava contro le vittime; serviva per stabilire la verità dei fatti. Lasciò presto l’incarico per impegni istituzionali. Da penalista amava difendere i più deboli, gratis. Quel gesto delle corna fu istintivo: era il suo modo di rispondere ai contestatori violenti che gli urlavano “a morte Leone!”. Apparteneva al suo spirito napoletano. Anche in questo non era un politico di professione; era un grande giurista prestato alla politica».
Lei come immagina l’aldilà?
«Sono credente, ma proprio per questo vivo incertezze che tengo per me. Nella nostra cappella di famiglia a Napoli è scolpita una frase di san Paolo: Vita mutatur, non tollitur».
Virginio Rognoni, quando Andreotti lesse (o rilesse?) il Memoriale di Aldo Moro. Pubblicato giovedì, 11 luglio 2019 da Walter Veltroni su Corriere.it.
Virginio Rognoni, tu sei stato uno dei massimi dirigenti della Dc e il ministro dell’Interno succeduto a Francesco Cossiga dopo la morte di Moro. Che cosa era la Democrazia Cristiana? Che cosa è stata nella storia italiana?
«Non si capisce la Democrazia Cristiana se non con riferimento alla storia politica e civile del Paese. Non è un partito che nasce dal nulla. Durante il fascismo i cattolici antifascisti, per tradizione familiare e radicata convinzione, erano assoluta minoranza; la gran parte del mondo cattolico faceva massa intorno a Mussolini; erano gli anni Trenta; giusto gli anni del grande consenso; un patrimonio ingannevole che porta Mussolini definitivamente nelle braccia di Hitler. Finita la guerra, ma già prima, a ridosso del 25 luglio, c’è l’incontro dei vecchi “popolari” del partito di Sturzo, con De Gasperi in testa, e i giovani professori che venivano dalla Fuci e dai Laureati cattolici; queste due realtà si incontrano, vi confluiscono altri gruppi già clandestini, come i neoguelfi di Milano, e nasce il partito. Oggi si racconta che quella politica era in mano a vecchi, ma perché non ricordare che Aldo Moro arriva alla Costituente a 29 anni e Dossetti a 33, e che entrambi sono stati tra i costituenti più ascoltati e apprezzati?».
La Dc era un arcobaleno che copriva posizioni reazionarie e il loro contrario. Nella Dc poterono convivere Lima e Tina Anselmi, Sbardella e persone come te o Zaccagnini. Esclusivo prodotto della Guerra fredda?
«L’unità politica dei cattolici non era certamente un dogma e neppure una sorta di obbligazione morale; era semplicemente un fatto politico inevitabile in quel determinato momento. L’Italia è stata subito segnata da due grandi questioni, la questione cattolica e quella comunista; due realtà che contrapponendosi radicalmente hanno irrigidito il sistema, quasi bloccato. La questione comunista, con il richiamo allora fortissimo all’Unione Sovietica, al mito della Rivoluzione ha finito per arroccare la Dc ben oltre la sua cultura di partito. La Dc era diventata argine, diga contro il comunismo: un problema. Il contrasto tra De Gasperi e Dossetti circa il modo di interpretare la grande vittoria del 18 aprile mi è sempre parso come la denuncia di questo problema e giusta mi è sempre parsa la soluzione presa da De Gasperi. D’altro canto, il Pci non era semplicemente l’emanazione dell’Urss; non era il Partito comunista tedesco (tra l’altro messo fuori legge) e neppure quello francese o spagnolo; aveva alle spalle diverse culture e soprattutto era il partito che aveva contribuito alla rinascita della democrazia con un ruolo rilevantissimo nella Resistenza. Ma eravamo in quegli anni. E il mondo era separato in blocchi e aree di influenza. C’erano vincoli internazionali, appartenenze, alleanze militari, insomma la “Guerra fredda”. Per la Democrazia cristiana, il Pci doveva essere combattuto e allo stesso tempo cooptato nel gioco democratico: da qui il riconoscimento di un’area, il cosiddetto “arco costituzionale”, dove palese fosse la continuità di un legame tra tutti i partiti che avevano scritto la Costituzione. Un equilibrio non semplice, ma necessario, in un Paese di frontiera come l’Italia».
La Dc muore con la morte di Moro?
«Con Moro finisce la prima Repubblica. Ferma la pregiudiziale antifascista, Moro, con un’azione di carattere quasi pedagogico, era diventato protagonista del progressivo allargamento della base democratica del Paese. Esaurita la formula centrista, ecco i socialisti al governo, poi la solidarietà nazionale con i comunisti nella maggioranza parlamentare; a quel tempo, una vera e propria sfida alla stessa Dc e in campo internazionale. Moro non è mai stato vicino al compromesso storico di Berlinguer, una strategia che prevedeva l’unità al governo dei partiti popolari, quasi un ritorno all’alleanza dell’immediato dopoguerra prolungata nel tempo. Moro invece riteneva che per il Pci stare fuori dal governo, ma dentro la maggioranza, fosse un passaggio necessario di legittimazione democratica così da arrivare, senza strappi, all’alternanza. Un percorso confermato nell’intervista postuma a Scalfari. Moro sarebbe diventato presidente della Repubblica e avrebbe accompagnato questa transizione per uno o due anni. Alle elezioni successive i due partiti si sarebbero presentati in conflitto. Una sorta di 18 aprile purgato di tutte le scorie, le durezze e le anomalie, nazionali e internazionali, del ’48. Ma il Pci sarebbe stato così legittimato a governare, se avesse avuto i voti. Era un grande progetto, che avrebbe completato il disegno costituzionale. La morte di Moro ha impedito che si realizzasse».
Conosco la tua tesi e la condivido: il rapimento di Moro e il suo assassinio sono stati compiuti dalle Brigate rosse. Però Moro viene ucciso per far saltare il suo disegno. Quindi uno di quegli omicidi politici che cambiano il destino di un Paese...
«Ero convinto e lo sono ancora che il terrorismo delle Brigate rosse fosse nazionale, italiano, non eterocomandato da un “grande vecchio”. Ho spesso discusso con Pertini; il Presidente riteneva che ci fosse una centrale straniera in ragione della posizione geopolitica italiana, al confine tra patto di Varsavia e Nato. Tanto è vero che quando fu sequestrato il generale Dozier mi telefonò preoccupatissimo: “Hai visto? Hai visto? Un generale americano”. Come ministro dell’Interno io avvertivo l’assoluta necessità di seguire ogni congettura, nessuna esclusa; il mio compito, dopo via Fani e la tragedia di Moro, era che il Paese rimontasse la china, sconfiggesse il terrorismo senza uscire dalla democrazia e senza imbarbarire lo Stato. Il clima era pesantissimo, avevamo avuto un ’68 diverso dagli altri Paesi. Il ’68 italiano è stato una cosa eccezionale. Sia chiaro: il ’68 esprimeva un bisogno di modernità, postulava uno sbocco politico che però non c’è stato. Il ’77, con tutte le sue violenze, in fondo è la manifestazione drammatica di quella delusione. Dico questo anche perché quando sono arrivato al Viminale sentivo dentro di me quel grido, nato giusto in ambienti “sessantottini”, “né con le Brigate rosse, né con lo Stato”. Era un grido spaventoso, che poneva sullo stesso piano negativo le Br e lo Stato, uno Stato vissuto come lontano, sempre uguale, torbido».
Durante la Guerra fredda quelli che erano considerati nemici in un fronte non dovevano partecipare al governo dell’altro. Credo che questo abbia detto con rudezza Kissinger a Moro e anche Berlinguer viene messo nel mirino dai sovietici, fino all’attentato in Bulgaria. Moro e Berlinguer, ciascuno nei due campi, erano un’anomalia pericolosa. Ribadito che il rapimento Moro lo hanno fatto le Br tu non pensi che nei cinquantacinque giorni ci sia stato l’intervento di questi soggetti per evitare che Moro fosse liberato?
«Cominciamo col dire che nei cinquantacinque giorni probabilmente la linea della fermezza è stata inevitabile. Se fosse avvenuto il contrario le istituzioni non avrebbero retto. Ma la cosa grave non è stata la scelta della “fermezza”. Lo scandalo — come qualcuno lo ha chiamato — è stato che per cinquantacinque giorni non si sia riusciti a trovare la prigione di Moro. Il Presidente non era prigioniero, che so io, in Alaska, era a Roma, nella capitale, e dalla prigione mandava continui messaggi, accorati e struggenti. Che poi questa incapacità sia stata in qualche modo “aiutata” da chi era contro la politica di Moro e il suo ruolo nel concerto internazionale non è affatto da escludere; troppo fitto era il bosco di personaggi inquietanti e pericolosi che giravano intorno all’intera vicenda».
Tu vieni nominato ministro dopo questo inaccettabile fallimento.
«La proposta è venuta da Zaccagnini e gli altri leader della maggioranza l’hanno condivisa. Al Viminale non volevo e non potevo fare “rivoluzioni”. Tuttavia ero fermamente convinto che fosse necessario introdurre elementi di netta discontinuità rispetto alla passata gestione. Perché — mi domandavo — Cossiga aveva chiamato esperti stranieri sul terrorismo internazionale, americani o di altro Paese che fossero? Molto meglio, innanzitutto, rifarsi alla memoria di Polizia e Carabinieri. Di qui la scelta del generale dalla Chiesa, che bene già aveva conosciuto le prime Br di Curcio e Franceschini. Non bisognava perdere tempo. C’erano anche da governare l’ansia, le aspettative, la paura, la rabbia, la speranza della gente. Era impresa difficile; mai come in quel momento mi sono sentito ministro della convivenza civile: ministro “terzo” rispetto alle fortune e alle sfortune del proprio partito».
Tu mettesti alla porta Ledeen e Pieczenik. Perché erano stati chiamati?
«Veramente non è così; al Viminale da pochissimi giorni, sento trillare il telefono, d’istinto prendo la chiamata; chi era? Ledeen; mi diceva che vi erano ancora parcelle insolute per sue consulenze; per tutta risposta l’ho mandato a quel paese. Pieczenik non l’ho mai visto e conosciuto. Entrambi erano stati chiamati da Cossiga; purtroppo scelte sbagliate, prima ancora che inconcludenti».
Pieczenik ha detto testualmente: «Mi aspettavo che le Br si rendessero conto dell’errore che stavano commettendo — con il rapimento — e che liberassero Moro, mossa che avrebbe fatto fallire il mio piano. Fino alla fine ho avuto paura che liberassero Moro».
«Liberato dalle Br, dalla prigione dove era detenuto, Moro, libero, fa paura. È la sua parola che fa paura; la paura — l’immagine me la concedo — dei mercanti di essere cacciati dal tempio».
Nel comitato che ai tempi di Cossiga seguiva le indagini, erano quasi tutti iscritti alla P2. Undici su dodici.
«Pensare che intorno a Cossiga, nel comitato dei cinquantacinque giorni, ci fosse questa gente, forse la peggiore, è veramente doloroso, ma soprattutto inquietante».
Di Gladio tu sapevi?
«No; non ne sapevo nulla; l’ho saputo quando, verso la fine di luglio del ’91, Andreotti andò in Parlamento a parlarne; a parlarne e a dichiararne senza mezzi termini lo scioglimento. Gladio era l’espressione italiana di una segretissima organizzazione denominata Stay behind che, in piena Guerra fredda, i Paesi della Nato avevano creato nell’ipotesi che l’Europa potesse essere invasa dalle truppe sovietiche: un primo punto di resistenza contro l’invasore. Cessata la Guerra fredda, con il superamento definitivo dei blocchi, simile organizzazione non aveva alcuna ragione per sopravvivere: così Andreotti. Subito scoppia il finimondo, l’ira di Cossiga è incontenibile, tutta la segretezza di Gladio è in frantumi, le polemiche non cessano. La mattina precedente il 4 novembre — da pochi giorni ero ministro della Difesa — mi telefona Cossiga: “Domani a Redipuglia devi difendere Gladio”. Gli rispondo: “Francesco, a Redipuglia di Gladio non voglio parlare”. Per me era inaccettabile che Gladio fosse stata tenuta nascosta a uomini di governo che avevano il diritto di conoscerne l’esistenza. Mi risulta che anche Fanfani non ne sapesse niente».
Ricordi l’attentato del ‘73 alla questura di Milano? A tirare la bomba fu quell’anarchico, che invece era stato in Gladio.
«Sì: anarchico e gladiatore e, se ben ricordo, informatore del Sismi».
Gladio è stata usata per condizionare la vita italiana?
«Escludo un impiego del genere. Il vero condizionamento è stato lo stragismo di destra: colpire nel mucchio per provocare una reazione autoritaria dello Stato». Quindi non ritieni credibile che Gladio sia dietro e dentro alcune delle pagine di sangue di quegli anni?
«A parte il caso di Bertoli, con la bomba alla questura di Milano, non mi risulta la compromissione di altri esponenti di Gladio».
Il vero colpo di Stato in Italia fu l’assassinio di Moro?
«Le Br pensavano che il rapimento di Moro, il cosiddetto processo che ne è seguito e la sua uccisione avrebbero portato alla “rivoluzione”, ritenuta ormai imminente, dietro l’angolo; i brigatisti erano rivoluzionari senza rivoluzione. Tuttavia un colpo di Stato c’è stato, perché con l’uccisione di Moro si ferma e si ribalta l’intera vicenda politica del Paese».
Descrivimi due personaggi che per me sono shakespeariani: Cossiga e Andreotti.
«Cossiga era un uomo politico di elevata e vasta cultura, una personalità singolare dalle analisi acute come certamente lo era, nel suo complesso, il messaggio inviato alle Camere immediatamente dopo la caduta del Muro di Berlino. Un messaggio che avrebbe dovuto essere preso in seria considerazione. Gli è nuociuto l’insieme delle sue debolezze e stravaganze che, ripetute, diventavano manie e ossessioni insopportabili. Mi ha sempre colpito e addolorato la sua solitudine». E Andreotti?
«Andreotti non lo so descrivere, e questa credo sia la risposta più onesta. Come ministro di alcuni dei suoi tanti governi devo dire che ha sempre rispettato le proposte che gli venivo facendo: così la nomina del generale dalla Chiesa; non ha opposto alcuna riserva, pur sapendo io dei rapporti tutt’altro che buoni che egli aveva con il generale. Non una piega, ancora, quando, dovendo cambiare il capo della Polizia, scelsi un prefetto diverso da quello che mi aveva suggerito, e scelsi bene perché il candidato che mi proponeva è poi risultato appartenere alla P2. Era un uomo algido, di una freddezza impressionante. Quando gli portai le carte che gli uomini del generale dalla Chiesa avevano trovato il 1° settembre del 1978 in via Montenevoso, carte contenenti giudizi severissimi su di lui, egli le lesse imperturbabile; una lettura tranquilla, una trentina di minuti. Una volta finito, ha alzato gli occhi e ha detto solamente: “Eleonora era una Fucina come noi, una donna di straordinario valore”. Nessun altro commento. Sembrava quasi che quelle pagine le avesse già lette: se fosse così sarebbe stato un vero e proprio uomo di teatro con il copione pronto per il caso che gli stava davanti...».C’è qualcuno che ti manca, tra le persone che hai incrociato nella tua vita pubblica?
«Sì, Pietro Scoppola e Leopoldo Elia, cattolici democratici di straordinario spessore. Sono stati dalla parte giusta ma hanno sempre lavorato perché i democratici, dopo l’ottantanove, si ritrovassero insieme. E per liberare la democrazia dalle serrature, politiche e istituzionali, della Guerra fredda. Mi mancano, ma soprattutto mancano a questo Paese che pare si accontenti di uomini casuali».
Vittorio Feltri: "Vi dico chi era davvero Berlinguer". Il bluff della sinistra: così smonta il mito comunista. Libero Quotidiano l'11 Luglio 2019. Walter Veltroni è diventato un editorialista del Corriere della Sera. Normale che scriva articoli sul Pci facendolo passare per un partito morbido e tollerante quanto la Dc. Egli infatti disse di essere più kennediano che comunista, pur rimanendo fedelmente inchiodato a Botteghe Oscure. Le contraddizioni in politica sono all' ordine del giorno. Ma rileggere le vicende dei marxisti italiani è un esercizio stupefacente che insegna molte cose. E Veltroni è capace di presentare Enrico Berlinguer sul quotidiano di via Solferino come un super democratico. La mia opinione è diversa. Penso che il famoso segretario rosso non fosse affatto rosso. Neppure lui sapeva di quale colore fosse, forse era bianco, cioè innamorato della Dc a capo della quale avrebbe voluto ergersi. Egli era un tipo tranquillizzante, come Rumor e come Piccoli, uomini miti e furbi, praticamente volpi in grado di muoversi con disinvoltura nel ginepraio capitolino. È un fatto che Berlinguer, pur dichiarandosi bolscevico, tale non era per mancanza di fede e di adesione alla folle ideologia sovietica. Tanto è vero che a un certo punto, egli si inventò il compromesso storico, ossia una possibile alleanza tra Pci e Democrazia cristiana ovvero un matrimonio spurio, non compatibile, tra pauperisti di centro e di sinistra, allo scopo di spartirsi il potere. Il nobile Enrico si illuse di realizzare simile progetto non calcolando che la Dc era un partito-mamma, strutturalmente identico al fascismo nel senso che inglobava chiunque, purché non rompesse i coglioni. Il cosiddetto compromesso storico rimase una sterile teoria, suggestiva e tuttavia irrealizzabile. Cosicché il politico sardo, di fronte alle difficoltà tecniche di realizzare il proprio piano, ripiegò su un' altra formula altrettanto astrusa: l' eurocomunismo che nessuno capì mai in che cosa consistesse. L' unico Paese in Europa che avesse una parentela stretta con Mosca e dintorni era l' Italia che non aveva certo la forza di persuadere il continente a sposare i sogni berlingueriani. Ogniqualvolta un giornalista, per esempio Scalfari, chiedeva al segretario come intendesse l' eurocomunismo e con quali tecniche trasformarlo in realtà, non riceveva che risposte fumose, prive di connotati credibili. Enrico era un sognatore bravo nel marketing ma fuori dal mondo. Probabilmente neppure lui sapeva che desiderare per la falce e martello. Gli piaceva comandare e arringare le folle ciononostante ignorava dove portarle. Se aggiungiamo che il nostro a un dato momento tirò fuori dal cilindro la questione morale, il quadro confuso si completò. In effetti tutte le formazioni della prima Repubblica rubavano a mani basse, incluso il Pci, attraverso il sistema degli illeciti finanziamenti, eppure Enrico accusò chiunque tranne se stesso e il suo gruppo. Semplicemente ridicolo. Costui in sostanza, pur in buona fede, fu un grande bluff e proprio per questo è ricordato quasi fosse un fenomeno di onestà. Mentre all' epoca sua, Botteghe Oscure riceveva montagne di rubli dall' Urss per stare a galla. Ora che Veltroni lo santifichi non ci stupisce, la nostalgia fa brutti scherzi, però il comunismo rimane una porcheria che Walter dovrebbe risparmiarsi di santificare. Vittorio Feltri
Rino Formica e il caso Moro: «La prigione delle Br? Lo Stato non ha voluto trovarla». Pubblicato domenica, 07 luglio 2019 da Walter Veltroni su Corriere.it. Rino Formica, cominciamo con te, autorevole dirigente socialista, una serie di incontri per ricostruire la fine della prima Repubblica, assai più certa della nascita della seconda. Cos’ era la prima Repubblica? «L’Italia è stato un Paese di frontiera, ma di più frontiere. Frontiera Est-Ovest e poi Nord-Sud. È stato luogo di scambio tra due imperi, quello sovietico e quello americano. E aveva una frontiera in più, quella dello Stato del Vaticano. Infine vi era una frontiera tutta interna del sistema politico: quella tra forze politiche che dovevano stare insieme necessariamente per ragioni costituzionali, ma erano divise per appartenenza a due campi ideologici diversi. Come hanno risolto i problemi della frontiera le classi dirigenti della prima Repubblica? Con un miracolo di equilibrismo in tutti i campi. Sulla frontiera Est-Ovest sono stati un Paese fedele all’alleanza, ma contemporaneamente coltivavano aperture al dialogo con il campo dell’Est. Poi c’erano ragioni commerciali. Insomma era un miracolo di equilibrio: un po’ di Helsinki, un po’ di Tangeri».
E sul fronte interno?
«La frontiera interna era tra i partiti del campo occidentale ed il Partito Comunista, che aveva un legame ideologico con l’Est. Lo regolava con il patto costituzionale e con la grande intuizione del partito di massa del Partito Comunista, un partito che si doveva non isolare come partito minoritario di avanguardia, ma doveva entrare all’interno della società nelle aree più ramificabili dall’influenza politica. Si saldava così un legame costituzionale. Il legame del compromesso patriottico. Nessuna forza politica del campo occidentale avrebbe messo fuori legge il Partito Comunista e il Partito Comunista non sarebbe mai stato un partito falange armata in caso di attacco all’Italia dei Paesi dell’Est».
Quel patto muore con la morte di Moro e tutto il sistema comincia uno squilibrio che esploderà con la caduta del muro? Che idea ti sei fatto di quel grumo di anni che c’è tra il golpe in Cile, il rapimento Moro volto a far saltare il compromesso storico, l’assassinio di Falcone?
«Tra il 1948 e il 1989, quaranta anni, in un Paese di frontiera come l’Italia, si è combattuta una guerra fredda. I due campi ideologici non erano in condizione di poter dialogare senza misurarsi costantemente sul piano della forza. Ma non più la forza militare. Ogni volta che si stava per arrivare al punto dello scontro, del passaggio dalla guerra fredda alla guerra calda, i due imperi frenavano. Questa guerra di aggiustamento delle condizioni di squilibrio che si andavano a creare nelle due aree non poteva non avvenire che con mezzi occulti, coperti, non visibili. Ho letto un tuo articolo sulla strage di Brescia. Ti sembra possibile che in un Paese di frontiera non si sappia cosa c’era nell’uso del terrorismo di destra e di sinistra? Noi pensiamo: il terrorismo di sinistra ha una base ideologica. E quindi ha un retroterra anche idealistico, pazzoide, quello che vuoi, ma c’era idealismo, sporco di sangue. Il terrorismo di destra non aveva nulla di ideologico, è stato strumentalizzato ed utilizzato a fini di manovalanza. Non esisteva una centrale del fascismo che utilizzava il terrorismo di destra per ragioni ideologiche, c’era una centrale di farabutti che dovevano dare una veste ideologica allo stragismo. Il terrorismo di destra è assimilabile alle bande criminali della mafiosità. Perché è roba da criminali, da mafiosi».
Cos’era Gladio? Tu sapevi che esisteva?
«Gladio, nella sua manifestazione plateale, appare nel ‘90-91 con le dichiarazioni di Andreotti. Delle organizzazioni parallele fuori dell’ordinamento costituzionale, parla lo stesso Andreotti in un articolo sul Sifar pubblicato sul giornale Concretezza nel febbraio del ’68. “Ma di che cosa si sta parlando qui? Qui è tutto noto, tutti sanno. I rapporti, anche le forme clandestine”. Fa accenno esplicito ad organizzazioni, all’interno del nostro sistema di sicurezza e del nostro sistema di alleanze, non costituzionalmente rispettabili, o compatibili costituzionalmente. Andreotti era uno che non si faceva coinvolgere nei problemi, ma era informato. Lui non si immischiava. Sapeva e tesaurizzava. Quando, nell’84, feci l’intervista sulla questione dell’attentato al treno...»
La strage del rapido 904, diciassette morti all’antivigilia di Natale.
«Sì. Dissi: “Ci hanno mandato un avvertimento”. Dissi che c’erano forze che volevano ledere la nostra sovranità. Spadolini fece un casino. C’era il governo Craxi, voleva fare una crisi per la mia intervista. Craxi mi telefonò: “Vieni ad una riunione a Palazzo Chigi”. Vado, ci sono Craxi, Forlani, Andreotti ministro degli Esteri, Spadolini ministro della Difesa e Amato che stava lì come sottosegretario ai Servizi. Spadolini fa uno sproloquio: “Tu vuoi rovinare questo governo tu, così come hai fatto cadere il mio governo, vuoi far cadere anche il governo di Craxi!”. Io dissi: “No, io ho semplicemente espresso il mio pensiero. Non voglio far cadere nessun governo”. Andreotti, che ce l’aveva con Spadolini e che voleva darmi una dritta, dice col suo modo: “La sovranità limitata è un problema sempre aperto, un problema antico. La sovranità limitata con l’America noi l’abbiamo sancita con un atto amministrativo, la circolare Trabucchi”. Silenzio. Mette lì queste cose: circolare Trabucchi, sovranità limitata, atto amministrativo. Spadolini non capisce perché è disorientato da questa cosa. Forlani guarda l’orologio e dice: “Ho un appuntamento”, si alza e se ne va. Due minuti dopo Amato dice a Craxi che ha un impegno e se ne va. Restiamo Spadolini, Andreotti, io e Craxi. Craxi vede l’imbarazzo generale e dice: “Va bene, ci siamo chiariti”. Andreotti mi stringe la mano come per dire: approfondisci. E in effetti Trabucchi nel giugno 1960, durante i fatti di Genova con il governo Tambroni, accettò una richiesta degli americani, evidentemente molto preoccupati, che ottennero, con una circolare del ministro delle Finanze, che negli uffici doganali delle basi americane venissero sostituiti i doganieri italiani con quelli statunitensi. Di lì passò tutto l’armamento in Italia. Passò attraverso le basi militari americane. Entrava ed usciva. E la circolare Trabucchi non fu mai abolita».
C’è stato un momento in cui Moro stava per essere liberato?
«Io credo di sì. Noi socialisti, gli amici di Moro e persone spinte da una preoccupazione umanitaria, come Vassalli, cercammo di spingere per la liberazione del presidente dc. La nostra azione era alla luce del sole e gli incontri con le persone che pensavamo potessero essere tramite con le Br avvenivano all’aperto. Insomma ti pare possibile che Pace, esponente dell’estrema sinistra che dialogava con le Br attraverso Morucci, si incontra con i socialisti alla luce del sole, si vede più volte nei bar con Morucci e Faranda... E tutti questi non sono controllati? Non sono ascoltati? Seguendo lui sarebbero arrivati alla prigione».
Ci si è sempre chiesti se voi informaste il governo dell’epoca...
«Non è vero che non informavamo, tutti erano informati, Cossiga era informato, il Quirinale era informato, il Quirinale e chi stava al Quirinale oltre il Presidente, erano informati, tutti erano informati. Ora come è possibile che ci sia stata tanta voluta trascuratezza? A mio modo di vedere il covo era conosciuto. Se poi metti in connessione che oramai è quasi certo il fatto che Mennini il prete, andò a confessarlo e poi andò via dall’Italia, fu mandato lontano dalla Chiesa...».
Chi è che voleva Moro morto?
«Questa è una domanda che non va fatta perché non otterrai mai la risposta. Devi fare un’altra domanda. Chi non lo voleva operante? I comandi militari della guerra fredda. Perché lui stava innovando le regole del passato. Sapeva che, nella guerra fredda, non potevano stare nei governi nazionali del campo occidentale quelli che erano considerati i nemici internazionali. Ma Moro, negli anni settanta, fece un ragionamento inedito. Stava nascendo un nuovo rapporto Est-Ovest, andava avanti una politica di distensione, di dialogo tra le grandi potenze. Questo, pensava, permetteva un superamento, sul piano nazionale, della logica derivata dalla guerra fredda. Non per fare governi tra Dc e Pci, ma per realizzare una legittimazione di governo delle masse popolari anti-Stato in Italia. Che erano i cattolici, i socialisti e i comunisti. E la legittimazione avviene attraverso il governo del Paese. Dei cattolici è avvenuto, dei socialisti anche, doveva avvenire pure dei comunisti».
In Italia c’è stato il rischio di un colpo di Stato negli anni ’70?
«In Italia dal 1948 in poi hanno convissuto due tendenze di fondo. La tendenza alla soluzione autoritaria dei problemi difficili a risolversi e la scelta difficile, faticosa, della via democratica. Questo nasce dal fatto che non è stato risolto in via definitiva l’appartenenza toto corde delle masse alle ragioni dello stato democratico. La maturazione democratica delle masse in Italia è stato un processo sempre interrotto. È continuato sempre, ma ha avuto sempre delle interruzioni perché , anche nell’opinione pubblica, talvolta ha prevalso la suggestione della semplificazione. Tanto è vero che oggi la vera questione non è rievocare regimi passati o rischi di regimi passati, il problema sempre aperto in Italia è quello della opzione tra la soluzione autoritaria e quella democratica».
La prima Repubblica si spegne per sempre con l’attentato a Falcone, nei giorni di Tangentopoli e con il parlamento che non riesce a eleggere il Capo dello Stato...
«Falcone aveva accumulato nella sua vita tante ostilità perché aveva saputo agire sempre senza domandarsi: “Mi giova o non mi giova?”. Ad un certo momento c’è un vuoto politico e istituzionale che apre spazio ad uno o a più di quelli che sono stati colpiti da quell’agire indipendente. La responsabilità, quando avviene qualcosa di questo genere, è sì di chi ha colpito, è sì di chi ha fornito l’arma, ma è anche di coloro, e possono essere moltissimi, che sapevano e si sono voltati dall’altra parte. Che Falcone andasse incontro a qualcosa di terribile c’era più di uno che lo sapeva. E si è voltato».
La fase finale di Cossiga, le picconate e il resto... Come la spieghi?
«È un dramma shakespeariano. Cossiga era uno che ha rappresentato veramente il dramma politico italiano nel suo unicum, cioè il dilemma tra autoritarismo e democrazia. Quello è stato ed è il dramma vero. Soluzione autoritaria o soluzione democratica».
Cossiga le aveva tutte e due dentro?
«Sì».
Ed è per questo che dopo la vicenda Andreotti perde il controllo?
«Sì».
1956. Cosa sarebbe stata la sinistra italiana se allora il Pci avesse avuto il coraggio di una secca condanna?
«Nel ’56 Togliatti sferra un attacco violento contro il revisionismo. È rivolto a Nenni che pone il problema dei socialisti e alla dissidenza interna, quella di intellettuali come Giolitti, Fabrizio Onofri che poi rompono con il Partito. Pongono il problema che non è una crisi nel sistema, ma è una crisi del sistema. Il socialismo reale è lo Stato che diventa Stato del partito. Il revisionismo rompe questo assunto. Il partito politico non può essere Stato, perché, se diventa Stato, ha dentro di sé gli elementi della oppressione. Se nel ‘56 il Pci avesse condannato la repressione ungherese cosa sarebbe successo? Sarebbe stato lacerato da una scissione. E avrebbero prevalso i filosovietici. Ecco perché insisto sul tema dell’assenza di cultura istituzionale da parte della Sinistra. La Sinistra e i cattolici, la stragrande maggioranza delle masse italiane nascono anti-Stato. I cattolici per la questione vaticana, i socialisti e i comunisti per ragioni sociali, economiche, ideologiche».
Neanche dopo il 1989 la sinistra riesce a unirsi.
«Dopo il 1989 Craxi va a Praga. Su un muro trova scritto “viva il Comunismo”. Allora lui cancella e scrive “abbasso il Comunismo, viva il Socialismo”. Passa un giovane ceco, legge e gli dice, facendogli il segno del taglio della testa, “Socialismo Kaputt”. Comunismo e Socialismo, nell’immaginario generale, erano identificate. Craxi dopo l’89 doveva compiere una grande operazione politica: chiedere, dopo la Bolognina, che Partito Comunista e Partito Socialista si sciogliessero e riunificassero superando la scissione di Livorno del 1921. Ma non andando a prima di Livorno, andando più avanti. Si doveva sapere che si sarebbe aperta nelle nuove generazioni una crisi di rigetto nei confronti anche della socialdemocrazia e di ogni forma di socialismo. Realizzato o realizzabile. Bisognava andare oltre. Craxi invece fa una sola operazione distensiva, nei confronti del Pci. Dice: vi do tempo, cioè non vado alle elezioni anticipate sulla vostra crisi, vi do tempo per riorganizzarvi e riconvertirvi. Ora secondo me questa era una linea totalmente sbagliata perché la riconversione affidata semplicemente all’iniziativa interna del Partito Comunista avrebbe avuto tempi lunghi, e abbiamo visto che, ancora oggi, in aree del Partito Comunista, dopo trent’anni, non è maturata ancora questa consapevolezza».
Qual è l’ultima volta che hai sentito Craxi?
«Prima che partisse».
Dopo non lo hai più sentito?
«Non l’ho più sentito. Io ebbi con lui un dissenso finale. Ho sempre ritenuto che, andando via, sbagliasse. Un errore forse inevitabile per le ragioni di un profondo dolore . Al culmine del suo dramma personale e politico, alla fine della legislatura nel ‘94, io gli dissi: «Non andare all’estero, noi abbiamo tutti il dovere di stare qui. All’inizio sarà dura, sarà difficile, tutto sarà pieno di amarezze e di sofferenze, ma il tempo fa maturare le ragioni, si spengono le passioni più aspre. Le passioni sono naturalmente ingovernabili solo in due casi: quando il soggetto è ancora sul piedistallo e quando il soggetto è scappato». Quando tu scendi dal piedistallo e non scappi, la ragione ti arriva non dico subito, ma in tempi ragionevoli».
E lui questo non lo accettò?
«Non lo accettò perché sentiva forte l’ingiustizia, l’offesa ricevuta, l’inaccettabilità della selezione per decimazione. Credo che ci fosse anche una ragione di sofferenza fisica, morale, personale. Temeva di non farcela».
Delle persone che hanno fatto politica con te chi ti manca di più?
«Matteo Matteotti. Era una persona splendida: aveva un profondo distacco dal suo dramma umano e la ragione della sua lotta politica era sicuramente l’incarnazione di un ideale e di una sofferenza. La sinistra non esiste senza la sofferenza. Io ricordo sempre una frase che la Kuliscioff aveva pronunciato nel 1926 , intervistata da Giovanni Ansaldo allora ancora antifascista, che le chiese: “Ma dove avete sbagliato?” Una domanda che si può, si deve, fare sempre quando un grande patrimonio viene improvvisamente distrutto. Si può fare anche oggi, a chi lo ha distrutto. Lei rispose: “Non vi esercitate in grandi elucubrazioni, cercate di capire una cosa: alla base di una sconfitta vi è sempre una dirigenza che non ha sofferto”».
Chi amò e chi odiò Aldo Moro, scrive Renato Moro il 9 maggio 2018 su Tempi. Questi tempi sono lontani. Il fatto che Moro sia stato un leader politico odiato come pochi non va però dimenticato. Nel quarantennale della morte di Aldo Moro, pubblichiamo un articolo tratto dall’Osservatore romano – Tre anni prima della strage di via Fani, Pier Paolo Pasolini, nel celebre articolo dedicato nel 1975 alla scomparsa delle lucciole, denunciava il «drammatico vuoto di potere» di un paese governato non da una classe dirigente ma da «maschere». Tra di esse la più emblematica gli appariva proprio Aldo Moro, l’uomo dal «linguaggio incomprensibile come il latino». Pochi mesi dopo lo scrittore propose pubblicamente un vero «processo penale» contro gli esponenti democristiani del «Palazzo», per trascinarli, «come Nixon» (erano gli anni dello scandalo Watergate), «sul banco degli imputati». E aggiunse: «Anzi, no, non come Nixon, restiamo alle giuste proporzioni: come Papadopulos», cioè come il dittatore greco che era allora stato processato e condannato a morte. L’anno dopo un regista vicino alla sinistra extraparlamentare, Elio Petri, trasformava in un film il giallo politico di Leonardo Sciascia Todo modo. Vi si vedeva, impersonato da Gian Maria Volonté, il presidente «M», leader di un partito cattolico corrotto e che governava da decenni un paese in ginocchio. Era un politico viscido, dall’eloquio complesso e dalla sempiterna attitudine a mediare, giunto a orchestrare, in un albergo per ritiri spirituali, la carneficina dei suoi complici di partito, per la loro manifesta inadeguatezza e al solo scopo di sancire la propria supremazia. Nell’ultima scena, in un grottesco sacrificio di redenzione, «M» offriva se stesso al boia e, recitando il Padre nostro, attendeva in ginocchio il proprio destino. Questi tempi sono lontani. Il fatto che Moro sia stato un leader politico odiato come pochi non va però dimenticato. Sin dai primi anni sessanta, a destra si denunciava il «comunismo moroteo» e accusava Moro di essere una sorta di complice “attivo” del Partito comunista italiano (Pci). A sinistra il quotidiano comunista ne bollava il sistema di «ricatto» mascherato «sotto il velo delle parole dette e non dette, delle ambiguità, delle polivalenti interpretazioni». Sarebbe stato così Eugenio Scalfari ad attribuire a Moro la celeberrima formula delle «convergenze parallele», che lui, in realtà, non aveva mai usato: perché aveva semplicemente parlato di «convergenze democratiche»; ma la leggenda era più vera della realtà, e, nonostante le sue smentite, Moro era stato coperto da un coro di ironia. Insomma, negli anni settanta Pasolini e Petri esprimevano un topos interpretativo già largamente diffuso: quello del “gattopardo levantino”, trasformista perché nulla cambiasse. E Sciascia stesso, nel suo pamphlet sull’affaire Moro, l’avrebbe di lì a poco definitivamente codificato scrivendo di «un grande politicante: vigile accorto, calcolatore, apparentemente duttile ma irremovibile». Naturalmente, Moro venne anche profondamente amato. Innanzitutto, dai suoi elettori: va ricordato che nel 1968 fu il politico che ottenne il record delle preferenze. Poi, intorno a lui, da una parte, il cattolicesimo di sinistra e, dall’altra, la cultura comunista costruirono l’immagine, speculare e non meno distorta, del principale ideatore dell’accordo con il Pci. Sarebbe stato così facile, dopo la sua morte, farne il martire di questa causa: nel 1998, non certo a caso, la città natale, Maglie, ha scelto di porre a suo ricordo una statua che lo rappresenta con in mano una copia dell’«Unità». Quei tempi sono lontani. Ancora oggi, però, non è facile un discorso su Moro: non è facile evitare il peso di tante passioni; non è facile nemmeno evitare il peso della sua stessa tragedia. Eppure, continuando a focalizzare esclusivamente lo sguardo su di essa, non solo rischiamo di mettere quei cinquantacinque giorni avanti a quasi 62 anni di vita pienissima, ma rischiamo una sorta di paradossale proiezione interpretativa all’indietro che legga Moro dalla fine, come se quest’ultima fosse la chiave rivelatrice di tutto. Eppure, di lui si deve parlare. Per “liberarlo” una volta per tutte dal carcere delle Brigate rosse e riconoscergli il ruolo di protagonista di quasi vent’anni di storia della democrazia italiana che certamente merita. Formatosi nella nidiata montiniana dei giovani intellettuali cattolici della Fuci, la Federazione universitaria cattolica italiana, e del Movimento laureati, educato a una fede pensante, Moro non aveva scelto la politica: avrebbe sempre dichiarato di sentire lo studio e l’insegnamento universitario come la propria vera vocazione. Se non l’aveva seguita, era stato solo per senso di responsabilità, verso la chiesa e il paese. Fu così che, giovanissimo (non aveva ancora compiuto trent’anni), Moro divenne uno dei costituenti, e con un ruolo decisivo: per l’attitudine a suggerire formule di mediazione e di sintesi; per il fermo sostegno alla necessità di collocare i principi fondamentali nella costituzione, e non in un limitativo preambolo; per il ruolo nella scelta dell’espressione «fondata sul lavoro» dell’articolo 1; per l’accoglimento dell’istituto del referendum; per la rivendicazione di una democrazia sociale, basata su una forte presenza dello Stato; per l’affermazione della valenza «antifascista» della nuova democrazia. Moro fu il primo ministro della giustizia (1955-1957) a visitare sistematicamente le carceri, il primo ministro della pubblica istruzione (1957-1959) a istituire l’educazione civica. Soprattutto, fu colui che, con un paziente lavoro di convincimento e di rassicurazione, riuscì a portare il suo partito, il mondo cattolico e la Chiesa ad accettare l’apertura ai socialisti, e cioè la formula politica che avrebbe regalato agli italiani la maggiore crescita economica e civile della loro storia. Il centro-sinistra è sempre rimasto per Moro il vero orizzonte di riferimento: nel 1968 fu sensibile a capire i «tempi nuovi» della contestazione giovanile, dell’emancipazione femminile, della protesta del mondo del lavoro, ma avrebbe voluto continuare a governare coi socialisti. Furono gli anni settanta, con la crescita inarrestabile dei voti al Pci e l’indisponibilità socialista, a rendere il suo disegno impossibile. Fu ancora lui, tuttavia, a farsi perno e garante di una soluzione difficilissima, quasi acrobatica, per fare andare avanti, e non indietro, la democrazia italiana: governi democristiani con l’ingresso comunista nella maggioranza e con l’avvio di un complesso processo di legittimazione reciproca che avrebbe potuto favorire il superamento degli invalicabili muri della Guerra fredda. Quei tempi sono lontani. Il centenario della nascita di Moro nel 2016 e il quarantennale della sua morte hanno visto un numero davvero straordinario di commemorazioni, di celebrazioni, di documentari, di interventi a ogni livello. È un caso che tutto questo interesse mediatico coincida con un momento di profonda incertezza, di crisi, forse addirittura di tramonto dell’Italia? Certo, Moro pare oggi venire da un altro pianeta. In un’epoca di leadership fortemente personalistiche, lui è, come scrisse allora un giornalista, un uomo «che non vuole essere fotografato, che non vuole essere intervistato, che non vuole essere citato, che non vuole essere nemmeno lodato». In un’epoca in cui tutte le forze politiche ripetono insistentemente ai loro elettori che le soluzioni sono semplicissime ed evidenti e che, se i loro avversari non lo riconoscono, è solo per malafede o corruzione, Moro è il politico convinto che la realtà è sempre complessa, che un elemento profondo di verità esiste in ogni posizione sincera, che occorre studiare seriamente e mettersi dal punto di vista degli altri. In un’epoca di politica esclusiva e intollerante, che ha creato il termine “inciucio” per bollare come cedimento corruttivo ogni forma di accordo politico, Moro è convinto che compromesso significa esattamente quello che la sua etimologia latina dice: cum promittere, “promettere insieme”, e dunque l’atto più alto che si possa compiere in politica. Forse, proprio perché gli italiani sembrano non sapere più chi sono essi sentono l’interesse (e, chissà, la nostalgia) di una leadership non della forza, non del decisionismo, non della delegittimazione, ma dell’intelligenza e del dialogo.
La sinistra morì con Aldo Moro. Il nuovo libro di Giovanni Bianconi, scrive giovedì, 07 marzo 2019, Il Corriere.it. Il 16 marzo del ’78 finì il ’68. L’euforia rivoluzionaria che aveva dominato il decennio affogò nel sangue dei cinque uomini della scorta uccisi dalle Br, e poi, 55 giorni dopo, di Aldo Moro. Si chiuse così la lunga stagione in cui una sinistra che si chiamava ancora comunista poté realisticamente sperare di vincere in un Paese occidentale; e non solo sul piano politico, ma anche su quello sociale e culturale, quasi inverando l’idea gramsciana di egemonia. Dalla morte del leader democristiano, che voleva metabolizzare quella sinistra e assorbirla in una «terza fase» della democrazia italiana, cominciò il decennio che l’avrebbe invece espulsa dalla storia, con Craxi e Canale 5, con Forlani e il pentapartito, per finire poi con la sua sepoltura definitiva sotto le macerie del Muro di Berlino, nel 1989. Quando ci si confronta con una data storica, si tende a fare ragionamenti del genere che avete appena letto. Si assume cioè il punto di vista, un po’ pomposo, della profezia che si autoavvera, come se gli eventi di allora, osservati quarant’anni dopo, contenessero già in sé, in nuce, le tracce di ciò che hanno prodotto. E invece una giornata storica è innanzitutto una giornata del suo tempo, non del nostro. E se la riguardi da vicino per com’era, non con il senno di poi, ti accorgi di due cose. La prima è l’incredibile forza che esercita, nelle vicende umane, l’eterogenesi dei fini: i protagonisti compiono azioni di cui non possono veramente prevedere l’esito, tentano di influenzarlo ma agiscono in realtà sotto un velo di ignoranza: per questo talvolta appaiono «sonnambuli» mentre si dirigono verso il ciglio di un burrone. La seconda è che ogni giornata storica poteva andare in un altro modo, anzi, in mille altri modi; e che ciò che ne risultò fu solo la combinazione di comportamenti individuali contraddittori e fallaci, di errori e omissioni. È questo il valore di testi come quello che ha scritto Giovanni Bianconi per Laterza. Un lavoro quasi virtuosistico di ricostruzione di tutto ciò che accadde davvero quel giorno, un libro così da cronista da diventare un libro di storia. Perché del rapimento di Moro si sa quasi tutto, e lo si sa anche grazie a ciò che ne ha scritto negli anni Bianconi. Però ogni volta c’è qualcosa che ti colpisce come se non fosse nota. La vicenda di Antonio Spiriticchio, per esempio, il fioraio ambulante che si era piazzato da un paio di anni tra via Mario Fani e via Stresa, proprio dove era progettato l’agguato. La notte prima due brigatisti, Seghetti e Fiore, andarono sotto casa sua, in tutt’altra zona di Roma (erano risaliti all’indirizzo fingendosi avvocati al Pra), e gli bucarono tutte e quattro le gomme del Ford Transit che usava. Un dettaglio, certo. Ma che al fioraio salvò la vita; e che a leggerlo oggi basta a render chiaro quanto superiore fosse il livello di preparazione e di organizzazione del gruppo armato rispetto alla risposta che le forze dello Stato riuscirono a dare quel giorno e nei successivi due mesi. Giovanni Bianconi (Roma, 1960) Oppure la vicenda di Tullio Ancora, l’ex alto funzionario della Camera, che lo statista democristiano usava come messaggero segreto con il Pci, attraverso Luciano Barca, allora membro della direzione comunista. La sera prima di esser rapito, Moro chiese ad Ancora di pregare il Pci di non fare scherzi. Il 16 marzo avrebbe dovuto votare la fiducia al governo Andreotti. Si sarebbe trattato del primo monocolore dc con il voto favorevole del Pci, dopo due anni di governi delle astensioni e della non sfiducia. Ma le correnti democristiane imposero una lista di ministri impresentabile per i comunisti, e questi non erano più così sicuri di fare il grande passo. L’azione delle Br fu dunque decisiva nello spingere il Pci a votare a favore del governo Andreotti (perfino nella direzione che si riunì subito dopo l’attentato, Pajetta espresse i suoi dubbi su quella che chiamò «una fiducia listata a lutto»). I brigatisti colpirono dunque per affondare il connubio Dc-Pci, ma in effetti lo accelerarono. Fu di nuovo Tullio Ancora, un mese dopo il rapimento, a portare al Pci una lettera dell’ostaggio che chiedeva aiuto: «Ricevo come premio dai comunisti, dopo la lunga marcia, la condanna a morte. Non commento». Ma stavolta Barca non poteva più nulla. «Di fatto», scriverà poi, «dipendiamo in tutto e per tutto da ciò che Cossiga dice e non dice a Pecchioli. Ma io (…) sono escluso anche da queste comunicazioni». È stata decisa la linea della fermezza, e non verrà più smentita, né dallo Stato, né dalle Br, che alla fine uccisero Moro, come forse avevano già deciso di fare fin dall’inizio, dopo la discussione critica che aveva aperto al loro interno la liberazione senza condizioni del giudice Sossi, anch’egli rapito quattro anni prima. Persero le Br? Sicuramente sì. Dopo l’uccisione di Moro non era più possibile alzare ulteriormente il livello dello scontro, per scatenare una guerra civile che gli italiani non volevano e che non ci fu. La sconfitta politica del terrorismo rosso cominciò proprio con la vittoria della «geometrica potenza» di via Fani. Ma forse un po’ vinsero. Perché la morte di Moro fu l’inizio della fine della collaborazione tra Dc e Pci, che infatti si interruppe nel 1979, dieci mesi dopo, quando i comunisti fecero cadere il governo Andreotti, e tornarono all’opposizione. Berlinguer annunciò la decisione della rottura (presa col voto contrario di Napolitano, Chiaromonte, Macaluso, Perna, Trivelli, Bufalini) il 17 gennaio del 1979, sette giorni prima che le Br uccidessero Guido Rossa, l’operaio del Pci e sindacalista Cgil dell’Italsider di Genova che aveva denunciato un brigatista infiltrato in fabbrica. Così che, in quello spazio temporale tra il sacrificio della più celebre vittima democristiana e quello della più celebra vittima comunista del terrorismo rosso, si compì nei fatti il disegno dell’estremismo che aveva contrastato fin dall’inizio l’evoluzione democratica del Pci. Dalla morte di quel progetto di compromesso non nacque però una nuova sinistra rivoluzionaria, tutt’altro. Il ‘79 fu anzi il canto del cigno della sinistra in tutte le sue manifestazioni. Quattro mesi dopo in Inghilterra vinse Margaret Thatcher. Un altro anno e alla Casa Bianca arrivò Ronald Reagan. Di tutti i calcoli e le macchinazioni del 16 marzo 1978, nota con implicita e amara ironia Bianconi chiudendo il libro, alla fine la previsione più azzeccata resta quella metereologica, diramata regolarmente alla fine della giornata: «Sull’Italia settentrionale e su quella centrale molto nuvoloso o coperto. Nevicate sull’arco alpino. Attività temporalesca in Sardegna. Sulle regioni meridionali nuvolosità in graduale intensificazione. Venti forti. Mari generalmente agitati». Brutto tempo in arrivo. Il libro di Giovanni Bianconi sarà presentato a Roma presso la fiera Libri Come sabato 16 marzo alle ore 18, in sala Studio 2, con Gianni Cuperlo, Marco Damilano, Monica Galfré. Un secondo incontro si svolgerà a Roma il 29 marzo alle ore 17 presso la Treccani, con Giuliano Amato, Pier Ferdinando Casini e Massimo D’Alema.
· In ricordo del Presidente Francesco Cossiga.
In ricordo del Presidente Francesco Cossiga. Stefania Craxi su Il Corriere del Giorno 17 Agosto 2019. Il 17 agosto di 9 anni fa veniva a mancare Il Presidente Francesco Cossiga. La senatrice Stefania Craxi lo ricorda con questo testo, uscito come speciale per l’Adnkronos. La Fondazione Craxi pubblica nel giorno in cui si celebra il nono anniversario della morte di Francesco Cossiga, una lettera inedita, custodita nei suoi archivi, che il leader socialista Bettino Craxi scrisse all’allora presidente del Consiglio durante gli anni del suo esilio ad Hammamet. A quasi un decennio dalla sua scomparsa, Francesco Cossiga resta una delle figure di maggior spessore politico e di altro profilo istituzionale della nostra storia repubblicana. Una personalità enigmatica, le cui scelte e decisioni sono state spesso di difficile lettura, a tratti incomprensibili, e mai definitive. Era anche questa una delle cifre caratterizzanti del rapporto con Bettino Craxi. Dalle dimissioni anticipate dalla Presidenza della Repubblica alle oscure vicende di “Tangentopoli“, passando alla sua mutevole relazione con il “giudice” e il “politico” Di Pietro – senza tralasciare le vicende degli anni ’80 come Sigonella, in cui i due gestirono la vicenda l’uno dal Quirinale l’altro da Palazzo Chigi – sono molti i momenti che congiungono due personalità diverse ma con sensibilità comuni. Su tutto, basti pensare al tema delle riforme istituzionali che mai come in questi giorni, segnati da una crisi che più di governo potremmo definire l’ennesima crisi di sistema, si presenta come questione aperta. Infatti, dopo il saggio “VIII legislatura” vergato da Craxi sulle colonne de “L’Avanti” nel settembre del 1979 in cui il leader socialista invocava una "grande riforma" che abbracciasse insieme l’ambito istituzionale, amministrativo, economico-sociale e morale, fu proprio Cossiga a recuperare con forza il tema delle riforme in un messaggio alle Camere del giugno ’91. È sufficiente rileggersi le cronache del tempo per comprendere il clamore, l’isolamento e la portata riformatrice di quel messaggio presidenziale che evidenziava la necessità, un anno e mezzo dopo la caduta del muro di Berlino, di adeguare il dettato costituzionale, specie alla vigilia del varo di Maastricht. Cossiga come sappiamo fu bersagliato e isolato. Il suo messaggio trovò di fatto, non a caso, il solo Craxi come sostenitore, vista la freddezza di una parte della DC e, addirittura, la richiesta di messa in stato di accusa da parte del PCI. Ma quell’atto presidenziale resta ancora oggi un punto di riferimento, poiché ha il merito di indicare le principali direttrici di una ‘vera’ riforma costituzionale: dalla forma di governo al ruolo delle autonomie, passando per la disciplina dell’ordine giudiziario, ai nuovi diritti di cittadinanza, fino agli strumenti di finanza pubblica che, tra l’altro, da lì a poco le norme europee avrebbero radicalmente modificato. Il messaggio resta quindi, oggi come ieri, un prezioso vademecum per le riforme’, ignorato quanto utile, anche perché individuava le procedure possibili ed alternative, seppur rispettose del 138, per una revisione organica della Carta. Altro che le riforme "un tanto al chilo" di cui si parla oggi! Ma, il rapporto tra Craxi e Cossiga continuò, tra diversità e comunanze di vedute, anche dopo la "falsa rivoluzione" di "Mani pulite" e negli anni dell’esilio tunisino. Craxi si chiese spesso il perché di quelle dimissioni anticipate dalla Presidenza che, guardate a posteriori, cambiarono e influirono molto sugli accadimenti successivi. Viste i suoi legami internazionali e la nuova geopolitica che si schiudeva, era conoscenza di qualcosa? Viveva un altro dei suoi contrasti interni come negli anni del delitto Moro? Molto c’è ancora da capire e su molto c’è ancora da indagare e studiare. Ad ogni modo ricordo la sua visita ad Hammamet pochi mesi prima della morte di Bettino. È un incontro che ancora oggi mi emozione modi e intensità. Fu un pranzo tra due vecchi amici, con poche parole e molti sguardi, un incrocio tra due combattenti, duri e franchi, con due stili diversissimi, con alcune domande di Bettino e alcuni silenzi di Cossiga. Fu proprio l’ex Presidente a chiedere in quella occasione a Craxi di raccontare la verità sulla vera natura del finanziamento irregolare del PSI e sul suo principale impiego, ossia il sostengo a quanti, da Est a Ovest, in Medioriente come in Sudamerica, lottavano per la democrazia e la libertà. Ma in quella circostanza la perseveranza di Cossiga non ebbe la meglio. Craxi gli rispose che non avrebbe mai e poi mai mischiato le cause di libertà di mezzo mondo con le miserie italiane. Chissà, nell’opportunismo e nella confusione delle contingenze, nell’incapacità di leggere e agire nel quadro internazionale, quanti sarebbero oggi coloro disposti a farlo! Nel giorno in cui si celebra il nono anniversario della morte di Francesco Cossiga, la Fondazione Craxi pubblica una lettera inedita, custodita nei suoi archivi, che il leader socialista scrisse all’allora presidente del Consiglio durante gli anni del suo esilio ad Hammamet.
La lettera di Bettino Craxi a Francesco Cossiga. “Caro Presidente, mi auguro che tu stia bene e leggo con piacere ciò che scrivi a proposito di questa Araba Fenice chiamata ‘riforma costituzionale’. Leggo però anche cosa scrivi riguardo a Di Pietro: ‘Poveretto ha tanti guai. Lasciate in pace Di Pietro’. Ti confesso che sin dall’inizio non ho mai capito la tua posizione a proposito di questo signore. Mi sono chiesto tante volte a che cosa fosse dovuta” si legge nell’incipit della missiva. Gran parte della lettera è dedicata all’ex pm di Mani pulite, definito un “avventuriero” ma l’ex leader del Psi assicurava a Cossiga: “In ogni caso non starò zitto io. Sino ad ora subendo quello che ho subito e subisco, ivi compresa una sentenza della Cassazione che si è messa sotto i piedi anche una pronuncia chiarissima della Corte Costituzionale, senza che un’ombra di costituzionalista levasse una parola di protesta, mi sono imposto una condotta di estrema responsabilità. Aspetto ancora con pazienza una soluzione politica”. “Se non verrà e se mi convincerò che è inutile farsi illusioni – proseguiva Craxi – credo che la mia reazione, peraltro molto documentata, non mancherà, e renderà un buon servizio all’Italia e alla storia. Quanto al Di Pietro, come un suo libro, certo non scritto da lui, non meritava una tua prefazione, la sua attuale situazione non merita proprio quello che dici. Io mi auguro ancora che tu stesso riprenda il tema della ‘operazione verità’ di cui si è parlato e si parla. Ricordo, di tanto in tanto, i tempi passati e ti invio un fraterno saluto. Bettino Craxi”.
Br, l'intervista a Cossiga del 2003: "Terroristi come partigiani". Le Iene 20 gennaio 2019. Dopo il caso Battisti e la nostra intervista all'ex brigatista latitante Alvaro Lojacono, vi riproponiamo una nostra intervista del 2003 all'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga sugli "anni di piombo". Dopo la cattura e l’estradizione di Cesare Battisti e la nostra intervista all’ex brigatista Alvaro Lojacono (scovato e intervistato da Gaetano Pecoraro in Svizzera, dove è latitante, mentre in Italia è stato condannato all’ergastolo), ci sembra importante riproporre questa nostra intervista del 2003 all’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Cossiga, nemico giurato dei terroristi rossi, si era fatto promotore di un’iniziativa per l’amnistia sugli anni di piombo. Sulla base di un concetto, a cui fa riferimento lo stesso Lojacono e che l’ex Capo dello Stato, scomparso nel 2010, ribadisce anche davanti alle nostre telecamere: “Fu il tentativo di innescare una guerra civile: chi combatté lo fece non con l’animo del terrorista ma con l’animo del partigiano”.
Cesare Lanza per “la Verità” il 2 ottobre 2019. Tutto cominciò quando dirigevo La Notte, alla fine degli anni Ottanta. Mi urtavano i continui attacchi, le perfidie, le malizie e i sottintesi da cui Francesco Cossiga - presidente della Repubblica - era tormentato: in particolare le allusioni alla sua salute mentale. L' intento dei suoi critici era evidente, a volte esplicito, dichiarato: indurlo alle dimissioni. E così un giorno scrissi un fondino, per esprimergli simpatia e stima. Non ricordo con precisione il contenuto del mio breve articolo, ma il titolo sì, che mi inventai lì per lì: «Uno, due, dieci, cento, mille Cossiga». In breve sostenevo che un uomo come Cossiga bisognava tenerselo caro, e peccato che non ce ne fosse un migliaio di altri simili, nella vita politica del nostro Paese. Cossiga mi ringraziò con una formula affabile, ma convenzionale: pensai che non fosse di suo pugno, sapevo che aveva l' abitudine di scrivere biglietti estrosi, bizzarri, spontanei. Non avevo avuto questo onore, e invece nacque un rapporto reciprocamente corretto e cortese, oserei dire amichevole. Qualche volta andai a trovarlo al Quirinale, gli attacchi contro di lui non erano affatto cessati, anzi l' accanimento era diventato più feroce. Una volta gli chiesi: «Cosa avresti fatto al posto di Leone, quando i delegati del Pc e della Dc gli chiesero, o ingiunsero, di dimettersi?». Cossiga replicò con uno sguardo beffardo e disse: «Semplice, avrei chiamato i carabinieri!» (Leone invece, sgomento, si dimise subito e lasciò il Quirinale. Era innocente di fronte a tutte le accuse che gli erano rivolte, ma cedette alla arrogante violenza degli alleati comunisti e democristiani). In seguito, lessi risposte più o meno uguali di Cossiga, quando gli rivolsero una domanda come la mia. Il Presidente però non ebbe mai la necessità di chiamare i carabinieri. Leone era un personaggio timido, uno studioso estraneo ai veleni della politica. Cossiga aveva un carattere forte, risoluto, sbeffeggiava perfino i suoi avversari. Era detestato, ma temuto. Qualche anno dopo commisi un errore professionale molto grave. Lasciai La Notte, dove mi trovavo benissimo anche se i popolari giornali del pomeriggio erano destinati a sparire, e accettai un' offerta principesca di un finanziere temerario e spregiudicato, Gianmauro Borsano. Si trattava di fondare e dirigere un nuovo giornale, La Gazzetta del Piemonte, nelle sue intenzioni erede di un quotidiano, La Gazzetta del Popolo, molto amata non solo a Torino, e purtroppo scomparsa, da tempo, dalla scena. Borsano aveva acquistato la squadra del Torino e astutamente, conoscendo la mia passione per il calcio, mi offrì la vicepresidenza, per superare le mie esitazioni. Per mia fortuna l' incarico non fu mai formalizzato: in seguito infatti tutti i consiglieri di amministrazione furono indagati, coinvolti - a prescindere - dai disastri che Borsano aveva combinato. Portai Borsano con me al Quirinale e fummo accolti con cordialità, alla vigilia dell' uscita della Gazzetta. Chiesi a Cossiga di promettermi di farci visita a Torino, in redazione, e lui me lo promise. Sinceramente, non me l' aspettavo. E invece, promessa mantenuta! Qualche settimana dopo, il Quirinale ci inserì nel quadro di una visita di Cossiga a Torino: c' eravamo noi, un giornalino neonato, e non c' era La Stampa, uno dei più grandi quotidiani italiani, di proprietà della famiglia Agnelli! Con Cossiga non ne parlai mai, ma intuii il retroscena: il risentimento che nutriva verso il grande giornale torinese, che non gli risparmiava critiche pungenti e frecciate. Ad accogliere il Presidente c' erano non solo i giornalisti e tutto il personale della Gazzetta, ma anche tutti i calciatori del Torino e il loro allenatore, Emiliano Mondonico. Devo dire che l' esperienza con la Gazzetta fu tormentosa e infelice, ma con il calcio mi divertii moltissimo: quarto posto in campionato e finalissima in Coppa Uefa (oggi Europa League): risultato mai più raggiunto dalla gloriosa squadra granata.
La visita di Cossiga si svolse secondo tradizione. Fotografie, discorsi, scambi di regali...Ma c' è un episodio che merita di essere ricordato, per il divertimento dei lettori. All' arrivo di Cossiga, un suo timido ammiratore, agricoltore ad Alba, si era fatto avanti e aveva offerto al Presidente un gigantesco cesto di tartufi. Cossiga aveva ringraziato e benignamente aveva fatto cenno a un suo collaboratore di posare quel ben di Dio sul mio tavolo... Dopo un' ora, finita la visita, Borsano e io, insieme con la scorta, avevamo accompagnato il Presidente fino alla sua automobile. Tornai nel mio ufficio e notai subito che i tartufi erano spariti. Chiesi alla mia segretaria... «Direttore, è arrivato Borsano di corsa e se li è portati via!». L' attrazione che Cossiga esercitava su di me era incentrata, tra altri aspetti, sulla sua meravigliosa qualità di esprimersi controcorrente, secondo i casi con audacia e impertinenza, sempre con ironia. Una volta mi disse che la strage di Bologna era nata da un fortuito incidente, gli attentatori non avevano l' Italia nel mirino. Mi ero abituato a credere a tutto ciò che diceva, a rispettare battute e rivelazioni. Perciò scrissi tranquillamente di ciò che mi aveva detto. Nessuna reazione. C' erano argomenti di cui il nostro mondo preferiva non occuparsi. E fu così anche, tranne qualche eccezione, quando fu pubblicato un suo straordinario libro, La versione di K. Sessant' anni di controstoria (Rizzoli, Rai Eri). «Anche se talvolta misteri inestricabili si sono addensati in alcuni passaggi della vicenda italiana - scriveva - la mia impressione è che ormai nessuno creda più alla realtà così come è. E dunque c' è sempre una seconda realtà da ricercare. Non credo che sia un principio sbagliato, e non posso certo dirlo io che ancora non ho smesso di scavare, chiedere, provocare. Ma aspirare sempre alla quadratura del cerchio fa sì che spesso ombre riottose sfidino le leggi della percezione e affollino impazzite la scena fino a oscurarla del tutto». Come dire: attenzione che le cose sono più semplici di come si crede, ma proprio perché sono semplici non vogliamo crederci e andiamo alla ricerca del retroscena e del mistero, infilandoci in un tunnel senza via d' uscita. È così che la verità, a portata di mano, finisce per allontanarsi per sempre.
Tragedie come Ustica, Piazza Fontana, il caso Moro, la strage di Bologna, andrebbero rilette senza frequenti, artificiosi scenari dietrologici. Molte facili convinzioni e vecchie ricostruzioni giornalistiche, e persino giudiziarie, potrebbero mostrare tutta la loro inconsistenza. Cossiga: «Ci si accanisce sulla strage di Bologna, si chiedono a gran voce giustizia e verità. Capisco. Come potrei non capire il vuoto e la disperazione prodotti da quell' esplosione del 2 agosto 1980? Ottantacinque morti, oltre 200 feriti: un bilancio insopportabile. Ma perché non credere a Giusva Fioravanti e a Francesca Mambro che si dicono innocenti per quello che è successo a Bologna, pur dichiarandosi responsabili di altri atti criminali? [] Per me fu un incidente, un drammatico incidente di percorso. Una bomba trasportata da terroristi palestinesi che non doveva essere innescata in quell' occasione e che invece, chissà perché, per un sobbalzo, una minaccia, un imprevisto, scoppiò proprio in quel momento». Questa audacia di analisi, mi attrae. Cossiga offre anche una interessante rilettura del rapporto mafia-politica, di quella contiguità fra Cosa nostra e la Democrazia cristiana siciliana della quale «molto si è detto e molto si è immaginato. Forse troppo». Argomento di grandissima attualità. La ricostruzione di Cossiga parte dallo sbarco alleato in Sicilia, e arriva alle prime elezioni amministrative, per ricordare ai troppi che lo hanno dimenticato che la mafia si presentava come apertamente antifascista e fece convergere i voti sulla più antifascista delle forze politiche: il Partito comunista. La circostanza mise in allarme i moderati. Allora, ecco Cossiga: «Fu il cardinale Ernesto Ruffini, arcivescovo di Palermo, a mettere in guardia la Dc. "Se volete i voti dovete andare a cercare quelli lì" disse. E con "quelli lì" intendeva i mafiosi. L' ingrato compito toccò a Bernardo Mattarella, vicepresidente dell' Azione cattolica». Cossiga è convinto che non esistano «politici mafiosi», mentre «esistono uomini vicini alla mafia, collusi, ma non mafiosi». La spiegazione: Cosa nostra può ammettere nelle sue fila professionisti, medici, avvocati, ma non politici, rappresentanti cioè di un altro potere organizzato. Cossiga tante volte mi ha detto quanto sia impervio spazzare via i «luoghi comuni». Sia per pigrizia, comunque sono duri a morire. E concordo con chi ha scritto che nei libri «forniva il suo punto di vista, la sua visione sui cosiddetti "misteri italiani". In troppi, superficiali e altezzosi, lo liquidarono come "le solite cose del picconatore"».
Eppure cose da leggere e rileggere. E proprio in omaggio a Cossiga, uno che di intelligence se ne intendeva, va proposto ai lettori questo scritto, uno degli ultimi. «L' Italia dei misteri. O forse l' Italia senza misteri. Siamo abituati da sempre a cercare un grande burattinaio, anzi "il grande vecchio", dietro spezzoni della nostra storia, dietro le tragedie che hanno travagliato il nostro Paese, dal dopoguerra a oggi. [...] Il fatto è che nessuno fino a oggi ha saputo dare una risposta a domande-chiave: perché l' Italia dal 1969 è stata funestata dal terrorismo e dalla violenza politica con centinaia di morti e migliaia di feriti? Perché le inchieste giudiziarie hanno dato finora molta importanza al ruolo dei Servizi segreti definiti "deviati", della P2, della Cia, con il risultato di non approdare ad una verità giudiziaria e ad una verità storica condivisa? Forse è ancora presto per parlare di Storia, in un Paese che non ha ancora superato il trauma e la lacerazione dell' 8 settembre e soltanto adesso comincia a fare i conti con il Risorgimento».
· Le auto di Moro.
La Peugeot 403 «famigliare» di Aldo Moro ritrovata a Roma. Pubblicato venerdì, 3 maggio 2019 da Giosuè Boetto Cohen su Corriere.it. Improvvisamente l’annuncio: un medico pugliese, Attilio Cesarano, ha scoperto in un capannone a Roma una vecchia Peugeot giardinetta. E’ di un bel blu mare, ha le targhe e i documenti originali. E’ intestata ad Aldo Moro e alla moglie Eleonora. Dall’archivio della Associated Press sbuca anche una «telefoto» che li ritrae a bordo: è il 20 aprile 1970, giorno delle nozze d’argento. Al volante c’è la signora. Così inizia la seconda vita della Peugeot 403 «familiale» acquistata il 23 gennaio 1960 - come recita il libretto di circolazione - dall’ «Onorevole Moro, residente a Bari in corso Vittorio Emanuele 20 barra A». Non è la Fiat 130 blu tallonata da una Alfetta, crivellate di colpi e trasformate in una icona del Ventesimo secolo. E nemmeno quella Renault 4 rossa, con il bagagliaio tragicamente aperto. Questa è un’auto privatissima, a otto posti, per portare a spasso una famiglia di sei persone e – magari – una governante. Quando andò in concessionaria per prenotarla Moro era deputato, segretario della DC, da poco ex ministro della Pubblica Istruzione e quasi pronto per diventare presidente del Consiglio. Decise per una delle rare 403 importate in Italia, così semplice e fuori moda da non dare proprio nell’occhio. Per questo era stata scelta. Marito e moglie d’accordo, ci si potrebbe scommettere. La memoria corre alla amata «Noretta» delle lettere dalla prigione. La donna minuta, austera, che sembrava sola contro tutti. Quella che riusciva a dire «mi scusi» se, al telefono, parlava sopra la voce al brigatista. La stessa che chiuse, senza appello, i funerali agli uomini dello Stato. E forse anche al Papa. E’ proprio lei, Eleonora, la vera padrona dell’auto. Moro praticamente non guidava. Lo ricordano in tanti e lo dice quella foto, bellissima, che racchiude lo spirito della 403. Alla guida una donna tranquilla, sorridente. E il trasportato che ammicca dall’altro sedile, con l’aria mite, un po’ altrove, con cui l’uomo della strada lo ricordava. La 403 blu visse molte primavere, con le sue tre file di sedili piene di giovani Moro e di amici, cugini, chissà. Viaggiò tra Roma e le Puglie nelle vacanze. Ma era anche la macchina per andare a fare la spesa al quartiere Prati. Poi venne la notte immane. Chissà se Noretta aveva ancora la forza di guidare, dopo quel 1978? Forse il volante passò alle figlie minori, che ancora vivevano in casa. O all’unico maschio, Giovanni, patentato da poco, ma che facilmente ambiva a qualcosa di diverso. Così la 403 cominciò a dormire sonni sempre più lunghi, posteggiata in un capannone a Monteverde, non troppo lontano da casa. Settimane di oblio che divennero mesi, quando da casa si allontanò lei, perché nessuno dei Moro abitava più là. Nel capannone si caricavano sacchi di calce e cemento, e la polvere cadde sull’azzurro mare delle fiancate, rese ciechi i vetri, spense le cromature. I nidi di rondine sulle capriate non aiutarono, mamma topo fece il nido dietro il cruscotto, i suoi piccoli impararono a rosicchiare sui pomelli del cruscotto. Il capomastro ogni tanto le dava una pulita, gonfiava le gomme, provava a far girare il motore. Quasi come se la signora Moro dovesse tornare l’indomani a riprendersela. Ma nessuno venne. I Moro si erano dimenticati della loro 403. Così un giorno, dopo l’ennesimo colpo di straccio su un sporco che sembrava indomabile, il custode decise che era ora di smetterla. Che andassero tutti alla malora. Chiuse bofonchiando il portone abbandonò l’auto al suo destino. Dopo una decina d’anni il deposito fu venduto e il nuovo proprietario vi trovò dentro quel mucchio di polvere con le ruote. Nessuno, mai, era venuto a cercarla, perché da qualche parte, lontano, in silenzio, la forte Noretta si era spenta anche lei. All’inizio del 2018 il magazzino cambiò di nuovo proprietario. E prima di traslocare, il vecchio parlò col suo medico di fiducia, Attilio Cesarano, procidano d’origine, pugliese di adozione, conterraneo di Moro. «Perché non la prende lei, dotto’? Mandarla alla monnezza, sarebbe un peccato».
· Agnese Moro. Quando la vittima dice al carnefice: tu stai peggio di me.
Quando la vittima dice al carnefice: tu stai peggio di me. Franco Insardà il 15 Dicembre 2019 su Il Dubbio. “Un’azalea in via Fani”, di Angelo Picariello, è un viaggio nella riconciliazione tra gli ex terroristi e i parenti di chi, come Moro, è morto negli anni della lotta armata. «Il merito di questo libro è di aver avuto il coraggio di alzare il velo sui conflitti della nostra storia. Un’operazione che finora hanno fatto solo l’autore e la vedova Calabresi. In tanti anni dalla morte di mio padre molti si sono interessati alla vicenda, alla sua vita, un po’ troppo alla sua morte, spesso in modo sguaiato, però nessuno si è interessato del dolore che rimane da una parte e dall’altra, quando si chiude un conflitto. Si tratta di una ferita che nessuno ha mai curato. Mi chiedo: perché non curiamo il nostro passato?». Lo dice Agnese Moro presentando, insieme con Marco Follini, “Un’azalea in Via Fani. Da Piazza Fontana a oggi: terrorismo, vittime, riscatto e riconciliazione” ( San Paolo edizioni, 344 pagg. 25 euro), il libro di Angelo Picariello, quirinalista di Avvenire. La figlia di Aldo Moro sottolinea: «Questo libro è costato anni di lavoro, riflessione, ripensamenti, scrupoli, prudenze e delicatezze. Facendo, soprattutto attenzione che l’esigenza di raccontare non creasse altro dolore. Restituisce i sentimenti e il clima di tutte le persone che partecipano a questo gruppo di dialogo ( da cui è nato “Il libro dell’incontro” ndr) tra ex appartenenti alla lotta armata, familiari delle vittime, giovani e altri che ci hanno aiutato. Il merito, però, è di chi ci è venuto a cercare, perché le nostre sono state vite molto solitarie, molto isolate. È stato sorprendente che qualcuno venisse a interessarsi al mio dolore. I conflitti della nostra storia diventano favolette che poi passano alla storia: nella Resistenza ci sono stati i buoni e i cattivi, anche durante il terrorismo c’era una società buona e dei gruppetti di cattivi, usciti dal nulla, che a un certo punto hanno deciso di prendere le armi, con lo Stato incapace di fronteggiarli. Però in un guizzo di democrazia alla fine abbiamo sconfitto il terrorismo. Questa è la favoletta che passerà alla storia. Si tratta, sottolineo, di una favoletta, perché le persone che hanno scelto la lotta armata, come documenta molto bene questo saggio, facevano parte integrante della società e c’erano fior fior di intellettuali che hanno predicato la bontà della scelta di prendere le armi». E Agnese Moro continua: «Nei miei incontri in giro per l’Italia ci sono tante persone che vengono non solo per capire come mai io, Giovanni Ricci e altri familiari delle vittime siamo insieme agli ex terroristi, ma tanti anche per curare la loro memoria, feriti per aver tifato per la morte di mio padre e lo raccontano vergognandosi di se stessi, altri che erano bambini e hanno vissuto quel periodo avendo paura. È stato sorprendente che dopo tanti anni qualcuno venisse a interessarsi del mio dolore». E Giovanni Ricci, figlio di uno dei poliziotti assassinati a via Fani, che insieme ad Agnese Moro ha stabilito un rapporto con gli ex terroristi confida: «Si portano addosso una croce più grande della mia, per il peso di ciò che hanno fatto” e “nulla attenuerà mai questo». Quello di Angelo Picariello è un viaggio nelle pagine più nere del terrorismo italiano: dalla strage di Piazza Fontana alla morte del commissario Calabresi, dalla storia di Prima Linea e delle Brigate Rosse fino al rapimento di Aldo Moro. Un percorso difficile, fatto di testimonianze, racconti ed esperienze personali che traccia il quadro di un periodo complicato della nostra democrazia, nel quale una generazione percorsa e dilaniata da un forte malessere in alcuni casi ha trovato uno sbocco nella lotta armata. Il lavoro del giornalista di Avvenire, pur mantenendo una rigorosa ricostruzione storica, si focalizza sui protagonisti senza distinzioni preconcette tra vittime e terroristi e, grazie alla formazione professionale, politica e religiosa dell’autore, ne restituisce la loro umanità e i loro sentimenti. La figura di Aldo Moro è il filo conduttore di “Un’azalea in via Fani”. Una delle lezioni del presidente della Dc è testimoniata da Nicodemo Oliverio, suo allievo alla cattedra di diritto e procedura penale alla Sapienza proprio nell’anno accademico del rapimento: «Aveva incredibile attenzione umana per la persona che traspariva dalla passione con cui spiegava il ruolo emendativo della pena». Oliverio, alla presentazione del libro, ha ricordato che «l’ultima lezione, il 15 marzo 1978, fu proprio sulla rieducazione dei detenuti. Senza dimenticare i suoi dubbi sull’ergastolo, una posizione che restituisce appieno la contemporaneità del pensiero di Moro. E non sfugge a nessuno come l’articolo 27 della Costituzione sia stato ispirato proprio da lui». Picariello ricorda anche la figura di padre Adolfo Bachelet, fratello di Vittorio ucciso il 12 febbraio 1980 alla Sapienza, che ha avuto un ruolo fondamentale nelle scelte e nei pentimenti di tanti ex terroristi sia di destra che di sinistra, come Maurice Bignami, ex capo di Prima Linea. Storica, a proposito di questa formazione armata, la conversione “laica” al congresso Radicale del 1987 di Sergio D’Elia, diventato poi animato dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”. Storie che hanno un comune denominatore: quella umanità emersa in molti di coloro che hanno scontato la loro pena, maturando anche un sincero pentimento, come l’ex brigatista Franco Bonisoli che ha ispirato il titolo del libro. Sì perché è proprio Bonisoli, con il quale Picariello ha da anni un rapporto di amicizia, che nel 2013 arriva a Roma, e chiama il giornalista. Si danno appuntamento in via Fani, dove lui 35 anni prima nel 1978 aveva partecipato al commando che rapì Moro. “Quando arrivai in zona- scrive Picariello – scoprii che c’era appena stato, aveva preferito, alla fine, andarci da solo. Era da poco passato mezzogiorno. Gli chiesi però di tornarci un attimo insieme. Imboccammo così a piedi la strada e subito scorsi a terra, sul marciapiede un vasetto con una piantina, davanti alla lapide in ricordo delle vittime dell’agguato, all’incrocio con via Stresa. «Franco» gli dissi, «è bello che qualcuno ancora si ricordi, dopo tanto tempo…». «Veramente» fu la risposta bruciante, «l’ho appena messa io». Un gesto che testimonia in modo netto la sua lontananza da quella violenza che aveva caratterizzata la prima parte della sua vita. Una violenza che ha accompagnato l’Italia per oltre un decennio, quella che Sergio Zavoli ha battezzato come “La notte della Repubblica”, e che Angelo Picariello fa iniziare il 19 novembre 1969, quando a Milano fu ucciso l’agente di Polizia Antonio Annarumma, originario di Monteforte Irpino ( in provincia di Avellino). Il giornalista di Avvenire ricorda anche i funerali di Annarumma in cui era stato proprio il commissario di polizia Luigi Calabresi, assassinato il 17 maggio 1972, «a intervenire, ingaggiando un corpo a corpo drammatico, in questura, per sottrarre Mario Capanna al linciaggio degli agenti, furiosi per la sua presenza alle esequie». Per tanti, in quel pomeriggio l’Italia perse la sua «innocenza», si legge nel saggio storico, frutto di una lunga ricerca curata dall’Istituto di Studi Politici “S. Pio V” di Roma, con la prefazione di Agostino Giovagnoli, storico della “Cattolica’”, e i contributi dell’ex presidente della Camera, Luciano Violante e dell’ex capo dell’antiterrorismo, ed ex sottosegretario all’Interno, Carlo De Stefano che ha collaborato alla ricerca. Un lavoro che parte da Giorgio Semeria, tra i fondatori delle Brigate Rosse, che «si avvicinò alla lotta arma- ta frequentando proprio sia il Movimento di Cl che il Pontificio istituto missioni estere a Milano, prendendo anche parte con padre Pedro Melesi a un’esperienza missionaria in Brasile». Semeria, uscito di prigione, «si è sposato in chiesa e ha devoluto i doni di nozze alla missione che da ragazzo visitò con quel religioso che suo malgrado lo avvicinò alle ingiustizie, facendo in qualche modo pace con se stesso e potendosi impegnare ora per quegli stessi ideali giovanili in una maniera che non prevede la violenza». E poi ancora Renato Curcio, Alberto Franceschini e tanti altri fino alla colonna avellinese delle Br. Sì, perché Angelo Picariello va a fondo su quello che è un pezzo di storia del terrorismo che ha vissuto da vicino. Lui, militante di Comunione e Liberazione, studente prima e poi giovane consigliere comunale, vive nell’Avellino della metà degli anni Settanta, inebriata dai successi sportivi della squadra di calcio e dall’ascesa politica di Ciriaco De Mita e della Dc di Base. Una città, come si intitola il capitolo dedicato alla sua Avellino, “fra evasione pallonara ed eversione politica”. Dove Maurizio Montesi, un calciatore sui generis arrivato da Roma e tra i protagonisti della promozione in serie A, che Picariello descrive come “legato alla sinistra estrema, tanto regolare in campo quanto sregolato nella vita privata”, alla vigilia di Natale 1978 in un’intervista a Lotta Continua dichiara: “Il tifoso è uno stronzo. Fa il gioco del sistema. Fa il tifo per undici persone con le quali non ha nulla a che spartire». Un mese prima, l’ 8 novembre 1978, la borghesia avellinese era stata scossa dall’assassinio a Patrica, in provincia di Frosinone, del procuratore della Repubblica di Frosinone, Fedele Calvosa. La rivendicazione è delle “Formazioni comuniste combattenti” e gli autori sono tre giovani studenti avellinesi: Nicola Valentino, Maria Rosaria Biondi e il suo fidanzato Roberto Capone. Quest’ultimo rimarrà sul campo, ucciso dal “fuoco amico”. Un’altra ragazza irpina, Maria Teresa Romeo compagna all’epoca di Nicola Valentino, sarà tra gli autori, il 19 maggio 1980, dell’assassinio dell’assessore regionale Pino Amato. Ma oltre a loro tre altri irpini hanno conosciuto la lotta armata. Alfredo Buonavita, operaio emigrato a Torino vicino a Renato Curcio sin dall’inizio e fondatore delle Br nel capoluogo piemontese. Gianni Mallardo, coetaneo e compagno di scuola di Picariello, tra i primi a dissociarsi, reclutato dall’altro avellinese Antonio Chiocchi, figura di spicco delle Br campane e braccio destro di Giovanni Senzani, tra i protagonisti del rapimento di Ciro Cirillo e dell’omicidio del commissario Antonio Ammaturo, che ha avviato un percorso di dissociazione nel carcere di Nuoro nel 1983. Ma a mezzo secolo dall’esplosione di Piazza Fontana, che voleva far precipitare il Paese nello scontro e portare, attraverso la strategia della tensione, a una svolta autoritaria, ecco affermarsi, alla fine di un percorso lungo e drammatico, un vasto movimento di riconciliazione fra vittime, ex protagonisti della lotta armata e uomini delle istituzioni. Ed è ancora Franco Bonisoli il protagonista del viaggio di Angelo Picariello. L’occasione è quella della presentazione all’Istituto Sturzo de “Il libro dell’incontro”, nel luglio del 2016, sull’esperienza del gesuita padre Guido Bertagna. Franco Bonisoli è vicino a Giovanni Ricci, figlio di Domenico morto in via Fani. Con loro ci sono anche Agnese Moro e Alexandra Rosati, figlia di Adriana Faranda, la “postina” delle Br. E quel valore emendativo della pena che Aldo Moro aveva voluto nella Costituzione conforta oggi Agnese nel vedere i carcerieri di suo padre cambiati: «Sono stati una sorpresa perché nella mia mente loro sono dei mostri senza cuore, senza pietà. E lo sono anche stati». Ma poi ha scoperto in loro «un dolore infinitamente peggiore del mio che li fa essere totalmente disarmati nei nostri confronti. Ho imparato da loro che se tu vuoi ascoltare qualcuno e poi parlare ti devi disarmare da pregiudizi e rabbia. Incontrare chi ha fatto del male è un atto di amore verso se stessi, perché trovarsi faccia a faccia con chi ha compiuti atti tremendi di violenza è l’unico modo possibile per uscirne: perché quella è la realtà. Guardi in faccia dei vecchietti come me, cadenti o meno, ognuno ha sul viso la storia di quello che gli è successo e sono storie terribili. Perché quando hai pensato di salvare il mondo, ma alla fine scopri che hai ucciso solo delle brave persone che non possono tornare indietro, e quella giustizia che volevi l’hai solo tradita è davvero terribile. Ecco perché è importante fare un percorso insieme». E Agnese Moro ribadisce che suo padre avrebbe approvato questo cammino di riconciliazione e il fatto che «queste due realtà “ex giovani” feritesi reciprocamente, possano oggi incontrarsi e sanare qualcuna di quelle ferite io sono certa che per lui sia motivo di contentezza».
· Maria Fida Moro: Santo non s’ha da fare.
La figlia di Aldo Moro: "Il Papa fermi la beatificazione di mio padre". L'appello di Maria Fida: "Ci sono delle infiltrazioni anomale e ributtanti da parte di persone alle quali non interessa altro che il proprio tornaconto". La Repubblica 6 maggio 2019. "Santità, La prego dal profondo del cuore di interrompere il processo di beatificazione di mio padre Aldo Moro, sempre che non sia invece possibile riportarlo nei binari giuridici delle norme ecclesiastiche. Perché è contro la verità e la dignità della persona che tale processo sia stato trasformato, da estranei alla vicenda, in una specie di guerra tra bande per appropriarsi della beatificazione stessa strumentalizzandola a proprio favore". E' l'appello che Maria Fida Moro ha fatto a Papa Francesco, in una lettera da lei stessa letta in un video postato sul web. Aldo Moro è stato proclamato "servo di Dio" (il primo passo verso la beatificazione) il 16 luglio 2012. Già nell'aprile del 2015 si erano avute delle proteste di "ingerenze" da parte dell'allora postulatore, l'avvocato Nicola Giampaolo. Nel 2018 al postulatore generale dei Domenicani, padre Gianni Festa, era stato affidato l'incarico di occuparsi del processo di beatificazione di Moro (che era un laico domenicano). Il religioso aveva precisato che per si trattava ancora di una fase iniziale del "processo". "A me risulta - spiega la figlia dello statista ucciso 41 anni fa dalle Brigate Rosse - che il postulatore legittimo sia Nicola Giampaolo al quale ho consegnato due denunce, che sono state protocollate ed inserite nella documentazione della causa nonché inoltrate per via gerarchica a chi di dovere. Ma non ho avuto alcuna risposta e sono passati anni. Nell'ambito dello stesso processo ci sono delle infiltrazioni anomale e ributtanti da parte di persone alle quali non interessa altro che il proprio tornaconto e per questo motivo intendono fare propria e gestire la beatificazione per ambizione di potere. Poi è spuntato un ulteriore postulatore non si sa a quale titolo.
"Vorrei proprio che la Chiesa facesse chiarezza nella forma e nel merito". "Mio padre - prosegue la lettera-appello è stato tradito, rapito, tenuto prigioniero ed ucciso sotto tortura. Dal 9 maggio di 41 anni fa è cominciato il 'business' della morte e lo sciacallaggio continuativo per sfruttare il suo nome a fini indebiti. Mi viene in mente la scena, narrata nei Vangeli, dei soldati romani che si giocavano a dadi, ai piedi della Croce, il possesso della tunica di Gesù tessuta in un solo pezzo. I soldati erano, in qualche misura, inconsapevoli di quanto stavano facendo invece costoro sanno di compiere un'azione abbietta e lo fanno ugualmente in piena coscienza". "Il mio nome significa fede e sono assolutamente certa della Comunione dei Santi e della vita eterna. E so che mio padre è in salvo per sempre nella perfetta letizia dell'eternità e nessuna bruttura può ferirlo. Ma preferire mille volte che non fosse proclamato Santo - tanto lo è - se questo deve essere il prezzo: una viscida guerra fatta falsamente in nome della verità. Paolo VI descriveva mio padre così: uomo "buono, mite, giusto, innocente ed amico". Regali, se può, a mio figlio Luca ed a me una giornata di pace in mezzo alla straordinaria amarezza di una non vita. Che il Signore la benedica. Mio padre, dal luogo luminoso in cui si trova ora, saprà come ringraziarla. Sono mortificata di aver dovuto disturbare Lei. Con rispettoso ossequio, stima e gratitudine", conclude Maria Fida Moro. L'appello alla vigilia del 9 maggio, quando la memoria dello statista dc ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978, sarà onorata in via Fani, dove avvenne il rapimento di Moro e della scorta, e alla Camera dei deputati, per la Giornata delle vittime del terrorismo, a cui presenzierà anche il presidente Mattarella.
Beatificazione Moro, prof. Coppola replica a Maria Fida: «Processo mai avviato». Il giurista che vanta incarichi Oltretevere interviene sulla lettera inviata dalla figlia dello statista al papa con cui chiedeva di interrompere la beatificazione. Leonardo Petrocelli l'08 Maggio 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. «Il processo di beatificazione di Aldo Moro in questo momento non esiste. E non esiste da parecchio tempo». Abbassa i toni della polemica Raffaele Coppola - avvocato, accademico e direttore del Centro di ricerca «Renato Baccari» dell’Università di Bari - dopo la durissima lettera-appello inviata al Papa da Maria Fida Moro, figlia dello statista di Maglie, per chiedere l’interruzione del processo di beatificazione del padre, evocando «strumentalizzazioni e infiltrazioni anomale e ributtanti». Coppola - che ricopre un incarico di grande rilievo in Vaticano -ricuce i fili di una storia complessa, su cui molto si è detto e scritto, non sempre in omaggio alla verità. Lo intercettiamo subito dopo la chiusura del seminario di studio su «Aldo Moro politico e cristiano», svoltosi ieri a Venosa. «Un appuntamento - precisa Coppola, fresco cittadino onorario della città lucana - che non deve spaventare nessuno ma qualificarsi solo come momento di approfondimento».
Professor Coppola, da dove facciamo partire il racconto?
«Tutto ha inizio anni fa con l’introduzione della causa attraverso la presentazione del libello. Dal giorno dopo, però, ecco scatenarsi una intensa pubblicità che ha messo sul chi vive l’autorità ecclesiastica».
Quale l’effetto del battage mediatico?
«Il cardinale Augusto Vallini, al tempo vicario del Santo Padre, dà la possibilità di andare avanti. Ma non nel senso del processo, bensì nella direzione dell’approfondimento della figura del Moro religioso».
In altre parole?
«L’approfondimento non porta alla beatificazione ma spinge a comprendere se ci sono le condizioni per avviare il percorso. Per di più, sul caso non è intervenuta l’approvazione di tutti i vescovi della regione Lazio, lì dove il processo si svolgeva. Dunque, Moro non è figlio di Dio».
Da quel momento in poi cosa accade?
«Il postulatore (cioè colui che si occupa delle pratiche fino alla beatificazione, ndr) ha cercato di ottenere appoggi e consensi che ci sono stati, ma non al punto da poter avviare il processo».
La figlia di Moro ha evocato, con durezza, la questione dei due postulatori, parlando del secondo come di una figura «spuntata non si sa a quale titolo».
«L’attore principale, cioè la Federazione dei centri studi “Aldo Moro” ha revocato il mandato al primo postulatore per affidarlo a un’altra figura che però non ha ricevuto l’approvazione della Santa Sede. Quindi, ne abbiamo uno revocato e uno nominato ma non approvato».
Professore, come andrà a finire questa vicenda?
«Siamo solo agli inizi, la Chiesa ha tempi lunghi che, nel caso di un politico, si moltiplicano ulteriormente. Tommaso Moro fu canonizzato a 400 anni dalla morte. Ripeto, il processo non è iniziato (come confermato ieri anche dal cardinale Angelo Becciu, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ndr)».
E quanto alle polemiche?
«Vorrei precisare una cosa. Moro, figura gigantesca di grande cattolico, appartiene a tutti. Coloro che hanno promosso il congresso di Venosa tendono la mano anche a chi non la pensa come loro. Vogliamo dare un messaggio di pace e ricordare che, per arrivare a un obiettivo condiviso, bisogna essere uniti».
In tutto questo, infine, qual è la posizione del Pontefice?
«Il Santo Padre credo sia informato di tutto ma lascia ai competenti organismi ecclesiastici ogni decisione in proposito. È in particolare il cardinale Angelo De Donatis, vicario del Papa nella diocesi di Roma, a dover decidere se avviare o meno il processo».
· Aldo Moro contro il fascismo nel ’43.
Aldo Moro contro il fascismo nel ’43: ha ucciso la patria, la ricostruiremo. Pubblicato lunedì, 06 maggio 2019 da Aldo Moro su Corriere.it. L’intervento qui pubblicato risale all’autunno del 1943. Aldo Moro lo pronunciò a Radio Bari, allora unica voce dell’Italia libera, quando aveva 27 anni. «Abbiamo ritrovato nove discorsi inediti, che si trovano presso il centro di documentazione creato da Sergio Flamigni a Oriolo Romano, dove sono conservate le carte personali di Moro, mentre quelle politiche, che erano nel suo studio, sono depositate all’Archivio centrale dello Stato», dichiara al «Corriere» Renato Moro, storico dell’Università Roma Tre, nipote dello statista e presidente del comitato scientifico incaricato di curare l’Edizione nazionale delle sue opere. Il professore inquadra storicamente i testi: «Aldo Moro, all’epoca libero docente, venne colto dall’8 settembre mentre stava partendo per prendere servizio a Roma come ufficiale dell’aeronautica. Invece rimase a Bari e fu aggregato all’ufficio stampa del governo del Regno del Sud. Già attivo nella vita pubblica, ex presidente degli universitari cattolici della Fuci, prese a scrivere e pronunciare discorsi radiofonici». (Antonio Carioti) Radio Fascio ha impostato di recente il problema dei traditori. L’elenco dei miserabili che hanno partecipato al tradimento — così sconsolatamente confessa — è lungo, lunghissimo. Purtroppo vi sono — continua — traditori di grosso calibro, i quali costituiscono un gruppo non eccessivamente numeroso e accanto ad essi una fila interminabile di personaggi minori. Aldo Moro (Maglie, Lecce, 1916) in una foto del 1941Coloro che non credono più, e si rifiutano in conseguenza di obbedire e di combattere, son dunque ormai tra gli italiani, per riconoscimento esplicito della pattuglia di punta del rinascente partito, schiera e lunghissima schiera. Fino a ieri, si può dire, non si sentiva altro che di fedeltà incondizionata e di adesioni definitive, sicché lo sparuto drappello dei dissenzienti sembrava davvero fosse nascosto abilmente nei famosi e certo angusti angolini. Oggi si riconosce che le cose stavano ben diversamente e che i dissensi — chiamateli tradimenti, se volete — erano seri e vasti, anzi veramente totalitari. Per provenire le due valutazioni radicalmente diverse dalla stessa fonte, bisogna riconoscere che vi fu errore e, noi penseremmo, errore in mala fede nell’apprezzamento ottimistico che fu fatto allora dell’opinione del popolo italiano. Vero è che non vi fu mai un’Italia fascista e filo tedesca, come gli avvenimenti del 25 luglio e successivi hanno dimostrato. Vero è che oggi non esiste un’Italia fascista e filo-tedesca, la quale si riduce ad una carta cattiva giocata nel pessimo gioco del dittatore nazista. Il fascismo non ha, come non ebbe mai, per sé né i vecchi né i giovani né i giovanissimi; ma se mai sparute minoranze disinteressate. Bisogna onestamente riconoscere che la crisi, per dirla con frase mussoliniana, non è nel sistema ma del sistema che il fascismo fu nella storia d’Italia. Tutte le convulsioni che la sparuta schiera di questi tristi reintegratori del passato determini, per favorire la Germania, è veramente tradimento perpetrato ai danni dell’Italia. Ed è triste constatare la cieca pervicacia con la quale si dà opera a continuare una politica rovinosa ed a preparare la più inumana di tutte le guerre civili, quella cioè che contrappone l’uno all’altro i cittadini di una stessa Patria, i quali non divide, più forte della solidarietà nazionale, un diverso ideale, ma soltanto la prepotenza di un oppressore straniero cui tiene bordone un oppressore domestico. Tutto ciò è molto triste certamente. E noi non possiamo pensare senza disperazione al sangue italiano che sarà forse versato ancora vanamente, contro la verità, contro la libertà, contro la vita. Ma vogliamo superare l’indignazione e il dolore che ci prendono, per dire ancora una parola serena ai fascisti d’Italia, se ancora ve ne sono. Noi non vogliamo porre ora in discussione la loro buona fede, ma domandiamo soltanto che facciano uno sforzo per capire che al disopra di una particolare intuizione della Patria c’è la Patria stessa nella sua verità, nella sua storia, nel suo avvenire, quale risulta dal pensiero e dall’amore di tutti i suoi figli; per capire che la Patria è patrimonio di tutti e che è delittuoso piegarla alla propria particolare visione. Proprio perché la Patria è cosa di tutti, al fascismo fu dato di porsi tra le forze politiche del Paese, per far valere il suo programma accanto agli altri. La storia si fa di questi scontri e incontri, incessantemente. La Patria è certo il nostro io, ma non il piccolo io angusto, che si chiude ad ogni considerazione, ad ogni rispetto, ad ogni amore degli altri, ma l’io che si fa, energico e pieghevole, memore di sé ed attento alla vita di tutti, incontro agli altri, e afferma e nega, cede e s’impunta, sicché nel vasto gioco delle azioni di tutti sorga, in libertà e come frutto di libertà, il volto storico della Patria. La tirannia comincia là dove il piccolo io, rotto ogni vincolo di fraternità e di rispetto, dimentico di quella sublime umiltà che fa l’individuo uomo, la sua particolare visione eleva ad universale, senza il vaglio di una critica che consacri questo passaggio; il proprio particolare amore proponga orgogliosamente come l’amore di tutti. Allora la Patria è morta; quella sua grandezza augusta, che è nell’accogliere ogni voce, ogni palpito, ogni gioia, ogni sofferenza dei suoi figli, è spenta, terribile furto ai danni del proprio fratello è questo. Di più, impadronirsi della Patria di tutti, farne una piccola povera cosa di noi, è fatalmente condannarsi a perderla a nostra volta. Non si può negare ed affermare insieme. Non si può dire Patria, senza dire «tutti». Dove gli altri siano stati dimenticati, dove si sia, fingendone l’adesione o comprimendone la reazione, fatto a meno di loro, la Patria è veramente finita. Di questa fine, triste come l’oscurarsi dei valori che danno alla vita bellezza e dignità, potrebbero gli altri, i dimenticati e oppressi, chiedere conto ai dimentichi ed agli oppressori. Ma qui non si tratta di questo. Si tratta della Patria che ritorna, valore il quale, benché compresso, non può morire. Si tratta dell’Italia, la quale chiede di non essere ancora negata nella sua anima universale, di essere tutti, di accogliere in sé anche i figli che hanno sbagliato, anche quelli che hanno fatto intenzionalmente il male. L’Italia ha troppo sofferto di questa divisione fatale, per la quale non bastava essere italiani per essere italiani, perché non sia pronta a dimenticare; ha troppo perduto di energie, di vivezza, di sapere, di moralità, di bontà, perché respinga ora qualsivoglia energia data con lealtà per l’opera di ricostruzione. Ma non può essa permettere che coloro i quali proposero l’esclusivismo angusto tornino a chiamarsi italiani, senza aver riconosciuto il loro errore e la loro colpa, senza un’anima nuova, senza aver ritrovato il rispetto per tutti. Tanto meno può permettere che il solco fatale che ha diviso e divide ancora la storia d’Italia sia tolto, senza che essa sia assicurata per l’avvenire da un ritorno in forza di ideologie e prassi politiche, le quali, abusando della libertà, operino contro la libertà. Essa chiede che le voci di tutti gli italiani tornino a farsi sentire compostamente, che nessuna sia fatta tacere e nessuna pretenda di levarsi con prepotenza al disopra delle altre. Perché soltanto in questo equilibrio, in questo rispetto, in questa reale libertà si forma quella volontà solidale dei singoli riuniti in unità di popolo che fa la storia. Contro i vecchi e nuovi tentativi di dittatura, quelli scaltri e quelli candidi, contro tutte le esagerazioni e le unilateralità, l’Italia chiede l’umiltà di tutti, la coscienza della propria particolarità, il bisogno e l’attesa della integrazione, un grande rispetto per le cose che sono più grandi di noi. E ciò l’Italia attende e domanda non con debole voce come per cosa che si possa dare o negare a proprio piacimento, ma con voce imperiosa, seppure amorevole. È un dovere di patriottismo, è una esigenza squisitamente umana che ciascuno prenda con disciplina, la quale non esclude l’iniziativa e la responsabilità, il proprio posto di lavoro e dia opera in esso, dimenticando per un momento il triste passato, a costruire un avvenire più degno.
Istituita dal ministero dei Beni culturali nel 2016, l’Edizione nazionale delle opere di Aldo Moro è diretta da un comitato scientifico presieduto da Renato Moro, di cui fanno parte molti illustri studiosi: tra gli altri Giuliano Amato, Piero Craveri, Ugo De Siervo, Guido Formigoni, Francesco Malgeri, Alberto Melloni, Leopoldo Nuti, Paolo Pombeni, Francesco Traniello, Giuseppe Vacca. Il progetto presenta caratteristiche molto innovative, poiché gli scritti dello statista pugliese saranno posti interamente su piattaforma digitale, quindi risulteranno liberamente leggibili e scaricabili. Grazie alla collaborazione con la casa editrice il Mulino, l’edizione sarà interrogabile in modo selettivo per effettuare ricerche. E verrà utilizzato anche un software originale di analisi del discorso, sperimentato dall’Istituto storico italo-germanico di Trento e dal gruppo Digital Humanities della Fondazione Bruno Kessler (sempre di Trento): attraverso questo dispositivo saranno possibili ricerche testuali particolarmente sofisticate. L’Edizione nazionale sarà divisa in due sezioni: una con gli scritti e discorsi di carattere politico, religioso e giornalistico (quattro volumi, tre dei quali divisi in due tomi, per un totale di sette), l’altra con le opere di argomento giuridico (quattro volumi). In settembre uscirà il primo volume degli scritti e discorsi, a cura di Tomino Crociata e Paolo Trionfini, che copre il periodo 1932-1946, fino all’elezione di Moro alla Costituente.
· Aldo Moro e la Tangentopoli ante litteram.
Mani pulite, 1993: Craxi contro la fine della politica. Redazione de Il Riformista il 13 Dicembre 2019. 29 aprile 1993. L’inchiesta “Mani Pulite”, quella di Di Pietro, è iniziata circa un anno prima. Sta travolgendo tutti i partiti, in particolare il Psi. Bettino Craxi, che fino a un mese prima era stato il segretario del partito, si alza alla Camera e pronuncia un discorso che diventerà celeberrimo a difesa dell’autonomia della politica e di denuncia della corruzione del sistema. Dice che il finanziamento dei partiti, tutti lo sanno, è in gran parte illecito, e aggiunge: «Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Nessuno si alza.
Caso Lockheed, 1977: Moro a difesa di Gui. Redazione de Il Riformista il 13 Dicembre 2019. 9 marzo del 1977, il caso Lokheed (una storia di tangenti sull’acquisto di aeroplani americani) arriva alla Camera. Si tratta di decidere se processare due ex ministri: Luigi Gui, dc, e Mario Tanassi, Psdi. Aldo Moro, giusto un anno prima del suo rapimento, interviene con un discorso formidabile, di impronta davvero garantista, a difesa di Gui, soprattutto, ma anche di Tanassi. Rivendica l’autonomia e l’unicità della politica e il valore dell’impegno politico e dei partiti. Grida: «Non ci faremo processare nelle piazze». Però va in minoranza. I più duri contro di lui sono i comunisti e i radicali. Tanassi e Gui sono rinviati a giudizio davanti alla Corte Costituzionale. Che assolverà Gui e condannerà a 2 anni e 4 mesi di carcere Tanassi.
Caso Lockheed, 1978: Leone si dimette. Redazione de Il Riformista il 13 Dicembre 2019. 15 giugno del 1978. Aldo Moro è stato ucciso poco più di un mese prima. Al governo c’è Andreotti, sostenuto dai comunisti. La sera, alle 20, compare in Tv il presidente della Repubblica Giovanni Leone, napoletano, 70 anni, e annuncia le sue dimissioni. Il motivo? Una feroce campagna di stampa contro di lui, alimentata dai servizi segreti, con vari dossier, e da alcuni partiti politici di opposizione. Leone non ha nessuna colpa. Il suo coinvolgimento nel caso Lockhe è da escludere. L’Espresso lo massacra. Lui non ne può più, lascia. Perché lascia? Leone è uno degli ultimi statisti, uno di quelli che hanno fatto grande l’Italia. Sa sacrificarsi e si sacrifica.
Così Moro avvertì i giudici: «Noi Dc non ci lasceremo processare nelle piazze!». Lo scontro tra politica e magistratura iniziò ufficialmente nel marzo del ’77 con l’affare Lockheed, scrive Paolo Delgado il 31 gennaio 2019 su Il Dubbio". C’era una volta, in un’Italia lontana lontana, tanto lontana da somigliare a una fiaba o a una leggenda, un primato della politica sulla magistratura tanto assoluto e incontrastato da autorizzare seri e fondati dubbi sull’effettiva divisione dei poteri sancita dalla Costituzione. La politica era di fatto intoccabile. Il potere togato si arrestava di fronte alla soglia del Palazzo. Non è che di scandali non ce ne fossero. Ma le richieste di autorizzazione a procedere sbattevano regolarmente contro il voto contrario del Parlamento. Nella legislatura 1963- 68, ad esempio, su 75 richieste di autorizzazione a procedere ne furono accolte 5. Nella successiva, 1968- 72, le richieste furono 69 e le autorizzazioni 4. Il boom di richieste da parte della magistratura fu tuttavia nella legislatura successiva, 1972- 76, indice chiaro di un rapporto di subalternità della magistratura che i togati iniziavano a sopportare sempre meno. Le richieste furono ben 159, di cui solo 40 accolte. Se si dovessero indicare un anno e una vicenda precisa per datare l’inizio, ancora molto in sordina, di un braccio di ferro che prosegue a tutt’oggi bisognerebbe risalire al 1965 e alla vicenda che coinvolse il senatore democristiano ed ex ministro delle Finanze Giuseppe Trabucchi. Era accusato di aver permesso a una società guidata da un altro notabile democristiano ed ex sottosegretario, Carmine De Martino, di acquistare illegalmente partite di tabacco messicano per poi rivenderle in patria con un guadagno netto di un miliardo e 200 milioni di lire dell’epoca, cifra di tutto rispetto e anche qualcosina in più. Il tutto, ovviamente, in cambio di generosa tangente. Trabucchi ammise ma si difese impugnando l’interesse di partito: «Era solo un finanziamento illecito per la Dc». La commissione, nel giugno 1965, respinse la richiesta. Il mese dopo le camere riunite furono chiamate a votare per una decisione definitiva. Servivano 476 voti per accogliere la richiesta della Procura di Roma. Ne arrivarono 461. Trabucchi se la cavò alla grande. Prima che si ripetesse un braccio di ferro di dimensioni anche maggiori passarono quasi 10 anni. Nel febbraio 1974 i segretari amministrativi di tutti e quattro i partiti di governo, Dc, Psi, Psdi e Pri, furono indagati con l’accusa di aver incassato tangenti dall’Enel in cambio di scelte politiche contro le centrali nucleari. Lo scandalo fu enorme e coinvolse numerosi ex ministri. Il governo Rumor in carica si dimise. Per rientrare in maggioranza il leader repubblicano Ugo La Malfa impose una legge che regolamentasse il finanziamento dei partiti. Varata a spron battuto, in soli 16 giorni e con l’approvazione di tutto il parlamento a eccezione del Pli, sulla base di una proposta firmata da uno dei principali leader Dc, Flaminio Piccoli. La legge non servì a fermare il finanziamento illecito ma derubricò i reati per i quali erano indagati segretari a amministrativi e tesorieri. Restava lo spinoso caso degli ex ministri e i nomi in ballo erano davvero pesanti. La commissione parlamentare incaricata di vagliare i casi affrancò subito i dc Andreotti e Ferrari Aggradi perché i reati erano prescritti. Decise l’archiviazione per il dc Bosco e il Psdi Preti, ma ordinò di aprire un’inchiesta a carico di altri due ex ministri, Ferri del Psdi e Valsecchi, Dc. L’inchiesta si concluse cinque anni dopo con il proscioglimento. Il grande scandalo degli anni ‘ 70 fu tuttavia il cosiddetto "affare Lochkeed". Una tangentona di 61 milioni di vecchie lire, pagata secondo gli inquirenti dalla società americana per favorire l’acquisto da parte del governo italiano di 14 aerei Hercules 130. Erano coinvolti due ex ministri della Difesa, Luigi Gui, Dc, e Mario Tanassi, Psdi, e un ex premier, Mariano Rumor, Dc. Nel marzo 1977 il Parlamento votò, in seduta comune, la messa in stato d’accusa dei primi due mentre salvò Rumor. In quell’occasione Aldo Moro pronunciò un discorso destinato a essere ricordato ancora oggi: «La Dc fa quadrato intorno ai propri uomini. Non ci lasceremo processare nelle piazze». In effeti il processo si svolse, secondo le regole di allora per i ministri, direttamente di fronte alla Corte costituzionale, con unico grado di giudizio. Nel 1979 Gui fu assolto, Tanassi condannato. Nel 1989 una riforma costituzionale modificò i criteri dei processi contro ministri ed ex ministri, affidandoli alla magistratura ordinaria e con procedura altrettanto ordinaria. Mai accusato, mai processato, mai condannato, a pagare più di tutti fu il presidente della Repubblica Giovanni Leone. Indicato da una forsennata campagna giustizialista come coinvolto nello scandalo fu costretto alle dimissioni. La sua innocenza fu acclarata solo anni dopo. Quando si rovesciano i rapporti di forza che almeno in apparenza restano identici per tutti gli anni ‘ 80? In apparenza il punto di rottura è Tangentopoli, quando le inchieste di mani pulite spazzarono letteralmente via un intero ceto politi- co e spianarono la prima Repubblica. In realtà i rapporti di forza avevano iniziato a subìre una modifica profonda già da prima. La magistratura si affranca dalla soggezione alla politica non con Tangentopoli ma con la lotta al terrorismo. All’epoca, tra la fine degli anni ‘ 70 e i primi anni ‘ 80, era abbastanza comunque sentir dibattere di ‘ delega alla magistratura’ del contrasto al terrorismo. Quella delega fu in realtà totale e appena tra le righe lo si percepisce nella memoria di due tra i magistrati che di quella fase furono protagonisti assoluti, Gian Carlo Caselli e Armando Spataro: «Nel 1978, però, in particolare nel periodo post- Moro, la situazione registrò un’evoluzione positiva grazie all’iniziativa autonoma di Pubblici Ministeri e Giudici Istruttori, che diedero vita ad un coordinamento spontaneo tra gli uffici giudiziari ed alla creazione di gruppi specializzati nel settore del terrorismo. Il sistema di legge non prevedeva allora alcuna norma in tema di coordinamento: anzi conosceva barriere formali che ostacolavano lo scambio di notizie. Ciononostante, a partire dalla metà del 1978, quei magistrati, superando ogni logica formalistica ed ogni possibile diversità di estrazione culturale, cominciarono ad incontrarsi spontaneamente, con periodicità molto ravvicinata ed in modo riservato». Nella stessa fase la magistratura irruppe di fatto anche nella sfera di competenza del potere legislativo: alcune delle principali leggi anti- terrorismo, incluse quelle squisitamente politiche come la legge sulla dissociazione furono dettate norma per norma dalla magistratura.
Tangentopoli intervenne su equilibri già radicalmente alterati. Il risultato del referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati è non a caso l’unico nella storia italiana a essere stato completamente disatteso, a conferma del peso enorme che il potere togato aveva acquisito nel decennio precedente, a fronte di un progressivo ma inesorabile indebolirsi del potere politico colpito da una crisi di legittimazione all’epoca senza precedenti. Tangentopoli chiuse il conto e siglò l’affermazione di un equilibrio opposto a quello che aveva segnato la prima Repubblica, con un primato assoluto del potere togato. La seconda Repubblica è stata segnata dall’inizio alla fine dal confronto e a volte dal conflitto aperto tra un potere tanto più saldo perché legittimato dal sostegno dell’opinione pubblica, quello della magistratura, e un potere debole e sempre sotto scacco, infragilito dalla scarsa legittimazione popolare, quello della politica derubricata ormai a casta. Quando, nel 1994, il primo governo Berlusconi tentò di frenare le procure con quello che è passato alla storia come "decreto salva- ladri", i quattro giudici del pool milanese Mani pulite si limitarono a presentarsi in tv spogliandosi per protesta delle toghe e bastò per suscitare una tale ondata di proteste da costringere il governo a una sgangherata retromarcia. Pochi anni dopo, nel 1998, il solo tentativo serio e approfondito di riformare la Costituzione, la bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, fu condannato al fallimento, come ha più volte confessato il relatore Cesare Salvi allora dirigente dei Ds, dall’opposizione del potere togato a qualsiasi revisione delle norme sulla magistratura. Quella delle "toghe rosse" è una leggenda che, diffusa dalla destra, ha avuto ampio corso negli anni della Seconda Repubblica ma che è in realtà destituita di fondamento. Se a confliggere con la magistratura è stato in quei decenni quasi esclusivamente il centrodestra è perché la controparte ha sempre evitato di contraddire, se non superficialmente e di sfuggita, le toghe. Ma la stessa destra, nonostante i fragorosi pronunciamenti del leader Berlusconi, ha sempre evitato di sfidare la magistratura se non quando non era possibile evitarlo, cioè quando ci andavano di mezzo la sua sorte o quella delle sue aziende. Il Movimento 5 Stelle nasce dalla stessa temperie culturale, sociale e politica che ha accompagnato e in buona misura determinato il prevalere della magistratura sulla politica: una crisi di legittimazione popolare della politica accompagnata nella delega assegnata dal basso alle toghe come unico freno alla corruzione dei politici. Per il Movimento fondato da Grillo la magistratura è sempre stata la bussola. In teoria il successo elettorale dei pentastellati avrebbe dovuto quindi siglare il trionfo finale del potere in toga nel lunghissimo duello con il potere che siede in Parlamento. La pratica si sta rivelando subito e si rivelerà diversa. Per sua stessa natura il "governo del cambiamento" deve almeno provare ad affermarsi come governo forte, sovvertendo così quel rapporto tra un potere politico debole e un potere della magistratura forte che data ormai dalla fine degli anni ‘ 80 del secolo scorso. L’incidente sull’autorizzazione a procedere contro il ministro Salvini è solo il primo di una lista che sarà probabilmente lunga.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Le lettere ed i diari di Giulio Andreotti.
Giulio Andreotti in una lettera: "Medito di abbandonare la vita politica". Era il 1953 quando Giulio Andreotti scrisse una lettera ad Alcide De Gasperi in cui espresse tutti i suoi dubbi sul continuare o meno con la politica: "È stato un brutto anno, il '53, e spesso medito sulla utilità di abbandonare la vita politica", scrive Nicola De Angelis, Venerdì 05/04/2019, su Il Giornale. Una lettera inedita scritta di pugno da Giulio Andreotti e destinata ad Alcide De Gasperi in cui il sette volte Presidente del Consiglio si mostra titubante sul continuare o meno la sua carriera politica. Era il 1953 e il Divo scriveva così: "È stato un brutto anno, il '53, e spesso medito sulla utilità di abbandonare la vita politica". Invece rimase in Parlamento fino alla sua morte, eletto senatore a vita e partecipando attivamente alla vita politica anche nella sua ultima fase. La lettera destinata ad Alcide De Gasperi, che si era appena ritirato, mostra un 34enne già sottosegretario di Palazzo Chigi disorientato e perduto senza più il suo mentore. Il grande statista sarebbe morto qualche anno dopo, all'età di 73 anni. Lo stesso Andreotti continua dicendo a De Gasperi, da Montecatini dove sta cercando di rimettersi in sesto: "In tutta la Dc non ci sono dieci uomini che contino e che si vogliano veramente bene". Questa è una minima parte delle 1.300 lettere che De Gasperi ha ricevuto durante la sua vita. Un progetto online chiamato Epistolario DeGasperi pubblicherà quest'oggi in archivio digitale tutto l'epistolario del grande statista della Democrazia Cristiana. Un lavoro enorme quello portato avanti da un gruppo di 35 ricercatori che hanno lavorato al progetto lanciato dalla Fondazioni De Gasperi e Kessler oltre all'istituto Sturzo che hanno girato nove stati, compresi gli Stati Uniti, e consultato oltre 120 archivi per trovare e catalogare tutte le lettere che De Gasperi ha ricevuto durante la sua vita. Lettere private, lettere in cui lo statista dava consigli politici e veri e propri enunciati economici. Tutti scannerizzati e catalogati, belle da vedere come dice Repubblica che cita l'anno 1937 in cui De Gasperi inviò una epistola a Benedetto Croce "pregandolo" di mostrargli le parole che il poeta discepolo di Carducci gli aveva inviato. Giulio Andreotti, Benedetto Croce, Giuio Salvadori e tantissimi altri nomi importanti compongono l'archivio epistolario di De Gasperi. Il presidente dell'Edizione nazionale dell'epistolario Giuseppe Tognon ha commentato: "Le lettere difficilmente mentono a chi sa leggerle. Qui ogni dettaglio apre un mondo". Tutto l'archivio sarà presentato oggi alle ore 17:30 in presenza del Presidente della Repubblica Mattarella all'Archivio storico del Quirinale. Queste epistole sono soltanto un quinto del totale delle quasi 5mila lettere che si trovano in giro.
Quando Andreotti fece sparire la foto del Papa in piscina. Pubblicato giovedì, 08 agosto 2019 da Massimo Franco su Corriere.it. E’ affiorato da uno sgabuzzino come uno di quegli scrigni dimenticati che racchiudono memorie proibite. E, una volta ritrovati, restituiscono storie del passato che apparivano morte e sepolte. Ma stavolta lo “scrigno” è quello dei ricordi di Giulio Andreotti, affidati per oltre sessant’anni, dal 1944 al 2009, a circa centottanta tra agende, quaderni di appunti, piccoli bloc notes, fogli svolazzanti. «Circa» centottanta, perché la catalogazione iniziata alcuni mesi fa dai figli Stefano e Serena, custodi degli archivi dell’ex presidente del consiglio e senatore a vita, è appena cominciata. E non si può prevedere ancora quale sarà la foto di famiglia del potere democristiano e vaticano che alla fine emergerà da quelle agende che per una decina di anni hanno dormito in alcuni scatoloni di cartone, ignorate come carte senza valore. Ma scorrendo anche solo una piccola parte di quei diari, negli anni in cui eccezionalmente Andreotti non era al governo, si rafforza l’impressione di un personaggio che faceva politica estera a trecentosessanta gradi. Frequentava i papi, allora Giovanni Paolo II. E veniva percepito e usato dal Vaticano come l’uomo nell’ombra incaricato segretamente delle missioni più riservate e delicate: si trattasse di spiegare il papato polacco a sovietici e americani, o di imbastire una trattativa affidatagli in un giorno di Ferragosto dalla Segreteria di Stato per scovare alcune fotografare «rubate» del papa in piscina nella tenuta pontificia di Castel Gandolfo. Andreotti doveva farle comprare e impedire che venissero pubblicate in anni in cui la Polonia di Karol Wojtyla era in bilico tra comunismo e democrazia. E Andreotti, allora semplice deputato, iniziò una laboriosa trattativa col Corriere della Sera di Bruno tassan Din, allora immerso nella melma della loggia Propaganda due di Licio Gelli, e con l’editore Rusconi. Il suo compito era ottenere gli scatti, e rassicurare gli uomini di Giovanni Paolo II, procurandosi eterna gratitudine. E’ solo un episodio, seppure significativo, di una consuetudine con quel mondo che fece dire a Giovanni Paolo II nel loro primo incontro: «lei non è nuovo qui», intendendo gli ambulacri vaticani. D’altronde, Andreotti è il politico al quale il segretario di Paolo VI confidò che dopo l’attentato a papa Montini nelle Filippine del 1970, il presidente Ferdinando Marcos era pronto a pagare 50 mila dollari perché si dicesse falsamente che era stato lui a fermare l’attentatore, e non monsignor Macchi. I diari sono una miniera di analisi di prima mano, aneddoti e retroscena sconosciuti. E confermano una rete di relazioni mondiali senza confini ne’ remore geopolitiche. Il futuro senatore a vita poteva incontrare il presidente argentino Juan Peron, ammiratore degli alpini italiani e delle loro filastrocche da caserma sulle “osterie numero...”, intonate durante un incontro ufficiale a Buenos Aires davanti a Andreotti, lievemente interdetto. Discorreva con dittatori del recente passato, alcuni morti ammazzati come il rumeno Ceausescu e il libico Muhammar Gheddafi. Nelle agende vengono riportati in dettaglio i colloqui con il cubano Fidel Castro e con esponenti di spicco della nomenclatura sovietica. E emergono tutte le incognite di un passaggio epocale coinciso con l’arrivo di Giovanni Paolo II e poi con l’elezione di Ronald Reagan alla Casa Bianca: un esito anticipato a Andreotti dal numero uno della Fiat Gianni Agnelli, sempre informatissimo sulle dinamiche della politica statunitense, in uno dei tanti colloqui trascritti nei diari. Verrebbe quasi da dire che il “vero” archivio segreto dell’ex presidente del Consiglio democristiano è questo : se non altro perché in massima parte sono appunti scritti di suo pugno, quasi giorno per giorno. Anche se decifrarli non appare un lavoro facile. Soprattutto negli anni dopo il Duemila, la calligrafia si è come rattrappita con l’età . Alcune agende sono andate perse, tra processi e archivi. Gli stessi figli a volte confessano di faticare a leggere le frasi, a capire che cosa il padre intendesse quando usava nomignoli o soprannomi per alcune persone. Ma forse è proprio questa indeterminatezza a rendere la scoperta più intrigante. Come minimo, costringe ancora una volta a rileggere la storia d’Italia, del Vaticano e di alcuni snodi della politica mondiale da un’angolatura meno scontata.
Il 1953 inedito di Andreotti: "Ho deciso, lascio la politica". L’epistolario di Alcide De Gasperi sarà presentato oggi alle 17,30 all’Archivio storico del Quirinale alla presenza di Sergio Mattarella. Da oggi le lettere inviate e ricevute da Alcide De Gasperi saranno disponibili online. Eccone alcune in anteprima, scrive Concetto Vecchio il 5 aprile 2019 su La Repubblica. "È stato un brutto anno, il '53, e spesso medito sulla utilità di abbandonare la vita politica". Anche un mandarino come Giulio Andreotti, sette volte premier, in Parlamento fino alla morte, ebbe le sue titubanze. Lo rivela una lettera inedita inviata ad Alcide De Gasperi il 5 settembre del 1953. Il grande statista è appena uscito di scena, un anno dopo morirà, a 73 anni. Andreotti, a 34 anni è già sottosegretario a palazzo Chigi, ma il tramonto del suo mentore lo disorienta. Gli scrive da Montecatini, dove si trova "per eliminare un po' di stanchezza", per dirgli che nella Dc "non ci sono dieci uomini che contino che tra di loro si vogliano veramente bene". È andato sulla tomba di Carlo Sforza, "triste, piena di calcinacci e trucioli di legno. Mi è venuta voglia di comprarmi dei fiori per godermeli in vita, vista la piega delle colleganze politiche". Questa è soltanto una delle 1300 lettere, scritte o ricevute dallo statista dc De Gasperi, che da questa sera saranno online sul sito epistolariodegasperi.it. Un corpus, che secondo il direttore della Fondazione De Gasperi, Marco Odorizzi, rappresenta soltanto un quinto del totale delle 5000 missive ancora in giro. De Gasperi governava scrivendo. Il lavoro di ricognizione, promosso dalla Fondazioni De Gasperi e Kessler, e dall'Istituto Sturzo, è durato due anni e ha coinvolto 35 ricercatori, che hanno frugato in centosei archivi sparsi in nove Stati, anche in America. Novecento lettere vedranno la luce per la prima volta. L'iniziativa sarà presentata oggi alle 17,30, alla presenza del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, all'Archivio storico del Quirinale. Ci sono documenti che sono belli anche da vedere. Come il biglietto inviato da De Gasperi a Benedetto Croce nel febbraio '37. Prega "l'illustre senatore" di fargli avere le lettere che si è scambiato con Giulio Salvadori, il poeta discepolo di Carducci. "Colgo l'occasione per rinnovarLe, anche a nome di mia moglie, ogni miglior augurio di buona salute e di fecondo lavoro, mentre mi segno. Suo devoto", si congeda De Gasperi. Nel gennaio del '45, Togliatti, che poi sarà l'avversario da battere, preme per estendere il voto alle donne. "Ho fatto più rapidamente ancora di quanto mi chiedi. Ho telefonato a Bonomi preannunciandogli che o lunedì sera o martedì tu e io faremo un passo per l'inclusione del voto femminile nelle liste delle prossime elezioni amministrative". Si rivolge a Nenni, alla vigilia del viaggio negli Usa nel '47, che prelude agli aiuti del Piano Marshall, per rinfacciargli le sue riserve di metodo per la scelta di Parri inviato straordinario per la questione Trieste. Con Adenauer si scrivono in tedesco. "Le lettere difficilmente mentono a chi sa leggerle", dice il presidente dell'Edizione nazionale dell'epistolario, Giuseppe Tognon. "Qui ogni dettaglio apre un mondo". Tra un anno sarà pubblico l'archivio di Pio XII: uno scrigno che potrebbe fare luce su molti episodi del fascismo e della guerra. Intanto va annoverata la scrittura drammatica di Giovanni Amendola, dopo l'Aventino. Datata 3 giugno 1925, segnala le crepe del fronte antifascista: "Il resoconto della nostra riunione, apparso sul Giornale d'Italia, costituisce una cattiva azione e dimostra che tra noi ci sono dei traditori o dei leggeri: uomini assolutamente inferiori a quelle esigenze di serietà che s'impongono a chi deve fronteggiare le responsabilità che noi ci siamo assunti". Due anni prima, rivolgendosi a Enrico Conci, il primo laico eletto tra le fila dei cattolici trentini al Parlamento di Vienna, De Gasperi è ancora convinto di poter mediare con Mussolini, appena giunto al potere. Si erano scontrati duramente a Trento, dove il Duce faceva il giornalista. "Non so cosa pensi Mussolini di me ora. So che fino a un mese fa mi riteneva, tra i popolari, un equilibrato e un acquisibile alla nuova situazione", scrive. Poi verranno le intimidazioni, la condanna per tentato espatrio, l'esilio nella biblioteca vaticana. Nel 1926 a Vicenza lui e il fratello sono sequestrati dagli squadristi. Ne scrive a don Sturzo: "Il ricordo degli insulti mi brucia ancora".
“I DIARI DI PAPA' LI ABBIAMO NOI E LI ABBIAMO LETTI MA NON SONO SEMPLICI DA DECIFRARE...”. Roberto Faben per “la Verità” il 21 marzo 2019. Chi era davvero Giulio Andreotti? Di colui che fu tra i politici più longevi e influenti della Prima repubblica, Indro Montanelli, nel 1984, scrisse: «Il suo armadio è il più accogliente sacrario di tutti gli scheletri in cerca d'autore circolati in Italia nell'ultimo ventennio. E dobbiamo convenire che si è sempre gentilmente e con molta grazia prestato ad accoglierli. Mai un lamento, mai una querela, mai nemmeno una piccola smorfia di rammarico o di dispetto». Bettino Craxi lo soprannominò Belzebù. Lui fece spallucce e continuò a ritagliare e conservare anche le vignette più velenose che Forattini e Giannelli gli riservavano. Dotato d'intelligenza troppo brillante - al punto da «permettersi il lusso di non esibirla», scrisse Oriana Fallaci - per farsi tentare dalla volgarità delle arrabbiature, era anche così realista da diffidare degli eloqui complicati. Non era certo un mistico come Giorgio La Pira, ma sapeva comprendere le ragioni di Enrico Berlinguer, di Giancarlo Pajetta, di Marco Pannella, e instaurare con loro un rapporto di reciproca stima. Lo hanno processato per associazione a delinquere con la mafia e per il delitto del giornalista Carmine (Mino) Pecorelli, è stato sospettato di coinvolgimento nel golpe Borghese, di essere al comando dell'Anello - un superservizio segreto deviato -, di rapporti mai chiariti con il capo della P2 Licio Gelli e con il bancarottiere Michele Sindona, di aver ignorato una possibilità reale di salvare Aldo Moro senza accondiscendere alle trattative con le Brigate rosse, di aver fatto occultare pagine scottanti di dossier e memoriali. «A parte le guerre puniche, mi viene attribuito veramente di tutto» replicava, con la consueta dose di garbo e sarcasmo. Quanto alle cartelle dell'Ufficio affari riservati del ministero degli Interni sulle stragi, agli omissis e ai documenti rimasti secretati o spariti, si continua a lambiccare sul fatto che Andreotti (classe 1919, sette volte Presidente del Consiglio, 26 ministro, senatore a vita dal 1991, morto nel 2013) possedesse le chiavi per aprire le porte degli enigmi. Tuttavia, con lui al potere, centrista nel Dna, nel periodo oscuro delle derive estremiste e dei rischi totalitari, la democrazia sopravvisse, pur reggendosi su equilibri insanguinati. Una parte degli italiani lo denigra, un'altra lo rimpiange, con quei completi scuri Caraceni nelle sue apparizioni tivù. Ma chi era davvero Giulio Andreotti? La Verità lo ha chiesto a uno dei suoi 4 figli, Stefano Andreotti, classe 1952, laurea di giurisprudenza, oggi in pensione dopo essere stato direttore della filiale Siemens di Roma, terzogenito. Circolava la voce secondo cui Andreotti potesse mettere fuori gioco i propri avversari mediante il suo archivio. Nella celebre intervista alla Fallaci del 1974 rivelò: «Non ho mai ritenuto che il potere consistesse nel farsi i fascicoli per ricattare. Non ho cifrari segreti. Ho solo un diario che scrivo ogni sera che Dio manda in terra. erto, lo tengo in modo tale che nessuno può capirlo all' infuori di me. È proprio un segreto, e spero che i miei figli lo brucino il giorno che morrò».
L'avete bruciato questo diario?
«Mio padre ci ha lasciato alcune lettere, scritte nei momenti più drammatici della sua esistenza, come durante il sequestro Moro e, in seguito, quando dovette subire un delicato intervento chirurgico tra naso e cervello, e nel momento in cui si recò a Palermo, per le note vicende processuali. Erano da leggere post mortem. In una di queste lettere aveva scritto di conservare quei diari, raccomandandoci di farne l'uso che ritenessimo migliore, incluso quello di pubblicarli, a condizione "che non nuocciano a nessuno"».
Pertanto, i diari li avete voi?
«Li abbiamo noi. Devo tuttavia dire che una parte pur minima di essi fu sequestrata dalla Procura di Palermo nel periodo del processo e, nonostante le richieste, non ci sono mai stati restituiti».
Li avete letti?
«Sì, ma non sono semplici da decifrare. Soprattutto per la grafia di mio padre, ai limiti dell' illeggibilità. E per il suo disordine, all' interno del quale solo lui poteva trovare un ordine. L' ordine cronologico degli appunti non è semplice da ricostruire, anche perché sono trapunti di foglietti e aggiunte. Vi sono scritte memorie storiche, ma anche notazioni minime, ad esempio riferimenti a compleanni. Allora, mi viene da dire che le ipotesi sono due. O mio padre è stato così abile da nascondere i suoi presunti scheletri, oppure l' unico segreto che esiste è che non ci sono segreti. Ci si può credere o non credere».
Che padre era Giulio Andreotti?
«Non elargiva certo carezze o baci. Ma non era nemmeno un padre impositivo. Ci lasciava scegliere. Odiava il fumo, ma quando ho iniziato a fumare - ho smesso a 38 anni - mi comprava le sigarette. Quando, a 18 anni, decisi di portare i capelli lunghi, non disse nulla».
Le regalava giocattoli?
«Tantissimi, ricordo macchinine e soldatini. E immancabilmente, di ritorno da una missione all'estero, ci portava un dono».
Ha avuto qualche conflitto o divergenza di opinioni con lui?
«È accaduto varie volte, ma sempre nel reciproco rispetto. Ascoltava con interesse i nostri punti di vista diversi su questioni sociali, perché riteneva di vivere in una sorta di limbo, talvolta impermeabile».
Per chi votavate?
«Abbiamo sempre votato Democrazia cristiana. Ma non perché ce lo ordinasse nostro padre. Eravamo convinti di farlo».
Ricorda alcuni politici che frequentavano la vostra casa?
«Erano pochissimi. Ricordo Francesco Cossiga e Franco Evangelisti. E Giovanni Leone, in vacanza in montagna sulle Dolomiti e a Roccaraso. I grandi amici di mio padre, tuttavia, erano i suoi vecchi compagni di scuola».
E Moro, l'ha conosciuto?
«L'ho conosciuto da bambino perché le figlie di Moro frequentavano, come noi, per il catechismo, il convento delle suore di Priscilla, qui a Roma, fondato da un monsignore zio di mia madre. I nostri rispettivi genitori ci venivano a prendere».
Quando le Br sequestrarono il presidente della Dc, nel marzo 1978, uccidendo la scorta in via Fani, lei aveva 25 anni. Come reagì suo padre nei momenti del rapimento e della prigionia?
«Lo vedevo soffrire enormemente e parlava in famiglia delle vicende che si susseguivano. Il mattino che dovette presentare il Governo (il 16 marzo 1978, giorno stesso del sequestro Moro, ndr) stette malissimo anche a causa di una violenta emicrania con conati di vomito, una di quelle emicranie che contrastava assumendo fino a 12 Optalidon e 200 gocce di Novalgina al giorno, tanto che la seduta fu sospesa per alcune ore. Mio padre avrebbe voluto che Moro fosse il presidente del Consiglio e Moro avrebbe voluto che lo fosse mio padre».
Moro, durante la prigionia, scrisse lettere nelle quali definiva suo padre «personaggio grigio e senza palpiti», minacciava di rivelare particolari scomodi sul concorso dello Stato nelle stragi, sulle strutture militari top secret. Andreotti, in un'intervista a Enzo Biagi a Linea diretta, disse che un Moro «nella pienezza delle sue facoltà non avrebbe mai usato queste immagini» e ricordò che lo statista ucciso, quando era presidente del Consiglio durante il rapimento del giudice Mario Sossi, «era per una linea dura, di non contatto con le Br».
«Guardi, mio padre potrebbe anche essere stato il più grande bugiardo del mondo. Io però sono portato a escluderlo. Lui non piangeva mai. L'ho visto piangere soltanto due volte. Quando è morta sua madre. E quando è Moro è stato ucciso. Io non mi meraviglio di niente, ma non posso credere che fosse così finto».
E riguardo ai rapporti con Sindona e Gelli?
«Certo, lui conosceva moltissime persone, sostanzialmente tutti. Ma da qui a dire che avesse cointeressenze o affari sporchi con loro, ce ne passa. Comunque nei processi di Palermo e Perugia si è parlato anche di questo».
Qual è il suo pensiero circa le accuse rivolte a suo padre di rapporti illeciti con Cosa nostra?
«Penso che si racconti solo ciò che fa più comodo raccontare. E alla quantità di cose che gli sono piovute addosso, da pentiti come Balduccio Di Maggio, che ha ricevuto un chiamiamolo "indennizzo" di un miliardo e mezzo di lire più sei milioni di lire mensili, per aver rivelato dove si trovava il covo di Totò Riina e intanto ricostituiva la sua cosca».
E il presunto bacio con Riina?
«Non ci ho mai creduto. Anche perché mio padre, viaggi ufficiali a parte, non andava mai da nessuna parte, non aveva nemmeno la patente. E quando si spostava, era costantemente seguito dalla scorta».
Assistendo alla proiezione del film Il divo di Paolo Sorrentino, perse le staffe. Nel monologo solitario, Andreotti-Toni Servillo, confessandosi idealmente alla moglie Livia, diceva: «Gli occhi tuoi pieni e puliti e incantati non sanno la responsabilità [], diretta o indiretta, per tutte le stragi avvenute in Italia dal 1969 al 1984».
«Andò ad assistere al film accompagnato dal critico cinematografico Gian Luigi Rondi e in sala era presente anche il regista. Lo definì "una mascalzonata". Quell'immagine di uomo cinico, freddo e spietato che si aggirava per stanze semibuie non corrisponde alla realtà. Anzi, la travisa, come nella scena del bacio a Riina. Inventata. Non pensava che il potere possa compiere qualsiasi nefandezza. Mio padre non era così».
Com'era invece?
«Forse non dovrei ricordarlo, ma aiutava tutti quelli che poteva, non solo distribuendo viveri nel suo ufficio, a piazza San Lorenzo in Lucina o a piazza Montecitorio, ma anche economicamente. Un giorno fece fermare il caposcorta davanti a un ospedale per visitare un clochard che conosceva di vista. E quando Madre Teresa di Calcutta lo portava in giro nei luoghi dell' emarginazione di Roma, si prodigava per migliorare le cose».
Pensa che alcuni poteri abbiano voluto distruggere Andreotti?
«Certamente qualcuno non ha digerito il suo lungo potere e il fatto che non abbia avuto nulla a che vedere con Tangentopoli. Probabilmente c' è stato anche uno zampino internazionale che non gli ha perdonato certe scelte di autonomia».
Suo padre credeva nel Paradiso e nell'Inferno. Dove immagina si trovi ora?
«In Purgatorio, a riflettere su alcuni peccati, ma con un abbuono, perché un po' di Purgatorio l' ha già scontato nella sua vita terrena».
· Quando la politica era la politica. E aveva un re: Giulio Andreotti.
Il mio "ping pong" con Andreotti. L'uomo simbolo della Dc compirebbe 100 anni in questi giorni. Lo intervistai ed ebbi la misura di quello che per lui fosse il potere, scrive Giampaolo Pansa l'1 febbraio 2019 su Panorama. Qualcuno potrebbe chiedermi: «Caro il mio Pansa, ma quale diritto hai di scrivere anche tu sul conto di Giulio Andreotti? È vero che lo fanno in molti, dal momento che siamo nel centenario della sua nascita. Però il Bestiario non è mai stato interessato agli anniversari. È una rubrica corsara che osserva l’Italia senza troppo badare alle buone maniere...». Una risposta ce l’ho. Mi arrogo questo diritto poiché credo di essere stato l’unico giornalista a fare un incontro in diretta televisiva con quel leader politico, ritenuto da molti il più interessante, complesso e discusso fra i tanti boss dei partiti italiani. Accadde nel settembre 1982, la bellezza di trentasette anni fa, a Viareggio, durante la Festa dell’Amicizia, il parallelo bianco della Festa nazionale dell’Unità, quella del vecchio Pci. Allora avevo 47 anni, ero vicedirettore nella Repubblica di Eugenio Scalfari e anch’io assistevo sbigottito all’inferno italiano di quel tempo. I delitti si susseguivano ai delitti. L’ultimo ci lasciò tutti sbigottiti. La sera del 3 settembre la mafia assassinò il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, il prefetto di Palermo, ed Emanuela Setti Carraro, la sua giovane moglie. Dopo quel delitto pensai che la Festa nazionale dell’Amicizia sarebbe stata rinviata. E il mio faccia a faccia con Andreotti l’avrebbero cancellato. Ma la Dc era anche un partito dai nervi d’acciaio e non mutò programma. Arrivato a Viareggio, venni subito portato a salutare Andreotti che mi aspettava nella sua camera d’albergo. In quel momento aveva 63 anni compiuti, ma sembrava assai più giovane. Capelli nerissimi e coperti di brillantina, le famose orecchie ad ali di farfalla, la pelle del viso candida e lisca, la voce nasale, il tono freddo, ma cortese. Per rispetto verso un signore più anziano di me, gli chiesi se voleva conoscere gli argomenti sui quali intendevo interrogarlo. Mi rispose di no e replicò, serafico: «Le sue domande le ascolterò quando saremo davanti al pubblico della Festa. E proverò a rispondere». Il tendone per il nostro ping pong era stracolmo. In prima fila stava Ciriaco De Mita, allora segretario della Dc, accanto a lui Clemente Mastella e Franco Evangelisti, la spalla di Andreotti. A moderare il dibattito era stato chiamato Bruno Vespa, aveva 38 anni ed era il redattore capo del Tg1. Come arbitro dell’incontro fu bravissimo perché rimase sempre in silenzio. Chiesi subito ad Andreotti se non si sentisse un po’ in colpa per avere lasciato crescere, accanto a un’Italia democratica, anche un’Italia piena di misteri e di delitti. Il mio elenco non trascurò quasi nulla: lo scandalo del banchiere Michele Sindona destinato a morire in carcere per un caffè avvelenato, l’uccisione del giornalista Mino Pecorelli, l’assassinio di Giorgio Ambrosoli, un eroe civile, la morte violenta del banchiere Calvi, il delitto Moro e, ultima in ordine di tempo, l’uccisione del generale Dalla Chiesa. E gli domandai se, da big della Balena bianca, non si sentisse un po’ in colpa per tutto quel sangue versato. La sua risposta fu andreottiana al massimo: «Neppure il Padreterno era riuscito a creare un paradiso terrestre senza difetti, come dimostra la faccenda della mela offerta da Eva ad Adamo. Per l’Italia bisognava fare un consuntivo sul tempo lungo. Allora si sarebbe visto che il bilancio della Democrazia cristiana era positivo». Provai a insistere: «Davvero non si sente in colpa neanche un poco?». Andreotti ribadì: «Neanche un poco». E aggiunse: «Come democratico e cristiano mi sento profondamente orgoglioso dell’Italia che abbiamo costruito dal primo dopoguerra a oggi». Gli spiegai nei dettagli perché la sua risposta non mi convinceva. Ma fu come gettare un bicchiere d’acqua contro una roccia. Giulio non si scompose né in quel momento né dopo. In seguito qualche giornale scrisse che avevo messo in difficoltà il dicì più astuto d’Italia. Ma non era vero. Ogni volta che tentavo di farlo, la roccia respingeva i miei assalti. Difese tutti i dicì siciliani, a cominciare da Salvo Lima. E respinse sarcastico le accuse di Bettino Craxi che descriveva il divo Giulio come il burattinaio di Licio Gelli, il capo della Loggia massonica P2. Quel giorno compresi che Andreotti era davvero un chiodo da mordere anche per un giornalista senza collare come il sottoscritto. Il suo stile dovrebbe essere studiato dai big politici di oggi. Parlo di signori come Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Gente che urla, minaccia, sproloquia, promette a vuoto, disprezza gli avversari ed è sempre lì a dichiarare. Per tutto il nostro lungo ping pong il grande Giulio fu imbattibile. Sempre freddo, sfuggente, ironico. Non aveva mai tradito il minimo fastidio per le mie domande. A quelle più scomode si era ben guardato dal rispondere, pur fingendo di farlo. Un vero campione nel rivoltare la frittata che gli presentavo. Ma capace di sparale grosse, con quella sua voce nasale sempre uguale, con il tono di chi offre una verità ovvia, banale, ma inconfutabile. Per quel che riguardava il potere mafioso che stava sparando e minacciando un pezzo importante dell’Italia politica, da quel ping pong ricavai un’impressione precisa su Andreotti, giusta o sbagliata che fosse. A lui non importava niente della mafia. La considerava un male incurabile contro il quale risultava inutile accanirsi. Era soltanto il suo cinismo? Oppure una constatazione dettata dalla certezza che l’umanità doveva convivere con il male? Confesso di non sapere rispondere.
Quando la politica era la politica. E aveva un re: Giulio Andreotti. Giulio Andreotti avrebbe compiuto 100 anni il 14 gennaio prossimo, è morto il 6 maggio del 2013 a 94 anni, scrive Francesco Damato l'8 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Morto il 6 maggio del 2013 alla già bella età di 94 anni, Giulio Andreotti ne avrebbe compiuto 100 il 14 gennaio prossimo. E ce l’avrebbe fatta a tagliare vivo il traguardo del secolo se non gli fosse toccato di vivere l’ultimo tratto della sua lunga esistenza e carriera politica nell’amarezza di un “prescritto”. Così ne parlano ancora i suoi avversari a causa della conclusione ibrida, diciamo così, del processo per mafia subìto fra il 1993 e il 2004: undici anni durante i quali egli si divise, con la puntualità che lo distingueva, fra gli impegni parlamentari e quelli di imputato. La conclusione processuale fu davvero anomala, diversamente dalla chiara assoluzione dall’accusa di avere fatto addirittura uccidere nel 1979 Mino Pecorelli, un giornalista molto introdotto nei servizi segreti che lo attaccava da tempo, e lo aveva per primo chiamato con tono sarcastico “divo Giulio”: un antipasto del “Belzebù” affibbiatogli poi da altri. Fu una conclusione ibrida, quella del processo di mafia, perché, dopo l’assoluzione in primo grado, una sentenza d’appello, confermata dalla Cassazione, ribadì la bocciatura dell’accusa di concorso esterno ma estinse per prescrizione quella di associazione a delinquere, derubricatagli per fatti accertati, almeno agli atti giudiziari, ma avvenuti prima del 1980. E guai a fermarsi al grido trionfante della sua avvocata Giulia Bongiorno – “Assolto! Assolto! – senza ricordare la coda della prescrizione. Minimo minimo, si riceve una lettera puntigliosa di Gian Carlo Caselli: l’allora capo della Procura palermitana, ora in pensione dopo avere diretto la Procura di Torino, che ancora si vanta di avere indagato e fatto processare il politico fra i più famosi d’Italia. E non certo colpito da una damnatio memoriae neroniana, visto che nel centenario della sua nascita, quasi coincidente con quello appena celebrato dell’aula di Montecitorio realizzata da Ernesto Basile, gli sono dedicate due mostre: una nella Biblioteca Spadolini del Senato e un’altra nel complesso monumentale di San Salvatore in Lauro. Più che dimenticarlo, molti rimpiangono Andreotti, viste anche le prove date da molti dei suoi successori politici. Non fu un capriccio o un abuso indagarlo e processarlo, scrive e dice Caselli contestando al “suo” imputato, anche da morto, di non avere rinunciato alla prescrizione, e di avere quindi accettato un verdetto che lo avrebbe inchiodato alle sue cattive frequentazioni in Sicilia. Dove la corrente andreottiana della Democrazia Cristiana era spesso un porto di mare, subentrando per consistenza a quella di Amintore Fanfani. Ma Andreotti era diventato quello che era – senatore a vita, 7 volte presidente del Consiglio e 27 volte ministro, di cui 8 alla Difesa, 5 agli Esteri, 3 alle Partecipazioni Statali, 2 alle Finanze e una al Tesoro e all’Interno- senza bisogno della spinta delle tessere del partito raccolte dal suo luogotenente nell’isola Salvo Lima. Che fu peraltro assassinato proprio dalla mafia per ritorsione contro la conferma in Cassazione delle condanne del maxi- processo che aveva segnato davvero una svolta nella lotta a Cosa Nostra. Esso porta il nome di Giovanni Falcone, poi ucciso pure lui dalla mafia nella strage di Capaci. Andreotti aveva creato le sue fortune politiche a Roma, la sua Roma, facendo la gavetta come sottosegretario e braccio destro di Alcide De Gasperi: ripeto, Alcide De Gasperi. Per la cui successione egli assistette, in disparte, alla lotta fra Amintore Fanfani e Attilio Piccioni, piegato quest’ultimo dalla disavventura giudiziaria del figlio Piero per la vicenda di Wilma Montesi, trovata morta sulla spiaggia di Torvaianica dopo un festino, vicino alla tenuta presidenziale di Castel Porziano. L’assoluzione di Piero, al solito, arrivò a danni collaterali irreparabilmente compiuti. La forza politica di Andreotti crebbe man mano non per le tessere – ripeto- della sua corrente, chiamata Primavera e poi confluita in altre più grandi, ma per le sue capacità di relazione, per il grande e sistematico seguito elettorale che raccoglieva, per la dimestichezza con la grande e piccola burocrazia, civile e militare, incontrata nella lunga attività ministeriale, per la fiducia di cui godeva in Vaticano, sotto tutti i Papi, ma soprattutto per la sua inconfondibile capacità di muoversi in Parlamento. Della cui vera “centralità” egli era un cultore: altro che quella quasi toponomastica – nel senso delle sedi della Camera e del Senato nel centro di Roma – alla quale si è ora ridotta, specie con l’approvazione forzata del bilancio del 2019 e l’inseguimento grillino della democrazia digitale. La dimestichezza totale, fisica e politica, di Andreotti con la Camera la scoprì a sue spese nel 1955 l’allora segretario della Dc Fanfani. Che aveva candidato al Quirinale, per la successione a Luigi Einaudi, il dichiaratamente ateo presidente del Senato Cesare Merzagora, eletto al Parlamento in Lombardia come indipendente nelle liste democristiane. Alle obbiezioni di Mario Scelba, presidente del Consiglio in carica, e dell’ex sottosegretario di De Gasperi, il segretario dello scudo crociato reagì a suo modo, irrigidendosi. Quando le votazioni a scrutinio segreto dimostrarono che la dissidenza democristiana era molto più numerosa e forte delle sue previsioni, Fanfani si accorse che il più attivo e astuto nelle operazioni di contrasto dietro le quinte era proprio Andreotti. Che pur di sbarrare la strada, a quel punto, a Merzagora non tanto come ateo ma come candidato inamovibile del segretario democristiano, si adoperò con destrezza e successo per l’elezione al Quirinale di un collega di partito di sinistra come il presidente della Camera Giovanni Gronchi, definito dal leader socialdemocratico Giuseppe Saragat “il Peron di Pontedera”, la città toscana dove Gronchi appunto era nato. L’elezione di Gronchi a Camere naturalmente riunite avvenne alla quarta votazione – la prima nella quale sarebbe bastata la maggioranza assoluta, e non più quella dei due terzi – con ben 658 voti su 833 parlamentari presenti: “quasi all’unanimità”, commentò l’interessato con Indro Montanelli compiacendosi del fatto che quel risultato lo rendeva “indipendente da ogni partito e fazione”. Alla fine, quindi, Fanfani aveva dovuto non arrendersi ma capitolare. E ad Andreotti non gliela perdonò mai. Uno scontro fra i due, e sempre sulla strada del Quirinale, si consumò anche alla fine del 1971, quando l’allora presidente del Senato Fanfani volle essere candidato alla Presidenza della Repubblica dalla Dc guidata da Arnaldo Forlani, cresciuto peraltro nella sua scuderia. I cosiddetti franchi tiratori contro il “nano maledetto”, come qualcuno scrisse sulla scheda annullata nello scrutinio, si sprecarono a tal punto che per disarmarli si dovette imporre ai parlamentari democristiani la pubblica astensione: essi dovettero sfilare più volte davanti alle urne di Montecitorio senza deporvi alcuna scheda, mentre dietro le quinte si trattava per un cosiddetto “cambio di cavallo”. L’unico a sottrarsi a quel rito umiliante fu l’ormai ex presidente della Repubblica Giovanni Gronchi votando dichiaratamente per Aldo Moro. Furente, Fanfani affrontò alla buvette non solo il giornalista Vittorio Gorresio, della Stampa, avvertendo la mano e gli interessi della Fiat contro la propria candidatura, ma anche il braccio destro di Andreotti. Che era Franco Evangelisti: un uomo franco di nome e di fatto. Peraltro in occasione della sconfitta di Fanfani nella corsa al Quirinale, chiusasi con l’elezione invece di Giovanni Leone, il capogruppo democristiano della Camera era proprio Andreotti, approdato a quella carica nel 1968 defilandosi dalle lotte scatenatesi nel partito dopo quasi un decennio di leadership morotea. Da capogruppo democristiano a Montecitorio Andreotti seppe instaurare col maggiore partito di opposizione, il Pci, un rapporto di grande sintonia personale e parlamentare, sopravvissuto non a caso anche alla breve fase politica in cui egli guidò, fra il 1972 e il 1973, un governo con i liberali di Giovanni Malagodi al posto dei socialisti di Giacomo Mancini. Fu proprio negli anni di Andreotti alla testa del gruppo democristiano che maturò e fu varata una significativa riforma del regolamento della Camera sostanzialmente a quattro mani: le altre due furono quelle del capogruppo comunista Pietro Ingrao. Si deve anche o soprattutto a quei rapporti politici e alla sua padronanza dei meccanismi parlamentari se nel 1976, dopo un turno elettorale conclusosi con due vincitori – come disse Moro parlando appunto del suo partito e del Pci- incapaci ciascuno di realizzare una maggioranza contro l’altro e condannati quindi ad accordarsi per garantire la tenuta della democrazia, la Dc propose e i comunisti accettarono il ritorno di Andreotti a Palazzo Chigi. Erano tempi anche di grave crisi economica e di ordine pubblico. Andreotti guidò fra il 1976 e la fine dell’orribile 1978 – orribile davvero, col rapimento di Moro e il suo barbaro assassinio per mano delle brigate rosse- non uno ma due governi di cosiddetta solidarietà nazionale, entrambi monocolori democristiani: uno sostenuto dai comunisti con l’astensione e l’altro con tanto di voto di fiducia negoziato su un programma. E curiosamente, ma non troppo considerando la sua abilità, tramontata la collaborazione parlamentare col Pci vissuta con particolare sofferenza dal Psi di Bettino Craxi, toccò proprio ad Andreotti guidare le ultime due edizioni del cosiddetto pentapartito condizionato dai socialisti. E prima ancora era toccato proprio ad Andreotti il ruolo di ministro degli Esteri di Craxi, dal 1983 al 1987, gestendo insieme vicende assai complesse: a cominciare dal sequestro palestinese della nave Achille Lauro nelle acque del Mediterraneo e dallo scontro con la Casa Bianca di Ronald Reagan, nella notte di Sigonella, per la cattura dei responsabili. Tutto poi si sarebbe infranto, insieme con la prima Repubblica, contro gli scogli giudiziari di Tangentopoli, e trappole annesse. Lo stesso Andreotti, sopravvissuto alle varie “guerre puniche” – come lui le chiamava ironicamente – attribuitegli dagli avversari di turno, passando dall’affare petroli a quello della P2 e a Sindona, solo per citarne alcune, dovette subire i già ricordati undici anni di processo per mafia. Eppure nel 1992, nella corsa al Quirinale interrotta dalla strage mafiosa di Capaci, egli stette, o sembrò, sul punto di arrivare sul colle più alto di Roma. L’allora suo portavoce Pio Mastrobuoni racconta ancora agli amici della tarda serata in cui, affacciatosi allo studio di Andreotti per chiedergli se fra le soluzioni “istituzionali” annunciate per il Quirinale dopo la strage di Capaci (omicidio Falcone) potesse essere considerata anche la sua, essendo lui presidente del Consiglio, si sentì anticipare dal suo rassegnatissimo capo l’epilogo che stava maturando dietro le quinte. Stava maturando, in particolare, la promozione del presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro, preferito dai comunisti sul Colle al presidente del Senato Giovanni Spadolini, che pure aveva già cominciato a predisporre il discorso di insediamento, perché con Scalfaro al Quirinale sarebbe stata spianata la strada di Giorgio Napolitano al vertice di Montecitorio. E pensare che una volta, quando gli chiesi, negli anni ancora verdi della sua carriera politica, a quale carica aspirasse di più fra quelle mai avute – segreteria del partito e Presidenza della Repubblica – Andreotti mi disse: “Presidente della Camera”. Per un pelo, non essendo più alla Camera, Andreotti mancò la presidenza del Senato nel 2006, due anni dopo l’epilogo pur ibrido del processo di mafia e sette prima della morte. Ne fu proposta la candidatura anche da Silvio Berlusconi a garanzia del centrodestra e del centrosinistra, che avevano quasi pareggiato elettoralmente. Ma Romano Prodi, che aveva prenotato Palazzo Chigi per il suo secondo passaggio, breve e sfortunato quanto il primo, non ne volle sapere. E alla presidenza di Palazzo Madama fu eletto Franco Marini, uno dei pochi seguaci del compianto Carlo Donat- Cattin che con Andreotti aveva saputo andare sempre d’accordo nella Dc, sino a ereditarne il ruolo di capolista a Roma nelle elezioni politiche del 1992: le ultime della prima Repubblica. Alle quali Andreotti, abitualmente supervotato, non aveva avuto bisogno di partecipare perché ormai senatore a vita, nominato nel 1991 dal capo dello Stato Francesco Cossiga avendo “illustrato la Patria per altissimi meriti”, secondo la formula solenne dell’articolo 59 della Costituzione.
Giulio Andreotti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Giulio Andreotti (Roma, 14 gennaio 1919 – Roma, 6 maggio 2013) è stato un politico e scrittore italiano. È stato tra i principali esponenti della Democrazia Cristiana, partito protagonista della vita politica italiana per gran parte della seconda metà del XX secolo. Senatore a vita dal 1991, è stato il candidato più votato in Italia in tutte le elezioni politiche fino al 1991 tranne in sei casi: nel 1948 e nel 1953, quando fu secondo in preferenze al solo Alcide De Gasperi, nel 1963 e nel 1968, quando fu secondo ad Aldo Moro, e nel 1976 e nel 1983, quando fu secondo ad Enrico Berlinguer. Andreotti è stato anche il politico con il maggior numero di incarichi governativi nella storia della repubblica.
Fu infatti: sette volte presidente del Consiglio tra cui il governo di «solidarietà nazionale» durante il rapimento di Aldo Moro(1978-1979), con l'astensione del Partito Comunista Italiano, e il governo della «non sfiducia» (1976-1978);
ventisei volte ministro: otto volte Ministro della difesa; cinque volte Ministro degli affari esteri; tre volte Ministro delle partecipazioni statali; due volte Ministro delle finanze, Ministro del bilancio e della programmazione economica e Ministro dell'industria, del commercio e dell'artigianato; una volta Ministro del tesoro, Ministro dell'interno (il più giovane della storia repubblicana, a soli trentacinque anni), Ministro per i beni culturali e ambientali (ad interim) e Ministro delle politiche comunitarie.
Dal 1945 al 2013 fu sempre presente nelle assemblee legislative italiane: dalla Consulta Nazionale all'Assemblea costituente, e poi nel Parlamento italiano dal 1948, come deputato fino al 1991 e successivamente come senatore a vita. Fu presidente della Casa di Dante in Roma.
A cavallo tra XX e XXI secolo subì un processo per il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Fu assolto in primo grado dal Tribunale di Palermo. Il 2 maggio 2003 fu assolto anche dalla Corte d'appello di Palermo per i fatti successivi al 1980: per quelli anteriori a tale data, l'organo giudicante stabilì che Andreotti aveva commesso il reato di associazione per delinquere con Cosa nostra, e tuttavia fu emessa pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. La Cassazione, infine, confermò la sentenza di appello condannando Andreotti al pagamento delle spese processuali.
Biografia. Infanzia, istruzione e adolescenza. Nato a Roma da genitori originari di Segni, all'età di due anni rimase precocemente orfano di padre e in seguito perse anche Elena, l'unica sorella: «Mia madre è rimasta vedova giovanissima. Con mio fratello maggiore e mia sorella più grande, che morì appena si iscrisse all'università, vivevamo presso una vecchissima zia, classe 1854, nella casa nella quale io sono nato.»
Frequentò il ginnasio al "Visconti" e il liceo al "Tasso". Si iscrisse poi alla facoltà di Giurisprudenza per ragioni da lui così illustrate: «Appena presa la licenza liceale, fu doveroso per me non gravare più su mia madre, che con la sua piccola pensione aveva fatto miracoli per farci crescere, aiutata soltanto dalle borse di studio di orfani di guerra. Rinunciai, in fondo senza rimpianti eccessivi, a scegliere la facoltà di Medicina, che comportava la frequenza obbligatoria; mi iscrissi a Giurisprudenza e andai a lavorare come avventizio all'Amministrazione Finanziaria [...].» Si laureò in Giurisprudenza con il voto di 110/110 presso l'Università di Roma il 10 novembre del 1941. Iniziò a soffrire fin da ragazzo di forti emicranie, mentre la sua gracile costituzione fisica giustificò infauste previsioni che Andreotti ricorda così: «Aiutato dal mio carattere ad apprezzare anche il lato comico delle vicende, dimenticai presto la terribile prognosi del medico militare del Celio, Ricci, che, dichiarandomi non idoneo al corso allievi ufficiali per «oligoemia e deperimento organico», aveva aggiunto il pronostico che a suo giudizio non mi restavano più di sei mesi prima di passare a vita migliore.» Andreotti raccontò della funesta previsione del medico militare anche ad Oriana Fallaci: «Alla visita medica militare, il medico responsabile mi diede sei mesi di vita; quando diventai ministro della difesa lo chiamai per dirgli che ero ancora vivo, ma era morto lui!»
Inizio della carriera politica. Intraprese la carriera politica già nel corso degli studi universitari, durante i quali entrò a far parte della Federazione Universitaria Cattolica Italiana, che era l'unica associazione cattolica riconosciuta nelle università durante il fascismo, nella quale si formerà buona parte della futura classe dirigente democristiana. Andreotti ha spiegato così questo inizio: «[...] stavo studiando diritto della navigazione, andai in biblioteca e un impiegato mi disse: «Lei non ha niente di meglio da fare?». Io mi seccai un po'. Qualche giorno dopo mi chiama Spataro, che era stato presidente molti anni prima, e stava riorganizzando la Democrazia Cristiana, e ci ritrovo quel signore dei libri che mi dice: "De Gasperi vuole il suo nome". [...] De Gasperi io non lo conoscevo. Mi venne detto: "Vieni a lavorare con noi". Allora ho cominciato, e non era affatto nei miei programmi. Poi, si sa, la politica è una specie di macchina nella quale se uno entra non può più uscirne.» Riguardo all'impiegato della biblioteca, Andreotti ha spiegato: «Io non sapevo chi fosse quel signore. Lui sapeva invece che dirigevo il giornale degli universitari cattolici». Infatti nella FUCI Andreotti era giunto, nel luglio 1939, a ricoprire l'incarico di direttore di Azione Fucina (la rivista degli universitari cattolici), proprio mentre Aldo Moro assumeva la presidenza dell'associazione. Quando nel 1942 questi fu chiamato alle armi, Andreotti gli successe nell'incarico di presidente, incarico che mantenne sino al 1944: «Con Moro ci conoscevamo fin dai tempi della Fuci, lui era presidente, io dirigevo l'Azione fucina, e quando lui lasciò la carica presi il suo posto. Quindi una dimestichezza che risaliva a prima della politica. [...] ho sempre avuto con lui una relazione molto facile, proprio perché c'era questo legame universitario.» Nel luglio del 1943 prese parte ai lavori che portarono alla redazione del Codice di Camaldoli. Durante la guerra scrisse per la Rivista del Lavoro, pubblicazione di propaganda fascista. Partecipò anche alla redazione clandestina de Il Popolo. Il 30 luglio 1944, al Congresso di Napoli, fu eletto nel primo Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana e il 19 agosto divenne responsabile dei gruppi giovanili del partito; in tale carica verrà confermato dal Congresso nazionale del Movimento giovanile DC di Assisi del gennaio 1947.
L'elezione all'Assemblea costituente e le prime responsabilità di governo. Fu De Gasperi ad introdurlo nella scena politica nazionale, designandolo quale componente della Consulta Nazionale nel 1945 e successivamente favorendone la candidatura alle elezioni del 1946 all'Assemblea Costituente. I due si conobbero casualmente nella Biblioteca Vaticana dove De Gasperi aveva un modesto impiego concessogli dal Vaticano per consentirgli di sfuggire alla miseria cui lo aveva condannato il regime fascista e fra i due si sviluppò un intenso rapporto nonostante le profonde differenze caratteriali. All'inizio degli anni quaranta monsignor Giovanni Battista Montini (futuro papa Paolo VI), già assistente ecclesiastico della Fuci e sostituto della segreteria di Stato, aveva notato il giovane Andreotti e fu lui nel maggio 1947 ad esortare De Gasperi perché lo nominasse sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, «lasciando di stucco un'intera schiera di vecchi popolari che affollavano l'anticamera politica della nuova Italia».
Sottosegretario nei Governi De Gasperi. Andreotti divenne così parte del quarto governo De Gasperi, venendo poi eletto nel 1948 alla Camera dei deputati per la circoscrizione di Roma-Latina-Viterbo-Frosinone, in quella che sarà la sua roccaforte elettorale fino agli anni novanta. Nel 1952, in vista delle elezioni amministrative del comune di Roma, Andreotti diede prova delle sue capacità diplomatiche e della credibilità conseguita agli occhi del Papa negli anni della presidenza della Fuci scrivendo a Pio XII un appunto che finalmente lo persuase – dopo che non vi erano riusciti né Montini né De Gasperi – a rinunciare all'"operazione Sturzo" (cioè all'idea di un'alleanza elettorale che coinvolgesse anche i neofascisti). Durante gli anni del sottosegretariato alla presidenza del consiglio, Andreotti si occupa della produzione cinematografica italiana. La legge Andreotti del 1949 prevede la difesa del cinema italiano dalla saturazione del mercato americano imponendo una tassa sul doppiaggio; inoltre, le sceneggiature delle produzioni italiane dovevano essere sottoposte all'approvazione governativa per aggiudicarsi finanziamenti pubblici. Tra il 1947 e il 1950, Andreotti si avvale della collaborazione del frate domenicano Felix Morlion per fondare un neorealismo cattolico. Questo doveva combattere il pericolo neorealista, colpevole di dare una rappresentazione negativa dell'Italia all'esterno. Questo tentativo risulterà nella presentazione di due film di Roberto Rossellini alla 11ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia, Francesco, giullare di Dio e Stromboli (Terra di Dio). Andreotti mantenne la carica di sottosegretario alla Presidenza in tutti i governi De Gasperi e poi nel successivo governo Pella, fino al gennaio 1954. Ad Andreotti furono affidate numerose e ampie deleghe (fra le altre, quelle per lo spettacolo, lo sport, la riforma della pubblica amministrazione, l'epurazione). A lui si devono in particolare la rinascita del CONI che si pensava di sciogliere o liquidare dopo la caduta del regime fascista, l'autonomia finanziaria dello sport attraverso il collegamento con il totocalcio e la rinascita della industria cinematografica nazionale e il rilancio degli stabilimenti di Cinecittà devastati nell'immediato dopoguerra (Legge n. 958 del 29 dicembre 1949) fornendo inoltre prestiti alle imprese di produzione italiane e adottando misure per prevenire la dominazione del mercato da parte delle produzioni americane. È del 1953, fra l'altro, il cosiddetto "veto Andreotti" contro il blocco della importazione di calciatori stranieri. Le benemerenze acquisite da Andreotti in questi anni nei confronti dello sport italiano gli verranno riconosciute il 30 novembre 1958 con la nomina all'unanimità, da parte del Consiglio nazionale del Coni, a presidente del Comitato organizzatore delle Olimpiadi di Roma 1960. Molti anni dopo, nel 1990, Andreotti verrà inoltre insignito del prestigioso Collare all'Ordine olimpico, la massima onorificenza del Comitato Olimpico Internazionale. Seguirono altri innumerevoli incarichi, tanto che Andreotti fu presente in quasi tutti i governi della Prima Repubblica. Nel periodo 1947-54 fu inoltre il responsabile politico dell'Ufficio per le zone di confine (Uzc), che tramite ingenti fondi riservati finanziava partiti, giornali ed enti di vario tipo per difendere l'italianità in delicate zone di frontiera come Friuli Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Valle d'Aosta. L'Uzc svolgeva poi una serie di altre attività di natura amministrativa e burocratica relative al rapporto con le minoranze linguistiche e all'attuazione dell'autonomia (escludendo il Friuli Venezia Giulia). Perciò ebbe un ruolo preminente come raccordo tra Roma e la classe dirigente locale.
Gli anni cinquanta e sessanta. Ministro delle Finanze. Nel 1954 è per la prima volta ministro, entrando a far parte del breve primo governo Fanfani come Ministro degli interni. Successivamente diventa Ministro delle Finanze nei governi Segni I e Zoli. Nel novembre 1958 Andreotti fu nominato presidente del comitato organizzatore delle Olimpiadi del 1960 che si sarebbero tenute a Roma. Nell'agosto del 1958 rimane coinvolto per «mancata vigilanza» nel Caso Giuffrè sulla base di un "memoriale", poi rivelatosi falso. Dall'accusa venne completamente scagionato da una commissione di inchiesta parlamentare. Viene invece censurato da una Commissione d'inchiesta parlamentare del 1961-1962 su alcune irregolarità nei lavori dell'aeroporto di Fiumicino.
La nascita della corrente andreottiana. Quasi parallelamente all'affermarsi della segreteria nazionale di Amintore Fanfani, la corrente andreottiana nasce in quegli anni, ereditando nella capitale i quadri della destra clericale che nel 1952 s'erano coalizzati – con la benedizione del Vaticano – dietro il tentativo di espugnare il Campidoglio con la lista civica guidata da Luigi Sturzo. Essa esordì con la campagna di stampa che implicò Piero Piccioni (figlio del vicesegretario nazionale Attilio Piccioni) nella vicenda del caso Montesi. Eliminata così la vecchia guardia degasperiana dalla guida del partito, gli andreottiani aiutarono la neonata corrente dei dorotei a conseguire la maggioranza necessaria per scalzare Fanfani dalla Presidenza del consiglio e dalla segreteria della Democrazia cristiana. Si trattava di «una sorta di curva Sud del partito [...] anche se marginale all'interno della DC», che Franco Evangelisti battezzò «corrente Primavera».
Ministro della Difesa. Nei primi anni sessanta fu Ministro della difesa quando esplose lo scandalo dei fascicoli SIFAR e del Piano Solo, un presunto progetto di golpe neofascista, promosso, secondo il settimanale L'Espresso, dal generale missino Giovanni De Lorenzo. L'incarico ministeriale rivestito da Andreotti fu onerato, da una successiva legge, della responsabilità della distruzione dei fascicoli, con cui il Sifar aveva schedato importanti politici italiani, di cui aveva composto dei ritratti poco favorevoli. Gli si addebita perciò una responsabilità quanto meno oggettiva nel fatto che – come è stato accertato – quei fascicoli fossero stati prima fotocopiati e poi passati alla P2 di Licio Gelli, che aveva portato quei materiali all'estero, a dispetto del fatto che la commissione parlamentare d'inchiesta avesse deciso di far bruciare a Fiumicino, nell'inceneritore, i fascicoli abusivi. Quasi a rimarcare la differente cifra della sua condotta, Francesco Cossiga, che nella veste di sottosegretario alla Difesa procedette parallelamente all'espunzione con omissis del rapporto della commissione ministeriale d'inchiesta del generale Manes sul Piano Solo, ha sempre pubblicamente vantato il suo intervento censorio, dichiarando di averlo svolto nella piena legalità. Nel dicembre del 1968 viene nominato capogruppo della Dc alla Camera, incarico che manterrà per tutta la legislatura fino al 1972.
Anni settanta. Andreotti presidente del Consiglio. Nel 1972, Giulio Andreotti diventa per la prima volta Presidente del Consiglio, incarico che reggerà, alla guida di due esecutivi di centro-destra, fino al 1973. Il primo governo non ottenne la fiducia e fu costretto a dimettersi dopo 9 giorni. Tale governo è stato dunque finora quello col più breve periodo di pienezza dei poteri nella storia della Repubblica Italiana, e il terzo a vedersi rifiutato il voto di fiducia dal parlamento, fatto che provocò le prime elezioni anticipate della Repubblica. L'esecutivo, tuttavia, rimase in carica dal 18 febbraio al 26 giugno 1972, per un totale di 128 giorni, ovvero 4 mesi e 8 giorni. Dopo le elezioni del 1972, che videro la Democrazia Cristiana rimanere più o meno stabile, si formò il secondo governo Andreotti che fu il primo esecutivo dal 1957 a vedere l'organica partecipazione di ministri e sottosegretari liberali, rappresentò un tentativo di resurrezione del centrismo di degasperiana memoria, e fu anche noto come governo Andreotti-Malagodi. L'esecutivo cadde per il ritiro dell'appoggio esterno dei repubblicani al governo sulla materia della riforma televisiva: "casus belli" delle problematiche delle televisioni locali, fu la vicenda di Telebiella. La battuta usata dalle opposizioni fu "Andreotti inciampò nel cavo di Telebiella e cadde".
Dopo la fine dei primi due governi Andreotti. Andreotti continuò a ricoprire incarichi di primo piano, nei successivi esecutivi. Nel ruolo di Ministro della difesa, rilascia una famosa intervista a Massimo Caprara con cui rivela le coperture istituzionali dell'indagato per la strage di piazza Fontana, Guido Giannettini (Andreotti sarà prosciolto, nel 1982, dall'accusa di favoreggiamento nei confronti di Giannettini). Fra il 1974 e il 1976 ricopre il ruolo di Ministro del bilancio e della programmazione economica nei governi Moro IV e Moro V.
Il compromesso storico. Nel 1976, il governo, presieduto da Aldo Moro, perse la fiducia dei socialisti in Parlamento e il Paese si avviò alle elezioni anticipate, che videro un forte aumento del Partito Comunista Italiano, guidato da Enrico Berlinguer. La Democrazia Cristiana riuscì, anche se solo per pochi voti, a restare il partito di maggioranza relativa. Forte del buon risultato elettorale, Berlinguer propose, appoggiato anche da Aldo Moro e Amintore Fanfani, di dare concretezza al compromesso storico, ovvero alla formazione di un governo di coalizione fra PCI e DC, per superare la difficile situazione dell'Italia dell'epoca, colpita dalla crisi economica e dal terrorismo.
Il «governo della non sfiducia». Fu proprio Andreotti ad essere prescelto per guidare il primo esperimento in questa direzione: egli varò nel luglio del 1976 il suo terzo governo, detto della «non sfiducia» perché, pur essendo un monocolore, si reggeva grazie all'astensione dei partiti dell'arco costituzionale (tutti tranne il MSI-DN). L'azione legislativa di questo inedito esperimento si concretizzò in diverse riforme come la legge sul diritto d'uso fondiario (che introdusse severi vincoli di costruzione oltre che nuovi criteri per gli espropri dei terreni e nuove procedure di pianificazione delle costruzioni), la legge per il controllo da parte dello stato sugli affitti e le condizioni di locazione, l'aggiornamento ad hoc delle prestazioni in denaro nel settore agricolo e l'estensione del collegamento della pensione con il salario industriale a tutti gli altri sistemi pensionistici non gestiti dall'INPS. Questo Governo cadde però nel gennaio del 1978.
La solidarietà nazionale. A marzo la crisi fu superata grazie alla mediazione di Aldo Moro, che promosse un nuovo esecutivo, sempre un monocolore democristiano ma sostenuto dal voto favorevole di tutti i partiti compreso il PCI (votarono contro solo MSI, PLI e SVP). Il nuovo governo fu nuovamente affidato ad Andreotti e ottenne la fiducia in Parlamento, il 16 marzo, lo stesso giorno del sequestro di Moro. La drammatica situazione fece nascere la cosiddetta solidarietà nazionale, in nome della quale il PCI accettò di votare comunque la fiducia malgrado Andreotti avesse rifiutato tutte le richieste della sinistra (riduzione del numero dei Ministri, inclusione di alcuni indipendenti, esclusione di ministri quali Antonio Bisaglia e Carlo Donat Cattin, apertamente contrari alla politica di solidarietà nazionale). In qualità di Presidente del Consiglio, Andreotti decise di portare avanti la linea della fermezza, rifiutando ogni trattativa che avrebbe significato il riconoscimento delle BR da parte dello Stato (come sua controparte) dopo l'uccisione della scorta del presidente democristiano. A sostegno della linea dura del Governo si schierarono Enrico Berlinguer e Ugo La Malfa, ossia i due uomini che avrebbero avuto il maggiore interesse alla sopravvivenza di Moro, in quanto interprete e garante della politica di solidarietà nazionale, mentre fu criticata dalla famiglia dell'ostaggio. Nel suo memoriale, scritto mentre era prigioniero, Moro riserva giudizi durissimi su Andreotti. Dopo l'omicidio di Moro, nel maggio del 1978, l'esperienza della solidarietà nazionale proseguì, portando all'approvazione di importanti leggi come il piano decennale per l'edilizia residenziale (legge n. 457 del 5 agosto 1978), la legge Basaglia riguardante i manicomi e la riforma sanitaria che istituiva il servizio sanitario nazionale (legge n. 833 del 23 dicembre 1978). A livello europeo Andreotti stimolò la nascita del Fondo europeo di sviluppo regionale. La richiesta dei comunisti, per una partecipazione più diretta alle attività di governo, fu respinta dalla DC: di conseguenza Andreotti si dimise nel giugno del 1979. In quel periodo teorizzò la «strategia dei due forni», secondo cui il partito di maggioranza relativa avrebbe dovuto rivolgersi alternativamente a PCI e PSI, a seconda di chi dei due «facesse il prezzo del pane più basso». Sta di fatto che ciò produsse per lungo tempo un pessimo rapporto con Bettino Craxi: esso s'era degradato quando Andreotti aveva fissato le elezioni anticipate del 1979 ad una settimana dalle europee di quell'anno (disattendendo la richiesta del PSI, che riteneva di avere maggiori chance di trascinamento con la coincidenza tra le due date), ed era crollato definitivamente quando la vicenda di finanziamento illecito di correnti anticraxiane del PSI – che era dietro lo scandalo ENI-Petromin – fu (a torto o a ragione) ricondotta da Craxi ad ambienti andreottiani.[senza fonte] Ne scaturì il veto a incarichi di Governo per tutta la successiva legislatura (quando Craxi disse che «la vecchia volpe è finita in pellicceria»): si trattò dell'unico quadriennio della Prima Repubblica (oltre al periodo 1968-1971) in cui Andreotti non rivestì alcun incarico di Governo.
Anni ottanta e novanta. Ministro degli affari esteri. Nel 1983 Andreotti assume la carica di Ministro degli affari esteri nel primo governo Craxi, incarico che mantiene nei successivi governi fino al 1989. Forte della sua pluridecennale esperienza di uomo politico, Andreotti favorì il dialogo fra USA e URSS, che in quegli anni si stava aprendo. All'interno del governo, si rese protagonista di diversi scontri con Craxi - prevalentemente surrettizi, come quando sussurrò ad un giornalista di essere stato «... in Cina con Craxi e i suoi cari...»; l'antagonismo fu anche oggetto di satira e di moti di spirito della più variegata origine. Ma nella gestione filoaraba della politica estera fu oggettivamente in consonanza con Craxi, schierandosi con lui - durante la crisi di Sigonella - nella decisione di sottrarre alla giustizia americana i terroristi che avevano dirottato la nave Achille Lauro, assassinando un passeggero paralitico.
Gli ultimi governi Andreotti. Anche grazie a questi sviluppi, svolse successivamente un ruolo di tramite fra Craxi e la Democrazia Cristiana, i cui rapporti erano tutt'altro che idilliaci. Gli scontri fra il carismatico leader socialista e il segretario democristiano Ciriaco De Mita erano all'ordine del giorno, tanto che i giornali parlarono dell'esistenza del triangolo CAF (Craxi-Andreotti-Forlani): quando tale intesa sottrasse a De Mita la guida del governo, nel 1989, fu chiamato nuovamente alla presidenza del Consiglio, incarico che resse fino al 1992. Si trattò di un governo dal decorso turbolento: la scelta di restare alla guida del governo, nonostante l'abbandono dei ministri della sinistra democristiana - dopo l'approvazione della norma sugli spot televisivi (favorevole alle emittenze private di Silvio Berlusconi, reso "oligopolista" dalla legge Mammì) - non impedì il riemergere di antichi sospetti e rancori con Craxi (che alluse ad Andreotti quando disse che dietro il ritrovamento delle lettere di Moro in via Montenevoso vedeva una "manina", guadagnandosi la sua piccata replica che forse c'era stata una "manona"); la scoperta di Gladio e le "picconate" del presidente Francesco Cossiga lo videro destinatario di pressioni istituzionali fortissime, cui replicò con la consueta levità di spirito dichiarando che era «... meglio tirare a campare che tirare le cuoia». Nel 1992, finita la legislatura, Andreotti rassegnò le sue dimissioni, non mancando di chiosare che facendo le valigie aveva trovato nei suoi cassetti alcune lettere del Presidente della repubblica ancora chiuse. Eppure a quel Presidente dovette la sua sopravvivenza politica nella sua quarta età: l'anno prima era stato nominato senatore a vita proprio da Cossiga. Priva di radicamento territoriale al di fuori del Lazio (dove si valeva di proconsoli territoriali come Franco Evangelisti prima e Vittorio Sbardella poi, oltre che di "specialisti" nelle varie istituzioni come il magistrato di Cassazione Claudio Vitalone e il vescovo di Curia monsignor Angelini), la corrente andreottiana si alleava periodicamente con correnti espresse da altre realtà territoriali: da ultimo, negli anni ottanta, furono organici all'andreottismo, tra le tante, le correnti napoletane di Enzo Scotti e Paolo Cirino Pomicino, quella bresciana di Giovanni Prandini, quella milanese di Luigi Baruffi, quella emiliano-romagnola di Nino Cristofori, quella Toscana di Tommaso Bisagno, quella piemontese di Silvio Lega, quella calabrese di Camelo Puija, quella palermitana di Salvo Lima e quella catanese di Nino Drago; al di là delle espressioni geografiche, un lungo tratto di cammino insieme compirono anche le frange politiche di Comunione e Liberazione, pur mantenendo un ampio margine di autonomia. Dopo la nomina a Senatore a vita, nel Lazio la corrente fu sottoposta a forti tensioni per capire su chi dovessero convergere le forze. Lo scontro fu particolarmente aspro e portò Vittorio Sbardella ad uscire dal Gruppo. Alle prime elezioni politiche successive alla nomina come senatore a vita, quelle del 1992, lo stesso Sbardella otterrà un lusinghiero risultato, arrivando secondo ad un'incollatura da Franco Marini. In Regione sedeva dal 1990 il nipote di Andreotti (per parte di moglie) Luca Danese.
Senatore a vita. In quello stesso anno, il 1992, Andreotti era considerato uno dei candidati più papabili per la carica di presidente della repubblica, ma la sua corrente non si espose mai con una candidatura esplicita che portasse alla conta dei voti, preferendo l'esercizio di un'estenuante interdizione che tenne sulla corda gli altri candidati del CAF (fino a "bruciare", in due memorabili scrutini di metà maggio, la candidatura di Arnaldo Forlani, che non riuscì a raggiungere il quorum per meno di trenta voti). Quella di Andreotti, che era studiata come una candidatura da far emergere dopo l'affossamento delle altre, divenne però a sua volta del tutto impraticabile dopo l'assassinio del giudice Giovanni Falcone a Palermo: il fatto che due mesi prima fosse stato assassinato a Palermo Salvo Lima, della medesima corrente di Andreotti, fu giudicato in Parlamento un evento di scarsa presentabilità pubblica in una situazione di emergenza nazionale nella lotta alla mafia. Così si passò a considerare altri nomi più "istituzionali": prima il presidente del Senato Giovanni Spadolini e poi, con successo, quello della Camera Scalfaro, sostenuto anche dalla sinistra. Il 27 marzo 1993 ricevette un avviso di garanzia dalla Procuradi Palermo con l'accusa di aver favorito la mafia, tramite la mediazione del suo rappresentante in Sicilia, Salvo Lima. Il Senato, dietro sua sollecitazione, concesse l'autorizzazione a procedere e il processo accertò la collaborazione di Andreotti con la criminalità organizzata fino al 1980, facendo così scattare la prescrizione. Lo stesso anno dopo le rivelazioni di alcuni pentiti, viene indagato come mandante dell'omicidio Pecorelli dalla Procura di Perugia. Sarà assolto definitivamente dalla Corte di cassazione dieci anni dopo. Dall'ottobre del 1993, Giulio Andreotti diviene direttore del mensile internazionale 30 giorni nella Chiesa e nel Mondo, in vendita solo nelle edicole intorno al Vaticano e nelle librerie Paoline, ma a cui è possibile abbonarsi. Allo scioglimento della Democrazia Cristiana, nel 1994, aderì al Partito Popolare Italiano di Mino Martinazzoli, partito che lascerà nel 2001, in seguito alla nascita della Margherita.
Anni 2000 e 2010. Nel febbraio del 2001 diede vita, insieme a Ortensio Zecchino e Sergio D'Antoni, al partito d'ispirazione cristiana denominato Democrazia Europea, che ottenne un risultato modesto alle elezioni e confluì nell'UDC nel 2002.
Candidato Presidente del Senato. Le elezioni politiche del 2006, che videro una vittoria di misura dell'Unione di Romano Prodi, con al Senato un leggero vantaggio di seggi tra lo schieramento vincente e la Casa delle Libertà, fecero discutere sui futuri assetti istituzionali e sulla necessità di ricompattare un'Italia sostanzialmente divisa in due. Perciò, da alcuni settori del centro-destra era giunta la proposta di assegnare la Presidenza del Senato al senatore a vita Andreotti, ritenuto capace di mediare tra i due schieramenti e tra le due anime del Paese; il tentativo fallì nelle votazioni del 28-29 aprile 2006. Il senatore a vita, sulla proposta del centro-destra di candidarsi alla guida di palazzo Madama, aveva dichiarato: «Deciderò sul momento» se accordare o meno la fiducia all'eventuale governo Prodi II. Sull'ipotesi di una sua elezione alla Presidenza del Senato, in un'intervista al quotidiano La Stampa del 22 aprile 2006, si rese disponibile purché «... in un'ottica di conciliazione». L'elezione di Andreotti, secondo alcune fonti, avrebbe dovuto ottenere i consensi di un'ampia fetta dei moderati del centrosinistra, fra La Margherita e l'Udeur di Mastella, mettendo in crisi la scelta, data ormai per certa, del diellino Franco Marini. L'elezione nei primi scrutinii non diede luogo ad una proclamazione del vincitore Marini, per alcuni voti annullati dalla Presidenza in quanto riconoscibili. Ma l'elezione, tenutasi il 29 aprile, al terzo scrutinio, portò al ruolo di presidenza del Senato Franco Marini, con 165 voti (quelli della maggioranza più quelli di alcuni senatori a vita e, verosimilmente, alcuni provenienti dai gruppi di minoranza della CdL), contro le 156 preferenze raccolte dall'ex-presidente del consiglio tra le file del centro-destra e dal senatore a vita Francesco Cossiga. Andreotti - che aveva commentato con la consueta arguzia la vicenda dei voti annullati - fu il primo a riconoscere che la coalizione di centrosinistra - proprio con il voto sul Presidente del Senato - aveva dimostrato di essere in grado di avere una maggioranza dei voti per esprimere un governo. Il 19 maggio 2006, Andreotti accordò la fiducia al governo Prodi II, assieme agli altri sei senatori a vita, suscitando vive polemiche nella Casa delle Libertà, che aveva sostenuto la sua candidatura alla Presidenza del Senato. Successivamente, si consultò spesso con il nuovo Presidente del Consiglio riguardo alla politica estera, che continuava a seguire in qualità di membro della Commissione Affari esteri del Senato.
Gli ultimi anni. Il 21 febbraio 2007 suscitò scalpore la sua astensione in Senato alla risoluzione della maggioranza di centrosinistra, relativa alle linee guida di politica estera illustrate dal Ministro degli esteri Massimo D'Alema al Senato della Repubblica, che non ottenne il quorum di maggioranza, iniziando così la crisi di Governo che portò il presidente del Consiglio Romano Prodi a rassegnare, in serata, le dimissioni dal suo incarico (poi respinte) al presidente della repubblica Giorgio Napolitano. Il senatore a vita aveva annunciato il giorno prima il suo voto favorevole. L'indomani dichiarò ai mass media che il suo cambio di scelta fu dovuto al discorso di D'Alema, teso a marcare fortemente la discontinuità della politica estera del centrosinistra rispetto all'esecutivo dell'ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi; dichiarò inoltre il suo totale disaccordo su di una politica tesa da un lato ad osannare il leader di Forza Italia e dall'altro a demonizzarlo. Alcuni tra commentatori e giornalisti insinuarono che l'astensione di Andreotti fosse dovuta alla tensione politica tra il Vaticano e il Governo Prodi, sorta circa il disegno di legge sui DICO. Andreotti partecipò in seguito, nel maggio 2007, ad una manifestazione "in difesa della famiglia" (Family Day). Il 29 aprile 2008, a seguito della rinuncia dei senatori Rita Levi-Montalcini e Oscar Luigi Scalfaro, Andreotti ha svolto le funzioni di presidente provvisorio del Senato della Repubblica in quanto senatore più anziano. Ha quindi diretto le votazioni che hanno portato all'elezione del senatore Renato Schifani alla seconda carica dello Stato. Il suo notevole archivio cartaceo (3.500 faldoni, dal 1944 in poi) che, negli ultimi anni della sua carriera parlamentare, aveva sede nel suo ufficio di piazza in Lucina, è stato acquisito dalla Fondazione Sturzo ed è stato utilizzato da Andreotti anche successivamente. Dopo il 30 dicembre 2012, giorno della scomparsa di Rita Levi-Montalcini, è stato il più anziano senatore in carica. Muore il 6 maggio 2013 nella sua casa di Roma; per volontà della famiglia le esequie si sono svolte in forma privata. È sepolto presso il cimitero monumentale del Verano di Roma.
Controversie. Vicende giudiziarie. Rapporti con Cosa nostra. Andreotti è stato sottoposto a giudizio a Palermo per associazione a delinquere di stampo mafioso (fino al 28 settembre 1982) e associazione mafiosa (dal 29 settembre 1982 in avanti). Mentre la sentenza di primo grado, emessa il 23 ottobre 1999, lo aveva assolto perché il fatto non sussiste (in base all'articolo 530 comma 2 c.p.p.), la sentenza d'appello, emessa il 2 maggio 2003, distinguendo il giudizio tra i fatti fino al 1980 e quelli successivi, stabilì che Andreotti aveva «commesso» il «reato di partecipazione all'associazione per delinquere» (Cosa nostra), «concretamente ravvisabile fino alla primavera 1980», reato però «estinto per prescrizione». Per i fatti successivi alla primavera del 1980 Andreotti è stato invece assolto. La sentenza della Corte d'appello di Palermo del 2 maggio 2003, in estrema sintesi, parla di una «autentica, stabile ed amichevole disponibilità dell'imputato verso i mafiosi fino alla primavera del 1980». Interrogato dalla procura di Palermo il 19 maggio 1993, il sovraintendente capo della polizia Francesco Stramandino, dichiarò di aver assistito il 19 agosto 1985, in qualità di responsabile della sicurezza dell'allora Ministro degli Esteri Andreotti, ad un incontro tra lo stesso politico e quello che solo successivamente sarà identificato come boss Andrea Manciaracina, all'epoca sorvegliato speciale e uomo di fiducia di Salvatore Riina. Lo stesso Andreotti ammise in aula l'incontro con Manciaracina, spiegando che il colloquio ebbe a che fare con problemi relativi alla legislazione sulla pesca. La sentenza di appello definì «inverosimile» la «ricostruzione dell'episodio offerta dall'imputato». Pur confermando che Andreotti incontrò uomini appartenenti a Cosa nostra anche dopo la primavera del 1980, il tribunale stabilì che mancava «qualsiasi elemento che consentisse di ricostruire il contenuto del colloquio». La versione fornita da Giulio Andreotti, secondo il tribunale, potrebbe essere dovuta «al suo intento di non offuscare la propria immagine pubblica ammettendo di avere incontrato un soggetto strettamente collegato alla criminalità organizzata e di avere conferito con lui in modo assolutamente riservato». Sia l'accusa sia la difesa presentarono ricorso in Cassazione, l'una contro la parte assolutiva, e l'altra per cercare di ottenere l'assoluzione anche sui fatti fino al 1980, anziché il proscioglimento per prescrizione. Tuttavia la Corte di cassazione il 15 ottobre 2004 rigettò entrambe le richieste confermando la prescrizione per qualsiasi ipotesi di reato fino alla primavera del 1980 e l'assoluzione per il resto. Nella motivazione della sentenza di appello si legge (a pagina 211): «Quindi la sentenza impugnata, al di là delle sue affermazioni teoriche, ha ravvisato la partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi di una mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una concreta collaborazione.» Se la sentenza definitiva fosse arrivata entro il 20 dicembre 2002 (termine per la prescrizione), avrebbe potuto dare luogo ad uno dei seguenti due esiti alternativi:
- Andreotti avrebbe potuto essere condannato in base all'articolo 416 c.p., cioè all'associazione "semplice", poiché quella aggravata di tipo mafioso (416-bis c.p.) fu introdotta nel codice penale soltanto nel 1982, grazie ai relatori Virginio Rognoni (DC) e Pio La Torre (PCI), oppure
- l'imputato avrebbe potuto essere assolto con formula piena con la conferma della sentenza di primo grado.
Nel dettaglio, il giudice di legittimità scrive:
«Pertanto la Corte palermitana non si è limitata ad affermare la generica e astratta disponibilità di Andreotti nei confronti di Cosa Nostra e di alcuni dei suoi vertici, ma ne ha sottolineato i rapporti con i suoi referenti siciliani (del resto in armonia con quanto ritenuto dal Tribunale), individuati in Salvo Lima, nei cugini Salvo e, sia pure con maggiori limitazioni temporali, in Vito Ciancimino, per poi ritenere (in ciò distaccandosi dal primo giudice) l'imputato compartecipe dei rapporti da costoro sicuramente intrattenuti con Cosa Nostra, rapporti che, nel convincimento della Corte territoriale, sarebbero stati dall'imputato coltivati anche personalmente (con Badalamenti e, soprattutto, con Bontate) e che sarebbero stati per lui forieri di qualche vantaggio elettorale (certamente sperato, solo parzialmente conseguito) e di interventi extra ordinem, sinallagmaticamente collegati alla sua disponibilità ad incontri e ad interazioni (il riferimento della Corte territoriale è alla questione Mattarella), oltre che alla rinunzia a denunciare i fatti gravi di cui era venuto a conoscenza.»
La stessa sentenza della Corte di Cassazione ha affermato che Andreotti ha incontrato almeno due volte l'allora capo dei capi di Cosa Nostra Stefano Bontade.
Le rivelazioni dei pentiti. Leonardo Messina ha affermato di aver sentito dire che Andreotti era «punciutu», ossia un uomo d'onore con giuramento rituale. Baldassare Di Maggio raccontò di un bacio tra Andreotti e Totò Riina. Successivamente questo non venne provato e si ritiene che abbia attirato tutta l'attenzione del processo su questo ipotetico fatto suggestivo, allontanandola dalle testimonianze di circa 40 pentiti. Giovanni Brusca ha affermato: «Per quel che riguarda gli omicidi Dalla Chiesa e Chinnici, io credo che non sarebbe stato possibile eseguirli senza scatenare una reazione dello Stato se non ci fosse stato il benestare di Andreotti. Durante la guerra di mafia c'erano morti tutti i giorni. Nino Salvo mi incaricò di dire a Totò Riina che Andreotti ci invitava a stare calmi, a non fare troppi morti, altrimenti sarebbe stato costretto ad intervenire con leggi speciali» e «Chiarisco che in Cosa Nostra c'era la consapevolezza di poter contare su un personaggio come Andreotti».
Omicidio Piersanti Mattarella. Nel 2004 la Cassazione conferma le accuse nei confronti di Andreotti. La sentenza, pur assolvendolo per alcuni reati e prescrivendolo per altri, afferma che Andreotti era a conoscenza delle intenzioni della mafia di uccidere il Presidente della Regione Piersanti Mattarella, tanto che aveva incontrato il capo di Cosa Nostra Stefano Bontade prima che l'omicidio avvenisse, per esprimere la sua contrarietà. Quando Piersanti Mattarella venne assassinato, Andreotti si recò nuovamente in Sicilia e incontrò ancora Stefano Bontade per chiarire la vicenda. La Cassazione ha affermato: «Andreotti non si è limitato a prendere atto, sgomento, che le sue autorevoli indicazioni erano state inaspettatamente disattese dai mafiosi ed a allontanarsi senz’altro dagli stessi, ma è sceso in Sicilia per chiedere conto al Bontade della scelta di sopprimere il presidente della Regione.» Dopo l'omicidio, Andreotti non riferì agli inquirenti le informazioni su Stefano Bontade, responsabile dell'omicidio.
Omicidio Pecorelli. Andreotti è stato anche processato per il coinvolgimento nell'omicidio di Mino Pecorelli, avvenuto il 20 marzo 1979. Secondo i magistrati investigatori, Andreotti commissionò l'uccisione del giornalista, direttore della testata Osservatore Politico (OP). Pecorelli – che aveva già pubblicato notizie ostili ad Andreotti, come quella sul mancato incenerimento dei fascicoli SIFAR sotto la sua gestione alla Difesa – aveva predisposto una campagna di stampa su finanziamenti illegali della Democrazia Cristiana e su presunti segreti riguardo il rapimento e l'uccisione dell'ex Presidente del Consiglio Aldo Moro avvenuto nel 1978 ad opera delle Brigate Rosse.
In particolare, il giornalista aveva denunciato connessioni politiche dello scandalo petroli, con una copertina intitolata Gli assegni del Presidente con l'immagine di Andreotti, ma accettò di fermare la pubblicazione del giornale già nella rotativa. Il pentito Tommaso Buscetta testimoniò che Gaetano Badalamenti gli raccontò che «l'omicidio fu commissionato dai cugini Salvo per conto di Giulio Andreotti», il quale avrebbe avuto paura che Pecorelli pubblicasse informazioni che avrebbero potuto distruggere la sua carriera politica. In primo grado nel 1999 la Corte d'assise di Perugia prosciolse Andreotti, il suo braccio destro Claudio Vitalone (ex Ministro del Commercio con l'estero), Gaetano Badalamenti, Giuseppe Calò, il presunto killer Massimo Carminati (uno dei fondatori dei Nuclei Armati Rivoluzionari) e Michelangelo La Barbera per non aver commesso il fatto (in base all'articolo 530 c.p.p.). Successivamente, il 17 novembre 2002 la Corte d'assise d'appello ribaltò la sentenza di primo grado per Badalamenti e Andreotti, condannandoli a 24 anni di carcere come mandanti dell'omicidio Pecorelli. Il 30 ottobre 2003 la sentenza d'appello fu annullata senza rinvio dalla Cassazione, annullamento che rese definitiva la sentenza di assoluzione di primo grado. Per la Cassazione la sentenza d'appello si basava su «un proprio teorema accusatorio formulato in via autonoma e alternativa in violazione sia delle corrette regole di valutazione della prova che del basilare principio di terzietà della giurisdizione», sostenendo che il processo di secondo grado avrebbe dovuto confermare il giudizio di assoluzione, basato su una «corretta applicazione della garanzia»[60]. I supremi giudici aggiunsero che le rivelazioni di Buscetta non si basavano su elementi concreti «circa l'identificazione dei tempi, delle forme, delle modalità e dei soggetti passivi (intermediari, submandanti o esecutori materiali) del conferimento da parte di Andreotti del mandato di uccidere», oltre al fatto che mancava il movente e che la sentenza di condanna non aveva spiegato né come né perché l'imputato avrebbe ordinato l'omicidio del giornalista.
Caso Almerighi. È stato condannato in via definitiva il 4 maggio 2010 per aver diffamato il giudice Mario Almerighi definendolo «falso testimone, autore di infamie e pazzo».
Coinvolgimenti in altre vicende. La figura di Andreotti è oggetto di interpretazioni e polemiche di varia natura. Le numerose contestazioni che gli sono state volte hanno riguardato praticamente tutti i campi della sua attività e sono venute anche da politici e giornalisti illustri (come Indro Montanelli). In parte ciò è ascrivibile all'assolutamente inedito curriculum ministeriale accumulato, che fece sì che anche senza più rivestire cariche formali egli fosse referente di alti funzionari e burocrati ministeriali e dei servizi di sicurezza, con un coinvolgimento personale in vicende che non lo riguardavano più sotto il profilo istituzionale. Accuse e sospetti gli sono stati rivolti a proposito delle sue relazioni con la loggia P2, Cosa Nostra, la Chiesa cattolica e con alcuni individui legati ai più oscuri misteri della storia repubblicana. Tali voci - e specialmente il reato relativo al rapporto con Cosa Nostra - hanno certamente danneggiato la sua immagine pubblica: come s'è visto nel 1992, scaduto il mandato del dimissionario Francesco Cossiga come Presidente della repubblica, la candidatura di Andreotti sembrava destinata ad avere la meglio finché, durante i giorni delle votazioni di maggio, la strage di Capaci orientò la scelta dei parlamentari verso Oscar Luigi Scalfaro.
Andreotti e Dalla Chiesa. Nel 1978, dopo il rapimento e l'uccisione di Aldo Moro, in seguito al ritrovamento di un borsello sopra un pullman, i carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa riuscirono ad individuare un covo delle Brigate Rosse appartenente alla colonna Walter Alasia, situato a Milano in Via Monte Nevoso. Ne scaturirono 9 arresti e una serie di perquisizioni, nella quale furono rinvenuti alcuni documenti riguardanti il rapimento di Moro e parte di un memoriale dello stesso. Il Memoriale Moro sarebbe stato consegnato da Dalla Chiesa ad Andreotti a causa delle informazioni contenute al suo interno. Inoltre nel 1979, pochi giorni prima di essere ucciso, Mino Pecorelli incontrò Dalla Chiesa per ricevere informazioni sul Memoriale, consegnandogli documenti riguardanti Andreotti. Nel 1982 Andreotti spinse molto sulla disponibilità di Dalla Chiesa ad accettare l'incarico propostogli di Prefetto di Palermo. In un diario, un appunto del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa datato 2 aprile 1982 al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini scriveva che la corrente democristiana siciliana facente capo ad Andreotti sarebbe stata la "famiglia politica" più inquinata da contaminazioni mafiose. Sempre Dalla Chiesa, nel suo taccuino personale scrive: «Ieri anche l'on. Andreotti mi ha chiesto di andare [da lui, ndr] e, naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia, si è manifestato per via indiretta interessato al problema; sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardi per quella parte di elettorato alla quale attingono i suoi grandi elettori.[...] Sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno [...] lo ha condotto e lo conduce a errori di valutazione e circostanze.»
Rapporti con Michele Sindona e Licio Gelli. Secondo la Corte di Perugia e il Tribunale di Palermo «Andreotti aveva rapporti di antica data con molte delle persone che a vario titolo si erano interessate della vicenda del banchiere della Banca Privata Italiana ed esponente della loggia massonica P2 Michele Sindona, oltre che con lo stesso Sindona.» Tali rapporti si intensificarono nel 1976, al momento del crac finanziario delle banche di Sindona: Licio Gelli, capo della loggia P2, propose un piano per salvare la Banca Privata Italiana all'allora Ministro della difesa Andreotti. Quest'ultimo incaricò informalmente il senatore Gaetano Stammati (affiliato alla loggia P2) e Franco Evangelisti di studiare il progetto di salvataggio della Banca Privata Italiana, il quale venne però rifiutato da Mario Sarcinelli, vice direttore generale della Banca d'Italia. In seguito, Andreotti si giustificò sostenendo che il suo interessamento per il salvataggio della Banca Privata Italiana era solo di natura istituzionale. Tuttavia, anche durante la lunga latitanza di Sindona all'hotel Pierre di New York, Andreotti continuò a mantenere contatti con l'avvocato del banchiere, Rodolfo Guzzi, mostrandosi più che disponibile a tutte le iniziative volte a favorire lo stesso Sindona, sia per il salvataggio finanziario, sia per evitargli l'estradizione. Solo dopo il falso rapimento di Sindona, la sua estradizione e il conseguente arresto per bancarotta fraudolenta e per l'omicidio del liquidatore della Banca Privata Italiana Giorgio Ambrosoli, Andreotti se ne distanziò pubblicamente. Su Ambrosoli, Andreotti ha in seguito dichiarato: «è una persona che in termini romaneschi se l'andava cercando».., per poi precisare: «... intendevo fare riferimento ai gravi rischi ai quali il dottor Ambrosoli si era consapevolmente esposto con il difficile incarico assunto». Nel 1984 la Camera e il Senato votano respingendole delle mozioni presentate dalle opposizioni che avrebbero impegnato il governo ad assumere decisioni sulle responsabilità di Andreotti relative al caso Sindona. Sindona morì avvelenato da un caffè al cianuro il 22 marzo 1986 nel carcere di Voghera, due giorni dopo essere stato condannato all'ergastolo per l'omicidio di Ambrosoli. La sua morte fu giudicata essere un suicidio, poiché le prove e le testimonianze riguardo al veleno utilizzato e al comportamento di Sindona stesso fecero supporre un tentativo di auto-avvelenamento: tale atto sarebbe stato compiuto nella speranza di una re-estradizione negli Stati Uniti, paese con il quale l'Italia aveva un accordo sulla custodia del banchiere legato alla sicurezza e incolumità di quest'ultimo. Sindona, quindi, avrebbe messo in scena un avvelenamento e sarebbe morto a causa di un errore di dosaggio. Il giornalista e docente universitario Sergio Turone ipotizza che sia stato Andreotti a far pervenire una bustina di zucchero contenente il cianuro fatale a Sindona, facendo credere a quest'ultimo che il caffè avvelenato gli avrebbe causato solo un malore. Secondo Turone, il movente del presunto omicidio sarebbe stato il timore che Sindona rivelasse durante il processo d'appello segreti riguardanti i rapporti tra politici italiani, Cosa Nostra, e la P2: «... fino alla sentenza del 18 marzo 1986Sindona [aveva] sperato che il suo potente protettore [Andreotti] trovasse la via per salvarlo dall'ergastolo. Nel processo d'appello, non avendo più nulla da perdere, avrebbe detto cose che fin ora aveva taciuto». Va tuttavia sottolineato che tale ipotesi non è stata suffragata da alcuna prova concreta che implichi in alcun modo Andreotti nella morte di Sindona. Ancora nel 2010, Giulio Andreotti dava un giudizio positivo su Sindona: «Io cercavo di vedere con obiettività. Non sono mai stato sindoniano, non ho mai creduto che fosse il diavolo in persona». Il fatto «che si occupasse sul piano internazionale dimostrava una competenza economico finanziaria che gli dava in mano una carta che altri non avevano. Se non c'erano motivi di ostilità, non si poteva che parlarne bene». Inoltre nel 1988 Clara Canetti, la vedova del banchiere Roberto Calvi (trovato impiccato sotto il Blackfriars Bridge di Londra nel 1982), affermò che il marito le avrebbe confidato poco tempo prima di morire che il vero capo della loggia P2 era Andreotti, da cui Licio Gelli prendeva ordini: di tale affermazione però non sono mai stati raccolti riscontri attendibili ed Andreotti negò le accuse della vedova, rispondendo ironicamente: «Se fossi un massone non mi accontenterei di essere a capo di una loggia soltanto». A questo proposito, in un'intervista concessa il 15 febbraio 2011 al settimanale Oggi, Licio Gelli dichiarò: «Giulio Andreotti sarebbe stato il vero "padrone" della Loggia P2? Per carità.. io avevo la P2, Cossiga la Gladio e Andreotti l'Anello»: l'Anello (o più propriamente chiamato «Noto servizio») sarebbe stato un servizio segreto parallelo e clandestino usato come anello di congiunzione tra i servizi segreti (usati in funzione anticomunista) e la società civile. Il settimanale Oggichiese subito un commento ad Andreotti, il quale fece sapere di non volere rispondere alle dichiarazioni di Gelli».
Andreotti e il Golpe Borghese. A seguito delle rivelazioni sull'indagine legata al tentativo di Golpe da parte di Junio Valerio Borghese, il 15 settembre 1974Giulio Andreotti, all'epoca Ministro della Difesa, consegnò alla magistratura romana un dossier del SID diviso in tre parti che descriveva il piano e gli obiettivi del golpe, portando alla luce nuove informazioni. Il dossier fu redatto dal numero due del SID, il generale Gianadelio Maletti, che avviò un'inchiesta sulle cospirazioni mantenendolo nascosto anche a Vito Miceli, direttore del servizio. Scoperto il progetto, Maletti fu costretto a scavalcare Miceli e a parlare direttamente con Andreotti. Andreotti per questo destituì Miceli e altri 20 generali e ammiragli. Ma nel 1991 si scoprì che le registrazioni consegnate nel 1974 da Andreotti alla magistratura non erano in versione integrale. Vi erano infatti i nomi di numerosi personaggi di spicco in ambito politico e militare, per cui Andreotti stesso ha recentemente dichiarato che ritenne di dover tagliare quelle parti per non renderle pubbliche, in quanto tali informazioni erano "inessenziali" per il processo in corso e, anzi, avrebbero potuto risultare "inutilmente nocive" per i personaggi ivi citati. Nelle parti cancellate vi era il nome di Giovanni Torrisi, successivamente Capo di Stato Maggiore della Difesa tra il 1980 e il 1981; ma anche riferimenti a Licio Gelli e alla loggia massonica P2, che si doveva occupare del rapimento del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat; infine si facevano rivelazioni circa un "patto" stretto da Borghese con alcuni esponenti della mafia siciliana, secondo cui alcuni sicari della mafia avrebbero ucciso il capo della polizia, Angelo Vicari. L'esistenza di tale patto sarebbe poi stata confermata da vari pentiti di mafia, tra cui Tommaso Buscetta. Grazie al Freedom of Information Act nel 2004 si è inoltre scoperto che il piano di Borghese era noto al governo degli Stati Uniti e che esso aveva l'"avallo" a condizione che fosse assicurato il coinvolgimento di un personaggio politico italiano "di garanzia". Il nome indicato sarebbe stato quello di Andreotti, che sarebbe dovuto diventare una sorta di presidente in pectore del governo post-golpe. Tuttavia non è accertato che Andreotti fosse al corrente dell'indicazione statunitense. Il dottor Adriano Monti, complice di Junio Valerio Borghese nel tentato golpe, afferma che il suo nome, come "garante politico" del colpo di Stato, sarebbe stato fatto da Otto Skorzeny, promotore dell' "organizzazione Geleme", una branca dei servizi segreti tedeschi durante la guerra, poi inserita tra le organizzazioni di intelligence fiancheggiatrici della CIA.
Incarichi parlamentari. Camera dei deputati:
Membro 3ª Commissione permanente: affari esteri, emigrazione;
Commissione speciale per l'esame di disegni di legge di conversione di decreti-legge;
Commissione parlamentare d'inchiesta concernente il "dossier Mitrokhin" e l'attività d'intelligence italiana;
Commissione speciale per la tutela e la promozione dei diritti umani;
Delegazione italiana all'Assemblea parlamentare della organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE).
Senato della Repubblica:
Membro 1ª Commissione (Affari Interni);
Commissione speciale per l'esame della proposta di legge De Francesco N.1459: "Norme generali sull'azione amministrativa";
Commissione speciale per l'esame del disegno di legge N.1264: "Norme in materia di locazioni e sublocazioni di immobili urbani" e delle proposte di legge in materia di locazioni e sfratti;
Membro 5ª Commissione (Bilancio e Partecipazioni Statali);
Membro 7ª Commissione (Difesa);
Componente della Giunta per il Regolamento;
Componente della 3ª Commissione (Esteri);
Presidente della 3ª Commissione (Esteri);
Componente della Rappresentanza italiana al Parlamento Europeo.
Sinossi degli incarichi di Governo.
La figura di Andreotti. Immagine privata. Enzo Biagi ha scritto di lui: «Non credo che nessuno lo abbia mai sentito gridare, né visto in preda all'agitazione. «Una cara zia» confida «mi ha insegnato a guardare alle vicende con un po' di distacco.» [...] Legge romanzi gialli, è tifoso della Roma, e si compera l'abbonamento, frequenta le corse dei cavalli, è capace di passare un pomeriggio giocando a carte, e l'attrice che preferiva, in gioventù, era la bionda Carole Lombard, colleziona campanelli e francobolli del 1870 [...] Padre di quattro figli, ha la fortuna che la sua prole tende a non farsi notare. E neppure la signora Livia, la moglie, di cui non si celebrano né gli abiti né le iniziative. Non c'è aneddotica sulla signora Andreotti.» Intervistato da Enzo Biagi, Andreotti ha detto della propria consorte: «ha un lieve brontolio ma, insomma, adesso ci siamo abituati, da una parte e dall'altra. [...] a mia moglie sono debitore dell'educazione dei figli che per il novantanove per cento è merito suo». È diventato nonno di diversi nipoti, tra cui un "Giulio" e una "Giulia". Sempre Biagi ha scritto di lui: «cattolico praticante, quasi ogni giorno, essendo assai mattiniero, va ad ascoltare la prima Messa». Indro Montanelli ha commentato che «in chiesa, De Gasperi parlava con Dio; Andreotti col prete» (Montanelli riferisce anche che, lette queste parole, Andreotti ribatté: «sì, ma a me il prete rispondeva»). Affermò di sentirsi in chiesa «molto vicino al pubblicano della parabola», convinto che nell'aldilà non sarebbe stato chiamato «a rispondere né di Pecorelli, né della mafia. Di altre cose sì». In proposito divenne celebre la sua battuta: «A parte le guerre puniche, mi viene attribuito veramente tutto». Ebbe come confessore, per circa vent'anni, mons. Mario Canciani, suo parroco presso la basilica di San Giovanni Battista dei Fiorentini. Sul proprio carattere, Andreotti ha rivelato: «Non ho un temperamento avventuroso e giudico pericolose le improvvisazioni emotive. [...] Lavorare molto m'è sempre piaciuto. È una... utile deformazione». Montanelli ha inoltre detto di lui: «Mi faccio una colpa di provare simpatia per Andreotti. È il più spiritoso di tutti. Mi diverte il suo cinismo, che è un cinismo vero, una particolare filosofia con la quale è nato»; «è distaccato, freddo, guardingo, ha sangue di ghiaccio. [...] È autenticamente colto, cioè di quelli che non credono che la cultura sia cominciata con la sociologia e finisca lì». Roberto Gervaso lo ha definito «più realista di Bismarck, più tempista di Talleyrand [...] La sua smagliante conversazione sarebbe piaciuta a Voltaire, i suoi libri non sarebbero dispiaciuti a Sainte-Beuve».
Soprannomi. Ad Andreotti è stata attribuita una nutrita gamma di soprannomi: Per via della personalità carismatica e pragmatica, è stato soprannominato "Divo Giulio" dal giornalista Mino Pecorelli, prendendo spunto da Giulio Cesare, evidenziandone la "sacralità" nella politica italiana. È stato chiamato anche "Zio Giulio", sia per l'epiteto con il quale sarebbe stato conosciuto dai clan mafiosi secondo l'accusa rivoltagli al processo palermitano (Zù Giulio, secondo i pentiti), sia per il tono paterno con cui tante volte - durante la Seconda Repubblica - si è espresso nei suoi discorsi, atteggiandoli ad uno stile "super partes" proprio di uno degli ultimi Costituenti ancora in vita. È stato soprannominato Belzebù da Bettino Craxi quando, su un articolo di fondo uscito sull'Avanti! il 31 maggio 1981, lo volle distinguere da Belfagor, soprannome dato a Licio Gelli. Da ricordare anche altri soprannomi citati nel film Il divo: "Molok", "la Sfinge", "il Gobbo" e "il Papa Nero". "La Volpe" o talvolta "vecchia volpe" è un altro soprannome con cui ci si è riferiti ad Andreotti. Un ultimo appellativo usato più di frequente è anche "Indecifrabile".
Satira. Bersaglio molto frequente di strali satirici e di prese in giro sul suo difetto fisico (aveva una pronunciata quanto manifesta cifosi), ha sempre risposto con una proverbiale ironia di scuola epigrammatica romana che nel tempo lo ha reso fonte di una nutrita schiera di commenti e battute ancora oggi di uso comune (tra le più famose "Il potere logora chi non ce l'ha", citando Talleyrand). Fra i suoi imitatori più celebri vi erano Alighiero Noschese, Ugo Tognazzi, Enrico Montesano, Pino Caruso e Oreste Lionello.
Andreotti nel cinema, canzone e cultura di massa. Secondo quanto affermato dalla figlia di Totò, Liliana De Curtis, la celebre scena del vagone letto nel film del 1952 Totò a colori, in cui l'attore napoletano duetta con l'onorevole Trombetta, interpretato da Mario Castellani, sarebbe stata ispirata da un incontro tra Totò e Giulio Andreotti, realmente avvenuto su un treno in un vagone letto.
Totò nel film Gli onorevoli del 1963 fa dire alla moglie che voterà per "Giulio" perché "non c'è rosa senza spine, non c'è governo senza Andreotti".
A lui si ispira la figura del potente politico italiano Licio Lucchesi nel film del 1990 Il padrino - Parte III di Francis Ford Coppola, al quale, tra l'altro, viene pronunciata all'orecchio la celebre frase "Il potere logora chi non ce l'ha".
Nel 1983 è apparso nel film Il tassinaro, con Alberto Sordi, dove con la solita acida ironia, suggerisce le Università a numero chiuso, in modo da risolvere il problema dei laureati disoccupati.
Ne Il commissario Lo Gatto (1986), con Lino Banfi, alla fine del film un attore imita Andreotti (di spalle) che ringrazia il commissario per il servigio reso alla DC grazie al polverone creato dalla sua inchiesta che aveva svelato il legame di una soubrette con Bettino Craxi, allora presidente del Consiglio.
È probabilmente ispirato alla figura di Andreotti il brano L'uomo falco del 1978, nell'album Sotto il segno dei pesci di Antonello Venditti.
In una storia di Topolino del 1988, Paperino portaborse, il personaggio dell'onorevole Papeotti è la sua chiara parodia.
Nell'album del 1992 Nomi e cognomi di Francesco Baccini, gli è dedicata la canzone dal titolo Giulio Andreotti.
Sempre nel 1992, Pierangelo Bertoli include la canzone intitolata Giulio, nel suo album Italia d'oro, le cui invettive rivolte al soggetto della canzone non lasciano spazio a interpretazioni.
Nel film Giovanni Falcone del 1993 un attore lo imita (sempre di spalle) in tutte le scene in cui appare. In questa pellicola parla con la voce di Sandro Iovino.
Il senatore a vita è stato protagonista di un celebre cartone animato italiano, Giulio Andreotti (2000), firmato da Mario Verger, trasmesso più volte dalla RAI.
Nel 2000 ha prestato immagine e voce per alcuni spot della Diners, dove reinterpretava alcune sue famose frasi.
Nel film I banchieri di Dio - Il caso Calvi (2002) di Giuseppe Ferrara, nel quale vengono ricostruite le vicende del banchiere Roberto Calvi. Il film ha avuto problemi durante la lavorazione, in quanto la magistratura ha voluto accertarsi delle ricostruzioni ancora al vaglio.
Nel 2005 recita in uno spot televisivo per la compagnia telefonica 3 Italia accanto a Claudio Amendola e Valeria Marini.
Nel 2008 la figura di Andreotti appare nella miniserie televisiva Aldo Moro - Il presidente.
Alla vita di Andreotti è ispirato il film Il divo di Paolo Sorrentino, il suo ruolo è stato interpretato da Toni Servillo e presentato al Festival di Cannes del 2008 e vincitore del Premio della giuria. Il film narra gli anni dal 1991 al 1993, cioè dalla fiducia all'ultimo governo Andreotti all'inizio del processo per associazione mafiosa. Il film è basato su documenti politici reali e libri che ne fanno riferimento; Andreotti ha definito il film "una mascalzonata".
Nella trasmissione di Maurizio Costanzo, il Maurizio Costanzo Show su Canale 5 del 17 gennaio del 2009, per festeggiare i 90 anni compiuti da Andreotti il 14 gennaio, Costanzo ricorda una frase detta in confidenza da Andreotti con la sua tipica ironia "A pensar male non si andrà in paradiso ma si dice la verità".
È stato Presidente del Comitato d'Onore del "Premio Marcello Sgarlata".
Nel corso di un'intervista nella trasmissione Questa domenica del 2 novembre 2008 ad opera di Paola Perego, mentre guardava il monitor che mostrava la copertina del calendario "Grande tra i grandi - i politici per i bambini", di cui era protagonista, il senatore ha subito un lieve malore in diretta.
Nell'album L'inizio (2013) di Fabrizio Moro è presente una canzone su Andreotti intitolata Io so tutto.
Nel film La mafia uccide solo d'estate di Pif, il protagonista, da bambino, per carnevale si vorrà travestire da Giulio Andreotti.
Onorificenze. Onorificenze italiane:
Cancelliere e Tesoriere dell'Ordine militare d'Italia — Dal 15 febbraio 1959 al 23 febbraio 1966 e dal 14 marzo 1974 al 23 novembre 1974.
Gran croce al merito della Croce Rossa Italiana.
Cittadino Onorario di Cassino (FR).
Cittadino Onorario di Maddaloni (CE).
Onorificenze straniere.
Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine Equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme (Santa Sede).
Balì di Gran Croce di Grazia Magistrale con fascia del Sovrano Ordine di Malta (SMOM).
Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine del Falcone (Islanda).
Cavaliere di Gran Croce del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio (Borbone - Due Sicilie).
Gran Croce al Merito dell'Ordine al Merito della Repubblica Federale Tedesca — 1957
Gran Croce dell'Ordine di Isabella la Cattolica (Spagna) — 1985
Gran Croce dell'Ordine al Merito (Portogallo) — 31 ottobre 1987
Gran Croce dell'Ordine del Cristo (Portogallo) — 12 settembre 1990
Giulio Andreotti, a 100 anni dalla sua nascita ecco i lati più privati (e meno noti) del «Divo». A raccontarli è Massimo Franco, in libreria per Solferino con il saggio «C’era una volta Andreotti». Ne emerge il ritratto di un uomo profondamente legato alla propria famiglia, invisibile per oltre mezzo secolo, e con una serie di passioni imprevedibili, scrive Massimo Franco il 14 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera".
«Dalla culla alla tomba». A cento anni dalla nascita di Giulio Andreotti, avvenuta il 14 gennaio del 1919, ripercorrere la sua vita e la sua epoca significa fare i conti con la distanza siderale tra la sua Italia e quella di oggi. E non solo perché questo uomo-simbolo del potere è morto, il 6 maggio del 2013. Non esistono più la sua politica, il mondo della Guerra fredda diviso in blocchi, e perfino il Vaticano come l’aveva conosciuto lui. «C’era una volta Andreotti» è un titolo che può suonare ambiguo. In realtà, è il certificato che consegna questo politico alla storia. Il saggio del giornalista Massimo Franco, in libreria per Solferino dal 10 gennaio, lo studia e lo analizza «dalla culla alla tomba». E ne svela anche i lati più privati e meno noti: a cominciare dalla sua famiglia, invisibile per oltre mezzo secolo.
Perché non prese mai la patente. Esistono versioni diverse. Una «ufficiale»: una volta a Villa Taranto, sul Lago Maggiore (allora di proprietà di un conoscente scozzese), Andreotti salì su un’auto, ingranò la marcia, ma percorsi pochi metri prese in pieno un mucchio di neve. Seconda versione, ufficiosa: Andreotti guidava in una stradina secondaria di un paesino. Si imbattè in un corteo funebre che, vedendo la vettura avanzare a zigzag, si aprì per non aggiungere vittime. Terza versione: «Babbo non ha mai preso la patente perché era abituato fin da giovane a andare con l’autista».
Lo spacciatore di sigarette. Racconta Stefano Andreotti, uno dei figli: «Temeva che a scuola imparassimo a fumare. Allora si presentava a casa con stecche di sigarette che ci regalava convinto che in quel modo, non considerandola una trasgressione, ci saremmo stancati. Il risultato è che fino a pochi anni fa mi sparavo due pacchetti di sigarette al giorno…».
«La giacca del pervertito». Andreotti litigava raramente con la moglie. Succedeva quando la signora Livia gli faceva notare che aveva una macchia sulla camicia e doveva cambiarla. Andreotti allora protestava e si innervosiva. «Nostro padre», raccontano i figli, «indossava quello che gli preparava nostra madre. Il suo ideale non erano doppiopetto e cravatte: quella era la sua divisa da lavoro. Per vederlo felice bisognava immortalarlo col cardigan blu un po’ stazzonato; o con una veste da camera, sempre uguale, che noi figli avevamo soprannominato “la giacca del pervertito”».
Con Alberto Sordi. Quando Alberto Sordi decise di offrire una parte ad Andreotti nel suo film Il tassinaro, l’ex premier chiese alla moglie che cosa ne pensasse. «Assolutamente no», gli rispose lei, perentoria. «Non mi pare il caso». «Be’», replicò lui, «ormai abbiamo già girato la scena».
Gratta e vinci e Nougatine. A Natale, per farlo felice - rivelano i figli - bisognava regalare ad Andreotti cartocci di Nougatine, le caramelle al cioccolato con dentro scaglie di mandorla, o di Rossana ripiene di crema: ne era goloso. E i nipoti, che evidentemente lo conoscevano meglio dei figli, in una delle ultime vigilie di Natale comprarono al nonno una montagna di Gratta e vinci. Lui passò tutta la serata a grattare i tagliandini per vedere che cosa aveva vinto.
Figurine Panini ai nipoti. Era il ringraziamento dei nipoti al nonno, che quando erano piccoli dispensava album di figurine di calciatori. Ma non come farebbe chiunque. Andreotti regalava l’album insieme a tutte le figurine che servivano a completarlo. I nipoti dovevano solo tirarle fuori dalle bustine e incollarle. Andreotti era in grado di regalare loro questo piccolo lusso perché conosceva la famiglia Panini.
Slot machine coreane. Una sua interprete nei viaggi all’estero, Cristina di Pietro, racconta un altro hobby segreto di Andreotti. «Eravamo in Corea del Sud, a Seoul. Sotto il nostro albergo c’era un centro commerciale. Il presidente era sempre sotto scorta, ma un giorno sgattaiolammo fuori per vedere che cosa vendevano. Finimmo a giocare alle slot machine. Le monete coreane erano microscopiche. Lui ne metteva una e la macchinetta ne scaricava una tonnellata. Io provavo ma la slot machine se le mangiava tutte!».
Cannoli siciliani. Andreotti «era golosissimo», raccontava Giulia Bongiorno, suo avvocato nei processi per mafia, oggi Ministro per la pubblica amministrazione. «All’aeroporto di Palermo, in attesa dell’imbarco, si pappava minimo tre cannoli siciliani. Mandava Buttarelli, la sua guardia del corpo, a comprare questi cannolazzi. E come li aveva in mano, li divorava in un amen… La cosa bella è che poi telefonava alla moglie e le diceva: “Tranquilla Livia, ho mangiato leggero”. Leggero? Cannoli a strafottere».
Andreotti e il cinema, dalla censura di Stato al maligno "Il Divo", scrive “Notizie Tiscali”. Quando la televisione non c'era ancora, e i politici non litigavano per la presidenza della commissione di Vigilanza Rai, un sottosegretario di appena una trentina d'anni vigilava sul cinema italiano, allora ritenuto un potente mezzo di formazione delle coscienze dei cittadini. Tra il luglio del 1951 e il luglio del 1953, Giulio Andreotti, nel settimo e ottavo governo De Gasperi, aveva il delicato compito di occuparsi di tutto il settore dello spettacolo. Luci e ombre caratterizzano l'operato di quel suo primo incarico governativo. L'allora sottosegretario, per dirne una, aveva obbligato le produzioni americane a versare nelle casse dello Stato italiano una percentuale degli utili del botteghino. La tassa su Hollywood serviva per finanziare il cinema tricolore, e qui cominciavano i guai. Per accedere ai contributi, bisognava passare attraverso il giudizio di commissioni e burocrati di nomina governativa: e così succedeva che la saga di Peppone e Don Camillo ricevesse dieci volte di più di un film di Vittorio De Sica. Il fatto è che, al giovane sottosegretario, il neorealismo proprio non piaceva, perché insisteva troppo sugli aspetti tragici dell'Italia del dopoguerra. Secondo la vulgata, Andreotti avrebbe espresso il suo astio nei confronti dei neorealisti con la celebre battuta (sempre smentita) "i panni sporchi si lavano in famiglia". Se l'autenticità della frase è dubbia, viene però dalla penna di Andreotti un articolo per "Il Popolo" contro "Umberto D.", un film di Vittorio De Sica che racconta la storia di un pensionato ridotto alla miseria: "Se nel mondo si sarà indotti, erroneamente, a ritenere che quella di Umberto D. é l'Italia della metà del XX secolo - scriveva Andreotti - De Sica avrà reso un pessimo servigio alla patria, che è la patria di don Bosco, di Forlanini e di una progredita legislazione". Il film di De Sica, come ha denunciato recentemente il figlio Manuel, ancora oggi non può essere trasmesso in Tv in prima serata, perché fu bollato dalla commissione censura (della quale Andreotti faceva parte) come "disfattista". Dietro la posizione di Andreotti c'era l'insofferenza del Vaticano per la lontananza della cinematografia italiana dai valori della tradizione cattolica. "La verità - scrisse Andreotti a monsignor Montini, il futuro Paolo VI - è che la gran parte dei registi, dei produttori e dei soggettisti non proviene dalle nostre file né condivide con noi le essenziali convinzioni religiose". Lo stesso Andreotti, nei suoi diari, racconta che papa Pio XII gli telefonava per protestare contro questa o quella scena scabrosa vista in un film. Una volta Papa Pacelli lo chiamò perché in una copertina della Settimana Incom Illustrata si vedeva un'attrice che, scendendo dalla macchina, mostrava le gambe un po' sopra le ginocchia. Il Vaticano non transigeva e Andreotti non risparmiava energie per raddrizzare le storture. Largamente sua era la normativa contro l'oscenità e "tutto ciò che può turbare l'adolescenza" (ma anche un certo numero di esponenti della sinistra, tra i quali Pietro Ingrao, votarono a favore). Anni dopo, quando la sua stella era all'apogeo, Andreotti accettò di interpretare sé stesso nel film di Alberto Sordi "Il tassinaro". A bordo del taxi di Sordi, tra le strade di una Roma dei primi anni '80, Andreotti chiacchierava con il conducente di calcio e politica, probabilmente convinto che la Dc avrebbe governato l'Italia per altri 50 anni. Passati altri 20 e più anni, con la prescrizione al processo per mafia alle spalle, Andreotti si è ritrovato protagonista di un film che lo presentava come il simbolo del "lato oscuro" della politica italiana. Di fronte a "Il Divo" di Paolo Sorrentino, il flemmatico Andreotti è sbottato: "E' cattivo, é maligno, è una mascalzonata", disse il giorno della prima. Poi però tornò a essere andreottiano: "Ho esagerato, le mascalzonate sono ben altre. Questa la cancello".
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
GIULIO ANDREOTTI RICORDA LE ELEZIONI DEL 1948: "MENO MALE CHE ABBIAMO VINTO NOI". Scrive Francesco Persili su "Recensito". Democristiano sagace e manovriero, deputato dell’Assemblea Costituente, già presidente della Fuci (dopo Aldo Moro), sottosegretario dal 1947 al 1953 alla presidenza del Consiglio con De Gasperi, parlamentare, ministro dell’Interno (1954), delle Finanze (1955), del Tesoro (1958-59), della Difesa (1959, 1966, 1974) dell’Industria (1966-1968), del Bilancio (1974-1976), degli Esteri (1983-1989). Per ben sette volte presidente del Consiglio tra il 1972 e il 1991, il senatore a vita Giulio Andreotti è dal secolo scorso un protagonista di prima fila della vita politica italiana. “Divo Giulio” (per la stampa), Belzebù (per gli avversari), il dominus della Prima Repubblica sempre sulla scena e continuamente al centro di polemiche, accuse e processi, ricorda: “A parte le guerre puniche mi è stato attribuito di tutto”, dal concorso esterno in associazione di stampo mafioso all’uso spregiudicato dei servizi segreti deviati. In questa legislatura ha rischiato di diventare Presidente del Senato ed ora si batte contro il progetto di regolamentazione giuridica delle coppie di fatto (c.d. Dico). Giornalista professionista, aforista brillante (“A pensar male si fa peccato ma spesso ci si indovina”) scrittore, tiene una rubrica su “Il Tempo” e scrive libri di successo (1953: fu legge truffa? è il titolo della sua ultima fatica letteraria edita da Rizzoli). Abbiamo incontrato il Senatore al termine della proiezione di “Cosacchi a San Pietro”, l’esperimento di controfattualità sulle elezioni del 1948 presentato da “La Storia siamo noi” di Giovanni Minoli.
Presidente Andreotti, le elezioni del 18 aprile 1948 furono un momento decisivo per la Storia dell’Italia repubblicana. Cosa sarebbe successo se avessero vinto i rossi?
Giulio Andreotti: “Il fatto che non abbia vinto il Fronte popolare lo considero una grande fortuna per l’Italia. Paradossalmente la lista unica ci aiutò molto. Nel 1946 il numero di rappresentanti eletti all’Assemblea Costituente da PCI e PSI che si presentarono separati fu molto superiore al nostro. Mi ricordo che Nenni aveva trovato, come al solito, una sintesi molto efficace ed aveva coniato il motto “Marciare divisi per colpire uniti”. La campagna elettorale mi ricordo che fu molto difficile. I comunisti erano più bravi di noi nel mobilitare le masse. Pajetta addirittura frequentò la scuola di dizione per essere più efficace quando parlava. Per le elezioni del 1948 scelsero di fare un fronte unico della sinistra con i socialisti. Il matrimonio non funzionò, meno male”.
Ci potevano essere le condizioni per realizzare in Italia un governo delle sinistre senza vincoli di cieca obbedienza nei confronti di Mosca e del Cominform?
G.A.: “Non credo ci fossero i margini per mantenere equidistanza da Mosca e da Washington. L’Italia non era un’altra cosa. La via italiana al socialismo difficilmente si sarebbe realizzata. Quando Nenni andò in Unione Sovietica a ricevere il premio Stalin tornò e riferì a De Gasperi ciò che aveva detto a Stalin: “Mi batto per un’Italia neutrale”. Ma quello fece cenno di no con il capo e lo fulminò: “L’Italia al massimo può non essere oltranzista”.
La campagna elettorale del 1948 fu durissima. Lo scontro non era tra DC e Fronte Popolare ma tra due opposte e inconciliabili visioni del mondo. Dopo il 18 aprile la situazione peggiorò. L’avversario era un nemico. Ci furono caccie all’uomo, scontri di piazza. Si arrivò a un passo dalla guerra civile dopo l’attentato a Togliatti. Che ricordo ha del segretario del PCI?
G.A.: “Mi sento responsabile dell’attentato a Togliatti. Quel giorno ero io che parlavo al banco del governo. Si discuteva di una questione che riguardava la fornitura di carta per i giornali. Ero di una noia tale che Palmiro Togliatti decise di andarsi a prendere un gelato da Giolitti. Uscì dalla Camera e Pallante gli sparò. Rimanemmo con il fiato sospeso, poi si riprese e tornò al suo posto. Non ho avuto modo di frequentarlo spesso, né di conoscerlo a fondo. Non dava molta confidenza. Ricordo solo che una volta durante una riunione nella crisi del governo Bonomi mi raccontò del suo viaggio in Mongolia, e mi disse che le notizie o gli venivano taciute o gli giungevano con incredibile ritardo. Mi disse, insomma, che i comunisti italiani contavano poco”.
Il documentario di Minoli si apre con una confessione dell’agente della Cia Milton Friedman che ammette i brogli per favorire la vittoria della DC alle elezioni del 1948. Cosa c’è di vero?
G.A.: “Non ho mai visto un dollaro americano. Feci una campagna senza tanti mezzi, tirando la cinghia e con una macchina scassata con cui muovevo per stradine impervie. Tutta questa pioggia di aiuti americani non la ricordo. Non facevo il tesoriere della Democrazia Cristiana. Per fortuna, non mi sono mai occupato di finanziamenti…”.
Con quale stato d’animo ha ripercorso le storie tese di quei giorni che tennero a battesimo l’Italia repubblicana, democratica e filo-atlantica?
G.A.: “Ho visto questo filmato con grande commozione e partecipazione. Il fiato lungo è lo stesso di quando passammo 3 giorni e 3 notti chiusi dentro Montecitorio a discutere l’adesione dell’Italia al Patto Atlantico mentre fuori impazzava la protesta. Ci fu un tentativo di invasione. Il ministro degli Interni Scelba, una persona preziosa per la democrazia in Italia, aveva dato l’ordine di lasciare fare fino a Piazza Colonna e di intervenire solo qualora i manifestanti avessero cercato di forzare quel blocco. Ci fu molta tensione. Un deputato, Giolitti mi pare, uscì e prese una botta in testa. Quando me lo riferirono risposi: “Un buon motivo per restare dentro”. Una deputata rimase male per questa cosa e per anni non mi parlò.
Come sarebbe andata a finire con un governo delle sinistre?
G.A.: “Non so se sarei stato libero. Probabilmente avremmo corso il rischio di finire come in Cecoslavacchia. La gioia per lo scampato pericolo è grande. Nonostante tutta la buona volontà delle sinistre sarebbe stato inevitabile appiattirsi sulle posizioni dell'Unione Sovietica. (Francesco Persili)
· Giulio Andreotti ed Aldo Moro.
ALDO MORO E GIULIO ANDREOTTI.
Il paradiso può attendere, aveva detto a metà ottobre citando il famoso “Heaven can wait” di Warren Beatty e Buck Henry, scrive Paolo Guzzanti su “Panorama”. Ma stavolta il cielo si è stancato di aspettare e non ha concesso proroghe. E così, dopo Francesco Cossiga che a confronto è morto giovane, il grande Giulio, il divo Giulio, l’uomo più sospettato e più esaltato della politica italiana, l’enigmatico, l’astuto, quello di cui Craxi diceva “tutte le volpi finiscono in pellicceria”, ha sgombrato il campo della storia viva, per andare ad abitar d’ora in più nella storia stampata, filmata, certificata, ma non più viva. Non c’è niente di peggio quando muore un personaggio importante, di un cronista che comincia con l’avvertire che “io lo conoscevo bene”. Ma il fatto è che io lo conoscevo veramente bene e lui mi conosceva altrettanto bene e non ci piacevamo moltissimo. L’ultima grande performance Andreotti l’ha infatti prodotta sul piccolo proscenio della Commissione parlamentare d’inchiesta Mitrokhin di cui sono stato per quattro anni il presidente e lui, Giulio, per quattro anni un commissario assiduo, puntiglioso, provocatorio, divertente, odioso, sempre dalla parte della Russia sovietica e dunque anche in quell’occasione beniamino dei comunisti che nella commissione Mitrokhin si proponevano il compito di ostacolare in ogni modo e impedire ridicolizzando, che si arrivasse a trovare la verità sugli agenti sovietici in Italia, intendendosi per agenti non le spie, ma proprio coloro che agivano come agenti di influenza. Andreotti era lì, pronto alla rievocazione, pronto alla battuta, pronto a sabotare con armi sottilissime tutto il lavoro costruttivo che facevamo. L’ex ministro degli esteri di Gheddafi mi disse a Tripoli durante una pausa dei nostri lavori durante l’incontro con la Commissione Esteri: “Se c’è un uomo che noi in Italia abbiamo sempre adorato, veramente adorato oltre che rispettato, è il vostro Giulio Andreotti, che dio lo protegga e lo benedica”. Pensavo si riferisse soltanto al notissimo e in qualche caso sfacciato atteggiamento filo arabo del senatore a vita, ma non si trattava soltanto di questo: “Lui era qui con noi quella sera in cui a Mosca annunciarono la fine dell’Unione Sovietica e ammainarono la bandiera rossa dal Cremlino. Noi piangevamo, eravamo commossi e anche disperati. Andreotti era terreo, traumatizzato. Poi disse: da adesso il mondo sarà molto diverso e non sarà certamente migliore perché sarà un mondo americano”. Questa sua affermazione fa un po’ il paio con quella dei tempi in cui, caduto il muro di Berlino, si prospettava la riunificazione tedesca, disse: “Io amo talmente i tedeschi che di Germanie ne vorrei sempre almeno due”. Il suo credo politico era quello del debito pubblico senza troppi freni e navigare a vista, usando buon senso e una certa sfacciataggine unita a cinismo. Se fu riconosciuto colpevole di aver intrattenuto rapporti di reciproco rispetto e qualcosa di più con la mafia almeno per un certo periodo, ciò ha senso: Andreotti rispettava i poteri costituiti e la mafia era un antico marchio di fabbrica di potere costituito. E poi, come disse in un’altra circostanza “è sempre meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Ricordo personale: la madre di mia madre e la madre di Giulio, Rosa Andreotti, erano molto amiche perché avevano entrambe avuto i loro figli al Collegio degli Orfani in via degli Orfani. La loro amicizia si estese ai figli: mia madre, mio zio e lui, Giulio, anche perché vivevano tutti nella stessa magnifica strada, via Parione nel quartiere Parione di Roma, alle spalle di piazza Navona. Mia nonna mi raccontava che Rosa Andreotti parlando del figlio bambino diceva: “Questo figlio non è normale, non somiglia agli altri bambini. Ha qualcosa dentro di sé che non capisco, che nessuno capisce. O sarà disperato o diventerà qualcuno”. Mia madre mi raccontava che il piccolo Giulio evitava tutti i giochi che impegnavano il fisico, come correre, e aveva sempre un taccuino in tasca per fare il giornalista. Così un paio di volte l’anno capitava a casa nostra per un caffè e io diffidavo moltissimo di questa presenza e speravo che se ne andasse presto perché ero un tipico adolescente di sinistra e Andreotti sembrava già allora il devoto Satana che poi è stato dipinto. Se uno scorre le foto della sua vita vede che è stato un uomo attentissimo alla vita cinematografica, amico stretto di Federico Fellini il quale lo considerava una parte essenziale del paesaggio italiano, ma anche in senso positivo. Frequentava le attrici, gli attori, i set cinematografici, aveva i capelli nerissimi imbrillantinati e pettinati all’indietro come Rodolfo Valentino e benché avesse la gobba, aveva anche un suo charme, un certo sex appeal. Era un uomo di destra all’inizio della carriera (il politico più longevo, con più incarichi di governo, una eterna carriera parlamentare) e veniva dalla nidiata di Alcide de Gasperi che lo volle giovanissimo sottosegretario nel pieno della guerra fredda, con un’Italia che sapeva di polvere e macerie e che era tutta da ricostruire, ma che già godeva, si industriava, costruiva e attraversava il boom economico, la magica crescita che proiettò il Paese dalla preistoria della guerra al XX secolo dell’industria, dell’arte, del reddito, della Seicento Fiat e delle autostrade, della commedia all’italiana, del cinema leggero e un po’ ignorante, e Andreotti era sempre ovunque. Poi lui chiuse personalmente la sua guerra fredda e diventò lentamente ma con costanza il divo dei comunisti italiani. Condivideva con Cossiga questa passione per gli ex nemici: i comunisti, compresi quelli russi, erano per lui, per loro, gente carismatica, muta, pesante, importante, spartana e allo stesso tempo ricca per le grandi risorse minerarie dell’allora Unione Sovietica. Cominciò così la marcia di avvicinamento di Andreotti al Pci di Enrico Berlinguer e i due insieme vararono la bozza di quel patto politico rischiosissimo che poi si è chiamato “compromesso storico” e sul cui altare Aldo Moro ha lasciato la pelle. La storia del Compromesso storico è la storia stessa di Andreotti. Aldo Moro accettò di aprire in piena guerra fredda ai comunisti, contando su un accordo di massima con gli americani. I termini di questo accordo sono stati pubblicati da Maurizio Molinari e Paolo Mastrolilli per Laterza nel settembre del 2005 e consiste in una raccolta di documenti fondamentali che mostra come gli Stati Uniti fossero estremamente e positivamente interessati al Compromesso storico, purché il Pci si sganciasse una volta per tutte dall’Urss, rompesse con il dovuto clamore accettando la prevedibile scissione, ed entrasse a pieno titolo nel novero dei partiti democratici italiani indispensabili per il ricambio della classe dirigente. E’ importante ricordarlo perché poi è stata fatta passare la vulgata secondo cui Moro voleva fare il compromesso storico con Berlinguer, ma la Cia lo fece rapire da brigatisti rossi controllati da Langley, Virginia, per far fallire l’eroico progetto. Secondo il progetto originale invece, di cui Andreotti fu un notaio e non l’unico, Moro doveva diventare presidente della Repubblica dopo Giovanni Leone e garantire dal Quirinale l’intera operazione. Andreotti sarebbe diventato il presidente del Consiglio del primo governo sostenuto in Parlamento del Patito comunista e a quel primo passo avrebbe dovuto far seguito il taglio del cordone ombelicale con Mosca e un secondo governo, benedetto anche dai Paesi della Nato, con ministri comunisti. L’attacco di via Fani, la prigionia interrogatorio e l’esecuzione di Aldo Moro, misero fine al progetto. Al Quirinale andò Sandro Pertini, ma Andreotti decise di resistere sulla vecchia linea e di dare comunque vita con i comunisti al nuovo governo con il loro appoggio determinante e ufficiale. Questo esperimento nacque nel sangue e visse poco e male. I comunisti erano molto spaventati da quel che era successo e non vollero tagliare con Mosca, dove i dirigenti del Pci seguitarono a ritirare ogni anno un gigantesco finanziamento illegale che drogava la politica italiana, anche perché costituiva un alibi per tutti coloro che in Italia erano disposti a commettere illeciti con la scusa di finanziare il proprio partito. Poi i comunisti decisero di chiudere la partita e si ritirarono definitivamente. Ma Giulio Andreotti non mollò. La mia impressione (molto più di una impressione) è che sia lui che Cossiga fecero non soltanto il possibile, ma specialmente l’impossibile per salvare la vita a Moro accettando accordi che poi saltarono perché la controparte era decisa a liquidare l’ostaggio e lo fece. Quegli eventi non sono mai stati ben chiariti e io penso che la devastazione della Commissione Mitrokhin di cui Andreotti fu parte attiva controllando strettamente ogni fase dell’inchiesta, fosse dovuta proprio al fatto che eravamo arrivato al nocciolo della questione. Andreotti lo sapeva, lo temeva e non per caso il suo amico Cossiga lo volle nominare a sorpresa senatore a vita per neutralizzarlo e promuoverlo su uno scranno dal quale non avrebbe più fatto politica. Il processo di Palermo per i pretesi rapporti con Cosa Nostra fu una sorta di corollario di quelle vicende. Andreotti si lasciò processare docilmente, scrisse molti libri sostenendo che doveva pagarsi gli avvocati, fra cui il professor Coppi, per difendersi e fu sempre lì, a Palermo, pienamente a disposizione su quei banchi, come lo era stato davanti a me per quattro anni nella Commissione Mitrokhin. Difendeva un passato, certamente ha difeso fino alla morte con Cossiga e come Cossiga il segreto su ciò che realmente accadde durante i cento giorni del rapimento Moro ed ebbe modo di sviluppare sempre la sua politica filo araba, diventando così la bestia nera degli israeliani. Lo andai a trovare più volte nel suo studio in piazza San Lorenzo in Lucina, dove andava ogni mattina prestissimo. Lì riceveva giornalisti, politici, industriali, gente di cultura e gente decisamente lontana dalla cultura. Io penso che sapesse qualcosa in più, qualcosa che anche io ho sospettato e di cui ho scritto molto, sulle vere ragioni che possono aver fatto scattare la decisione di uccidere Falcone quando non era più un nemico sul campo della mafia, ma un alto burocrate romano del ministero di Grazia e Giustizia. Quando il mio amico Giancarlo Lehner annunciò l’intenzione di voler scrivere della collaborazione di Falcone con i giudici russi, il procuratore generale Stepankov in particolare, per indagare sul tesoro del Kgb e del Pcus portato in Italia per essere riciclato sotto la protezione di alte figure della finanza, Andreotti lo mandò a chiamare e gli ricordò di avere lui stesso, come ministro degli esteri, inviato dei fonogrammi a Mosca per facilitare gli incontri segreti di Falcone. Gli disse che per lui avrebbe recuperato quei fonogrammi che avrebbero costituito la prova scritta di quel che stava facendo Falcone quando fu eliminato. Lo richiamò qualche giorno dopo per dirgli: “Alla Farnesina mi dicono che hanno perso quei documenti. Ora, alla Farnesina non hanno mai perso nulla e mai si perde nulla. Lo prenda come un messaggio: lasci perdere la sua inchiesta e passi ad altro, sarà più salutare per lei”.
· Andreotti, potere e misteri. Dai nastri di Aldo Moro ai processi di mafia.
Andreotti, il caritatevole alter ego di Belzebù. Claudio Rizza il 24 Agosto 2019 su Il Dubbio. In chiesa alle 6 del mattino, in ufficio nel fine settimana: in segreto il leader della Dc faceva il benefattore (e guadagnava voti). Raccontano che la seconda fase, quella più organizzata e scientifica, cominciò quasi per caso a San Basilio nel 1970. Periferia romana rigorosamente falce e martello, ben più su della media nazionale con i comunisti al 27% e la Dc al 40. I rossi preparavano il grande assalto al potere scudocrociato, Berlinguer sarebbe arrivato di lì a poco a Botteghe Oscure e nel ‘ 76 avrebbe fatto il botto al 34,4%, a poche incollature dalla Democrazia cristiana.
A San Basilio Andreotti era tutto tranne che popolare. Una visita in trasferta, certamente inaspettata, che assunse subito per i pci un sapore provocatorio, al di là delle intenzioni. La Dc osava aprire una sede al Lotto 16, che sarebbe come se un laziale aprisse un banchetto di magliette biancazzurre in curva Sud. C’era tensione e uno strano plebeo, dall’apparenza balorda, meno rosso degli altri diede generosamente asilo al sor Giulio in casa sua, un appartamento modesto, una famiglia modestissima, in attesa che l’aria diventasse più respirabile e meno minacciosa. Andreotti, allora capogruppo dc alla Camera, apprezzò il gesto dell’ospite. Se ne andò mettendosi a disposizione, se la famiglia “avesse avuto bisogno di qualcosa”, riconoscente. Lo ebbe, il bisogno. E lui ne tenne conto. Dicono che quello fu l’inizio della fase due. “Se si può dare un mano bisogna farlo”: lo pensava da sempre il presidente. Da quel giorno smise di essere solo un samaritano all’impronta. E per i successivi 43 anni cercò di pianificare. Poveri, bisognosi, sfortunati, barboni, bussavano alla porta in diversi modi. Si presentavano alle 6 del mattino quando Giulio andava a messa o, se la saltava, la sera alle 18,30. Si passavano parola. Antonio De Luca, carabiniere, appuntato scelto qualifica speciale, otto anni e mezzo passati col senatore a vita, la soprannominò scherzosamente la “ditta Berardi, la mattina presto e la sera tardi”. Al convento delle suore in via in Lucina, nella chiesetta senza testimoni o compagnia, erano soli lui, l’officiante e le suorine. Oppure a San Giovanni dei Fiorentini, proprio dietro la casa di via Paoli. O ancora in piazza Capranica, dinanzi al seminario dei frati da dove erano usciti ben due papi, l’ultimo dei quali fu il cardinal Montini, Paolo VI. O anche al Gesù. Lui non li chiamava poveri né bisognosi, tantomeno mendicanti, ma, con quella ironia che imperversava nel dna, “i clienti”. “Fate entrare i clienti”: dopo la messa, gli aficionados, quelli che il capocorrente, ministro e presidente, conosceva ormai di persona o su presentazione, facevano la fila nei weekend in ufficio, al quarto piano di San Lorenzo in Lucina. Durante la settimana invece lo spazio era lasciato ai clientes di seconda fascia, per le elemosine brevi manu. Lì non c’era bisogno di conoscere sua eminenza Andreotti. Il cardinale Angelini lo chiamava così, “il mio amico Giulio, l’unico cardinale laico”. I poveretti venivano dai dormitori della Caritas o dai giacigli di strada e sapevano a che ora Andreotti andava in chiesa. Qualcuno lo beccava all’ingresso, altri all’uscita. Andreotti tirava fuori dalla borsa una mazzetta di biglietti da 5 euro o i cartoncini di monete da 2 euro e distribuiva. Una volta, certo, erano lire, tagli di carta anche da 10 e 20mila. Ci pensava la segretaria a prenotare i contanti. A volte Giulio si faceva aiutare dagli uomini della scorta per accelerare la distribuzione. Ad un certo punto si accorse che quelli che venivano accontentati prima della messa sparivano appena intascato l’obolo. “Allora cambiò la regola”, racconta Antonio. “Ci disse: diamoglieli alla fine così almeno sentono messa”. La media era una ventina di poveretti al giorno, un centinaio gli euro spicci. “Chi ha veramente bisogno non ha paura di alzarsi presto”, commentava il presidente, ragionamento che valeva anche per i giornalisti che chiedevano interviste. L’orario ne scremava parecchi, diciamo i più. Mario Stanganelli del Messaggero lo sapeva e si presentava davanti alla chiesa all’alba, anche senza appuntamento. Non tornava quasi mai a mani vuote. Nemmeno quando in pieno inverno si addormentò nel tepore della sua auto appannata e Andreotti bussò al finestrino: “Che fa, Stanganelli, dorme? Lo sa che se fosse un militare sarebbe violata consegna?”. Beneficienza culturale, diciamo. In piazza in Lucina il discorso nei weekend era diverso. Col passare degli anni e il crescere dei bisogni aiutare i clienti stava diventando complicato. E soprattutto era difficile capire se i contanti venissero utilizzati per pagare le bollette, i buffi, l’affitto, il companatico, aiutare un malato, una pensione troppo minima, oppure usati per qualcosa di più lussurioso e non indispensabile. Prima delle opere di bene serviva un’opera di intelligence. La signora Enea, mitica segretaria di Giulio per un trentennio, era la regina dell’ufficio. I primi libri del capo lo copiò in carta velina. Venne avvicendata dalla dottoressa Lina Vido, una anziana funzionaria, per 43 anni di stanza a Bruxelles, che Giulio si portò a Roma per aiutarlo in ufficio. Scelta azzeccata. Veniva dalla Valtellina ma avrebbe potuto essere tedesca: i politici li aveva incontrati tutti, li conosceva a menadito. Non usava computer, quello era il suo cervello, ma la vecchia gloriosa Olivetti: si informava sui clienti, analizzava i nuovi, abilissima nello spionaggio per evitare al suo capo sbagli e imbarazzi. Riusciva ad avere informazioni su chiunque. Dicono che non chiese mai uno stipendio, diceva che le bastava la pensione di Bruxelles. Le altre due segretarie stavano al Senato, anch’esse bravissime, Daniela Bellucci e Patrizia Chilelli, 18 anni con lui: erano le uniche capaci di decifrare le zampe di gallina che componevano i libri, i “Visti da vicino” e tutto il resto della bibliografia andreottiana, più i discorsi, gli interventi…. A loro toccava organizzare la vita pubblica del senatore, un lavoraccio. Se veniva invitato alla presentazione di un libro Andreotti non andava mai e poi mai senza averlo letto. Si preparava. Ma accettava solo se il libro gli era piaciuto, altrimenti “per sopraggiunti impegni” declinava scusandosi. A Piazza in Lucina si presentavano una quarantina di clienti divisi tra sabato e domeniche mattina. Avevano spesso consuetudine col presidente. Raccontavano le vicissitudini di famiglia, i bisogni, le difficoltà. Ma brevemente, che c’era la fila. Lui non indagava, anche se certe volte le richieste potevano apparire bizzarre, il look era tutto tranne che dimesso, e ci sarebbe voluto magari un supplemento d’indagine. Ma c’era Lina a vigilare. La scorta si faceva venire qualche dubbio. Presidente, ma tutti questi soldi…? E lui: “Guarda che è molto più difficile chiedere che dare”. Un inverno, sarà stato il 2007, un anziano si infilò in ascensore mentre stavano salendo in ufficio. “Giulio, Giulio – chiamava – ti avevo chiesto un appuntamento”.” Ho avuto molti impegni….”. E quello parlava. Finito il confronto Andreotti chiese al carabiniere: “Ma tu lo conoscevi?”. “Presidente, se non lo conosceva lei, ci ha parlato per 20 minuti”. “Mai visto in vita mia”. Anche con i clienti affezionati ad un certo punto Andreotti decise di cambiare metodo, quando se li ritrovava al bar Ciampini o da Velitti dopo la beneficienza, per un cappuccino o un aperitivo. Allora decise di abolire i contanti: portassero le bollette, le fatture, al pagamento ci avrebbe pensato lui. Avrebbero poi avuto indietro le ricevute timbrate. Luce, gas, telefono, rate findomestic per pagare il dentista, bollettini d’ogni genere: l’aiuto era concreto ma controllato. Famiglie conosciute, amici di amici, sempre in difficoltà, ma mai presentati da politici o da colleghi di partito. Tutti sconosciuti ma elettori affezionati del presidente. Non chiedeva mai conto o il perché: “Vi aiuto”. Alle spalle vigilava Lina. Se Giulio per un paio di mesi non li vedeva più, sia in chiesa che in ufficio, allora chiedeva notizie, si informava se fosse successo qualcosa. Alla posta a pagare le bollette andava Cesare Di Rocco, pensionato e autista, un ex della Guardia di Finanza. Fedelissimo. Naturalmente Andreotti gli pagava la benzina e pretendeva di pagare il pieno anche all’Arma, alla sua scorta dei carabinieri “perché non voleva pesare sulle casse dello Stato”. Si comprava anche le medicine senza chiedere la ricetta gratuita: “Chi ha i soldi è giusto che paghi”. A fine mese, Giulio si dedicava a fare beneficienza al clero, a preti, frati e suore, girando per conventi, con la busta in tasca. Anche le suorine di clausura si facevano osservare volentieri per ricevere il finanziamento in contanti, scodinzolanti. Gli elettori si coltivano così. Non a caso alle elezioni il presidente superava agevolmente le 300 mila preferenze. Gli aneddoti sono infiniti, ma alcuni ne descrivono bene carattere e pensiero del Giulio familiare e privato Al congresso eucaristico col cardinale Tettamanzi una persona poco trascendente chiese: Dio esiste da oltre duemila anni ma in tutte le cose bruttissime che accadono, non crede che ci entri anche Gesù? Il cardinale laico rispose: “Che c’entra, pure il sapone esiste da tanti anni e c’è gente che ancora non si lava. Ma la colpa non è mica del sapone”. Parabole moderne. Raccontano quando durante gli anni del terrorismo sotto casa c’era la vigilanza. Donna Livia, la moglie di Giulio, si preoccupò che facesse così freddo quel Natale, e il 26 di dicembre comprò alla scorta dei giubbotti ben imbottiti. Ci riuscì anche se il negozio era chiuso. Potenza del cognome e del cuore. Altruismo che la signora Livia usava anche per riavvicinare i militari e farli trasferire in famiglia nei paesi d’origine per risparmiare sull’affitto, che a Roma è troppo caro. Con la moglie e gli amici più stretti Livia e Giulio giocavano a carte, a burraco o a scala quaranta. Un giorno Livia telefonò ad un’amica dalla macchina: “Ma sei sicura che ho vinto io? Ma no, ti devo io dei soldi”. Ma no, ma sì, un minuetto. Il bello è che dopo ore si vincevano al massimo un paio di euro. Alla fine della lunga chiacchierata muliebre Andreotti commentò secco col ghigno ironico d’ordinanza: “Con questa telefonata i due euro li hai rimessi in gioco”. Sapeva anche essere ironico con tenerezza. Dovevano andare lui e Livia ad Ostia antica a teatro e premiare Rita Levi Montalcini. C’era da fare un lungo tratto a piedi e Giulio sbottò preoccupato: “Non si può, poveretta, invece di premiarla, così finisce che la commemoriamo”. Successe che uscendo di casa in inverno il presidente dimenticasse il portafoglio. La scorta lo fece rientrare in portineria, per proteggerlo dal gelo, lui si sedette lì avvolto nel cappotto e col cappello ben calcato sulla testa, quando arrivò un addetto della Tnt a consegnare un pacco. Non lo riconobbe e gli fece a bruciapelo: “Che fai, lo piji te sto pacco?”. Giulio- portiere imperterrito firmò la ricevuta e lasciò pure la mancia. Il classico caso di “lei non sa chi era lui”. Altri tempi, ora vengono in mente i vip che non danno un centesimo di mancia ai ponyexpress che consegnano la cena o la pizza a casa per quattro soldi. Giulio odiava l’aereo, amava il treno che gli dava tempo di leggere. “Lo accusavano di essere un cinico, ma noi che stavamo accanto lo vedevamo sempre gentile, educato, mai sopra le righe. L’uomo era questo, da politico forse devi essere diverso”, nota Antonio. L’unico problema per lui carabiniere fu che tifa Lazio. Venne perdonato così :“Non tutte le ciambelle riescono col buco”. Nei momenti bui e più difficili a Giulio venivano sempre in aiuto ironia e disincanto. Al funerale di Cossiga, sincero: “Era un grande amico, un fratello”. Pausa. “Finché andiamo ai funerali degli altri va sempre tutto bene”. Amen. E finché fai beneficienza gli elettori continuano a votarti. C’era dunque il divo Giulio, altruista e, segretamente, silenzioso benefattore. Poi dicono che c’era Belzebù, ma quella è tutta un’altra storia.
Andreotti, potere e misteri. Dai nastri di Aldo Moro ai processi di mafia. Nel 1990 vengono ritrovate nel covo milanese delle Brigate rosse 400 pagine risalenti al sequestro che confermano le accuse di Pecorelli. All'interno, la conferma dell'esistenza di una struttura anti-guerriglia segreta e duri attacchi contro l'ex senatore a vita. Una fitta trama di intrighi e omissioni che proseguono lungo tutta la vita del sette volte presidente del Consiglio, dallo scontro con Cossiga alla morte, avvenuta il 6 maggio scorso, scrive Peter Gomez l'11 maggio 2013 su "Il Fatto Quotidiano". Dai primi passi dentro le mura vaticane (con accesso diretto all’appartamento di Pio XII) ai rapporti con Sindona. Dal caso di Wilma Montesi ai presunti contatti con Licio Gelli. E poi Salvo Lima e i boss, Ciarrapico e gli appalti. Una storia politica lunghissima, tutta vissuta nei più importanti palazzi del potere, vedendo scorrere i più clamorosi e misteriosi eventi della storia del Paese. Dal dopoguerra agli anni ’90. Ecco il primo degli appuntamenti con “Andreotti, potere e misteri”: la storia e i segreti del Divo raccontati in quattro puntate dal direttore de ilfattoquotidiano.it Peter Gomez. Nell’ottobre del 1990, durante i lavori di ristrutturazione di un covo milanese delle Brigate rosse, perquisito 12 anni prima dagli uomini del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, vengono ritrovate 400 pagine di documenti risalenti all’epoca del sequestro di Aldo Moro. Si tratta di una ventina di lettere inedite scritte dallo statista assassinato e, soprattutto, di una copia di un suo memoriale già consegnato alla magistratura dai carabinieri nel ’78. A quell’epoca la rivista Op aveva quasi subito ipotizzato che quel documento fosse incompleto. Aveva denunciato la scomparsa delle bobine su cui i terroristi avevano inciso gli interrogatori del democristiano, e aveva intensificato, partendo dal caso Caltagirone, gli attacchi contro Andreotti. Le carte, misteriosamente ritrovate nel ’90, confermano parte delle denunce di Pecorelli. Nella nuova copia del memoriale sono, infatti, presenti brani nei quali viene affrontata la questione dell’esistenza in Italia di una struttura anti-guerriglia segreta(Gladio) e, soprattutto, ci sono alcuni durissimi passaggi riguardanti Andreotti. Moro per esempio parla dello scandalo Italcasse-Caltagirone e sostiene, tra l’altro, che la nomina del nuovo presidente dell’istituto di credito era “stata fatta da un privato, proprio l’interessato Caltagirone che ha tutto sistemato…”. Come era già avvenuto nel caso delle bobine sul golpe Borghese registrate dal capitano La Bruna, insomma, ai magistrati nel ’78 era stato consegnato solo il materiale ritenuto più innocuo. Non è chiaro chi abbia materialmente omissato i memoriali e nemmeno si sa che fine abbiano fatto le bobine con gli interrogatori di Moro. E’ certo, invece, l’assassinio di Dalla Chiesa da parte di Cosa nostra. Una volta andato in pensione il valoroso generale viene, infatti, inviato a Palermo come prefetto antimafia. E lì, abbandonato da tutti e attaccato pubblicamente dagli andreottiani (definiti proprio da Dalla Chiesa in lettera indirizzata a Giovanni Spadolini, “la famiglia politica più inquinata del luogo”), crolla, con la moglie, sotto i colpi dei killer mafiosi. E’ il 3 settembre del 1982. La sua cassaforte sarà trovata vuota. Prima di accettare quell’incarico Dalla Chiesa aveva incontrato, tra gli altri, anche Andreotti. Subito dopo, nel proprio diario aveva annotato: “Andreotti mi ha chiesto di andare e, naturalmente, date le sue presenze elettorali in Sicilia si è manifesta per via indiretta interessato al problema; sono stato molto chiaro e gli ho dato però la certezza che non avrò riguardo per quella parte di elettorato cui attingono i suoi grandi elettori […] sono convinto che la mancata conoscenza del fenomeno lo ha condotto e lo conduce a errori di valutazione […] il fatto di raccontarmi che intorno al fatto Sindona un certo Inzerillo morto in America è giunto in una bara e con un biglietto da 10 dollari in bocca, depone nel senso…”. Il 12 novembre del 1986, Giulio Andreotti sarà interrogato come testimone al primo maxi-processo alla mafia. Al centro della sua deposizione ci sarà ovviamente il contenuto del diario dell’eroico generale. Che, incredibilmente, Andreotti tenterà di smentire. Per lui Dalla Chiesa si è, infatti, confuso. Andreotti negherà, così, di aver fatto con lui nomi di Inzerillo e di Sindona. E soprattutto sosterrà che il generale non gli disse mai che non avrebbe avuto riguardi per il suo elettorato compromesso con la mafia. Quel giorno, continuando a difendere Lima e tutti i suoi accoliti, Andreotti dimostra però che almeno su un punto Dalla Chiesa davvero sbagliava. Il suo non era stato un errore di valutazione. Era qualcos’altro. Il 27 luglio del ’90, il magistrato veneziano Felice Casson, è autorizzato dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti ad acquisire nella sede del Sismi, documenti relativi a un’organizzazione segreta antiguerriglia destinata ad entrare in azione in caso d’invasione dai paesi del blocco sovietico. Il 3 agosto davanti alla Commissione stragi Andreotti spiega che la struttura è rimasta attiva fino al 1972. Il 12 ottobre viene ritrovato a Milano la copia del memoriale Moro in cui si fanno cenni all’organizzazione. Mentre montano le polemiche sulla strana scoperta, il 19 ottobre Andreotti fa arrivare in commissione un documento, sul frontespizio del quale compare per la prima volta la parola “Gladio”. Leggendo le dodici cartelle i parlamentari scoprono, però, che nel ’72 l’organizzazione non era stata sciolta, solo smilitarizzata e fatta rientrare nei servizi. Bettino Craxi intanto mette apertamente in dubbio le versioni ufficiali sul ritrovamento del secondo memoriale Moro. Parla di “manine e manone” e fa chiaramente intendere che i documenti dello statista (senza omissis) potrebbero essere stati fatti ritrovare apposta. L’indagine della Commissione stragi prosegue. I capi dei servizi rivelano che Gladio è nata almeno nel ’51, quando era presidente del consiglio De Gasperi. Nel ’56 venne firmato un accordo segreto tra Cia e il Sifar in seguito al quale, tre anni dopo, Gladio entrò nelle strutture Nato. Tutti questi passaggi, ovviamente, avvennero all’insaputa del parlamento. Come campo di addestramento dei gladiatori veniva utilizzata la base militare di capo Marrangiu. E’ la stessa struttura dove, nel ’64, il capo del Sifar De Lorenzo aveva progettato di trasferire, in caso di colpo di Stato, tutti gli oppositori politici di sinistra. Andreotti in più interventi difende la legalità della struttura. E lo stesso fa il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, molto coinvolto nell’organizzazione di questi “patrioti”. Cossiga però ipotizza che Andreotti abbia reso nota l’esistenza di Gladio per screditarlo e costringerlo alle dimissioni. Ad avviso del presidente-picconatore, Andreotti ha in mente un solo obiettivo: mandarlo a casa in anticipo e farsi eleggere al suo posto con l’appoggio del partito comunista. Tra Andreotti e Cossiga è scontro aperto. A seguito delle polemiche, nella primavera del ’91, il sesto governo Andreotti cade. Una settimana dopo si arriva al suo settimo e ultimo governo, dal quale escono però i repubblicani. In giugno Andreotti, va in Sicilia per due giorni. Qui sostiene, al fianco di Salvo Lima, i propri candidati alle elezioni regionali. Cosa Nostra è inquieta. La prima sezione della Corte di Cassazione deve decidere le sorti del primo maxi-processo. La presenza di un giudice come Corrado Carnevale, secondo i collaboratori di giustizia, aveva fatto fino allora dormire sonni tranquilli agli uomini d’onore. Ma il nuovo ministro di Grazia e Giustizia, il socialista Claudio Martelli, adesso aveva accanto a sé al ministero un giudice come Giovanni Falcone. Per le sorti del processo, nella mafia, si cominciava a temere. E non era un errore. Nell’ottobre del ’91, infatti, il presidente della corte di cassazione cambia d’autorità il collegio che giudicherà il maxi. Di lì a tre mesi gli imputati di rispetto saranno tutti condannati. Andreotti invece, a sorpresa, si riappacifica con Cossiga. Il presidente in novembre lo nomina senatore a vita. Il suo governo, cosa mai accaduta prima, adesso combatte seriamente la mafia. Il 12 marzo del ’92, Salvo Lima, il cugino di Sicilia, cade sotto i colpi di Cosa Nostra. Dopo mezzo secolo troppa gente in Italia aveva cominciato a non rispettare i patti. Esplodono di nuovo le bombe. Muore Giovanni Falcone. Muore Paolo Borsellino. La mafia scopre il 41 bis. Piegati dal carcere duro, gli uomini d’onore cominciano a raccontare. Alcuni di loro diranno di aver visto Andreotti da vicino. Altri parleranno per sentito dire. In aula al processo, contro l’ex presidente del Consiglio vengono prodotti e ripetuti decine e decine di verbali. Un fiume di ricordi, un mare di testimonianze che ora è inutile star qui ad analizzare. Perché alla fine, confermato dalla Cassazione, arriveranno un attestato di colpevolezza “fino alla primavera del 1980” e un’assoluzione per i fatti successivi. Abbastanza per salvare l’imputato Andreotti Giulio dalle pene comminate tribunale degli uomini. Troppo poco per evitargli di comparire, da lunedì 6 maggio 2013, davanti a quello della storia.
LA MALAGIUSTIZIA E L’ODIO POLITICO. LA VICENDA DI GIULIO ANDREOTTI.
6 maggio 2013 muore Giulio Andreotti. Le frasi celebri di Giulio Andreotti:
- "Il potere logora chi non ce l'ha";
- "Nella sua semplicità popolare, il cittadino non sofisticato, passando davanti al Parlamento o ai ministeri, è talora indotto a porre il dubbio che sia proprio lì che si governa l'Italia";
- "Se fossi nato in un campo profughi del Libano forse sarei diventato anch'io un terrorista";
- "A parte le guerre puniche mi viene attribuito veramente di tutto";
- "L'umiltà è una virtù stupenda, ma non quando si esercita nella dichiarazione dei redditi";
- "Amo talmente la Germania che ne vorrei due";
- "I miei amici che facevano sport sono morti da tempo";
- "Aveva uno spiccato senso della famiglia, al punto che ne aveva due ed oltre";
- "I pazzi si distinguono in due tipi: quelli che credono di essere Napoleone e quelli che credono di risanare le Ferrovie dello Stato";
- "Meglio tirare a campare che tirare le cuoia";
- "Essendo noi uomini medi le vie di mezzo sono per noi le più congeniali";
- "La cattiveria dei buoni è pericolosissima";
- "Non basta avere ragione, serve avere anche qualcuno che te la dia";
- "Assicuro la mia collega che tra un pranzo e l'altro non prenderò cibo" (a Franca Rame che stava facendo lo sciopero della fame);
- "Clericalismo? La confusione abituale tra quel che è di Cesare e quel di Dio";
Storia d'Italia e di Andreotti. Da De Gasperi a Caselli, racconti e fatti (divisi per decenni) del politico che ha fatto la storia del nostro paese, scrive Stefano Vespa su “Panorama”. Due persone hanno segnato più di altre la lunga vita di Giulio Andreotti: Alcide De Gasperi e Gian Carlo Caselli. L’accostamento può apparire eccessivo, eppure si stenta a trovare una sintesi diversa di 70 anni di storia italiana, anzi andreottiana, cominciata da giovanissimo sottosegretario dello statista dc nel Dopoguerra e conclusa con gli echi dei processi per mafia cui Andreotti è stato sottoposto dagli anni Novanta. Ma ogni decennio lo ha visto protagonista.
Dai Quaranta ai Sessanta. Sottosegretario alla presidenza del Consiglio a 28 anni, nel 1946, e ministro per la prima volta a 36 anni, nel 1954, quando guidò il Viminale, Andreotti in quegli anni badò al suo collegio nel Frusinate e a costruire la sua corrente all’interno della Democrazia cristiana, corrente conservatrice e molto vicina al Vaticano. Gli anni Sessanta sono anche gli anni dello scandalo Sifar e del piano Solo, il tentato golpe del generale Giovanni De Lorenzo, scandalo che scoppiò mentre Andreotti era ministro della Difesa. E proprio dalla distruzione dei dossier del Sifar (il servizio segreto militare) nacque una delle tante polemiche che ha caratterizzato la sua vita, mentre continuavano le guerre sotterranee tra le correnti scudocrociate.
Settanta, gli anni di piombo. Un decennio terribile: gli anni di piombo, l’omicidio Moro, la morte di due Papi, il compromesso storico e il governo della “non sfiducia”, progenitore delle attuali “larghe intese”, mentre il mondo era dominato dalla Guerra fredda. Andreotti ha vissuto da protagonista quel periodo. Presidente del Consiglio per la prima volta nel 1972, ha dovuto confrontarsi (insieme con gli altri leader dc) con la costante ascesa del Partito comunista e con la contemporanea evoluzione della società, il cui simbolo è stato il referendum sul divorzio del 1974. La proposta di compromesso storico tra i due grandi partiti popolari, Dc e Pci, avanzata su Rinascita da Enrico Berlinguer subito dopo il golpe cileno del settembre 1973, e di cui ricorre quest’anno il quarantesimo anniversario, avrebbe attraversato la politica italiana fino al luglio 1976. Caduto il governo Moro, dopo il grande successo del Pci alle elezioni politiche fu proprio Andreotti a presiedere nel luglio di quell’anno il primo governo della “non sfiducia”, un monocolore dc con l’appoggio esterno di quello che si definiva “arco costituzionale”: tutti (anche il Pci) tranne il Msi. E un filo strettissimo legò Andreotti alla tragedia Moro. Dopo la caduta di quel governo, fu proprio Aldo Moro a tessere la tela di nuove “larghe intese” e certamente non fu un caso che venne rapito il 16 marzo, mentre stava andando a Montecitorio per la fiducia che un altro governo Andreotti avrebbe, comunque, di lì a poco ottenuto ancora una volta con l’astensione del Pci. Erano gli anni della “strategia dei due forni”, una delle “invenzioni” andreottiane: la Dc, era la tesi, doveva alternativamente scegliere di accordarsi con il Pci o con Psi a seconda delle convenienze del momento. Tesi che, ovviamente, non piacque molto a Bettino Craxi, dal 1976 segretario socialista.
Ottanta, gli anni del Caf. Quel camper è passato alla storia. Durante il congresso del Psi nel gennaio 1981 Bettino Craxi e Arnaldo Forlani stilarono appunto il “patto del camper” da cui nacque il pentapartito (che univa anche Psdi, Pli e Pri) grazie al quale i partiti laici entravano nell’alternanza di governo. Andreotti “benedì” l’accordo che sancì la nascita del Caf, acronimo dei cognomi dei tre leader. Quelli furono però anche anni difficili sul fronte internazionale, molto prima della caduta del Muro di Berlino. Andreotti era ministro degli Esteri quando ci fu la crisi di Sigonella con gli Stati Uniti nella quale il premier, Bettino Craxi, com’è noto mostrò il polso di ferro impedendo agli americani di arrestare sul territorio italiano i dirottatori dell’Achille Lauro. Se fu Craxi il personaggio centrale di quelle convulse ore, Andreotti, che ne condivise le scelte, è stato alcune volte criticato per una politica estera considerata troppo filoaraba. In un’intervista l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini disse che in realtà era nello stesso tempo filoisraeliano: la sostanza stava nella posizione geostrategica della Penisola, collocata tra “l’acqua santa e l’acqua salata” come spiegò negli anni successivi lo stesso Andreotti con la consueta ironia.
Novanta, dal sogno Quirinale ai processi. Gli anni Novanta erano cominciati bene perché nel 1991 Andreotti fu nominato senatore a vita. Ma l’anno successivo cambiò tutto: mentre cominciava Mani pulite (che non l’ha mai sfiorato), coltivò il sogno della presidenza della Repubblica sperando di succedere a Francesco Cossiga, dimessosi alla fine di aprile. La notizia della strage di Capaci, con la morte di Giovanni Falcone e della moglie Francesca Morvillo, lo raggiunse nel suo studio. Lo videro impallidire e capì che non sarebbe mai andato al Quirinale. Mandò i suoi collaboratori più stretti dai vertici del Pds: il sottosegretario Nino Cristofori avvertì Claudio Petruccioli, braccio destro di Achille Occhetto, e il portavoce Stefano Andreani si recò da Luciano Violante. “L’attentato è stato fatto per bloccarmi” fece dire Andreotti. Dei processi per mafia si continuerà a scrivere per anni. Gian Carlo Caselli, oggi procuratore di Torino, si insediò a Palermo il 15 gennaio 1993, proprio il giorno in cui fu arrestato Totò Riina. E nei mesi immediatamente successivi la procura di Palermo cominciò a indagare su Andreotti per i suoi presunti rapporti con Cosa nostra. Tra feroci polemiche e incredulità e dopo un’assoluzione in primo grado nell’ottobre 1999, Andreotti fu condannato in appello per associazione per delinquere fino al 1980, reato ormai prescritto, mentre fu confermata l’assoluzione per gli anni successivi. Caselli aveva lasciato la procura di Palermo nel luglio 1999, pochi mesi prima dell’assoluzione di Andreotti. Molti videro nella scelta la consapevolezza che anni di indagini e di veleni non avrebbero prodotto il risultato sperato (dalla procura), anche se ovviamente Caselli ha sempre negato. Andreotti fu poi assolto anche dall’accusa di omicidio del giornalista Mino Pecorella: la Cassazione nel 2002 annullò senza rinvio la condanna in appello, confermando l’assoluzione in primo grado. Nella ventennale guerra tra politica e giustizia, però, l’inchiesta palermitana è una pietra miliare: da un lato una procura convinta di aver trovato il “terzo livello”, i capi politici della mafia; dall’altro un imputato modello incredulo, ma rispettoso della giustizia. Certamente i riconosciuti contatti fino al 1980 confermano un modo di fare politica che dimostrava una sottovalutazione del fenomeno mafioso. Nello stesso tempo, insistere sul bacio a Riina è stata a sua volta la prova di voler credere a qualunque episodio pur di poter brandire una condanna. Molto politica, prima che giudiziaria. Gli ultimi anni. Le assoluzioni, arrivate “in vita” come da lui auspicato, lo hanno fatto tornare ai suoi studi e alla politica. Non quella attiva, ma quella parlamentare. Sempre presente in aula e nella “sua” commissione Esteri del Senato, dove ascoltava e veniva ascoltato con attenzione. La sua vita andrà ancora studiata a fondo, se si vorrà davvero capire l’Italia.
Ospite della puntata di lunedì 6 maggio 2013, di Un giorno da pecora, programma radiofonico in onda su Radio 2, è stato Vittorio Sgarbi, l'irriverente polemista che ha fatto del turpiloquio un marchio di fabbrica. Su Giulio Andreotti, scomparso proprio oggi, dice: "Sono stato il primo a difendere Andreotti dai magistrati, non lo riceveva più nessuno a parte il Vaticano", rivela. Riguardo le accuse di mafia che spesso hanno lambito Andreotti, il critico d'arte afferma: "La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Per tacitare l'irruento Sgarbi, il conduttore Claudio Sabelli Fioretti ha invitato in trasmissione anche la mamma, l'87enne Rina Cavallini, l'unica a riuscire a zittire Sgarbi, che la ascolta in religioso silenzio. Sul rapporto con la madre confida: "Mia madre pensava fossi stupido perché fino a due anni non parlavo. Poi, quando ho iniziato...". Quindi spiega il motivo dei suoi sbrocchi in televisione: "Mi incazzo quando il mio interlocutore fa ragionamenti illogici o stupidi".
L'immortale distrutto dai pm e ucciso dall'Italia dell'odio. L'inchiesta di Palermo per collusioni mafiose fu un processo politico mascherato: fu abbandonato da tutti quelli che erano certi della sua condanna. E i forcaioli non lo lasciano riposare in pace neppure nel giorno della scomparsa, scrive Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Giulio Andreotti è morto due volte: una biologicamente il 6 maggio 2013; l'altra, moralmente e politicamente, vent'anni prima il 27 marzo 1993. Fu allora infatti che una azione violenta lo travolse mascherando da regolare indagine giudiziaria una contrapposizione etica e ideologica. Andreotti è il simbolo dell'Italia che non trova pace e verità neanche nel giorno della scomparsa di un uomo di 94 anni. Sono di ieri sera le accuse vergognose di quella parte di Paese che ha approfittato della sua morte per colpirlo ancora, per rilanciare pettegolezzi infamanti, frutto di una perversione fanatica paragonabile a quella che negli stessi giorni del 1993 sconvolgeva l'Algeria. Accosto due situazioni così lontane, di entrambe le quali fui testimone attivo, perché nel 1994, presidente della commissione Cultura della Camera dei deputati, vennero a trovarmi l'ambasciatore e alcuni esponenti politici «laici» dell'Algeria mostrandomi fotografie raccapriccianti di violenze e stragi con madri e bambini uccisi con efferata crudeltà, teste e arti mozzi, sventramenti: uno scenario di guerra. Non mi risultavano conflitti in Algeria e chiesi ragioni di tanta violenza. Mi fu spiegato che si trattava di un «regolamento dei conti» fra musulmani e musulmani, tra fanatici religiosi e osservanti moderati ancora legati alla tolleranza derivata dagli anni dell'occupazione francese. La matrice della violenza era chiara. Dopo l'indipendenza il ripristino delle tradizioni aveva determinato una riabilitazione religiosa attraverso alcuni maestri inviati dall'Iran a insegnare le leggi del Corano nelle Madraze. I bambini educati in quelle scuole a una concezione religiosa integra e pura sarebbero diventati, una volta adulti, titolari di un rigore e delle conseguenti azioni punitive contro i non abbastanza osservanti. Perché faccio questo parallelo? Perché, gli anni della contestazione studentesca, a partire dal 1968, e ancor prima con la denuncia delle «trame» del Palazzo da parte di Pier Paolo Pasolini, avevano fatto crescere una generazione convinta di dover cambiare il mondo e di dover abbattere i santuari, fra i quali la Democrazia cristiana e i suoi inossidabili esponenti. Da questo clima derivò, ovviamente, l'assassinio di Aldo Moro (ma già allora l'obbiettivo doveva essere il meglio protetto Andreotti) attraverso un vero e proprio processo alla Democrazia cristiana da parte delle Brigate Rosse. Forme estreme, violente, ma radicate nella convinzione che il potere politico fosse dietro qualunque misfatto: stragi di Stato, mafia, servizi segreti, P2. Con la P2, colossale invenzione di un magistrato, senza un solo condannato (sarebbe stato difficile, essendovi fra gli iscritti, il generale Dalla Chiesa, Roberto Gervaso, Maurizio Costanzo, Alighiero Noschese, per le comiche finali), cominciò l'interventismo giudiziario, per riconoscere i metodi del quale dovrebbe essere letta nelle scuole la sentenza di Cassazione che proscioglie tutti gli imputati dall'accusa di associazione segreta e da ogni altra responsabilità penalmente rilevante. L'inchiesta fu così rumorosa che ancora oggi «piduista» è ritenuta un'ingiuria. E, con tangentopoli e la fine di Craxi, arrivò anche il momento di Andreotti, che non poteva essere colpito per corruzione o per finanziamenti illeciti. Così, con perfetto coordinamento, l'azione partì da Palermo. Andreotti, come avviene nelle rivoluzioni, fu accusato di tutto: di associazione mafiosa e di assassinio. Quelle accuse che ieri hanno imperversato per tutta la giornata: internet e soprattutto i social network hanno vomitato odio ripescando le storie di quegli anni senza possibilità di contraddittorio e dando per verità assodate le congetture dei magistrati. Giornali come il Fatto Quotidiano, rappresentanti dell'Italia giustiziera, hanno parlato del processo distorcendo la verità. Fa ridere che si parli tanto di pacificazione politica per gli ultimi vent'anni quando Andreotti è vittima persino da morto del contrario della pace, cioè dell'odio. Quello di Palermo non era un processo letterario, non era un processo alla storia, ma un vero e proprio processo penale. Quello che non era cambiato era Caselli, il pubblico ministero, che, come tutti noi, da studente all'università, da militante di partito, aveva sempre visto Andreotti come Belzebù, come il «grande vecchio», e non poteva lasciarsi sfuggire l'occasione di poterlo processare veramente, da magistrato. La mafia voleva far pagare ad Andreotti la indisponibilità di intercorsa trattativa dopo anni, per tutti i partiti, di implicazioni e di sostegni elettorali. Ma perché solo ad Andreotti e non ai tanti altri rappresentanti politici? Il processo allo Stato doveva essere esemplare, non diversamente da quello rivoluzionario che portò alla morte di Moro. Ma questa volta non erano le Brigate Rosse, era un vero e proprio tribunale della Repubblica con pubblici ministeri e giudici veri. E di cosa dibattevano come prova regina? Del bacio tra Andreotti e Riina a casa di uno dei Salvo. Intanto, tutto appariva a me irrituale e irregolare. Ogni giorno, con pochissimi altri (uno dei quali il coraggioso Lino Iannuzzi), notavo incongruenze e contraddizioni. Perché Andreotti doveva essere processato a Palermo come capo corrente di un partito quando tutta l'attività politica si era svolta a Roma e il suo collegio elettorale era stato in Ciociaria? Dopo essere stato bruciato dal Parlamento come presidente della Repubblica, fu indagato dalla magistratura a Perugia per l'omicidio Pecorelli e a Palermo per associazione mafiosa. Per dieci anni si difese, essendo di fatto degradato da deputato a imputato, e perdendo ogni ruolo politico. In quegli anni fu abbandonato da tutti che erano certi, indipendentemente dalla colpa, della sua condanna. Ma la condanna è il processo stesso. Andreotti era diventato un appestato, non meritevole di alcuna continuità intellettuale o politica. Andreotti era il «Male». In certi momenti, quando smontavo nella mia trasmissione «Sgarbi quotidiani» alcune ridicole accuse care a Caselli, come quella di essersi recato in visita a un mafioso, a Terrasini, alla guida di una Panda (lui che probabilmente non aveva patente), mi sembrava che ogni limite fosse superato, e pure il senso del ridicolo. Ma mi sbagliavo: tutto era maledettamente vero. Alla fine fu assolto. Ma la formula non poteva essere più ambigua per non penalizzare il suo accusatore. Così si inventò che i reati contestati a Andreotti fino al 1980 erano prescritti, e lui risultava assolto soltanto per quelli che gli erano stato attribuiti dall'80 al '92. Una assoluzione salomonica per non sconfessare il grande accusatore. Ma ingiusta e insensata. Perché ciò che è prescritto non può essere considerato reato, in assenza di quella verità giudiziaria che si definisce soltanto con il dibattimento che, a evidenza, a reati prescritti, non vi fu. E intanto Andreotti assolto, con riserva, era già morto. E oggi nel coro di quelli che lo rimpiangono e lo onorano mancano le scuse e il pentimento di quelli che lo avevano accusato fantasiosamente e ingiustamente in nome della lotta politica. Quindi non della giustizia.
"I miei 11 anni di imputato per mafia". Un'intervista rivelatrice al sette volte presidente del Consiglio dopo l'assoluzione del 2004 rilasciata a Maurizio Tortorella e pubblicata su Panorama del 21 ottobre 2004. Tremilaottocentoquarantadue giorni: tanto è durata la vicenda giudiziaria di Giulio Andreotti, senatore a vita, sette volte presidente del Consiglio, accusato d'omicidio a Perugia e d'associazione mafiosa a Palermo. Il 15 ottobre la Cassazione lo ha liberato definitivamente per la seconda volta: a 84 anni, 11 dei quali trascorsi da imputato, Andreotti non è né il mandante dell'assassinio del giornalista Mino Pecorelli, né il sodale dei mafiosi siciliani. Anche dopo l'assoluzione, però, le polemiche non si sono placatew. Gian Carlo Caselli, ex procuratore di Palermo e magistrato simbolo del processo palermitano ad Andreotti, insiste: «È stato mafioso» scrive sulla Stampa, assicurando che la Cassazione ha «confermato che fino al 1980 l'imputato ha commesso il reato di associazione con i boss dell'epoca». Franco Coppi e Giulia Bongiorno, i due penalisti del senatore, gli rispondono che «è oggettivamente impossibile prevedere che cosa scriverà la Cassazione: non ci sono le motivazioni. Ma il procuratore generale della Cassazione ha chiesto di modificare proprio quel punto della sentenza d'appello». Lui, Andreotti, sul tema non parla. Il giorno dell'assoluzione si è detto felice d'essere arrivato vivo alla fine dei suoi processi. Poi non ha aggiunto molto. Panorama lo ha intervistato in esclusiva.
Vuole fare un bilancio esistenziale dei suoi due processi?
«Li ho vissuti con amara sorpresa, anche per il modo ambiguo con cui è nato il secondo, quello di Palermo. Ma, ringraziando Dio, ho resistito.»
Perché crede di essere stato sottoposto a questo calvario giudiziario?
«Forse ero da troppo tempo ballerina di prima fila e c'era chi voleva cambiare del tutto lo spettacolo.»
Lei ha parlato di un «mandante occulto»: chi è? S'è accennato ad ambienti americani: è partito tutto oltreoceano? O pensa a suoi avversari politici in Italia?
«Un mandante occulto: che vi sia ciascun lo dice... con quel che segue. Qualche venatura d'oltreoceano c'è, ma non governativa. C'è un pentito, o meglio, spero che lo sia, a doppio servizio.»
Di quale pentito parla?
«Francesco Marino Mannoia: collabora con la giustizia italiana e con quella americana e mi incuriosisce. Quanto agli Stati Uniti, però, ho avuto in processo la testimonianza molto gratificante di tre ambasciatori degli Stati Uniti: Maxwell Rabb, Peter Secchia e Vernon Walters. E questo è più che sufficiente.»
Per il suo processo palermitano lei ha attribuito qualche responsabilità a Luciano Violante. Conferma?
«Certamente fu lui a dare corso a una telefonata anonima, investendo il tribunale di Palermo che non c'entrava niente. Ma non porto rancore a nessuno. La Scrittura dice: «Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva».»
Dopo l'assoluzione lei ha dichiarato: «Qualcuno, da oggi, dormirà un po' meno tranquillo». A chi si riferiva? Ai pm di Palermo? Ai mafiosi pentiti che l'hanno accusata? O al «mandante occulto»?
«Lasciamo perdere. Lo strano di questa vicenda è la sua prefabbricazione: nella sentenza di rinvio a giudizio a Palermo si dice: «Dopo due udienze». Ma l'udienza fu una sola. Avevano preparato prima il modulo?»
Cosa direbbe al suo primo accusatore, Tommaso Buscetta, se fosse vivo?
«Buscetta non mi attribuì mai il delitto Pecorelli: è stata una montatura altrui. Comunque, Dio l'abbia in gloria.»
Nell'assoluzione resta la macchia della prescrizione per i suoi presunti collegamenti mafiosi fino alla primavera del 1980. Spera che le motivazioni possano portare qualche sorpresa positiva per lei?
«Certamente lo spero. Quel che mi ha colpito di più, in Cassazione, sono state le parole del procuratore generale, Mauro Iacoviello. Abituato da anni a pm che si schieravano sempre a sostegno dell'ipotesi accusatoria, sono rimasto favorevolmente impressionato da un rappresentante dell'accusa che invece l'ha demolita pezzo per pezzo, chiedendo addirittura il rigetto del ricorso dei suoi colleghi pm. Ma Iacoviello ha anche attaccato proprio la parte della sentenza d'appello relativa alla prescrizione, in cui si ritiene provato l'incontro alla tenuta di caccia.»
Lei parla del famoso, presunto incontro tra lei e il boss Stefano Bontate nella sua tenuta di caccia nel Catanese?
«Sì. Il pentito Angelo Siino aveva indicato la data dell'incontro tra fine giugno e inizio luglio 1979. Io ho dimostrato la mia impossibilità di essere in Sicilia in quel periodo: ero in Giappone e in Russia. Il tribunale m'ha dato ragione. In appello i pm hanno detto che Siino s'era sbagliato. Già questo mi sembra piuttosto anomalo come argomento: se il pentito viene smentito, che senso ha dire che ha sbagliato solo le date? Ma comunque i miei avvocati hanno chiesto di produrre tutti i documenti diretti a provare dove mi trovassi in tutte le altre possibili date diverse da quelle indicate da Siino. Ero presidente del Consiglio e quindi potevo agevolmente ricostruire i miei impegni. La documentazione non è stata accettata, ma la sentenza d'appello afferma che l'incontro potrebbe essere avvenuto in un altro momento. Cioè in una data in cui avrei potuto dimostrare che ero altrove. E per questo il procuratore generale ha parlato di violazione di diritto di difesa.»
Caselli, però, sostiene che la Cassazione ha «confermato l'accusa di un Andreotti mafioso fino al 1980».
«Non voglio rispondergli. Per me il processo è finito. Ho cose molto più serie da fare. L'assoluzione ha smentito oltre 40 pentiti.»
Questo risultato dovrebbe indurre qualche riflessione sul loro impiego?
«Sì: maggiore prudenza. E anche un po' più di risparmio di denaro pubblico. Del resto, già la Corte d'appello di Palermo, assolvendomi, ha scritto che i pentiti, contro di me, potrebbero essere stati mossi «da antipatia politica, dal particolarissimo interesse accusatorio degli inquirenti o dal cinico perseguimento di benefici personali». E nessuna delle tre ipotesi mi pare meritevole.»
Lei ha mai provato a fare un calcolo di quanto, in questi 11 anni, sia costata l'attività giudiziaria contro l'imputato Andreotti?
«Il calcolo è impossibile, e come contribuente mi preoccupa. Non lo facciano più.»
Giancarlo Caselli dice: non celebrate i 100 anni di Andreotti. È un mafioso. Prescritto ma mafioso…La polemica sul Divo Giulio, scrive Davide Varì il 6 Marzo 2019 su Il Dubbio. Che la prescrizione sia una trovata degli avvocati per fuggire dal processo e non un istituto giuridico che tutela i cittadini dall’arbitrio dei magistrati, è ormai una legge scolpita nei tribunali mediatico- giudiziari di mezza Italia. Eppure fa sempre un certo effetto scoprire che a degradare la prescrizione, quasi fosse un artificio dei “soliti azzeccagarbugli”, sia un magistrato. Ma fa ancora più effetto quando si scopre che il magistrato in questione è del livello di Giancarlo Caselli. Il fatto è che all’ex capo della procura di Palermo proprio non vanno giù le celebrazioni per il centenario della nascita di Giulio Andreotti. Caselli è infatti convinto che l’ultima e definitiva parola sulla storia politica del Divo Giulio – e dunque su un bel pezzo di storia italiana – l’ha scritta la sua procura quando ha dato il La a quello che lui stesso definisce “il padre di tutti i processi: quello al senatore Giulio Andreotti”. “Un processo – ricorda Caselli – che si è concluso con sentenza definitiva della Cassazione, decretando – una prova dopo l’altra – che l’imputato ha commesso, fino alla primavera del 1980, il delitto di partecipazione all’associazione a delinquere Cosa nostra. Delitto prescritto, ma certamente commesso”. Proprio così dice il dottor Caselli: “delitto prescritto ma commesso”. Poi Caselli ringrazia il parlamentare europeo dei 5 Stelle Ignazio Corrao, l’unico che “ha eccepito” sull’opportunità di celebrare Andreotti a Bruxelles, e bacchetta i “neomacchiavellici presenti a destra come a sinistra, sempre pronti a non distinguere la politica dalla morale, ma a contrapporre l’una all’altra’. Cosa incomprensibile per chi fatica a separare giustizia e morale…
Caro Caselli, su Andreotti sbaglia…Carlo Caselli, in occasione del centenario della nascita di Giulio Andreotti, ritorna sulle vicende giudiziarie dell’ex presidente del Consiglio. Senza, però tenere conto della sentenza della Cassazione, scrive Francesco Damato il 15 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Per quanto messa ampiamente nel conto, si è rivelata superiore al previsto l’insofferenza di Gian Carlo Caselli per le celebrazioni mediatiche ed anche istituzionali – com’è avvenuto ieri alla Biblioteca Giovanni Spadolini al Senato – del centenario della nascita del suo ex ed ormai defunto imputato eccellente di mafia Giulio Andreotti. Già intervenuto con largo anticipo lunedì 7 gennaio sul Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, dov’è di casa, con un duro articolo di monito a non “stravolgere la verità” e “truffare il popolo italiano in nome del quale si pronunciano le sentenze”, Caselli ha voluto scrivere una lettera al Corriere della Sera che l’ha pubblicata sabato 12 gennaio – per contestare la rappresentazione quanto meno scettica, fatta su quel giornale da Antonio Polito, di un Andreotti assolto per modo di dire. In particolare, assolto dall’accusa formulata proprio da Caselli, quand’era capo della Procura di Palermo, di concorso esterno in associazione mafiosa ma prescritto per i fatti, pur accertati secondo lo stesso Caselli fino alla primavera del 1980, di associazione a delinquere. Che era il reato contestabile appunto sino a 39 anni fa, prima che nel codice penale entrasse quello specifico di associazione mafiosa. A Polito, come più in generale aveva fatto sul giornale di Travaglio prevenendo quanti si accingevano ad occuparsi della lunga vicenda processuale di Andreotti, durata ben undici anni, Caselli è tornato a rileggere, diciamo cosi, testo alla mano, la sentenza d’appello in cui all’ex presidente del Consiglio sarebbero stati fatti barba e capelli per i suoi rapporti con esponenti neppure secondari della mafia. In particolare, l’ex magistrato ora in pensione ha indicato come emblematici “due incontri” di Andreotti, presenti il suo luogotenente in Sicilia Salvo Lima, Vito Ciancimino e i cugini Salvo, col “capo dei capi” di mafia Stefano Bontate per discutere anche dell’assassinio del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, suo collega di partito e fratello dell’attuale presidente della Repubblica, Sergio: assassinio compiuto la mattina della Befana proprio del 1980. Di cui è stato quindi celebrato in questi giorni il trentanovesimo anniversario, con una intensità però mediatica e politica che ha dato a qualcuno, a torto o a ragione, il pretesto per contrapporlo in qualche modo alla ricorrenza del centenario della nascita di Andreotti. A quest’ultimo proprio Caselli, sempre riferendosi alla sentenza d’appello, e di revisione di quella pienamente assolutoria di primo grado, emessa a Palermo nel processo da lui promosso, è tornato a rimproverare di non avere usato le informazioni probabilmente ricevute da Bontate, morto l’anno dopo, per aiutare la magistratura a fare piena luce sull’assassinio di Piersanti Mattarella. Che “aveva pagato con la vita il coraggio di essersi opposto a Cosa Nostra”, ha ricordato in modo questa volta davvero pertinente l’ex magistrato anche nel primo intervento sul Fatto Quotidiano. Implacabile nella sua reazione al pur “interessante” articolo dell’editorialista e vice direttore del Corriere della Sera, Caselli ha citato la sentenza d’appello del 2003 per incidere anche sulle colonne del più diffuso giornale italiano che Andreotti “con la sua condotta ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione col sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo, manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi”. Il buon Polito ha proposto un po’ ironicamente in un brevissimo corsivo di replica a Caselli una soluzione di “compromesso” alla disputa sulla conclusione del processo di mafia al 7 volte presidente del Consiglio e 27 volte ministro: “non condannato”. Cioè, non assolto e neppure condannato. Ignoro, almeno sino ad ora, la reazione di Caselli al “lodo” Polito. Nel mio piccolo, molto piccolo per carità, memore anche di un’analoga polemica avuta con Caselli nel 2008 sulle colonne del Tempo, preferisco seguire il percorso suggerito in questi giorni su facebook da un figlio di Andreotti, Stefano. Che ha riproposto all’attenzione del pubblico navigante la lettera scritta proprio al Tempo in quell’occasione dagli avvocati dell’ex imputato eccellente, allora peraltro ancora in vita. Dal quale ho motivo di ritenere che fosse venuta l’idea di quella missiva per non intervenire direttamente lui nella polemica, come io invece gli avevo chiesto ottenendo una risposta interlocutoria. Gli avvocati Giulia Bongiorno e Franco Coppi, nell’ordine in cui firmarono la lettera, non credo solo per ragioni di cavalleria da parte del professore e titolare dello studio legale, visto il particolare impegno messo nella difesa dell’ex presidente del Consiglio dall’attuale ministra della Funzione pubblica, contestarono a Caselli di fermarsi sempre, nei suoi interventi critici sul loro assistito, alla sentenza d’appello. E di limitarsi ad accennare al terzo e definitivo verdetto, quello della Cassazione emesso alla fine dell’anno successivo, come ad una pura e semplice ratifica dell’altro. Invece nella sentenza della Cassazione si trova ciò che Caselli, secondo Stefano Andreotti, cerca sempre di tenere per sé, sapendo forse che chi lo legge sui giornali, o lo sente alla radio o in televisione, difficilmente ha poi la voglia e il tempo di controllare scrupolosamente gli atti. Si legge, in particolare, nelle carte della suprema Corte che da parte dei giudici di appello in ordine ai fatti prescritti “la ricostruzione e la valutazione dei singoli episodi è stata effettuata in base ad apprezzamenti e interpretazioni che possono anche non essere condivise”. Ancora più in particolare, nella sentenza davvero definitiva di un processo – non dimentichiamolo alla cui “autorizzazione” lo stesso imputato contribuì votando palesemente a favore nell’aula del Senato, e quindi rinunciando per la parte che lo interessava all’immunità ancora spettantegli in quel momento come parlamentare, è scritto che agli apprezzamenti e alle interpretazioni dei giudici d’appello, sempre in ordine ai fatti coperti dalla prescrizione, “sono contrapponibili altre dotate di uguale forza logica”. Non mi sembrano, francamente, parole e concetti di poco conto, ignorabili o sorvolabili in una polemica così aspra come quella che l’ex capo della Procura della Repubblica di Palermo usa condurre ogni volta che ne ha l’occasione parlando o scrivendo della vicenda giudiziaria di Andreotti. Caselli, si sa, avrebbe voluto che il senatore a vita, nonostante la lunghezza del procedimento cui era stato sottoposto, protrattosi – ripeto – per undici anni, ben oltre forse la “ragionevole durata” richiesta dall’articolo 111 della Costituzione nel nuovo testo in vigore dal 1999, rinunciasse anche alla prescrizione. E ancora gli contesta praticamente, anche da morto, di non averlo fatto. Una volta, andato a trovarlo a Palazzo Giustiniani in occasione di un compleanno, ne parlai con Andreotti, reduce da una fastidiosa influenza. Ma più che le sue parole, oggi facilmente confutabili dai suoi irriducibili avversari perché sarebbero postume, preferisco riferire quelle appena pronunciate dalla figlia Serena in una intervista ai tre giornali – Il Giorno, La Nazione e Il Resto del Carlino – del gruppo Riffeser: “Avremmo voluto batterci per ottenere una forma di completo scagionamento, di piena innocenza. L’abbiamo detto al babbo, ma lui e la mamma erano stanchi e hanno detto basta. Fermiamoci, va bene così, fu la risposta”. La mamma di Serena, Livia, dopo tante apprensioni e amarezze sarebbe stata peraltro dolorosamente colpita da una inguaribile malattia neurologica. Non dico di più per dare un’idea di ciò che accadde in quei tempi ad Andreotti e alla sua famiglia, a dispetto della tranquillità olimpica, o quasi, che l’ex presidente del Consiglio ostentava in pubblico, e nelle aule processuali, o dintorni, che egli frequentava con lo scrupolo di sempre. È impressionante, a quest’ultimo proposito, il racconto che in questi giorni ha fatto un amico giornalista dell’allora imputato di una serata trascorsa con lui in un albergo di Palermo, fra un’udienza processuale e l’altra. Andreotti trovava il tempo, e la voglia, di parlare degli anni giovanili in cui da sottosegretario di Alcide De Gasperi alla Presidenza del Consiglio si occupava anche di spettacolo e frequentava attori e attrici incorrendo una volta nelle proteste della moglie. Che si ingelosì davanti ad una foto che lo ritraeva sorridente a Venezia con Anna Magnani, allora legata a Roberto Rossellini. Che prima ancora di conoscere e di unirsi a Ingrid Bergman già faceva soffrire, diciamo così, la grande attrice romana. Francamente, anche alla luce delle postille della Cassazione su cui Caselli di solito tace, non mi sembra giusto – e neppure umano, aggiungerei – trattare ancora Andreotti, a sei anni circa della morte, come un imputato e partecipare ad una caccia contro di lui alla maniera un po’ dell’ispettore di polizia Javert con l’ex galeotto Jean Valjean nei Miserabili di Victor Hugo. E con questo, scusandomi in anticipo con Caselli se dovesse sentirsi ingiustamente colpito da questo richiamo letterario, davvero completo e chiudo la rievocazione di Andreotti cominciata martedì scorso 8 gennaio su queste pagine, in vista del centenario della sua nascita. Che riposi davvero e finalmente in pace, avvolto nella bandiera pur metaforica dell’articolo 59 della Costituzione, applicatogli nella nomina a senatore a vita per avere “illustrato la Patria”, il protagonista di tantissimi anni della politica italiana. Cui qualcuno cerca ogni tanto di paragonare i davvero, e sotto tutti gli aspetti, lontanissimi attori di oggi, ora accomunandogli l’ex presidente del Consiglio, pure lui, Mario Monti per la sua ironia pungente, ora il presidente del Consiglio in carica Giuseppe Conte per le mediazioni con cui si sta cimentando, ora addirittura il giovanissimo vice presidente grillino del Consiglio Luigi Di Maio per la sua agilità di posizionamento. Ha fatto quest’ultimo paragone persino in un saggio il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana mettendo a dura prova la sedia alla quale ero appoggiato leggendolo.
Vi racconto tutti gli enigmi dell'"amerikano" Andreotti, scrive Paolo Guzzanti, Sabato 12/01/2019, su "Il Giornale". Avrebbe cent'anni e lo conoscevo bene: Giulio Andreotti detto anche il divo Giulio, l'uomo sospettato di essere dietro ogni enigma anzi, di essere lui stesso l'enigma della Prima Repubblica. A lui è legata la memoria di quella democrazia italiana del Dopoguerra e dell'età dorata della ricostruzione e delle magnerie, che siamo costretti a rimpiangere visto come è andata per ora a finire. Strano uomo, sofisticato uomo. Elegante e gobbo, mai sfarzoso ma mai povero, fortissimo senso della famiglia, cattolico autentico, a messa ogni mattina all'alba, sempre presente, sempre in anticipo, sempre pronto alla battutina caustica, feroce, sminuzzante, un po' pretesca. L'ho avuto come nemico acerrimo nella Commissione Mitrokhin l'unica di cui abbia fatto parte nella sua lunghissima vita ed era alleato dei comunisti e post-comunisti. Anche il figlio mi sembra l'abbia detto recentemente: Andreotti, come del resto il suo amico-nemico Francesco Cossiga, a forza di studiare il nemico della Guerra Fredda tra occidente filoamericano e oriente filorusso, aveva finito con l'andare a letto col nemico e diventare uno di loro. Scambi di lettere, bigliettini, citazioni, festeggiamenti. Certo, ricordo Andreotti giovane deputato: tutti i conventi di suore e seminaristi e frati avevano l'ordine di votarlo. Pupillo di Pio XII Pacelli, il papa del bombardamento di Roma, si era rifugiato come Eugenio Scalfari («Italo Calvino aveva la montagna dietro casa, io avevo il Vaticano», mi disse un anno fa il fondatore di Repubblica) nelle biblioteche papali dove stazionavano fior di antifascisti e molti rifugiati ebrei. Lì conobbe Alcide De Gasperi che era l'astro nascente della Democrazia cristiana in conflitto frontale con il Partito comunista italiano di Palmiro Togliatti agente di Stalin fin da quando si chiamava «Ercoli» ed era il numero due del Comintern. Giulio era stato un bambino vestito di velluto e giocava nel rione Parione dietro a piazza Navona con mia madre e con mio zio. E di questi antichi compagni di giochi mi chiedeva spesso in attesa dell'inizio delle nostre sedute di Commissione sulle spie sovietiche, dove fece di tutto per sabotare i nostri lavori e ci riuscì. Poi ci vedevamo in Senato, aveva dovuto accettare per forza il ruolo di senatore a vita dal bizzarro Cossiga che così volle metterlo fuori gara e al Senato Andreotti scriveva sempre, continuamente, vecchissimo e puntualissimo, con la sua scrittura nitida, con penna stilografica sui foglietti bianchi e senza righe del Senato. Ha lasciato il velluto liso, in quel banco di prima fila, perché lui c'era sempre, era sempre il primo e quando prendeva la parola nessun presidente osava misurargli il tempo: parlava quanto gli pareva e usava le battute, l'ironia, anche e specialmente quella parlata romana delle antiche famiglie-bene, ma anche povere. Mia nonna e sua madre erano diventate amiche perché avevano i figli al collegio degli orfani e quando ero un adolescente detestavo questo politico onnipotente e setoso che saliva da noi a prendere un caffè. Era l'epoca, fine anni Cinquanta e tutti gli anni Sessanta, in cui Giulio era considerato l'«Amerikano» con la kappa, l'uomo dei servizi segreti, della Cia, del Vaticano, della Curia, di coloro che facevano contratti con il ministero della Difesa, di cui spesso era titolare. Avendolo avuto intorno, prima come giornalista e poi come politico, per tutta la vita, credo si possa dire che Andreotti sia stato sovrastimato. Disse effettivamente tutte le frasi per cui andò celebre, prima fra tutte che «il potere logora chi non ce l'ha». Ma lui il potere lo perse. Quando era in corsa per il Quirinale, Cosa Nostra ammazzò il suo luogotenente in Sicilia Salvo Lima e gli stroncò le gambe. Era fuori, lo sapeva e sapeva anche quale sarebbe stato il passo successivo: lo avrebbero accusato di essere lui stesso un referente mafioso, di aver incontrato e baciato Totò Riina in un albergo a Palermo. Lo andai ad aspettare alle cinque del mattino sotto casa a Corso Vittorio la mattina successiva all'avviso di garanzia. Eravamo pochi cronistacci d'assalto e lo accompagnammo a messa. Era imperturbabile, o voleva sembrarlo. Con successo. Un po' meno imperturbabile fu quando la mia intervista al suo luogotenente romano Franco Evangelisti passata alla memoria come «'A Fra' che te serve?» costrinse il suddetto Evangelisti a dimettersi. Giulio gli sussurrò soltanto, davanti a testimoni, una invettiva: «Imbecille». Lo seguimmo anche alle sedute del processo a Palermo e Giulio era sempre uguale: puntuale, preciso, dimesso, con i suoi fogli bianchi, cordiale con i cronisti ma di poche parole. Fu assolto e considerò la cosa naturale, e giocò sempre con un certo fair play, anche se se la legava al dito per tutto, non dimenticava nulla, specialmente la vendetta quando il piatto non era più fumante. Era un grande amico di Giovanni Falcone e secondo me questa amicizia costò la vita a Falcone perché fu Andreotti me lo disse Cossiga a suggerire il nome di Falcone ormai ridotto alla direzione delle carceri in via Arenula, per aiutare i russi post sovietici a chiudere il rubinetto che trasferiva l'oro di Mosca in Sicilia dove era riciclato. Lui, Andreotti, non voleva esporsi con i comunisti da cui sperava ancora di avere il voto per il Quirinale, ma a Falcone fece avere attraverso la Farnesina i documenti necessari. E venne Capaci. E poi via d'Amelio. E al Quirinale andò Scalfaro. Fino allora il divo Giulio aveva duellato con Bettino Craxi, l'astro del socialismo anticomunista, quando però lui, Giulio, non era più anticomunista affatto. Gli americani, che avevano sostenuto la sua leadership negli anni più duri della Guerra Fredda, erano diventati sempre più diffidenti della sua politica personale che era filoaraba, filopalestinese, filosovietica. Con gli arabi aveva sempre trattato. E anche Aldo Moro aveva sempre trattato. La miracolosa incolumità italiana di fronte alle stragi arabe in Europa si deve alla politica aperturista della Democrazia cristiana che teneva i piedi in tutte le staffe: americana a Washington, amica della comunista Mosca, dei Palestinesi ovunque fosse possibile, con fortissima irritazione di Israele. Il suo rapporto con i comunisti era incestuoso: adorazione reciproca e cattiverie micidiali, accuse infamanti e poi strette di mano e abbracci coniugali. Gli americani si dice l'Fbi insieme a grandi procuratori fra cui Rudolph Giuliani oggi legale di Trump ordirono l'operazione Clean hands, in italiano «Mani Pulite» la cui vera storia nessuno ha mai voluto raccontare ma che si trova in pochi libri in inglese mai tradotti in Italia fra cui The Italian Guillotine di Stanton Burnett e Luca Mantovani. Sovrastimato come complottista, adorava essere sovrastimato. Scrittore facondo e non particolarmente attraente, pubblicò una quantità di libri di memorie e di retroscena non esplosivi. Ha avuto eleganza nel morire, restando praticamente da solo e passando un anno di crudeli sofferenze. Minimalista, minimizzava tutto ciò che lo riguardava. Della morte imminente disse solo «non sto troppo bene». È stato uno dei Dna della Repubblica e forse l'attore che lo rappresentava di più era Alberto Sordi. Detestava il film che Sorrentino fece su di lui e che lo mandò in bestia. Imprecò in silenzio e la mattina dopo si andò a confessare all'alba.
Andreotti e Cosa loro, scrive Piccole Note il 15 maggio 2018 su "Il Giornale". C’è stata nuova maretta riguardo la sentenza Andreotti, sulla quale val la pena spendere due righe. Sul Foglio, Maurizio Crippa stigmatizzava una scena della fiction di Pif, Pierfrancesco Diliberto, nel quale, subito dopo l’omicidio del presidente della regione siciliana Piersanti Mattarella, veniva registrato che Andreotti incontrava il boss Stefano Bontate. Ne è nata una polemica, nella quale i soliti ambiti hanno ribadito che quanto racconta Pif è veritiero, che la Cassazione ha registrato come avvenuti i due incontri di Andreotti con il boss, quindi Andreotti è mafioso. Sono tanti ad agitare questa sentenza per alimentare la leggenda nera contro Andreotti. Sì, è stato assolto, ma è mafioso lo stesso perché la Corte ha riconosciuto la sua appartenenza alla mafia fino all”80, anche se prescritta. Anzi, una volta mafioso, è mafioso per sempre, come da tesi della procura che pure è stata smantellata dalla Cassazione. Rileggiamo la sentenza della Cassazione, la quale ratifica senza entrare nel merito, la sola sentenza dell’Appello, ignorando del tutto il verdetto del primo grado che ha assolto Andreotti. Infatti, alla Cassazione, come si legge nella sentenza, non “è consentito scegliere quale delle due sentenze di merito sia più rispettosa dei consueti canoni ermeneutici”. Essa cioè può solo verificare la logica intrinseca e la non fallacia giuridica, diciamo così, dell’Appello (anche se, per assurdo, per chi scrive non tanto, fosse più veritiera la sentenza del primo grado). Cioè può solo valutare se la sentenza d’appello “è manifestamente carente di motivazione e/o di logica, e non già opporre alla logica valutazione degli atti […] una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica”. Ma al di là. La sentenza della Cassazione riporta, in sintesi, i contenuti della sentenza d’Appello, per analizzarne la ragionevolezza. La sentenza d’Appello, come da sintesi dei magistrati della Cassazione, rivela un asserito legame tra Giulio Andreotti e la mafia “moderata” (così nella sentenza), quella che faceva capo a Stefano Bontate; qualificata come una “disponibilità” di Andreotti, stante che non è stato rinvenuto nessun suo effettivo intervento a favore dei mafiosi. Secondo la Corte d’Appello, però, “Andreotti aveva oggettivamente sottovalutato la pericolosità dei suoi interlocutori, ma le sue certezze nei loro confronti si erano infrante tra la seconda parte del 1979 e l’inizio del 1980, allorché, chiamato a interessarsi della questione Mattarella [la mafia voleva ucciderlo perché la contrastava, ndr.], aveva indicato nella mediazione politica la possibile soluzione (fonte Francesco Marino Mannoia), che, tuttavia, dopo alcuni mesi, era stata del tutto disattesa dai mafiosi, i quali avevano assassinato il Presidente della Regione, scelta che aveva sgomentato Andreotti, il cui realismo politico non si spingeva fino a contemplare l’omicidio del possibile avversario.” Sempre secondo la Corte, “la drammatica disillusione, l’emozione suscitata dall’estrema gravità del tragico assassinio di Piersanti Mattarella, soppresso alla presenza dei familiari, e lo smacco provato nell’aver visto la sua indicazione disattesa spiegherebbero la sua decisione di ‘scendere’ a Palermo e di incontrare nuovamente gli interlocutori mafiosi per chiedere chiarimenti e non certo per felicitarsi della soluzione che pure era stata, in definitiva, foriera di notevoli vantaggi per il suo gruppo politico locale e per i suoi amici, tra cui Salvo Lima. I reclami e le critiche di Andreotti sarebbero stati, nell’occasione, tanto fermi e insistiti da suscitare l’irritazione di Bontate”, tanto che il boss lo minacciava. L’omicidio Mattarella avrebbe dunque “convinto Andreotti a distaccarsi in modo irreversibile e definitivo da Bontate e da tutto ciò che costui rappresentava”. Non solo: la disamina processuale indica irrevocabilmente che negli anni postumi “era emerso un sempre più incisivo impegno antimafia, condotto dall’imputato [Andreotti, ndr.] nella sede sua propria dell’attività politica”. Insomma, la stessa Corte di Cassazione smentisce gran parte della leggenda nera costruita contro Andreotti. Per la sentenza, Andreotti avrebbe intrattenuto rapporti con la mafia “moderata”, così nel testo (anche se non sono stati trovati riscontri di favori effettivamente resi, val la pena sottolinearlo). Egli però ne aveva sottovalutato la pericolosità, anche perché “il concomitante problema del terrorismo aveva costituito l’emergenza primaria per il Paese e, quindi, aveva assorbito l’attenzione degli uomini che, a vario titolo, ne incarnavano le istituzioni”. Come si vede, la sentenza d’Appello, che non condividiamo affatto nella parte in cui accenna ai rapporti intrattenuti da Andreotti con la mafia fino agli anni ’80, smaschera i grandi inquisitori che la sbandierano per alimentare la leggenda nera su Andreotti. A stare alla sentenza, tale narrazione è vera, ma fino a un certo punto, anzi…Ad oggi ci fermiamo qui, torneremo sul pentito Mannoia, il più credibile secondo la sentenza d’Appello, che proprio sulle sue dichiarazioni sta o cade. Ricordando che la sentenza non solo valuta la condotta di Andreotti prima dell’80 spregiudicata ma niente affatto sanguinaria, da cui anche la prescrizione, ma riconosce ad Andreotti il titolo di politico “antimafia” per gli anni a venire (bizzarro, vero?). Va ricordato. Alla prossima puntata. Ne vedrete delle belle.
Andreotti e Cosa Loro (2), scrive Piccole Note il 16 maggio 2018 su "Il Giornale". Nella nota precedente abbiamo accennato alla rilevanza che assumono, per la sentenza dell’Appello ratificata dalla Cassazione, i due incontri tra Andreotti e Bontate in merito all’omicidio del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella. Il primo sarebbe avvenuto nel 1979, “comunque in epoca posteriore all’omicidio Reina”, come affermava il pentito Marino Mannoia (Reina è stato ucciso l’8 marzo del ’79). In questo primo incontro Andreotti avrebbe cercato di dissuadere i boss dall’uccidere Mattarella.
Andreotti e la datazione dell’incontro per evitare l’omicidio Mattarella. La datazione di tale incontro, alquanto indeterminata, diventa nel tempo ancor più imprecisa, dal momento che la sentenza dell’Appello ha “esaminato la possibilità che il sen. Andreotti si fosse recato in Sicilia anche in giorni diversi da quelli indicati” in precedenza (il virgolettato è della sentenza della Cassazione). Già, perché prima Mannoia aveva indicato che Andreotti avrebbe incontrato Bontate nella primavera-estate del ’79 (vedi interrogatorio Mannoia). Poi, dopo che la difesa ha contrastato tale datazione, reputiamo con certa efficacia, il periodo di tempo nel quale sarebbe avvenuto tale incontro si dilata fino a comprendere tutto l’anno ’79, compreso l’autunno e l’inizio dell’inverno successivo. Il senatore Andreotti avrebbe voluto “documentare i propri movimenti negli ultimi mesi del 1979 e i propri impegni per il periodo compreso tra agosto e dicembre 1979”, si legge nella sentenza della Cassazione. Evidentemente voleva tentare di contrastare anche questa nuova datazione. Ma non ha potuto, perché la sua richiesta (istanza) è stata rigettata dalla Corte d’Appello. Un rigetto che, a stare a quanto si legge nella sentenza della Cassazione, non è stato motivato, data la discrezionalità che sul punto può esercitare il giudice. Infatti, la Cassazione si premura di specificare che il rigetto di un’istanza può non essere motivato se il giudice reputa che la motivazione del rigetto può essere “implicita e desumibile dalla stessa struttura argomentativa della sentenza d’Appello”. In forza di tale principio, la Cassazione ha rigettato il ricorso della difesa di Andreotti, che aveva contestato l’immotivato rigetto in quanto reputava avesse violato il principio del contraddittorio, proprio del dibattimento. Ma al di là delle contese giuridiche, i fatti sono questi: Mannoia dice che l’incontro tra Andreotti e Bontate si sarebbe svolto nella primavera-estate del ’79. Una datazione che la difesa contrasta producendo una documentazione relativa a quei mesi. In seguito, la datazione di tale presunto incontro si dilata fino a comprendere l’intero anno (tutti i mesi post omicidio Reina). La difesa di Andreotti allora chiede di integrare la documentazione riguardante gli impegni del proprio assistito, fino a comprendere l’intero arco temporale nel quale si sarebbe svolto il fatidico incontro. La Corte d’Appello rigetta senza fornire motivazione alcuna.
Il primo incontro con Bontate c’è stato perché è “logico”. Per la Cassazione va bene così. Anche perché resterebbe provato il secondo incontro, quello del 20 aprile del 1980, quando Andreotti sarebbe sceso in Sicilia per chiedere conto dell’omicidio Mattarella. Tale secondo incontro sarebbe quello al quale avrebbe partecipato direttamente il pentito Mannoia e ha trovato riscontro nelle parole di altri pentiti (scriveremo anche di questo, ma in altra sede). L’altro, il precedente, è raccontato dal solo Mannoia e per giunta gli sarebbe stato solo riferito, non vi avrebbe assistito. Né ha altri pentiti a sostegno. Sul punto, la sentenza della Cassazione recita così: “La dimostrazione dell’incontro successivo attribuisce significato alla dichiarazione “de relato” di Mannoia concernente il primo incontro e ne costituisce un riscontro logico”. In sostanza, se vero, perché riferito da più pentiti, che ci sarebbe stato il secondo incontro, nel quale il senatore Andreotti si sarebbe indignato per l’omicidio Mattarella, è vero anche il primo, seppur riferito “de relato” dal solo Mannoia, nel quale Andreotti avrebbe tentato di salvare Mattarella. Tale ricostruzione ha una sua logica intrinseca, spiega la Cassazione. Non mettiamo in discussione la logica. Di racconti logici, anche di segno opposto, se ne possono fare tanti, come spiega in più occasioni la sentenza della Cassazione (che si limita a verificare solo la logicità della sentenza d’Appello). Ma il fatto che al senatore Andreotti sia stato impedito, senza addurre motivazioni, di poter documentare i suoi spostamenti nel periodo nel quale sarebbe avvenuto il secondo incontro con i boss, seppur legittimo secondo la Cassazione, lascia interdetti. Esiste una verità giudiziaria e una storica. La storia non la scrivono i magistrati. Non è loro compito, né gli viene richiesto. Siamo certi che uno storico avrebbe invece accolto con interesse il materiale integrativo proposto dal senatore Andreotti, perché avrebbe accresciuto la documentazione sulla quale basarsi per la ricostruzione dei fatti. Ma va bene così.
Andreotti e Cosa loro (3), scrive Piccole Note il 21 maggio 2018 su "Il Giornale". Nella nota precedente abbiamo accennato come le dichiarazioni del pentito Marino Mannoia sui due incontri tra Andreotti e Bontate furono decisivi per convincere la Corte d’Appello a ritenere che Andreotti intrattenesse rapporti con il boss mafioso Bontate. Si tratta di due incontri avvenuti tra la primavera del ’79 e la primavera dell’80. Ciò per l’intrinseca credibilità del collaborante. Ma da sole le sue dichiarazioni non sarebbero bastate come “prova”. Da qui l’importanza delle dichiarazioni di altri a sostegno. La sentenza di Cassazione elenca tali testi; e sono: “Antonino Giuffré, Giuseppe Lipari, Giovanni Brusca, e Tommaso Buscetta”. A questi si aggiungono, in altra parte della sentenza, anche Angelo Siino e Antonino Mammoliti. A riferire degli incontri tra Andreotti e il Bontate sono Giuffré, Lipari e Siino, mentre Brusca, Buscetta e Mammoliti parlano solo di rapporti tra Andreotti e il boss in questione, con racconti più o meno generici.
Ma vediamo appunto i “riscontri” dei due incontri Bontate-Andreotti. A parlarne è Antonino Giuffré, il quale entra nel processo solo nel corso dell’Appello. La Corte precisa che “tenuto conto che l’episodio era stato oggetto di ampio dibattito nel corso del primo grado del giudizio e che, inevitabilmente, era stato riportato dai mezzi di informazione” etc. Detto in altre parole: si riconosce che Giuffrè poteva aver letto sui giornali dell’incontro narrato da Mannoia. Anzi si può dire che è impossibile non ne abbia letto, stante che si trattava di Cosa Sua o Loro che dir si voglia. Una conferma postuma per via mediatica… vabbè. Il secondo a riscontrare puntualmente Mannoia sugli incontri è Giuseppe (Pino) Lipari, il quale “non aveva riscosso particolare successo presso i magistrati inquirenti, tanto che nei suoi confronti risultava essere revocata la procedura di ammissione al regime previsto dalla legge per i collaboratori di giustizia”. Vabbè. Il terzo a parlare dei due incontri, si legge in altra parte della sentenza, è Angelo Siino. Nella stessa si legge: “Le dichiarazioni di costui avevano tratto spunto da quelle, a lui note, di Marino Mannoia”… vabbè. Dunque, per la sentenza della Cassazione, il racconto di Mannoia, il superteste più che credibile, è riscontrato da due personaggi che hanno letto le sue dichiarazioni prima di parlare e da un terzo che i magistrati dicono che non è credibile. Vabbè. Il problema è che la Cassazione deve solo registrare la logica insita nella sentenza d’Appello. Non può entrare nel merito. Funziona così. Quanto ai rapporti tra Andreotti e il Bontate, la sentenza della Cassazione cita anzitutto la testimonianza di Tommaso Buscetta. Poco importa che Buscetta sia stato sconfessato nel processo Pecorelli. Non una sconfessione da poco, ché quel processo è nato in base alle sue dichiarazioni, secondo le quali Andreotti aveva chiesto ai Salvo di uccidere il giornalista per le carte di Moro. Anni di processo e dibattimenti. Vani. Una sentenza che ha smentito in pieno anche le sue dichiarazioni sui contatti per liberare Moro, che avrebbe gestito lui in prima persona prima di abbandonare la scena perché i politici non lo volevano liberare. Tutto falso. La sentenza di Cassazione di Palermo accenna a queste circostanze, ma spiega che non può tenerne conto. Questo il meccanismo, “deve essere così”, come scrive Moro nel suo memoriale. Sempre sui rapporti tra Andreotti e Bontate parla Giovanni Brusca. Per saggiare la credibilità del pentito, si può leggere un articolo di Bolzoni sulla Repubblica. Ma va bene anche Wikipedia. Certo, al tempo della sentenza d’Appello e della Cassazione su Andreotti, certe cose non si sapevano. Vabbè. L’altro teste citato nella sentenza della Cassazione che confermerebbe l’esistenza di rapporti tra Andreotti e Bontate è l’Antonino Mammoliti. Teste che la stessa Cassazione definisce di “problematica credibilità”… Vabbè. Vabbè… che altro? Per quanto riguarda Marino Mannoia e la sua incredibile credibilità, rimandiamo alla prossima puntata.
Andreotti e Cosa Loro (4), scrive Piccole Note il 6 giugno 2018 su "Il Giornale". Nella nota precedente avevamo accennato all’incredibile credibilità del pentito Marino Mannoia, la cui dichiarazioni sono risultate decisive per indurre i giudici dell’appello del processo Andreotti a dare per avvenuti due incontri tra lo statista e il boss mafioso Stefano Bontate.
La Cassazione. Tali incontri sarebbero avvenuti tra la primavera del ’79 e i primi mesi dell’80. Nel primo Andreotti avrebbe chiesto ai boss di non uccidere l’allora presidente della regione Sicilia Piersanti Mattarella. Nel secondo, dopo il brutale assassinio, avrebbe rimproverato i boss e preso le distanza da essi, dando un’impronta anti-mafia alla sua attività politica. Fin qui la sentenza d’appello del processo, ribadita anche dalla Cassazione, che ne rileva la logicità narrativa (anche se specifica che ci possono essere altre narrazioni dei fatti, altrettanto logiche). Certo, da magistrati e giudici non si può pretendere scrivano la storia. Ma un po’ di storia, invero, aiuta a comprendere certi avvenimenti.
Piersanti Mattarella come Moro. Piersanti Mattarella venne ucciso il giorno dell’epifania del 1980. Un omicidio politico speculare al delitto Moro. Anche Mattarella, infatti, fu ucciso per aver aperto al Pci, con l’accordo del quale governava la Sicilia. Un’apertura che era stata fatta da Salvo Lima, il leader della corrente andreottiana siciliana, protagonista di quello strappo. L’omicidio Mattarella viene infatti preceduto, e non certo per caso, da quello del braccio destro di Lima, Michele Reina, assassinato il 6 marzo del 1978. L’assassinio di Reina diede avvio agli omicidi politici in Sicilia, proseguiti appunto col delitto Mattarella e conclusi con l’uccisione del segretario regionale del Pci Pio La Torre, fulminato il 30 aprile dell’82. Falcone, indagando su Mattarella, aveva battuto la “pista nera”, mettendo sotto accusa i neofascisti Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, per i quali spiccò un mandato di cattura, che non ebbe però seguito. Il magistrato era convinto che gli omicidi politici siciliani non fossero solo cose di Cosa nostra, ma erano da collegarsi alla strategia della tensione. Quella strategia culminata, a livello nazionale, nell’omicidio Moro. Fallito il compromesso storico a Roma, ideato da Andreotti e Moro, questo proseguì in Sicilia, grazie all’accordo tra la corrente di Lima, la sinistra democristiana e il Pci siciliano. Reina, braccio destro di Lima, aveva appena raggiunto l’accordo col Pci quando fu assassinato. Era il giorno 6 (marzo), come in un altro 6 (gennaio) sarebbe stato fulminato Mattarella. Numerologia infausta e forse non casuale.
I pentiti Buscetta e Mannoia. A “chiudere” definitivamente la pista che portava alla strategia della tensione furono i pentiti Buscetta e Contorno, ai quali si aggiunse in seguito Mannoia. Sia Buscetta che Mannoia avevano vissuto molti anni in America, gestiti dall’Fbi. Furono tali pentiti a circoscrivere i delitti al solo ambito mafioso, togliendo dal piatto la pista della strategia della tensione, che certo irritava potenti ambiti atlantisti, accusati da media, libri e uomini politici e di cultura di aver usato tale strategia per impedire l’accordo tra Dc e Pci. Falcone accolse le dichiarazioni dei pentiti perché gli permettevano di chiudere un capitolo importante della mafia, stante che furono indispensabili per far condannare la cupola mafiosa diretta da Michele Greco. Detto questo, al magistrato siciliano essi non raccontarono le sorprendenti rivelazioni che fecero successivamente al processo Andreotti: perché non li avrebbe creduti, come avvenne per il pentito Pellegriti, che accusò Lima di essere mafioso e Falcone lo condannò per calunnia. Non solo Falcone, Tanti non hanno mai creduto, né credono, a quella spiegazione riduttiva, ribadendo la veridicità della prima convinzione di Falcone. Sul punto ne scrive, ad esempio, Giovanni Grasso, portavoce del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che nel suo ultimo libro, “Piersanti Mattarella, uomo solo contro la mafia”, ribadisce quel che ha sempre sostenuto la moglie di Piersanti, che si trovava con il marito quando fu ucciso.
Per lei il killer era Giusva Fioravanti. L’aveva visto in faccia e non poteva sbagliare. Anche il figlio, che racconta lo spietato omicidio e lo collega al delitto Moro (cliccare qui) indicherà nel killer nero l’assassino del padre. Alla prossima puntata.
Andreotti e Cosa Loro (5), scrive Piccole Note il 16 gennaio 2019 su "Il Giornale". Nella ricorrenza dei cento anni dalla nascita di Giulio Andreotti è arrivato puntuale l’atto di accusa di Giancarlo Caselli, per il quale va detto a suo merito che, a differenza di altri, ha contrastato in maniera aperta e non occulta lo statista italiano.
Andreotti e la sentenza ignorata. Nel suo scritto, Caselli ripete l’usuale mantra: Andreotti, come da sentenza di Cassazione, sarebbe stato condannato per associazione mafiosa fino agli anni ’80. Condanna che per l’ex magistrato di Palermo si estenderebbe, di fatto, anche agli anni successivi. Al processo Andreotti di Palermo abbiamo dedicato articoli più specifici, ai quali rimandiamo. Interessa in questa sede riportare un convincimento della Cassazione del tutto obliato. Secondo la sentenza, Andreotti avrebbe intrattenuto rapporti con la mafia fino alla fine del ’79 – inizio ’80, quando l’omicidio Mattarella lo sconvolge e gli fa scoprire la vera natura del sodalizio criminale. Quel delitto, scrivono i magistrati, avrebbe “convinto Andreotti a distaccarsi in modo irreversibile e definitivo” dalla mafia. Non solo, negli anni successivi, scrive la sentenza, è “emerso un sempre più incisivo impegno antimafia, condotto dall’imputato [Andreotti, ndr.] nella sede sua propria dell’attività politica”.
I misteri della legione pentiti. Il punto vero che la magistratura dovrebbe indagare è perché legioni di pentiti, tanti dei quali patrocinati da uno stesso avvocato, Luigi Li Gotti (col rischio di commistioni indebite delle loro dichiarazioni, eventualità che evidentemente i magistrati non hanno riscontrato), abbiano invece propalato narrazioni inventate di sana pianta. Narrazioni dettagliate di malefatte che sarebbero avvenute proprio negli anni in cui la Cassazione ha evidenziato al contrario l’impegno antimafia di Andreotti. Perché si sono inventati tante frottole? E come hanno fatto i magistrati dell’accusa a credere a tali invenzioni (vedi ad esempio il fantomatico bacio di Riina)? Le reiterate sviste di allora fanno leggere le spiegazioni odierne di Caselli con la relatività del caso. Resta il dubbio, si accennava, sulla prescrizione dell’asserito legame tra Andreotti e la mafia fino agli anni ’80: Caselli dice sia stato accertato, altri leggono la prescrizione, come avviene in altri casi, come un’assoluzione.
Intrecci perversi. Tralasciando la querelle, va spiegato un particolare che ha importanza capitale nella vicenda processuale di Andreotti e che nessuno prende mai in considerazione, ovvero la decisiva incidenza della sentenza di Perugia (omicidio Pecorelli) su quella di Palermo (associazione mafiosa). Il 24 settembre 1999 la Corte d’Assise di Perugia assolve Andreotti dall’omicidio Pecorelli. Il mese dopo, il 23 ottobre 1999, il Tribunale di Palermo assolve con formula piena Andreotti dall’accusa di mafia. Tutto sembra risolversi in una bolla di sapone, quando, il 17 novembre 2002 arriva la condanna di Perugia: Andreotti avrebbe ucciso Pecorelli grazie ai suoi rapporti con la mafia. Il 2 maggio del 2003 il Tribunale di Palermo assolve un’altra volta Andreotti, ma con la formula accennata in precedenza (prima del ’79 – 80 e dopo). Il 15 ottobre 2004 la Cassazione conferma la sentenza di Palermo (sull’ambiguità strutturale di tale sentenza, vedi Piccolenote). Come si vede, la condanna di Perugia ha un peso, eccome, sulla successiva sentenza di Palermo e sulla relativa sentenza di Cassazione. Se il Tribunale di Palermo e la successiva Cassazione avessero assolto con formula piena Andreotti, come in precedenza, avrebbero smentito in maniera clamorosa quanto “accertato” dai colleghi di Perugia sui rapporti tra Andreotti e la mafia. I giudici di Palermo si sono trovati davanti a un dato di fatto, che semplicemente non potevano smentire. Da qui l’ambiguità della sentenza palermitana. Il 30 ottobre 2003, però, la Cassazione faceva letteralmente a pezzi la sentenza di condanna di Perugia, assolvendo con formula piena l’imputato. Ma giungeva tardi. Ormai il processo di Palermo si era chiuso definitivamente.
L’afasia del grande pentito. La tempistica e l’intreccio giudiziario tra Palermo e Perugia ha giocato dunque un ruolo perverso in questa vicenda. A sfavore dell’imputato. Non solo, l’asserita frequentazione pregressa di Andreotti con la mafia si basa sulla sola testimonianza del pentito Marino Mannoia. Ci sono altri tre pentiti, vero, ma la stessa sentenza di Cassazione ne evidenzia la poca affidabilità (vedi Piccolenote). La testimonianza di Mannoia fu decisiva per ottenere dal Parlamento l’autorizzazione a procedere contro Andreotti per il delitto Pecorelli, passo necessario per avviare il processo. Eppure, nonostante questo, al processo di Perugia Mannoia si è stranamente avvalso della facoltà di non rispondere. Il suo esilarante intervento a tale processo si può ascoltare su Radio radicale. In questo modo, Mannoia ha evitato (o qualcuno gli ha evitato) di essere travolto anche lui dalla sentenza di Cassazione del processo Pecorelli, che smentisce in maniera categorica le dichiarazioni dei pentiti che hanno parlato in tale sede (tra cui Tommaso Buscetta, accusatore principe di Andreotti). Mossa da prestigiatore. Risultata decisiva. Resta che l’occulta arte della prestidigitazione ha poco a che vedere con la realtà e che, forse, dovrebbe restare fuori dalle aule di tribunale. Nota a margine. Per i cento anni dalla nascita di Giulio Andreotti, rimandiamo a una breve biografia realizzata per il sito del mensile 30Giorni.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Così finì la Prima Repubblica.
Paolo Guzzanti: “Mani Pulite? Un colpo di stato a favore del Pci”. Bruno Giurato il 22/11/2019 su Il Giornale Off. Giornalista, uomo politico, saggista, conduttore del programma televisivo “Bar Condicio” nei ruggenti anni Novanta, due figli (Corrado e Sabina) che lavorano anch’essi in tv, Paolo Guzzanti è una penna corrosiva, acuta, diretta e i suoi articoli sono sempre il classico “pezzo” che non puoi non leggere. E’ stato anche attore a teatro, diretto, da Francesco Sala ed è stato in scena con la sua stand up comedy. Pochi giorni fa era il trentesimo del crollo del Muro di Berlino e fra pochi giorni ricorrerà il cinquantesimo dell’eccidio di Piazza Fontana a Milano. Misteri e tragedie italiane, di cui Paolo Guzzanti, giornalista di lungo corso, ha vissuto. A proposito di misteri e storia italiani, il “Paolone” nazionale ci aveva raccontato questioni storico politiche misconosciute al grosso pubblico legate essenzialmente alla stagione del terrorismo e della cosiddetta Tangentopoli: segreti svelati? Misteri risolti? Non proprio, ma Paolo Guzzanti ha nuovamente buttato lì un paio di ipotesi storico interpretative relative allo stato di grazia di cui godette l’Italia negli anni del terrorismo mediorientale. E anche una rivelazione sulla vera nascita di tangentopoli: in questa intervista OFF di Bruno Giurato ci racconta che cosa è stata veramente “mani Pulite”.(Redazione).
“Ci sono tre mestieri che ti permettono di diventare un altro: il giornalista, lo psicanalista e l’attore. Il giornalista diventa l’intervistato, lo psicanalista diventa il paziente, l’attore diventa il personaggio” E lui, Paolo Guzzanti, a settant’anni ha deciso di spostarsi dal ruolo di giornalista (penna elegante e all’occorrenza feroce di Repubblica, poi de La Stampa, ora de Il Giornale) a quello di attore. Lo era sempre stato, un po’. C’è più che un sospetto che il primo motore del talento dei figli, Sabina, Corrado, Caterina, sia lui. Le sue imitazioni sono memorabili, il suo Pertini ha ingannato Renzo Arbore in una celebre diretta Rai, e una serie di personalità istituzionali, in scherzi al confine tra goliardia e sovversione carnascialesca. Ora Paolo Guzzanti arriva a teatro davvero. Solo sul palcoscenico del Brancaccino (dal 26 al 29 marzo) a duettare con se stesso sul canovaccio dell’ autobiografia Senza più sognare il padre. Lo spettacolo si chiama La ballata del prima e del dopo. La regia è di Francesco Sala. “E’ uno spettacolo metà buffo e metà serio” racconta Guzzanti a Il Giornale, “ comincia con la mia intervista a Franco Evangelisti, ministro e uomo di Andreotti, quella di “A Fra che te serve”. Lui resta come voce di contrasto. E mi serve per fare un discorso sulla memoria. Evangelisti 13 anni prima di Tangentopoli aveva detto “qui abbiamo rubato tutti” Eppure tutta la faccenda fu insabbiata derubricandola a questione di “colore”, il romanesco, il “politico alla vaccinara” ecc ecc. Si doveva salvare il compromesso storico Andreotti-Berlinguer…” Conclude.
Succede ancora oggi? Quando leggiamo le fenomenologie sulla felpa di Salvini o sull’inglese di Renzi stiamo assistendo all’uso del “colore” a fini di distrazione?
«Be’ certo, sono costruzioni di fondali scenografici. Si costruiscono personaggi. Anche se l’inglese di Renzi, bisogna dire, grida vendetta a Dio…»
Sostanziale omogeneità della politica tra Prima, Seconda, Terza Repubblica?
«“Seconda Repubblica”, come racconta il libro The Italian Guillotine di Stanton H. Burnett e Luca Mantovani (mai tradotto in italiano), è stato un tentato colpo di stato che doveva concludersi con la vittoria di Occhetto. E lì fu la volta che Berlusconi è impazzito. Trovo l’espressione Seconda Repubblica ridicola, come Terza repubblica».
Siamo ancora negli anni Sessanta, insomma.
«Mah, sì. Le persone sono sempre le stesse, quelle arrivate dopo fanno parte dei soliti potentati. Il carattere degli italiani sta tutto in Machiavelli, e anche in Pinocchio. Quale Prima e Seconda Repubblica…».
Come è iniziata la sua carriera? Fu Giacomo Mancini a darle l’accesso alla professione giornalistica?
«Ero socialista dai 17 anni. Nei primi anni 60 andai a lavorare senza essere pagato, al Punto della settimana. Settimanale fichissimo: ci scrivevano da Kennedy a Pietro Nenni. Poi andai a fare l’operaio tipografo, per quattro anni, all’Avanti. Poi finalmente mi assunsero. E nel ’72, con Mancini, andai a lavorare al Giornale di Calabria. Tre anni interessanti e anche devastanti. Poi conobbi Serena Rossetti, la compagna di Scalfari. Mi assunsero all’Espresso».
Ecco, Scalfari. Lei è stato un po’ il suo figlioccio…
«Ammetto che gli devo tantissimo, e umanamente gli voglio ancora bene».
E’ un maestro di pensiero come si sente di essere, o è un viveur e inventore di giornali?
«La seconda. Gli piace essere visto come un grande filosofo: è un uomo colto, che ha letto moltissimo, e ha letto bene. Come filosofo, però, non mi pare sia memorabile».
Lei è stato a contatto molto stretto anche con Cossiga. Qual è stato il motore della sua trasformazione, da politico compassato a picconatore?
«Gli sembrò che i suoi amici, De Benedetti e Scalfari, da cui andava a pranzo tutte le settimane, avessero l’intenzione di farlo fuori. Che a occhio mi sembra esatto. I due furono gli autori degli articoli in cui si chiedeva che fosse sospeso dalle funzioni di Presidente della Repubblica, sostituito da una comitato di saggi, e ricoverato».
Su De Benedetti lei ha scritto un libro intervista…
«Dopo il libro mi chiese se volevo rientrare a Repubblica. Ma dopo un po’ mi disse che c’erano dei problemi. Gli dissi: perché sono berlusconiano? Mi rispose “quello si supera, il guaio è che hai fatto la commissione Mitrokhin”. Mi indignai. Repubblica aveva scritto una serie incredibile di falsità su di me. Dicevano che mi fabbricavo i documenti in un ufficetto a Napoli».
Cazzullo ha scritto che la Mitrokhin metteva in imbarazzo tutti, post comunisti e neoputiniani.
«Plausibile. Mi trovai con la commissione piena di comunisti, postcomunisti, paracomunisti. Ero praticamente solo. Scoprimmo un sacco di cose, che sono state tutte insabbiate. Non gliene è fregato niente a nessuno».
Il suo contrasto con Berlusconi, nel 2009, è derivato dal libro Mignottocrazia o dal legame del Cav. con Putin?
«Per Putin. Invece Mignottocrazia lo dissi solo per dare un avvertimento a Berlusconi. C’era questo girovagare di sgallettate, anche a sinistra beninteso. Scrissi un libro-sberleffo. Non fu un atto di vendetta, fu un messaggio: “occhio o ti incastreranno”».
Qual è stata la maggiore difficoltà della destra berlusconiana?
«Una volta dissi al Cav. “Con giornali, libri e Tv non possiamo creare un’alternativa alla sinistra”. Mi rispose: “le mie reti sono commerciali. Non puoi allontanare parte dei committenti con contenuti che li possono infastidire”».
Avere un’impresa implica il rispetto forzato del pluralismo…
«Certo. Il Cav. ha ideali (liberalismo, socialismo democratico), ma da imprenditore non può fare quello che vuole».
E chiudiamo sulla sua vita personale. Nello spettacolo racconta di quando la perseguitavano per i capelli rossi…
«Mi dicevano “Roscio malpelo schizza veleno”. Oppure: “A roscio passa domani che è moscio”. Mio padre mi insegnò a fare in modo che nessuno ti notasse. Mettere il cappello in testa in modo che non si vedessero i capelli. E’ anche divertente».
Viene da lì la sua capacità di calarsi in altre personalità?
«Strategie mimetiche. Rifare le voci. Essere gli altri. Io sono un ventaglio di identità anche geografiche. Amo il nord, sono pazzo di Napoli, amo la Sicilia. Cerco di rifare il verso a tutti».
Bruno Giurato. Calabrese, studi di filosofia. Ha scritto per Il Foglio, Vanity Fair, Lettera43, Il Giornale. Ama il blues, le processioni del Sud e la dépense. A Linkiesta dal dicembre 2015.
La ricostruzione. La vera storia di Mani Pulite (che nessuno vi vuole raccontare). Paolo Guzzanti 21 Novembre 2019 su Il Riformista.it.
Prologo. Per puro caso misi il piede su una grossa merda: avrebbe potuto essere, ma ancora non doveva, Tangentopoli, rivelata con dodici anni d’anticipo. Era il 27 febbraio del 1980 e Eugenio Scalfari mi chiese di intervistare Franco Evangelisti, braccio destro di Giulio Andreotti e ministro della Marina Mercantile, interlocutore di Tonino Tatò, a sua volta fiduciario di Enrico Berlinguer. Evangelisti, in un impulso imprudente, mi raccontò in romanesco come funzionava il finanziamento di partiti e poi mi disse: «Vabbè, adesso riprendi il tuo taccuino e famo l’intervista vera. Tu me chiedi: che è ‘sta storia? e io te risponno che indubbiamente occorrerebbe fare una riforma…». Io invece scrissi tutto e l’intervista provocò uno scandalo, ma non perché mettesse in piazza lo stato reale delle mani sporche. La reazione scandalizzata fu sulla forma, la volgarità del povero Evangelisti: Paolo Flores d’Arcais, indisse un convegno su «A Fra’, che te serve?» e tutta la sinistra derise Evangelisti per il suo sfrontato romanesco democristiano, ma nessuno fece una piega sulla rivelazione dei finanziamento occulto.
Nel 1980 il Compromesso Storico era morto da due anni con l’omicidio di Aldo Moro e il Pci seguitava ad essere finanziato dall’Urss, dettaglio fondamentale per comprendere il filo conduttore. I comunisti che interpellai mi spiegarono che non era assolutamente il caso di toccare la questione dei finanziamenti perché vigeva non il compromesso, ma un gentlemen agreement: il Pci si riforniva illegalmente, ma alla luce del sole di finanziamenti sovietici e di conseguenza tutti gli altri partiti si ritenevano autorizzati a pareggiare i conti con le tangenti, cui peraltro usufruiva anche il Pci negli affari con l’Urss. Francesco Cossiga mi raccontò che quando l’emissario del Pci tornava da Mosca con i contanti che Boris Ponomariov gli aveva fatto sistemare in una valigetta, lo attendevano gli uomini del Viminale e due funzionari del Tesoro americani, incaricati di controllare l’autenticità dei dollari. Poi, andavano in Vaticano allo sportello dello Ior per cambiare i dollari in lire e ognuno tornava a casa sua. Valerio Riva nel suo celebre Oro di Mosca ha ricostruito tutto. Questo antefatto è indispensabile per illuminare un solo punto: quando Evangelisti svelò come funzionava il meccanismo delle tangenti, non un solo procuratore della Repubblica ritenne di aprire un fascicolo. Bisognò aspettare dodici anni affinché il pm Antonio Di Pietro ottenesse l’ordine di cattura per l’ingegner Mario Chiesa, da cui partì il meteorite che portò all’estinzione di tutti i dinosauri della prima Repubblica.
La Cia non si fidava di Dc e Psi e puntò su Berlinguer. Paolo Guzzanti 22 Novembre 2019 su Il Riformista.it. Ieri abbiamo raccontato come gli Stati Uniti e gli alleati occidentali fossero inclini a portare i comunisti italiani al governo durante gli anni del Compromesso storico (fallito per la soppressione del contraente e garante Aldo Moro) per due ragioni solide. La prima era incoraggiare lo strappo del Pci da Mosca, iniziato da Enrico Berlinguer con la scelta dell’ombrello della Nato e il riconoscimento della fine della “spinta propulsiva della Rivoluzione d’ottobre”, ma poi rimasto senza una vera conclusione, ciò che impediva agli alleati occidentali di condividere i segreti militari. La seconda era il desiderio di liberarsi di democristiani e socialisti che si erano rivelati infidi o addirittura nemici. Per questo era cominciata una marcia di avvicinamento fra il Dipartimento di Stato e la stessa Central Intelligence Agency, verso il Pci. La nota amicizia e reciproca stima fra Giorgio Napolitano ed Henry Kissinger non sono casuali. E credo che quando Giuliano Ferrara dice di aver lavorato per la Cia, intenda dire di avere aderito a questo progetto, anche se bisognerebbe chiederlo a lui.Nel Partito dunque si era formata e consolidata una forte corrente filoamericana duramente contrastata da quella filosovietica di Armando Cossutta. Ciò che interessava agli Occidentali non era affatto – come sosteneva la propaganda ispirata dall’Urss – imporre governi golpisti, reazionari, padronali e nemici dei sindacati, ma semmai il contrario: la Cia ha sempre perseguito una linea dura antisovietica, ma per quanto possibile riformista e anche apertamente di sinistra purché schierata contro l’Urss. Al Dipartimento di Stato americano interessava aver la certezza che il personale di governo in Italia non andasse a spifferare ai russi segreti di natura militare e strategica. Ciò che invece era accaduto in alcuni casi con il personale specialmente democristiano. Le informazioni che sto cercando di ordinare hanno le loro fonti in alcuni testi fondamentali, ascoltati negli anni della mia presidenza della Commissione bicamerale d’Inchiesta sulle influenze sovietiche in Italia, nel lavoro che ho svolto in quanto appartenente, per molti anni, alla delegazione parlamentare italiana presso la Nato. D’altra parte, il racconto che sto per fare non contiene alcun segreto ma solo molto buon senso e può essere facilmente verificato e confermato con ricerche accessibili. Cominciamo da Michail Gorbaciov. Chi era costui? Era il pupillo, il prescelto e selezionato dall’uomo più intelligente, anche spietato, ma molto ben informato dirigente che l’Unione Sovietica abbia avuto. Stiamo parlando di Yuri Andropov, che fu prima il sovrano direttore del KGB per ben quindici anni, dal 1967 al 1982, anno in cui successe a Leonid Breznev, l’uomo immobile dalle enormi sopracciglia. Andropov vide che la partita fra Urss e Stati Uniti con i loro alleati, era in prospettiva una partita persa. E allevò, come suo successore e uomo di fiducia, Gorbaciov, che aveva un appeal di tipo occidentale per vivacità intellettuale, età e anche per avere una moglie elegante come Raissa che poteva fare bella figura sulla scena internazionale. Poi le cose si svolsero in maniera convulsa e imprevista perché Andropov morì prematuramente il 9 febbraio 1984, troppo presto per consolidare la successione del suo candidato Gorbaciov, sicché le vecchie cariatidi del Cremlino insediarono il più immobilista della loro cerchia, Konstantin Cernienko. Gorbaciov fu costretto a saltare un turno e aspettare la morte di costui per salire sul podio più alto del governo sovietico. Per comprendere la natura della politica militare di quella fase, che riguardò direttamente la politica italiana per la vicenda dei cosiddetti Euromissili, occorre fare un passo indietro, piuttosto lungo. Bisogna cioè risalire all’inizio della Guerra Fredda, quando i Paesi occidentali si erano riuniti nell’Alleanza Atlantica della Nato e quelli dell’Est, sotto stretto comando sovietico, nel Patto di Varsavia da cui si sfilò soltanto la Romania di Ceausescu, che pagò con la vita il suo sgarro in epoca gorbacioviana. Esiste un libro che si chiama A Cardboard Castle? – An inside story of the Warsaw Pact 1955-1991, che nessun editore italiano ha trovato conveniente tradurre e pubblicare. Questo testo, certificato dai documenti originali, lo si può acquistare via Internet e vale quel che costa. Il volume contiene, insieme a due eccellenti saggi, tutti i verbali di tutte le riunioni del Patto di Varsavia, dalla prima – 1955 – all’ultima – 1991 – seduta. Se si ha la pazienza di leggere, si scopre che ogni riunione ripete con alcune varianti, lo stesso schema: le potenze occidentali attaccano proditoriamente il blocco dell’Est che, dopo aver fermato l’aggressione, prontamente contrattacca penetrando nell’Europa occidentale con operazioni velocissime e brutali, e uso di un buon numero di armi atomiche tattiche (cioè relativamente piccole ma capaci di polverizzare una città) per sigillare le coste atlantiche e rendere uno sbarco americano impossibile. Per questo il Patto di Varsavia aveva bisogno di missili “a medio raggio” (cioè non in grado di attraversare l’Atlantico e colpire gli Stati Uniti) ma capaci di mettere a tacere le difese europee. Qualcuno si chiederà a quale scopo l’Urss e i suoi satelliti avrebbero compiuto una tale azione. Sia Gorbaciov che Eltsin hanno fornito la spiegazione, ben illustrata anche dall’intellettuale dissidente russo residente a Londra Vladimir Bukowski, mio caro amico scomparso da poco, che scrisse un magistrale Urss, come l’Unione Sovietica voleva inghiottire l’Europa dopo essere stato internato proprio da Yuri Andropov in un lager in cui i prigionieri venivano mantenuti in stato di sonnolenza perenne. In breve, il programma che Andropov tentò disperatamente di spingere e che poi fallì, prevedeva una conquista fulminea dell’Europa occidentale, Italia compresa naturalmente, in cui sarebbero stati instaurati dei governi fantoccio ma con finte coalizioni precotte con ecologisti, finti socialdemocratici, non troppi comunisti per dare una parvenza “democratica”. I missili SS20 a testata multipla furono installati dai russi nei Balcani e in Italia si scatenò un inferno politico contro l’installazione di missili Cruise e Pershing 2 in Sicilia, capaci di contrastare tali armi. L’installazione cominciò nel 1983 e in Italia, come nei principali Paesi europei, le sinistre e i movimenti pacifisti dimostrarono duramente contro questi missili di risposta. Nella lotta politica che si svolse in Parlamento e sulla stampa, oltre che nelle piazze, il Pci dopo alcuni contorcimenti e qualche dissenso interno, si schierò sulla linea gradita all’Unione Sovietica. Questo causò una frattura molto profonda anche nell’Italian Desk di Washington, dove gli americani avevano sperato a lungo che il Partito comunista italiano seguisse l’indicazione di Berlinguer, che nel frattempo era scomparso, secondo cui ci si sentiva più protetti sotto l’ombrello della Nato. Ma anche con questa frattura, peraltro prevista realisticamente, non furono annullati i rapporti speciali tra la frazione filoamericana del Partito comunista e Washington.
Non è più una terra per giganti: c’erano una volta Craxi e Berlinguer. Paolo Guzzanti 17 Novembre 2019 su Il Riformista.it. “C’era una volta… un re, diranno subito i miei piccoli lettori”. Eh no, cari ragazzi del nuovo millennio, stavolta non si tratta del ciocco di legno che ben intagliato diventò Pinocchio simbolo della bugia col naso lungo, ma di un oggetto più fiabesco e meraviglioso: la politica. La politica era sempre ideologica (cioè partiva da postulati e pregiudizi chiamati ideali) e sempre duellante secondo copioni codificati. Chi è nato dopo gli anni Settanta non può ricordarne quasi nulla, ma chi ha un’anzianità anagrafica di lungo corso, è ancora in grado di riascoltare nelle emozioni le gioie e dolori di quel tempo antico in cui due mostri, nel senso di creature uniche, si davano battaglia occupando quasi tutta la scena: Craxi e Berlinguer. Nei primi anni, il segretario del Partito Comunista Enrico Berlinguer e Bettino Craxi, segretario del Partito socialista, si sfidavano manovrando di fronte all’armata del popolo di mezzo, ovvero della Democrazia Cristiana, che però aveva perduto i suoi due mitici “cavalli di razza”: Amintore Fanfani, scivolato nell’oblio dopo aver perso la battaglia contro il divorzio, e Aldo Moro, rapito, interrogato e assassinato da quell’entità tuttora misteriosa che furono le Brigate Rosse, un po’ “boy-scout della rivoluzione” (secondo la benevolentissima definizione del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga) e un bel po’ gruppo armato per impedire il compromesso storico, inventato da Enrico Berlinguer dopo il colpo di Stato in Cile per chiudere la partita della guerra fredda interna, fare pace con la Dc e passare armi e bagagli nel mondo occidentale, di cui aveva già accettato la Nato. Berlinguer voleva chiudere con l’Unione Sovietica, sostituendo il mito della Rivoluzione d’Ottobre – ormai privo della sua “spinta propulsiva” – con una ideologia fondata sulla “questione morale” in cui sostanzialmente i comunisti si presentavano come gli ariani del bene e gli altri dovevano dimostrare di essere alla loro altezza. Finito nel sangue di Aldo Moro l’esperimento del “compromesso storico” (Berlinguer aveva subìto un attentato in Bulgaria da cui si salvò per un pelo, e quando morì di ictus in casa sua molti sospettarono un attentato) cominciò un periodo di scossoni e accuse fra il segretario comunista e Bettino Craxi, campione di un socialismo anti-comunista e antisovietico in modo esplicito: eliminò come primo atto la falce e il martello dai simboli socialisti sostituendoli con quelli originari: un libro aperto e il Sol dell’avvenire. Poi rammodernò burocrazia e stile di vita a sinistra in modo molto pop e provocatorio e quando venne il momento della tragedia della nave Achille Lauro e dei terroristi che l’avevano dirottata sfidò a braccio di ferro gli Stati Uniti di Ronald Reagan e fece schierare i carabinieri armati contro i militari americani nella base di Sigonella, diventando così l’incontestato eroe di una guerra d’indipendenza contro gli americani, cosa che probabilmente gli costò la testa. La “guerra fredda” era a quei tempi una guerra molto febbrile, mieteva forse meno vittime di una guerra armata, ma sacrificava senza pietà sui giornali e nelle coscienze il rispetto della verità, situazione che fu riconosciuta e sdoganata con l’augusto nome delle diverse “linee editoriali”, consacrate nei palinsesti della Rai: uno a me, uno a te, un frammento anche alla verità. Ma con giudizio. Era un teatro in cui erano in piedi gli ideali, i miti, i riti della politica del Novecento mentre si faceva strada la novità di considerare l’onestà amministrativa una ideologia con cui rimpiazzare i presupposti ideologici del passato. Fra i sacri miti e riti, c’era quello della “scala mobile” (che era un sistema di adeguamento automatico degli stipendi all’inflazione), difesa a spada tratta dal segretario del Pci Enrico Berlinguer come strumento di riequilibrio della giustizia sociale che pareggiava le diseguaglianze facendo lievitare l’inflazione che allora viaggiava a due cifre, tanto che la gente si batteva moneta da sola inventandosi dei miniassegni. A Berlino era ancora in piedi il Muro e la moneta forte era il Marco della Repubblica federale tedesca, capitale Bonn. A quella ideologia si oppose Bettino Craxi che sfidò Berlinguer con un decreto che ridimensionava la scala mobile e poi accettando un referendum in cui si chiedeva agli italiani: volete l’adeguamento automatico del vostro salario con la scala mobile che tutto pareggia, oppure preferite uno spiffero di libertà e di rischio? Vinse Craxi (ma a quel punto Berlinguer era già morto): gli italiani scelsero il rischio e un po’ di diseguaglianza. Fu un momento di rottura molto deciso per un Paese ingessato nella sclerosi dei partiti. Oggi sembra impensabile, ma a quell’epoca c’erano le Regioni rosse (Umbria Toscana Emilia) che votavano rosso, le Regioni bianche (Lombardia e Triveneto) che votavano bianco democristiano e un Sud squacquaracquato che votava come capitava e secondo convenienza. Uno degli attori di seconda linea, aspiranti alla prima, c’era: La Repubblica creata genialmente da Eugenio Scalfari, che era un giornale e un partito, una lobby di pensiero e di pressione. Scalfari sognava di guidare lui il Pci di Berlinguer, il quale resisteva all’abbraccio. Ma Scalfari giocava a sua volta un duello mortale con Bettino Craxi di cui era nemicissimo, su un terreno di duelli all’arma bianca che era cominciato nel parlamentino universitario dell’Orur (negli anni cinquanta) dove c’erano Achille Occhetto, Marco Pannella, lo stesso Scalfari e tanti altri e dove furono messe le basi per odi inconciliabili e amori sfrenati. C’erano poi in vesti settecentesche i pensatori isolati e aristocratici del Partito repubblicano come Ugo La Malfa e Giovanni Spadolini, e i socialisti anti-craxiani che tentarono di rimuoverlo dalla segreteria del partito e dal governo, quando arrivò al governo, puntando su Antonio Giolitti, figlio dell’antico primo ministro Giovanni Giolitti e che era stato uno degli allievi di Palmiro Togliatti, uscito dal Pci per “i fatti d’Ungheria”, cioè la brutale repressione sovietica con i carri armati della rivolta studentesca e operaia di Budapest del 1956 fortemente voluta proprio da Togliatti e Mao Zedong, che Nikita Krusciov, successore di Stalin aveva tentato di evitare. La politica era ancora un campo di battaglia che riverberava sangue, bombe – quelle del terrorismo a cominciare da quella di piazza Fontana del 12 dicembre del 1969 – e guerra mondiale imminente. Sullo scontro fra grandi potenze, il Pci di Berlinguer non seppe evitare di stare dalla parte sovietica opponendosi allo schieramento in Sicilia di missili di medio raggio dopo che l’Urss aveva improvvisamente schierato i suoi SS-20 sui Balcani minacciando il cuore dell’Europa. Lì avvenne un’altra battaglia divisiva che oggi stenteremmo a capire: Spadolini, ministro repubblicano atlantista, e Craxi si schierarono a favore di una risposta ai missili sovietici e tutte le sinistre si opposero, perdendo ma lasciando sul campo lacerazioni sempre più profonde. Come oggi sappiamo dalle carte desecretate dal Dipartimento di Stato, americani e Nato facevano il tifo affinché il Pci di Berlinguer passasse in campo occidentale e assumesse il comando in Italia, ma dopo aver rescisso tutti i suoi legami sovietici. Americani e inglesi ne avevano abbastanza sia dei bizantinismi di Andreotti che seguiva una sua politica filoaraba e anche filosovietica e dello stesso Craxi che aveva dato prova di troppo autonomia. Per questo fu preparato un grande dossier americano cui partecipò l’attuale avvocato di Donald Trump, Rudolph Giuliani, allora procuratore generale e in parte anche nostri procuratori come Giovanni Falcone. Quel dossier fu chiamato “Clean Hands”, mani pulite, e avrebbe dovuto essere gettato sul terreno della lotta politica in Italia prima che cadesse il muro di Berlino e la stessa Unione Sovietica. (Ma di questa storia, molto interessante, ne riparliamo in un altro articolo, la settimana prossima). Le cose andarono diversamente, come sappiamo, ma il teatro di lotta e di scontro di quelle guerre d’allora aveva scene ricche e mobili sulle quali i grandi samurai ideologici si battevano con spade affilate, seguiti da un’Italia ancora organizzata in grandi chiese ideologiche, che comprendevano anche quella cattolica in crescente dialogo con quella comunista. La fine degli anni Ottanta e la fine dell’Urss sconvolsero la scena con la violenza di una bomba atomica e tutto cambiò per sempre senza più trovare uno o più punti di stabilità.
Ma da quelle macerie si levò lo spettro dell’estrema destra. Achille Occhetto 8 Novembre 2019 su Il Riformista.it. Sono trascorsi trent’anni da un evento storico epocale che ha cambiato il volto del mondo: la caduta del muro di Berlino. Dopo quella data sono mutati tutti i parametri che avevano contraddistinto i tratti fondamentali della geopolitica del pianeta. Non è crollato solo il comunismo ma l’insieme del modo di fare politica e il modo di essere di tutti i principali protagonisti che si erano definiti in contrapposizione, o come scudo, al comunismo. Ma la cosa più stravagante è che, a sinistra, ci sono voluti una trentina d’anni per rendersene pienamente conto. Le ultime vicende europee e mondiali ci hanno messo brutalmente dinnanzi al tema dell’eclissi della sinistra su scala mondiale. Una eclissi che può essere letta in filigrana con la crisi del comunismo e il dilagare della globalizzazione a direzione neoliberista, e che ha lasciato sul terreno l’insorgere di nuove tendenze populiste. Il dramma, quindi, viene da lontano, dalla «fine politica» del novecento, che solo per comodità esplicativa farò risalire dalla caduta del muro di Berlino. Sono stati travolti tutti i parametri della vecchia politica mettendo in crisi sia la sinistra riformista sia quella radicale. Uno dei motivi di tale crisi, anche se non esaustivo, è che si è ritardato, come avevamo indicato fin dai primi momenti della «svolta» dell’89, a comprendere che occorreva andare oltre le vecchie esperienze comuniste e socialdemocratiche. La vicenda europea, purtroppo con esiti tutt’altro che soddisfacenti, si è incaricata di dare ragione a quella invocazione. Se si va al di là di analisi sporadiche che si muovono dentro l’orizzonte ristretto del politicismo e dell’episodico, non si può non vedere che la portata generale di quel crollo sta nel passaggio epocale da un mondo governato dal confronto tra due blocchi contrapposti al dilagare sul pianeta della globalizzazione, con le sue luci e le sue ombre, e il tramonto delle vecchie ideologie. Sotto questo profilo vale la pena di analizzare il caso italiano come paradigma di un destino mondiale. Si può dire che in Italia si è avuto il più spettacolare superamento di tutti gli algoritmi della politica del passato. Il panorama politico è del tutto irriconoscibile: l’ondata di fondo ha sradicato tutte le forze che hanno le loro radici nel novecento, siano esse socialiste, centriste o moderate di centro-destra. Questo spiega lo spaesamento di cui soffrono molti cittadini. In questo destino comune di tutta la sinistra, ci sono responsabilità diverse tra riformismo moderato e sinistrismo alternativo. Il primo si è, in modo evidente, impantanato dentro una vocazione alla governabilità che, per quanto nobile, gli ha fatto smarrire, malgrado le ormai sempre più opache politiche redistributive, la propria vocazione sociale, fino a forme di subalternità politico-culturale verso il neoliberismo. Il secondo si è attardato in una visione dimidiata della società, sostanzialmente divisa da frontiere invalicabili, da campi opposti, che si manifestano, per alcuni, sul mero terreno economico-sociale, o, per altri, su quello etico-morale. Con l’aggravante di assumere troppo spesso come obiettivo principale quello di far perdere la sinistra moderata, in mancanza della capacità di intercettare l’onda di protesta che volge verso il populismo. È mancata una nozione più attenta delle trasversalità indotte dalle inedite sfide mondiali che hanno reso obsolete le vecchie forme in cui si esprimevano le politiche del welfare del secolo socialdemocratico. Il vuoto lasciato dalle sinistre è stato riempito dal populismo. E questo perché la lettura meramente finanziaria da parte del pensiero economico neoliberista è stata funzionale alle politiche di austerità volte a non intaccare l’attuale modello e a far pagare la crisi alla classe media e ai lavoratori. Ne è scaturito che, per la debolezza critica di un riformismo minimalista, ci siamo trovati davanti ad uno scherzo della storia che sfiora il paradosso: la risposta infatti è venuta da una rivolta populista e di destra, facilitata dalla corresponsabilità di gran parte della sinistra nell’accettazione, a volte compartecipe e a volte silente, del paradigma neoliberista. Paradosso doloroso e irridente perché una crisi favorita dai poteri forti invece di trovare uno sbocco a sinistra ha infiammato una protesta populista contro le «caste» che finisce per rimettere tutto il potere nelle mani della vera «casta», quella dei principali responsabili della crisi. Così è avvenuto che il frutto avvelenato e irridente della generica e fuorviante categoria della lotta alla «casta» sia stata l’elezione di un miliardario xenofobo, sessista e reazionario alla testa della più grande potenza del mondo. Tuttavia seguire il tragitto di questa eclissi limitandosi agli eventi degli ultimi anni mi sembra particolarmente sterile. L’anniversario della caduta del muro di Berlino ci induce a riprendere il discorso dal cosiddetto crollo del comunismo, per individuarne le radici, leggendolo in filigrana con il decorso della socialdemocrazia e dell’insieme delle sinistre nel contesto di una spiegazione del male oscuro delle permanenti divisioni che dilaniano dagli albori il fronte progressista. Molti sono stati i tentativi di nuovo inizio in giro per l’Europa, e in Italia è stato sperimentato il più significativo. Ma tutti hanno avuto un difetto fondamentale, quello di non aver elaborato il lutto con la necessaria determinazione. Anche in Italia malgrado le notevoli innovazioni che io non mancherò di enumerare puntigliosamente, la fiamma dei mali del passato, per quanto sia stata decisamente soffocata, ha continuato a covare sotto la cenere, lasciando sul terreno la retorica nostalgica del bel tempo perduto. Il seme dell’innovazione però non può essere gettato sul terreno sterile dell’eterno presente; ha bisogno del concime, e il concime è per sua natura il passato. Non si può uscire dal cerchio virtuoso che coinvolge passato, presente e futuro in un unico destino. Nel trattare la storia come presente ho ritenuto che riandare alle luci e alle ombre del movimento della sinistra che ha dominato la storia del novecento, sia pure in un continuo dialogo con l’insieme delle sinistre, fosse uno dei modi più efficaci di affrontare la crisi generale da cui ho preso le mosse. Infatti non c’è forza di progresso che, in sintonia o in contrapposizione, non si sia definita in rapporto al comunismo. Per questo la tendenza a collocare quella vicenda, in tutti i suoi aspetti, anche quelli più recenti, nel binario morto della storia offusca, a mio avviso, la comprensione globale degli eventi. Certo, se ne è parlato molto e bene nel corso delle celebrazioni del centenario della rivoluzione d’Ottobre, ma senza cogliere con sufficiente chiarezza il rapporto con la complessiva vicenda delle sinistre. Sotto questo profilo, sono convinto che la vicenda del comunismo italiano rimanga un punto privilegiato di osservazione. Non a caso in Italia si è verificato l’unico evento di fuoriuscita consapevole e volontaria da quella esperienza. Alludo, senza ulteriori giri di parole, alla svolta della Bolognina, che, come si sa, è strettamente collegata alla caduta del muro. Nel render conto delle ragioni di quella svolta mi sono sforzato di collocarla nel cuore delle vittorie e delle sconfitte del movimento comunista internazionale, e della situazione complessiva delle sinistre, sottraendola il più possibile da una dimensione meramente provinciale. Nello stesso tempo cercherò di prendere di petto la critica più insidiosa, quella di una inesorabile e generica perdita di identità, collegata alla sua identificazione in un atto di coraggio, una sorta di giorno da leone, a cui sarebbe mancata una chiara cultura politica. Nel corso di questa analisi cercherò di contestare ogni visione riduttiva del significato degli eventi dell’89, sia per ciò che riguarda l’amarcord del paradiso perduto sia per ciò che concerne la base stessa della cultura politica della svolta di allora e del futuro nuovo inizio. Occorre, dopo tanti anni, comprendere che a cadere non è stato solo il «socialismo reale». Abbassatesi le polveri sollevate da quel crollo, è affiorato il vuoto problematico di un «socialismo ideale» che si era definito in contrasto con quello reale. Ma prima di entrare nel merito, intendo soffermarmi su due considerazioni preliminari. La prima è che nella disperante percezione, che contiene indubbi elementi di verità, di una perdita di identità culturale è presente una sorta di paragone ellittico rispetto ad una perduta identità del tutto cristallina ed omogenea, che non è mai esistita. Nel corso della storia del comunismo si sono affacciate sul proscenio non solo identità molto diverse tra di loro, ma anche clamorosamente contraddittorie. Lo stesso vale per la storia della socialdemocrazia, che spetta ad altri percorrere dall’interno. Le suggestioni di una inossidabile identità perduta sono ampiamente contraddette dalle concrete vicende storiche. Per ciò che concerne l’identità comunista, mi è sufficiente sottolineare che diverse culture comuniste sono cresciute in molteplici centri intellettuali, nelle elaborazioni di grandi personalità eterodosse, in contributi di notevole rilievo come quelli di Gramsci e Rosa Luxemburg, attraverso differenti esperienze storiche in Oriente e in Occidente. Le idee di comunismo di Trockij, Bucharin e Stalin erano, in parte, sensibilmente lontane tra loro, così come quelle di Brežnev e Berlinguer. Anche in Italia, e tra gli stessi comunisti, la percezione degli ideali del socialismo è stata molto diversa prima e dopo la Resistenza, in seguito ad una crescente contaminazione democratica favorita dall’unità antifascista. In realtà, a mio avviso, la crisi di quella cultura si inscrive principalmente nel suo decorso, che si è consumato nel contraddittorio rapporto tra principi e inveramento storico. Non bisogna infatti dimenticare che nella ricerca delle motivazioni di fondo che hanno mosso i diseredati di tutto il mondo verso il proprio riscatto è difficilissimo operare una netta distinzione tra socialismo e comunismo, non solo perché sono nati dalla stessa coscia di Giove, ma perché all’osso, nella cultura popolare, sono sempre state le stesse. Anche se in Italia la riduzione dell’esperienza comunista al mero ambito dei confini nazionali sarebbe in netto contrasto con uno dei suoi presupposti fondamentali: l’internazionalismo. La stessa parola ha assunto significati molto diversi. Mi è capitato altre volte di osservare come, a livello dei mass media, il movimento criminale e terrorista dei Khmer rossi sia stato definito, impropriamente, come marxista. Ma al di là di questo paradosso appare evidente che l’elemento nazionale del comunismo cinese, inserito nella millenaria autosufficienza e nella percezione di superiorità della cultura cinese, aveva ben pochi contatti con la tradizione popolare, socialista e comunista dell’Occidente. La completa rinuncia a se stesso dell’individuo, la sua totale immersione nella collettività erano del tutto opposti alla autorealizzazione e liberazione dell’individuo di cui avevano parlato Gramsci e lo stesso Marx. Si è trattato di due visioni profondamente diverse. Si vede ad occhio nudo che ci sono stati ben pochi contatti tra le origini razionaliste e illuministe delle idealità del movimento operaio italiano e il misticismo volontarista e comunitario del comunismo orientale. Infatti, mentre il ramo centrale della cultura socialista e comunista è nato, come si diceva una volta, dalla filosofia tedesca, dal pensiero politico francese e da quello economico inglese, i tre elementi fondamentali che hanno caratterizzato la cultura comunista in Oriente sono stati il volontarismo, la tensione morale e il misticismo collettivista, unificati in una ideologia nazionale giustificata dalla sacrosanta esigenza di liberazione dal colonialismo. Naturalmente mi limito a sottolineare una distinzione e non una gerarchia di valori. Tuttavia, la storia non si occupa di come ciascuno di noi ha vissuto le cose. Si occupa di processi oggettivi che hanno coinvolto grandi masse, popoli, paesi interi e Stati. Per questo quando parlo di crollo del comunismo non mi riferisco al tema sotto il profilo più generale della storia delle idee, ma presto attenzione al modo in cui la cultura comunista, e il comunismo stesso, sono stati vissuti e percepiti dalle grandi masse del pianeta e come di riflesso e in contrapposizione sono emerse altre esperienze di sinistra. Parlo, in particolare, del comunismo che si è incarnato nel socialismo reale sotto la direzione di Mosca. Il progressivo distanziarsi dei diversi destini delle sinistre e il crescente baratro tra idealità e realizzazioni concrete, tra socialismo ideale e reale movimento storico, prendono l’avvio da un paradosso: mentre il regno della libertà prefigurato dal marxismo, per quanto carico di finalismo utopistico, richiedeva uno sviluppo delle forze produttive tale da creare le condizioni materiali idonee a facilitare l’instaurarsi di più libere relazioni umane, il centro della rivoluzione mondiale è stato la Russia, dove non c’erano le condizioni oggettive che Marx aveva posto a base di un superamento del capitalismo. Il “Capitale” di Marx avrà modo, in seguito, di vendicarsi ampiamente. Tuttavia con questa mia osservazione non intendo voler mettere le brache al mondo, negando che ci fosse nella Russia zarista una condizione rivoluzionaria che andava colta, anche se mi sembra del tutto evidente che le tappe successive alla rivoluzione d’Ottobre soffriranno di quella contraddizione. Che si irradierà nelle articolazioni territoriali e nelle diversificazioni ideali tra le sinistre, divenendo uno degli aspetti delle furiose lotte intestine.
E Il Fatto stronca preventivamente il film su Bettino. Margherita Boniver 31 Ottobre 2019 su Il Riformista.it. Sul Fatto Quotidiano di ieri una stroncatura preventiva di un film che esce a gennaio – Hammamet, lacrime d’autore (e di Stato) per un Craxi martire il titolo del pezzo – dà un bell’esempio di censura precoce, genere non si sa mai. Il film, firmato da Gianni Amelio e interpretato da Pierfrancesco Favino, verrà distribuito in concomitanza con una ricca serie di iniziative per il ventennale della morte di Bettino Craxi organizzate dalla Fondazione che porta il suo nome. La scelta degli autori di fare un ritratto di un uomo nella drammatica fase finale della sua vita causerà grandi sofferenze ai familiari e ai moltissimi che rimpiangono Craxi il politico. Lo statista socialista non fu mai sconfitto politicamente, ma abbattuto, sì, da una tempesta giudiziaria nel ’92-’93 che usò notoriamente due pesi e due misure, e che scelse l’eliminazione selettiva di cinque partiti politici che avevano governato l’Italia nel dopoguerra. Noi preferiamo ricordare Bettino per le sue straordinarie capacità e intuizioni, dall’installazione del sistema missilistico europeo a Comiso, dall’epopea di Sigonella, la battaglia vinta sul referendum sulla scala mobile, la campagna per salvare la vita di Aldo Moro, il sostegno solidale ai partiti socialisti in esilio durante le dittature in Spagna, Portogallo e Cile tra gli altri, le leggi su divorzio e aborto che portano le firme di socialisti illustri, le battaglie per la parità uomo/donna, una straordinaria politica con i Paesi del Mediterraneo che è scomparsa con lui, e molto altro ancora.
Stefania Craxi: “Persino tra i Cinque stelle qualcuno rivaluta mio padre”. Paola Sacchi 31 Ottobre 2019 su Il Riformista.it. Senatrice Craxi, siamo verso il ventennale della scomparsa di suo padre, lo statista Bettino Craxi, morto in esilio a Hammamet.
Il prossimo 19 gennaio sembra che in Tunisia verrà anche il numero due leghista Giancarlo Giorgetti e lo stesso Matteo Salvini dicono sia tentato dalla visita. Se l’aspettava questa svolta leghista?
«Chiunque intenda venire ad Hammamet a rendere omaggio a un uomo che ha speso la sua vita per il bene del suo Paese, per la libertà, la democrazia e la pace, è ben accetto. Non parlerei di svolte, piuttosto di maturazione. La storia va scritta bene e aiutata – forse è questo l’unico merito che mi riconosco – ma con il trascorrere del tempo la coltre di menzogne e mistifi cazioni cede il passo e la verità, seppur con fatica, si fa strada».
Lo stesso Umberto Bossi anni fa, in una mia intervista su Panorama, ammise che «Craxi fu uno statista: appiopparono tutto a lui». Ma lei lo sapeva che il Senatùr fece un bel cazziatone a Orsenigo per quel cappio?
«Quel cappio è stato e resta uno dei simboli di una stagione di barbarie, di violenze, di ingiustizie e inganni, fatta in spregio al diritto e alla ragione ma soprattutto contro lo stesso interesse dell’Italia. Da quel dì siamo stati – non a caso – sempre più deboli e subalterni; un’economia malata e una terra di conquista per gruppi imprenditoriali e finanziari di ogni sorta. Ma quell’immagine è ben rappresentativa del clima da “caccia alle streghe” di allora. Un clima costruito ad arte e supportato da certa stampa e certi poteri…»
Lei è senatrice di Forza Italia, è con Fi da tanti anni, lei che definire craxiana è riduttivo, poiché lei è la Craxi. Che rapporti ha avuto e ha con i leghisti, da Umberto Bossi a Salvini?
«Non ho avuto rapporti particolari né con Bossi prima né con Salvini ora. Ma non ho problemi con la Lega Nord. Ho tanti amici parlamentari, ho lavorato bene con loro negli anni di governo e, soprattutto, ho un buon rapporto con la loro base, dove c’è un grande rispetto sia per la battaglia che conduco sia verso mio padre. Pensi che sono stata anche ospite a Radio Padania lo scorso anno… E poi non dimentichi che sono un Senatore di FI eletto in un collegio uninominale…»
Ora a Salvini, che a suo tempo si oppose, chiederà di dare una mano perché venga dedicata a Craxi una Via nella sua Milano?
«Veramente già nel passato i consiglieri leghisti avrebbero votato a favore. È un pezzo del PD – che sul tema è spaccato a metà – più altri consiglieri sinistri ad opporsi e impedire che a Craxi venga tributato nella sua Città, che ha tanto amato e per cui tanto si è speso, un riconoscimento giusto e doveroso. Negli anni dell’esilio pensava alla “sua” Milano e si commuoveva…»
Giorgetti parla del valore che dette suo padre al rispetto dell’interesse e della sovranità nazionale, di cui Sigonella è emblematica. Che differenza c’è nel “sovranismo”, seppur in fase di rimodulazione, della Lega e quello di suo padre?
«Non mi avventuro nel gioco delle differenze, per giunta tra tempi e contesti diversi. Craxi era un uomo che amava l’Italia e gli italiani, immaginava un Paese grande tra i grandi, aperto al mondo e alla sua gente, che svolgesse un ruolo guida nell’area mediterranea e mediorientale. Credeva che gli interessi nazionali andassero difesi e promossi e, che nel concerto europeo, nella solidarietà europea, non poteva comunque venire meno, per storia, cultura, tradizione e anche per necessità, il ruolo di ogni singola Nazione. È la ricchezza dell’Europa che ancora oggi non si comprende. Si cerca, invece, una deleteria omologazione che non fa né il nostro bene né quello dell’Unione».
Craxi era un europeista ma non eurodogmatico….
«Esatto. Si spese per la costruzione dell’Europa, ma non era né un ideologico né un settario. Vide le storture e le disuguaglianze che prendevano corpo con Maastricht che, rispetto alle premesse, risentiva dell’unione delle due Germanie e dei nuovi scenari. Negli ultimi anni ebbe a definirsi “euro-scettico” e preconizzò con largo anticipo una Unione Europea affetta da “zoppia” in cui a prevalere non fosse una logica da “gerarchie di potenza”. Sapeva che una Ue a trazione nordica avrebbe generato problemi…»
Cosa risponde a un certo anti-salvinismo persino con punte di giustizialismo di socialisti che sembrano fermatisi ai tempi del cappio di Orsenigo?
«Posso capirli. L’accanimento in quegli anni fu duro, una campagna feroce. Ma dico loro che il giustizialismo non appartiene alla nostra storia e alla nostra cultura. È un male, una deriva che ha avvelenato i pozzi della vita civile, democratica e istituzionale».
È un fatto che Silvio Berlusconi sia l’unico leader che senza se e senza ma abbia difeso sempre la memoria di Craxi. E lei ha detto che c’è più rispetto per lui nel centrodestra che nel centrosinistra…
«Non lo dico io. È la realtà dei fatti che solo chi non vuole non vede. Berlusconi poi non ha mai avuto remore nel dire che nel biennio ‘92 – ‘94 si è consumato un “colpo di Stato” che ha portato alla distruzione delle forze politiche che avevano reso grande, democratica e progredita l’Italia. La sinistra, invece, nel migliore dei casi tace. Nel peggiore, beh…»
Come se lo spiega?
«Questa sinistra resta la figlia di “Mani pulite”. Lì si trova il suo presunto riconoscimento e da quel brodo di cultura che impasta delegittimazione della politica e delle istituzioni, populismo, giustizialismo, moralismo, ipocrisia e doppiezza, nasce il grillismo. Due sottoculture giacobine che pericolosamente si ritrovano a braccetto».
Dal Pd, dal centrosinistra, cosa si aspetta per il ventennale? Verrà qualcuno dei suoi leader, finora mai andati sulla tomba di Craxi, ad Hammamet?
«Me lo auguro. Porrebbero fine ad una anomalia tutta italiana. Li attendo a braccia aperte, purché abbiano il coraggio di dire parole di verità. Ma sia chiaro: oggi, serve riconoscere non i meriti di Craxi – quelli sono evidenti – ma devono parlare della sua persecuzione mediatico-giudiziaria. Non esiste un Craxi buono (Sigonella, euromissili, ecc.) e uno cattivo (finanziamento, processi, ecc). È l’orecchio da cui non ci sente questa sinistra! Si dicono riformisti? Vengano ad omaggiare l’ultimo grande leader della sinistra riformista che hanno fatto morire in esilio».
Secondo Martelli, intervistato da Veltroni per il Corriere, ci sarebbero stati margini per L’Unità socialista. Secondo suo padre, nel mio libro “I Conti con Craxi”, no. Lui racconta che Occhetto andò da lui e ammise: «i miei vogliono la Dc». Che opinione ha?
«Parlano i fatti. Primo. Dopo il 1987 Craxi continua a porsi il problema di assicurare una maggioranza di governo e un esecutivo al Paese visto che il Pci ancora sognava l’eurocomunismo e continuava a prendere soldi da Mosca nonostante le crepe del Muro fossero evidenti. Secondo. Craxi non voleva distruggere i comunisti, ma cambiarli. Ricordo che, proprio su loro richiesta nel ‘91 non va ad elezioni anticipate e fu proprio lui a far patrocinare l’ingresso dei post-comunisti nell’Internazionale socialista. Il giorno dopo erano in giro per le Cancellerie a sputargli in faccia… Terzo. La loro indisponibilità non è una mia invenzione o di Craxi. Lo dicono loro. Lo certifica Occhetto, lo scrive Paolo Franchi nel suo ultimo lavoro…»
Quindi, Martelli?
«Forse si è fatto prendere da un eccesso di autocritica, o meglio, di critica. Non vorrei che Veltroni abbia resuscitato qualche complesso di inferiorità che, specie prima e dopo Craxi, ha albergato nel mondo socialista».
Nell’ex Pci chi si è comportato meglio con lei e con la sua famiglia?
«Premessa. La vicenda Craxi non è una vicenda che può essere derubricata sul piano personale o familiare. Era e resta una questione politica, una spada di Damocle che pesa sulla nostra Repubblica. Noi abbiamo attraversato anni duri. Non solo dal punto di vista politico, ma anche da quello umano e lavorativo, in cui sono mancati molti presunti amici. Secondo lei potevo aspettarmi qualcosa dai compagni del Pci?»
Ma ci sarà stato qualcuno che negli anni ha provato a sanare la ferita.
«Mah, guardi, degli ex-comunisti quello che più di ogni altro ha inteso proferire qualche parola di verità su Craxi è stato, nel bene e nel male, Giorgio Napolitano. Penso alla lettera del decennale fatta da Presidente della Repubblica. Con lui, anche per ragioni istituzionali, ho costruito un rapporto di lealtà e rispetto improntato alla massima franchezza…»
Ci può anticipare le principali iniziative per il ventennale in Italia e Tunisia?
«Il 2020 sarà un anno “craxiano”. La Fondazione a lui titolata ha dato vita a un “Comitato d’onore” animato da personalità del mondo riformista, da esponenti dell’istituzioni, dell’economia, dell’impresa, dell’arte, dello spettacolo e della cultura. Ci saranno iniziative su tutto il territorio nazionale e all’estero, diverse per impostazione, argomento e natura in grado di parlare a tutti. Convegni, ricerche, pubblicazioni, mostre… Non ci sarà da annoiarsi. Si parte da Hammamet il prossimo 17 – 19 gennaio e si continuerà per tutto l’anno».
Dal premier Conte si aspetta un messaggio? E dai Cinque Stelle?
(Sorride, ndr). «Lo deve chiedere a loro. Non sono una donna di fede, non ho questo dono, ma sono una donna ostinata… chissà, magari prima o poi! Ma vuole sapere una cosa?»
Dica pure…
«Alcuni pentastellati non riconoscono Craxi come l’uomo nero. Alcuni di loro mi fermano nei corridoi del Palazzo per parlarmene e chiedermi, pensi un po’! Se lo sapesse il supremo tribunale dell’inquisizione…»
Quale è la lezione principale che viene da Craxi per l’Italia di oggi?
«Non c’è una sola lezione. L’azione politica di Craxi, le sue intuizioni e la sua lettura della realtà è una eredità ancora viva che parla al futuro di questo Paese…»
Che cosa vi siete detti l’ultima volta lei e suo padre?
«So bene che rischio di non essere creduta ma fino all’ultimo momento parlava di politica. Eravamo a tavola e guardava il tg e si chiedeva che fine avrebbe fatto l’Italia. La sua Patria».
Ambrogino a Borrelli, schiaffo al socialismo italiano. Piero Sansonetti 19 Novembre 2019 su Il Riformista.it. Il Comune di Milano ha deciso di attribuire a Francesco Saverio Borrelli l’Ambrogino d’oro alla memoria, cioè il premio più importante per un cittadino milanese, che viene assegnato tutti gli anni il 7 dicembre, giorno di Sant’Ambrogio. Francesco Saverio Borrelli è l’ex Procuratore di Milano che ha realizzato, coordinato e diretto l’intera operazione “Mani pulite” che, tra il 1992 e il 1994, ha prodotto migliaia di imputati, centinaia di arrestati e di nuovo migliaia di assolti. L’inchiesta ha provocato anche molti suicidi. Soprattutto tra i milanesi. Quarantuno in tutto, tra i quali quello celebre del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, socialista, che si tolse la vita in carcere dove era illegalmente detenuto. Francesco Saverio Borrelli è il magistrato che impedì che il governo italiano concedesse un salvacondotto a Bettino Craxi, per curarsi in Italia, quando era morente. Bettino Craxi è stato un illustre cittadino di Milano. È stato un italiano molto illustre, che ha servito il suo Paese da presidente del Consiglio e da leader del partito socialista, e ha ottenuto dei grandi successi portando l’Italia tra le grandi potenze industriali. È stato accusato, senza prove, di molti reati e di avere raccolto un tesoro personale che nessuno è riuscito mai a trovare. Perché non c’era. Personalmente sono stato sempre un anti-craxiano. Sempre. Ma la scelta di schiaffeggiare Craxi e la grandiosa tradizione socialista che rappresenta, assegnando l’ambrogino a Borrelli, suscita in me un sentimento di stupore e indignazione.
Vogliono il potere. 1992 Ritorno al futuro, partito dei Pm all’assalto. Piero Sansonetti 5 Novembre 2019 su Il Riformista.it. È in corso un attacco senza precedenti alla politica italiana da parte della magistratura. Anzi, un precedente c’è: 1992. Cioè l’anno della grande inchiesta “Mani Pulite”, quella che portò all’annientamento di una intera generazione politica, e precisamente della generazione che forse è stata la migliore degli ultimi 150 anni. Quella che ha reso grandi i partiti (soprattutto la Dc, il Psi e il Pci) e ha portato l’Italia a diventare la quarta potenza industriale del mondo e uno dei paesi dove più si riducevano, progressivamente, le disuguaglianze sociali. L’attacco di ieri si è verificato attraverso tre o quattro bocche di fuoco. Principalmente quelle controllate da tre magistrati molto noti: Giuseppe Pignatone, Nino Di Matteo e Nicola Gratteri.
Ciascuno per conto suo ha sistemato i cannoni ad alzo zero e ha iniziato il bombardamento.
Pignatone ha contestato la sentenza della Cassazione, recentissima, che esclude la presenza della mafia nella vicenda “Mondo di Mezzo”. (La Cassazione aveva spiegato che corruzione e mafia non sono necessariamente la stessa cosa).
Di Matteo, che è un ex Pm e un membro del Csm (recentemente escluso da un gruppo di lavoro della superprocura Antimafia perché troppo ciarliero coi giornalisti) ha usato la Tv per entrare nella contesa politica e mettere in moto una valanga di fango contro Berlusconi.
Gratteri – che dei tre è il più concreto – senza tanto rumore ha fatto capire al Pd e al centrodestra calabrese che i candidati alla Presidenza della regione è meglio che li scelga lui. E ha deciso che né il governatore uscente – candidato naturale del centrosinistra – né il sindaco di Cosenza – candidato naturale del centrodestra – sono adatti all’incarico. Siccome il governatore e il sindaco sono di gran lunga i candidati favoriti, in vista delle elezioni di gennaio, Gratteri ha ottenuto già un buon risultato: probabilmente centrodestra e Pd piegheranno il capo e presenteranno un candidato gradito a Gratteri, e così, ovviamente, faranno anche i 5 stelle. In questo modo il risultato delle regionali è abbastanza sicuro: vincerà un gratteriano. Non so se qualcuno ricorda quella favola di Esopo del Leone e del topolino, rielaborata nella versione di Trilussa, che finisce con quei versi memorabili in dialetto: “Tenente, la promozzione è certa, e te lo dico perché me so magniato er capitano”. Ecco, il lavoro di Gratteri si ispira un po’ al poeta romanesco. Di Trilussa gli manca solo l’ironia. Aggiungiamo a questi attacchi diretti anche l’attacco indiretto che viene in seguito all’arresto a Palermo di un ex detenuto e militante radicale. Il quale è accusato di avere avuto rapporti coi boss e di avere utilizzato per questi rapporti la possibilità di visitare i carcerati a seguito dei parlamentari. Quel che colpisce è la foga con la quale da molte parti (non dalla Procura di Palermo, proprio per confermare che una cosa è la magistratura e una cosa diversa e non coincidente è il partito dei Pm) si è chiesto di cogliere al balzo questa notizia di cronaca per limitare le visite in carcere e per rendere le prigioni un luogo ancora più inaccessibile e dove i diritti sempre di più diventino una opzione discrezionale. Nel titolo di questo articolo, ricordiamo il 1992. Perché? Non solo perché la virulenza dell’attacco dei magistrati fa ricordare la grandiosità di Mani Pulite. Ma per altre due ragioni.
La prima riguarda la situazione politica, la seconda riguarda le istituzioni. La situazione politica oggi è molto simile a quella del 1992. La politica è debolissima, allo sbando, e non sembra in grado di controllare i movimenti di chiunque abbia intenzione di ferirla. Il governo è sorretto da partiti che nel Paese sono minoranza. L’opposizione è sostenuta invece da una maggioranza abbastanza forte, nell’opinione pubblica, e tuttavia – specialmente per le recenti esperienze governative della Lega – dà la sensazione di non avere né idee né competenze sufficienti per governare la crisi. I partiti sono allo sbando. I due partiti che negli ultimi 30 anni si sono alternati al vertice del potere politico, e cioè Forza Italia e il Pd, sono ridotti ai minimi termini e sono martoriati dalle scissioni successive. L’intellettualità è in ritirata, impaurita, spaesata, incapace di esprimere giudizi e tantomeno di indicare prospettive. La pancia del Paese è in grande agitazione, travolta dalla cultura del “vaffa” ma senza più aver fiducia neppure in chi quella cultura ha creato. Tutto ricorda i tempi drammatici del ‘92-’93, quando i partiti di governo persero in pochi mesi più della metà dei consensi che avevano, mentre l’ex Pci sbandava e poi si accodava ai magistrati. E i giornali, in gran parte subalterni al potere economico – anche lui intimidito dall’offensiva della magistratura – decisero di schierarsi a testuggine a difesa delle Procure.
La seconda ragione per la quale vediamo una somiglianza tra l’offensiva di oggi e quella del ‘92 è la larghezza dell’attacco. Che non si limita a colpire i partiti e a pretendere (Gratteri) il diritto a surrogarli, ma giunge fino a mettere in discussione l’intero assetto democratico. Compreso, in parte, il potere giudiziario. L’attacco di un gruppo di magistrati guidati da Marco Travaglio alla Corte Costituzionale, e ora l’attacco di Giuseppe Pignatone alla Corte di Cassazione, spiegano benissimo la natura di questa offensiva. Il partito dei Pm non solo spara a palle incatenate contro i partiti, ma intende mettere in discussione anche i meccanismi fondamentali del garantismo che funzionano all’interno dell’Ordine giudiziario. L’obiettivo è grandioso e semplice: mettere in mora lo Stato di Diritto. In tutte le sue articolazioni.
Queste righe che ho scritto sono di semplice analisi politica. Non vi nascondo che il sentimento che questa analisi produce, in me, è di paura. Siccome sono, di formazione, un vecchio comunista, ricordo Antonio Gramsci e la sua analisi sulla sovversione delle classi dirigenti. Mi pare attualissima. Oggi la sovversione avviene da parte del partito di Pm.
P.S. Lo ripeto per l’ennesima volta, e non come precisazione formale. Partito dei Pm e magistratura non coincidono. E in buona parte sono in conflitto tra loro. Però il partito dei Pm, oggi, è fortissimo, e sta fagocitando la magistratura.
Mani pulite, la stagione dei suicidi. Roberta Caiano 19 Novembre 2019 su Il Riformista.it. Tangentopoli e tutto ciò che ne conseguì non solo cambiò il volto della politica italiana, che segnò la fine della cosiddetta Prima Repubblica, ma provocò 41 suicidi tra politici e imprenditori. Conosciuta anche come l’inchiesta di Mani Pulite, deve il suo nome al Pm Antonio Di Pietro il quale aprì un fascicolo alla Procura di Milano nel 1991 dando inizio alle indagini. Il vero inizio, però, si ha nel febbraio 1992 quando Di Pietro chiese e ottenne un ordine di cattura nei confronti dell’ingegnere Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio e membro del Psi di Milano. Dapprima Chiesa, incarcerato a San Vittore, si rifiutò di collaborare con il pubblico ministero, ma in seguito confessò che lo scandalo delle tangenti era in realtà molto più esteso di quello che si riteneva. Da quel momento lo scalpore si allargò a macchia d’olio attraverso una risonanza mediatica molto forte.
I PRIMI SUICIDI – Furono 41 le persone che si tolsero la vita a causa di queste indagini. La maggior parte lo fece al di fuori dal carcere o ancora prima di essere ufficialmente indagati. Questo accadde come conseguenza della pressione dell’opinione pubblica, per il timore che si venisse marchiati a vita, oltre che condannati. Il primo a suicidarsi fu Franco Franchi, coordinatore di una USL di Milano. Sebbene non fosse ancora entrato nelle indagini, sapeva che prima o poi sarebbe rientrato e così si uccise nella sua auto soffocato dal monossido di carbonio. A seguire ci furono quello del segretario del Partito Socialista di Lodi, Renato Morese, che si tolse la vita con un colpo di fucile alla testa, poi quelli di Giuseppe Rosato, della Provincia di Novara, Mario Luciano Vignola, della Provincia di Savona, e dell’imprenditore di Como Mario Comaschi.
I SUICIDI ECCELLENTI – Il 2 settembre del 1992 è la volta del deputato del Partito socialista Sergio Moroni. Tesoriere del partito in Lombardia, a Moroni vengono notificati ben tre avvisi di garanzia per una serie di presunte tangenti e il pool di Mani Pulite chiede alla Camera l’autorizzazione a procedere. Moroni scrive una lettera all’allora presidente della Camera Giorgio Napolitano nella quale parla di ipocrisia e sciacallaggio e di un processo sommario e violento. Rifiuta che venga definito come un ladro e contesta di non aver mai preso una lira concludendo con una frase inquietante: “ma quando la parola è flebile non resta che il gesto“. Il 2 settembre si spara un colpo di fucile alla testa nella cantina della sua casa di Brescia. Uno dei nomi più famosi è quello Gabriele Cagliari. Presidente dell’ENI ed uno dei più importanti manager pubblici, dopo 4 mesi nel carcere di San Vittore si toglie la vita soffocandosi con un sacchetto di plastica. La sua vicenda è quella che ha destato più scalpore perché vengono trovate delle sue lettere in cui esprimeva il suo senso di impotenza nei confronti della gogna mediatica a cui era sottoposto. Cagliari più volte aveva dichiarato di essere all’oscuro delle tangenti ma la pressione proveniente dall’esterno della cella è stata più forte portandolo al suicidio. A soli tre giorni dalla morte di Cagliari, si uccide un altro indagato: Raul Gardini. Il manager, a capo dell’impero agro-alimentare della famiglia Ferruzzi di Ravenna, viene indagato per una maxi-tangente da 150 miliardi dell’affare Enimont. Quando uno dei suoi dirigenti viene arrestato in Svizzera, Gardini pensa che lui sia il prossimo ad essere arrestato così si toglie la vita nella sua casa di Milano. Infine il 25 febbraio del 1993 viene ritrovato il corpo senza vita di Sergio Castellari, ex direttore generale del Ministero delle Partecipazioni Statali, che muore con un colpo di revolver Calibro 38. Risultano brutali le parole di Piercamillo Davigo del pool di Mani Pulite “la morte di un uomo è sempre un avvenimento drammatico. Però credo che vada tenuto fermo il principio che le conseguenze dei delitti ricadono su coloro che li commettono non su coloro che li scoprono“.
Intervista all'ex pm: "I grillini sono incompetenti". Di Pietro: “Mani pulite fu una primavera. Rifarei tutto tale e quale”. Angela Nocioni 6 Novembre 2019 su Il Riformista.it. Antonio Di Pietro sta raccogliendo le olive a casa sua in Molise. Dice di sentirsi ormai parte dell’associazione combattenti e reduci. D’essersi pentito d’aver fatto politica. Mani Pulite, invece, la rifarebbe tale e quale. «Quell’inchiesta andava fatta in quel modo. La rifarei non una, ma mille volte così come l’ho fatta», dice l’ex pm del pool dello scandalo Tangentopoli. «Allora mi ritrovai tra le mani un malato grave con un tumore gravissimo, la corruzione ambientale, che aveva infettato lo Stato, corrotto la politica e rovinato la libera concorrenza. L’intervento chirurgico era urgente, altrimenti sarebbe morta la democrazia. Poi però è successo che l’Italia si è ritrovata nel vuoto. Era necessario che le redini del governo fossero prese in mano da qualcuno in grado di farlo. Invece il sistema italiano questo qualcuno non è stato in grado di produrlo. Ci siamo affidati al personaggio di turno. Dopo Mani pulite, i partiti hanno cominciato ad addensarsi attorno a una persona. Ora una, ora un’altra. Vista come quella che potesse risolvere tutti i guai del mondo. Così è nato Berlusconi, così è nato Bossi. E anche Di Pietro. Il cittadino dopo Mani pulite ha cominciato a votare più la faccia che la sostanza. Tutto di pancia. Non va bene».
E questo bel guaio l’avrà mica fatto lei?
«No. L’intervento chirurgico spettava alla magistratura. Il progetto politico invece no. Non spettava alla magistratura. E invece… La classe politica venuta fuori ora è incapace di risolvere i problemi. Non rifarei politica, se tornassi indietro».
Quelli che per fare politica hanno usato il suo nome, la sua popolarità, lanciati anche da lei, hanno seguito la sua eredità o l’hanno tradita? Parlo di Ingroia, per esempio.
«Il primo a salire sul carro del partito personale che è spuntato fuori tra gli effetti di Mani pulite è stato Berlusconi. E pure io. Ma mica siamo stati i soli. Poi è arrivato Grillo. In un momento di grande confusione Grillo è riuscito a portare la rabbia, la voglia di rivalsa e la delusione dei cittadini nelle urne. Meglio nelle urne che a sfasciare le vetrine. È stato bravo. L’errore di Di Pietro e anche di Grillo quale è stato? Lo dico perché i grillini li considero miei figli putativi, sono figli legittimi di Grillo, ma pure figli putativi miei. Io ho fatto un errore: mi sono ritrovato dalla sera alla mattina con un grande consenso popolare, una classe politica da costruire e ho pensato di poterla costruire con chi aveva già fatto politica in precedenza. E mi sono portato appresso nel mio partito parte del tumore della Prima repubblica, purtroppo. Grillo ha fatto un errore diverso. Ha escluso chi aveva fatto politica in precedenza. Come chiedeva Casaleggio padre, che l’aveva capito guardando l’errore che avevo fatto io. E così Grillo ha portato al governo del paese degli incompetenti che a mala pena saprebbero fare un drink al bar».
Visto il clima politico del momento, crede ci sia il rischio di un nuovo ’92, ’93 in Italia? Di un terremoto politico con protagonisti dei magistrati?
«Non c’è stato nessun rischio allora, c’è stata una primavera. Il rischio per la democrazia c’era prima, c’è stato fino al ’92 perché il malato di tumore stava per morire. L’intervento chirurgico era obbligato dalla legge. Non l’ho fatto per motivi ideologici, io non ho mai chiesto a nessuno di che partito era. Chiedevo: quanti soldi hai preso?»
Prima c’erano Andreotti, Craxi, Forlani. Personaggi discutibili che lasciavano supporre d’aver fatto bene le elementari. Ora c’è Di Maio.
«Ha fatto bene a citarmeli. Andreotti, prescritto per mafia. Forlani condannato perché responsabile di finanziamenti illeciti. Craxi per corruzione. Questi c’erano. Padreterni?»
No. Ma se Craxi discuteva qualcosa a nome dell’Italia, il cittadino medio poteva avere mille riserve e supporre che chi lo rappresentava avesse chiaro che Pinochet non è stato il dittatore del Venezuela.
«Sono preoccupato che un Di Maio qualsiasi rappresenti il mio paese con una conoscenza che è quella che è. Sono amareggiato nel vedere Di Maio che parla delle cose del mondo. Però questo non mi dà la possibilità di giustificare un Craxi che sapeva tutto su come gestire la crisi di Sigonella, tanto di cappello, ma sapeva anche di conti, aveva anche il know how per molto altro. Altro non lecito».
Quindi passati anni dalla morte di Craxi, col senno del poi, lei non ha cambiato idea?
«Io non ce l’avevo né con lui né con altri. Io ho trovato un signore con la marmellata in mano. Di quello mi sono occupato».
Quando lei dice d’aver fatto l’errore di importare nel suo partito un modo di fare della Prima repubblica si riferisce a Razzi e Scilipoti o anche ad altri?
«Non mi riferisco tanto alle persone, ma a una cultura. Razzi poi è il meno peggio di tutti. In questa legislatura ce ne sono centinaia che hanno cambiato casacca. Stanno zitti o fanno finta di averlo fatto per una ragion di Stato che non esiste. Solo interessi personali. Razzi nella sua ingenuità ha detto perché l’ha fatto. E Razzi, di tutti quelli che hanno cambiato casacca, è l‘unico a essere stato eletto con le preferenze».
Lei litigò con il pool di Milano? Com’erano i rapporti tra lei e Borrelli?
«Con il dottor Borrelli ho sempre avuto un rapporto formale, gli ho sempre dato del lei. Un rapporto corretto. Veniva citato da me quotidianamente. L’unica lamentela sua nei miei confronti, un complimento che mi fece in realtà, è che producevo talmente tanti atti da non dargli il tempo di leggere tutto. È una persona per la quale avevo stima perché nei momenti delicati di Mani Pulite ci ha sempre messo la faccia. Lui all’inizio, quando feci arrestare Mario Chiesa, disse: è stato arrestato in flagranza di reato, va in direttissima, tra 15 giorni si chiude tutto. Dopodiché ha avuto modo di prendere atto della realtà dell’inchiesta, ha visto come si allargava. Ebbe modo di capire come il fascicolo cresceva e si comportò in modo corretto. Io lo rispetto. Con gli altri del pool ancora oggi capita che ci troviamo a qualche convegno insieme. A parte Piercamillo Davigo che è al Csm, facciamo parte dell’associazione combattenti e reduci oramai. Il pool di Palermo era diverso. Falcone e Borsellino hanno avuto un pezzo di vita privata insieme. Io con i miei colleghi no, avevamo solo rapporti professionali».
Nessuna lite?
«No».
Cosa pensa del generale Mori?
«Per rispetto di chi deve scrivere la sentenza di quel processo, parlerò dopo. Sono stato testimone, non posso inficiare la mia testimonianza».
Qual è la verità sulle undici case che sembrava fossero sue? Erano sue?
«Sto ancora facendo atti di esecuzione per persone che devono risarcirmi di danni che mi hanno fatto per diffamazione. Alcuni con undici sentenze passate in giudicato. Mai ho portato a giudizio un giornalista che ha messo il microfono sotto il naso di qualcuno che mi ha diffamato, solo le persone che hanno mentito diffamandomi».
Gianroberto Casaleggio come l’ha conosciuto?
«Casaleggio l’ho conosciuto per motivi professionali, nel modo più semplice del mondo. Quando ho iniziato a fare politica e lui si occupava già di rete e di comunicazione, m’è arrivata una email che diceva: noi offriamo questo servizio. L’ho incontrato, ne abbiamo discusso. Lui ha gestito per una certa parte la mia comunicazione e io ho pagato il corrispettivo. Poi io ho preferito continuare a gestirla da solo. Lui ha continuato a occuparsi della comunicazione di Beppe Grillo, cosa che già faceva. Siamo rimasti amici, nel senso di rispetto reciproco, ci confrontavamo, l’ho anche difeso in alcune sue cause per diffamazione. Ma non eravamo intimi, non andavamo a mangiare un piatto di spaghetti».
Con Davide Casaleggio ha rapporti?
«Non lo conosco bene. Non ho avuto con lui il rapporto che ho avuto con il padre».
Si ricorda di quell’agosto romano di quando lei studiava a Roma, era senza casa e le affidarono un cane?
«Ah sì. Non è un segreto. Sa, quando vedo i migranti che vengono in Italia io ho rispetto per il loro dolore, io sono stato parecchie volte in una situazione delicata, io mi ricordo di quando sono stato immigrato in Germania e lavoravo tantissime ore, giorno e notte, e dormivo in baracca. Noi ci facevamo un mazzo così. La classe operaia emigrata si è sempre fatta un mazzo così».
Sì, ma il cane?
«Andavo a scuola ancora. Lavoravo in una casa editrice a Roma che faceva degli albi. In questa casa editrice c’era una coppia di anziani con un cagnolino bellissimo. Se lo coccolavano tanto. Ad agosto la casa editrice non lavorava. I due signori m’hanno lasciato il cane. Questo cagnolino tutti i giorni a mezzogiorno mangiava una tagliata di vitello. Una al giorno. Io latte e pane. Insomma, per farla breve, gli ho insegnato a bere un po’ di latte e gli ho dato un po’ del mio pane. E ogni tanto mangiavo un pezzettino della sua tagliata. Era più la carne di vitello che il cane buttava che quella che mangiava. Gli ho insegnato a vivere un po’ da cane. Siamo stati benissimo insieme eh! Mi voleva bene. S’era affezionato il cagnolino».
Così finì la Prima Repubblica. Un libro racconta l'agonia del craxismo e l'irruzione di Berlusconi. Partendo da quando Bettino cercò di fermare le inchieste giudiziarie mettendo le mani sul Corriere. Proprio come avrebbe fatto il Cavaliere 15 anni dopo. Marco Damilano il 20 gennaio 2012 su L'Espresso. Canaglia. Mascalzone. C'è solo una persona che nel 1992 Bettino Craxi odia più di Antonio Di Pietro. Per lui non c'è il poker d'assi, ma una sequenza di attacchi, accuse, perfino minacce fisiche. "Una volta mi chiamò e mi urlò: "Dopo le elezioni verrò lì e la butterò giù dalle scale a calci!". Gli risposi: "Beh, intanto pensi a vincerle, le elezioni"". Giulio Anselmi oggi è una figura istituzionale per il giornalismo, presidente dell'Ansa e presidente della Federazione degli editori... Ha diretto tutto quello che si può: "Il Mondo", "Il Messaggero", l'Ansa, "l'Espresso", "La Stampa". Ma la direzione che non può dimenticare è quella del "Corriere della Sera", ricoperta ad interim tra il febbraio e il settembre del 1992, nel mezzo della tempesta Tangentopoli. All'epoca il genovese Anselmi ha 47 anni, dopo una carriera da inviato... è in via Solferino dal 1987, con il grado di vice-direttore vicario di Mikhail Kamenetzky detto Micha, ovvero Ugo Stille, il direttore venuto da lontano, una vita di esodi tra Mosca, la Lettonia, New York, fortemente voluto da Gianni Agnelli. "All'inizio del 1992 Stille si ammalò e tornò in America. Non poteva neppure parlare al telefono, mi sono ritrovato da solo alla testa del "Corriere"", racconta Anselmi. Il "Corriere della Sera", nel 1992 come sempre nella sua storia, è l'oggetto del desiderio dei partiti di governo. E il ruolo del quotidiano di via Solferino, e del suo reggente Anselmi, chiamato dalle circostanze a tenere il timone nella tempesta, sarà decisivo per costruire il consenso attorno all'inchiesta Mani Pulite. Un esito per nulla scontato. Nel rapporto tra il "Corriere" di Stille e l'altro potere forte di Milano, il Psi di Craxi, c'è stato lo scivolone del direttore che non ama la politica italiana e che nelle sue acque limacciose si muove con una buona dose di ingenuità: 19 maggio 1989, congresso dei socialisti all'Ansaldo di Milano, c'è il camper parcheggiato dove sono riuniti con Craxi i maggiorenti del partito. Di fronte a tutti, arriva Stille, sale la scaletta del camper e va a salutare il leader del Psi, padrone di Milano. Dopo di lui, appuntano i cronisti, entra Silvio Berlusconi. L'omaggio del direttore del "Corriere" ben descrive i rapporti di forza che ci sono tra potere politico e stampa alla vigilia di Mani Pulite. Anselmi... incarna il profilo moderato di una città stufa di scandali e di paralisi politica. Nelle prime ore di Mani Pulite, il 18 febbraio, all'indomani dell'arresto di Mario Chiesa, il "Corriere" piazza un richiamo in prima pagina e i servizi nelle cronache locali, a pagina 40, firmati da Alessandro Sallusti, il futuro braccio destro di Vittorio Feltri e direttore del "Giornale" berlusconiano. Già dal giorno dopo, però, l'attenzione cresce... Il primo articolo su Antonio Di Pietro è datato 24 febbraio, un ritratto di Goffredo Buccini sul pm "estroverso e imprevedibile, abruzzese d'origine". Da quel momento l'indagine non abbandona più la prima pagina. E Craxi comincia a innervosirsi. "Quando partì l'inchiesta non avevo idea delle dimensioni dello smottamento" ricorda Anselmi. "Avevo la sensazione che stesse precipitando il craxismo, quel modo di intendere la politica, le mani del Psi su Milano, ma non avevo la più pallida idea di quello che sarebbe successo in seguito. Nessuno ce l'aveva, in realtà... Si ipotizzava all'epoca che anche Andreotti avesse informazioni privilegiate, ma il mio ricordo è diverso. Una volta mi chiamò Luigi Bisignani, "il presidente vorrebbe parlarti", mi disse. Lo andai a trovare a Palazzo Chigi, sperando di ricevere qualche notizia. E invece fu Andreotti a chiedermi cosa stesse succedendo a Milano e fin dove si sarebbero spinti i giudici. Aveva meno informazioni di me". Il primo editoriale di Anselmi su Mani Pulite arriva il 2 maggio, all'indomani del primo avviso di garanzia per gli ex sindaci Tognoli e Pillitteri. Segue, a distanza di quattro giorni, un secondo intervento. ...Con Craxi lo scontro violento arriva qualche settimana dopo. Quando il segretario del Psi manca l'obiettivo di Palazzo Chigi e il quotidiano di Anselmi martella ogni giorno sulle inchieste. Titoli urticanti... interviste... editoriali schierati: "Noi non apparteniamo al "partito" di Di Pietro. Ma l'opinione pubblica ha individuato in Di Pietro e nei suoi colleghi che conducono le inchieste sulle tangenti i vendicatori per anni di soprusi, di corruzione, di inefficienza... Non tenerne conto significa aver perso il polso della situazione del Paese" ("Di chi è la giustizia", 28 giugno)... E a questo punto Craxi ordina: da ora in poi non si subisce più. Il 17 luglio l'editoriale dell'"Avanti!" (coincidenze straordinarie) è una dichiarazione di guerra contro il giornale di via Solferino e la sua direzione: "Non intendiamo in alcun modo ostacolare il corso della giustizia come insistono nel dire organi di stampa che hanno perso insieme equilibrio, misura, obiettività e senso della giustizia, ad esempio è il caso di tanti articoli, corrispondenze e corsivi del "Corriere della Sera"". "È vero, ho pubblicato l'intervista di Biagi a Di Pietro, c'erano gli editoriali, ma... c'era Giuliano Ferrara che firmava una rubrica, io la conservai accompagnandola con un distico: "Il contenuto di questo articolo non corrisponde alla linea del giornale". Sallusti era uno dei cronisti più bravi, più attivi. In redazione c'era un vice-direttore che tremava ogni volta che facevamo il titolo di prima e che teneva il filo con i socialisti, io saggiamente non gli avevo dato deleghe... Una volta sbottò con me: "Ci farai cacciare via tutti". E io gli risposi: "Perché ti preoccupi tu, che non sanno nemmeno che esisti?"". Una delle leggende più dure da sfatare, a distanza di vent'anni, è il complotto dei poteri forti contro i partiti, le "coincidenze straordinarie" tra stampa, magistratura e editori di cui parlò l'"Avanti!", il circuito mediatico-giudiziario. "Non ho mai incontrato Di Pietro in quei mesi, mai parlato con lui neppure al telefono", replica Anselmi: "Non c'era nessun complotto contro i socialisti e contro i partiti: io e tutti gli altri capimmo quello che stava accadendo con gradualità, giorno dopo giorno. E per dire quale tipo di rapporto ci fosse tra la magistratura e il potere economico ricordo una cena al Savini con l'intero establishment schierato, da Cesare Romiti in giù. A un certo punto arrivò Borrelli, sembrava un generale che passa in rassegna le truppe, salutò tutti con un cenno del capo e con un militaresco colpo di tacco. In sala c'era un gelo paragonabile al terrore. No, grandi disegni non ce n'erano. Se non avessi fatto il giornale così a Milano mi avrebbero tirato i sassi alle finestre. E se ci fu complotto dei poteri forti, fu quanto meno mal congegnato". Da lì a poco, infatti, finiscono coinvolti nell'inchiesta i big dell'imprenditoria. Anche la Fiat viene coinvolta, mesi dopo, con l'arresto del numero tre, Francesco Paolo Mattioli. "In estate uno dei massimi dirigenti della Fiat da Torino venne di persona a Milano per dirmi che la successione di Stille era ormai quasi fatta e che il direttore sarei stato io. Nel percorso di denuncia mi ero spinto molto in là, non potevo arrestarmi quando le inchieste dai politici locali passavano a toccare i santuari della finanza, non potevo fermarmi di fronte alla Fiat e a Mediobanca. Così, quando fu scarcerato Mattioli, anche il "Corriere" pubblicò la sua foto con in mano la giumenta, la borsa di cartone con le sue cose. E da Torino chiamarono per sapere se fossimo tutti impazziti...". Nell'editoriale del 28 agosto Anselmi attacca "i grandi gruppi che saranno sempre più tentati di riporre le bandiere orgogliosamente sventolate per rincantucciarsi all'ombra protettiva dello Stato". È il suo ultimo editoriale da reggente, il 2 settembre viene nominato Paolo Mieli, fino a quel momento direttore della "Stampa". Scrive Massimo Pini che è il segretario del Psi a trasmettere il proprio benestare alla nomina con una telefonata a Ugo Intini: "Chiama Paolo Mieli e digli che farà il direttore del "Corriere"". Una delle pochissime vittorie di Craxi di quell'anno, anche se solo in apparenza. Anselmi resterà infatti in posizione di vertice come vice di Mieli per tutto il 1993, fino alla nomina a direttore del "Messaggero": "Quando la Camera negò per Craxi le prime autorizzazioni a procedere uscirono due editoriali sul "Corriere", uno firmato da me e uno di Mieli. E quello di Paolo era molto più duro del mio". Nel 2008 i destini di Anselmi e di Mieli sono tornati a incrociarsi. Anselmi è dal 2005 direttore della "Stampa", Mieli dal 2004 è tornato in via Solferino. E il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi li accomuna in una sorta di licenziamento in diretta. Riporta l'Ansa (2 dicembre 2008): ""Il tuo giornale titola oggi Berlusconi contro Sky. Che vergogna...", si sdegna il premier rivolto ad Augusto Minzolini, cronista della Stampa. "E le vignette del Corriere? Ma che vergogna, che vergogna...", aggiunge. "I direttori di questi giornali, come Stampa e Corriere, dovrebbero andarsene a casa..."". Il desiderio del Cavaliere sarà presto esaudito. Passano quattro mesi e Anselmi e Mieli lasciano le direzioni dei loro quotidiani. Mentre Minzolini viene nominato direttore del Tg1. Sembra un poker d'assi, anche in questo caso. Ma è tutta un'altra storia. O forse no, forse è la stessa.
· L’Italietta Vigliacca, la Fine della Prima Repubblica e la Misteriosa Morte di Lodovico Ligato.
LA MISTERIOSA MORTE DI LIGATO, “L’ITALIETTA VIGLIACCA” E IL SUICIDIO DELLA PRIMA REPUBBLICA. Giorgio Meletti per il “Fatto quotidiano” il 3 Agosto 2019. I giornalisti trentenni degli anni '80 erano bravi a capire che c' era qualcosa da capire. I quaranta-cinquantenni erano bravissimi a fingere di aver già capito. Anche politici e manager credevano di capire tutto: lo provava il fatto che fossero classe dirigente. Solo che non hanno capito il 1989, e la prova è che poco tempo dopo non erano più classe dirigente. Non hanno capito la fine del comunismo e la globalizzazione. Il futuro bussava alla loro porta e i Craxi, gli Andreotti, i Forlani, ma anche gli Agnelli e i De Benedetti, pensarono bastasse fingere di non essere in casa. Piccoli uomini prepotenti, presuntuosi, provinciali e ignoranti che hanno innescato il declino italiano credendosi infallibili solo perché i giornalisti loro dipendenti, un po' servi e specchi delle loro brame, glielo facevano leggere ogni mattina. Dopo 30 anni è possibile mettere in fila le cose. E ripartire da quella notte del 26 agosto, quando nei pressi di Reggio Calabria alcuni killer assoldati dalla 'ndrangheta massacrarono con 26 (ventisei) colpi di pistola (una Glock, l' arma dei servizi segreti) l' ex presidente delle Ferrovie dello Stato Lodovico Ligato, 50 anni appena compiuti. La misteriosa morte di Ligato simboleggia il suicidio della Prima Repubblica. L' estroverso esponente della Dc calabrese, pupillo di Riccardo Misasi, era uno degli uomini più potenti d' Italia. Sulla sua scrivania giravano piani d' investimenti ferroviari oggi misurabili in 50-100 miliardi di euro (fino alla caduta del muro di Berlino l' Italia era piena di soldi assicurati dall' America pro bono pacis, per così dire, e gli sventurati non videro che la pacchia stava finendo). Il cadavere di Ligato era ancora caldo e già veniva diffusa la vulgata liberatoria: regolamento di conti tra mafiosi. Era la tipica storia anni '80 su cui un giornalista con poca esperienza si buttava pensando: "Qui si capirebbe tutto, se solo fossi in grado di capirlo". Nessun politico andò al funerale, nemmeno il suo padrino. Solo un politico calabrese, il socialista Giacomo Mancini, spese parole decenti per il trucidato marchiando Misasi a lettere di fuoco: "Una sfinge gelida, di pietra e senza pietà, senza un fremito di umanità nei confronti dell' amico ucciso". Poi incoraggiò il giovane cronista con una rivelazione a metà: "Indaghi, indaghi. Si ricordi che pochi giorni prima di essere ucciso Ligato mi venne a trovare e mi disse che aveva deciso di rivelare molte cose che sapeva". Che cosa sapeva Ligato? Sapeva che nel novembre 1988 l' aveva disarcionato dalle Fs un' inchiesta giudiziaria farlocca, passata alla storia come "lenzuola d' oro", uno di quei capolavori della malagiustizia che piacciono molto ai garantisti a gettone e in cui la procura della Repubblica di Roma eccelle da sempre. Ligato voleva costruire la ferrovia ad alta velocità e il sistema politico bollava i suoi piani come faraonici. Dopo 30 anni è tutto più chiaro. Ligato voleva bandire le gare d' appalto internazionali previste dalle regole europee sul mercato unico che dovevano entrare in vigore il 1° gennaio 1993. Due anni dopo la sua morte le Fs di Lorenzo Necci affidarono l' alta velocità a trattativa privata ai sette consorzi guidati dall' Iri e dall' Eni (pubblici) e dalla Fiat e dalla Montedison (privati). Il disegno era di tagliare fuori la concorrenza straniera per riservare il grande affare ai costruttori italiani e tenerli indenni dal futuro che stava incominciando. Nella morte dimenticata di Ligato si riassume il 1989 italiano che inizia con la cacciata dalla Fiat di Vittorio Ghidella. Il padre della Uno e della Thema vuole giocare la partita facendo auto migliori. Gianni Agnelli e Cesare Romiti invece decidono di difendere dalla globalizzazione i loro "tesoretti" mollando ai clienti di un mercato protetto la Duna, e allargando il loro potere su tutto ciò che muove denaro. Il 2 maggio la Fiat compra la maggiore impresa di costruzioni, la Cogefar di Franco Nobili, e crea la Cogefar-Impresit, gigante destinato a fare la parte del leone nell' alta velocità. Il 14 maggio Bettino Craxi e il segretario della Dc Arnaldo Forlani stringono a margine del congresso socialista di Milano il patto del camper, che porterà alla caduta di De Mita e alla nascita del governo Andreotti, dando corpo al cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani). Eugenio Scalfari lo definisce "un accordo dal quale emergono alcuni lineamenti di regime, un organigramma spartitorio e, come presto vedremo, una divisione di spoglie negli enti e nelle banche". Pochi giorni dopo l' Iri di Romano Prodi (creatura di De Mita) consegna il Banco di Santo Spirito alla Cassa di Risparmio di Roma dell' andreottiano Cesare Geronzi che poi si prenderà dall' Iri anche il Banco di Roma. In poche settimane, in nome del "primato della politica", Prodi viene comunque cacciato dall' Iri e sostituito proprio da Nobili, altro andreottiano a 24 carati. Franco Reviglio viene sostituito all' Eni dal socialistissimo Gabriele Cagliari. Si chiude la stagione dei "professori", si torna ai lottizzati. Credevano di blindare il proprio potere, stavano solo innescando la crisi terminale della loro Italietta vigliacca e impaurita che avrà la prima esplosione tre anni dopo con Mani Pulite. Aiutati anche dall' incidente che ha tolto di mezzo Carlo Verri, 50 anni come Ligato, l' uomo a cui Prodi aveva chiesto di rendere decente l'Alitalia. Il 6 novembre, tre giorni prima della caduta del muro di Berlino, un autobus dell' Atac, per una volta puntuale, travolse la sua Thema uccidendo lui e l' autista. Pare che fossero passati con il rosso. Una tragica casualità che incarnò lo spirito dei tempi.
· La Cultura della Legalità.
FLASH DAGOSPIA il 18 dicembre 2019. - "JENA" BARENGHI: "ORMAI SIAMO COSI' MALRIDOTTI CHE QUANDO VEDREMO IL FILM SU CRAXI, LO RIMPIANGEREMO" - LA RISPOSTA FULMINANTE DI STEFANIA CRAXI: "SIAMO COSÌ MALRIDOTTI CHE ABBIAMO PERSO LA MEMORIA. NON SA IL SIGNOR BARENGHI O FA FINTA DI NON SAPERE CHE IL MANIFESTO STAVA IN PIEDI ANCHE GRAZIE AI SOLDI “SPORCHI” DI CRAXI E DEI SOCIALISTI?".
Mani pulite, 1993: Craxi contro la fine della politica. Redazione de Il Riformista il 13 Dicembre 2019. 29 aprile 1993. L’inchiesta “Mani Pulite”, quella di Di Pietro, è iniziata circa un anno prima. Sta travolgendo tutti i partiti, in particolare il Psi. Bettino Craxi, che fino a un mese prima era stato il segretario del partito, si alza alla Camera e pronuncia un discorso che diventerà celeberrimo a difesa dell’autonomia della politica e di denuncia della corruzione del sistema. Dice che il finanziamento dei partiti, tutti lo sanno, è in gran parte illecito, e aggiunge: «Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Nessuno si alza.
Caso Lockheed, 1977: Moro a difesa di Gui. Redazione de Il Riformista il 13 Dicembre 2019. 9 marzo del 1977, il caso Lokheed (una storia di tangenti sull’acquisto di aeroplani americani) arriva alla Camera. Si tratta di decidere se processare due ex ministri: Luigi Gui, dc, e Mario Tanassi, Psdi. Aldo Moro, giusto un anno prima del suo rapimento, interviene con un discorso formidabile, di impronta davvero garantista, a difesa di Gui, soprattutto, ma anche di Tanassi. Rivendica l’autonomia e l’unicità della politica e il valore dell’impegno politico e dei partiti. Grida: «Non ci faremo processare nelle piazze». Però va in minoranza. I più duri contro di lui sono i comunisti e i radicali. Tanassi e Gui sono rinviati a giudizio davanti alla Corte Costituzionale. Che assolverà Gui e condannerà a 2 anni e 4 mesi di carcere Tanassi.
Caso Lockheed, 1978: Leone si dimette. Redazione de Il Riformista il 13 Dicembre 2019. 15 giugno del 1978. Aldo Moro è stato ucciso poco più di un mese prima. Al governo c’è Andreotti, sostenuto dai comunisti. La sera, alle 20, compare in Tv il presidente della Repubblica Giovanni Leone, napoletano, 70 anni, e annuncia le sue dimissioni. Il motivo? Una feroce campagna di stampa contro di lui, alimentata dai servizi segreti, con vari dossier, e da alcuni partiti politici di opposizione. Leone non ha nessuna colpa. Il suo coinvolgimento nel caso Lockhe è da escludere. L’Espresso lo massacra. Lui non ne può più, lascia. Perché lascia? Leone è uno degli ultimi statisti, uno di quelli che hanno fatto grande l’Italia. Sa sacrificarsi e si sacrifica.
Da mani pulite a oggi, 27 anni di giustizialismo politico. Franco Dal Mas i 3 Dicembre 2019 su Il Riformista. «Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’ aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». Era il 3 luglio 1992 quando dai banchi della Camera Bettino Craxi pronunciò queste parole. Sono passati 27 anni, e nulla o quasi è cambiato. Era una questione politica, che politicamente andava risolta, ma così non è stato. Dai cappi in Parlamento alla discesa in politica di uno dei simboli di Mani Pulite, dai girotondi al populismo giustizialista: un quarto di secolo speso a far tornare i conti e gli equilibri tra poteri. Fallendo e fallando: il sonno della ragione (politica) che genera mostri (giuridici). E così arriviamo all’oggi, con le spettacolari perquisizioni nelle case e negli uffici dei sostenitori della Fondazione Open. Una gogna preventiva messa in atto grazie a veline che come noto non possono che avere una e una sola provenienza. La verità vera è la persistenza del cortocircuito mediatico-giudiziario di cui l’attualità non è che l’ultimo, per adesso, frutto avvelenato. Si narra di un “patto di consultazione” tra i direttori di importanti giornali italiani (alcuni diretti interessati lo confermano, altri lo smentiscono) su cosa pubblicare o non pubblicare a partire dall’arresto di Mario Chiesa, rendendo palese che non era una mera questione giudiziaria, ma politica, anzi di potere. La stampa megafono della muta da caccia della Procura di “Mani pulite”. E non è certo un caso che il capo del pool ebbe a dire: «Quando la gente ci applaude, applaude se stessa». La politica che non crea il consenso, lo ricerca e si limita a inseguirlo non può che produrre l’indisturbato dominio di quest’anomalia. Anche Craxi e Berlusconi, con sfumature diverse, hanno fatto leva sull’antipolitica: il primo interpretando la voce del Paese che chiedeva di sconfiggere la “lentocrazia”, il secondo canalizzando il sentimento antipolitico entro una cornice di dialettica centrodestra/centrosinistra. Oggi viviamo in tempi più bui in cui l’antipolitica che sta al governo e all’opposizione si nutre di un impasto di risentimento e rancore. Il furore giustizialista, unitamente a esigenze securitarie scompostamente declinate e alla cultura del sospetto hanno prodotto un anno e otto mesi di forca: le abnormità dello Spazzacorrotti, lo stop alle riforme delle intercettazioni e del sistema penitenziario (escludendo così l’estensione delle misure alternative alla detenzione), fino ad arrivare alla cancellazione della prescrizione che introduce il “fine processo mai”, minando uno dei pilastri su cui si basa il nostro ordinamento giuridico. Nuove e antiche questioni ancora irrisolte: e 27 anni non sono certo una ragionevole durata, sperando che il cortocircuito mediatico-giudiziario non abbia, nel frattempo, già individuato e deciso chi governerà i prossimi anni.
Da Mani Pulite a P4. Basta nomi allusivi alle inchieste dei pm. Giulia Merlo il 10 Dicembre 2019 su Il Dubbio. L’interrogazione del Dem Stefano Ceccanti. La richiesta di non denominare più «le indagini con parole in codice ad effetto», con lo scopo «di influenzare l’opinione pubblica». La “scuola” più antica e prolifica è quella dell’ufficio inquirente di Milano: era il 1992 e l’inchiesta capostipite dei nomi in codice più evocativi fu “Mani pulite”, che passò alla storia anche per il rapporto diretto tra media e procura. Poi venne la “Duomo connection”, condotta da Ilda Boccassini sulle presunte infiltrazioni mafiose al Nord. In seguito è stato il momento dell’inchiesta “Ruby” ( coi suoi tre filoni), sempre di Boccassini, a carico di Silvio Berlusconi. In tempi più recenti, è arrivata l’inchiesta “Mensa dei poveri”, in cui l’ipotesi è di tangenti per la costruzione di supermercati ( nella quale è stata arrestata e poi rilasciata l’ex europarlamentare forzista Lara Comi). Spostandosi alla procura di Roma, la più nota è “Mondo di Mezzo” ( metafora estrapolata dal contenuto di una intercettazione di uno degli imputati, Massimo Carminati) coniata dal team dell’ex procuratore capo, Giuseppe Pignatone. Ancora più a sud, grande inventore di nomi in codice sia alla procura di Napoli che a quella di Potenza è stato Henry John Woodcock: a lui si deve l’inchiesta “P4” ( che richiamava la loggia P2) su una presunta associazione a delinquere che avrebbe operato nell’ambito della pubblica amministrazione italiana e della giustizia con l’obiettivo di gestire e manipolare informazioni segrete. Spiccano poi i casi di citazionismo come l’inchiesta “Bocca di rosa” di Messina su un giro di prostituzione e “Terminator 3” di Cosenza per una serie di omicidi di ’ ndrangheta. Infine, caso più recente e drammatico, l’inchiesta della procura di Reggio Emilia denominata “Angeli e demoni”, che mutuava il nome evocativo da un romanzo di Dan Brown sull’ipotesi accusatoria dei bambini strappati alle loro famiglie naturali da parte degli operatori dei servizi sociali di Bibbiano. Ad accomunare queste inchieste, oltre al clamore mediatico già nella fase delle indagini preliminari, è la scelta di battezzarle con locuzioni enfatiche, spesso metafore allusive al reato indagato, che sembrano studiate a tavolino non tanto per mascherare il contenuto di un’indagine quanto per aiutare i titolisti dei giornali e rimanere impresse nella mente dei cittadini. Con buona pace del fatto che – come accaduto in molte di quelle sopracitate – l’ipotesi accusatoria sia stata poi fortemente ridimensionata se non esclusa nella fase del dibattimento. Proprio contro questo «vero e proprio improprio marketing delle indagini giudiziarie» si è scagliato il parlamentare dem e costituzionalista Stefano Ceccanti, che ha presentato un’interrogazione ai ministri della Giustizia e degli Interni proprio per chiedere l’abbandono della prassi «invalsa da parte di alcuni settori della magistratura inquirente e di alcune autorità di polizia giudiziaria di denominare operazioni e indagini da esse condotte con nomi in codice ad effetto, facendo uso di termini evidentemente scelti con cura al principale scopo di influenzare l’opinione pubblica e suscitare il consenso sociale intorno alle ipotesi accusatorie, spesso risultate poi nei processi meno solide del previsto». Ceccanti, infatti, rileva come «tutto ciò finisce con l’alterare l’equilibrio fra accusa e difesa ed anzi con l’attentare ai diritti delle persone coinvolte ben prima di qualsiasi riscontro processuale da parte di un giudice terzo, il tutto in violazione di norme costituzionali precise a partire dall’articolo 111 della Costituzione». La questione di chi scelga i nomi delle inchieste è avvolto da una sorta di mistero tutto interno al rapporto tra procura e polizia giudiziaria. Non esiste una regola, ma la prassi sembra prevedere che il nome venga scelto dall’ufficio operante che conduce l’indagine ( in alcuni casi, come nel caso delle indagini antidroga, il nome va segnalato all’ufficio centrale che controlla non esistano altre operazioni omologhe e autorizza l’uso dell’appellativo), anche in accordo con il pubblico ministero. L’utilizzo di nomi allusivi è stato più volte censurato da parte dell’avvocatura e anche all’interno della stessa magistratura, ma il fascino di battezzare la propria inchiesta in modo evocativo non è venuta meno. Forse nella consapevolezza che, con la mediatizzazione del processo, anche da questo possa dipendere il successo dell’indagine.
Da Greganti a Tangentopoli, il candore perduto a sinistra. Si ricordano le tracce di finanziamenti a D’Alema a Bari, di versamenti legati all’Enel con la condanna di Zorzoli e dei soldi per un ipermercato. Mattia Feltri il 4/1/2006 su La Stampa. Il leasing di Massimo D’Alema alla Popolare di Lodi del furbetto Gianpiero Fiorani e le cameratesche conversazioni fra Piero Fassino e l’ex presidente di Unipol, Gianni Consorte, hanno riacceso un antico dibattito sulla diversità morale della sinistra, e in particolare degli eredi del Pci. Una diversità che Michele Serra ama codificare scientificamente in «superiorità antropologica», e che la base, delusa, cerca di rinvigorire scrivendo ai giornali e su Internet «non abbiamo bisogno di nostri Berlusconi». Ma il turbamento con cui i vertici diessini stanno vivendo questi giorni, e i toni di rivincita usati da un centrodestra per una volta spettatore, sembrano annunciare il crollo definitivo del mito sulla rettitudine progressista. Nemmeno l’incrollabile resistenza di Primo Greganti, che durante Mani pulite venne ripetutamente indagato, e anche incarcerato, e mai cambiò la versione secondo cui il denaro l’aveva preso per sé, e non per il partito, fu dannosa quanto gli eventi attuali; anzi, la tostaggine del «compagno G» fu ragione di tacito orgoglio, specie davanti alla piagnucolosa arrendevolezza dei carcerati preventivi di altri partiti. E, più meno allo stesso modo, la vicenda del miliardo di lire consegnato da Raul Gardini non fece traballare molte coscienze. Che il Pirata di Ravenna abbia portato la valigetta con la «stecca» al Partito comunista è dato per certo in diverse sentenze. Antonio Di Pietro pronunciò una delle sue frasi più celebri: «Ho seguito la tangente fin sul portone di Botteghe Oscure». Quel portone, però, Gardini lo varcò da solo. A chi abbia consegnato i quattrini, è un mistero irrisolvibile. Di Pietro spiegò: «La responsabilità penale è personale». E così, alla salvezza della fedina, corrispose la salvezza dell’anima. Eppure le ragioni per dubitare dell’innato candore diessino sono state riportate nei numerosi libri dedicati alle inchieste di Tangentopoli, e da autori piuttosto dissimili fra loro: Marco Travaglio, Filippo Facci, Andrea Pamparana, Giancarlo Lehner. Proprio Travaglio sostiene che una delle sue opere più enciclopediche («Mani pulite, la vera storia», Editori Riuniti) venne scartata dalla Feltrinelli perché conteneva il resoconto di un finanziamento illecito accettato da D’Alema nel 1985. Glielo girò Francesco Cavallari, conosciuto come il «re delle cliniche» baresi. Venti milioni di lire, confessò il re; qualcosa meno, precisò D’Alema, senza negare, in tempi in cui la prescrizione era maturata. Non furono tanto i denari a imbarazzare il partito, quanto la provenienza: Cavallari è stato condannato per associazione mafiosa, truffa e corruzione. Il «Mani pulite» di Travaglio (scritto con Gianni Barbacetto e Peter Gomez) contiene anche un capitolo dedicato a Piero Fassino. Il quale si interessò - senza mai neppure avvicinarsi a una violazione di legge - all’edificazione di un centro commerciale in provincia di Torino per il quale amministratori locali, anche del Pci-Pds, intascarono somme consistenti. Fra i protagonisti c’erano il solito Greganti e Aldo Brancher, oggi noto alle cronache come uno dei migliori amici in Parlamento di Fiorani. Quelle di un anno fa, invece, raccontano della parziale grazia concessa dal Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, a Giovanni Battista Zorzoli. Nel 1986, Zorzoli diventò consigliere d’amministrazione dell’Enel in quota al Pci, di cui è stato, fino al 1990, responsabile delle questioni energetiche. Venne poi condannato a quattro anni e sei mesi per le tangenti pagate all’azienda elettrica fra il 1986 e il 1992. Pure in questa circostanza non si ebbe modo di verificare se almeno una parte dei soldi fosse finita a Botteghe Oscure. Di storie se ne potrebbero raccontare a decine, sebbene la più clamorosa resti quella di Milano e della sua Metropolitana, attorno alla quale i comunisti spartirono con democristiani e socialisti palate di miliardi. Un ex funzionario Pci, Lodovico Festa (oggi editorialista del «Giornale»), anni dopo raccontò: «Anche subito prima di Mani pulite, nel partito si discuteva molto se la fetta di Roma dovesse essere maggiore di quella di Milano». Così come oggi si discute molto di una verginità forse ampiamente perduta.
Tangentopoli, così i pm salvarono il Pci. Fabrizio Cicchitto l'1 Marzo 2017 su Il Dubbio. Tutti i partiti prendevano finanziamenti “aggiuntivi”, ma, a differenza del Psi, Botteghe Oscure fu salvata. Si distrusse una intera classe politica. Prima vinse Berlusconi, poi fu fatto fuori anche lui. E oggi trionfa il populismo. L’Italia, nel ’ 92-’ 94, fu teatro di un’autentica rivoluzione- eversione che eliminò dalla scena per via mediatico-giudiziaria ben 5 partiti politici “storici”, salvando però il Pci. Lo strumento di questa rivoluzione- eversione fu la “sentenza anticipata”: quando un avviso di garanzia, urlato da giornali e televisioni, colpiva i dirigenti di quei partiti essi erano già condannati agli occhi dell’opinione pubblica. Qualora il pool di Mani Pulite avesse agito con la stessa determinazione e violenza negli anni 40 e 50 di quella messa in evidenza nel ’ 92-’ 94, allora De Gasperi, Nenni, Togliatti sarebbero stati incriminati e Valletta e Enrico Mattei sarebbero stati arrestati. Il finanziamento irregolare dei partiti e la collusione fra questi, i grandi gruppi pubblici e privati e relative associazioni ( in primis Fiat, Iri, Eni, Montecatini, Edison, Assolombarda, Cooperative rosse, ecc.) data da allora. In più c’era un fortissimo finanziamento internazionale: la Dc era finanziata anche dalla Cia, e il Pci in modo così massiccio dal Kgb che le risorse ad esso destinate erano più di tutte quelle messe in bilancio per gli altri partiti e movimenti. In una prima fase, la Fiat finanziava tutti i partiti “anticomunisti” poi coinvolse in qualche modo anche il Pci quando realizzò i suoi impianti in Urss. Per Enrico Mattei i partiti erano come dei taxi, per cui finanziava tutti, dall’Msi, alla Dc, al Pci, e perfino la scissione del Psiup dal Psi, e fondò anche una corrente di riferimento nella Dc con Albertino Marcora, partigiano cattolico e grande leader politico: quella corrente fu la sinistra di Base che ha avuto un ruolo assai importante nella Dc e nella storia della Repubblica. Fino agli anni 80 questi sistemi di finanziamento irregolare procedettero “separati” vista la divisione del mondo in due blocchi, poi ebbero dei punti in comune: nell’Enel ( attraverso il consigliere d’amministrazione Giovanni Battista Zorzoli prima titolare di Elettro General), nell’Eni ( la rendita petrolifera di matrice sovietica) e specialmente in Italstat ( dove veniva realizzata la ripartizione degli appalti pubblici con la rotazione “pilotata” fra le grandi imprese edili, pubbliche e private, con una quota fra il 20% e il 30% assegnata alle cooperative rosse). Per molti aspetti quello del Pci era il finanziamento irregolare a più ampio spettro, perché andava dal massiccio finanziamento sovietico al commercio estero con i Paesi dell’est, alle cooperative rosse, al rapporto con gli imprenditori privati realizzato a livello locale. Emblematici di tutto ciò sono le citazioni da tre testi: un brano tratto dal libro di Gianni Cervetti L’oro di Mosca ( pp. 126- 134), un altro tratto dal libro di Guido Crainz Il paese reale ( Donzelli, p. 33), il terzo estratto è da una sentenza della magistratura di Milano sulla vicenda della metropolitana. Così ha scritto Gianni Cervetti: «Nacque, credo allora, l’espressione “amministrazione straordinaria”, anzi “politica dell’amministrazione straordinaria”, che stava appunto a indicare un’attività concreta ( nomina sunt substantia rerum) anche se piuttosto confusa e differenziata. A ben vedere, poteva essere suddivisa in due parti. Una consisteva nel reperire qualche mezzo finanziario per il centro e le organizzazioni periferiche facendo leva su relazioni con ambienti facoltosi nella maniera sostanzialmente occulta cui prima ho accennato. In genere non si compivano atti specifici contro le leggi o che violavano norme amministrative precise, ma si accettavano o ricercavano finanziamenti provenienti da imprenditori non più soltanto vagamente facoltosi, ma disposti a devolvere al partito una parte dei loro profitti in cambio di un sostegno a una loro determinata attività economica. Tuttavia, in sistemi democratici, o pluripartitici, o a dialettiche reali – siano essi sistemi moderni o antichi, riguardanti tutto il popolo o una sola classe – pare incontestabile che in ogni partito coesistano i due tipi di finanziamento ed esista, dunque, quello aggiuntivo. Naturalmente – lo ripetiamo – di quest’ultimo, come del resto del primo, mutano i caratteri, le forme ed i contenuti a seconda dei partiti e dei periodi: anzi mutano i rapporti quantitativi dell’uno con l’altro, ma appunto quello aggiuntivo esiste in maniera costante. Comunque sia non c’è epoca, paese, partito che non abbia usufruito di fondi per i finanziamenti aggiuntivi. Sostenere il contrario significa voler guardare a fenomeni storici e politici in maniera superficiale e ingenua, o viceversa, insincera e ipocrita. Il problema, ripetiamo, lo abbiamo preso alla larga, e si potrebbe allora obiettare che aggiuntivo non corrisponda esattamente, e ancora, a illecito. Intanto, però, abbiamo dimostrato che il finanziamento aggiuntivo è storicamente dato e oggettivamente ineluttabile». Il fatto che anche il Pci, sviluppando la «politica dell’amministrazione straordinaria», accettava o ricercava finanziamenti provenienti da imprenditori «non più soltanto vagamente facoltosi ma disposti a devolvere al partito una parte dei loro profitti in cambio di un sostegno a una loro determinata attività economica» mette in evidenza che anche «nel caso del Pci il reato di finanziamento irregolare poteva sfociare in quello di abuso in atti d’ufficio o in corruzione o in concussione». Così ha scritto lo storico Guido Crainz: «È uno squarcio illuminante il confronto che si svolge nella direzione del Pci nel 1974, quando è all’esame del parlamento la legge sul finanziamento pubblico ai partiti. La discussione prende l’avvio dalla “esistenza di un fenomeno enorme di corruzione dei partiti di governo” ma affronta al tempo stesso con grande preoccupazione il pur periferico affiorare di “imbarazzi o compromissioni venute al nostro partito da certe pratiche”. L’approvazione della legge è esplicitamente giustificata con la necessità di garantirsi “una duplice autonomia…: autonomia internazionale ma anche da condizionamenti di carattere interno…. Non possiamo nasconderci fra noi il peso di condizionamenti subiti anche ai fini della nostra linea di sviluppo economico e, per giunta, per qualcosa di estremamente meschino” ( intervento di Giorgio Napolitano alla riunione della direzione del 3 giugno 1974)». «Nel dibattito non mancano ammissioni di rilievo. “Molte entrate straordinarie”, dice ad esempio il segretario regionale della Lombardia Quercioli, “derivano da attività malsane. Nelle amministrazioni pubbliche prendiamo soldi per far passare certe cose. In questi passaggi qualcuno resta con le mani sporche e qualche elemento di degenerazione poi finisce per toccare anche il nostro partito” ( intervento di Elio Quercioli nella riunione della direzione del 1° febbraio 1973). È possibile cogliere in diversi interventi quasi un allarmato senso di impotenza di fronte al generale dilagare del fenomeno: di qui la decisione di utilizzare la legge per porre fine a ogni coinvolgimento del partito. Si deve sapere, dice armando Cossutta, “che in alcune regioni ci sono entrate che non sono lecite legittimamente, moralmente, politicamente. Questo sarà il modo per liberare il partito da certe mediazioni. Non chiudere gli occhi di fronte alla realtà ma far intendere agli altri che certe operazioni noi non le accetteremo più in alcun modo. Punto di riferimento deve essere l’interesse della collettività e faremo scandalo politico e una battaglia contro queste cose assai più di prima” ( intervento di Armando Cossutta alla direzione del 3 giugno 1974). È illuminante, questa sofferta discussione del 1974. Rivela rovelli veri e al tempo stesso processi cui il partito non è più interamente estraneo». La sentenza del tribunale di Milano del 1996 sulle tangenti della Metropolitana è molto precisa: «Va subito fissato un primo punto fermo: a livello di federazione milanese, l’intero partito, e non soltanto alcune sue componenti interne, venne direttamente coinvolto nel sistema degli appalti Mm, quanto meno da circa il 1987». Per il tribunale «risulta dunque pacifico che il Pci- Pds dal 1987 sino al febbraio 1992 ricevette quale percentuale del 18,75 per cento sul totale delle tangenti Mm una somma non inferiore ai 3 miliardi» raccolti da Carnevale e da Soave, non solo per la corrente migliorista ma anche per il partito. Carnevale coinvolse anche il segretario della federazione milanese, Cappellini, berlingueriano di stretta osservanza: «Fu Cappellini, segretario cittadino dell’epoca, ad affidarmi per conto del partito l’incarico che in precedenza aveva svolto Soave». La regola interna era quella che «dei tre terzi delle tangenti raccolte ( 2 miliardi e 100 milioni in quel periodo solo per il sistema Mm), due terzi dovevano andare agli “occhettiani”, cioè a Cappellini, un terzo ai miglioristi di Cervetti». Alla luce di tutto ciò è del tutto evidente che Berlinguer quando aprì la questione morale e parlò del Pci come di un “partito diverso” o non sapeva nulla del finanziamento del Pci oppure, per dirla in modo eufemistico, si espresse in modo mistificato e propagandistico. Orbene questo sistema dal quale ricevevano reciproco vantaggio sia i partiti, sia le imprese, e che coinvolgeva tutto e tutti, risultò antieconomico da quando l’Italia aderì al trattato di Maastricht e quindi tutti i gruppi imprenditoriali furono costretti a fare i conti con il mercato e con la concorrenza. Esistevano tutti i termini per una grande operazione consociativa, magari accompagnata da un’amnistia che superasse il sistema di Tangentopoli. L’amnistia ci fu nel 1989, ma servì solo a “salvare” il Pci dalle conseguenze giudiziarie del finanziamento sovietico, il più irregolare di tutti, perché proveniva addirittura da un paese contrapposto alle alleanze internazionali dell’Italia. Per altro verso, Achille Occhetto, quando ancora non era chiaro l’orientamento unilaterale della procura di Milano, nel maggio del ’ 92, si recò nuovamente alla Bolognina per “chiedere scusa” agli italiani. Occhetto invece non doveva preoccuparsi eccessivamente. Il circo mediatico- giudiziario composto da due pool, quello dei pm di Milano e dal pool dei direttori, dei redattori capo e dei cronisti giudiziari di quattro giornali ( Il Corriere della Sera, La Stampa, La Repubblica, l’Unità)mirava contro il Caf, cioè concentrò i suoi colpi in primis contro il Psi di Craxi, poi contro il centro- destra della Dc, quindi, di rimbalzo, contro il Psdi, il Pri, il Pli. Colpì anche i quadri intermedi del Pci- Pds, molte cooperative rosse, ma salvò il gruppo dirigente del Pci-Pds e quello della sinistra Dc. La prova di ciò sta nel modo con cui fu trattato il caso Gardini: è accertato che Gardini portò circa 1 miliardo, d’intesa con Cusani, alla sede del Pci avendo un appuntamento con Occhetto e D’Alema. Suicidatosi Gardini, Cusani è stato condannato per corruzione: il corrotto era dentro la sede di via delle Botteghe Oscure, ma non è mai stato identificato. Ha osservato a questo proposito Di Pietro: «Ecco, questo è l’unico caso in cui io arrivo alla porta di Botteghe oscure. Anzi, arrivo fino all’ascensore che porta ai piani alti… abbiamo provato di certo che Gardini effettivamente un miliardo lo ha dato; abbiamo provato di certo che l’ha portato alla sede di Botteghe oscure; abbiamo provato di certo che in quel periodo aveva motivo di pagare tangenti a tutti i partiti, perché c’era in ballo un decreto sulla defiscalizzazione della compravendita Enimont a cui teneva moltissimo». Di Pietro aggiunse: «Non è che potevo incriminare il signor nome: partito, cognome: comunista». Giustamente l’erede di quel partito, il Pds, lo elesse nel Mugello. Al processo Enimont il presidente del tribunale neanche accettò di sentire Occhetto e D’Alema come testimoni. Analoga linea fu seguita nei confronti del gruppo dirigente della sinistra Dc: Marcello Pagani, ex coordinatore della sinistra democristiana, e di un circolo che ad essa faceva riferimento, fu condannato, avendo ricevuto soldi Enimont in quanto agiva, recita testualmente, la sentenza «per conto dell’onorevole Bodrato e degli altri parlamentari della sinistra Dc» ma essi potevano non sapere. Quella fu la grande discriminante attraverso la quale il circo mediatico- giudiziario spezzò il sistema politico, ne distrusse una parte e ne salvò un’altra: Craxi, il centrodestra della Dc ( Forlani, Gava, Pomicino e altri), Altissimo, Giorgio la Malfa, Pietro Longo, non potevano non sapere, il gruppo dirigente del Pci- Pds e quello della sinistra Dc potevano non sapere. È evidente che dietro tutto ciò c’era un progetto politico, quello di far sì che, venendo meno la divisione in due blocchi, il gruppo dirigente del Pds, magari con l’aiuto della sinistra Dc, finalmente conquistasse il potere. Il pool di Milano non poteva prevedere che, avendo distrutto tutta l’area di centro e di centro- sinistra del sistema politico, quel vuoto sarebbe stato riempito da quel Silvio Berlusconi che, pur essendo un imprenditore amico di Craxi, era stato risparmiato dal pool di Mani Pulite perché durante gli anni ’ 92-’ 94 aveva messo a disposizione della procura le sue televisioni. Non appena ( fino al 1993) il pool di Milano si rese conto che Berlusconi stava “scendendo in politica”, ecco che subito cominciò contro di lui il bombardamento giudiziario che si concluse con la sentenza del 2013. Ma anche il modo con cui fu trattato il rapporto del pool con i grandi gruppi finanziari editoriali Fiat e Cir, fu del tutto atipico e al di fuori di una normale prassi giudiziaria. Per tutta una fase ci fu uno scontro durissimo tra la Fiat e la magistratura, accentuato dal fatto che a Torino il procuratore Maddalena agiva di testa sua. Poi si arrivò alla “pax” realizzata attraverso due “confessioni” circostanziate, attraverso le quali la Fiat e la Cir appunto “confessarono” di aver pagato tangenti perché concussi da quei “malvagi” dei politici. Così il 29 settembre del 1992 Cesare Romiti andò a recitare un mea culpa dal cardinale Martino: «Come cittadini e come imprenditori non ci si può non vergognare, di fronte alla società, per quanto è successo. E io sono il primo a farlo. Io sono stato personalmente scosso da questi avvenimenti. No, non ho paura di dirlo. E di fronte al cardinal Martini, la più alta carica religiosa e morale di Milano, non potevo non parlarne». Qui interveniva l’autoassoluzione. Infatti, secondo Romiti, la responsabilità era della classe politica che «ha preteso da cittadini e imprese i pagamenti di “compensi” per atti molto spesso dovuti». Possiamo quindi dire che l’Italia, unico paese dell’Occidente, nel ’ 92-’ 94 fu teatro di un’autentica rivoluzione- eversione che eliminò dalla scena per via mediatico- giudiziaria ben 5 partiti politici “storici”. Lo strumento di questa rivoluzione- eversione fu la “sentenza anticipata”: quando un avviso di garanzia, urlato da giornali e televisioni, colpiva i dirigenti di quei partiti essi erano già condannati agli occhi dell’opinione pubblica, con una conseguente perdita di consensi. Il fatto che, a 10 anni di distanza, una parte di quei dirigenti fu assolta non servì certo a recuperare i consensi politicoelettorali perduti. La conseguenza di tutto ciò sono state due: una perdita crescente di prestigio di tutti i partiti, anche di quelli che furono “salvati” dal pool, una parcellizzazione della corruzione tramutatasi da sistemica a reticolare ( una miriade di reti composte da singoli imprenditori, singoli burocrati, singoli uomini politici), l’esistenza di un unico sistema di potere sopravvissuto, quello del Pci- Pds, che a sua volta ha prodotto altre vicende, dal tentativo di scalata dell’Unipol alla Bnl, alla crisi del Mps. Di qui la conseguente affermazione di movimenti populisti e di un partito protestatario la cui guida è concentrata nelle mani di due persone, il crescente discredito del parlamento sottoposto a un bombardamento giudiziario realizzato anche da chi ( vedi Renzi) pensa in questo modo di poter intercettare a suo vantaggio la deriva dell’antipolitica. Ma è una operazione del tutto velleitaria, perché le persone preferiscono la versione originale del populismo e non le imitazioni. Perdipiù i grillini, cavalcando la guerra alla “casta” – inventata da due giornalisti del Corriere della Sera e sostenuta da un grande battage pubblicitario – cavalcano di fatto la manovra diversiva posta in essere da banchieri e manager, proprietari dei grandi giornali, per deviare l’attenzione dalle loro spropositate retribuzioni e liquidazioni: i circa 100 mila euro annui dei parlamentari servono a far dimenticare i 2- 3 milioni di euro che il più straccione dei banchieri guadagna comunque, anche se porta alla rovina i correntisti della sua banca. Di tutto ciò traiamo la conseguenza che il peggio deve ancora arrivare.
· Quelle valigie piene di rubli per Pci.
Quelle valigie piene di rubli per Pci. Poi arrivò Berlinguer…I soldi entravano in Italia con i ” bagagli diplomatici” direttamente nell’ambasciata. L’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga si divertiva a rinfacciare la cosa all’incolpevole Occhetto. Francesco Damato il 12 luglio 2019 su Il Dubbio. Quelle valigie piene di rubli. A dispetto del cambiamento datosi come parola d’ordine nell’omonimo governo realizzato l’anno scorso con i grillini, e destinato a durare ben oltre le previsioni maturate in Silvio Berlusconi quando autorizzò il leader leghista a prendersi una libera uscita dal centrodestra per evitare che alle elezioni politiche del 4 marzo ne seguissero altre tra luglio e agosto, con tutti i nostri elettori – disse il Cavaliere – inchiodati alle vacanze, Matteo Salvini continua a far rivivere ai vecchi cronisti parlamentari scene del passato. Alla rovescia, potrebbe rispondere il “capitano” del Carroccio, cioè a parti rovesciate, e quindi senza tradire il motto o l’aspirazione al cambiamento, ma sono pur sempre situazioni e spettacoli del passato quelli ch’egli, volente o nolente, ci ripropone.
Bacioni e bacini. Ho appena paragonato su queste pagine, qualche giorno fa, i bacioni con cui il vice presidente vicario del Consiglio e ministro dell’Interno cerca di liquidare critici ed avversari dai banchi del governo ai bacini che nel 1987 Cicciolina, appena eletta nelle liste radicali, cominciò a indirizzare nell’aula di Montecitorio ai “cicciolini”, come li chiamava, che non ne gradivano la presenza o non ne condividevano pose e interventi: compreso Giulio Andreotti. Del quale mi sono dimenticato di riferirvi il rimprovero, da lui stesso raccontatomi con l’umorismo che lo distingueva, ricevuto una sera a casa dalla moglie per essersi lasciato chiamare in quel modo dalla pornodiva senza perdere, una volta tanto, il suo storico controllo dei nervi, limitandosi a berci sopra qualche bicchiere d’acqua. Ebbene, quel diavolo di Salvini è appena riuscito a far tornare a gridare nell’aula di Montecitorio contro i rubli, quelli russi naturalmente, con vivaci richieste di chiarimento, nonostante le smentite da lui già opposte, le querele già presentate e le nuove che ha minacciato a chi ha preso sul serio le “rivelazioni” del sito americano Buzz-Feed. com, secondo cui durante un suo soggiorno a Mosca nell’autunno scorso il quasi omonimo, amico e collega di partito Gian Luca Savoini avrebbe negoziato, concordato, tentato e non so cos’altro con quattro russi in un grande albergo finanziamenti alla Lega, in vista della costosa campagna elettorale europea dell’anno dopo. E tutto ciò all’ombra di grandi affari petroliferi. Di questa vicenda si occupò già in Italia, fra altre smentite e querele, il settimanale L’Espresso. La visita di Salvini a Washington. Che naturalmente se n’è vantato, con i ritorni americani, ed ha ripreso a intingere il pane nell’inchiostro quando, vere o false che siano, le notizie sono rimbalzate da oltre Atlantico. Dove peraltro Salvini ha il torto di essere appena andato in visita ufficiale, di avere avuto incontri di alto livello, anche se non altissimo come quello del presidente Donald Trump. Che tuttavia non nasconde certamente né direttamente né indirettamente, attraverso i suoi collaboratori, l’interesse e la simpatia per il leader leghista, che in quell’albergo di Mosca è stato addirittura definito “il Trump italiano”. Cui manca soltanto il passaggio politico, e forse anche elettorale, per diventare il capo del governo prendendo il posto di Conte, pure lui tuttavia apprezzato dal presidente americano, che gli parla chiamandolo “Giuseppi”, perché gli americani hanno problemi con la e finale dei nomi. Ho trovato curioso, divertente e non so dirvi cos’altro ancora vedere nell’aula di Montecitorio insorgere con grida e cartelli contro i presunti rubli a Salvini e alla Lega quegli stessi settori, a sinistra, contro cui negli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche oltre, insorgevano i deputati della destra e del centro contro i rubli non presunti ma veri, anzi verissimi, che arrivavano dall’allora Unione Sovietica al Pci per finanziarne in modo decisivo la grande e costosa organizzazione.
I rubli del Pci. Non potevano onestamente bastare allo scopo né le quote di iscrizione, né i contributi pur consistenti dei parlamentari, né i soldi pubblici forniti dalla legge cui si ricorse dopo lo scandalo dei finanziamenti privati dei petrolieri, che coinvolse pure quel partito dell’odore inconfondibile di bucato come Indro Montanelli chiamava il Pri del suo amico Ugo La Malfa. Né potevano bastare a sostenere i costi di quella potente macchina organizzativa ed elettorale del Pci i consumi di salamelle ed altro nelle pur affollate, a volte affollatissime, feste dell’Unità, dove si mescolavano passioni per i compagni e odi per gli avversari, persino nei menù dove si proponeva il piatto imperdibile della “trippa alla Bettino” Craxi. Dei rubli arrivati lungamente, sistematicamente e abbondantemente al Pci da Mosca tramite gli affari delle Cooperative o con le valigie diplomatiche direttamente nell’ambasciata sovietica a Roma, a poca distanza dalla Stazione Termini, si divertiva spesso a parlare, anche quando il traffico era o sembrava cessato, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga. Che li rinfacciava, in particolare, all’ultimo e forse davvero incolpevole segretario del Pci: Achille Occhetto, da lui liquidato come “zombi”. Nel parlarne, quell’impenitente di Cossiga si divertiva a ricordare, o precisare, che da Mosca arrivavano all’ambasciata romana solo e rigorosamente rubli, alla cui conversione in dollari, non in lire, provvedevano esperti noti alle tolleranti, anzi tollerantissime autorità di vigilanza. Ed erano anni, quelli, di guerra fredda davvero, col muro ben piantato e sorvegliato a Berlino, con i missili puntati nelle basi del Patto di Varsavia contro le capitali europee, Roma compresa: missili diventati ad un certo punto così tanti e così pericolosi da costringere la Nato ad un riarmo al cui passo l’Unione Sovietica non resse sul piano economico e finanziario. Come se avesse sentito arrivare, anzi tornare attraverso gli Stati Uniti, le polemiche sui rubli ancora una volta incombenti a torto o a ragione sulla politica italiana, il giornalista e romanziere Walter Veltroni, forse ancora più fortunato in questa veste che come segretario di partito, ministro, vice presidente del Consiglio e sindaco di Roma, dove pure ha fatto molto e spesso anche bene, ha appena riproposto ai lettori del Corriere della Sera, intervistando questa volta sui misteri e sulla fine della prima Repubblica il vecchio amico Aldo Tortorella, con i suoi 93 anni appena compiuti, la storia dei finanziamenti russi al Pci. E dei danni, forse superiori anche ai vantaggi, che ne derivarono al partito allora più forte della sinistra italiana, compromettendone l’autonomia o ritardandone l’evoluzione, come la chiamavano quelli che la volevano pure nella Dc per liberarsi di un alleato scomodo come Craxi.
La svolta di Berlinguer. Tortorella non ha fatto numeri ma ha parlato di date, o periodi, raccontando in particolare che a chiudere la pratica dei finanziamenti sovietici al Pci fu Enrico Berlinguer poco dopo la sua elezione a segretario, avvenuta nel marzo del 1972, e l’attentato che subì l’anno successivo, rimasto a lungo segreto e controverso, durante una visita in Bulgaria. Dove i padroni di casa gli procurarono un incidente stradale sperando di liberarsene per l’abitudine che aveva preso di parlare dei limiti, chiamiamoli così, della democrazia nei regimi comunisti. Ciò accadeva quindi ben prima del 1980, quando il leader comunista commentando in televisione il colpo di Stato militare compiuto in Polonia autonomamente dal generale Jaruzesky per prevenire il solito intervento delle truppe sovietiche, trovò il coraggio di dichiarare l’esaurimento della “spinta propulsiva” della rivoluzione comunista di ottobre del 1917 in Russia. Allora egli finì di compromettere quel poco ch’era ancora rimasto dei vecchi rapporti di scuola e di politica con Mosca. Berlinguer decise di fare a meno dei rubli in modo sostanzialmente solitario, consultandosi – ha raccontato Tortorella- solo con Gerardo Chiaromonte, e poi passando le direttive necessarie al capo dell’’ organizzazione del partito Gianni Cervetti, che si occupava anche dei delicati rapporti finanziari con Mosca. Seguirono non a caso, nel 1973, i tre saggi consecutivi affidati da Berliguer alla rivista del partito Rinascita sulla lezione da trarre dal colpo di Stato militare in cui era sfociata, per reazione interna e internazionale, la svolta dell’alternativa di sinistra realizzata da Salvatore Alliende, che ne sarebbe morto. Non l’alternativa di sinistra ma il “compromesso storico” con le forze moderate avrebbe dovuto diventare la linea del Pci, che infatti la perseguì con Berlinguer, rivestendola anche dei panni del cosiddetto “eurocomunismo”, sino a realizzare nel 1976 e a rafforzare nel 1978, con l’ultima crisi gestita nella Dc da Aldo Moro, prima del sequestro e dell’assassinio per mano delle brigate rosse, quella che è passata alla storia come “maggioranza di solidarietà nazionale”. Berlinguer potette farlo – ha raccontato Tortorella- pur non proprio a tutte le condizioni da lui volute, viste le resistenze opposte da Moro a una partecipazione diretta del Pci al governo, che fu invece composto solo di democristiani, e guidato da Giulio Andreotti per garantire o rasserenare i sospettosissimi americani, ma anche la Chiesa; Berlinguer, dicevo, potette farlo solo per essersi nel frattempo garantita sul piano finanziario “l’autonomia necessaria al partito per essere coerente forza nazionale e di governo”.
I legami indissolubili con Mosca. Eppure, anche se Tortorella non lo ha ricordato né Veltroni ha voluto aiutarlo incalzandolo con qualche domanda, il Pci continuò a tenere i suoi legami con Mosca contrastando, per esempio, il riarmo missilistico della Nato, nonostante Berlinguer avesse detto in una famosa intervista a Giampaolo Pansa per il Corriere della Sera, censurata in questo passaggio dall’Unità, di sentirsi anche come comunista garantito sotto l’ombrello atlantico. Dovettero arrivare i già ricordati fatti polacchi del 1980 perché veramente la storia dei rapporti con l’Urss cambiasse e i rubli fossero probabilmente destinati solo a una parte del Pci, quella organizzata alla luce del sole da Armando Cossutta dopo lo “strappo” da questi rimproverato a Berlinguer. E Cossutta fece tutto intero il suo dovere di militante filosovietico rimanendo nel Pci sino a quando Occhetto, anche a costo di piangerne, non decise di cambiargli nome e simbolo per non lasciarlo sepolto sotto le macerie del muro di Berlino. Ora, francamente, non so come andrà a finire lo scontro, politico e forse anche giudiziario, di Salvini con quanti lo immaginano imbottito di rubli, o con qualche amico che avrà pensato di fargli un piacere cercando di procurarglieli intrufolandosi in alberghi, ristoranti e quant’altri, ma di certo mi ha fatto una certa impressione – vi ripeto- vedere protestare contro i rubli veri o presunti della Lega parlamentari negli stessi banchi parlamentari dove sedevano i deputati appartenenti al partito che i rubli li prendeva davvero. E ne fu a lungo anche orgoglioso. Mancano alla chiama o ai richiami, almeno per ora, i dollari che i comunisti ai loro tempi accusavano la Dc e gli alleati di prendere dagli Stati Uniti. E chissà se, coi tempi e con gli umori che corrono, Salvini non finirà per sentirsi accusare di prendere anche quelli, i dollari, e non solo i rubli.
"L'Urss pagava tutti non soltanto il Pci. Greganti? Un gigante". L'ex pm di Mani Pulite: «Il Pd non ha mai voluto fare i conti con le tangenti rosse». Felice Manti, Sabato 13/07/2019, su Il Giornale. Milano «Abbiamo voluto cancellare la memoria di questo Paese. E questo ha consegnato il governo a gente senza storia». Tiziana Parenti risponde dal suo studio legale di Genova. La sua toga da magistrato l'ha appesa al chiodo tanti anni fa, oggi fa l'avvocato dopo l'esperienza in Parlamento con Forza Italia. Per la storia è Titti la Rossa, allontanata dal pool perché aveva osato indagare sul fiume di rubli che dall'Est finiva nelle casse del Pci. «Mani Pulite per te finisce qui», le avrebbe detto Gerardo D'Ambrosio, per cui le tangenti rosse erano «un vagone staccato» di Mani Pulite. E così le indagini di Titti, iscritta per tre anni nel Pci, finirono in un binario morto nonostante le prove che sul conto «Gabbietta» Primo Greganti, il famigerato «compagno G», incassava soldi dai Paesi dell'area sovietica e da imprenditori italiani per conto di Botteghe Oscure. «La Russia ha sempre pagato qualcuno. Grosse tangenti, soldi. E non solo al Pci. Già negli anni Sessanta numerose cooperative facevano scambi culturali o import-export di facciata con l'Urss, tutti modi per giustificare in maniera lecita un finanziamento di un certo livello. Ma Greganti era un gigante rispetto alle comparse come questo... Savoini? Savoini chi?».
Che cosa ne pensa?
«Bisogna leggere le carte, ovviamente. Ma se mi chiede se Savoini sarà il Greganti della situazione le dico di no. Certe cose non si fanno da estranei, non è che uno passa per caso e parla di tangenti, con la Russia di Putin che è cresciuto in quel sistema sovietico di soldi e favori poi... Figurarsi. Certo, nascondersi dietro un ma chi l'ha invitato è una cosa triste».
Ironia della sorte, c'è il Pd che chiede chiarezza. E già si parla di una commissione d'inchiesta...
«Guardi, altra cosa triste. Questo Pd non ha niente a che fare con il Pci di prima, anche se Zingaretti è certamente un uomo d'apparato. Ma se il Paese in balia degli ignoranti è perché il Pd ha un'eredità sula quale non ha mai riflettuto seriamente. Abbiamo perso la memoria delle tangenti di una volta. Il finanziamento illecito ai partiti da parte di una potenza straniera, allora come oggi, è un fatto destabilizzante. Invece di riflettere sul passato si ridicolizzano vicende che invece sono molto serie. Galleggiamo su un enorme punto interrogativo. E questa è la condanna del Paese. O facciamo i conti seriamente con quel passato o finiamo nel nulla».
Quando Mani Pulite si fermò davanti ai rubli al Pci qualcuno disse che la magistratura era politicizzata. Oggi, a leggere certe intercettazioni, si capisce che alcuni parlamentari Pd decidevano a tavolino i capi delle Procure. Non è cambiato niente?
«La politica fa pressioni perché sa che le può fare».
Ma è un'invasione di campo?
«Ma la magistratura è un soggetto politico. Quando 60 milioni di italiani ti chiedono di garantire i loro diritti sei un soggetto politico. I contatti tra politici e i vertici della magistratura esistono da sempre. Quando ci sono entrata io, nel 1980, c'erano già da anni. La cosa non ci deve meravigliare. Il vicepresidente del Csm è eletto dal Parlamento, no? I magistrati sono dappertutto: al Quirinale, nei gabinetti dei ministri, in Parlamento, nelle istituzioni. Meravigliarsi ora è da ipocriti».
Oggi però la commistione è sotto gli occhi di tutti.
«Era inevitabile che scoppiasse una guerra interna, ora che non c'è più un nemico da combattere, ora che - come nei partiti - le correnti dentro Md, Unicost, dentro Magistratura indipendente si stanno regolando i conti».
È l'indipendenza della magistratura, no?
«Ma quale indipendenza, magari ci fosse. Io l'ho subita sulla mia pelle, io me ne sono dovuta andare. La magistratura deve difendersi da sé stessa. Va gestita con delle regole per evitare questo straripamento, che peraltro è figlio delle regole che ha fatto il Parlamento».
Cosa si rimprovera?
«Io ho fatto tutto in buona fede. La mia battaglia per l'indipendenza non è stata inutile. Il mio collega Marco Boato diceva che ognuno deve fare le sue battaglie. Meglio farle che non farle. Forse qualcosa resta. Anche solo un po' di memoria».
· Politica e corruzione, l’eterno ritorno.
INTELLIGENTI O FURBI. Vittorio Feltri, la lezione ai giudici: un'amarissima verità sui politici corrotti. Libero Quotidiano 1 Giugno 2019. Nei giorni scorsi il viceministro Rixi è stato condannato con altri per aver cenato qualche volta a sbafo della Pubblica amministrazione. Una sentenza grossa per un reato piccolo piccolo. Il governatore del Piemonte Cota fu silurato per un paio di mutande verdi che poi non risultarono provento di furto. Oltre venti anni fa ci fu tangentopoli che cancellò la Seconda Repubblica travolta da inchieste e processi a carico di politici che avevano intascato miliardi. Già, la questione morale sollevata da Enrico Berlinguer non era uno stato d'animo bensì una solida realtà. Tutti sgraffignavano per il partito e qualcuno sgraffignava anche al partito per vivere agiatamente. Risultato, spazzate via le forze politiche quasi fossero organizzazioni criminali. Se ne salvò una soltanto, quella degli ex comunisti che pure grattavano di brutto, quanto gli altri. Botteghe Oscure furono salvate da un miracolo giudiziario. Forse la sinistra godeva di una protezione celeste esattamente come accade adesso. Lo dico senza spirito polemico ma con spirito critico. È passato tanto tempo dall'epoca gloriosa di Mani pulite, però le mani continuano ad essere considerate sporche cosicché i pesci nani seguitano a finire nella rete e a pagare prezzi enormi per aver intascato bazzecole, briciole. Irubagalline vengono perseguiti con un accanimento degno di miglior causa e i ladroni, e gli imbecilli, la fanno franca. La regione Lombardia, la più efficiente, è sotto tiro per quattro minchiate, tipo abuso d'ufficio (equiparato a una sosta vietata) mentre quelle del Sud, che ne combinano di ogni colore, sono risparmiate dai tutori distratti della legge.
Ma non è questo il punto. Si discute di corruzione come fosse un dramma nazionale, poi si scopre che nel Settentrione si va in galera per una consulenza di ottomila euro assegnata a un pirla tuo conoscente o per una nota spesa esagerata. Il senso delle proporzioni è svanito. Si vuol far credere che il seme del malaffare germogli prevalentemente nella politica, ed è una fandonia. È l'umanità ad essere imperfetta e tendente ad approfittarsi delle situazioni. La gente è pronta ad arraffare per campare meglio di quanto le consenta il proprio reddito, evade il fisco in massa, non paga l'assicurazione dell'automobile, va in moto senza casco, riscuote pensioni di invalidità pur essendo sanissima. Il popolo si arrangia in qualsiasi modo, soprattutto se illecito. Personalmente ho diretto sette o otto giornali e mi sono trovato dinanzi a episodi imbarazzanti. Al vertice dell'Europeo, settimanale di prestigio, un giornalista mi presentò una lista costi da brivido: una stecca di Marlboro, un chilo di parmigiano, una bottiglia di whisky e il pernottamento in un motel dove normalmente non si va per recitare il Rosario e neppure per compilare un articolo. Ovviamente contestai la richiesta di rimborso e litigai col redattore. Mancò poco che lo picchiassi perché aveva preso per il culo me e l'azienda, la Rizzoli. Questo significa che non è necessario essere un politico per cedere alla tentazione di fregare soldi, la qual cosa è estesa alla collettività, e i cronisti non sono esenti dal desiderio di lucrare disonestamente. Ne sono testimone e per darmi un po' di arie dico che da lustri non presento note della spesa nel timore di sbagliare a mio vantaggio. Lo faccio per una ragione semplice: temo di rimediare figure di merda. Tutto ciò dimostra che non si può pulire il mondo e renderlo lindo quale un giglio. Gli uomini o sono intelligenti o furbi. In ogni caso preferisco essere governato da un briccone che da un idiota senza macchia. Vittorio Feltri
Politica e corruzione, l’eterno ritorno: adesso pene certe e condanne rapide. Pubblicato martedì, 07 maggio 2019 da Venanzio Postiglione su Corriere.it. Anche lo sfregio. Si vedevano al ristorante e lo chiamavano «la mensa dei poveri». Hanno immaginato la tangente su una sentenza per tangenti: pure la corruzione sa essere creativa. Il mago delle relazioni e dei voti, raccontano i pm, è un signore già condannato in via definitiva nel 2017: per concussione. Quando si dice la competenza. E l’inchiesta poteva e doveva andare avanti, alla ricerca di prove e reati: hanno dovuto interrompere. D’urgenza. Con gli arresti. Perché, ascoltando i colloqui, saltavano fuori nuovi illeciti: così, in diretta. Sono passati 27 anni dal famoso 17 febbraio del ’92, quel mattino d’inverno in cui Mario Chiesa veniva arrestato, Tonino Di Pietro diventava famoso, si apriva Tangentopoli, cadeva un sistema politico e si immaginava la lunga primavera dell’onestà. Da Milano all’Italia tutta. Però 27 anni fa è come 27 mesi fa e 27 ore fa, la corruzione ambientale specchio e condanna di un Paese uguale a se stesso, al di là delle norme, dei partiti, delle inchieste. Delle promesse, dei proclami. Ma forse anche dei garantisti e dei giustizialisti. Che si scontrano sul nulla e parlano di nulla se non si aggrediscono i due temi aperti (quelli veri): la selezione della classe politica e l’efficacia e la rapidità della giustizia. Altrimenti avremo sempre mezze figure con la bustarella in tasca e processi infiniti che aiuteranno lo spettacolo e mortificheranno la legalità. E avremo pene molto severe e molto inapplicate, grandi megafoni per la propaganda e nuovi tagli alla giustizia. La delusione sarà più forte, se i primi passi dell’inchiesta di Milano verranno confermati, a cominciare dalle «sinergie con le cosche della ’ndrangheta». Perché nell’immaginario italiano davvero, e ancora, la Lombardia è la regione che lavora-produce-innova partendo dalle sue imprese e prova a trascinare un Paese frenato dalle risse (quotidiane) al governo e malmenato dalle bastonate (mensili) dell’Europa. È una spinta che fa bene all’Italia e ci tiene ancorati al mondo: tutti i giorni. Ma poi, un martedì mattina, la notizia che scuote il sistema lombardo di governo, costruito da sempre sull’alleanza Forza Italia-Lega e citato con insistenza come modello nazionale. Ci sono 43 misure cautelari, con 12 arresti in carcere e con gli «azzurri» emergenti sotto scacco. A partire da Pietro Tatarella, vice coordinatore regionale di Forza Italia e anche candidato alle Europee del 26 maggio: in lista, ma ora in cella. Indagato lo stesso governatore leghista, Attilio Fontana, per abuso d’ufficio, anche se la Procura ha mostrato cautela e quindi servirà prudenza. Non è solo un fatto giudiziario. E non è facile scagliare pietre. La Lega, a Roma, si è incartata nella vicenda Siri e ha ridato slancio ai 5 Stelle. Gli stessi 5 Stelle che hanno visto il proprio presidente del consiglio comunale, Marcello De Vito, finire in carcere per corruzione. Nella capitale, dove governano. Il Pd, solo per citare l’ultima pagina, ha la ferita dell’Umbria ancora aperta, dopo decenni di amministrazione e di potere. Poi, certo, ogni caso è un caso, ogni responsabilità è personale e l’indagato non è un condannato. Ma neppure la legge «spazzacorrotti» si è rivelata (per ora) una minaccia sufficiente e l’ipotesi della «giustizia a orologeria» si spegnerà prima di nascere. Sarebbe uno strano orologio. Visto che in Italia ci sono sia elezioni che indagini in continuazione. È una battaglia che va fatta nei partiti. Dentro i partiti. Con le inchieste. Ma anche nella società, nella cultura, alla ricerca degli anticorpi che esistono in Lombardia e non solo in Lombardia. È forse qui che, un giorno, deve davvero finire la pacchia. Senza dire che le persone marciranno in galera o che bisogna buttare la chiave nel lago di Como o che si devono tagliare le mani come nelle leggi ispirate alla sharia. Le persone degli altri partiti, naturalmente. Meglio pene certe e condanne rapide: la riforma più semplice sarà quella più difficile. Partendo da Cesare Beccaria, milanese e gloria nazionale, che l’ha scritto nel Settecento. E poi una politica che chiama «mensa dei poveri» il ristorante dove si scambiano tangenti dovrebbe vergognarsi subito. Prima di inchieste e processi.
Non chiamatela Tangentopoli: questo è un nuovo teorema giudiziario. Tangentopoli, analisi di un’indagine mediatico-giudiziaria. Tiziana Maiolo il 9 Maggio 2019 su Il Dubbio. Non è la Nuova Tangentopoli e neanche una nuova inchiesta Stato-mafia in salsa locale. Il blitz che si è palesato martedì mattina in Lombardia con le sembianze di un calderone contenente oltre 90 indagati e 43 persone arrestate per reati contro la pubblica amministrazione non ha infatti nulla a che vedere né con le vicende che nel 1992 rasero al suolo un’intera classe politica né con le tradizionali inchieste di mafia e politica. La storia di Tangentopoli ( così fu battezzata proprio la città di Milano da cui partirono quelle indagini ) non è solo una vicenda giudiziaria. È lo specchio di un assetto politico- economico che riguardò i primi quarant’anni della storia repubblicana in cui si annidò anche la malattia, un sistema di finanziamento illegale dei partiti di governo e del principale di opposizione con la complicità dei maggiori imprenditori italiani. Tutto era controllato, con una spartizione chirurgica tra le parti, e tutto era conosciuto ( anche dalla magistratura ) e accettato ( anche dagli elettori, a una parte dei quali ogni tanto veniva lasciata cadere qualche briciola ). C’erano anche casi di corruzione personale, certo. Ma erano secondari rispetto al sistema che il pm Antonio Di Pietro chiamò “dazione ambientale”. La Tangentopoli del 1992 è un fenomeno irripetibile. E qualche santo ci tenga lontano dagli imitatori di quel gruppo di investigatori che si autodefinì “Mani Pulite”, quasi a sottolineare il proprio compito finalizzato più a moralizzare la società che non a perseguire i singoli reati. Anche questa grande anomalia per fortuna è irripetibile. Non c’è più quel rapporto di complicità tra i partiti né tra questi e il mondo dell’impresa. Non c’è più neppure «quell’intelligenza politica, individuale e collettiva», che insieme ai frutti sani aveva prodotto anche la malattia. Ne parlò l’ultima volta in Parlamento il leader socialista Bettino Craxi quando denunciò che tutti i bilanci dei partiti erano falsi e illegali così come illegale era stato il loro finanziamento. Nessuno osò contraddirlo. Che cosa succede oggi (ma anche ieri e probabilmente domani)? Succede prima di tutto che esploda una vera bomba nel bel mezzo di una campagna elettorale quanto mai importante e delicata per gli equilibri in campo. Possibile che su richieste di arresto di due- tre mesi fa da parte dei Pm il giudice delle indagini preliminari non potesse assumere i provvedimenti un mese prima o un mese dopo le elezioni? La seconda osservazione è che si ha l’impressione, leggendo l’ordinanza, che si vogliano mettere insieme episodi e soggetti molto lontani tra loro, quasi a voler a tutti i costi indirizzare ogni singolo fatto in un “unico disegno criminoso”, all’ombra protettiva di una associazione mafiosa cui tutto ricondurre. Non è un caso che le indagini siano state condotte dalla Direzione distrettuale antimafia, e non è la prima volta, in Lombardia. Il nuovo teorema di questi anni è: ormai la ‘ ndrangheta si è trasferita al nord, dove ci sono i capitali più succulenti e le maggiori occasioni di fare affari, soprattutto perché la classe politica è sempre e comunque corrotta e pronta a farsi complice. Quindi, se è corrotta è anche mafiosa. Un ragionamento che pare molto in linea con gli orientamenti della parte Cinquestelle del governo, che tende a equiparare per gravità i reati contro la Pubblica Amministrazione a quelli di mafia a terrorismo. Così anche episodi sia pur gravi ma “minori” come la mancata denuncia di un contributo elettorale di 10.000 euro finiscono nel calderone non solo della corruzione ma anche della criminalità organizzata. Va anche detto che una classe politica più giovane e inesperta di quella dei tempi di Tangentopoli possa essere meno accorta nei rapporti individuali. Anche se il limite tra una certa di disinvoltura politica e lo scivolamento nella commissione di reati è spesso sottile. E succede anche che lo stesso mondo dell’impresa navighi spesso su confini scivolosi. Così finisce che se l’assessore A fa un favore all’imprenditore B e costui ha rapporti borderline con il signor C considerato contiguo ad ambienti mafiosi, ecco che il vestito giudiziario che viene costruito addosso all’assessore è il più terribile di tutti: mafia. E’ il caso anche della vicenda che ha riguardato l’ex sottosegretario Armando Siri. L’uso disinvolto dei reati associativi ( che andrebbero aboliti, come sostiene da tempo l’Unione delle Camere Penali ) fa il resto, con intercettazioni e arresti come conseguenza diretta. Anche questa nuova inchiesta milanese si sta infilando in un filone che non è più solo giudiziario e che pare molto pericoloso. Davanti a presunti casi di piccola corruzione o di piccolo o grande clientelismo ( come pare il filone di Varese, che ha finito per coinvolgere anche una persona stimata da tutti come il Presidente della regione Lombardia Attilio Fontana ), si lancia l’allarme che qualcosa di grande stia accadendo, qualcosa di sistemico, qualcosa che necessiti la maxi- inchiesta, la maxi- retata, il maxi- processo. Qualcosa di invincibile, in definitiva, come lo è stata per decenni la mafia nel sud d’Italia. Non è così, per fortuna. E qualche maggior forma di autocontrollo all’interno dei partiti e qualche iniezione di laicità all’interno della magistratura così come di un certo mondo dell’informazione forse sarebbero più utili di calderoni giudiziari inevitabilmente destinati, almeno in parte, a sgonfiarsi nel corso dell’iter giudiziario e nei tempi lunghi della giustizia.
Quegli strani arresti: l'inchiesta su Legnano non si regge in piedi. I pm ipotizzano gare truccate: ma dalle carte emerge solo l'intenzione di far funzionare le cose. Luca Fazzo, Sabato 18/05/2019, su Il Giornale. Una gara truccata per fare vincere un amico: peccato che l'amico alla gara non abbia mai neanche partecipato. Un'altra gara truccata per far vincere il prescelto: che però a quel posto era l'unico aspirante. Una terza gara alterata per far vincere un candidato rimasto sconosciuto, e di cui nelle intercettazioni la cosa più grave che si dice è che «è bravissimo». Eccoli, riletti a mente fredda, i capi d'accusa della operazione che giovedì fa ha colpito Legnano, la città-simbolo del Carroccio, mandandone agli arresti domiciliari il sindaco Gianbattista Fratus e in galera il vicesindaco Maurizio Cozzi. Annunciata con spolvero di telecamere dalla Procura di Busto Arsizio, l'operazione «Piazza Pulita» ha fatto irruzione nella campagna elettorale a ridosso del voto: clamore inevitabile, è la prima volta che un sindaco della Lega viene arrestato. Ma l'ordinanza di custodia, depurata dalle ipotesi, dai «verosimilmente», dalle valutazioni morali a casaccio, lascia alcuni dubbi aperti. Perché più di aiutare Tizio o Caio, i politici di Legnano sembrano - dalle stesse intercettazioni depositate agli atti - preoccuparsi soprattutto di far funzionare le cose.
CHI SE NE FREGA SE È DEL PD. È il passaggio forse più significativo delle intercettazioni. Si parla della nomina del nuovo direttore generale dell'Amga, una importante municipalizzata. Il vicesindaco Maurizio Cozzi parla con Chiara Lazzarini, coordinatrice di Forza Italia, dei possibili candidati: e già lì si capisce che non c'è un vincitore designato: «Prova a sentire anche questo qui che così magari poi fissiamo di incontrarli a fine settimana, questi qua sono i primi due che mi sono venuti in mente». Tra i nomi possibili, quello di un candidato di Alessandria che i pm non sono riusciti a identificare, e che pare avere un ottimo profilo, «ha esperienze più diffuse, anche nella gestione di cose complicate», ma non piace ad un assessore. Dice la Lazzarini: «Alpoggio è arrivato e ha detto assolutamente quello lì no, è uno del Pd, è un massone, è uno che non va bene perché mi sono informato io». E Cozzi: «Ma che cazzo c'entra se è uno è del Pd o non è del Pd. Se uno è capace....».
LO STIPENDIO DIMEZZATO. Da coprire c'è anche il posto di direttore generale del Comune. Intercettazione della Lazzarini: «Vogliamo una persona superpreparata, soprattutto nelle partecipate e nel personale». Viene individuato un candidato, Enrico Barbarese, che però fa presente di essere incompatibile per qualche mese, essendo commissario liquidatore di una società, e per risolvere il problema si offre di lavorare a mezzo stipendio: «Per tre quattro mesi io mi prendo il 50 per cento dello stipendio ma non mi importa, formalmente un part-time che tanto io non ho orario, rinuncio al 50 per cento della retribuzione quindi il Comune non ha nessun problema di tipo erariale». Anche questo per la Procura di Busto diventa un elemento di accusa.
IL PERICOLOSO CRIMINALE. Il sindaco Fratus viene accusato di avere nominato Barbarese «nonostante fosse gravato da pendenze penali». In realtà dagli atti emerge che contro Barbarese c'è solo una denuncia mai sfociata in una condanna neanche in primo grado.
LA FIRMA ANTICIPATA. Fratus viene accusato di avere firmato troppo in fretta la nomina del nuovo direttore generale. Ma il candidato era uno solo (gli altri erano inammissibili) quindi l'esito era scontato.
LA CIFRA IRRISORIA. La prima accusa a Cozzi è di avere truccato a gara per una consulenza per affidarla a commercialista Gabriele Abba. Ma Abba non presenta neppure la domanda per partecipare alla gara, perché il compenso è di appena ottomila euro all'anno: «È una cifra irrisoria, per me non si presenta nessuno», dice Abba..
IL POSTO PER LA FIGLIA. In cambio dell'appoggio al ballottaggio, Fratus dà un posto in un consiglio d'amministrazione alla figlia del candidato dell'Udc. È l'unico capo d'accusa che appare solido. Ma è l'unica accusa per cui la Procura non ha chiesto l'arresto.
La "nuova Tangentopoli" e la noia del "vecchio" uso politico della giustizia. Dopo 30 anni c'è chi torna a parlare di Tangentopoli da cui, è chiaro, non abbiamo imparato niente. Maurizio Tortorella il 17 maggio 2019 su Panorama. Certo, se ancora all’alba del maggio 2019 un grande quotidiano nazionale (nella fattispecie la Repubblica ) si mette a titolare in prima pagina “Legnati a Legnano” perché un partito per cui antipatizza (nella fattispecie la Lega) finisce coinvolta in un’inchiesta, questo vuol dire che quasi trent’anni d’indagini, di arresti, di verbali di interrogatorio, d’intercettazioni e tutto l’armamentario giudiziario di complemento non sono proprio serviti a nulla. Attenti. Il ragionamento di certo non vale soltanto per gli arrestati leghisti di quest’ultima tornata: la stessa logica vale per chiunque finisca in una qualsiasi retata di “detenuti politici”. Rispetto delle garanzie degli indagati? Certo che no. Presunzione d’innocenza? Nemmeno a parlarne. Attesa per il giudizio? Ma va là. La sensazione prevalente all’ennesimo scattare di manette (e si spera sia così non soltanto in chi scrive), la è la noia, quasi la nausea. E non certo per simpatia o favore nei confronti della Lega, dei cui evidenti difetti siamo più che avvertiti. No: è l’uso politico della giustizia che davvero ha stancato. I magistrati ogni volta ce lo dicono: noi non possiamo fermarci (e ci mancherebbe!) perché l’obbligatorietà dell’azione penale ci impone di agire. Aggiungono: non è che poi possiamo rallentare a ogni elezione, visto che in Italia ogni settimana c’è un voto (ci mancherebbe!). Vero, tutto vero. Che noia. In chi non smetta di porsi domande, però, resta la fastidiosa sensazione che in questo povero Paese a ogni tornata elettorale, d’improvviso, qualcosa si accenda: che un brivido cominci ad agitare i corridoi di questa o di quella Procura. Partono allora le legnate (copyright la Repubblica). E ora, in questa fase storica, tocca alla Lega. Obiettivamente, questa non è soltanto la verità di Matteo Salvini. È un dato statistico, inoppugnabile. Così come è inoppugnabile la simpatia tra i grillini e certi ambienti giudiziari, un feeling che si muove in parallelo alla corrente che da alcuni anni collega certi uffici giudiziari (e certi magistrati) e il giornale di riferimento del Movimento 5 stelle. Che a ogni arresto urlano urràh, pretendono pene più elevate per ogni reato (e ora che sono al governo le piazzano anche in tutte le leggi), chiedono più poteri per i pubblici ministeri…Grida, pene più elevate, poteri più intrusivi, però, non sono la risposta. Non è di certo la pena che ferma il reato, altrimenti in Cina (dove la giustizia è un po’ più brutale e veloce che nei Paesi democratici) non ci sarebbe nessun corrotto, non ci sarebbe un rapinatore, non ci sarebbe nemmeno un ladro: tutti quei delitti sono puniti con la pena capitale. Quanto alla corruzione, volete sapere che cosa si dovrebbe fare per arginarla nel nostro Paese? Basterebbe una sola norma, semplice semplice: depenalizzare il reato di chi compie una corruzione, dare un salvacondotto al “versatore di mazzette”. Io do una tangente a un sindaco, a un parlamentare, a chiunque? Se poi vado a denunciarlo resto impunito (ovviamente vengo però processato per calunnia se denuncio un reato inesistente). Vedreste allora che nessuno rischierebbe più di farsi corrompere o di chiedere una tangente. Troppo rischioso diventerebbe. E forse noi tutti saremmo meno annoiati di leggere certe cronache giudiziarie.
Il dominio infinito dei Pm sulla politica. Claudio Brachino, Martedì 21/05/2019, su Il Giornale. Qualcuno lo dice in modo esplicito, altri a mezza bocca, qualcuno nega, mentendo, altri mentono proprio, qualcuno si schernisce ma lo fa rabbrividendo. Tangentopoli, dunque, non è mai finita? Anzi è tornata e oscilla sempre più minacciosa come un pendolo della morte sul nuovo sistema politico di potere in Italia oggi, quello della Lega e del suo leader, Matteo Salvini? Come si fa a mettere in relazione la «gloriosa» corruzione degli anni '80 e '90, la maxitangente Enimont e l'altrettanto in-gloriosa fine della Prima repubblica, con bustarelle e consulenze che sommate sono meno di quanto evade in un anno un solo furbastro medio italiano? Sarà, ma a me l'inchiesta lombarda sulla corruzione, che ha messo nei guai esponenti politici di Forza Italia e del Carroccio, e che punta minacciosa verso i vertici del Pirellone, ricorda per modi e tempi un riflesso condizionato che scandisce e determina la nostra democrazia dal 1992, anno di grazia dell'eroismo della Procura di Milano e della fine della Dc. È il dominio del Giudiziario sul Politico, come dice il grande filosofo sloveno Zizek, il vero virus delle democrazie occidentali. Attenzione, non si parla schematicamente della giustizia che tiene sotto scacco e ricatto la politica. Il Giudiziario e il Politico sono qui due sistemi narrativi, due brand del potere, e come tutti i sistemi narrativi sono organizzati in racconti di simboli, uomini, visioni del mondo, antropologie. Lo squilibrio delle due narrazioni rende sempre più arrogante e impunito il sistema giudiziario, e sempre meno autonomo e coraggioso il sistema politico, che ha agende, prospettive, leader sempre da rifare. Soprattutto il Politico, inteso come campo semantico di riferimento della vita pubblica, perde credibilità sempre di più con i cittadini, che allora si affidano al mainstream anti-casta come a un mantra che lavi la loro rabbia e la loro frustrazione. Tradotto: perché ho votato quello lì che ruba o quantomeno fa solo gli interessi suoi e non i miei? Il populismo, inteso come ricetta moralistica e leadership violenta di chi ripara il gap del meccanismo rappresentativo (ci penso io a te in modo diretto, caro popolo mio), è proprio figlio di questa delusione della mediazione democratica di tipo elettivo. Il movimento che con il web ha proposto la fine della democrazia elettiva con il sogno della iperdemocrazia internettiana, come si chiama? Il movimento che oggi ritorna più forte grazie alle inchieste che riguardano gli altri, come si chiama? Per alcuni, ma qui siamo già al complotto, ci sarebbe una goethiana affinità elettiva tra un signore che in quella Procura (quella di Tangentopoli) c'era, Piercamillo Davigo, e nuovi riferimenti culturali, la base grillina e il giustizialismo travagliesco. Se il complotto c'è, la vittima perfetta è lui, Salvini, ed era da tempo, almeno dal 2011, dagli ultimi mesi del governo Berlusconi disarcionato in modo illegale, questa almeno è storia, che non si avvertiva una cattiveria concentrica cosi pervasiva e inarrestabile. Troppo violento il clima su di lui, al di là dei suoi errori. La critica politica è una cosa, la costruzione del Cattivo Perfetto è un'altra. Una costruzione molto pericolosa, diciamo così. Infatti la parola corruzione è in bocca all'alleato Di Maio per zittire la Lega su tutto: autonomia, migranti, sicurezza, grandi opere, famiglia. La tesi è questa, il Carroccio popone una grande metonimia politica, scambio retorico della causa per l'effetto, per distrarre l'attenzione dai propri guai. Se l'inchiesta lombarda va avanti e si aggrava, Salvini è destinato all'immobilismo o ad accettare, più che un contratto co-firmato, l'ordine del giorno della visione grillina. Torniamo allora al tema iniziale: Tangentopoli non è mai finita non tanto per il suo oggetto, la corruzione. Quella c'era e c'è ancora, e va combattuta, senza scorciatoie filosofiche che dipingono l'animo umano naturaliter incline alla delinquenza. Per gli uomini tutti e per i politici valgono le regole morali universali e quelle della buona e corretta amministrazione della cosa pubblica. Ma Tangentopoli non è mai finita anche, e soprattutto, per il sistema narrativo che ne è alla base, a prescindere da singoli oggetti o avversari da sacrificare di volta in volta. Il significante giudiziario, diremmo alla Lacan, che vede se stesso come unica via al Potere.
Gli sbagli di Matteo su pm e moderati. Il leghista ha sottovalutato il dna dei grillini e pensa di allearsi soltanto con la Meloni. Augusto Minzolini, Martedì 21/05/2019, su Il Giornale. Può accadere in un Paese normale che un presidente della Commissione antimafia, nel caso il grillino Nicola Morra, possa registrare un colloquio nel soggiorno di casa sua con l'ex segretario del sindaco di Cosenza, all'insaputa dell'interessato, e lo porti alle dieci di sera a dei finanzieri per trasmetterlo a un procuratore aggiunto che su quella conversazione aprirà dieci fascicoli di indagine? No. Ed ancora, che uno dei finanzieri che hanno ricevuto il nastro e il magistrato in questione, poco dopo vengano chiamati alla Commissione antimafia il primo come segretario del presidente Morra e il secondo come consulente a tempo pieno? Tanto meno. «Per un fatto del genere - osserva Luca Paolini, il più garantista dei leghisti - bisognerebbe chiedere le dimissioni di Morra. Luciano Violante 25 anni fa si dimise per molto meno». E invece niente, nell'Italia di oggi nessuno si meraviglia più. Altro esempio. Può capitare in un Paese normale che un magistrato della Corte d'appello di Bari, il dottor Ancona, dia un'interpretazione del tutto personale della legge elettorale (unica in tutti i collegi della penisola) determinando l'elezione della senatrice di Forza Italia, Carmela Minuto, a scapito di un altro candidato azzurro, Michele Boccardi? In un Paese normale proprio no. Già, il caso di un magistrato che interpreta a suo modo il Rosatellum lascia perplessi (un altro giudice, l'ex presidente del Senato Pietro Grasso, ne è rimasto scandalizzato), ma che a un anno dalle elezioni la vicenda non sia stata risolta per colpa dell'inerzia della Giunta del Senato (cioè del potere politico) che dovrebbe affrontare il caso, è quantomeno paradossale. Risultato: nel Belpaese le elezione di un parlamentare è determinata non dai voti ma dal volere di un magistrato. Appunto, nell'Italia di oggi la magistratura è il primo potere. Può capitare pure che la Procura di Agrigento sequestri la nave Sea Watch e faccia scendere i migranti, proprio mentre il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, in tv continua a dare ordini affinché restino a bordo. La questione non riguarda il fatto in sé, e cioè se fosse giusto dare l'ok allo sbarco o no, ma pone un interrogativo di fondo: chi comanda in Italia il ministro dell'Interno, il governo o i magistrati? Salvini ha parlato di «atto politico», di «procuratori che vogliono sostituirsi al governo», vi ha intravisto una sorta di «escamotage per fare sbarcare i migranti» ipotizzando addirittura verso i magistrati «l'accusa di favoreggiamento per traffico di essere umani».
Opinioni che hanno un loro fondamento, possibili verità, solo che il leader della Lega dimentica come gli equilibri di questa maggioranza, per essere chiari l'alleanza con i grillini, cioè con una forza che fa del giustizialismo «un credo» e che considera ogni critica alla magistratura una sorta di «lesa maestà», abbia contribuito non poco insieme alle leggi prodotte da questo governo a rendere più marcata in quest'ultimo anno quell'invasione di campo che ha condizionato gli ultimi trent'anni della Storia Repubblicana. «Ci stiamo trasformando sostiene il forzista Roberto Occhiuto - in una Repubblica giudiziaria e nessuno si scandalizza più. Le invasioni di campo restano impunite, nessuno si oppone e avvengono nella più completa impunità». In realtà il ministro dell'Interno è complice e vittima nello stesso tempo, di questo processo. Complice perché non ha valutato con attenzione il partner di governo a cui si è legato: nel dna del movimento 5Stelle, il «governo dei giudici» è uno dei geni caratterizzanti. I rapporti con la vecchia rivista Micromega, con Il Fatto, dimostrano che è un movimento nato in parallelo con l'affermarsi nella magistratura di una corrente nata sulle tesi di Piercamillo Davigo, testa d'uovo del vecchio pool di Mani pulite. Vittima perché Di Maio per risalire la china nei sondaggi ha giocato tutta la sua campagna elettorale su una nuova emergenza Tangentopoli che ha messo nel mirino in primo luogo la Lega. Eppure, basta guardare i dati del ministero dell'Interno o del Parlamento, per verificare che i reati di corruzione o concussione nelle amministrazioni pubbliche in dieci anni si sono quasi dimezzati. Lo stesso Sabino Cassese, che tra le tante qualità non ha certo quella di essere un ideologo del garantismo, ammette che «la corruzione reale è molto più bassa di quella percepita». Solo che per riabilitare agli occhi dei delusi «l'incompetenza grillina» c'era bisogno di ridare di nuovo un senso allo slogan «onestà, onestà». Insomma, per parafrasare la celebre frase di Leonardo Sciascia sui «professionisti dell'antimafia», i grillini per ridarsi «un perché» si sono proposti come «i professionisti anticorruzione». Un'operazione che potrebbe avere successo visto che rispetto ai dieci punti di vantaggio che la Lega aveva sui 5Stelle negli ultimi sondaggi pubblicabili, ieri all'ippodromo Masia (un caso omonimia con il patron di Emg) il purosangue «Fulmine verde» staccava poco più di tre lunghezze «Tuono giallo». Se fosse vero non sarebbe una rimonta da poco.
Quindi, il primo errore che Salvini rischia di pagare è quello di essersi legato ad un movimento dall'anima «giustizialista». Il secondo, non meno grave del primo, invece, è quello di immaginare per il futuro che l'Italia possa essere governata da una coalizione «destra+destra». È la suggestione che si intravvede dietro le parole di Giorgia Meloni quando ipotizza un governo Lega-Fratelli d'Italia, o quando Salvini sogna un rassemblement populisti-sovranisti anche per il governo di Roma. Un Paese complesso come l'Italia non si governa dalle estreme. Anche gli eredi del Pci hanno avuto bisogno di un Prodi. Se ci provi rischi di beccarti «i lenzuoli» sui balconi, l'accusa di nemico della democrazia e slogan «antifascisti», magari datati, ma che sono un richiamo della foresta per una certa magistratura. Ne sa qualcosa il Cav e comincia a scoprirlo Salvini. «È una questione seria sui cui dovremmo ragionare», ammette il presidente dei senatori del Carroccio Massimiliano Romeo. Né tantomeno per essere accettato dal club dei moderati basta un rosario: la tradizione racconta che tra i dc, che pure la cristianità l'avevano nel nome, l'unico che nei suoi giri elettorali faceva cadere un rosario per dimostrarsi un fervente cattolico inchinandosi davanti ad una Madre Superiora in qualche convento o baciando la mano dell'Abate di un monastero, era Oscar Luigi Scalfaro. Figurarsi un po'. Salvini per la verità in privato questa pretesa non ce l'ha. Ieri all'uscita di uno dei tanti talk show elettorali il leader della Lega ha ironizzato su quella battuta: «Io santo? Io sono il peccatore tra i peccatori». Poi per spiegare il dinamismo della sua campagna elettorale ha confidato: «Tutto merito di un intruglio di erbe che mi fa la mattina Francesca (Verdini, ndr)». Solo che oltre agli intrugli di Francesca, Salvini dovrebbe anche accettare i consigli di papà Denis: «La prima volta che l'ho visto raccontava Verdini qualche settimana fa - ho parlato con lui per cinque ore. Gli ho spiegato che con questa storia del governo basato sull'alleanza tra lui e la Meloni non va da nessuna parte. E anche se si farà, sarà un guaio. Alla fine saranno costretti a tornare indietro. Per vincere il centrodestra ha bisogno di qualcosa di centro. Non so se l'abbia capito».
Se vince l’uso strumentale della giustizia. Carlo Fusi il 17 Maggio 2019, su Il Dubbio. Veniamo al punto. Alla luce della vicenda Siri, dell’arresto del sindaco di Legnano, dell’indagine della Corte dei Conti su un presunto uso indebito dei voli di Stato, è vero o no che la Lega è sotto attacco dei magistrati, in particolare di quelli ritenuti (a che titolo?) vicini all’M5S, al fine di limitarne l’espansione elettorale il prossimo 26 maggio? Se sì, si tratta di un tentativo che va stroncato subito e chi deve intervenire lo faccia con solerzia e determinazione. Se invece così non è, è necessario che gli inquirenti possano lavorare con serenità e al di fuori di indebite pressioni pro o contro, senza che sia sollevato il polverone della giustizia ad orologeria che è un modo particolarmente subdolo per svilire o delegittimare il controllo di legalità. Allo stesso modo – e poco importa se risulta allettante in termini di voti – è parimenti subdolo far lievitare l’immagine di una corruzione ormai endemica e pervasiva; dividere il mondo tra chi la vuole combattere e chi la spalleggia autoassegnandosi un posto esclusivo nel primo campo con la Durlindana dell’onestà e incorruttibilità sguainata. Come pure lanciarsi in disinvolti ed impropri parallelismi con la stagione di Tangentopoli, fortunatamente alle nostre spalle. Il garantismo che ci appartiene non prevede né crociate da combattere né sconti o favoritismi da elargire. Considera che al doveroso accertamento delle responsabilità si arrivi rispettando le regole dello Stato di diritto, senza sconfinamenti verso innocentismi ideologici o derive giustizialiste. Seguendo la civiltà giuridica iscritta nella Costituzione per cui nessuno può essere sottoposto a indagini in mancanza di una qualsiasi traccia ma anche che non basta una traccia per poter assegnare patenti di colpevolezza. Proprio la vicenda di Mani Pulite dovrebbe funzionare da monito per allontanare intromissioni e indebite invasioni di campo tra politica e magistratura. Chi intende strumentalizzare l’una ai fini dell’altra e viceversa, non rende un buon servizio ai cittadini. I quali presto o tardi se ne accorgono e finiscono per punire, nelle urne, tutti gli apprendisti stregoni.
La caccia a Matteo è aperta: prima di lui Bettino e il Cav. L’assalto politico-giudiziario-mediatico nei confronti di Salvini è partito con la virulenza che nella storia è stata riservata a pochi personaggi politici. Tiziana Maiolo il 18 Maggio 2019 su Il Dubbio. La caccia è aperta. Caccia grossa, come già quella del “cinghialone”, come poi quella contro il “cavaliere nero”. Non è un semplice complotto: non ci sono magistrati o generali o banchieri seduti a tavolino a ordire oscure trame. Ma è certo che l’assalto politico- giudiziario- mediatico nei confronti del ministro Matteo Salvini è partito con la virulenza che nella storia è stata riservata a pochi, ben precisi, personaggi politici. Un tempo fu Bettino Craxi, il cui tonfo chiuse l’era della prima repubblica, il trofeo che unì una magistratura fin troppo politicizzata a un partito comunista che sognava la sua morte politica per poterne ereditare le spoglie e agli impavidi cronisti giudiziari che brindarono alla sua fine nella sala stampa del palazzo di giustizia di Milano. Se complotto ci fu, il risultato fu più che modesto. E la seconda repubblica si aprì con la vittoria del 28 marzo 1994 di Silvio Berlusconi, già preavvisato dal procuratore capo di Milano Saverio Borrelli, che gli fece sapere a mezzo stampa «chi ha scheletri nell’armadio non si candidi». E si susseguirono con implacabile sequenza le centinaia di perquisizioni, le indagini, i processi, l’intrusione nella vita privata. Il circo mediatico- giudiziario fu feroce, e soprattutto politico. Il partito di Occhetto, polverizzato sul piano elettorale, non rimase con le mani in mano, e mise in moto una seconda “macchina da guerra”, in seno a quel partito socialista europeo in cui il Pci- Pds era stato accolto solo grazie alle buone entrature ( ah, l’ingratitudine! ) di Craxi. Così il 4 maggio di quell’anno – è appena passata una settimana dal risultato elettorale- il Pse riesce a fare votare, con un solo punto di differenza, una mozione con cui il Parlamento europeo chiedeva al Presidente della repubblica italiana un impegno sull’antifascismo. Si è aperta la caccia al “cavaliere nero”. Che cosa ha in comune Matteo Salvini con Bettino Craxi e Silvio Berlusconi? Ha avuto successo, ha conquistato il potere, è brillante, è spavaldo. E’ molto esposto sul piano mediatico, soprattutto. E l’invidia non perdona. Partono le consuete inchieste giudiziarie di stampo pre- elettorale. Se vogliamo esaminarle tramite la lettura delle ordinanze, sono in realtà “piccole cose”. Ma ben collocate sul piano politico. In Lombardia, nella culla di quella che fu la Lega Lombarda, in una Regione da tempo ( ben) governata dal centrodestra. Da una costola di indagini della Direzione distrettuale antimafia emergono sospetti di piccola corruzione da parte di due esponenti di Forza Italia. Ma il pesce grosso da catturare è il Presidente della Regione, il leghista Attilio Fontana. Nei suoi confronti una semplice informazione di garanzia, cioè un atto a sua tutela, per la nomina in una commissione di un suo ex collega. Ma improvvisamente sembra che lui, e lo stesso Salvini, siano finiti nell’occhio del tifone per comportamenti infamanti. Il viceministro Luigi Di Maio non sa nascondere il suo entusiasmo, finalmente può gridare in faccia al suo collega di governo il suo urlo di guerra “onestà onestà”. Ma è la sinistra quella che, non avendo perso le sue abitudini, sa muoversi meglio, esibendo a raffica i suoi «siamo garantisti però», con dei PERO’ grandi come case. Il quotidiano La Repubblica, pur sapendo che è un’arma spuntata ( come insegnano i precedenti casi di Renzi e Pinotti ) spara l’ipotesi che Salvini abbia usato l’aereo di Stato per i suoi comizi. E intanto gli arrestano un sindaco di vecchia militanza come quello di Legnano. Si, la Legnano con il suo Alberto da Giussano e i ricordi e il Va pensiero cantato con commozione per la “patria perduta”. Nell’inchiesta non si parla di mazzette, non girano soldi. Pure cade la giunta, arriva il commissario, una volta di più è la magistratura a decidere chi deve governare. E Di Maio dice che il leader della Lega deve cacciare il sindaco, mentre persino gli scolari quattordicenni palermitani paragonano Salvini a Mussolini e Hitler. La caccia è aperta.
Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 17 Maggio 2019: "Mi autodenuncio. Sono corrotto". La lezione ai "magistrati ridicoli". In questi giorni Forza Italia e la Lega sono sotto assedio: imputate di corruzione e roba simile, come fossero bande di ladri consumati. Ricevono avvisi di garanzia, mandati di arresto, galera e domiciliari quasi piovesse. Motivi? Valli a capire. Tangentine da miserabili, aiutini da straccioni, furti di galline, promesse non sempre mantenute. La politica è vita e la vita è agra, imperfetta quanto l'umanità, complessa, fatta di relazioni tra gente di ogni tipo. E la politica, le istituzioni, sono piene di scambi: do ut des è un motto latino che vale da oltre duemila anni. Come dire che nessuno fa nulla per niente. Chi non se ne rende conto è fuori di testa e dal mondo. Cosicché se tu vuoi accusare qualcuno di essere un corrotto o un corruttore ci metti cinque minuti a imbastire una inchiesta giudiziaria. Io, per esempio, non ho un gran potere eppure un sacco di persone mi telefona e chiede delle cortesie: fammi un pezzullo, una intervistina, recensisci il mio libro, dedicami un po' di spazio dato che sono candidato alle europee o alle comunali, ho bisogno di una mano e so che tu sei in grado darmela. Certe pressioni mi rompono le scatole, ma il più delle volte soccombo per evitare storie e recriminazioni. Lo ammetto, è difficile se non impossibile sottrarsi agli obblighi imposti da un intricato sistema di relazioni pubbliche. Pertanto mi autodenuncio quale corrotto e corruttibile. Mio cugino ha scritto un romanzo (bruttino) e anziché mandarlo al diavolo l'ho elogiato onde evitare rogne. Sono un delinquente? Forse sì in quanto il mio parente per ringraziarmi dell'attenzione immeritata mi ha fatto recapitare tre fiaschi Chianti Gallo nero, buono, per altro. Mi sono venduto o adattato alle consuetudini? Giudicate voi cari lettori. Di già che sono in vena di confessioni, vi dico che a Natale mi sono stati regalati da alcune ditte vari panettoni di marca e me li sono mangiati volentieri coi colleghi. La nostra è una redazione di banditi che fanno merenda a sbafo dopo aver leccato il culo a certe aziende? Mah! Non è finita. Moretti, quello dello spumante ottimo di Franciacorta, poiché gli avevo dedicato un articolo per segnalare che nel suo potere aveva utilizzato i cavalli al posto dei trattori, in omaggio alla tradizione, mi ha recapitato una magnum del suo splendido vino. Anche in questo caso ho commesso un delitto? Altra circostanza, più grave. La senatrice Bernini, che stimo profondamente, capogruppo di Forza Italia a Palazzo Madama, recentemente mi ha donato una culaccia squisita, che ho sbranato in famiglia. Mi sono forse venduto a lei? Può darsi, ma allora pure i tre re Magi, Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, che portarono a Gesù oro, mirra e incenso erano furfanti corruttori di merda che intendevano comprarsi un posticino in paradiso. Virgilio nell'Eneide scriveva: Timeo danaos et dona ferentes, cioè temo i greci se portano doni. Aveva ragione. I greci tutti in galera, in galera i beneficati. E in galera ogni leghista e ogni forzista. Siamo una massa di criminali. Non ha torto Davigo: gli unici innocenti sono soltanto coloro che l'hanno fatta franca. Anche lui? Cari magistrati, piantatela di rendervi ridicoli. Vittorio Feltri
· Morto Francesco Saverio Borrelli.
Morto Francesco Saverio Borrelli. Francesco Saverio Borrelli, il procuratore aggiunto presso il Tribunale di Milano che guidò il pool di Mani Pulite è morto oggi all'età di 89 anni. Francesco Curridori, Sabato 20/07/2019, su Il Giornale. “Resistere, resistere, resistere” è stata la linea di condotta tenuta da Francesco Saverio Borrelli durante tutta la sua carriera in magistratura, caratterizzata da un accanimento giudiziario senza precedenti nei confronti di Silvio Berlusconi.
Dall'infanzia a Napoli all'ingresso in magistratura. “Sono figlio, nipote e pronipote di magistrati. Da bambino spesso non potevo fare chiasso perché papà stava scrivendo una sentenza. A quel tempo il lavoro del magistrato, specialmente se civilista, si svolgeva in casa. Forse viene da lì la mia passione per le sentenze”, racconterà Borrelli nato e cresciuto nella Napoli degli anni ’30. A sette anni scopre che i genitori gli avevano tenuto nascosto che i suoi fratelli, in realtà, erano dei fratellastri rimasti orfani di madre da piccolissimi. “I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così”, dirà Borrelli molti anni dopo. Incoraggiato da Piero Calamandrei si laurea in giurisprudenza con una tesi dal titolo ‘Sentimento e sentenza’. Nel ’55 entra in magistratura come pubblico ministero e all’inizio Oscar Luigi Scalfaro è il suo uditore giudiziario. “Mi scrisse qualche riga di elogio decisiva a incoraggiarmi rispetto all’aridità che percepivo in quella professione. Era un uomo superiore: entrava magari in aula con una giacca lisa, ma addosso a lui sembrava un frac, tanto era il suo carisma”, racconterà.
Borrelli alla guida del Pool Mani Pulite. Nel 1983 Borrelli diventa procuratore aggiunto presso il Tribunale di Milano fino al 1988 quando assume il ruolo di capo dello stesso ufficio ma assurge alle cronache nazionali solo nel 1992 quando l’inchiesta Mani Pulite scuote il mondo della Prima Repubblica. È lui a guidare il pool di magistrati composto da Antonio Di Pietro, Ilda Boccassini, Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo. “Allora la connessione tra affarismo e politica, per torbida che fosse, non smentiva l'obiettivo fondamentale del mondo dell'impresa, che è quello di produrre ricchezza”, spiegherà l’uomo che inviò il primo avviso di garanzia a Bettino Craxi. "Se hanno scheletri nell'armadio, li tirino fuori prima che li troviamo noi" è la frase intimidatoria pronunciata da Borrelli nel ’93 in vista delle elezioni Politiche dell’anno successivo. “Un'affermazione assurda che presuppone una condanna prima del processo” fu allora il commento di Silvio Berlusconi che, evidentemente, già immaginava quanto dannoso sarebbe stato affidare al potere giudiziario le sorti del potere politico. “Nei nostri armadi non ci sono cadaveri ma solo abiti o stampelle. Non si può chiedere che i magistrati si astengano dal prendere provvedimenti in campagna elettorale? Io rovescio la questione: sono le scadenze elettorali a non dover condizionare quelle giudiziarie", aggiunse il Cavaliere. Nel 1994 Borrelli, intervistato dal Corriere della Sera, rilascia un’altra dichiarazione choc che dà il segno del clima in cui si respirava in quel periodo: “Dovrebbe accadere un cataclisma per cui resta solo in piedi il Presidente della Repubblica che, come supremo tutore, chiama a raccolta gli uomini della legge. E soltanto in quel caso potremmo rispondere con un servizio di complemento”. Anche per questo nel corso degli anni si conquista il soprannome di ‘grande inquisitore’: “C’è chi ha fatto di tutto per screditare il nostro lavoro, anche attraverso i soprannomi. Pochi sanno -confesserà -peraltro che sono finito a fare il pubblico ministero per caso e, pur avendo fatto l’inquirente con scrupolo, la mia vera passione sarebbe stata quella di tornare a fare il giudice, specie nelle cause civili".
Berlusconi da sempre nel mirino di Borrelli. La caduta del primo governo Berlusconi è determinata dall’avviso di garanzia che Borrelli fa recapitare al Cavaliere mentre quest’ultimo presiedeva a Napoli la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite sulla criminalità organizzata. Nel ’96, a margine della prima udienza del giudizio contro Berlusconi, ha l’ardore di dire: "Questo non è un processo politico - dice Borrelli - anche se è innegabile che possa avere conseguenze politiche. Ma i nostri valori sono scritti nel codice penale". Nel 1999 va in pensione ma fino al 2002 ricopre il ruolo di procuratore generale della Corte d'appello milanese. Ed è in quella vesta che il 12 gennaio del 2002, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, pronuncia lo slogan “resistere, resistere, resistere” ideato da Vittorio Emanuele Orlando dopo la cocente sconfitta di Caporetto. No, stavolta il bersaglio non sono gli austriaci ma è ovviamente Silvio Berlusconi e le riforme del suo governo in materia di giustizia. “Ai guasti di un pericoloso sgretolamento della volontà generale, al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto, ultimo, estremo baluardo della questione morale, è dovere della collettività resistere, resistere, resistere come su una irrinunciabile linea del Piave”, è il grido di battaglia di Borrelli.
Gli ultimi anni di vita. Nel 2006, dopo lo scandalo Calciopoli, l’allora commissario straordinario della Figc Guido Rossi lo nomina capo dell’ufficio indagini della Federazione, incarico che abbandona nel giugno 2007. Il 14 ottobre di quello stesso anno firma l’appello in sostegno alla corsa di Walter Veltroni a segretario del Pd. Nel 2011 si scusa sarcasticamente “per il disastro seguito a Mani Pulite: non valeva la pena buttare all’aria il mondo precedente per cascare in quello attuale”.
Morto Francesco Saverio Borrelli, ex capo del pool Mani Pulite. Pubblicato sabato, 20 luglio 2019 su Corriere.it. Morto il magistrato Francesco Saverio Borrelli. Il capo del pool di Mani Pulite è mancato oggi a Milano. Era ricoverato da tempo nell’hospice dell’Istituto dei Tumori. Aveva 89 anni. Borrelli era nato a Napoli il 12 aprile del 1930. Era entrato in magistratura nel 1955, nel capoluogo lombardo tutta la sua carriera. Accanto a lui fino alla fine, la moglie Maria Laura e i figli Andrea e Federica. La camera ardente in Tribunale a Milano. Qualche giorno fa, con un post su Facebook, la figlia Federica aveva annunciato la gravità delle sue condizioni di salute: «Ti tengo la mano e insieme alle lacrime che non ho il pudore di nascondere, scorrono i mille ricordi di quanto vissuto con te». Nato a Napoli il 12 aprile del 1930, entrò in magistratura nel 1956. La quasi totalità della sua carriera giudiziaria si è svolta nel Palazzo di Giustizia di Milano. Dal 1999 e fino al 2002, quando andò in pensione, è stato procuratore generale della Corte d’Appello milanese. Fu lui a pronunciare la famosa frase «Resistere, resistere, resistere», come sulla linea del Piave nel corso della cerimonia d’inaugurazione dell’anno giudiziario del 2002. Parole rivolte alla politica che, a suo dire, metteva in pericolo l’indipendenza della magistratura. Nel maggio del 2006 venne nominato capo dell’ufficio indagini della Figc (Federazione italiana Gioco Calcio), incarico che ricoprì per un solo anno. Nel 2012 è stato insignito del titolo di Cavaliere della Repubblica.
Morto Francesco Saverio Borrelli, il capo del pool Mani Pulite di Milano. Il magistrato era nato a Napoli nel 1930, a Milano tutta la sua carriera, dalle inchieste su Tangentopoli allo storico appello "Resistere, resistere, resistere". Era ricoverato in un hospice. Greco: "Ha fatto la storia d'Italia". Camera ardente a Palazzo di Giustizia. Oriana Liso il 20 luglio 2019 su La Repubblica. Francesco Saverio Borrelli, il magistrato il cui nome è legato da sempre al pool di Mani Pulite, è morto oggi nell'hospice Floriani dell'Istituto dei Tumori di Milano, dove era ricoverato. Borrelli era nato a Napoli il 12 aprile del 1930, era entrato in magistratura nel 1955 e quasi tutta la sua carriera si è svolta nelle aule del tribunale di Milano, fino a quel suo discorso da procuratore generale della Corte d'Appello, nel 2002, che si concludeva con una parola ripetuta tre volte, un appello per l'indipendenza della magistratura rimasto famoso: "Resistere, resistere, resistere, come sulla linea del Piave". La camera ardente sarà aperta lunedì dalle 9.30 alle 12 a Palazzo di Giustizia. Accanto a lui fino all'ultimo momento la moglie Maria Laura e i figli Andrea e Federica, che aveva scritto su Facebook un lungo post che faceva già presagire la fine. Immediate le reazioni di quanti l'hanno conosciuto. "Francesco Saverio Borrelli era un capo che sapeva proteggere i suoi uomini, una persona che ha fatto la storia d'Italia". Così Francesco Greco, a capo della procura di Milano e considerato l'allievo dell'ex magistrato che guidò il pool di Mani Pulite, commenta la scomparsa di Borrelli. L'8 luglio la figlia Federica aveva scritto su Facebook: "Ti tengo la mano e insieme alle lacrime che non ho il pudore di nascondere, scorrono i mille ricordi di quanto vissuto con te. Mi vedo seduta sulla canna della tua bicicletta azzurra, sento ancora il freddo dell'acciaio sulle mie gambe infantili, vedo le mie mani grassocce che stringono il manubrio, come mi dicevi tu, per non cadere e non sbilanciarci. Ricordo l'ansia del distacco quando mi lasciavi all'asilo per consegnarmi alla signorina Carla. Ma non solo... ricordo le prime versioni di latino tradotte insieme, ricordo il tuo aiuto magico per il maledetto Isocrate e per i filosofi greci, anche all'Università, ricordo il regalo di maturità, le gite sui Monti della nostra Courmayeur, i litigi, le sgridate, l'ultima pochi giorni prima del matrimonio, ricordo che non hai mai smesso di trasmettere tutto ciò che per te valeva la pena trasmettere". Scriveva ancora sua figlia: "Nel mio momento più buio ci sei stato, amorevole, quando nacque Sofia, quando mi sono ammalata mi hai portato in giro per capire cos'era questa maledetta malattia. Mi mancano il tuo arguto senso critico, che si parlasse di filosofia, letteratura, musica, storia e arte. Mi manca il suono del tuo pianoforte che giace orfano del tuo talento, come orfani siamo noi. Papà vorrei averti potuto e saputo dare tutto quello che mi hai dato, per sempre". Dopo la carriera da magistrato, Borrelli aveva vissuto ancora una stagione professionale come capo dell'ufficio indagini della Figc, nel 2006, nominato dal commissario straordinario Guido Rossi dopo lo scandalo sul mondo del calcio. Ma accanto all'amore per la legge, Borrelli ha sempre coltivato quello per la lirica: presenza fissa alla Scala di Milano, nel 2007 era stato nominato presidente del Conservatorio di Milano.
A capo della procura di Milano per 11 anni, divenne il simbolo della stagione di Mani Pulite. Giampaolo Visetti il 20 luglio 2019 su La Repubblica. Francesco Saverio Borrelli è morto nell'Istituto tumori di Milano. Aveva 89 anni. Da alcune settimane era ricoverato nella stanza numero 3 dell'Hospice Virgilio Floriani, al secondo piano. Nell'autunno scorso i medici gli avevano diagnosticato un tumore al cervello ed era stato operato all'ospedale San Raffaele. Con lui, sempre e fino all'ultimo, i famigliari: la moglie Maura Laura Pini Prato e la sorella, la figlia Federica e il figlio Andrea, pure magistrato, i nipoti Francesco, Teresa e Sofia. La notizia del ricovero dell'ex capo della Procura milanese, fino al 2002 procuratore generale della Corte d'appello, si era sparsa da tempo e non solo nell'ambiente giudiziario. Decine, negli ultimi giorni, i colleghi di ieri e di oggi, gli avvocati, il personale delle cancellerie e gli agenti delle forze dell'ordine che hanno voluto passare a salutare quello che per tutti resta il capo del pool di Mani Pulite, una figura di magistrato il cui significato ha ampiamente superato la funzione giudiziaria. Centinaia però anche le persone comuni e gli amici che, saputo della sua degenza, si sono affacciate con discrezione alla porta della sua stanza per dirgli semplicemente "grazie" e abbracciare i famigliari. Da un paio di settimane Borrelli aveva infine perso conoscenza. Il suo profilo si era fatto affilato, sotto il lenzuolo e dentro la tunica bianca giaceva un fisico magrissimo. Teneva gli occhi socchiusi e non muoveva più la parte sinistra del corpo. La moglie e i figli non hanno smesso di tenergli la mano e di sorridergli, di chiedergli se riuscisse ancora a sentire la loro voce. A chi lo andava a trovare confermavano, con dolore ma senza smarrire la serenità, che la speranza di una reazione però era finita. "E' forte - dicevano nelle ultime ore - ma questa volta non ce la fa". Giudice e magistrato per 44 anni, Francesco Saverio Borrelli era nato a Napoli il 12 aprile 1930. Anche il padre Manlio e il nonno avevano indossato la toga e così aveva scelto di proseguire la tradizione di famiglia. Si era laureato in giurisprudenza a Firenze a 22 anni, allievo di colui che sarebbe poi diventato presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, con una tesi su Pietro Calamandrei dal titolo "Sentimento e sentenza". Si era poi subito trasferito a Milano, assumendo il ruolo di pubblico ministero nel 1955. Nel 1983 il passaggio da Pm e magistrato, con la nomina a procuratore aggiunto presso il Tribunale. Alla guida della Procura milanese, esercitata poi per undici anni fino al 1999, era stato chiamato nel 1988. Mai avrebbe immaginato, come lui stesso ha più volte ricordato, che quattro anni dopo si sarebbe aperta una delle più decisive stagioni di inchieste sulla corruzione e sui rapporti illeciti politica-affari della storia italiana. Mani Pulite, con l'inchiesta sulla famosa mazzetta incassata da Mario Chiesa al Pio Albergo Trivulzio, scoppiò nel febbraio del 1992. Borrelli si rese conto subito della pervasività della corruzione degenerata in sistema nazionale e assieme a Gerardo D'Ambrosio, per affrontare Tangentopoli, formò il famoso pool con Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo e Ilda Boccassini. Se Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono i simboli della lotta contro le mafie, Francesco Saverio Borrelli è l'icona di quella contro la corruzione, di una figura di procuratore capo quale garante non dei poteri, ma dei diritti. Nella storia italiana, anche quando si parla di Borrelli, esiste un prima e c'è un dopo. Sua la firma sotto il primo avviso di garanzia a Bettino Craxi, o sotto il mandato di comparizione del 1994 a Roma per Silvio Berlusconi, impegnato al G7 di Napoli. Nessuno dimentica il suo appello alla classe politica prima della campagna elettorale del 1993: "Se hanno scheletri nell'armadio li tirino fuori, prima che li troviamo noi. Si candidi solo chi ha le mani pulite". Storico il suo "Resistere, resistere, resistere come sulla linea del Piave", in occasione dell'ultimo discorso inaugurale dell'anno giudiziario nelle vesti di procuratore generale della Corte d'Appello, nel 2002, contro le riforme del governo Berlusconi, impegnato a ridimensionare l'indipendenza della magistratura. Dopo la pensione, nell'aprile dello stesso anno, Guido Rossi nel 2006 lo aveva voluto alla guida dell'ufficio indagini della Figc, la Federazione italiana gioco calcio, pure alle prese con gli scandali di Calciopoli. Ritiratosi e vita privata un anno dopo, Francesco Saverio Borrelli aveva finalmente potuto dedicarsi alle sue grandi passioni: la famiglia, il pianoforte, la musica di Wagner, i suoi amati cavalli. "Nessun cambiamento deve suscitare scandalo - disse nel pieno della "questione morale" - purché sia assistito dalla razionalità e purché il diritto, inteso come categoria del pensiero e dell'azione, non subisca sopraffazione dagli interessi". L'ultima lezione, inascoltata.
Morto Borrelli, Mattarella: "Ha servito con fedeltà la Repubblica". Bobo Craxi: "Fu punta di diamante di un colpo di Stato". I magistrati ricordano lo storico procuratore capo morto oggi a Milano. Colombo: "Incarnava l'idea del magistrato che lavora nell'interesse di tutti". La figlia del leader Psi Stefania: "Il tempo pronuncerà parole di verità". La Repubblica il 20 luglio 2019. Il primo a ricordarlo è l'uomo considerato uno dei suoi allievi, il magistrato che tre anni fa, nel discorso da nuovo capo della procura di Milano, citò proprio lui come esempio. "Francesco Saverio Borrelli era un capo che sapeva proteggere i suoi uomini, una persona che ha fatto la storia d'Italia": Francesco Greco, procuratore capo di Milano, ricorda così Francesco Saverio Borrelli, il magistrato che ha guidato il pool di Mani Pulite e che è morto oggi a Milano all'età di 89 anni. Greco ha già fatto sapere che la camera ardente di Borrelli sarà aperta lunedì dalle 9.30 alle 12 in tribunale, come era già accaduto per un altro loro collega di quella stagione, Gerardo D'Ambrosio. Dal Quirinale arriva, con una nota, il cordoglio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che ricorda il "magistrato di altissimo valore, impegnato per l'affermazione della supremazia e del rispetto della legge, che ha servito con fedeltà la Repubblica". Ma ci sono anche ricordi in chiaroscuro, come quello di Bobo Craxi: "Fu una delle punte di diamante di quello che io considero un colpo di Stato, il sovvertimento di un organo dello Stato da parte di un altro". Volti e nomi legati per sempre, quelli del pool e dei magistrati della procura di Milano degli anni Novanta. "Di Francesco Saverio Borrelli si deve ricordare non solo l'aver guidato la procura di Milano in un momento difficile, ma la sua intera carriera: è stato giudice e pubblico ministero, giudice civile, procuratore generale, e molto altro. In questi tempi ultimi si sono fatte critiche al carrierismo, ma lui ha dimostrato nella sua lunga carriera che lo si può fare con spirito di servizio e utilità complessiva per la giustizia. Se ricordiamo Mani Pulite in modo comunque positivo è perché lui seppe gestite quella fase delicata, il mitologico 'pool' fu una sua invenzione": così l'ex procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati. Gherardo Colombo - che nel pomeriggio è arrivato all'hospice dell'Istituto dei tumori di via Venezian, ricorda: "Abbiamo lavorato tanto assieme, incarnava perfettamente l'idea del magistrato che svolge il suo lavoro nell'interesse di tutti, era una persona eccezionale". "Sono molto molto addolorato, è un momento difficile e credo che mi terrò dentro il mio dolore", dice il procuratore aggiunto Paolo Ielo. "Scompare un baluardo resistente a difesa e a tutela dell'indipendenza della magistratura". Così il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso, mentre Armando Spataro ricorda: "Un grande giurista ma ancor più un grande uomo, rifuggiva anche dal titolo di capo che non gli piaceva, amava il lavoro di squadra". E l'Anm riassume: "Scompare figura esemplare di magistrato". "Francesco Saverio Borrelli ha saputo dare risposte concrete al bisogno di giustizia e onestà in uno dei momenti più difficili del nostro Paese. La sua azione e il suo impegno resteranno per sempre un esempio che Milano, sua città adottiva, non dimenticherà", è il ricordo affidato a Twitter del sindaco Beppe Sala. "Mi piace ricordarlo con parole che spesso mi aiutano ad andare avanti: 'Resistere, resistere, resistere'. Francesco Saverio Borrelli: quando la giustizia è capacità di non piegarsi al potere politico", scrive su Twitter Nicola Morra, presidente M5S della Commissione antimafia. "Protagonista di una stagione che ha segnato la storia recente del nostro Paese, uomo di grande cultura e sempre attento al mondo del sociale con iniziative a sostegno dei più deboli", ricorda il presidente della Lombardia Attilio Fontana. Ma quella stagione, che mise fine alla Prima Repubblica tra arresti e scandali, è al centro anche del commento di Stefania Craxi, la senatrice di Forza Italia figlia del leader Psi Bettino, che proprio di Tangentopoli divenne uno dei simboli: "Con Borrelli viene a mancare uno dei protagonisti principali di una stagione infausta della nostra storia repubblicana. A dispetto di molte comparse del tempo, compresi taluni suoi compagni magistrati assurti ad eroi e gettatasi nell'agone politico ed alla ricerca di incarichi pubblici, Borrelli, scelse con coerenza di vestire solo e sempre la toga e nei recenti anni, se pur sempre con reticenza ed omissioni, ebbe ad avanzare alcune riflessioni amare sugli effetti prodotti dalle inchieste di 'Mani pulite'. Il tempo, come sempre, pronuncerà parole di verità. Ma la sua dipartita porta con sé molti segreti e molti 'detto non detto' che, nonostante il lavoro della storia, resteranno probabilmente celati. Nel momento del dolore e della sofferenza il silenzio e il rispetto sono pertanto dovuti all'uomo e alla famiglia". E anche suo fratello Bobo Craxi commenta: "E' stato a suo modo un protagonista della storia di questo Paese. E' stato espressione di una funzione di scardinamento delle forze che governavano all'epoca, dopo di che negli anni successivi ha riflettuto sul disastro compiuto. Fu una delle punte di diamante di quello che io considero un colpo di Stato, il sovvertimento di un organo dello Stato da parte di un altro. Comunque pace all'anima sua, la guerra è finita". E ancora un figlio, Stefano, il cui padre Gabriele Cagliari si suicidò a San Vittore nel 1993 accusato di aver autorizzato tangenti per Eni, commenta: "Quando una persona manca è sempre un dispiacere. Personalmente non ho niente contro Borrelli, anche se ritengo abbia fatto molti danni a questo Paese. Non ho altro da aggiungere". Ed è un ricordo in chiaroscuro anche quello di Luigi Bisignani, già protagonista dell'inchiesta Enimont: "Borrelli rappresentava il volto nobile di Mani Pulite, ma 'Resistere, resistere, resistere' è stato però uno slogan che alla magistratura non ha fatto onore".
E’ morto Borrelli. Assieme ai misteri di Mani Pulite (e quel soccorso al Pci-Pds…). Andrea Giorni, sabato 20 luglio 2019 su Il Secolo d'Italia. Francesco Saverio Borrelli è morto oggi a Milano, dopo una lunga malattia, all’età di 89 anni. L’ex magistrato ha guidato il pool di Mani Pulite, l’inchiesta giudiziaria che ha segnato la fine della Prima Repubblica. Entrato in magistratura nel luglio 1955, ha legato la sua carriera a Milano dove, salvo un anno a Bergamo, ha svolto ogni tipo di funzione: pretore, giudice fallimentare e poi civile, pubblico ministero, procuratore capo dal 1988 fino alla nomina di procuratore generale nel 1999.
Quell’ambiguo resistere, resistere, resistere. Sposato con Maria Laura e padre di due figli, il primogenito Andrea è giudice civile a Milano. Tra i suoi interventi a difesa dell’indipendenza della magistratura resta celebre la frase pronunciata nel 2002, a pochi mesi dalla pensione: “Resistere, resistere, resistere come su una irrinunciabile linea del Piave”. Ovviamente, resta ancora controverso l’operato di quel pool di magistrati che Borrelli capitanò, a partire da Tonino Di Pietro. E proprio quel suo “resistere resistere resistere”, che pure sembrò affascinare molti, alla luce dei fatti apparve come uno slogan. In realtà gli unici a “resistere” furono gli uomini del Pci-Pds, salvati dall’inchiesta Mani pulite, nonostante evidenti compromissioni nella gestione del potere locali.
Le parole di Stefania Craxi. Comunque, potremmo dire a sorpresa, rende onore a Borrelli Stefania Craxi, figlia di Bettino, che da quei magistrati fu colpito duramente: almeno “Borrelli scelse con coerenza di vestire solo e sempre la toga e nei recenti anni, se pur sempre con reticenza ed omissioni, ebbe ad avanzare alcune riflessioni amare sugli effetti prodotti dalle inchieste di ‘Mani pulite'”. Con stile, la Craxi ha voluto così dire quel che molti pensano su troppi magistrati che hanno abbracciato la militanza politica e parlamentare. Mostrando così quanto volatile possa essere il principio dell’indipendenza. Anche per questo restano i dubbi sul misterioso soccorso rosso agli uomini che allora stazionavano a Botteghe Oscure.
Si è spento Francesco Saverio Borrelli, storico capo del pool "Mani Pulite". Il Corriere del Giorno il 20 Luglio 2019. Ex capo del “pool Mani Pulite” ai tempi in cui era Procuratore della Repubblica ed ex procuratore generale di Milano, protagonista di una capitolo della storia d’Italia. Dopo la sua carriera da magistrato, Borrelli aveva vissuto una nuova “stagione” professionale come capo dell’ufficio indagini della Figc, nel 2006, nominato dal commissario straordinario Guido Rossi dopo lo scandalo sul mondo del calcio. La camera ardente si aprirà lunedì mattina alle 9.30 nel Tribunale di Milano, nell’atrio di fronte all’Aula Magna”. E’ morto all’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano dove era ricoverato da un circa un paio di settimane, dopo aver indossato per 47 anni la toga Francesco Saverio Borrelli, 89 anni ex capo del “pool Mani Pulite” ai tempi in cui era Procuratore della Repubblica ed ex procuratore generale di Milano, protagonista di una capitolo della storia d’Italia. Francesco Saverio Borrelli era nato a Napoli il 12 aprile 1930 ed è morto . Lascia la moglie Maria Laura, i figli Andrea e Federica e quattro nipoti. Figlio e nipote di magistrati e a sua volta con un figlio magistrato, Borrelli, trasferitosi a Firenze, ha studiato al conservatorio (la musica, insieme alla montagna, è stata una delle sue passioni) e si è laureato in legge con una tesi su “Sentimento e sentenza“. Relatore fu Piero Calamandrei. Vinto il concorso nel 1955, Borrelli è entrato in magistratura come giudice civile a Milano, nel palazzo dove il padre era la più alta carica. Passato dal civile al penale, ha presieduto sezioni di tribunale e di Corte d’Assise, giudicando anche le Br. Negli anni Sessanta è stato tra i fondatori della corrente di Magistratura Democratica. Il 17 marzo 1988 Borrelli è succeduto a Mauro Gresti alla guida della Procura della Repubblica di Milano , dove dal 1983 era stato procuratore aggiunto. E’ diventato noto con “Mani Pulite“, la maxi-inchiesta che ha coordinato con il vice Gerardo D’Ambrosio, collega ed amico scomparso il 30 marzo 2014 e con il quale, peraltro, si è talvolta trovato in disaccordo sui temi di politica giudiziaria. Dal 1999 al 2002 come Procuratore Generale ha difeso con fermezza il principio costituzionale della indipendenza della magistratura. La camera ardente si aprirà lunedì mattina alle 9.30 nel Tribunale di Milano, nell’atrio di fronte all’Aula Magna”, come ha reso noto il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso. “Un grande capo che ha saputo anche proteggerci, un grande magistrato che ha fatto la storia di questo Paese“. Sono state queste le prime parole di Francesco Greco, capo della Procura di Milano e che faceva parte del pool ‘mani pulite’. “Con la sua guida autorevole ha fondato lo spirito moderno dell’ufficio nell’intransigente rispetto dei valori di indipendenza e legalità. Il suo esempio ispira quotidianamente il nostro lavoro. Nei nostri cuori vive con orgoglio la sapienza di un uomo speciale“. Con queste parole contenute in un comunicato la Procura di Milano “piange” Borrelli. “Scompare un baluardo resistente a difesa e a tutela dell’indipendenza della magistratura”. Così il procuratore generale di Milano Roberto Alfonso. In Procura generale, ha detto, il ricordo di lui è “vividissimo“, “era sempre presente ad ogni ricorrenza” nel Tribunale milanese. Il pg Alfonso, dal punto di vista personale, ricorda soprattutto la sua “cordialità e cortesia”. Dopo la sua carriera da magistrato, Borrelli aveva vissuto una nuova “stagione” professionale come capo dell’ufficio indagini della Figc, nel 2006, nominato dal commissario straordinario Guido Rossi dopo lo scandalo sul mondo del calcio. Ma accanto all’amore per la legge, Borrelli ha sempre coltivato quello per la lirica: presenza fissa alla Scala di Milano, nel 2007 era stato nominato presidente del Conservatorio di Milano. Le critiche di Bobo Craxi: “guidò un colpo di Stato” – “Ebbe la funzione di guidare un sovvertimento istituzionale da parte di un corpo dello Stato nei confronti di un altro. Non è una mia opinione personale, i giuristi lo chiamano colpo di Stato“. Così Bobo Craxi, figlio di Bettino, l’ex premier socialista morto nel 2000. Bobo Craxi contattato dall’ANSA, ha proseguito “Borrelli, è stato protagonista della storia di questo Paese e ha saputo negli ultimi anni esprimere un secco revisionismo su quell’azione che ebbe risvolti politici a tutti noti. Seppe fare un’analisi obiettiva“. Bobo Craxi tornando agli anni di Mani Pulite, ha affermato che quei magistrati “svolsero un’azione politica che loro stessi consideravano rivoluzionaria e i presupposti rivoluzionari non hanno il problema di dover applicare i manuali”.
Borrelli, il tributo dei suoi sostituti: «Tu un capo vero, il nostro». Pubblicato sabato, 20 luglio 2019 da Luigi Ferrarella su Corriere.it. Era il nostro Capo. Non che facesse qualcosa per mostrarsi tale, perché quando si annunciava diceva solo «sono Borrelli», senza anteporre titoli o onori, di cui non aveva bisogno. La sua porta era aperta a tutti, dai procuratori aggiunti, ai giovani sostituti appena arrivati, ma anche a segretari e cancellieri, a poliziotti e carabinieri, a finanzieri e vigili. E ovviamente agli avvocati e persino alle gente «comune». Perché il «vero capo» non ha bisogno di apparire. Lo è. E lui lo era. Quando entravi nel suo ufficio con un problema, ne uscivi con una soluzione. E quando magari dopo mesi e mesi tornavi sull’argomento, si ricordava tutto, come se alla Procura di Milano ci fossero solo tu, lui e un paio di altri colleghi. Quando avevi sbagliato qualcosa, te ne parlava con quel modo garbato per cui alla fine eri tu stesso a riconoscere l’errore. Salvo poi, davanti al mondo, metterci lui la faccia. La solitudine del magistrato, una condizione frequente e per certi versi fisiologica, con lui era uno stato transitorio. Bastava parlargli del problema, riferirgli gli attacchi ricevuti e le critiche da cui si veniva subissati ed ecco pronta la risposta: “la Procura ha fatto, la Procura ha detto; firmato Francesco Saverio Borrelli”. Appartenere alla Procura di Milano era come stare in una grande orchestra, ognuno col suo strumento, diverso dagli altri, ma ugualmente essenziale. E con un direttore che ti faceva sentire utile, anche se non eri il primo violino. Del resto il Capo la musica la conosceva bene, sia quella che si suonava alla Scala, sia a Palazzo di Giustizia. Ciao Saverio, i tuoi sostituti non ti dimenticheranno mai.
Dall’archivio Gli esordi: «Mi occupai di supposte e dei vestiti di Mike Bongiorno». Pubblicato sabato, 20 luglio 2019 da Corriere.it. Di seguito l’intervista a Francesco Saverio Borrelli pubblicata su «Sette» l’11 aprile 2002, alla vigilia della pensione. L’argomento della sua prima sentenza? Supposte. Il suo primo convenuto eccellente? Mike Bongiorno. La prima volta che finì su un giornale? «In terza elementare, a Firenze, quando la mia maestra fu intervistata da La Nazione per un’inchiesta sulla scuola e indicò in me l’alunno che di solito, in sua assenza, era incaricato di segnare sulla lavagna i buoni e i cattivi...». Casomai servisse, ecco, questa forse è la prova che qualcuno effettivamente ci nasce, per fare il giudice. Francesco Saverio Borrelli, maestra a parte, ce l’aveva nel Dna: magistrato suo nonno, classe 1844, da cui ebbe in eredità il nome; magistrato suo padre Manlio, che chiuse la carriera nel ’59 come presidente della Corte d’Appello di Milano; e magistrato lui, che il 12 aprile 2002, allo scoccare del suo settantaduesimo compleanno, va in pensione con la carica di procuratore generale, in quella che è stata la roccaforte di Mani Pulite. Il pianoforte, la montagna, chi è stato il «magistrato semplice» Borrelli prima di diventare il «generale» Borrelli? «Guardi, non è proprio il caso, non mi ricordo neppure...». Bisogna insistere: andiamo, possibile che non ricordi il suo primo processo, o il perché ha fatto una scelta anziché un’altra, o cosa sono stati gli anni di piombo... Borrelli appoggia i gomiti sulla scrivania, si sfila gli occhiali, chiude gli occhi: non è vero che non ricorda. «Intanto, io non nasco affatto come pubblico accusatore. Ero sempre stato un giudice. Sono entrato in magistratura nel ’55, dopo aver fatto i miei studi a Firenze».
Da uno a dieci, quanto secchione?
«In terza liceo ho rischiato la maturità per un sette in condotta al secondo trimestre».
Cosa aveva fatto per meritarselo?
«Ero stato tra i sobillatori di uno sciopero e avevo buttato un topo morto in una classe femminile».
In tribunale come ha iniziato?
«Come uditore alla prima sezione civile del tribunale di Milano, con il giudice Vittorio Morfina».
Di che si occupava?
Diritto industriale, tributario, concorrenza sleale, cose così».
Un po’ noioso, rispetto a Previti...
«Per niente. Pensi che, come dicevo, la prima sentenza che ho scritto in assoluto riguardava una faccenda di supposte: un contenzioso sul brevetto delle confezioni. Che da allora in poi, comunque, sono sempre rimaste identiche».
Mi dica la prima sentenza seria.
«Una che ricordo fu in pretura, il mio primo incarico a Milano dopo una parentesi iniziale a Bergamo: fu quando condannai il ministero di Grazia e Giustizia a restituire a un tizio una somma ingiustamente sequestratagli».
Fu in pretura che incontrò Mike?
«Sì, fu in pretura. Ma non lo conobbi di persona, perché non venne in aula. Lo conobbi “processualmente”. Lo aveva denunciato un sarto».
Cioè?
«Era un sarto che aveva confezionato un vestito a Mike Bongiorno prendendogli le misure a occhio, guardandolo in tv. Poi glielo aveva spedito in regalo, aspettandosi un ritorno pubblicitario che invece non arrivò. Alla fine lo citò in giudizio».
E lei?
«L’ho assolto: il vestito si era perso chissà dove, a Mike non era mai arrivato».
Intanto arriviamo al ’61...
«E il primo gennaio mi spostai alla sezione fallimenti: una delle esperienze più formative della mia vita».
I fallimenti?
«Non rida. Per un giudice occuparsi di diritto fallimentare con tutto quel che ne segue — decisioni da prendere, curatori da nominare, sorti di intere aziende e di lavoratori da gestire — è una delle poche occasioni per toccare di persona i drammi vissuti dai suoi interlocutori. Per mettersi nei loro panni. Certe immagini non le scorderò mai: l’operaio della Guzzi che decorava a mano i serbatoi delle moto, i soci di una coop che doveva costruire gli appartamenti per i dipendenti dell’Alfa Romeo e che invece fallì lasciando tutti in mutande. Ecco, risolvere quelle situazioni ti faceva sentire utile».
Ma al penale non ci arriva mai?
«Ce ne manca. Dopo i fallimenti sono tornato alla prima sezione civile del tribunale, quella dove avevo iniziato. Mi ci trasferì il nuovo presidente, Luigi Bianchi d’Espinosa, che aveva lavorato con mio padre a Firenze e mi conosceva da quando ero piccolo».
Oggi ci vorrebbe un bando, un concorso...
«È vero, ma allora funzionava così: fatta salva l’indipendenza di ogni giudice sulle sentenze, l’organizzazione del lavoro veniva gestita dai capi degli uffici con grande autonomia. Il concorso l’ho fatto più avanti, per andare in Corte d’Appello...». Perché scuote la testa?
«Fu una mezza delusione: avevo 39 anni, io ero fatto per il contatto con la gente, in appello invece mi ritrovavo a lavorare solo su montagne di carta. Eppure da quell’errore è arrivata la svolta della mia vita».
Perché?
«Perché, quando chiesi di tornare in tribunale, l’unico posto disponibile era in una sezione penale. L’ottava, per la precisione. Era il ’74. Da un giorno all’altro, ho dovuto imparare un mestiere nuovo».
Sempre come giudice, però.
«Come giudice, certo. Ed è una cosa che molti anni dopo, una volta passato in procura, ho benedetto un milione di volte. Perché il pm, con tutta la buona fede del mondo, alla fine lavora per andare in aula a sostenere una tesi. Il giudice invece impara a mantenere, sempre, la cultura del dubbio. Ed è una buona cosa, se la si conserva anche da pm: forse dovrebbero pensarci un po’, quelli che vogliono separare le carriere».
Torniamo agli anni ’70, lei era giudice penale: cosa ha vissuto del terrorismo?
«Ricordo il clima, i morti, la paura. Ma anche l’orgoglio di appartenere a una categoria. Ricordo, nel ’78, l’arresto di Corrado Alunni nel covo di via Negroli. Era settembre, io mi ero appena rotto una gamba, ma il processo toccava alla mia sezione: sono andato a farlo col gesso e le stampelle, e fu la prima condanna inflitta a Prima Linea».
Qual è, nel suo ricordo, il giorno più brutto?
«Il 19 marzo 1980, quando fu ucciso il collega Guido Galli. Era un amico, ci incrociavamo sempre in via Castel Morrone, io in bicicletta che venivo in tribunale, lui alla fermata che aspettava il bus. Io presiedevo la terza Corte d’Assise, quel giorno ero in camera di consiglio con la giuria popolare per un processo su una rapina con omicidio. A un certo punto è entrato un inserviente: “Hanno sparato a Guido Galli”. Siamo tornati in aula, abbiamo letto la nostra sentenza non so neppure come, e assieme al collega Francesco D’Andrea ci fiondammo all’università».
Come avvenne la sua trasformazione finale, da giudice in pubblico accusatore?
«Per caso. L’allora procuratore aggiunto di Milano, Bruno Siclari, fu il primo a propormelo: “Perché non vieni in procura?”. Poco dopo me lo chiese anche il procuratore capo Mauro Gresti. Insomma alla fine ho fatto la domanda e sono andato. Era l’inizio dell’83».
Dottor Borrelli, per la sua esperienza di quasi mezzo secolo in toga: i rapporti tra magistratura e politica, tra magistratura e società, sono mai stati tesi come negli ultimi anni?
«Il massimo della solidarietà, come categoria, lo abbiamo avuto negli anni del terrorismo. Per il resto, alti e bassi ci sono sempre stati: penso al referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, o ai decenni passati, quando politica e magistratura “litigavano” magari meno, ma certe inchieste erano quasi impensabili. Oggi lo scollamento ha due cause: da una parte l’insofferenza di una parte della politica, ma dall’altra anche il deficit oggettivo dei servizi offerti dalla magistratura: processi infiniti, anni per recuperare un credito...».
Pessimista?
«Tutt’altro. Lo spazio che i media dedicano oggi ai problemi della giustizia non era neppure immaginabile venti anni fa, e questo è già un buon segno di per sé».
Dispiaceri?
«Uno, soprattutto. Il deterioramento progressivo che ho visto instaurarsi, negli ultimi anni, nei rapporti tra magistratura e una parte dell’avvocatura. Il mio maestro, Piero Calamandrei, diceva che avvocato e magistrato sono parti complementari di un unico interesse, la giustizia. Oggi, sempre più spesso, sono diventati avversari e basta. Senza esclusione di colpi. E questo non fa bene a nessuno».
CHI ERA BORRELLI? Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 21 luglio 2019. Se l'idea di Giustizia avesse un volto, avrebbe il suo. Se il precetto costituzionale "Tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge" avesse un nome, avrebbe il suo. Francesco Saverio Borrelli è stato il più grande magistrato che abbia avuto in dono l' Italia, almeno fra quelli che hanno goduto del privilegio di morire nel loro letto. Diceva Brecht: "Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi". Ma nessun popolo può fare a meno dei simboli e degli esempi, e lui era entrambe le cose. Nel 1992-'93, mentre l' Italia crollava bombardata dalle stragi e corrosa dal cancro della corruzione, la gente perbene si aggrappò alla sua toga e a quelle del suo pool Mani Pulite: D' Ambrosio, Di Pietro, Colombo, Davigo, Greco. Si ebbe, in quella breve parentesi, la sensazione che la legge fosse davvero uguale per tutti. E l' illusione che gli italiani onesti fossero maggioranza. Durò poco, è vero, infatti subito dopo arrivò B., che inquinò tutto, anche la sinistra, anche la magistratura (con un Borrelli sulla breccia, uno scandalo come quello del Csm sarebbe stato impensabile: per ragioni estetiche ancor prima che etiche). Ma - ripeteva Borrelli - "il seme è stato gettato" e qualche frutto s'è visto. Era un uomo timido, nel privato. Ma, quando indossava la toga, diventava coraggioso. Sapeva di essere protetto dalla Costituzione, dalla corazza dell'obbligatorietà dell' azione penale e dell' indipendenza da ogni altro potere. Difendeva sempre i suoi uomini. Non guardava in faccia nessuno. E si lasciava scivolare pressioni, aggressioni e blandizie come acqua piovana sulla toga impermeabile. Gli attacchi di ogni colore, gli insulti, le calunnie, le ispezioni ministeriali, i procedimenti disciplinari al Csm, le indagini penali a Brescia che ha subìto non si contano. Spioni d' angiporto e pennivendoli di fogna hanno perso anni a cercargli uno scheletro nell' armadio per sputtanarlo, un tallone di Achille per ricattarlo: invano. E allora han cominciato a inventare. I politici di destra e sinistra lo detestavano proprio perché era inattaccabile e i loro elettori credevano a lui, non a loro. Anche grazie al suo humour snob e tagliente. Proprio 25 anni fa, il 14 luglio 1994, il governo B. partorì il decreto Biondi, che vietava il carcere per i reati di Tangentopoli, ma non per quelli di strada. Lui sibilò dalle labbra affilate come una lama: "È singolare che, nell' anniversario della presa della Bastiglia, si aprano questi squarci nei muri di San Vittore e del carcere di Opera. Il governo, invece di predisporre misure idonee a impedire la perpetuazione di un sistema di corruzione, dimostra la preoccupazione opposta". E concluse: "Evidentemente considera la magistratura troppo efficiente". Mesi dopo, mentre il cerchio si stringeva sul Berlusconi giusto, il suo ministro della Giustizia ad personam Alfredo Biondi sbroccò con una battutaccia contro l' intera magistratura inquirente: "Un grande avvocato mi diceva sempre: 'Studia figliolo, o diventerai un pubblico ministero'". Borrelli lo fulminò con un' allusione al suo tasso alcolico: "Il ministro Biondi, a un' ora pericolosamente tarda del pomeriggio, s' è concesso una battuta impertinente e di cattivo gusto, che i magistrati non si attenderebbero certo dal loro ministro". Quando poi, nel 2001, in via Arenula arrivò il leghista Roberto Castelli, ingegnere acustico specializzato in abbattimento di rumori autostradali e in leggi ad personam, prese a chiamarlo "l' ingegner ministro". Ogni tanto dissentiva dai suoi pm, ma lo diceva loro a quattr' occhi. Come quando non condivise il comunicato del Pool contro il decreto Biondi, letto in conferenza stampa da Di Pietro. Quando, a fine anni 80, si schierò con Armando Spataro nello scontro furibondo con Ilda Boccassini sulla gestione delle indagini sulla mafia a Milano e inviò al Csm un parere poco lusinghiero su di lei, che emigrò in Sicilia, per poi tornare a Milano nel '95 e diventare la sua beniamina. Quando intimò all' ormai ex pm Di Pietro di smentire B. che in tv gli aveva attribuito una dissociazione dall' invito a comparire per le tangenti alla Finanza: "se no la prossima volta ti faccio volare giù dalle scale a calci". Quando fece una lavata di capo al giovane Paolo Ielo, che in aula aveva definito Craxi "criminale matricolato" per le intercettazioni che provavano i dossieraggi contro il pool da Hammamet: "Hai fatto malissimo a usare quelle parole. Potevi dire le stesse cose con più stile". Ecco: lo stile. Borrelli, napoletano, classe 1930, figlio e nipote di magistrati, in toga dal 1955, di stile ne aveva da vendere. Lo dimostrò nel 2002, quando uscì di scena il giorno del pensionamento. Anzi, del prepensionamento, perché per levarsi dai piedi lui e il suo coetaneo D' Ambrosio, B. varò una legge apposita che portava l' età pensionabile dei magistrati da 75 a 72 anni. Borrelli chiuse in bellezza il 12 gennaio, con la toga rossa e l' ermellino di Pg, inaugurando l' anno giudiziario col celebre appello a "resistere, resistere, resistere" allo "sgretolamento della volontà generale e al naufragio della coscienza civica nella perdita del senso del diritto". Parola d' ordine che fu subito raccolta dai Girotondi. Lui però aveva già lasciato il proscenio, evitando quel reducismo patetico che guasta anche la memoria dei migliori. Faceva il nonno, suonava il piano, andava in bici, leggeva. Niente interviste, libri di memorie, consulenze, incarichi a gettone (a parte quello, a tempo, di capo dell' Ufficio indagini della Federcalcio commissariata per Calciopoli, e la presidenza del Conservatorio). In un Paese serio l' avrebbero promosso senatore a vita e proposto alla Presidenza della Repubblica (poltrone che probabilmente avrebbe rifiutato). Quindi, non in Italia. Grazie di tutto, dottor Borrelli.
Ilda Boccassini, "il grande errore di Borrelli". Edmondo Bruti Liberati svela: alta tensione in Procura. Libero Quotidiano il 21 Luglio 2019. Non tutti lo sanno, ma Ilda Boccassini è stato uno dei grandi errori di Francesco Saverio Borrelli, lo storico ex procuratore capo di Milano che guidò il Pool di Mani Pulite durante l'inchiesta su Tangentopoli e che è morto sabato a 89 anni. Sui quotidiani si sprecano i ricordi commossi dei colleghi ed è il suo successore Edmondo Bruti Liberati, sul Corriere della Sera, a ricordare uno dei momenti più duri per Borrelli, una scelta che lo ha fatto mettere in discussione in Procura. "Io e altri colleghi gli facemmo notare che, tra il 1989 e il 1990, non sostenne abbastanza Ilda Boccassini nell'inchiesta Duomo connection - spiega Bruti Liberati -. Lui lo riconobbe e infatti quando lei tornò a Milano, la accolse per primo e le affidò un ruolo importantissimo".
Luigi Ferrarella per il “Corriere della sera” il 21 luglio 2019. «Identificatelo!», ordinò a un carabiniere in Procura il giovane e arrembante pm, indispettito perché l'operaio per tre volte timidamente gli spiegava di non poter spostare una spina all'altra parete senza l'ok del datore di lavoro. L'indomani quel pm si sentì convocare da Francesco Saverio Borrelli: «Ora chiedigli scusa». Questo stampo, lo stesso che da giudice nel 1978 lo spinse in Tribunale con la gamba fratturata appena ingessata pur di non far saltare un processo ai terroristi rossi di Prima Linea, era frutto dello strano mix di un napoletano teutonico, secondo l'arguta definizione data di lui dal maestro Riccardo Muti a Marcella Andreoli nel 1998: napoletano per nascita (12 aprile 1930) ma fiorentino per studi, milanese per lavoro, tedesco e anzi wagneriano per folgorazione giovanile negli anni della sognata carriera pianistica, francese per lingua familiar-borghese durante l'infanzia in una famiglia di quattro generazioni di magistrati: che, dall'ottocentesco suo omonimo procuratore del Re nelle Puglie, scendono giù per i rami del padre Manlio, fino al 1959 presidente della Corte d'appello milanese e amico di Montanelli, e arrivano (passando appunto per Francesco Saverio) al figlio Andrea, giudice civile in Tribunale a Milano. Curioso destino essere sempre associato alla più grande inchiesta penale di sempre, e agli anni da procuratore (1988-1999) e procuratore generale (fino al 2002), quando in realtà aveva la forma mentale del civilista e si sentiva molto più giudice: un giudice marchiato - nella costante inclinazione a soppesare nel dubbio le ragioni altrui - dal trauma di dover decidere la prima condanna di un rapinatore a 10 anni di carcere in una sentenza «che non riuscivo a leggere, l' idea mi terrorizzava intimamente». Decisivo nel cogliere nel 1992 la necessità di affiancare all' energia di Antonio Di Pietro due colleghi (Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo) dalle caratteristiche complementari, lo è poi via via nel far loro da scudo agli attacchi provenienti prima da Craxi e poi da Berlusconi. Anche per questo, quando apprende che Di Pietro - dimessosi a sorpresa il 6 dicembre 1994 dopo l'invito a comparire a Berlusconi del 21 novembre ma prima dell' interrogatorio il 13 dicembre - non solo aveva taciuto al pool di essere sotto scacco di Previti per un prestito dall'assicuratore Gorrini, ma aveva poi anche lasciato intendere ai vari politici che lo corteggiavano di essere stato quasi costretto dai colleghi a indagare Berlusconi, Borrelli gliene chiede conto. Prima in una burrascosa telefonata («non venire più in Procura perché ti faccio buttar giù dalle scale se non fai immediatamente il tuo dovere» di smentire), e in seguito nel 1996 testimoniando in Tribunale a Brescia sulla «defezione» di Di Pietro a dispetto dell' assicurazione ai colleghi «poi in aula ci vado io e quello lo sfascio». Combattuto durante Mani Pulite tra la convinzione che «noi magistrati dobbiamo evitare che alle nostre iniziative vengano attribuite valenze che non devono avere», e però la pari persuasione che «la gente deve sapere che c' è un coefficiente di successo nella nostra attività legata al consenso», negli ultimi anni la sua vena malinconica aveva preso il sopravvento. Non tanto per il timore nel 2011 di «dover chiedere scusa per Mani Pulite» nel dubbio che «non fosse valsa la pena di buttare all' aria il mondo per cascare poi in quello attuale», quanto per una più radicale rivisitazione del senso dell' agire giudiziario. Come se lo scavasse il tremendo paradosso di suo padre: «Un giudice dovrebbe, impegnandovi l' intera sua esistenza, studiare una causa sola. E, dopo 30 anni, concluderla con una dichiarazione di incompetenza».
La figlia di Borrelli: «In casa per tutti noi era “Severio”. Soffrì per i suicidi in carcere». Pubblicato domenica, 21 luglio 2019 da Giuseppe Guastella su Corriere.it. I l sole caldo che filtra dalle finestre nel corridoio riscalda l’aria gelida dei condizionatori, mentre un viavai di magistrati, personalità e amici rende omaggio alla salma di Francesco Saverio Borrelli nella camera mortuaria dell’Istituto dei tumori di Milano. Quando scompare una persona cara, è dolce abbandonarsi ai ricordi di una vita, come fa Federica Borrelli, figlia di colui che fu il capo di Mani pulite.
Qual è il primo ricordo che ha di suo padre?
«Avevo due anni e mezzo quando mi mandarono all’asilo. Mamma (Maria Laura, professoressa d’inglese, ndr) e papà lavoravano, per me fu un trauma. Ricordo l’uscita da casa al mattino con papà che mi metteva sulla canna della bicicletta e mi consegnava a una maestra. Mi sentivo un po’ tradita».
Che padre è stato?
«Un grandissimo, dolcissimo educatore. Quando io e Andrea (il figlio maggiore, anche lui magistrato, ndr), eravamo piccoli era rigoroso, ma mentre crescevamo ci educava con consigli e chiacchierate in cui suggeriva il comportamento migliore».
Severo?
«Lo chiamavamo Francesco “Severio”. Voleva che fossimo severi con noi stessi. Dovevamo sempre chiederci: “Sei sicuro di aver fatto tutto il possibile?”».
Era anche allegro?
«Sono stati tantissimi gli scherzi in casa».
Parlava del lavoro?
«Certo, come quando era giudice d’Assise nei processi alle Brigate Rosse negli anni di piombo. Temevo che lo uccidessero, anche perché non lo proteggevano. Lui sdrammatizzava sempre».
Il periodo più duro?
«Mani pulite, per ciò che dicevano i politici sui giornali. Si è rischiata la vera solitudine del magistrato».
Ci soffriva?
«Ha sofferto enormemente per i suicidi. Aveva la consapevolezza che, facendo il proprio dovere, si rischiava di rovinare le vite degli altri».
Eppure c’erano i fax e le fiaccolate di solidarietà.
«Una volta, tornando a casa, ci disse: “Adesso applaudono, vedrete che fra poco saremo additati come quelli che hanno rovinato il Paese”. Ricordo che quando in una ricorrenza in Duomo si alzò per salutare il Cardinal Martini, molti si misero ad applaudire. Martini gli disse: “Dottore questo è per lei, vada avanti così”. Si stupì».
Il suo più grande dolore?
«L’omicidio di Guido Galli e la mancata conferma alla presidenza del Conservatorio di Milano. Amava la musica, quello era il suo mondo dopo la pensione e il veto di un partito e il fatto che l’allora ministro Gelmini non gli avesse neppure telefonato, tanto che lo aveva saputo dai giornali, lo colpirono. Eppure in un’occasione in cui il ministro era stata in visita al Conservatorio, l’aveva, diciamo così, salvata durante una contestazione di studenti facendola uscire da una porta laterale. Si offese profondamente».
C’era chi voleva entrasse in politica.
«Non ci pensava proprio, perché il magistrato è magistrato fino alla morte. Però non ha ricevuto grandi proposte. Come diceva lui: “A una signora perbene non si fanno proposte sconce”».
C’è stato un momento in cui si diceva potesse essere eletto Presidente della Repubblica.
«Si diceva... Forse c’è stato un momento in cui per molti mio padre rappresentava una sicurezza di legalità, di equilibrio e di integrità. Lui era a disposizione della Repubblica, ma nei limiti delle sue funzioni di magistrato».
Il famoso «resistere, resistere, resistere» fu il suo testamento civile?
«Credo proprio di sì».
Amava la natura, lo si è visto fino ad oltre gli 80 anni sciare sulle piste di Courmayeur.
«Amava le montagne. Ha detto due o tre volte che avrebbe voluto essere sepolto a Courmayeur dove i miei genitori hanno una casa. Lo disse anche al sindaco anni fa quando fu fatto cittadino onorario del paese. Chissà se sarà possibile...».
Se potesse commentare quello che sta accadendo intorno a lui, cosa direbbe?
«Riderebbe come un matto e, in napoletano, direbbe: “Cose ’e pazzi”».
Massimo Malpica per “il Giornale” il 21 luglio 2019. Un coro quasi unanime di elogi con l'unica eccezione, garbata, dei figli di Bettino Craxi, Bobo e Stefania. La morte di Francesco Saverio Borrelli, già capo del pool di Mani Pulite, arriva nel giorno in cui si uccise in carcere Gabriele Cagliari, ventisei anni dopo, dopo mesi di carcerazione preventiva e una dozzina di interrogatori. Ma il kaiser di Mani Pulite, uno con la toga nel sangue, quando quella stagione di manette tintinnanti è ormai lontana se ne va circondato da un rispetto che sfiora la santificazione. Persino Tiziana Parenti, che lasciò il pool perché si disse ostacolata nelle sue indagini sul Pci-Pds, lo ricorda con affetto. «Mi dispiace che sia morto. Al di là dei dissensi che ci possono essere stati, indubbiamente Borrelli è stato un ottimo magistrato». Per Titti «la rossa», anche la scelta di non andare a fondo nelle indagini sulle tangenti rosse fu «fatta più da D' Ambrosio che da Borrelli». Se suonano scontati l'omaggio dell'Anm a una «figura esemplare di magistrato», il cordoglio di Marco Travaglio per la scomparsa del «più grande di tutti» o il saluto di Francesco Greco, già nel pool e ora procuratore capo di Milano, colpisce la trasversalità del cordoglio delle istituzioni. Mattarella saluta il «magistrato di altissimo valore» che «ha servito con fedeltà la Repubblica», ma anche il presidente del Senato Elisabetta Casellati ricorda di Borrelli gli «incarichi di grande prestigio ed estrema delicatezza». Si allineano pure la terza carica dello Stato, Roberto Fico, che piange un uomo che ha «scritto una parte importante della storia del Paese», il vicepremier Luigi Di Maio «Il suo esempio, i suoi valori di indipendenza e legalità, siano guida per il lavoro di ognuno di noi» - e il Guardasigilli Alfonso Bonafede («Lascia un' eredità importantissima soprattutto in tema di indipendente e determinata lotta alla corruzione»). Stessi toni per il governatore lombardo del Carroccio Attilio Fontana, addolorato per l' addio a un «protagonista di una stagione che ha segnato la storia recente del Paese» e «attento al mondo del sociale», come per il segretario Pd e presidente della regione Lazio Nicola Zingaretti, che piange la perdita di un «grande magistrato e un uomo perbene». Una prima crepa nell' armonia del coro la apre l' ex direttore del Tg4 Emilio Fede, che ai «tanti meriti» affianca i «tanti interrogativi» su Tangentopoli. E in controtendenza è il ricordo di Bobo e Stefania Craxi. La seconda al «rispetto dovuto all' uomo» aggiunge l' etichetta di «protagonista di una stagione infausta», seppur «coerente». Bobo saluta una «persona sobria e garbata» che fu «una delle punte di diamante di quello che io considero un colpo di Stato», poi capace di un «netto ripensamento sull' efficacia di Mani Pulite».
Così Di Pietro "cannibalizzò" Borrelli e ora lo scorda. Vittorio Sgarbi, Lunedì 22/07/2019 su Il Giornale. «Mani pulite alla fine fu un disastro, non valeva la pena buttare all'aria il mondo precedente per cadere in quello attuale». È la sintesi delle mie note di ieri, critiche in un coro di consensi dopo la morte di Borrelli.
Un altro in controtendenza: Paolo Colonnello, Mattia Feltri, Filippo Facci? No. La frase lapidaria e riassuntiva è di Francesco Saverio Borrelli. Vane dunque le funeree litanie encomiastiche dei Travaglio, dei Michele Serra, dei Bruti Liberati. Mani pulite è stato un inutile fallimento e una sconfitta. Un disastro. Troppo tardi Borrelli capì l'errore. Il suo temperamento femminile aveva ceduto all'irruenza di un turgido sostituto. Ha scritto bene Mario Ajello, che quegli anni vide: «Borrelli, nelle interviste che quotidianamente rilasciava, citava sempre la consonanza sua e del suo ufficio con la società civile e con l'opinione pubblica. Un antipasto di quello che poi si sarebbe chiamato il populismo giudiziario?... Poi arriva la stagione della scorciatoia che Borrelli si trova a gestire grazie alla irruenza dipietresca. A poco a poco, capisce che il clima è cambiato e presta la sua mente politica al servizio dell'inchiesta e ne diventa lo stratega».
Vero? Vero. In quel momento decisivo agisce in lui il fascino plebeo e barbarico di Di Pietro che lo trascina e lo travolge. Ed egli non vuole, o non sa, resistere resistere resistere. Fino all'imperdonabile, e da lui direttamente gestita, dichiarazione di guerra, in una contrapposizione mortale, con l'avviso di garanzia a Napoli (via Corriere della Sera), nel 1994, al presidente Berlusconi. Una aggressione politica della magistratura a un governo (che cadrà), come non era mai accaduto prima. L'atto non era giudiziario, ma eminentemente politico, dettato anche da antipatia personale, conseguenza dell'inascoltato, e molto minaccioso, avviso (diretto, ad personam, non di principio generale), il 20 dicembre 1993: «Chi ha scheletri negli armadi è meglio che non si candidi». Ti sei candidato lo stesso? Adesso ne paghi le conseguenze (anche se il reato non c'era). Così, all'ombra di un irruente e maschio sostituto, nasce il Borrelli politico. Si rivela esplicitamente nel 1994, ed è ormai fuori controllo, quando dichiara: «Se avviene un cataclisma per cui resta in piedi solo il capo dello Stato e chiama a raccolta gli uomini della legge, in quel caso potremmo rispondere con un servizio di complemento». Loro erano la causa del cataclisma, loro erano pronti al servizio di complemento. Parole inequivocabili. Di Pietro si era impossessato di lui. E Borrelli era sottomesso. Il dottor Jekyll si era trasformato in mister Hyde. Alla fine il «complemento» lo hanno fatto, a scoppio ritardato, e con un plebiscito popolare, Di Maio e Salvini. Al danno si è aggiunta la beffa. Quando Borrelli si è risvegliato era troppo tardi. Ma ciò che oggi appare clamoroso, davanti al corpo morto di Borrelli è, nella eloquente lettera di encomio dei suoi sostituti, sull'house organ Corriere della Sera, l'assenza dell'uomo della sua vita, Antonio di Pietro, che lo portò fuori di strada e di senno. Come mai quello che lo ha rovinato, sostituto dei sostituti, non firma l'elogio funebre? Dove è finito l'inventore della «scorciatoia»? Dove si è perduto, dopo averlo perduto? In un'altra pagina del Corriere, Enzo Carra assolve il fragile Borrelli, travolto da una tempesta che non poteva dominare: «Mi mostrarono in ceppi, ma credo che lui non sapesse. Era un uomo molto perbene». E chissà se non lo fosse stato! Carra ha la sindrome di Stoccolma. Borrelli, posseduto, fattosi stratega, non poteva non sapere. Era stato, con Di Pietro, il giustiziere di Craxi; ora era l'antagonista di Berlusconi. La giustizia aveva lasciato lo spazio (e aperto la strada) alla politica. E Borrelli impedì a Di Pietro (via Previti, e con tutte le televisioni a disposizione, in particolare Mediaset, in favore del vento) di ascoltare le sirene di Berlusconi. Borrelli pensava di eliminarlo, come Craxi, per via giudiziaria, ormai strumento dichiarato di lotta politica. Di Pietro fu più onesto. Non accettando questa abberrante strumentalizzazione giudiziaria, abbandonò la toga umiliata da Borrelli, e fece un partito, il suo partito, lasciando gli altri sostituti, irretiti dal delirio autoritario di Borrelli, a credere di «sostituirsi» alla politica. Errore fatale. Di Pietro ha pagato più di tutti. E oggi tace, mentre tutti onorano il Borrelli pentito per quello che ha fatto. Ha abbattuto (e letteralmente lasciato morire, senza cure certe) Craxi, per aprire la strada a Grillo e Di Maio. È troppo! Meglio andarsene.
Il regista di Mani Pulite che portò le toghe al potere. Borrelli è morto ieri a 89 anni dopo una lunga malattia Cinico e severo, si considerava parte di un'aristocrazia. Luca Fazzo, Domenica 21/07/2019, su Il Giornale. Milano Fiat iustitia ne pereat mundus. Il giorno di primavera del 1955 in cui Francesco Saverio Borrelli, morto ieri a 89 anni di età, varcò l'ingresso del tribunale di Milano, la massima era già lì, scolpita nei marmi del palazzo piacentiniano. Sotto quella scritta Borrelli è stato il protagonista indiscusso della stagione che ha portato la magistratura italiana - potere un tempo gregario e quasi parassitario del potere politico - a impadronirsi della scena. Eppure, dentro di sé, a quella visione salvifica della giustizia Borrelli non credeva. Era un cinico, un razionale. E se in una massima avesse dovuto immedesimarsi sarebbe stata l'opposta, il Fiat isutita et pereat mundus di Ferdinando d'Asburgo e Immanuel Kant: la giustizia come valore assoluto, indifferente alle sue ripercussioni sulla vita dei mortali. Se ne va alle nove e mezza di ieri dopo una lunga malattia, in un letto del reparto di cure palliative dell'Istituto dei tumori. «Non ho il dono della fede», spiegava ai tempi in cui davanti alla sua Procura tremava tutta Italia: e solo sua moglie Maria Laura, i figli Federica e Andrea (lei manager, lui giudice) sanno se negli ultimi tempi si sia in qualche modo riavvicinato alla Chiesa. Di certo, quello che lo attende è un addio laico: la camera ardente di domani mattina nella sala maggiore del Palazzo di giustizia da cui regnò su una stagione irripetibile. Stessa location che cinque anni fa ospitò la camera ardente del suo successore, Gerardo D'Ambrosio: cui era legato più da contiguità operativa che da affetto o sintonia, ma che beneficiò a lungo della efficienza mai vista che Borrelli aveva portato nella Procura di Milano. Era un uomo di spirito e un giudice severo. Da Magistratura democratica era uscito già nel 1969, insieme a Beria d'Argentine, scandalizzato per un documento che sparava a zero sul giudice Vittorio Occorsio, colpevole di avere arrestato il direttore di Potere Operaio, Francesco Tolin. Era la fase della deriva movimentista delle giovani toghe entrate in magistratura sull'onda del '68. Culturalmente intollerabile per uno come Borrelli: magistrato, figlio di magistrato, intimamente convinto di fare parte di una aristocrazia. Mani Pulite fu lui: nell'efficienza, nell'accortezza nella composizione della squadra, nella spietatezza, come quando si oppose a D'Ambrosio, che voleva dare il salvacondotto a Bettino Craxi per venirsi a curare in Italia. In anni che ebbero risvolti crudi e a volte terribili, non lo si vide mai commuoversi. Si videro invece, e memorabili, i momenti di rabbia: eppure anche in quelli era visibile la lucidità quasi chirurgica con cui affossava l'avversario. Ne fecero le spese colleghi, ex colleghi e politici: primo tra tutti Alfredo Biondi, ministro della Giustizia nel primo governo Berlusconi, al quale Borrelli, inferocito per alcune sue dichiarazioni, diede - con un giro di parole assai esplicito - dell'ubriacone. Non era una vendetta: era un modo per delegittimarlo, per renderlo fragile e depotenziare, insieme a lui, i piani governativi in tema di giustizia. Solo una lettura rozza della fase che lo vide protagonista può liquidarlo come «toga rossa». Non aveva un progetto politico, a meno che questo non si intendesse la supremazia della magistratura - assoluta e indiscussa - sugli altri poteri dello Stato. Questo sì, era il suo progetto. Et pereat mundus.
"Resistere resistere resistere". E la battaglia diventò una resa. L'appello del 2002 arrivò dopo anni in cui viveva la guida del pool come una guerra. In realtà fu un grido da disperato. Luca Fazzo, Domenica 21/07/2019 su Il Giornale. Per capire davvero la stagione che ieri si chiude definitivamente con la morte di Borrelli, bisogna riavvolgere il nastro di quasi trent'anni. Portarlo alla mattina del 18 febbraio 1992, nella caserma di via Moscova dei carabinieri milanesi. È il rapido briefing con cui viene ufficializzata la notizia che è già sui giornali, l'arresto di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio. «Al termine di una indagine durata oltre un anno....»: così esordisce l'ufficiale che parla ai cronisti. È una verità che sparirà in fretta. La versione ufficiale, ancora oggi valida, è quella di un arresto in flagrante, scattato grazie alle accuse, pochi giorni prima del bliz, di un fornitore del Trivulzio, Luca Magni. Le manette a Mario Chiesa, dice la versione ufficiale, arrivano quasi per caso: e altrettanto per caso innescano un terremoto. Poi c'è l'altra storia, quella su cui solo le incaute parole dell'ufficiale gettano un filo di luce: un'inchiesta non estemporanea, arrivata passo dopo passo a individuare in Chiesa l'anello debole di Tangentopoli, e a incastrarlo utilizzando Luca Magni come una sorta di esca. Non un complotto, si badi: solo una verità più complicata. Ma che rende meno inspiegabile quanto accade dopo: l'ingresso in scena di Di Pietro, le confessioni a raffica, il terremoto che investe il Paese. Comunque siano andate le cose, Borrelli ne fu il regista. Fu lui a benedire il rito ambrosiano delle manette inaugurato da Di Pietro, gli interrogatori in simultanea, gli arresti a confessioni ancora calde, che fu la vera ricetta del successo dell'inchiesta. Fu lui, dopo avergli lasciato briglia sciolta per un po', ad affiancare all'ex poliziotto molisano colleghi più rodati come Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, in grado di fornire spessore giuridico alla sua furia investigativa. Fu lui a indirizzare con mano ferrea l'inchiesta nei gradini successivi che si aprivano, di sviluppo in sviluppo. Diceva la verità, quando - con Montecitorio ormai decimato dagli avvisi di garanzia - giurava di non avere immaginato, nella primavera del 1992, dove l'indagine avrebbe portato il suo pool. Ma, quando capì quali orizzonti si stavano aprendo, fu lui a decidere che Mani Pulite non sarebbe stata l'ennesima puntata della serie (fino ad allora non lunga) di indagini giudiziarie sul Palazzo, un capitolo destinato a chiudersi in qualche modo con un armistizio. Quello era lo scontro finale, da cui solo uno dei contendenti sarebbe uscito in piedi: «Il problema non è di uscire da Tangentopoli, ma di penetrarvi fino al cuore per espugnarla, raderla al suolo, cospargervi il sale», disse. A volte dietro le quinte, a volte davanti ad esse: ma è sempre Borrelli a dettare tempi e contenuti della battaglia con il potere politico. Quando i suoi quattro pm (al terzetto si era aggiunto Francesco Greco, oggi suo erede) vanno davanti alle telecamere chiamando il Paese alla rivolta contro il «decreto salvaladri» del governo Berlusconi, Borrelli non c'è, è rimasto nel suo ufficio, dietro la porta chiusa. Ma hanno la sua benedizione. È lui, d'altronde, a considerare Berlusconi come il paladino della liquidazione totale della autonomia della magistratura italiana, l'avversario con cui nessuna mediazione è possibile. È Borrelli a firmare l'avviso di garanzia al Cavaliere del dicembre 1994, è lui a condurre l'interrogatorio. Borrelli sceglie di esporsi in prima persona, rompendo la tradizione che voleva i capi delle Procure un passo indietro: lo fa perché sa che solo così lo scontro può essere vinto. Poi le cose sono andate come si sa, e alla fine anche lui - dopo Colombo e Di Pietro - arrivò alla amara conclusione della inutilità di Mani Pulite: e in fondo il leggendario «resistere, resistere, resistere» del 2002 era più un grido di dolore che una chiamata alle armi. Aveva spazzato via una Repubblica, aprendo la strada ad una in cui faceva ancora più fatica a riconoscersi. Chissà se aveva dei rimpianti.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 20 luglio 2019. È morto un personaggio a suo modo straordinario, magnifico nella sua unicità e pur lontanissimo dai peana che gli dedicheranno le misere penne intinte nell' inchiostro di cancelleria. È l' unico che varrà davvero la pena la pena di ricordare nel pool zootecnico di "Mani pulite", anche perché neppure con tutta la fantasia delle fiction si sarebbe potuto immaginare un ammiraglio più diverso dai suoi soldati assaltatori, uno in particolare. Borrelli, culturalmente e giuridicamente, è il massimo che Napoli abbia mai potuto produrre, lontano anni luce da certa cenciosità carnevalesca e prolissità ciceroniana. Era cresciuto in una famiglia altoborghese con la fissa della musica e del francese, lingua ufficiale di casa. La madre e il padre erano diversi come di più non si poteva: lei, Miette, era una raffinata ma pur sempre passionale donna calabrese; il padre, Manlio, era invece un dannunziano fortemente permeato di estetismo e le aveva davvero tutte: l'occhio azzurro, il monocolo, il fisico da ufficiale di cavalleria, nietzschiano della prima ora, un monarchico antifascista - ennesima, apparente contraddizione - che a Milano sarebbe diventato presidente di Corte d'appello e buon amico di Indro Montanelli. Francesco Saverio era sprovvisto dell'approssimazione e indolenza partenopee, era un simpatizzante semmai della burocrazia austroungarica tutta costanza e disciplina, un signore da vacanze estive a Sils Maria, in Val Engadina. Il dualismo tra musica e legge ebbe a dividere sempre e amabilmente tutta la sua famiglia. La sorella andò in sposa al musicologo Roman Vlad, mentre il fratello Fabio, elegantissimo e snob, fu consigliere dell' Opera di Roma ovviamente con classica villa a Capalbio. Musica e legge: Francesco Saverio studiò entrambe. Il suo maestro di pianoforte e composizione, Roberto Lupo, disse che percepiva in lui un'inclinazione rigorosamente classica e poi un' altra disperatamente romantica, una lotta continua e di contrasto, la disciplina come gabbia di rigorosa coerenza e poi la tentazione del disordine. Nel 1951 vinse una borsa di studio per andare a Bayreuth, luogo sacrale del mito di Richard Wagner, e tornò completamente frastornato dal compositore che pure aveva ammaliato suo padre. Una passione eterna ma che accrebbe la sua indecisione sul che fare: tanto che nello stesso anno si diplomò al conservatorio e si laureò in giurisprudenza. Il titolo della tesi spiega tutto: "Sentimento e sentenza". Sceglierà quest' ultima. Difficile cogliere il saldo tra questo Borrelli e quello che riuscì a divenire - il 17 marzo 1988, quando stava per compiere cinquantotto anni - procuratore capo a Milano. Convisse tranquillamente con la Milano dei socialisti, chiuso nella sua superiorità. Il resto si sa. Dopo le elezioni politiche del 5 aprile 1992 i partiti tracollarono e risuonò tutt' altra musica, la Götterdämmerung della vecchia Repubblica. L' intervista che rilasciò il 1° maggio 1994 sul Corriere della Sera, dal sen fuggita, non si può dimenticare: «Dovrebbe accadere un cataclisma per cui resta solo in piedi il presidente della Repubblica che, come supremo tutore, chiama a raccolta gli uomini della Legge. E soltanto in quel caso noi potremmo rispondere. Non basterebbe certo ... una folla oceanica raccolta sotto i nostri balconi. Ma a un appello di questo genere, del Capo dello Stato, si potrebbe rispondere con un servizio di complemento», questo sì». Fu un modo complesso per definire un golpe: ormai la magistratura prendeva i contorni di un grande gendarme con potere d'interdizione permanente su uomini e cose. Un faro accecante sul vuoto della politica. Perchè qualcosa accadesse, bastava farla accadere: Craxi in latitanza, Andreotti processato per mafia, Berlusconi nel mirino non appena candidato. Quello che pochi sanno è che Borrelli, con un distacco storicizzante alla Sergio Romano (altro abitudinario di Sils Maria) col tempo ammise più o meno tutto. Ai tempi del decreto Conso (1993) è noto che giornali e magistratura furono in grado di bloccare le legittime decisioni del Parlamento; il governo aveva architettato una complessa depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti (dapprima con la collaborazione del Pool di Milano) ma poi lo stesso Pool stilò un comunicato di protesta e il bailamme mediatico fece il resto. Il pavido Capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, non firmò. E Francesco Saverio Borrelli, anni dopo, ammetterà: «La presa di posizione sul decreto Conso era stata, inutile negarlo, una forma di pressione sul Parlamento... noi eravamo in qualche modo degli interlocutori politicamente accreditati». Circa la tecnica di "Mani pulite", a un certo punto ammetterà che il Pool sceglieva gli obiettivi a seconda delle possibilità del momento e adottava una tattica che definì «Blitzkrieg», la guerra lampo degli eserciti germanici: una penetrazione impetuosa su una fascia molto ristretta di territorio lasciando ai margini le sacche laterali. Peccato che questo implicasse una evidente discrezionalità dell' azione penale: sceglievano, cioè, la direzione verso cui andare. Quando poi la stagione di "Mani pulite" volse al termine, nel tardo 1994, fu comodo per molti - a destra e a sinistra - liquidarne le ragioni nel mancato coinvolgimento dei vertici del Pci o nella pervicacia con cui si puntava su Berlusconi. Ma la ragione in realtà era un' altra, e coincise con un Paese che si stava divorando, e in cui proscenio e platea rischiavano di confondersi: l' indagine stava lambendo la stessa società civile e cioè gli italiani, che si disamorarono progressivamente dopo un'ubriacatura legalitaria che dapprima era parsa liberatoria, espiatoria, deresponsabilizzante. È una verità scomoda, ma Francesco Saverio Borrelli, anni dopo, la ammise: «L'atteggiamento dell' opinione pubblica cominciò a cambiare più o meno in coincidenza con l' indagine sulla Guardia di finanza... finché si trattò di colpire l'alta politica e i suoi rappresentanti, i grandi personaggi dei partiti che stavano sullo stomaco a tutti, non ci furono grandi reazioni contrarie. Anzi. Ma quando si andò oltre, apparve chiaro che il problema della corruzione non riguardava solo la politica, ma larghe fasce della società, insomma investiva gli alti livelli proprio in quanto partiva dal basso». Neppure l'improvvisa concentrazione su Berlusconi fu esente da conseguenze sull'umore di parte degli italiani, anche in virtù di interviste che parevano editti: «Chi ha scheletri negli armadi non si candidi alle elezioni»; «Ci sono responsabilità ai vertici e verranno colpite», «inchioderemo l' imputato alle sue responsabilità», più altri pezzi da collezione esplicitamente dedicati a una singola persona che milioni di italiani avevano appena votato. Sì, anche il genio (del bene o del male: è lo stesso) commette errori o semplicemente straborda, catturato dalla dicotomia wagneriana che l' alto magistrato aveva dentro di sé. Un errore fu fidarsi di uno come Antonio Di Pietro, per esempio, che rimase invischiato nelle proprie ambiguità ma che soprattutto, al suo Capo - al quale dava del lei e rispondeva «signorsì» - queste ambiguità nascose per molto tempo. Qualche formalismo in più, poi, avrebbe evitato a Borrelli quel celebre mandato di comparizione recapitato a un presidente del Consiglio nel 1994 a mezzo Corriere della Sera e davanti a un consesso mondiale. Un pizzico di etichetta avrebbe persino evitato, forse, qualche carcerazione inutile, qualche vita distrutta, qualche speculazione politica in più. Alla fine del 1999, poi, si scoprì che operare chirurgicamente il malato Craxi in Tunisia, dove si trovava, avrebbe significato accelerarne la fine. Si mossero alcune delle massime autorità dello Stato, compresi il Capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi e il capo del governo Massimo D'Alema: ma a opporsi alla possibilità di far rientrare Craxi da uomo libero (e operabile, ma non in carcere) fu in prima persona lui, il Procuratore generale della Procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Il quale, a un certo punto, si ritirò di buon ordine da magistrato qual era sempre stato, senza sfruttare profferte improbabili. Fece eccezione l'incarico azzeccatissimo di presidente del Conservatorio di Milano, nominato da un'amministrazione di sinistra (Fabio Mussi) e poi fatto fuori da un' amministrazione di destra (Mariastella Gelmini). Ma che gliene fregava, ormai aveva ottant' anni. Sparì dalla circolazione ed ebbe a presenziare solo alla Prima della Scala dove poteva vantare, rispetto alla maggioranza, un interesse addirittura musicale. Non conosciamo le sue opinioni degli ultimi anni su quest' Italia e sul personale politico che l' ha occupata, figlio a suo modo di "Mani pulite". Il Paese nato da quelle ceneri in effetti è tutto qui, oggi. Fortunato lui, che non deve più pensarci.
Un finto salvatore della Patria. Vittorio Sgarbi, Domenica 21/07/2019, su Il Giornale. Per nessun uomo politico, con tutti i suoi limiti e capacità, il giudizio (o il ricordo) può esser meno personale e più storico. A me sono consentiti entrambi, perché io l'ho conosciuto bene e ammirato. Non posso dire stimato. Giacché Francesco Saverio Borrelli, un uomo sensibile, raffinato, colto, capace di capire la storia e, conseguentemente, di assumere le sue posizioni e responsabilità, a un certo punto ha pensato di essere il capo di Stato di un paese non democratico. Come capita a chi governa - e in questo caso Borrelli ha governato la magistratura, organo sommamente politico, e lo dimostrano le vicende del Csm - come è capitato a Craxi, a Berlusconi e a Renzi, suoi simili, Borrelli non ha resistito, oltre i precisi limiti della sua funzione, al delirio di onnipotenza che prende chi è in grado di condizionare il proprio tempo. Accade nelle espressioni del gusto, nella moda, nella musica, nella letteratura e, purtroppo, nella politica. In un certo senso, egli è stato un precursore degli influencer di successo. Ha determinato proselitismo e fanatismo, come oggi Chiara Ferragni. Ogni sua posizione, ogni sua frase accendeva reazioni di consenso, analoghe al tifo sportivo. Il pool Mani Pulite era una squadra che agiva entro la storia del suo tempo, con piena consapevolezza. Ma il più consapevole era lui, che avrebbe avuto il compito di disciplinare l'azione del suoi. Non per caso chiamati: «sostituti». Potevano limitarsi a fare un quartetto, tipo Amici miei. E, dopo ogni loro bravata, anche crudele, anche riuscita, concludere: «abbiamo scherzato», come era avvenuto con precedenti azioni giudiziarie contro esponenti politici. Invece hanno assunto, fuori di ogni dimensione lecita, il ruolo di salvatori della Patria. La Patria non è stata salvata. E, purtroppo, nonostante le infinite qualità (forse appannate dalla vanità), il principale responsabile è stato Borrelli. Di cosa? Della fine della democrazia rappresentativa dei partiti. Poteva, manzonianamente, invocare la prudenza: Pedro, adelante con juicio! Invece il suo Pedro ne accese il desiderio di onnipotenza, insito in ogni magistrato, di cambiare la Storia. Borrelli assecondò, e non patì, forse per il timore di restare indietro, l'impulso di un giovane sostituto, Antonio Di Pietro, che esibì un metodo, fuori di ogni regola, e capace d'impressionare, la stampa prima di tutto (con strabocchevole consenso) e la politica (con leggi suicide). Così, da magistrato di grande cultura e intelligenza, Borrelli si trasformò in un politico, presidente di un governo ombra, il cui consenso era misurabile anche senza elezioni; e lui ne era consapevole, fino a dichiararlo quando si propose, o mostrò di essere disponibile, per una chiamata del presidente Scalfaro (magistrato fatalisticamente prestato alla politica), in una situazione di emergenza. In quegli anni, o forse in quel momento, in cui si arrivò a inquisire e arrestare più di 4.500 politici (e affini) e 276 parlamentari, Borrelli fu abbagliato dalla certezza di esser dalla parte del giusto e di interpretare un destino. Dopo il Duce, un altro uomo della provvidenza. Poteva, nel rispetto, della indipendenza dei poteri, far sopravvivere la cultura politica e la democrazia rappresentativa. Le ha fatte morire. Con lui sono scomparsi partiti storici, con rappresentanti eletti in nome di idee e identità, umiliati sotto il maglio della corruzione: il mondo popolare e democristiano, il Psi, il Pri, il Pli, il Psdi. E alla fine anche il partito più resistente: il Pci. Un grande risultato. Una strage. Ogni partito aveva ideali e rappresentanti che li incarnavano. Grandi personalità, dotate di pensiero politico: da Croce a De Gasperi, a Nenni, a La Malfa, e prima Sturzo, Gobetti, Gramsci. Spazzati via da finti partiti dai nomi allusivi o ridicoli: Forza Italia, Italia dei Valori, Partito Democratico (come se gli altri non lo fossero), 5 stelle, fino ad Alternativa Popolare e altre amenità. Come è potuto accadere? Perché Borrelli ha dimenticato che la cultura, che lui aveva, è la madre di ogni azione, soprattutto politica. Senza cultura si va alla dittatura del singolo, per esaltazione demagogica. Tra i suoi sostituti, infatti, almeno due, come Paperino e Topolino, avevano l'istinto della demagogia, pronti a «rivoltare l'Italia come un calzino», come uno di loro disse, non temendo il cattivo odore. L'Italia! Un calzino! E così Borrelli, che aveva raffinate conoscenze letterarie, filosofiche, giuridiche, per tradizione di famiglia e per formazione, che amava la musica (e fu presidente del Conservatorio di Milano quando io ero assessore al Comune, intrattenendo con lui straordinari scambi su questioni artistiche e musicali: uomo squisito, sofisticato e sottile), si fece sedurre e travolgere dai suoi sostituti, in particolare uno, popolarissimo, che infatti poi fece un partito, capitalizzando il suo consenso: un partito personale al posto di un partito ideale. Insomma, la Treccani, che Borrelli frequentava, fu sostituita (travolta) da Topolino. Borrelli dimenticò Beccaria per Celentano. E, benché aristocratico, divenne popolare sull'onda del suo sostituto assecondato. Così la democrazia rappresentativa fu travolta non dalla corruzione, ma dalla ambizione di proporre un diverso mondo politico, costituito dagli onesti (il Partito degli onesti), dimenticando la lucida formula di Benedetto Croce: «Il vero politico onesto è il politico capace». Non so se Borrelli, uscito dalla magistratura senza entrare in politica, si sia pentito della sua scelta, che può apparire una forma di debolezza, di abbaglio storico o di vanità. Ma è certo che lo stato in cui versa la nazione dipende in larga parte da lui, che ha la responsabilità storica di avere lasciato spazio alla demagogia contro la politica, rispetto alla doverosa restituzione della illegalità e della corruzione non ai partiti, ma ai singoli responsabili e a un costume di opaca moralità (ma non di cattiva politica) che travolse anche il suo primo cliente: Craxi. E poi il secondo: Forlani. Lasciati nelle fauci di Di Pietro. Borrelli scelse Celentano e Topolino, invece che De Gasperi e Berlinguer. Così, eliminato Craxi, aprì la strada prima a Bossi (con disgusto), poi a Berlusconi (con orrore), poi a Grillo (con rassegnazione). Dal punto di vista politico, egli può essere considerato il padre di Berlusconi (figliol prodigo), il nonno di Grillo (che, sulla scia, si affermò dopo la, invero pudica, uscita di scena di Borrelli) e il bisnonno di Salvini (che lo ammirava da piccolo). Non so se sia quello che egli voleva; è certo quello che ha ottenuto. Ha generato mostri. Rivelando, però, un fatto, alla luce dei vari Palamara: che l'azione della magistratura, nell'ultimo quarto di secolo, è stata consapevolmente un'azione politica, cui si è ispirata la inconsistente ideologia del non-partito di Grillo. Creando la mostruosa anomalia di organizzazioni e associazioni (non sono partiti) con centinaia di eletti, con i voti di uno solo che non è in Parlamento: prima Berlusconi, poi Grillo. La presidente del Senato fu eletta dopo che Berlusconi fu cacciato dal Senato. I grillini sopravvivono oggi senza che Grillo sia in Parlamento e neppure nel partito da lui fondato. Aberrazioni che sono molto più gravi (come si vede dallo stato dello Stato) della corruzione. Borrelli se n'è andato, tormentato dagli effetti del suo errore. I partiti sono morti, la corruzione è viva.
La toga rossa e il picchetto d'onore: l'ultimo saluto a Francesco Saverio Borrelli. Di Pietro commosso. Nell'atrio centrale del Palazzo di Giustizia la camera ardente per il magistrato morto sabato all'età di 89 anni. Un lungo applauso ha accompagnato l'uscita del feretro. L'omelia: "Borrelli sognava un'Italia lontana dal malaffare, pulita e bella". Ai funerali anche Sergio Cusani, imputato simbolo di "Mani Pulite". Giampaolo Visetti il 22 luglio 2019 su La Repubblica. La toga rossa poggiata sulla bara, rose bianche e il picchetto d'onore. E un lunghissimo applauso all'uscita del feretro dallo scalone principale di corso di Porta Vittoria. Questa mattina è stata aperta dalle 9.30 alle 12 la camera ardente di Francesco Saverio Borrelli a Palazzo di Giustizia a Milano. Lo storico procuratore capo - l'uomo che guidò negli anni Novanta il pool di Mani Pulite - è morto sabato all'età di 89 anni nell'hospice dell'Istituto dei Tumori dove era ricoverato da alcune settimane. Tra i primi a rendere omaggio a Borrelli, il presidente dell'Anm Luca Poniz, Piercamillo Davigo, Edmondo Bruti Liberati, Gherardo Colombo, Mario Monti e Livia Pomodoro, il procuratore generale Roberto Alfonso. Arrivato anche il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e il sindaco di Milano Beppe Sala con la fascia tricolore e l'ex sindaco Giuliano Pisapia. E Antonio Di Pietro, uno dei suoi sostituti nel pool di Mani Pulite, dopo il silenzio di questi giorni è arrivato in tribunale a Milano: ha salutato Greco e Colombo e, visibilmente commosso, ha indossato la toga (che si è fatto prestare) per il picchetto d'onore. In tanti hanno poi seguito anche i funerali, nella chiesa di Santa Croce: "Francesco Saverio Borrelli sognava un'Italia lontana dal malaffare, pulita e bella, è stato un uomo che ha speso la sua vita per il bene comune, per l'onestà, per la giustizia" e per "la lotta alla corruzione", è un passaggio dell'omelia di don Livio Zaupa. Ai funerali c'era anche Sergio Cusani, imputato 'simbolo' di Mani Pulite. E' stato l'attuale procuratore capo Francesco Greco a decidere subito che per Borrelli ci sarebbe stata la camera ardente nell'atrio principale del Palazzo di Giustizia, come era avvenuto nel 2014 per Gerardo D'Ambrosio. E proprio Greco, con il procuratore aggiunto Alberto Nobili, è a fianco alla bara, ad accogliere chi arriva per salutare Borrelli. Altri magistrati, a turno e tutti con la toga nera sulle spalle, alle loro spalle, si sono alternati anche avvocati, come Vinicio Nardo. Gli uomini della scorta hanno voluto portare a spalla la bara del loro capo.
Alle 14,45, i funerali nella chiesa di Santa Croce di via Sidoli. Accanto alla bara, la moglie di Borrelli, Maria Laura Pini Prato, i figli Andrea e Federica, la sorella. "Mio marito è sempre stato rigido, anche in famiglia, ma dolcissimo. Ha sempre ravvicinato tutti, anche quando c'era qualche screzio". Con queste poche parole la vedova ha ricordato il marito, ex capo del pool di Mani Pulite di cui stamattina al Palazzo di Giustizia di Milano si tiene la camera ardente. "Mi mancherà moltissimo, tutta la casa è piena dei suoi libri dei sui dischi, del pianoforte..", ha aggiunto. Sono stati i familiari ad accogliere chi arriva e a stringere le mani a tutti. Tanta gente, e il procuratore Greco ha detto che ci sono moltissimi colleghi magistrati che stavano arrivando a Milano per salutare Borrelli e che sono rimasti bloccati in treno per la sospensione del traffico ferroviario tra Roma e Firenze. Il ministro Bonafede, dopo aver salutato i familiari, ha detto di Borrelli che è "un esempio di imparzialità da custodire per le nuove generazioni, determinante per la lotta alla corruzione", sottlineando il suo contributo alla "giustizia" e alla "democrazia" italiane. E Gherardo Colombo, dopo aver indossato la toga per il picchetto d'onore, ha detto: "Sono finite le nostre indagini, ma Tangentopoli non ha cambiato niente dell'Italia, la corruzione è rimasta, magari con caratteristiche diverse". Il famoso 'resistere, resistere, resistere', ha aggiunto, "è stato un invito a tutta la cittadinanza a rivolgersi veramente alla Costituzione che ha 70 anni ma che è ancora una promessa e non la realtà". Un ricordo anche del sindaco Sala: "Ci scrivevamo. Era una nostra piccola abitudine, forse siamo due persone per certi versi un pò all'antica che rispettano ancora i valori che io riconoscevo in Borrelli, cioè professionalità ma anche equilibrio, stile e cultura". E ha aggiunto: "Vedo con un po' di irritazione una politica che vuole tirare tutti dalla propria parte, vuole tirare a sposare in maniera anche un po' poco approfondita le proprie idee e ha meno capacità di ascolto".
Antonio Di Pietro si offre per portare il feretro di Borrelli al funerale. Ma Greco lo ferma. Libero Quotidiano il 23 Luglio 2019. A Palazzo di Giustizia Antonio Di Pietro si mette la toga e veglia per una decina di minuti la bara di Francesco Saverio Borrelli. E' insieme alla moglie Susanna Mazzoleni ed è evidentemente commosso. Venticinque anni dopo è lui il protagonista alla camera ardente allestita nel luogo a cui Borrelli ha dedicato 44 anni della sua vita. Ma ancora una volta Di Pietro non riesce a cancellare lo strappo e il gelo con i suoi ex colleghi, rivela Repubblica, è palese. Tonino si offre di portare in spalla la bara di Borrelli fuori dal tribunale assieme al procuratore capo Francesco Greco, agli aggiunti Alberto Nobili e Maurizio Romanelli. Greco però lo fulmina con lo sguardo gli dice qualcosa e Di Pietro si fa da parte tra l'imbarazzo: "Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo e Ilda Boccassini sono degli amici. Di Pietro è stato solo uno dei suoi sostituti", dice la moglie di Borrelli, Maria Laura Pini Prato, ai suoi familiari. Il gelo torna poi nel pomeriggio ai funerali nella chiesa di Santa Croce. Sotto l'altare c'è tutto il mondo giudiziario milanese. Di Pietro invece è isolato, in piedi nella navata di sinistra. Il suo "tradimento" al pool, l'aver messo in difficoltà lo stesso Borrelli, non è stato perdonato.
Luca Fazzo per “il Giornale” il 23 luglio 2019. Non c'è Milano. La Milano dei girotondi e dei fax ha chiuso la sua stagione prima ancora che si chiudesse la stagione terrena di Francesco Saverio Borrelli. Così non c' è coda, all' ingresso del Palazzo di giustizia, per scorrere davanti alla bara coperta dalla toga purpurea. L'addio al procuratore di Mani Pulite è un addio tutto interno all' orgoglio di una magistratura che ancora oggi, a oltre un quarto di secolo dall' attacco a Tangentopoli, vive della luce riflessa da quella stagione, immersa nei meriti e nelle colpe che portò con sé. A salutare Borrelli sono i magistrati che con lui hanno vissuto gli anni dell' assalto al cielo. Fuori, Milano arranca nella canicola del giorno feriale. Ma anche il resto del palazzo di giustizia vive la sua vita di tutti i giorni, la gente in coda agli sportelli, le udienze per direttissima degli arrestati. I giovani giudici degli ultimi concorsi, quelli che di Mani Pulite sanno solo il poco che ne dicono i libri, continuano il loro lavoro. La conseguenza è che riesce ancora più evidente, nella sala grande del palazzaccio milanese, l'ultima impresa di Borrelli. Nei lunghi anni del suo regno, aveva saputo tenere unita la Procura, tenendo a bada l'agitarsi delle gelosie, dei protagonismi, degli scontri anche aspri che la visibilità piombata sul Palazzo stimolava e amplificava. Lo faceva con un mix di durezza e di equilibrio, e soprattutto di conoscenza infinitesimale di quanto accadeva e di quello che i suoi sostituti facevano. E anche ieri è Borrelli a rimettere tutti insieme, nello stesso androne di marmo, magistrati amici e nemici, giudici che si stimano sinceramente con gente che si porta dietro rancori di lunga data. Ma che ieri sfilano uno dopo l' altro, a rendere omaggio alla bara e poi a Maria Laura Borrelli, lieve e sorridente come solo una vedova milanese sa di dover essere. A rompere il velo delle convenzioni ha provveduto solo Ilda Boccassini: che con lo scomparso aveva avuto un rapporto tempestoso, cacciata dal pool antimafia con un diktat che, in borrellese puro, la accusava di «carica incontenibile di soggettivismo»; partita per Palermo alla caccia degli assassini di Falcone insultando tutto e tutti, ma poi tornata al nord, recuperata da Borrelli al lavoro di Procura, e che nel necrologio solitario ha avuto parole di fuoco per gli eredi del capo: «Dopo di te le tenebre». Ieri Ilda non viene in Procura, non viene alla camera ardente: e forse è meglio così, perché chissà se il clima composto avrebbe retto alla sua apparizione. Ma gli altri ci sono tutti, i Borrelli-boys di quegli anni, a darsi il turno nel picchetto d' onore intorno al feretro. Quelli di cui Borrelli aveva stima profonda: come Alberto Nobili, il pm delle missioni impossibili cui il capo ricorreva quando non sapeva più a che santo votarsi; ma anche quelli di cui, senza farne mistero, non si fidava. All' inizio il clima è rigido, commosso; poi la tensione come è giusto si stempera, iniziano i capannelli, le pacche, i sorrisi. E diventa più facile studiare chi saluta chi, notare rivalità ultradecennali sospendersi come se davvero stessero tutti dalla stessa parte. È l' ultimo miracolo di Borrelli. E inevitabilmente, con il passare del tempo, monta la domanda: e Di Pietro? Perché accanto alla bara c'è Gherardo Colombo con i pochi riccioli superstiti, c'è un incanutito Davigo, c' è Francesco Greco che oggi siede nella stanza che fu di Borrelli. Ma il pm che incarnò l'inchiesta, quello del «Borrelli-Di Pietro non tornate indietro», non c'è: e sembra destinata a essere l' ultima puntata del rapporto tormentato tra due magistrati che più diversi non potevano essere, l' aristocratico e il contadino, ma che insieme hanno cambiato il paese. Invece, alla fine, Di Pietro appare. Senza di lui, Mani Pulite non sarebbe mai cominciata: ma senza Borrelli, sarebbe stata assassinata nella culla. Di Pietro lo sa. E, unico tra tutti, si inginocchia a piange davanti alla bara con la toga di porpora del suo capo. Ecco, adesso Mani Pulite è davvero finita.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 22 luglio 2019. La santificazione di Francesco Saverio Borrelli, promossa da quasi tutta la stampa patria, mi sta bene perché i morti hanno sempre ragione e una volta sotterrati sono intoccabili nella loro reputazione. Esatto: l'alto magistrato era colto, un napoletano chic, giurista e musicista, montava perfino a cavallo ma quest'ultima cosa l'ho fatta anche io nell'indifferenza generale, per fortuna. Transeat. Ciò che mi stupisce e adonta è il fatto che Mani pulite sia stata esclusivamente attribuita a lui in ogni risvolto positivo e negativo. Ed è una bufala. L'inchiesta sui ladri politici è merito, o colpa, in assoluto di Antonio Di Pietro. Fu quest'ultimo e non altri a capire che i partiti in quegli anni rubavano di brutto per finanziare se stessi oltre ai leader grandi o piccoli, i quali grattavano nella convinzione di fare una cosa buona e giusta al fine di garantire lunga vita alla democrazia. In realtà i capi e i capetti sgraffignavano non a favore della politica, ma sgraffignavano altresì alla politica. Così si assicuravano ville sull' Appia antica, vita principesca, da nababbi. E fu Tonino a stanarli. Il quale all' inizio della operazione di pulizia fu guardato con sospetto pure dai propri colleghi, lo consideravano un elemento di scarto, un contadino togato e sprovveduto, tant' è che era stato cacciato dalla Procura di Bergamo, indesiderato. Poi però quando i compagni di lavoro milanesi di Di Pietro si resero conto che costui aveva scoperto una miniera di oro trafugato da onorevoli e senatori, allora mutarono registro e si accodarono al supposto buzzurro, dal quale si fecero trascinare verso la gloria. Mani pulite infatti si divide in due parti. Una squisitamente giudiziaria che portò in galera vari mariuoli e anche personaggi di alto livello. Una seconda che si trasformò in un processo di piazza e in un rozzo repulisti condito con vari errori giudiziari. Ma ormai i magistrati erano diventati popolari e passavano per eroi. Nessuno ne contestava gli sbagli. È utile ricordare che Borrelli, al principio scettico sull'inchiestona dipietresca, a un dato momento si accorse che giovava alla reputazione dei giudici e la cavalcò quasi fosse un destriero. Lui quanto gli altri componenti del cosiddetto pool. Il fatto che Francesco Saverio fosse un vero signore non gli impedì di sfruttare la situazione onde conquistare la fama, oggi confermata dagli esagerati elogi funebri tributatigli dal giornalismo più conformista e appiattito del pianeta. Rimane un punto fermo. Il fautore di Mani pulite è stato Di Pietro, gli altri fenomeni autoelettisi tali si limitarono ad assecondarlo allo scopo di salire alla ribalta. Questa è la storia di cui fui testimone. Il resto è fuffa retorica. Borrelli merita un attestato di stima quale uomo elegante e di classe. Con qualche peccatuccio. Amen.
Morte Borrelli, oggi Antonio Di Pietro piange: ma solo ieri non ha firmato l'encomio funebre. Libero Quotidiano il 22 Luglio 2019. Hanno fatto impressioni le immagini di Antonio Di Pietro alla camera ardente allestita a Palazzo di Giustizia a Milano per Francesco Saverio Borrelli: Tonino in lacrime, distrutto, all'estremo saluto del capo del pool di Mani Pulite. Tra i due il rapporto è spesso stato aspro, litigioso, pieno di sospetti. Forse anche per questo, oggi, l'emozione ha avuto il sopravvento sull'ex leader dell'Idv. Accompagnato da moglie e figlio, Di Pietro si è fermato per qualche minuto in silenzio davanti al feretro di Borrelli, poi ha abbracciato il procuratore di Milano, Francesco Greco, e salutato con un galante baciamano la moglie del magistrato Maria Laura e i figli Federica e Andrea. Visibilmente commosso, Di Pietro si è fermato a parlare con Gherardo Colombo e con Greco e poi si è allontanato. Eppure in molti - tra cui Vittorio Sgarbi su Il Giornale - hanno notato come alla vigilia, proprio Di Pietro, non abbia firmato la lettera di encomio funebre pubblicata sul Corriere della Sera dopo la morte di Borrelli. Non a caso, alla camera ardente, Di Pietro ha evitato con cura di parlare con i giornalisti presenti, così come non ha risposto al telefono a chi ha provato a raggiungerlo in questi giorni. Come detto, il rapporto tra i due non è sempre stato rosa e fiori, anzi. Si pensi al confronto ricostruito sempre dal Corriere, secondo cui quando Borrelli apprese delle dimissioni a sorpresa di Di Pietro - 6 dicembre 1994 - "non solo aveva taciuto al pool di essere sotto scacco di Previti per un prestito dall’assicuratore Gorrini, ma aveva poi anche lasciato intendere ai vari politici che lo corteggiavano di essere stato quasi costretto dai colleghi a indagare Berlusconi, Borrelli gliene chiede conto. Prima in una burrascosa telefonata (non venire più in Procura perché ti faccio buttar giù dalle scale se non fai immediatamente il tuo dovere» di smentire), e in seguito nel 1996 testimoniando in Tribunale a Brescia sulla 'defezione' di Di Pietro a dispetto dell’assicurazione ai colleghi poi in aula ci vado io e quello lo sfascio".
Giorgio Gandola per “la Verità” il 22 luglio 2019. «Dopo di te, tenebre». Neanche fosse stato un re Sole del diritto, Francesco Saverio Borrelli incassa un elogio funebre che non si può confondere con gli altri. E non può finire dentro la solita sinfonia di archi e ottoni che accompagnano chiunque, a comando, al camposanto. Unico e urticante a cominciare dalla firma: Ilda. Che sarebbe Ilda Boccassini, Ilda la Rossa, il caterpillar della procura, quella che se vedeva un assembramento di giornalisti sul pianerottolo del tribunale ordinava alla scorta: «Sgombrate la scala». Mai un compromesso, mai un ricciolo fuori posto, la Fiorella Mannoia del pool Mani pulite. Per questo la lettura della sua necrologia pubblicata ieri sul Corriere della Sera crea una punta di emozione: «Ciao Saverio. Hai resistito alle lusinghe del potere, sei stato esempio di integrità per chi come me non ha ceduto a compromessi. Dopo di te, tenebre. Già mi manchi. Ilda». È l'abbraccio dell'allieva al maestro e al tempo stesso è la volontà di mettere a fuoco una differenza abissale fra lo stile di quel magistrato e il comportamento delle toghe di oggi. Lo scandalo Csm, le trame romane, abusi, falsi, favori, mercimoni, le vacanze di Luca Palamara e l'ombra della politica (le intercettazioni di Luca Lotti) sulle nomine hanno ferito gravemente la magistratura italiana. Hanno determinato una cesura fra il passato e il presente. E per un marine delle inchieste come la Boccassini questa è l'occasione giusta per farlo rimarcare a chi vorrebbe che la coltre nebbiosa calasse sulle condotte indecenti. Eppure non era cominciata benissimo, fra Saverio e Ilda. Borrelli era da poco procuratore capo di Milano quando la giovane pm gli mise sulla scrivania l'inchiesta Duomo connection (1989-1990), allestita con Giovanni Falcone sulle infiltrazioni della mafia nelle attività produttive e amministrative della metropoli lombarda. Borrelli non si fidò più di tanto. La testimonianza di Edmondo Bruti Liberati è interessante: «Io e altri colleghi gli facemmo notare che non aveva sostenuto abbastanza la Boccassini in quell'inchiesta. Lui lo riconobbe e quando lei tornò a Milano (da Palermo, per entrare nel pool, ndr) la accolse per primo e le affidò un ruolo importantissimo». Anche la frase «hai resistito alle lusinghe del potere» è illuminante. L'icona di Borrelli era il giurista Piero Calamandrei, colui che disse: «Quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra». In quegli anni le lusinghe erano enormi e alcuni uomini del suo esercito ne furono irrimediabilmente condizionati. Il suo vice, Gerardo D' Ambrosio, quando andò in pensione si candidò con i Democratici di sinistra e ottenne un seggio in Senato, dando uno schiaffo con quel gesto alla cultura dell' equidistanza che dovrebbe sempre ispirare le inchieste di un magistrato. Ancora più frontale, più politica, più divisiva fu la carriera di Antonio Di Pietro, che un giorno di dicembre del 1994, alla vigilia dell' interrogatorio di Silvio Berlusconi, lasciò la sua toga in mano a Borrelli per saltare il fosso e due anni dopo diventare ministro dei Lavori pubblici del governo di Romano Prodi, acerrimo rivale del Cavaliere. Per il procuratore capo fu una mazzata. Come ricostruisce Luigi Ferrarella sul Corriere, quando Borrelli seppe che Di Pietro diceva ai suoi amici politici di aver dovuto indagare Berlusconi per forza, lo minacciò al telefono: «Non venire più in Procura perché ti faccio buttare giù dalle scale». Era preoccupato per la giustizia sporcata dal sospetto di connivenza, era impegnato a tenere le inchieste fuori dal gioco della strumentalizzazione. Occupazione oggi addirittura superflua, quando un sottosegretario allo Sport (Lotti) parla di una nomina giudiziaria nella Procura che lo ha indagato. Ecco perché la necrologia della Boccassini è uno spartiacque. Plateale, ufficiale, voluto. Anche fra i doveri di riservatezza di un procedimento penale e la cultura dell'intervista e della platea alla quale si è adeguato un altro ragazzo di Borrelli, Piercamillo Davigo, difficilmente arginabile quando decide di teorizzare a reti unificate. Lo stesso Francesco Greco, che oggi siede alla scrivania del procuratore capo nel palazzo di Giustizia di Milano, non è riuscito a trattenersi qualche settimana fa, parlando delle nomine del Csm. «Il mondo che vive nei corridoi degli alberghi e nelle retrovie della burocrazia romana e che non ci appartiene e non appartiene ai magistrati del Nord, ci ha lasciato sconcertati». Un pugno nello stomaco, il segnale di un malessere profondo. La forma delle tenebre.
Vittorio Feltri, la morte di Borrelli e la vecchia intervista a Di Pietro: "Come è nata davvero Mani Pulite". Libero Quotidiano il 23 Luglio 2019. Qui sotto, l'intervista di Vittorio Feltri ad Antonio Di Pietro pubblicata sull'Indipendente del 5 giugno 1992.
La stanza di Antonio Di Pietro, che è diventato un idolo popolare perché fa il suo dovere, perché fa il giudice come dovrebbero farlo tutti i giudici, è al quarto piano del palazzo di Giustizia, che è il palazzo più sudicio di Milano, e mi riferisco solo ai marmi, bianchi in origine, immagino, e ora grigi, sporchi come le mani di tanti uomini politici e uomini d' affari. È una stanza ingombra di faldoni e di scrivanie disseminate di fogli, dietro alle quali siedono giovanotti che non hanno l' aria di impiegati, e in effetti sono poliziotti, che non hanno l' aria di poliziotti: jeans, scarpe da tennis, barba lunga. Lavorano con lui, e lui se ne sta in un angolo, vicino alla finestra da cui si intravedono tetti opachi e muri sbreccati, riparato da un armadio-libreria. Davanti al suo tavolo, due sedie; una è occupata, anche quella, da una pila di documenti, che non oso guardare per paura di leggerci qualche nome e di non resistere poi alla tentazione di annotarmelo; l' altra è per me: la occupo io. Di Pietro è in maniche di camicia; la giacca con le tasche gonfie è appesa alla parete, tra illustrazioni polverose di carabinieri con pennacchio rosso e blu, carabinieri a cavallo, carabinieri con sciabola. È una stanza triste, sembra il commissariato in un film neorealista.
E dove li fa gli interrogatori, dottor Di Pietro?
«Dove vuole che li faccia, qui. L' interrogato siede dove siede lei».
Qua in mezzo a tutti?
«Loro non sono tutti, sono miei collaboratori. Io e i miei collaboratori siamo una famiglia».
Ma tu pensa. Mezza Milano trema. L'intera Italia politica trema. Tremano tutti al cospetto di questo magistrato, che in tre mesi ha fatto ciò che ad altri non era riuscito di fare in quarant'anni, un po' di pulizia, e la Giustizia lo costringe a vivere otto, dieci, quindici ore al giorno in questo magazzino di scartoffie, nel quale un paio di computer accesi sono il solo tocco di modernità. Se il ministro Martelli, invece che rilasciare dichiarazioni di solidarietà a Bobo e papà per la nota vicenda, venisse qui a constatare in quali condizioni lavorano i magistrati, probabilmente impiegherebbe più utilmente il suo tempo e imparerebbe che in questo paese se i tribunali funzionano male è un miracolo. Osservandone le strutture ci si convince che non dovrebbero funzionare affatto. Qualcuno ha parlato di Di Pietro come un eroe perché ha avuto e ha il coraggio di tenere la schiena dritta davanti ai potenti. Certo. Ma il suo eroismo, se di eroismo si tratta, consiste nel suo essere efficiente in questo microcasino della Giustizia. E la gente, la quale, come pensano i politici, non capisce niente ma, contrariamente a quanto pensano i politici, intuisce tutto, ha intuito anche questo: che Di Pietro è uno sgobbone, uno che ci dà dentro, uno che va avanti per la sua strada anche se la strada non c'è, una persona seria che si muove in un ambiente, quello dei partiti, che di serio ha solamente la disonestà.
Signor giudice è consapevole della simpatia, della stima che la circondano?
«So che c'è ansia di chiarezza, un profondo desiderio di moralità; e questo incoraggia chi fa il mio mestiere».
Altro che ansia, lei è al centro di un tifo da stadio. E non pochi, io tra questi, sospettano che a lungo andare la cosa solletichi la sua vanità. Non si offenda, siamo tutti un po' vanitosi «Sono talmente preso che non ho cinque minuti liberi. Se è come dice lei, mah, non me ne sono accorto. Come potrei accorgermi di quello che accade fuori di qui se fuori di qui non metto piede? Montarmi la testa? No, è un pericolo che non corro».
Chissà quante pressioni riceve, quanti tentativi di rabbonirla.
«Rabbonirmi? Mica sono cattivo. Semplicemente mi impegno nel lavoro. Quanto alle pressioni, nemmeno una. Né all' interno di questo palazzo né all' esterno. Nessuno ha cercato, in alcun modo, di bloccare l' inchiesta».
A proposito, il procedimento da che cosa ha preso l' avvio?
«Nulla di romanzesco. Da due anni studiavo il fenomeno, diciamo che ero abbastanza preparato in materia di tangenti. E quando mi è capitata fra le mani una querela per diffamazione sporta da Chiesa, è partita la macchina. Un passo dopo l' altro siamo andati lontano. Ma ci siamo andati non per la querela in sé bensì perché eravamo pronti a compiere il grande viaggio nella corruzione che ammorba la vita pubblica. Non ci sono misteri, non ci sono delazioni, non ci sono pentiti. Solo una gran fatica nostra».
È sicuro di non essere stato strumentalizzato, inconsapevolmente magari?
«Sicuro, sicurissimo. Maneggio fascicoli, sto ai fatti, agli accertamenti, come è ovvio. Degli inquisiti mi preme la posizione processuale, non il resto: il colore dei capelli, la tessera non m' importano. Recentemente ho arrestato un tale che ritenevo fosse del partito ics e solo al momento di interrogarlo ho scoperto che era del partito ipsilon. Una scoperta influente, comunque».
Influente anche quella di Craxi?
«Mi debbo ripetere: ciò che riguarda Craxi e il figlio è penalmente non rilevante. Altre valutazioni non spettano a me e non ne faccio».
D'accordo, ma si ha la sensazione che pochi si salvino, che il marciume sia dilagato a ogni livello.
«È sbagliato generalizzare. Vi sono imprenditori che hanno corrotto, altri che non si sono opposti con molto vigore alle richieste di denaro, e altri che hanno subito e sono vittime. Insomma, diversi gradi di responsabilità. Poi vi sono politici che pretendevano e altri che incassavano e giravano al partito nella convinzione di non commettere, personalmente, reati. E a parte il fatto che non si può fare di ogni erba un fascio, va ricordato che nessuno è colpevole fino al giudizio definitivo. Quindi la prudenza nel qualificare una persona coinvolta non è mai troppa».
Tra quelli che le sono passati davanti, e sono una folla, qualcuno le ha fatto pena?
«Il termine pena non è esatto. Però ammetto che mandare un uomo in carcere provoca sempre angoscia, me ne provoca molta. Quando sono ricorso alle manette è stato perché esisteva il rischio effettivo di inquinamento delle prove, mai per spettacolizzare l'indagine, ci mancherebbe».
Suppongo che non saranno mancati gli arroganti.
«Non è vero. Con tutti ho avuto un rapporto leale, di collaborazione anche; gli interrogatori li ho vissuti così e spero che così li abbiamo vissuti gli inquisiti».
Non ha paura?
«Di che?».
Beh, insomma, col quarantotto che lei ha creato, con le carriere che ha troncato come fa a stare tranquillo?
«Ho la tranquillità di chi non è andato oltre la misura e si è attenuto alle leggi e che quelle leggi è pagato per servire».
Però le hanno assegnato la scorta, a lei e alla sua famiglia, si vede che tanto tranquilli non sono tutti.
«Non è sbagliato prevenire, no?».
Ormai sono mesi, quando si chiuderà questa storia?
«Non dipende da me, né sono in grado di fare previsioni».
Il processo sarà interminabile, complicato. E a volte le cose complicate sono come bolle di sapone.
Per dirla con franchezza, non teme che si applicherà la vecchia equazione: tutti colpevoli uguale a tutti innocenti e buona notte al secchio?
«L'impostazione del processo tiene conto del nuovo codice, non sarà un gioco di intrecci, non c' è il pericolo di garbugli e ogni episodio sarà circoscritto. Andremo fino in fondo».
Glielo auguro. Me lo auguro. Lo auguro agli italiani. E che ogni città abbia presto il suo Di Pietro. Già, perché non ce n'è uno in ogni città? Vittorio Feltri
E ai Craxi disse: «L’arresto di Chiesa non fu politico». Disse il procuratore: «preso in flagranza di reato, la campagna elettorale non c’entra». Francesco Damato il 23 luglio 2019 su Il Dubbio. «Lui andò subito al sodo chiedendomi se non avessi letto ciò che aveva dichiarato Bobo Craxi, segretario cittadino del Psi, a commento dell’arresto di Chiesa: “si vede che è cominciata la campagna elettorale”». Eletto ripetuto dal 1972 a Milano, per quanto orgogliosamente fiorentino, nelle liste del Partito Repubblicano con la iniziale e pubblica sponsorizzazione pubblica dell’amico Indro Montanelli, che per solidarietà aveva lasciato il Corriere della Sera quando lui ne aveva perso la direzione, da presidente del Senato Giovanni Spadolini si faceva ospitare nelle sue visite ambrosiane dalla Prefettura. Dove spesso, in suo onore, veniva organizzato un incontro con le autorità locali e con una rappresentanza della stampa che sceglieva lui personalmente. Fu così che vi fui invitato, essendo direttore del Giorno, oltre che amico, qualche giorno dopo l’arresto del socialista Mario Chiesa, nel febbraio del 1992, e l’esplosione di quella che sarebbe stata chiamata Tangentopoli. Spadolini dall’anno prima era diventato senatore a vita, ma non aveva voluto perdere per questo i contatti con la “sua” ormai Milano. Fra le autorità presenti a quell’incontro c’era il capo della Procura della Repubblica Francesco Saverio Borelli. Che se ne stava un po’ in disparte, in un angolo della sala, a sorseggiare uno spumantino quando Spadolini mi prelevò da un gruppo di colleghi e mi accompagnò da lui per presentarmelo. Ebbi la sensazione, forse sbagliata, per carità, ma avvertita dopo che fummo rapidamente lasciati soli, che quella presentazione non fosse stata casuale. Appena allontanatosi il presidente del Senato, Borrelli mi chiese con un certo risentimento, che mi sorprese proprio perché non ci eravamo mai conosciuti, ma evidentemente motivato dai miei noti rapporti di amicizia con Bettino Craxi, se “a casa del presidente” fossero “impazziti”. Cercai di fare il finto tonto chiedendogli a quale “presidente” si riferisse. E lui andò subito al sodo chiedendomi se non avessi letto ciò che aveva dichiarato Bobo Craxi, segretario cittadino del Psi e consigliere comunale, a commento dell’arresto di Chiesa: “si vede – aveva detto pressappoco il figlio dell’ex presidente del Consiglio- che è cominciata la campagna elettorale” per il rinnovo delle Camere, per cui in effetti si votò il 5 aprile di quell’anno. Francamente a disagio per tanta franchezza , diciamo così, di Borrelli alle prese con un giornalista, gli chiesi che cosa potesse fargli pensare che Bobo Craxi avesse parlato in quel modo a nome del padre, peraltro commentando non solo l’arresto di Chiesa ma anche le reazioni politiche degli avversari del leader socialista. Ma Borrelli, con franchezza crescente e per me sempre più imbarazzante, mi lasciò quello che io ritenni, magari a torto anche questa volta, un messaggio. Che poi, alla prima occasione di un incontro personale a Roma, non fidandomi del telefono, vi confesso, riferii a Bettino senza ricevere una parola di commento. Colsi solo sul suo volto una smorfia di sorpresa e fastidio. “Vorrei che il presidente sapesse – mi aveva detto all’incirca Borrelli- che l’arresto di Chiesa è avvenuto in flagranza di reato, dopo mesi di indagini, per mia espressa volontà, proprio perché nessuno potesse commentarlo come ha fatto Bobo Craxi”, cioè strumentalizzandolo – mi parve di capire- in chiave politica. Non ebbi altre occasioni di incontro con l’allora capo della Procura della Repubblica di Milano. Né mi lamentai dell’accaduto con Spadolini, pur essendone stato tentato, per non metterlo in imbarazzo né come amico né come seconda carica dello Stato.
Su Borrelli è rissa tra Anm e avvocati. Luca Fazzo, Mercoledì 24/07/2019, su Il Giornale. Scontro frontale tra avvocati e giudici sulla figura di Francesco Saverio Borrelli, l'ex procuratore della Repubblica di Milano morto sabato dopo una lunga malattia. Accade che l'Unione delle camere penali (Ucpi), l'organismo che raduna i penalisti di tutta Italia, rompe il fronte delle commemorazioni commosse e va giù piuttosto pesante sulla figura di Borrelli e soprattutto sull'esperienza del pool Mani Pulite, parlando di «clima di terrore». E innesca a stretto giro di posta la replica indignata dell'Associazione nazionale magistrati, che accusa gli avvocati di avere in questo modo mancato rozzamente e volgarmente di rispetto alla figura dello scomparso. «Il triste evento non può costituire l'occasione né di servile ipocrisia, né di manipolazione della reale eredità storica e culturale di quella tempesta giudiziaria e politica che fu Mani Pulite», dice l'Ucpi. Dopo avere premesso che non sono in discussione né l'alta professionalità di Borrelli né la sua integrità morale, i penalisti ricordano come «Mani Pulite, lungi dal poter essere beatificata, è entrata nella storia del diritto italiano per il grave e diffuso arretramento delle garanzie processuali che quella inchiesta determinò, con estese influenze negative su tutto il sistema giudiziario, tuttora presenti». Oltre all'utilizzo del carcere per ottenere le confessioni, l'Unione ricorda «un meccanismo perverso ed estraneo alle regole che per alcuni si rivelò fatale: la diffusione mediatica dello stato dell'indagine per condizionare le scelte processuali». E ancora: «La spettacolarizzazione degli arresti, la lunga custodia carceraria di chi non ammetteva gli addebiti, crearono un clima di autentico terrore a cui vanno ricondotti i gesti estremi di quanti videro distrutta la propria dignità personale, professionale e familiare». La risposta dell'Anm non si fa attendere: «Sconcerta che un organismo rappresentativo dell'avvocatura italiana ignori le regole elementari del rispetto, persino nel giorno del lutto, che la migliore parte del paese, a cominciare dal presidente della Repubblica, ha dolorosamente manifestato per la scomparsa di un gigante della storia repubblicana, come Francesco Saverio Borrelli. E lo faccia, peraltro, con la più bieca e triste polemica, con un insieme di rozzi luoghi comuni, accostando volgarmente episodi e fatti, con un intento di polemica politica che sconcerta e offende la persona, la memoria, la storia, le istituzioni, e l'intera Magistratura». L'Anm ricorda peraltro come numerosi avvocati milanesi abbiano partecipato in prima fila alla cerimonia funebre dell'ex procuratore tenutasi a Palazzo di giustizia.
Che errore se il giudice vuole fare il giustiziere. Iuri Maria Prado il 25 luglio 2019 su Il Dubbio. Il teorema che si fonda sulla stortura di chi pretende un potere invasivo. Spetta alla polizia far rispettare la legge, non al magistrato. Tocca al parlamento e al governo il compito di rimediare alle ingiustizie. Caro direttore, ricordando la figura di Francesco Saverio Borrelli, il dottor Gherardo Colombo, celebre componente del manipolo che fu capeggiato dal primo, ha indicato il ruolo di cui dovrebbe farsi carico il buon magistrato: e cioè, scrive Colombo, “realizzare il compito della Repubblica (e delle sue funzioni) di rimuovere «gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana…» ”. È un modo apparentemente più soffice e visionario per riproporre quel che non molto tempo fa uscì di bocca a un altro esponente del cosiddetto “pool” di Mani Pulite, il dottor Piercamillo Davigo, poi abituale compagno di conferenze del medesimo Colombo: e cioè che compito del magistrato sarebbe di “far rispettare la legge”. Ma in uno Stato di diritto né quel ruolo né questo compito sarebbero di competenza del magistrato, e il fatto che invece essi siano in questo modo proposti e democraticamente imbandierati denuncia con efficacia terribile su quale base di irrimediabile stortura pretende di fondarsi il potere di indagare e giudicare le persone. Non sta al magistrato di far rispettare la legge. E non gli sta di rimettere in sesto una società eventualmente ingiusta. Perché a far rispettare la legge è messo il poliziotto: non il magistrato; e a rimediare all’ingiustizia sociale sono messi il potere parlamentare e di governo, così come l’azione privata e associativa nei luoghi della formazione civile e culturale: non i magistrati, non negli uffici delle indagini, non nelle aule dei processi. Credere che sia diversamente, come fanno mostra di credere, magari anche in buona fede, certi esponenti della magistratura, arma la convinzione che la società possa essere ricondotta a giustizia tramite una requisitoria dell’accusa pubblica o con la sentenza che accerta e sanziona un illecito. La convinzione, appunto, che con questi strumenti possano ( e dunque debbano) essere rimossi gli ostacoli di ordine economico e sociale che un sistema ingiusto e corrotto frappone al trionfo dell’uguaglianza tra i cittadini. L’idea che il magistrato sia quello che si mette al lavoro per rimuovere l’ingiustizia sociale, e che in questo cimento risieda la giustificazione del suo potere di accusare, di arrestare, di condannare, veramente frantuma le fondamenta dell’organizzazione civile e democratica, con un ripiego del sistema in senso autoritario tanto più temibile perché si ammanta di “legalità”. E a questo pessimo risultamento si giunge tanto più facilmente quando l’azione giudiziaria è assistita da un consenso fatto di adunate intorno ai Palazzi di giustizia, con la turba dei buoni cittadini che chiedono ai magistrati di farli sognare. È stato scritto ( sempre dal dottor Colombo) che Francesco Saverio Borrelli era “completamente indipendente dal potere politico”. È probabilmente vero. Come è vero tuttavia che di quel potere non aveva bisogno perché ne deteneva uno diverso e più vasto: il proprio, tutelato da quei cortei. La materia passiva dei costituzionalissimi esperimenti di giustizia sociale rivendicati dai militanti di Mani Pulite.
Ma il controllo di legittimità tutela la Repubblica. Nel ’92 proposi: chi confessa, restituisce i profitti e lascia la politica sia esente da pena. Gherardo Colombo il 25 luglio 2019 su Il Dubbio. Caro Direttore, a proposito delle osservazioni dell’avvocato Prado vorrei richiamare l’articolo 3, comma 2, della Costituzione, secondo il quale "E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese". Ora, chi è la Repubblica, chi ha il compito di rimuovere gli ostacoli…? Io credo che questa domanda sia cruciale. A rispondere ci aiuta l’articolo 1, secondo il quale l’Italia è una Repubblica democratica, e la sovranità appartiene al popolo ( che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione). La Repubblica è l’Italia. Cioè, non è ( solo) il Parlamento che fa le leggi, non è ( solo) il Governo, che amministra, non è ( solo) il Presidente della Repubblica, capo dello Stato che rappresenta l’unità nazionale, non sono ( solo) le istituzioni locali, ma è ( anche) l’ordine giudiziario al quale è attribuito nel settore civile, penale e amministrativo il controllo di legittimità degli atti e dei comportamenti. La Repubblica è anche i suoi cittadini, ai quali sono riconosciute prerogative specifiche e diritti soggettivi attraverso i quali ( capoverso dell’articolo 4) concorrere, tra le altre cose, al progresso materiale o spirituale della società. Se, dunque, la Repubblica sono i cittadini e le istituzioni, ne consegue che sia quelli che queste hanno il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono pieno sviluppo ed effettiva partecipazione. I cittadini hanno un compito duplice: specifico in ordine alla loro attività lavorativa, tanto più se si svolge nell’ambito istituzionale; generico per quel che riguarda il fatto stesso di essere parte della collettività. Per quel che riguarda l’ordine giudiziario, che è il centro dei rilievi dell’avvocato Prado, credo vadano in primo luogo distinti i ruoli del giudice e del Pubblico ministero ( dal procuratore della Repubblica). Secondo il codice di procedura penale il Pubblico ministero dirige le indagini e dispone direttamente della polizia giudiziaria ( art. 327); il Pubblico ministero e la polizia giudiziaria prendono notizia dei reati di propria iniziativa… ( art. 330). Queste disposizioni sono indirizzate a far sì che si verifichi se sono stati commessi reati e che, in caso affermativo, si sanzioni il responsabile.
Perché? Perché, tra l’altro, si prevenga la commissione dei reati, in altre parole perché si rispetti la legge. Direttamente, dirigendo la polizia giudiziaria, e acquisendo anche autonomamente le notizie di reato, il Pubblico ministero, anche di fatto ( vi ricordate il testo dell’art. 3 Cost.) persegue lo scopo di far rispettare la legge. Cosa che si ottiene, secondo il nostro sistema, estromettendo dal processo chi non ha responsabilità della trasgressione, ma sanzionando invece il responsabile. L’accertamento avviene tramite un percorso munito di una serie di garanzie, perché il risultato sia il più possibile coincidente con quel che si è verificato, e contemporaneamente si rispettino i diritti ( tutti) delle persone coinvolte. Ma lo scopo finale è quello di far sì che in futuro la legge sia rispettata ( efficacia deterrente della sanzione penale). La stessa funzione, con i dovuti distinguo, svolge il giudice: separare il grano dal loglio, perché la cittadinanza rispetti la legge. Il giudice ha un compito ulteriore, affidatogli dalla legge costituzionale che ha stabilito "le condizioni, le forme, i termini di proponibilità dei giudizi di legittimità costituzionale" ( art. 137 Cost.) La Corte Costituzionale, il giudice delle leggi, quello che così tanto ha contribuito a "rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale…" fin dalla sua istituzione, può essere attivata soltanto da un giudice. Il quale evidentemente concorre alla rimozione degli ostacoli di cui parla l’articolo 3 ogni volta che il pubblico ministero o il difensore gli propongono la questione di legittimità di una legge ed egli, ritenendola non manifestamente infondata e rilevante ai fini della decisione, la rimette al giudizio della Corte. Si chiude il cerchio, anche l’ordine giudiziario, e cioè il giudice e il pubblico ministero, concorre per la parte che gli spetta a rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla realizzazione delle persone. Certo concorre, insieme ai cittadini e a tutte le altre istituzioni, ciascuno per la sua parte. Altri profili che potrebbero stimolare riflessioni sull’esigenza di regolare i confini tra una istituzione e un’altra non sono stati toccati dall’avvocato Prado, e quindi non ne parlo. Vorrei però aggiungere che avendo fatto parte del “manipolo” (ahi, quanto una sola parola può rivelare il pregiudizio) capeggiato dal dottor Borrelli, già nel 1992 avevo suggerito l’idea di risolvere la situazione al di fuori del processo penale: chi racconta come si sono svolti i fatti, restituisce l’illecito profitto e si allontana per qualche tempo dalla vita politica va esente da pena. Il suggerimento non è stato accolto.
La magistratura non deve fare opposizione al sistema, ma stare di fronte alla legge. Giuseppe Gargani l'1 agosto 2019 su Il Dubbio. La tesi di Colombo non è corretta ed è pericolosa perché attribuisce una funzione al magistrato non conforme allo spirito e al contenuto delle norme del complessivo ordinamento giuridico. Gli articoli di Iuri Maria Prado e di Gherardo Colombo in polemica tra di loro, pubblicati su “Il Dubbio”, sono importanti e significativi perché rappresentano in modo profondamente diverso il ruolo del giudice nell’attuale ordinamento giuridico e nella società moderna. Prado sostiene che “non è compito del magistrato far rispettare la legge” perché “il potere di indagare e giudicare le persone” non può essere interpretato in maniera così distorta. Colombo invoca tanti articoli della Costituzione ma soprattutto l’art. 3 che attribuisce alla Repubblica il compito di “rimuovere gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, per attribuire al magistrato un ruolo complesso e multiforme. Il ragionamento di Colombo in estrema sintesi è che lo scopo finale del magistrato è quello di far rispettare la legge “separando il grano dall’olio” e in più ha un compito del tutto particolare di far ricorso alla Corte Costituzionale per verificare l’aderenza delle leggi alle norme costituzionali. La tesi di Colombo non è corretta ed è pericolosa perché attribuisce una funzione al magistrato non conforme allo spirito e al contenuto delle norme del complessivo ordinamento giuridico. Colombo in verità esplicita in maniera argomentata quello che sostiene dagli anni 80 quando teorizzò , a nome di “magistratura democratica ” che la magistratura era costretta “a fare opposizione al sistema” perché il consociativismo tra la DC maggioranza in Parlamento e il PCI minoranza, aveva affievolito l’opposizione e la contestazione al partito di maggioranza da parte dello stesso PCI. La magistratura cioè doveva farsi carico di contestare “il potere della maggioranza” attraverso la interpretazione della legge.
Questa valutazione “politica” della funzione del magistrato io l’ ho contestata sin da allora, e Colombo lo sa bene, ma oggi debbo dire che c’è una coerenza nel suo ragionamento che considero ancora più pericoloso, perché dopo la esperienza del pool di Milano degli anni ’ 90 a Colombo sembra ormai scontato questo ruolo omni comprensivo che rende il magistrato, a suo dire, “protagonista delle istituzioni”. Una funzione così indicata farebbe venir meno l’indipendenza della funzione giudiziaria per cui il magistrato non sarebbe più chiamato a reprimere la illegalità, funzione tipica e preziosa, ma a garantire la legalità cioè ad avere una funzione etico- politica. La funzione del magistrato è in contrasto con la funzione politica- etica, che si vuole attribuire: il reato crea un. vulnus nella società e la sanzione ricuce lo strappo e ricompone la comunità nella sua convivenza civile. Si tratta di un ruolo di garanzia di chi controlla e sanziona. Colombo naturalmente sa bene che c’è un problema enorme negli Stati moderni e non solo in Italia, ed è la funzione del giudice e del pubblico ministero. Un ruolo diverso è maturato lentamente in questi anni con l’indifferenza del legislatore: il Parlamento ha approvato leggi sempre più imprecise e generiche per assegnare un ruolo di supplenza alla magistratura, la quale non si sente più sottoposta alla legge, ma sta "di fronte alla legge", per ripetere una splendida espressione di un vecchio un giurista come Mastursi. Quando il Parlamento prevede il reato di "traffico di influenze illecite", costruito sul nulla e dà al magistrato il massimo di discrezionalità per definirlo a suo piacere, siamo alla follia legislativa che determina inevitabilmente conflittualità e rapporti cattivi tra le Istituzioni. Quando i costituenti scrissero la Costituzione la magistratura era altra cosa e la giustizia aveva un valore autonomo e residuale nel senso che la certezza del diritto e delle norme, in un preciso contesto codicistico, garantiva la terzietà del giudice, la sua scontata imparzialità e la sua estraneità rispetto alle passioni politiche. La espansione del potere giurisdizionale ha alterato l’equilibrio tra i poteri così come l’aveva concepito Montesquieu. È questa la questione della giustizia in Italia. Nessuno finora aveva spinto la riflessione fino ad immaginare che il magistrato avesse la funzione di far “rispettare la legge” perché il rispetto della legge viene prima della devianza e deve essere garantito dalla scuola, dalla conoscenza, dalla cultura, dai valori morali, dalla solidarietà civile che è il contrario dell’odio e del rancore. Quella idea non è solo di Colombo ma sostanzialmente di tutta la magistratura che si attribuisce un potere non controllato perché autonomo e autoreferenziale. Sta al Governo e al Parlamento correggere questo equivoco ma debbo riconoscere che anche governi più solidi, più maturi non hanno fatto niente per evitare questa deformazione. E questo è un problema serio e fondamentale della nostra democrazia esposta sempre a pericoli ricorrenti.
Borrelli, ovvero l’aristocratico delle manette. Tiziana Maiolo il 23 luglio 2019 su Il Dubbio. I funerali del procuratore capo di mani pulite, il pianto di Di Pietro. Quarantuno si sono suicidati, altri assolti: se il giudice soffrì lo fece in silenzio. La morte del procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli ha ricreato quel partito di laudatores formato da inquisitori, direttori di giornali e tv e politici codardi, che negli anni 1992- 93 mise in scacco la democrazia e inventò il populismo giudiziario. Al funerale della nostalgia abbiamo rivisto in lacrime Di Pietro, cui qualcuno ha prestato la toga che lui lascò nel ’ 94, abbracciato a Gherardo Colombo, il più aristocratico del pool, che sentenzia come la corruzione oggi sia peggio di ieri. Che è poi quel che pensa Davigo, e cioè che i politici ancora in libertà sono i colpevoli non ancora scoperti. L’unica novità, in questo clima di rimpianti, è che la “società civile”, quella che manifestava con le fiaccole gridando “Borrelli facci sognare” oggi alla commemorazione non c’è. Ha altri problemi. E non sappiamo se nella memoria sia rimasto il Borrelli dei suoi primi sessant’anni di vita, o quello di “Mani pulite”, orribile espressione da Stato etico. Sul procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli avevo scritto nel 1995 la prefazione all’” Autobiografia di un inquisitore” ( non autorizzata ) di Giancarlo Lehner. Un libro forte, che ricambiava senza troppi riguardi la ferocia dei metodi che avevano distrutto per via giudiziaria la classe politica di governo della Prima repubblica. Metodi e anche linguaggio. Chi avrebbe mai potuto prevedere che una persona definita “scialba”, ma anche “per bene”, piuttosto che mite, elegante e gentile e colta come il dottor Borrelli, si sarebbe trasformata in un capo procuratore che dice senza pudore una frase come questa: “Ma in fin dei conti è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?”. Il fine che giustifica il mezzo, sulla bocca di un inquisitore, può portare al paradosso, al di là delle intenzioni, di giustificare “qualunque” mezzo, fino alla tortura o alla pena di morte, per raggiungere lo scopo. La frase del procuratore aveva in sé anche una sua crudeltà, se pensiamo a quanti, dopo le inchieste di “mani pulite” e dopo una lunga e ingiusta carcerazione preventiva, sono stati assolti e ai quarantuno che si sono suicidati. La mia prefazione al libro l’avevo dedicata a uno di loro, quel Gabriele Cagliari che avevo incontrato nel carcere di San Vittore pochi giorni prima della morte, che era di buon umore perché pensava di uscire e che un’altra crudeltà aveva poi portato a un altro destino. Non ricordo che nessun magistrato della procura ( tranne Antonio Di Pietro ) abbia mai pronunciato parole di compassione nei confronti dei tanti morti di Tangentopoli, anche se oggi la figlia del procuratore Borrelli, in un’intervista al Corriere, dice che il padre soffrì per i suicidi. All’epoca, se soffrì, lo fece in silenzio. Eppure il Borrelli di “mani pulite”, il Borrelli che inneggiava alle manette come strumento per raggiungere la verità, il Borrelli che nel 1994 disse esplicitamente a Silvio Berlusconi “chi ha scheletri nell’armadio non si candidi”, e che subito dopo il trionfo di Forza Italia , si offrì al presidente Scalfaro per governare l’Italia “come servizio dci complemento”, non era il Borrelli che avevo conosciuto io. Prima. Ma prima era prima. Ero cronista giudiziaria fin dagli anni settanta, il palazzo di giustizia di Milano era la mia seconda casa. Da quando era diventato procuratore capo della repubblica, il dottor Borrelli mi vedeva ogni mattina e sapeva con certezza che la mattina successiva sarei stata lì, con la petulanza del cronista, a tormentarlo per avere notizie. Pure un pomeriggio, con sorpresa mia e dei miei colleghi, lui si avventurò nello scantinato di via Sottocorno dove c’era la redazione milanese del Manifesto, per una piccola precisazione su un mio articolo. Non una smentita, ma una puntualizzazione. E si era spinto fino al nostro sotterraneo, scusandosi molto, quasi con timidezza, solo per chiarire un punto di non so quale inchiesta. Quello era il Borrelli che mi era sempre piaciuto. Ma poi le inchieste di “mani pulite” hanno cambiato tutto, hanno cambiato le persone e prodotto un impazzimento generale. Fino al famoso “Resistere resistere resistere come sulla linea del Piave”, la sua relazione da procuratore generale all’inaugurazione dell’anno giudiziario del 2002, un vero proclama politico che diventerà, purtroppo, il suo testamento prima della pensione. In quello stesso discorso Francesco Saverio Borrelli contribuì a creare una situazione da stadio, con gente che applaudiva, magistrati in toga nera su indicazione del loro sindacato, politici che lasciavano l’aula, e lui che arringava, scagliandosi contro il governo. E mentre tuonava contro la separazione della carriere usando anche l’argomento più frusto, cioè il timore di una sottoposizione del pm all’esecutivo, nello stesso momento assumeva lui stesso, lui capo di tutti i pubblici ministeri, il ruolo del leader politico dell’opposizione. Non era mio amico, il dottor Borrelli, come lo era stato invece il suo vice Gerardo D’Ambrosio, che mi aveva deluso in modo più bruciante. Non era mio amico ma l’avevo sempre rispettato. E spero che, nei momenti in cui si comincia a fare i conti con la propria vita, nella sua memoria sia prevalsa la storia di se stesso come la persona gentile e mite che io avevo conosciuto e che un giorno si era avventurata nello scantinato del Manifesto. A me piacerebbe poterlo ricordare così. Anche se è difficile.
Quando uccisero la Prima Repubblica (senza manette). Il Giornale, Mercoledì 24/07/2019. Massì, dai, sarà il solito brano da idioti che dura tre mesi e poi ciao. Quando è uscito Hanno ucciso l'Uomo Ragno, le aspettative della critica erano pari a zero. In compenso quelle del pubblico erano sottozero perché nessuno li conosceva, questi 883, mentre le folate del grunge alla Nirvana stavano demolendo gli anni Ottanta e i paninari sembravano già reperti storici. Poi, ovvio, il brano è diventato un tormentone e oggi lo conoscono a memoria anche quelli che allora per carità, ma che cos'è sta robina qua. Gli 883 erano due ragazzi pavesi che in realtà amavano il rock e il rap e immaginavano di finire dietro una scrivania dal lunedì al venerdì. Già, così si immaginavano Max Pezzali e Mauro Repetto. E invece, guarda il gioco delle coincidenze, Hanno ucciso l'Uomo Ragno è diventata l'involontaria colonna sonora di una delle nostre fasi più turbolente del Dopoguerra, incastrandosi quasi alla perfezione nel marasma istituzionale e sociale dei primi anni Novanta. «Solita notte da lupi nel Bronx, nel locale stanno suonando un blues degli Stones». E vai con un suono di sirene. Hanno ucciso l'Uomo Ragno è stato pubblicato il 10 febbraio 1992, un giorno qualunque di un mese qualunque in concomitanza del Festival di Sanremo. Però - e qui la malizia del caso è perfida - sette giorni dopo, ossia il 17 febbraio, la polizia arresta Mario Chiesa al Pio Albergo Trivulzio a Milano, la casa di riposo dei cosiddetti «meno abbienti». In tasca aveva una bustarella da sette milioni di lire e la maledizione di diventare il primo politico a battezzare Tangentopoli. Mario Chiesa non è altro che «un mariuolo» per Bettino Craxi ma diventa subito il bersaglio di quelli che, se ci fossero stati i social, sarebbero stati chiamati «haters». È il tappo che salta dalla magnum della corruzione. Antonio Di Pietro diventa il Robespierre della rivoluzione di Mani Pulite, mentre Francesco Saverio Borrelli gestiva il «club dei Giacobini» che per qualcuno stava realizzando un colpo di Stato destinato a stravolgere completamente i vertici istituzionali e il tessuto politico italiano. «Il guercio entra di corsa con una novità, dritta sicura si mormora che i cannoni hanno fatto bang». Per carità, il tormentone degli 883 non c'entra nulla con Tangentopoli, è stato scritto prima di qualsiasi manetta, così come non c'entra nulla con i lutti disastrosi e indimenticabili di quell'anno, gli assassinii di Falcone e Borsellino e delle loro scorte, tra maggio e luglio. «Il brano è stato scritto molto tempo prima delle stragi di mafia» ha confermato Max Pezzali sganciandosi per l'ennesima volta da qualsiasi coinvolgimento «impegnato». Non a caso, anche per questo gli 883 sono diventati in tempo quasi reale il bersaglio preferito dei puristi del pop, dei soliti tromboni per i quali una canzone non ha senso a meno che non sia impegnata. La leggerezza, si sa, subisce sempre giudizi pesanti. Però i brani che resistono per decenni sono spesso quelli che, anche involontariamente, intercettano lo zeitgeist, lo spirito del tempo, la sensazione spesso ancora impercettibile di essere alla vigilia di un cambiamento. «L'Uomo Ragno rappresentava la purezza adolescenziale ammazzata dal mondo degli adulti» ha spiegato Pezzali, uno che, molto prima di Twitter, ha avuto il dono della sintesi. «Hanno ucciso l'Uomo Ragno chi sia stato non si sa, forse quelli della mala, forse la pubblicità». Nel 1992 senza dubbio è stata ammazzata anche la Prima Repubblica, o magari è morta di morte naturale, e mentre il brano iniziava lentamente a farsi luce in classifica, le manette iniziavano a tintinnare. Tanto per capirci, Max Pezzali ha raccontato che Hanno ucciso l'Uomo Ragno è nato quasi per caso dopo «un panino piccante pancetta e tabasco». «Il testo non veniva e allora uscimmo a caccia di ispirazione. Poi la sera, di rientro a casa, mia madre, aveva preparato il minestrone che, unito al tabasco e alla pancetta non vi dico la sensazione. All'improvviso mi è venuta una frase Hanno ucciso l'Uomo Ragno, chi sia stato non si sa. A quel punto sono corso in cameretta e la canzone è nata da sola». Spontaneità e provincia. Buoni sentimenti ed epica da fumetto. In fondo qui ci sono alcuni degli ingredienti di uno dei più grandi successi commerciali degli ultimi decenni, senza dubbio il più bombardato dalla critica perché non impegnato, non schierato a sinistra, non referenziale ma nemmeno autoreferenziale. Semplicemente Max Pezzali raccontava la vita al di là della metropoli, nei piccoli centri dove c'erano ancora le «compagnie» di amici, dove il «deca» era l'unità di misura del sabato sera, dove «non me la menare» era il claim preferito del (post) adolescente ancora in cerca d'autore. Gli 883 hanno intercettato questo pubblico, con un successo straordinario. Il disco ha venduto seicentomila copie e il brano è andato al numero uno in classifica per settimane. Mentre i telegiornali raccontavano lo sfacelo di uno Stato e la terrificante prova di forza della mafia, c'erano due ragazzi pavesi che smontavano i luoghi comuni dei scintillanti anni Ottanta.
Gli 883 erano gli anti yuppies ma non erano neanche grunge. Non sognavano Wall Street ma neppure vestivano camicie a quadretti e si facevano crescere i basettoni. Erano figli della provincia nei quali non vedevano l'ora di riconoscersi anche i figli della metropoli. In ogni caso questo tormentone, che partecipò al Festivalbar e vinse Vota la voce, è diventato uno dei simboli di un'epoca e basta vedere il videoclip per capirlo (tratto dal film Jolly Blu). C'è Max Pezzali giovane e spaurito che viene presentato dal suo manager (Saturnino) al capo della casa discografica (Jovanotti). Dopo scene di ordinaria managerialità (telefonate, caos, pose da megadirettore), Pezzali riceve il via libera per pubblicare il disco e Saturnino gli conferma di essere «un ragazzo fortunato» (come il brano che Jovanotti aveva appena pubblicato). Un'ingenua sequenza da musicarello. Però il testo era inconsapevolmente perfetto: «Il crimine non vincerà ma nelle strade c'è il panico ormai, nessuno esce di casa, nessuno vuole guai e agli appelli alla calma in tv adesso chi ci crede più». È un tormentone pop, potrebbe sembrare la cronaca di un'epoca.
Borrelli ha processato il “sistema” e alimentato l’avversione verso la politica. Giuseppe Gargani il 24 luglio 2019 su Il Dubbio. Si è trovato con un “pool” acclamato dalla folla e forse se ha poi riconosciuto che le indagini possono essere state “esagerate” vuol dire che non è riuscito a guidare i suoi sostituti. La scomparsa di Francesco Borrelli procuratore della Repubblica di Milano negli anni 90, all’epoca di Tangentopoli, ci rattrista come la perdita di uomini significativi che hanno influito sul corso della storia, ma al tempo stesso ci consente di poter dare un giudizio più distaccato e sereno sul suo operato. Ho conosciuto Borrelli e ho avuto con lui incontri pubblici e privati: non posso non riconoscere il suo stile, la sua sensibilità, e in particolare la sua sensibilità musicale che apprezzavo perché la raffrontavo alla mia per avere anch’io da giovane studiato pianoforte e per essere cultore di musica classica. Ma la domanda che dobbiamo porci è: Borrelli fu un magistrato indipendente pur essendo pubblico ministero, e la sua azione fu in linea con il tradizionale metodo di fare indagini secondo il codice? Questa domanda complessa merita una risposta che è stata già data da Gherardo Colombo suo collaboratore il quale ha esaltato la sua indipendenza perché ricercava anche di prove a favore dell’indagato?! Ho scritto negli anni scorsi tante pagine sull’argomento e ho dato giudizi molto severi su quella indagine che andava sotto il nome di “mani pulite” e non posso che confermare un giudizio che ormai è storico e cioè: tutta l’attività investigativa non era riferita solo agli indagati presi singolarmente, ma alla corruzione come tale, ad un costume ritenuto corrotto. La grande inchiesta del secolo doveva dimostrare appunto che il “sistema” era corrotto e quindi andava liquidato. Le indagini furono rivolte al “sistema” nel suo complesso, al comportamento generale dei partiti più che al singolo indagato e alle sue responsabilità personali. Borrelli si è trovato in un periodo di passaggio tra la tradizionale funzione della magistratura e un ruolo profondamente diverso che si imponeva, non solo in Italia, perché già in quegli anni era superato il dettato costituzionale che indicava nella magistratura “un ordine autonomo”. Per ragioni complesse istituzionali certamente non banali, che non posso ripetere in un commento breve, la magistratura è diventata un “potere”. La magistratura per tanti anni è stata interprete fedele della legge, e ha costituito un “potere neutro”. L’equilibrio dei poteri si è attuato in questo modo: la magistratura è stata un “ordine” “indipendentemente dagli altri poteri” ma non un “potere”. Intorno agli anni 80 la magistratura ha avuto una evoluzione: la giurisprudenza si è imposta come riferimento principale, come faro per i giudici, la certezza della legge si è attenuata, le norme incerte, in capaci di regolare i rapporti sociali hanno consentito che il legislatore delegasse tutte le interpretazioni e le decisioni al magistrato, e l’” ordine” ha lasciato il posto al “potere”. Si trattava forse di un’evoluzione inevitabile. La magistratura prendeva atto che ad essa era stata devoluta dalla legislazione una serie di compiti che non erano suoi propri e che investivano la funzione politica più che quella giurisdizionale e di conseguenza il suo controllo giurisdizionale si trasformava in un controllo politico e incideva sulla vita politica dello Stato. Queste sono state le teorizzazioni di “magistratura democratica“! Questa la premessa generale. Borrelli ha segnato questo passaggio e processando il “sistema” ha alimentato l’avversione dei cittadini nei confronti della politica e ha allontanato i cittadini dalle istituzioni. La convinzione ancora presente nell’opinione pubblica è che la corruzione sia generalizzata cioè appunto sistemica. Se Gherardo Colombo e Armando Spataro due giuristi raffinati e colti ancora oggi ci dicono che il “sistema” era corrotto, vuol dire che non c’è una valutazione retrospettiva e una revisione autocritica del metodo utilizzato per le indagini che erano rivolte a scoprire quale collegamento vi fosse tra tutta la classe dirigente e la carcerazione preventiva serviva per costringere alla confessione e alla delazione.
Riconoscere queste “imprudenze”, che lo stesso Borrelli pare abbia riconosciuto servirebbe a “mettere a posto la storia” e a riconoscere che la piazza, la scatenata opinione pubblica, ha avuto influenza notevole, ha osannato un “angelo sterminatore” nella persona di Di Pietro che doveva, ahimè! fustigare i costumi!!? Come non riconoscere che non era il sistema corrotto, ma erano corrotte singole persone, se le sentenze di condanna a seguito di quei processi sono ben… poche! Borrelli si è trovato con un “pool” acclamato dalla folla e forse se ha poi riconosciuto che le indagini possono essere state “esagerate” ( che nella fase istruttoria di un processo sono gravi) vuol dire che non è riuscito a guidare i suoi sostituti. Ma ho una testimonianza da raccontare che conferma le mie osservazioni. In un convegno alla Camera dei Deputati negli anni 90, accorsato da giuristi e politici Borrelli disse una cosa che al momento mi procurò perplessità ma grande afflato umano. Disse una frase che ha poi ripetuto: “Nonostante l’azione della Procura di Milano si continua a rubare“. Gli risposi che 2000 anni fa è venuto sulla terra un Signore che si chiamava Gesù che voleva redimere l’uomo, il quale resta pieno di peccati, costituisce “il legno storto dell’umanista“per ricordare il titolo di un grande scrittore. Dopo il convegno mi disse di aver apprezzato il mio esempio paradossale ed io gli dissi che l’espressione da lui usata era una voce dal “sen fuggita“, che indicava una presa di posizione morale, etica e non giuridica. In quell’occasione gli chiesi di darmi un aiuto come presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati per depenalizzare il finanziamento pubblico ai partiti che era la spia per trovare la corruzione ma era altra cosa dalla corruzione, “se agite solo sulla corruzione sarà più limpida e trasparente la vostra azione”; gli dissi. La verità è che il luogo comune ormai diffuso e pericoloso che il magistrato “garantisce la legalità” ha contribuito da allora ad alterare la funzione del magistrato che “lotta” per far vincere il bene sul male: funzione molto pericolosa perché etica e non giuridica. In definitiva ho sempre sostenuto che il pubblico ministero è una parte nel processo che accusa, come l’avvocato che difende, e il giudice deve essere terzo ma entrambi dovrebbero avere una responsabilità istituzionale che è necessaria per ogni funzione di qualsiasi natura, per evitare che il “legno storto” immagini di essere dritto e quindi assoluto. Era difficile resistere alla eccitazione oltre misura dell’opinione pubblica che reagiva appunto perché convinta che non si trattava di singoli responsabili ma di un “sistema di corruzione generalizzata”, ed infatti una frase di Borrelli riportata in questi giorni che “la gente deve sapere che c’è un coefficiente di successo nella nostra attività legata al consenso” è estremamente rilevatrice della situazione nella quale si operava in quel periodo. Purtroppo non allora ma oggi la corruzione, a differenza di quello che pensa Colombo, è diventata “sistema” perché diffusa, alla portata di tutti, tant’è che c’è assuefazione e rassegnazione a differenza degli anni 90 e l’antipolitica e il populismo sono al governo del paese, e il rapporto tra i poteri, come possiamo ben notare, è squilibrato. Le conseguenze di quelle azioni giurisdizionali sono queste, forse, non immaginate da Borrelli, ma assai concrete e deleterie.
VE LA DO IO “MANI PULITE”. Mani pulite, anche Francesco Saverio Borrelli partecipò al circo mediatico che distrusse la classe politica. Lettera di Fabrizio Cicchitto a “Libero quotidiano” il 24 luglio 2019. Caro direttore, mi consenta di aggiungere alcune riflessioni al quadro che in questi giorni Libero ha fatto di Mani Pulite. Certamente la morte richiede rispetto, ma molte rievocazioni, a mio avviso, sono state acritiche. È stato ricordato che lo stesso Borrelli nel 2011 aveva espresso un giudizio critico su ciò che era accaduto dopo Mani Pulite: «Chiedo scusa per il disastro seguito a Mani Pulite, non valeva la pena buttare all'aria il mondo precedente con quello attuale». Perché le cose sono andate in questo modo? A nostro avviso per due ragioni di fondo: per il carattere unilaterale di Mani Pulite e perché essa comunque comportò una distruzione di classe politica e di partiti che non è stata affatto sostituita da una nuova classe dirigente superiore a quella della prima Repubblica in termini di qualità, di preparazione, di cultura di governo e anche di onestà. Specie dopo la fase dell' unità nazionale Tangentopoli era un sistema di finanziamento irregolare dei partiti che coinvolgeva sia tutti i grandi gruppi imprenditoriali privati e pubblici (Fiat e Cir compresi) sia tutti i partiti. Invece la gestione giudiziaria e mediatica del pool, senza eccezione alcuna (quindi Borrelli e Di Pietro compresi, mentre Tiziana Parenti fu espulsa proprio per questo), fu quella di concentrare il fuoco contro il Psi di Craxi, contro i partiti laici e contro il centro-destra della Dc, salvando invece il Pds e la sinistra democristiana. Le ragioni per cui il pool dei pm si è mosso in questo senso sono state diverse per i suoi protagonisti. Per Borrelli si trattava di assicurare comunque al pool un sostegno politico. Ci fu un momento nel quale egli accarezzò il progetto che un' élite di magistrati avrebbe potuto essere chiamata dal presidente della Repubblica a prendere in mano la guida politica del Paese, ma si trattò di una suggestione durata lo spazio di un mattino. Invece per parte sua il viceprocuratore D'Ambrosio giocò una partita politica in difesa di un Pci-Pds che di finanziamento irregolare di tutti i tipi si era alimentato dagli anni '40 in poi. Fu D' Ambrosio a dichiarare a un certo punto che Mani Pulite era conclusa perché erano state accertate le responsabilità della Dc e del Psi. Non a caso il Pds testimoniò la sua riconoscenza a D'Ambrosio eleggendolo più volte parlamentare. Come è stato scritto su Libero Mani Pulite, però, non ci sarebbe stata senza il ruolo dirompente svolto da Di Pietro. L'azione di Di Pietro, però, non si limitò a quello che è stato ricordato. Egli rovesciò nella sostanza alcuni aspetti fondamentali della procedura. Il messaggio che egli dava a imprenditori e avvocati spesso era il seguente: fatemi i nomi dei politici o butto la chiave. Questo tipo di approccio per un verso fu assai efficace, ma per altro verso attraverso di esso avvennero molte deviazioni sul terreno dell' unilateralità e dell' arbitrio, con conseguenze disastrose per lo stato di diritto. La testimonianza massima di tutto ciò è stata offerto dalla vicenda Sama-Cusani-Pci. Sama e Cusani sono stati condannati come corruttori avendo portato una valigetta con circa 600 milioni di lire alla direzione del Pci. Siccome però non c'è stata la prova provata che i dirigenti del Pci con i quali essi avevano un appuntamento avessero anche ricevuto la valigetta ecco che i corrotti sono rimasti senza nome. L'impostazione giudiziaria della vicenda allora fu così unilaterale che in sede di processo il presidente Tarantola addirittura rifiutò l'escussione di Occhetto e di D' Alema come testimoni. Non credo che se Sama e Cusani si fossero recati con una valigia contenente del denaro nella sede di un altro partito avendo un appuntamento con alcuni dirigenti questi l' avrebbero fatta franca al punto da non ricevere neanche un avviso di garanzia. Mi consenta di osservare, caro direttore, anche se so che questa riflessione non è condivisa da molti nel suo giornale, che non a caso l' Italia è stato l' unico Paese in Europa dove ben cinque partiti sono stati distrutti e spazzati via dalla scena politica non per il voto degli elettori, ma per la "sentenza anticipata" del circo mediatico-giudiziario e che oggi il nostro Paese è caratterizzato da una maggioranza di forze politiche in un caso sovranista nell' altro populista.
· Cirino Pomicino.
Cirino Pomicino: «Mostro a tutti la foto del mio vecchio cuore». Pubblicato domenica, 21 luglio 2019 da Vittorio Zincone su Corriere.it. Dopo avermi fatto accomodare nel salotto della sua abitazione romana, si infila in una stanzetta e ne esce con in mano una locandina. C’è stampata l’immagine di un cuore, un cuore vero. Chiedo: che cos’è? Replica: «È il mio vecchio cuore democristiano. Dopo il trapianto, nel 2007, me lo hanno portato in un barattolo, l’ho fotografato e gli ho detto addio». Paolo Cirino Pomicino sta per compiere ottant’anni e porta nel petto un cuore sessantatreenne. Dal 1979 in poi ha avuto vari infarti, malori, operazioni. L’ultima nel gennaio scorso gli ha portato un nuovo rene. Qualche anno fa, vedendolo ancora arzillo a parlar di politica in tv, lo scrittore Fulvio Abbate sentenziò: «Se Andreotti era il Divo, Paolo Cirino Pomicino è l’Eterno». Pomicino ha surfato sulle onde d’oro degli anni Ottanta da diccì di rito andreottiano. Ha attraversato la Seconda Repubblica navigando nell’arcipelago di micro-isole centro-centriste. Ora osserva la Terza traballare, mantenendo il culto della Prima: «La selezione della classe dirigente era darwiniana e non cortigiana, come oggi». Alle ultime Europee sono spuntati gossip su un suo accordo elettorale con il democratico Nicola Zingaretti. Lui nega: «Gli ho solo detto che avrei votato Pd». Ma ammette di apprezzare la democrazia interna piddina e l’idea zingarettiana di una Costituente delle idee. Quando gli faccio notare che appena il suo nome è stato accostato al Pd sono spuntati articoli che citavano i suoi guai giudiziari tangentopolisti, Pomicino comincia a elencare i processi che lo hanno visto assolto e a descrivere i suoi diciassette giorni di carcere: «Ho le spalle larghe». Spiega: «Rivendico di aver contribuito a finanziare la politica democratica del Paese. Nessuno dei deputati e dei senatori di allora, si è arricchito. I soldi servivano per le campagne elettorali. Una volta ero in tv con l’ex pm Antonio Di Pietro e ho sbottato: “Facciamo un confronto tra il mio e il tuo patrimonio. Tra i nostri redditi. Siamo stati entrambi dipendenti pubblici, ministri della Repubblica, parlamentari... Vediamo chi di noi ha rubato, se qualcuno ha rubato”. Calcoli che né io né le mie figlie abbiamo case di proprietà, nemmeno a nostra insaputa». Sbuffa: «I partiti ormai non hanno più una bussola, una visione rispetto alle sfide del Terzo Millennio».
Matteo Salvini, leader della Lega, una visione sembra averla: meno tasse, più muri.
«Salvini? È il giorno per giorno come cultura di riferimento. È il bullismo eletto a chiave di volta dell’azione politica».
Agli italiani piace: ha appena preso il 34% alle Europee.
«Sarà travolto dalla realtà. Oggi è la realtà l’opposizione più efficace al governo».
Salvini è maestro di comunicazione politica.
«Anche il male si può fare bene. Faccio una valutazione statistica: tutti i segretari di partiti personali nello spazio di pochi anni sono caduti. Un partito è tale se ha un gruppo dirigente interfungibile».
Cioè?
«Adatto a più ruoli. Nei partiti personali solo il leader può aspirare alla carica di Presidente del Consiglio. Noi avevamo sei o sette nomi adatti alla premiership, otto o nove per gli Esteri...».
Noi chi?
«La Dc. E in generale i partiti della Prima Repubblica. La nostra regola era che chi stava al governo non poteva avere incarichi di partito».
Amintore Fanfani e Ciriaco De Mita furono contemporaneamente segretari della Dc e Presidenti del Consiglio.
«In maniera transitoria».
Luigi Di Maio è Capo politico del M5S, vice premier, ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico.
«Il nulla, sintatticamente imperfetto».
C’è chi sostiene che Di Maio abbia un animo democristiano.
«Lo ha detto Bruno Vespa perché Di Maio usa toni più moderati di Alessandro Di Battista. Ma forse Vespa ha dimenticato l’ideale diccì. In realtà credo che la Lega e il M5S abbiano elettorati diversi ma seguano lo stesso modello autoritario: padri-padroni e poca classe dirigente. Lo sa che in Italia sono ventisette anni che l’economia è retta da un tecnico? L’ultimo ministro politico sono stato io».
La vulgata vuole che i governi diccì della fine della Prima Repubblica siano quelli che hanno causato l’esplosione del debito pubblico.
«Non è vero. Qualche anno fa Mario Draghi mi chiamò per dirmi che secondo la società italiana degli economisti il primo governo che ha cominciato a risanare i conti pubblici è stato quello in cui io ero ministro del Bilancio, con Andreotti premier».
Quando la presiedeva lei, la Commissione Bilancio di Montecitorio era soprannominata “sportello Pomicino”.
«Non lo era. Chiedevo ai partiti, anche a quelli di opposizione, quali fossero i loro punti irrinunciabili, e pur mantenendo la linea economica della maggioranza, cercavo di accontentare tutti. È un principio degasperiano: quando si governa, non lo si fa solo pensando ai propri sostenitori, ma a tutti».
Sta per compiere ottant’anni. Un’immagine per ogni decade vissuta. Da zero a dieci anni...
«Mia madre che mi sorprende sotto a un tavolo mentre cerco di strozzarmi a causa di una delusione scolastica».
Da dieci a venti.
«Il silenzio che cala in chiesa perché io, balbuziente, non riesco ad andare avanti nella lettura del Vangelo».
Dai venti ai trenta.
«Il mio primo intervento pubblico, a occhi chiusi».
Da politico?
«No, ero assistente neuro-chirurgo e parlavo a un’assemblea di medici. Entrai in politica nel 1970, come consigliere comunale a Napoli».
Dai trenta ai quaranta?
«Il primo congresso da delegato Dc, nel 1973. Il garbo con cui Fanfani fa capire ad Andreotti che è stato fregato durante una riunione notturna».
Dai quaranta ai cinquanta?
«L’apertura della prima conferenza europea dei presidenti delle Commissioni Bilancio. E la prima partita della Nazionale di calcio dei parlamentari».
Cinquanta-sessanta.
«I processi. Ne ho avuti quarantadue e ho assistito, anche intervenendo, a tutte le udienze».
L’ultima decade.
«Il matrimonio con Lucia, nel 2014».
Lucia Marotta, che ha ventisette anni meno di Pomicino, ogni tanto si affaccia nel salone dove si svolge l’intervista. Quando si sono conosciuti era amica di una delle due figlie che lui ha avuto dal primo matrimonio. Pomicino: «Abbiamo saltato i dieci anni tra i sessanta e i settanta. L’immagine...».
Davo per scontato che fosse il trapianto del cuore.
«Ci sono anche due elezioni vinte da anginoso».
Lei è in contatto con la famiglia della persona che le ha donato il cuore?
«Certo. Siamo amici. Ci vediamo con la figlia del donatore nel giorno dell’anniversario del trapianto. È un pranzo pieno di pianti».
· Gianni De Michelis è morto.
Da Lettera 43 l'11 maggio 2019. Gianni De Michelis è morto. Dal 1976 al 1993 deputato socialista, più volte ministro e protagonista della Prima Repubblica, si è spento all'età di 78 anni. Nato a Venezia il 26 novembre 1940, laureato in Chimica industriale, De Michelis è stato docente universitario. La sua carriera politica inizia nel 1964 con l'elezione a consigliere comunale del capoluogo veneto e con il successivo incarico di assessore all'Urbanistica. Nel 1969 diviene componente della direzione socialista e poi responsabile nazionale dell'organizzazione del partito. Ricopre più volte l'incarico di ministro: alle Partecipazioni statali nel secondo governo Cossiga e nel governo Forlani, riconfermato alla guida dello stesso dicastero nei governi Spadolini e nel V governo Fanfani. Diventa poi ministro del Lavoro e della previdenza sociale durante i due governi presieduti da Craxi. Nel governo De Mita è vice presidente del Consiglio e ministro degli Affari esteri nel VI governo Andreotti nel 1989, anno della caduta del muro di Berlino e della conseguente riunificazione tedesca, che De Michelis considera «la pietra angolare sulla quale costruire il nuovo edificio di un'Europa unita». Da ministro degli Esteri deve affrontare l'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq il 2 agosto 1990. L'Onu impone l'embargo economico al Paese invasore e nell'ambito di questa iniziativa l'Italia manda tre navi nel Golfo Persico, cui si aggiungono otto aerei da guerra e una fregata. Nell'aprile 1991 Andreotti, alla guida del suo VII governo, riconferma De Michelis alla Farnesina. Sempre da ministro degli Esteri, De Michelis ha firmato per l'Italia il Trattato di Maastricht. Molti tuttavia lo ricordano per le sue passioni mondane: amava andare in discoteca, corteggiare le donne e portava i capelli lunghi. Dopo il coinvolgimento in Mani Pulite e il ritiro dalla politica attiva, viveva ai Parioli circondato dai libri. Suo il motto più volte citato: «La cultura è il petrolio d'Italia e deve essere sfruttata».
Da cinquantamila, sito a cura di Giorgio Dell’Arti. Venezia 26 novembre 1940. Politico. Dal 1976 al 1993 deputato socialista. «Se Craxi era Garibaldi, io ero il suo Cavour».
Primogenito di Turno e Noemi Borghello, entrambi impiegati alla Montedison di Porto Marghera. Tre fratelli e una sorella. Laureato in Chimica industriale, fu docente universitario fino a quando non venne assorbito dalla carriera politica, che iniziò nel 1964: primo incarico, consigliere comunale di Venezia, poi assessore all’Urbanistica. Nel 1969 entrò nella direzione del Psi, poi fu responsabile nazionale dell’organizzazione del partito. Ministro delle Partecipazioni statali nel Cossiga II, Forlani, Spadolini I e II, Fanfani V (1980-1983), del Lavoro e della Previdenza sociale nel Craxi I e II (1983-1987), degli Esteri nell’Andreotti VI e VII (1989-1992), vicepresidente del Consiglio nel De Mita (1988-1989). Dal 2001 al 2007 segretario del Nuovo Psi, dal 2003 al 2009 parlamentare europeo, nel 2006 fu eletto deputato (ma lasciò il posto a Lucio Barani). Nel 2007, duramente contestato dalla componente di Stefano Caldoro, abbandonò il Nuovo Psi. Alle elezioni politiche del 2008 si candidò con il Partito socialista di Boselli, che però non è entrato in Parlamento. Nel luglio 2008 entrò a far parte del Partito Socialista di Riccardo Nencini. Nel 2009 divenne consulente di Renato Brunetta, ministro per la Pubblica Amministrazione durante il Governo Berlusconi.
«È stato un potente. Ma veramente potente. Ha fatto parte di quell’arroganza politica e di quella supponenza partitica che è stata spazzata via dal ciclone Mani pulite. Al contrario di molti altri non si è nascosto in una tana. Ma non ha nemmeno sgomitato per restare a galla. Ha scelto il basso profilo» (Claudio Sabelli Fioretti).
«Padre ingegnere, madre chimica. Si conobbero in fabbrica, a Porto Marghera. Eravamo tutti protestanti, mio nonno era pastore metodista. Io a 12 anni mi sentivo monarchico, solo Dio sa perché. Per due anni fui anche della Giovane Italia. Poi diventai radicale. Nel 1960, a 19 anni, mi iscrissi al Psi. La politica attiva la scoprii nell’Ugi, l’Unione goliardica italiana. La mia prima esperienza fu il congresso di Palermo. Io stetti dalla parte che sconfisse Craxi, da sinistra, ed eleggemmo Militello».
«È un uomo che ha una visione. Quasi non importa quale, perché a colpire è il modo in cui la presenta, più che il contenuto. È anche l’uomo intemperante e smodato che ha contribuito non poco a dare del Partito socialista quell’immagine corriva che l’ha accompagnato alla distruzione. È riemerso da una lunga penitenza, dopo essere stato inquisito e isolato, buttato fuori dal ring della politica e costretto a far da spettatore. Lui, che era stato ministro per più di un decennio, aveva frequentato i grandi del mondo, agitato le notti della capitale e riso in faccia ai benpensanti» (Stefania Rossini).
Nota la sua passione per le discoteche, nel 1988 per Mondadori scrive Dove andiamo a ballare stasera? Guida a 250 discoteche italiane. «Io mi differenziavo dagli altri. Andavo a ballare. Giravo con belle donne. Perché no? Ero single. Avevo un comportamento trasparente. Ritenevo più disdicevole l’ipocrisia. Io vivevo a Roma e conoscevo i comportamenti di quasi tutti i miei colleghi di qualsiasi partito, maggioranza e opposizione. Tutti ipocriti».
«Onestamente, io devo ringraziare Bin Laden. Senza l’11 settembre sarei rimasto una non persona, quella costruita da Mani pulite e scomparsa da ogni radar. Dopo le Torri Gemelle anche il cittadino più distratto ha cominciato a sentire di nuovo il bisogno di competenza, a desiderare di sentir ragionare. Non così il ceto politico. È stato un bel giorno quando ho cominciato a ricomparire nei radar e a essere invitato in televisione». «Ho fatto il ministro dodici anni. Ho ricevuto un migliaio di lettere anonime. L’ottanta per cento erano sui miei capelli».
«Veder Gianni mangiare è come leggere Rabelais: mangia per tre, quattro, cinque uomini della sua età e dei suoi impegni» (un’amica prima che si mettesse a dieta).
Due mogli: da Francesca Barnabò, sposata nel 1965, ha avuto Alvise. «Se n’era già andata nel ’78, in pieno femminismo, facendomi scontare pesantemente il mio carattere farfallone». Nel 1997 sposò la commercialista Stefania Tucci, 25 anni più giovane, matrimonio durato solo due anni: «Aveva scelto una specie di pensionato che divideva il mondo in quadratini. Quando ho ricominciato a far politica, non ha più funzionato. Ma restiamo grandi amici».
«Oggi porta i capelli corti, niente più riccioli sulle spalle, qualche chilo in meno e abita in un piccolo ed elegante appartamento in via Archimede, ai Parioli» (Fabrizio Roncone).
L' Italia piange la scomparsa di Gianni De Michelis. Antonello de Gennaro l'11 Maggio 2019 su Il Corriere del Giorno. Si è spento Gianni de Michelis, ex esponente di spicco del Psi di Craxi, di cui è stato a lungo vicesegretario e capogruppo alla Camera. Dal 1989 al 1992 De Michelis è stato ministro degli Esteri, firmando tra l’altro i Trattati di Maastricht. Tra gli altri incarichi di governo anche quello di Ministro del Lavoro. Veneziano, aveva 78 anni. Questa notte a 78 anni si è spento Gianni De Michelis. Lo abbiamo appreso da fonti vicine alla famiglia. Deputato socialista dal 1976 al 1993, è stato ministro dal 1980 al 1992 ricoprendo vari incarichi nei governi di Cossiga, Forlani, Spadolini, Fanfani, Craxi, De Mita e Andreotti: la sua firma per l’Italia è sul trattato di Maastricht nel 1992. Ministro delle Partecipazioni statali dal 1980 poi al Lavoro nel Governo Craxi, vice premier con De Mita e infine ministro degli Esteri. Una lunghissima parentesi ministeriale che ne fece uno dei leader del Psi. È stato poi segretario del Nuovo Psi dal 2001 al 2007. L’ultimo incarico elettivo è stato al Parlamento europeo, nella legislatura chiusa nel 2009 nonché Presidente onorario dell’Aspen Institute. Il quotidiano francese “Le Monde” scrisse di Gianni De Michelis: “Le Falstaff venetienne à l’heure du lattier“, cioè va a dormire all’ora del lattaio, mentre in un’altra occasione il quotidiano spagnolo spagnolo “Diario 16” aggiunse che si svegliava “fresco como una rosa y activo come un ciclòn” (cioè fresco come una rosa ed attivo come un ciclone) . Nessun altro politico come Gianni De Michelis ha interpretato una caratteristica del nuovo corso socialista che, tra il 1976 e il 1992 sbaragliò il vecchio ” sistema politico” italiano gestito dalla Democrazia Cristiana. Con il suo stile di vita brillante, esuberante lontano anni luce dai vecchi schemi, era la più alta raffigurazione del cambiamento politico portato avanti dal PSI “craxiano”. Bettino Craxi al Quirinale con Gianni De Michelis ed i ministri del suo Governo e l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Una giusta rivendicazione di poter essere sé stessi, contro le ipocrisie e i finti moralismi dei due “partiti” che controllavano l’ Italia: la Dc e il Pci. Insieme a Bettino Craxi ed il resto della “classe dirigente” socialista condivise anche la sfida all’egemonia culturale comunista, in quella stagione un tratto anticonformista che contraddistinse persino la sua operatività di ministro degli Esteri, contrassegnata non soltanto da una profonda conoscenza dei dossier, ma anche da un europeismo e da un atlantismo indiscutibili ed al tempo stesso continuamente contraddistinti da uno spirito critico incessante. Era ricoverato da qualche giorno all’ospedale di Venezia, per il peggioramento delle condizioni generali di salute, a causa delle quali Gianni De Michelis non riusciva più ad alimentarsi, ed era stato necessario il ricovero. De Michelis era uno dei giovani politici italiani che nel 1976 insieme a Bettino Craxi, Rino Formica e molti altri osò sfidare i vecchi dirigenti e conquistarono il Partito socialista. Diventarono classe dirigente e cominciarono un lungo percorso di potere. “Gianni – ricorda Bobo Craxi – apparteneva alla sinistra poi lasciò Signorile ed entrò in maggioranza. È stato uno dei dirigenti più coerenti di quella lunga stagione”. “Gianni è stato un grande uomo di governo ed un compagno leale di mio padre, nella buona e nella cattiva sorte, a cui non fece mai mancare la sua vicinanza negli anni dell’esilio tunisino“, scrive Stefania Craxi, attuale senatore di Forza Italia, ricordando Gianni De Michelis. “Gianni, genio e sregolatezza, visionario lucido con lo sguardo sempre proteso oltre il confine, è stato innanzitutto un socialista generoso e coraggioso che ha saputo attraversare anche le stagioni più infami e buie della storia socialista e del paese con la schiena dritta, senza abiure, difendendo sempre il ruolo ed il primato della politica“. Con la sua vitalità, curiosità, intelligenza Gianni De Michelis piaceva ai giovani ed io ero uno di loro. Non a caso l’organizzazione giovanile del Psi pendeva dalle sue labbra ed era pressochè tutta schierata con lui. La brutta malattia che lo ha colpito negli ultimi due anni veniva raccontata in un silenzioso tam-tam fra tutti noi che gli volevamo bene. Era craxiano ma con la sua autonomia ed infatti la corrente dei “demichelisiani” esisteva ma non per i soliti oscuri giochi di potere. Ha cresciuto e lanciato generazioni di supermanager, “tecnici” e consulenti . Con grande dignità dopo la fine della Prima repubblica, non non cercò al contrario di rientrare in gioco. Disse di sé stesso: “Io sono come tutti, con la differenza che non lo nascondo“. Ho conosciuto Gianni De Michelis, lavorando con uno dei suoi “pupilli” e cioè Biagio Marzo, quando ero all’inizio della mia passionale carriera dietro le quinte della politica. A Gianni, ed a Biagio mi legano dei ricordi meravigliosi, importanti ed indimenticabili che sono quelli che mi hanno sinora tenuto lontano dalla politica di “plastica” della cosiddetta 2a Repubblica, e quella telecomandata da “tastiera” dell’ attuale politica. Non potrò mai dimenticare le sue dimostrazioni di affetto, amicizia, solidarietà che mi aveva espresso e manifestato in un momento difficile della mia vita, cioè di quanto decisi di interrompere la mia collaborazione con Claudio Martelli. Mi chiamò all’ Hotel Plaza e mi disse: “stai tranquillo Antonello, resta con noi, siamo noi i veri amici fedeli e leali di Craxi“. E come sempre aveva ragione lui. Così come non potrò mai dimenticare tutte le serata passate insieme, i suoi consigli, le sue lezioni di vita e politica che ricevetti dalla sua generosità. Ciao caro Gianni, oggi con la tua scomparsa tutti noi, il Paese, perdiamo qualcosa dalla vita. Ma nessuno di noi, della mia, nostra generazione potrà mai dimenticare quanto hai fatto per l’ Italia. Un giorno ci ritroveremo tutti quanti e sono certo che anche lassù saprai farti volere bene. Buon viaggio Gianni.
Dagospia: QUANDO L'ITALIA SAPEVA GODERE – VIDEO: LO STORICO SERVIZIO SU GIANNI DE MICHELIS AL "BANDIERA GIALLA" DI RIMINI – ERA IL 1988 E DE MICHELIS, DA VICEPRESIDENTE DEL CONSIGLIO, STAVA PRESENTANDO NELLA "CAPITALE NOTTURNA D'EUROPA" LA SUA GUIDA ALLE DISCOTECHE ITALIANA "DOVE ANDIAMO A BALLARE STASERA?" – IL SERVIZIO DI TERESA MARCHESI: "LA GENTE HA FATTO A GOMITATE PER ASSICURARSI UNA COPIA CON DEDICA. È MORTO GIANNI DE MICHELIS: AVEVA 78 ANNI – PIÙ VOLTE MINISTRO, È STATO TRA I PRINCIPALI PROTAGONISTI DELL’ERA CRAXIANA - DOCENTE UNIVERSITARIO, DA MINISTRO DEGLI ESTERI HA FIRMATO IL TRATTATO DI MAASTRICHT – SCRISSE ‘DOVE ANDIAMO A BALLARE STASERA?’ GUIDA A 250 DISCOTECHE ITALIANE. ‘’IO MI DIFFERENZIAVO DAGLI ALTRI. GIRAVO CON BELLE DONNE. ERO SINGLE. AVEVO UN COMPORTAMENTO TRASPARENTE, A DIFFERENZA DEI MIEI COLLEGHI SPOSATI E IPOCRITI’ - ‘ONESTAMENTE, DEVO RINGRAZIARE BIN LADEN. PERCHÉ DOPO IL 2001…’
Dagonota 13 maggio 2019. Da avanzo di balera a statista. Non c’è da stupirsi se al momento del suo silente addio il tempo onesto rovesciasse la clessidra della storia per restituire a Gianni De Michelis l’onore perduto negli anni di Tangentopoli. E la stessa dignità (e intelligenza) dissipate negli anni tragici del post terrorismo. Quando nella kermesse ballerina di Villa Ada a Roma - grazie all’assessore comunista Renato Nicolini, malvisto nel suo stesso partito – una generazione passa di colpo dalla politica totalizzante all’hully gullY, facendo pace con il suo passato e scoprendosi fatta d’individui ciascuno con il proprio look. Ma al giovane ministro socialista, tra i pochi politici a cogliere quel salto sociale e generazionale, non sono perdonati né i suoi capelli lunghi unti (l’onto del signore per i veneziani) né quel suo sbarco in discoteca con tanto di libro-saggio, “Dove andiamo a ballare questa sera?”, edito dalla Mondadori targata dal duo De Benedetti-Scalfari. E non dal Cavalier Berlusconi come qualcuno sui media ha lasciato intendere poi. Con le croniste accorse nel tempio ballerino di Bibi Ballandi (a far numero anche le “Cacao meravigliao” dell’arboriana tv “Indietro tutta”), che sgomitavano per un posto a tavola alla cena di gala al “Paradiso” di Gianni Fabbri (da poco vedovo della figlia di Licio Gelli morta in un incidente automobilistico). Una gara con tanto di colpi bassi per potersi attovagliare tra il finanziere Francesco Micheli e il ministro dello Spettacolo, Franco Carraro. Lì accompagnato dalla moglie Sandra e da Andrea Manzella, capo della segreteria di Ciriaco De Mita, neo presidente del Consiglio. E tutti con gli occhi puntati al insù nell’attesa che da un elicottero sbarcasse pure l’Ingegnere. “Peccato che Carlo abbia mancato l’appuntamento, l’indomani mi avrebbe chiamato l’Avvocato per invitarmi a colazione a Torino”, si lasciò scappare vanesio l’avanzo di balera godendo della rivalità tra Agnelli e De Benedetti. Ciccio ballerino incuriosiva anche Enrico Cuccia, che doveva trattare con il ministro delle Partecipazioni statali in carica la privatizzazione di Mediobanca. Gianni era un interlocutore poco propenso a piegare la schiena di fronte ai voleri dello Gnomo di via Filodrammatici. Insomma, pure di giorno Gianni faceva “ballare” i Poteri Forti (Romiti, Gardini, boiardi di stato, banchieri, intellettuali come Umberto Eco e Furio Colombo, ambasciatori…) che avevano mandato a memoria il numero telefonico del portiere del romano “Plaza”, Gigino Esposito, per poter fissare un appuntamento con De Michelis. Dieci anni dopo, agli albori di Mani pulite, Cronisti&Cortigiani e “leccaculi” che avrebbero barattato la propria reputazione, la carriera e forse la moglie pur di partecipare alle feste in maschera a Palazzo Malipiero Barnabò (o alle riunioni dell’Aspen institute) - entrambe curate e animate dal “Falstaff venetienne” -, il ministro-Doge che andava a letto “a l’heure du lattier” (Le Monde), l’icona popdella politica anni Ottanta viene prima sfregiata e poi rimossa dal tempio della gloria dei media del potere. Più che icona, De Michelis in realtà era soltanto un rappresentante di un “potere fantoccio o di cartapesta” (Ferdinando Adornato). Uno dei tanti “guitti” della Razza Cafona, che aveva governato, nel bene o nel male, il Paese. I nuovi idolidella Rivoluzione italiana (Paolino Mieli) sono adesso il giudice Antonio Di Pietro, che frequentava la peggiore cricca di socialisti milanesi e i giustizieri televisivi, Gianfranco Funari e Michele Santoro. “Miti, protagonisti e soubrette di un’Italia che declina”, metterà nero su bianco Giampiero Mughini nel suo raro e onesto libro su quella tragica stagione (4.525 persone arrestate, 25.400 avvisi di garanzia, oltre mille politici indagati, alcuni suicidi eccellenti) dal titolo “Un disastro chiamato seconda Repubblica” (Mondadori). Già, da Bandiera rossa al “Bandiera Gialla” De Michelis si è sempre caricato dei pericoli di far convivere Ragione&Fantasia, Pubblico&Privato ben prima dell’arrivo dei social media. A chi gli rimproverava a volte di rischiare il ridicolo per la sua condotta pubblica dirompente Gianni, ministro delle Partecipazioni statali, una volta rispose così: ”Con tutto quello che perde Finsider niente è abbastanza ridicolo”. Del resto anche il filosofo, Hanna Arendt, metteva in guardia sui rischi di essere “coperti di ridicolo” per quei politici che nella loro attività affrontano la complessa storia del conflitto, assai antico, tra verità e politica. E, aggiunge la Arendt, “la semplificazione e la denuncia morale non sarebbero di alcun aiuto” a mettere fine alla disputa (infinita). Ps: Cesare De Michelis, editore della Marsilio e fratello minore di Gianni, prima di morire lo scorso agosto ci ha lasciato uno straordinario libricino dal titolo “Cronache familiari” che meglio di qualsiasi saggio e necrologio forse può aiutarci a capire in quale ambiente culturale possa nascere la scintilla civile della passione politica a dispetto degli stessi genitori. “A loro (Noemi e Turno ndr) – scrive Cesare – toccò poi di assistere al tracollo di Gianni, rimasero proprio senza parole (…) Il papà cercava conforto chiedendo conferma ai fratelli che il suo Gianni non era senza scampo, che aveva agito secondo coscienza, che, insomma, lui non doveva provare vergogna. La mamma – prosegue Cesare – si sfogava diversamente, si rivolgeva a lui, anche assente, continuando una predica ininterrotta (…) imprecando contro la sua leggerezza, mescolando passato e presente, pubblico e privato, in una geremiade sconsolata…”.
QUANDO DE MICHELIS SI PORTÒ A MOSCA 13 DONNE SUL MIO AEREO PRIVATO. Franco Bechis per “Il Tempo” il 12 maggio 2019. Giancarlo Parretti fu l' italiano che partito da Orvieto riuscì nel 1990 - sia pure per poco - a diventare padrone della Mgm, uno dei simboli di Hollywood, che scalò anche grazie a un prestito di 1.500 miliardi di vecchie lire concesso dal Crédit Lyonnais, la principale banca pubblica francese. Si disse che dietro quel finanziamento ci fosse stato l' appoggio del ministro degli Esteri italiano dell' epoca, Gianni De Michelis. Parretti l'ha sempre negato, e lo fa ancora oggi, ma la notizia sembrò credibile perché i due - diversissimi fra loro - furono sempre legati da amicizia, fin dai primi anni Settanta. Quando ieri si è saputo della scomparsa di De Michelis è stato naturale cercare Parretti, l' unico a poterne fare un ricordo non convenzionale per quanto commosso.
Quando conobbe De Michelis?
«Nel 1971, a Siracusa. Io ero vicesegretario del partito socialista locale, e lui era venuto a fare un incontro lì. Scoccò subito la scintilla, è stato come un amore a prima vista. Era di grandissima cultura, e pazzo di politica. Ma rispettato da tutti. Pensi che il presidente francese Francois Mitterand andava apposta a Venezia per discutere di politica con lui. È sempre stato un riferimento per tutti i leader per la sua intelligenza ed arguzia. Quando era presidente della Repubblica Francesco Cossiga lo chiamava ogni mattina alle nove per capire le informazioni della giornata».
E con lei dopo quell' incontro cosa accadde?
«Lavorammo subito insieme e cominciammo a pensare i Diari, una catena di giornali locali che parti proprio a Siracusa, si diffuse nel Sud e poi arrivò anche a Napoli e Caserta, e salimmo fino a Padova e Venezia. Furono di fatto i precursori della catena Fine gil, e fummo anche i primi ad usare il formato che poi avrebbe utilizzato Repubblica. E infatti ne era incuriosito anche il principe Carlo Caracciolo, che una sera invitò Gianni e me a casa sua a Trastevere per farsi raccontare come eravamo partiti. Pensi che avevamo Giorgio Forattini che faceva le prime vignette e Alberto Bevilacqua che vi scriveva. Li chiamammo Diario di... perché quella era la testata portoghese su cui scriveva in libertà Pietro Nenni sotto il fascismo».
E da quei Diari è nata l' amicizia?
«Si, che è durata sempre. Ci univa la politica, e io penso anche di avere avuto un peso nella decisione di Gianni di staccarsi da Riccardo Lombardi e appoggiare Bettino Craxi all' epoca del famoso Midas. Per me era un grande privilegio stare con lui come con il fratello Cesare: imparavi sempre. Avevano grande cultura ed intelligenza. Nella famiglia De Michelis tutti erano laureati. Pensi che la mamma fu fra le prime donne a prendere la laurea in Italia...».
Eppure già allora la fama di De Michelis era un' altra: quella di essere un gran viveur, animale notturno di discoteche dove si lanciava anche in balli sfrenati.
«Mah... ho visto che oggi tutti ricordano quello. Ma non era cosi vero. Lui lavorava come un matto tutto il giorno, perché si preparava sempre sui dossier prima di incontrare qualcuno, e studiava a fondo prima di parlare. La sera ogni tanto aveva bisogno di distrarre la mente. Non che facesse un granché: il più delle volte andava con il segretario del Pli, Renato Altissimo, al Tartarughino che più che una discoteca era un piano bar. Anche io ogni tanto ci andavo per rilassarmi dalla tensione di una giornata».
C' era sempre un nugolo di belle donne intorno a lui. Non mi dica che questo gli dispiaceva.
«Ah, questo non posso negarlo. Pensi che un giorno gli prestai il mio aereo privato, che era un Gulfstream. Lui non era più ministro, ma doveva andare a Mosca a un incontro e non aveva trovato posto sugli aerei di linea. Ricordo che mi chiamò il mio comandante preoccupato: "Mr Parretti, lei mi ha detto che dovevo accompagnare a Mosca il ministro De Michelis. Ma lui qui si è presentato con 13 donne, tutte bellissime". Era quasi scandalizzato. Gli risposi: "C' è posto a bordo? Si. E allora a te che te frega? Falle salire".
Una era pure la moglie di un famosissimo giornalista».
Vabbè, non mettiamoci a fare gossip dopo tanti anni proprio oggi. Mi cita il Gulfstream: allora lei all' epoca era presidente della Mgm?
«L' aereo era mio, non della Mgm. Ma si, ero ancora il presidente della major».
All' epoca si disse che proprio l' amicizia con De Michelis fosse stata fondamentale per la sua scalata alla Mgm. Fu lui a racco mandarla con Mitterand per farle avere quel maxi prestito del Crédit Lyonnais?
«Mano, no. Non c' entrava nulla De Michelis. Guardi che io Mitterand lo conoscevo bene, eravamo amici. Non avevo bisogno di raccomandazioni. Primo: ero il segretario del partito socialista italiano in Francia, e mi ricordo di avere firmato di mio pugno 500 mila lettere di appoggio alla candidatura di Mitterand alle presidenziali mandate agli emigrati italiani che si erano stabiliti in Francia. Poi ero a capo di due compagnie cinematografiche francesi: la Pathé e la Canon. No, guardi. Quella scalata alla Mgm era nata tutta da una scommessa».
Una scommessa?
«Ma si, una scommessa con Gianni Agnelli ed Henry Kissinger».
Ah sì? E come nacque?
«Ero a New York, al ristorante Le Cirque di Sirio Maccioni. Pranzavo solo soletto in attesa di un incontro d' affari. Al tavolo di fianco c' era l' Avvocato con Kissinger che stavano discutendo dell' interesse di Fiat per la Chrysler. Agnelli era molto cortese, e quando mi vide mi invitò al loro tavolo: "Parretti che fa? Mangia da solo. Si unisca a noi". Parlando degli affari, si commentò la notizia appena uscita di Kirk Kerko rian che aveva messo in vendita la Mgm. Li guardai è dissi: "Scorn mettete che alla fine me la prendo io?". Kissinger si fece una grande risata, ma non voleva scommettere, perché aveva il braccino corto. All' Avvocato invece piacque la sfida, e sorrise all' amico: "Henry, se vinciamo noi dividiamo. Se perdiamo pago io per tutti e due". La persero. E l' Avvocato onorò la scommessa».
E De Michelis davvero non c' entrava?
«Mano, lui manco sapeva quel che stavo facendo. E quando scalai la Mgm mi disse che ero pazzo. Poi certo, le cose che facevo io poi si ritorcevano contro di lui perché tutti pensavano. Come quella volta del Milan...».
Che c' entra il Milan?
«C' entra, c' entra. Un giorno era il 1987 - mentre ero a Cannes, mi chiamò un amico milanese e mi chiese il favore di ricevere Giuseppe Farina, il presidente del Milan, a Parigi. Il favore lo feci, ma Farina stava scappando dall' Italia perché sapeva che sarebbe stato emesso un mandato di cattura nei suoi confronti per un' inchiesta milanese. Si presentò con una valigia piena di scartoffie: erano le azioni del Milan. Voleva venderlo subito per metterlo al riparo da quel che stava per accadere. Era convinto che volessero fare fallire la squadra».
E lei lo comprò?
«Si. Solo che si seppe subito. Candido Cannavò diede la notizia sulla Gazzetta dello Sport sostenendo che facevo il portage per Silvio Berlusconi. Così quella mattina mi squillò il telefono: era la batteria di palazzo Chigi. Dall' altra parte del filo c' era il presidente del Consiglio Bettino Craxi su tutte le furie: "Tu e Gianni avete fatto questa operazione per creare difficoltà a me". Gli dissi: "Bettino, ma che dici? Gianni non sa nulla di questo. Ho solo fatto il favore a un amico..."».
E Craxi le credette?
«Mi rispose secco: "Se è come dici tu, allora dimostralo vendendo subito il Milan a Berlusconi. Prendi il primo aereo per Milano e vaglielo ad offrire". Risposi che se lo voleva tanto, poteva prendere lui il primo aereo per Parigi. Comunque a me il Milan non interessava, ero pure tifoso dell' Inter. Il mese dopo l' ho venduto a Berlusconi».
A proposito del Cavaliere. Aveva buoni rapporti con De Miche lis?
«No, non si è mai fidato di Gianni. Berlusconi è sempre stato diffidente nei confronti di chi era troppo intelligente. Non voleva sentirsi a disagio durante una discussione. Però anche Gianni ci metteva del suo, voleva fare sentire a disagio il Cavaliere con la sua superiorità intellettuale».
Poi arrivò Tangentopoli, e finì tutto...
«Per Gianni in realtà no. Non fu la fine. Guidò dopo lui il rinato partito socialista verso Berlusconi, e fu perfino eletto al Parlamento europeo nella seconda Repubblica».
Vi siete visti anche in questi ultimi anni?
«Lui aveva una forma di Parkinson, che all' inizio ne frenava i movimenti. Però si muoveva. Poi cominciò a rendergli difficile parlare, cosa che per uno come lui era terribile. Nel 2014 lo invitai a Montalto di Castro alla presentazione di Roma Vetus, una mia iniziativa. Non voleva, perché temeva di bloccarsi nel parlare. Lo convinsi. Appena vide giornalisti e telecamere la parola gli venne naturale e non si fermò più. Diede perfino una intervista ad Enrico Lucci delle Iene. Credo che sia stato l' ultima sua presenza da protagonista in pubblico. Poi andavo a trovarlo, ma non parlava più. L' ultimo anno non ci sono più andato. Finché è stato in vita il povero Cesare mi dava lui notizie, a me faceva troppo male vedere Gianni così. Lui non parlava, ma capiva tutto. E aveva umiliazione nel farsi vedere così. Purtroppo lo rivedrò ai funerali. Spero che li la parola la prenda Massimo Cacciari, che era uno dei suoi "figli" politici. Cacciari l' anno scorso ai funerali di Cesare ha detto delle cose bellissime...».
SOCIALISMO GAUDENTE. Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 12 maggio 2019. Povero De Michelis, se n' è andato proprio quando lo stile di vita e di potere che egli ha incarnato, e che ai suoi tempi apparve irrimediabilmente eccessivo, si rivela ora non solo accettabile, ma a suo modo improntato anche a dignità politica e progettuale. Aveva 78 anni, ma stava male da tempo, sempre più spento; e rispetto alle smozzicate notizie che filtravano, è di consolazione pensare che in vita si è parecchio divertito, forse addirittura oltre le sue stesse convenienze, come può succedere a figure che hanno dato smalto e sostanza, animo, cervello e corpaccione a un vero passaggio d' epoca. Destino comune di diversi ex giovani che alla metà degli anni 70 del secolo scorso, sotto l' imperiosa guida di Bettino si presero un partito tanto antico quanto sonnacchioso e lo portarono al top del potere per poi schiantarlo nell' abisso, tra furore e vergogna, ma forse sarebbe accaduto lo stesso, anche se i necrologi non si fanno con i forse. E comunque: «Nullatenente ad alto reddito» si definì un giorno; fra i primi ad ammettere «il piacere del comando» e la disponibilità a «lasciarsi affittare in piena coscienza come un frac». Dalla metà di aprile (presso la Fondazione Giuliani, a Testaccio) un artista contemporaneo sensibile e attento alle trasformazioni della società italiana come Francesco Vezzoli ha ingrandito e racchiuso in cornici barocche 28 iconiche foto degli anni 80 battezzando il suo progetto "Party politics", e Gianni De Michelis è naturalmente uno dei protagonisti. Eccolo con un' opalescente Sandra Milo celebrare la resurrezione della carne, oppure con Tinto Brass, eros & craxismo, o colto a tavola, nel più furbo dei sorrisi, accanto a Isabella Rossellini. Grifagno, arruffato, sanguigno, straripante, estroverso. Famiglia protestante, studi di chimica, lotte operaie a Porto Marghera, l' accademia manovriera della politica universitaria, poi il Psi, corrente lombardiana. Nel 1980, con mossa a sorpresa, molla i giovani strateghi della Sinistra per salvare Craxi, allora a rischio. Divenuto responsabile organizzativo del Garofano, senza troppi scrupoli costruisce addosso al leader un' armatura a prova di dissenso e con articolazioni feudali. Per premio diventa ministro: Partecipazioni statali, Lavoro, Esteri. Seguono leggi, progetti, nomine, trame di potere, agguati in Parlamento, coraggiosi tour nelle fabbriche, inaspettati applausi, ma anche grottesche fughe per sfuggire all' ira delle maestranze, di corsa con pancione ballonzolante, come in un cartone animato. Mille e mille altre sequenze si sedimentano nella memoria di quella abbagliante stagione che senza remore va a collocarsi sotto i riflettori del binomio genio-sregolatezza. I capelli lunghi: "E no che non me li taglio!" (in un film Alberto Sordi riprese la battuta); il ballo da orso tarantolato, "fino a quando il sudore non entra negli occhi", con l' attricetta affamata di notorietà; le feste in costume nella casa ormai senza mobili di Venezia, e poi anche in giro per il mondo, da Budapest ad Hanoi. E ancora il gusto di farsi tornare utili le potenze del desiderio e dell' ebbrezza, l' energia ipercinetica e vorace, le visioni, le intuizioni, le suggestioni, le adunanze del morbido, profumato, strabordante staff femminile sugli enormi tappeti del Plaza con la premurosa regia del portiere Gigino Esposito, la copertina pop vintage del libro sulle discoteche ("Dove andiamo a ballare questa sera? ", Mondadori, 1988: venne poi fuori che se l' era fatto scrivere da una segretaria che poi lo denunciò), ma nel frattempo presentato al "Bandiera gialla" di Rimini alla presenza di ministri e ballerine Oba Oba con il pennacchio sul sedere...oh, come tutto è destinato a consumarsi! E infatti quell'esperienza si bruciò nell' arco di una decina d' anni, forse meno. Tangentopoli fu devastante, tutti i suoi arrestati e/o pronti a tradire, lui stesso rincorso per le calli di Venezia al grido di "Onto!", unto, sempre per via dei capelli, col pericolo di essere buttato in un canale. Non si riprese più. Ma prima quel personaggione era apparso così potente, promettente, eccitante e divertente da farsi icona, emblema e metro di misura di un mutamento senza ritorno. Perché giusto in quegli anni, a ripensarci, la politica in Italia cambiò senso e nozione, e proprio a Bettino, a De Michelis e agli altri di quel giro fu concesso l' amaro lusso e il fantastico privilegio di praticarla mostrandosi per quello che erano e finalmente chiamando le cose con il loro vero nome. Più brutalmente: contro gli ipocriti moralismi democristiani, la mesta severità comunista e gli snobismi aristo-tecnocratici dei laici, forse senza saperlo, o magari rifiutando di ammetterlo, il craxismo oscurò per sempre la proiezione "religiosa" delle maggiori culture politiche. Game over, avrebbe potuto dire lui; "dopo", cioè nell' aldilà, vattelapesca che cosa c' era, l' importante è qui e ora, primum vivere, si vive una volta sola - e se così la morte diventa irreparabile, beh, è una faccenda che va ben oltre la politica, e Gianni De Michelis lo sapeva meglio di tanti altri.
DE MICHELIS LO CONOSCEVO BENE. Marco Ventura per “il Messaggero” il 12 maggio 2019. «Una cosa va detta subito: sarebbe ingiusto ricordare Gianni De Michelis solo per il suo amore del ballo e delle discoteche, come se la vita di un uomo politico così importante, per 12 anni al governo, potesse ridursi a qualche trasgressione anche molto innocente. Non vedo nulla di male nel fatto che a un politico piacciano le discoteche. Tutte quelle polemiche su di lui capellone che amava ballare, Gianni le prendeva con ironia. C'è addirittura chi lo ha bollato come l'Unto perché aveva i capelli lunghi e sudava, insinuando altre forme di unzione».
Claudio Martelli, anche lui ex vicepremier e nel direttorio del Psi di Craxi, invita piuttosto a ricordare un altro De Michelis...
«Come ministro delle Partecipazioni statali, per esempio, fece un sodalizio con Marisa Bellisario che impose all'Italtel, difendendola dalle aggressioni di Cesare Romiti e rilanciando lo Stato imprenditore sulla frontiera più avanzata, quella delle telecomunicazioni e della quarta rivoluzione industriale».
La storia a volte è ingiusta?
«Passano per eroi quelli che hanno distrutto e venduto la Olivetti, e rischiano di essere ricordati solo per i locali notturni quelli che si sono battuti per non danneggiare questo Paese e spingere lo Stato a innovare e ad ammodernarsi».
De Michelis fu il ministro del Lavoro del taglio della scala mobile.
«Tentò in ogni modo di portarsi dietro tutto il sindacato e solo alla fine dovette arrendersi, quando la Cgil si mise di traverso nonostante i tentativi di Lama che non resisté alla pressione di Berlinguer e del Pci. Quando poi si arrivò al referendum, a vincerlo fu Craxi, non Berlinguer. E si aprì una stagione promettente per l' economia italiana».
Con quali risultati?
«Nei 3 anni dopo il decreto, l'inflazione scese dal 14,5 al 4,5 per cento. E la crescita andò al 4 e mezzo. Fu anche il ministro degli Esteri che tenne a battesimo l' Unione europea, nel bene e nel male comunque un traguardo storico. Gli errori successivi alla firma di Maastricht non si possono certo addebitare ai De Michelis, ma all' allargamento smisurato della Ue. Anzi, lui fu il primo a intuire che o l' Unione riusciva a integrare i Paesi dell' Est o sarebbe partita da lì la disgregazione. Come poi è successo».
De Michelis, però, si ostinò a negare che fosse scoppiata la guerra nella ex Jugoslavia.
«Fu l'ultimo ad arrendersi, a combattere come un giapponese per l' unità della Federazione jugoslava, d' accordo con Craxi. I buoi erano scappati dalla stalla, e De Michelis ancora si illudeva che la Germania e il suo amico Genscher avrebbero tenuto la posizione. Vidi il suo sbalordimento, perché ero presente, quando lesse la dichiarazione con cui la Germania riconosceva l'indipendenza di Slovenia e Croazia. Fu preso alla sprovvista. Questo il limite politico suo e di Craxi, mentre per la verità Cossiga e io comprendemmo subito che il crollo dei Muri avrebbe avuto conseguenze importanti anche per l' Italia. Loro non lo videro, o non vollero vederlo, e rimasero prigionieri di un mondo che non c' era più. Il che non cancella i suoi altri meriti».
Umanamente come lo ricorda?
«Gianni era un uomo con tratti di genialità, che conservò anche a lungo una certa ingenuità fanciullesca. Amava esporsi. Diceva: mi rimproverano di frequentare le discoteche? Allora io scrivo la guida alle discoteche! E infatti, chi dice che il politico dev'essere un sepolcro imbiancato e non può divertirsi? Era rimasto un ragazzone, non voleva negarsi i divertimenti di un ragazzo che va in discoteca, anche se aveva quaranta-cinquant' anni. Ma se lo giudicassimo per questo, o per Tangentopoli, faremmo una grande falsificazione della realtà».
De Michelis, fine amara del Doge: solo dopo Tangentopoli. Pubblicato sabato, 11 maggio 2019 da Gian Antonio Stella su Corriere.it. «Sono come un atleta che ha avuto una frattura. Per un po’ so che devo stare fuori. Ne prendo atto e buonanotte». Così la pensava Gianni De Michelis, dopo Tangentopoli. Mordicchiava la cravatta, roteava gli occhi al cielo e borbottava: «Boh, il reato di finanziamento illegale dei partiti è uno di quelli che vanno e vengono. Dieci anni fa non sarebbe venuto in mente a nessuno». Erano i primi anni Novanta. Non sapeva che, dopo quella frattura, non sarebbe più tornato in campo. Non sui campi che contavano, almeno. Certo, rastrellando un po’ di socialisti rimasti e appoggiandosi al Cavaliere sarebbe riuscito sia pure azzoppato, a tornare in Parlamento. Quello europeo. E poi alla Camera. Mai più, però, nei ruoli che sentiva suoi: «L’Italia sarà pure di serie B ma io sono comunque di serie A». Il momento più umiliante della sua parabola politica, umana ed esistenziale infatti, non fu probabilmente quello della fuga per le calli di Venezia, la sua Venezia, inseguito da giovanotti che volevano spintonarlo in un canale al grido di «Ciapalo! Ciapalo! Onto! Onto». Acchiappalo! Acchiappalo! Unto! Unto! Quello più amaro fu il giorno in cui chiese di tornare in cattedra. A Chimica. La materia nella quale si era laureato e che, raccontano, insegnava da trascinatore. Accolto anche lì da mugugni e contestazioni, dovette prendere atto che era meglio andarsene. In pensione. Ricordarlo ora solo come l’uomo che sfidò l’impopolarità liquidando il bubbone di Tangentopoli, in un’intervista a Gad Lerner, come «un’operazione inventata dai ladri per far fuori gli onesti», è ingiusto. Fu anche quello, si capisce. Ma non solo quello. Basti rileggere una testimonianza, in epoca non sospetta, di Ugo Intini, a lungo vicinissimo a Bettino Craxi, il «Re Sole» dei socialisti: «Gianni ormai era una macchietta. Appena arrivato in consiglio dei ministri iniziava a sbracciarsi e sudare e mostrar tabelle per convincerci che sullo stato sociale andavamo al disastro. Dopo dieci minuti capiva che non era aria e smetteva. Poveraccio, aveva ragione lui, ma in quel contesto, se avessimo proposto dei tagli saremmo andati al suicidio.» Era ministro del lavoro, allora. E aveva capito, a metà degli anni Ottanta, quelli in cui il debito pubblico schizzò verso l’alto, il baratro che avevamo davanti. La risposta può essere riassunta in una battuta di Craxi sui liberali: «Hanno fondato un’associazione per il taglio della spesa che ha per stemma le forbici. Il simbolo degli eunuchi». Ma come, proprio lui, il professore veneziano che dopo essersi mostrato in quei frangenti tra i più attenti ai conti pubblici, arrivò negli anni d’oro a tirarsi addosso da Enzo Biagi il nomignolo di «avanzo di balera» per le notti in discoteca e i capelli sudati? Lui che avrebbe dato una festa per duemila invitati alla Marittima di Venezia allegrissima, incasinatissima, chiassosissima con le luci psichedeliche a frullargli i riccioli? Lui che per spegnere le sue 50 candeline avrebbe programmato una grande festa con duecento invitati in un castello fuori Praga rinunciando solo perché Craxi gli intimò l’annullamento o le dimissioni? Lui. Perché Gianni De Michelis, ha rappresentato uno dei grandi sprechi della politica italiana. Un uomo di scintillante intelligenza, capace di impadronirsi in poco tempo delle lingue che gli servivano, di leggere i dossier a una velocità mai vista, di divorare un libro in una notte con la voracità con cui aggrediva i piatti meno dietetici. Insaziabile di cibo quanto era negli anni spericolati (poi raccontati nei dettagli da passeggere amanti notturne) insaziabile di donne. Questo era: l’uno e l’altro. Uno sbruffone capace di dire «se convoco una riunione per parlare di qualsiasi cosa faccio un fischio e arrivano venti cervelli che Berlusconi se li sogna» e insieme uno che, dopo essersi lamentato di «trentacinque processi finiti in larghissima parte nel nulla o in condanne minori», riconosceva: «Ma certo che ho sbagliato, le pare che con quello che è successo non mi sia pentito di certi errori?». Accettava via via la progressiva emarginazione e di colpo rialzava la testa:«L’autocritica l’ho fatta prima di tutti. Quando dissi: guardate che la fine del comunismo farà sì che la gente non sopporterà di pagare più la tassa implicita che ha pagato in nome della lotta al comunismo. Avevo già tutto chiaro. Gli unici che hanno fatto autocritica siamo noi...» «Politica, mai morale...», gli dissi. E lui: «Politica “e anche” morale». «Il giorno in cui si tireranno le somme finali, come è stato dimostrato dai processi, si vedrà infatti non mi è rimasto un soldino nelle tasche», rivendicò un giorno. Riconosceva però d’aver fatto male a sottovalutare l’errore di presentarsi come un gradasso: «In dodici anni da ministro avrò avuto quattromila lettere anonime e l’80% se la pigliava coi capelli: “Onto!”, “Bisonto!”, “Lavati!”. Me ne fregavo. Sbagliai». Una impresa di acque minerali, donando parte del ricavato alla ricerca sul cancro, si spinse a sfruttare il suo faccione. Lui coi capelli lisci: «Liscia». Con un metro cubo di capelli ricci: «Gasata». Normale: «Ferrarelle». Sui suoi anni alla Farnesina, resta indimenticabile una cronaca scritta di suo pugno da Edward Luttwak, consigliere strategico della Casa Bianca: «Alla conferenza della Nato indetta dal Center for Strategic and International Studies era accompagnato da: 1) una bionda avvenente con compiti non specificati sul libro paga di un’azienda di Stato, l’Eni, o forse del partito socialista italiano; 2) una brunetta con compiti non specificati anche lei sul libro paga di un’azienda di Stato o forse del partito socialista italiano...». Vulcanico propugnatore del Mose (che pensava di realizzare in pochi anni), dell’Expo 2000 a Venezia con le isole galleggianti, dei Giacimenti Culturali come «petrolio dell’Italia», delle «date catenaccio» in grado di costringere il paese a obbedire al «partito del fare» contro il «partito del non fare», visse anni da Doge circondato da folle di amici, arrampicatori, architetti di grido, corteggiatrici, portaborse, faccendieri. Negli ultimi tempi gli erano rimasti pochi amici fedeli, il figlio, i fratelli tra i quali Cesare, l’editore di Marsilio, morto pochi mesi fa... Che la terra gli sia leggera.
GIANNI DE MICHELIS, Il “FALSTAFF VENEZIANO”. Fabio Martini per la Stampa l'11 maggio 2019. Una volta «Le Monde» scrisse di Gianni De Michelis:«Le Falstaff venetienne» va a dormire«à l’heure du lattier», all’ora del lattaio, anche se lo spagnolo «Diario 16» in un’altra occasione aggiunse che si svegliava «fresco como una rosa y activo come un ciclòn». Nessun altro come Michelis ha incarnato una caratteristica del nuovo corso socialista che, tra il 1976 e il 1992 terremotò l’ordinato sistema politico italiano: con la sua vita esuberante e fresco como una rosa y activo come un ciclòn». Nessun altro come Michelis ha incarnato una caratteristica del nuovo corso socialista che, tra il 1976 e il 1992 terremotò l’ordinato sistema politico italiano: con la sua vita esuberante e fuori dagli schemi, espresse la rottura antropologica portata dal Psi craxiano, la vitalistica rivendicazione ad essere sé stessi, contro le ipocrisie e i moralismi dei due «partiti-Chiesa», la Dc e il Pci. Con Bettino Craxi e con il resto della classe dirigente socialista condivise anche la sfida all’egemonia culturale comunista, in quella stagione un tratto anticonformista che permeò anche la sua attività da ministro degli Esteri, segnata oltreché da conoscenza dei dossier, da un europeismo e da un atlantismo al tempo stesso indiscutibili, ma continuamente filtrati da un incessante spirito critico. Era nato a Venezia da una famiglia protestante, si era laureato in Chimica industriale ed era fratello di Cesare, scomparso nove mesi fa, uno degli intellettuali più incisivi del Secondo Novecento, patron della Marsilio, «editore umanista e cacciatore di talenti», come ha scritto Mario Baudino su«La Stampa». Si era iscritto da giovane al Partito socialista e in una stagione nella quale si aderiva contestualmente a strutturatissime correnti, entrò a far parte dell’area di sinistra del partito, quella lombardiana. Ma nel Comitato centrale del 1980, quando Craxi rischiò di essere disarcionato, passò le linee e fu decisivo per la prosecuzione del nuovo corso socialista. Vicino politicamente a Craxi, non era mai diventato un suo amico stretto, non partecipava al rito del «Raphael», l’albergo romano dove il leader socialista riuniva i compagni ai quali era maggiormente legato, De Michelis aveva il suo quartier generale al Plaza, dove tra i tanti aveva alloggiato Pietro Mascagni e dove fu arrestato Enzo Tortora. Anche se ebbe un ruolo politico importante, come vicepresidente del Consiglio, ministro degli Esteri e delle Partecipazioni statali, De Michelis ebbe notorietà soprattutto per la sua «complessione» psico-fisica. Un’estesa pancia mai nascosta, occhiali con una grossa montatura, spesso circondato da belle donne, capelli lunghi, De Michelis era orgoglioso frequentatore di balere, discoteche, feste mondane e tutto questo gli procurò una raffica di soprannomi, da «Avanzo di balera» a «De Maialis». Nomignoli che sembravano non ferirlo e che non provocarono mai rappresaglie vendicative. Disse di sé stesso: «Io sono come tutti, con la differenza che non lo nascondo». Un’auto-definizione che vale come epitaffio.
Addio a De Michelis il socialista poliedrico piegato da Mani pulite. Aderì al Psi nel '64 quasi per caso. Craxi gli diceva: "Tu di politica non capisci un cazzo". Roberto Scafuri, Domenica 12/05/2019 su Il Giornale. Ci sono stati anni in cui il telefono squillava annunciando un tornado. Il tornado si chiamava Gianni De Michelis e di professione aveva fatto per più di trent'anni il politico, pur essendo laureato in Chimica come la mamma (il papà ingegnere, il nonno pastore metodista). Fosse stato per lui non avrebbe mai smesso. Non per dedizione al Paese, come avrebbe declamato un trombone qualsiasi, bensì per semplice, incontrollabile, smodata curiosità. Sete di vita rafforzata dall'implacabile intelligenza. Miscela che spesso gli faceva propendere per la via traversa, la diramazione, piuttosto che per la via maestra. Bettino Craxi, che lo sapeva, mai gli revocò fraterna benevolenza, considerandola «effetto collaterale» di quell'intelligenza che non mancava di stuzzicarlo (e divertirlo). «Tu, di politica - gli diceva - non capisci proprio un caz...». Lui, che di Craxi subiva l'indubbio fascino, lo vedeva come il raggio laser che, individuato un obbiettivo, lo coglie con precisione chirurgica. Così, sopportava. E si divertiva un mondo a scardinare le certezze craxiane, finché quello sbottava: «Sei un pasticcione!». E Gianni aumentava la dose di impegno, lavoro, spunti diversi e diramazioni geniali. «Che vuoi farci, sono un dispersivo...». Già, però una delle migliori dispersive menti che abbia avuto questo disgraziato Paese, capace di strappare le Partecipazioni statali all'interessato dominio democristiano per farne una delle basi dell'ondata socialista. E dunque, assieme a Claudio Martelli, l'anima di un socialismo che sprizzava vitalità da tutti i pori, così come accadeva nelle dissipate notti in discoteca che Gianni rivendicava con orgoglio. Se non era un leader di prima fila, era però il consulente d'eccellenza che qualunque vero capo avrebbe agognato. Simbolo dei ruggenti anni Ottanta, quelli del sorpasso economico all'Inghilterra. Bobo Craxi, che nel 2001 fondò con lui il Nuovo Psi lo piange con dolore, come «uomo di Stato e socialista coerente», nonostante avesse portato metà dei socialisti alla corte di Berlusconi. Ma tornado, e dunque incline al vorticoso girovagare, lo era stato fin dagli esordi. «A 11-12 anni simpatizzavo per la monarchia, l'anno successivo ero vicino al Msi... Da protestante non sarei mai potuto essere dc, né avevo propensioni comuniste. Nel '58 mi dichiaravo vicino ai Radicali di Pacciardi, finché una sera del luglio del '60, dopo il mio primo breve comizio universitario, tornando a casa mi dissi: non puoi restare cane sciolto. Ero dalle parti della sezione Psi di Campo San Barnaba, a Venezia, mi ci iscrissi». Fu l'inizio di una carriera che lo vide nel '64, quando uscirono dal partito i cosiddetti «carristi» della sinistra, prendere il sopravvento nella sezione con la sua idea «innovativa»: fondere i lombardiani, cui si sentiva vicino per temperamento e curiosità, con il saldo autonomismo nenniano. L'azzardo funzionò: tanto che fu replicato al Midas, in grande, da Craxi nel '76. Ma il vero esordio con le dinamiche politiche risaliva ai tempi dell'Ugi, l'Unione goliardica, che lo vide schierato in un congresso palermitano con Jannuzzi e Militello contro il già allora temutissimo Craxi. Doveva parlare il repubblicano Paolo Ungari e gli «anticraxiani» lo temevano perché buon oratore. Saputo che Ungari era in albergo a scrivere il discorso, decisero di inviargli una prostituta in camera per distrarlo. Raccontò Gianni che «dopo un'ora, visto che non uscivano, andammo a vedere e trovammo la prostituta nuda che batteva a macchina il discorso che Ungari, nudo anche lui, gli stava dettando». La formazione politica avveniva sul campo, per salti e piroette di genio, altro che discoteche. Simbolo schietto di quella dissipazione che porterà alla dissoluzione dello stesso Psi, De Michelis sarà colui che con maggiore lungimiranza colse nel segno della politica estera italiana (fu l'apice della sua carriera sul finire degli 80): rispettato all'estero e duttile quanto bastava per non farsi spezzare da nessuno. Neppure da Tangentopoli che lo tormentò dal '92 in avanti: «Io sono quel tipo di politico dispersivo, dunque anche elastico: per questo Bettino si è fatto spezzare e io no». Eppure, come lo rimpiange Bobo, «ha tenuto in mano la bandiera nel momento in cui sembrava non ci fosse più niente da fare ed è stato coraggioso... Mi riempie di tristezza il modo con cui ha finito la sua esistenza, era profondamente segnato dalle vicende degli anni 90 sul piano fisico». Evidentemente, era solo meno «giunco» di quello che lui stesso pensava. E in questo suo sobrio ritrarsi e nascondere le sue pene, sta la vera cifra dell'uomo generoso che amava la vita senza mai vergognarsene.
Se questo si chiama cambiamento, ci sarà chi griderà “Aridatece De Michelis”. Francesco Storace domenica 12 maggio 2019 su Il Secolo d'Italia. Gianni De Michelis è morto. Ma questi che ci sono ora, è sicuro che siano vivi? Bastano i sondaggi, sia pure claudicanti, a testimoniare l’esistenza di un governo e di una maggioranza che si ammazzano di botte su tutto? Non si sopportano più tra di loro e non li sopportiamo più noi che amiamo l’Italia. Si sono menati sul caso del sottosegretario Siri per le accuse di corruzione. Parlano di conflittod’interesse, ma manifestano uno straordinario interesse al conflitto. Lega e Cinquestelle si mettono reciprocamente nel mirino per la canapa e da un po’ pure sui migranti. La sicurezza diventa un tema di battaglia tra opposti all’interno del cortile di palazzo Chigi. Tacere sulle autonomie…Non parliamo dell’economia. Tasse su e giù. (Su nei fatti, giù nelle parole). La Tavche si fa e non si fa a seconda di chi parla. Roma capitale da salvare o da assassinare. Sblocca cantieri come arma per la soluzione finale in Parlamento a suon di emendamenti contrapposti.
Arriva la mazzata europea. Nel frattempo prepariamo le tasche, perché fra poco tornerà a svuotarcele la Commissione Europea con la nuova mazzata sui nostri conti pubblici. Di Maio e Salvini litigano su tutto, non si reggono più, una maggioranza come quella che sta al governo dell’Italia si prende ogni giorno a randellate per racimolare decimali alle elezioni del 26 maggio. Il Paese, l’interesse nazionale, i diritti del nostro popolo, vengono dopo i voti. Al confronto, Gianni De Michelis era un gigante. Non si amavano neppure quei leader di allora, ma gli insulti quotidiani di questo tempo debole fatichiamo a ricordarli. Anche se siamo di memoria lunga. Certo, c’erano i brutti vizi della prima repubblica. Ma siamo sicuri di poter dire che oggi sia tanto meglio? Se questo si chiama cambiamento, ci sarà chi griderà “Aridatece De Michelis”.
Bastano i vitalizi? Dopo un anno di governo, non è semplice giustificare il cambiamento con l’abolizione dei vitalizi. Che esistono ancora e semmai sono stati trasformati in pensione. Perché lo decise il governo Monti…Il reddito di cittadinanza è certo cambiamento. Culturale e devastante, perché al posto del lavoro emerge il diritto all’assistenzialismo persino se stai in un campo nomadi. De Michelis e chi viene bollato spregiativamente come appartenente a “quelli di prima” hanno commesso tanti errori. La differenza tra ieri e oggi sta nell’odio che emerge dai social. Lo Stato è sempre più indebitato. Le famiglie pure. Parlavano di politica e li ascoltavi. Ora l’ambizione è aspettare la fine del comizio per farsi fotografare con loro. I più eroici fanno la fila per fare un dispetto a Salvini. Ve li immaginate a Sigonella, Conte e compagnia? Si vive sempre più alla giornata, non c’è visione del futuro, ecco perché siamo dispiaciuti della triste morte di De Michelis. Certo, non siamo nostalgici di quelle politiche, che conoscemmo e combattemmo. Ma sappiamo distinguere tra il giusto e ciò che era sbagliato. Qui, ora, se ne dicono di tutti i colori tra di loro ed è davvero molto triste, lo spettacolo. Dice il pigro “ma se cascano arriva il Pd”. E quanto durano…
L’eredità “corsara” di De Michelis sopravvissuta alla fucilazione mediatica che sterminò i socialisti. Fabrizio Cicchitto il 21 Maggio 2019 su Il Dubbio. La commozione provocata dalla morte di Gianni De Michelis ha giustamente concentrato l’attenzione sulla sua straordinaria personalità. Vale la pena, però, collocare l’esperienza politico- culturale di De Michelis nella storia del PSI conclusasi drammaticamente fra il 1992 e il 1994. Alle elezioni del 1976 il PSI ebbe il suo minimo storico, il 9,6%: il rischio della scomparsa era altissimo. Quel risultato provocò la rivolta del Midas che nel 1976 portò alla segreteria di Bettino Craxi eletto da parte di una maggioranza assai eterogenea costituita dagli autonomisti nenniani, dai giovani lombardiani ( Signorile, De Michelis, Cicchitto e altri), da una dissidenza demartiniana ( Enrico Manca, Salvatore Lauricella). Si trattò di una rivolta generazionale e di una rifondazione politico- culturale. Bettino Craxi parlò esplicitamente di riformismo, di liberalsocialismo, dell’Internazionale Socialista, del totalitarismo comunista e sostenne, anche finanziariamente, tutte le dissidenze, dal dissenso in URSS e nei paesi comunisti, a coloro che in Spagna e poi in Cile erano contro le dittature di destra, ai palestinesi. Oltre a Craxi ci fu l’affermazione di alcune forti personalità, da De Michelis, a Martelli, agli esponenti della sinistra lombardiana. Sia Craxi che De Michelis, in polemica con la Thatcher, erano per la costruzione dell’Europa, ma per un’Europa diversa da quella ipotizzata dai tedeschi. Sul terreno più strettamente politico quel PSI condusse una sorta di “guerra corsara” sia nei confronti della DC, sia nei confronti del PCI. Insomma il PSI divenne una specie di crogiuolo di fermenti culturali, politici e sociali spesso innovativi, talora velleitari. Tutto ciò veniva finanziato senza guardare troppo per il sottile, in modo regolare e in modo irregolare. Ma allora tutti i partiti si finanziavano in modo irregolare: quello che aveva il finanziamento più irregolare di tutti era il PCI che sommava insieme il finanziamento sovietico, quello dell’ENI, quello delle cooperative e quello delle tangenti dei privati. Di conseguenza quando Berlinguer in un’intervista a Scalfari aprì la cosiddetta questione morale rivolta anche contro la corruzione dei partiti ( ovviamente gli “altri partiti”, perché il PCI era un partito diverso, dalle mani pulite) cavalcò un’autentica mistificazione che però nel futuro avrebbe avuto effetti devastanti per la democrazia italiana. Così si arrivò alla fase 1989- 1991, quella segnata dal crollo del comunismo in URSS e nei paesi dell’Est. Per un verso Craxi e quasi tutto il PSI attesero fiduciosi che “ritornasse Godot”: Godot era la presidenza del Consiglio che ovviamente poteva arrivare solo in seguito ad un rinnovato accordo con la DC. Ma Craxi considerò che il crollo del comunismo sovietico e lo stesso cambio del nome del PCI avrebbero portato al riconoscimento della sua leadership anche da parte del PCI, ragion per cui favorì l’adesione del PDS all’Internazionale Socialista e commise il tragico errore di non provocare le elezioni anticipate nel 1991, così come le sollecitava il presidente Cossiga. In quell’occasione Craxi, il leader socialista in un certo senso più anticomunista, fece una valutazione sul PCI- PDS del tutto sbagliata per il suo ottimismo: solo la minoranza migliorista ( Chiaramonte, Macaluso, Napolitano) dava al cambio del nome il senso di approdare all’unità socialista con il PSI. Invece Occhetto puntava ad una fuoriuscita “da sinistra” dal PCI con il recupero delle tematiche ingraiane. Per parte loro D’Alema e i “ragazzi di Berlinguer” fecero la scelta del cambio del nome per ragioni di realismo politico, ma ritenevano che il PDS doveva occupare lo stesso spazio del PSI, ma non unendosi ad esso, bensì in qualche modo sostituendolo. L’occasione fu offerta da Mani Pulite. Mani Pulite nacque al di fuori del PDS ad opera del pool di Milano e di una rete mediatica costituita dai quattro direttori dei principali quotidiani ( Corriere della Sera, Repubblica, Stampa, Unità), che negli anni ’ 92-’ 94 si consultava alle 19 di ogni sera, dal TG3 e da trasmissioni come Samarcanda. Ora, Tangentopoli era un sistema di finanziamento irregolare che coinvolgeva tutti i grandi gruppi privati e pubblici ( in primis la Fiat, la Cir e l’Eni) e tutti i partiti, PCI compreso. Invece Mani Pulite e il circo mediatico decisero di fare un’operazione selettiva: distrussero il centro- destra della DC, tutto il PSI, i partiti laici, salvando il PDS e la sinistra democristiana. In quel quadro Bettino Craxi e Gianni De Michelis furono i primi di un’autentica lista di proscrizione. A quel punto Craxi fece alla Camera un discorso di verità, ma nessuno lo raccolse. Non lo raccolse ovviamente il PDS che dal pool di Mani Pulite aveva un salvacondotto, ma per cecità non lo raccolse neanche la DC, sicura (“dottrina Gava”) che la consegna di Bettino Craxi “ad bestias” avrebbe soddisfatto e fermato il giustizialismo. Avvenne invece l’opposto e Gava, Forlani, Andreotti, insieme a molte centinaia di altri parlamentari democristiani finirono al mattatoio. Così l’anomalia italiana dopo essere stata caratterizzata dall’esistenza del più forte partito comunista dell’Occidente ha avuto un altro exploit: solo in Italia è avvenuto che ben cinque partiti sono stati azzerati non dal voto degli elettori, ma dall’iniziativa di magistrati che, a parità di reati, salvò invece una parte del sistema politico. Così nei confronti di due uomini di Stato di grande statura come Craxi e De Michelis fu effettuata un’operazione di demonizzazione con meccanismi simili alla logica che ispirò piazzale Loreto: Craxi fu rappresentato come “il cinghialone” da abbattere senza guardare troppo per il sottile e De Michelis come “l’unto” da inseguire per le calli di Venezia. Il partito non ha retto all’urto, ma grazie alla Fondazione per il Socialismo e a Mondo Operaio è riuscita un’operazione quasi impossibile: grazie ai dieci volumi dedicati a Craxi e al PSI degli anni 1976- 1994 è stato possibile elaborare una storia alternativa a quella dei vincitori, che solitamente è l’unica che rimane in campo.
· Parla Claudio Martelli.
Claudio Martelli: «L’ultima telefonata con Craxi a Natale. La sua voce era così stanca». Pubblicato sabato, 12 ottobre 2019 da Corriere.it su Walter Veltroni. Claudio Martelli: «Io e Bettino avevamo idee diverse sui democristiani. È stato trattato senza pietà, la sua storia va ripensata. Nella guerra tra Stato e mafia non ci fu una trattativa, ma un cedimento unilaterale del primo alla seconda».
Claudio Martelli, c’è un paradosso nella storia politica italiana. Durante la Prima Repubblica, ammesso ne sia mai esistita una seconda, in vari momenti le diverse forze della sinistra avevano una forza superiore a quella della Dc. Ma non hanno mai governato insieme.
«Negli anni 80 effettivamente la sinistra era maggioritaria, sommando socialisti, socialdemocratici, comunisti, radicali. Era certamente maggioranza. Un portato dei referendum, quelli sui diritti civili, su divorzio e aborto. Bisognava concepirla a tappe, questa unità della sinistra: socialisti e laici, uniti, e i comunisti, rispettando i tempi della loro evoluzione, che era in corso. Modificando la prospettiva di fondo di Berlinguer tutta volta al dialogo con la Dc. Lui era veramente convinto che non si potesse governare un Paese come l’Italia con il 51%. Io penso invece si potesse, perché era un Paese democratico. Ma perché, non ci sono stati lo stesso gli attentati? Hanno rapito Moro per evitare il compromesso storico, quindi non era certo una prospettiva più rassicurante dell’alternativa. Il compromesso storico serviva a legittimare definitivamente il Pci: il problema storico del Pci era quello. E contemporaneamente a mantenere i tratti della diversità comunista. La legittimazione, nella sua fotografia statica, è cosa diversa da una visione revisionistica della propria storia. La sinistra che ha vinto in Europa è la sinistra non marxista, i laburisti inglesi e la socialdemocrazia tedesca che non erano dottrinari, attingevano, come mi disse Brandt, più a Lassalle che a Engels. Quanto più l’impianto ideologico è rigido, coerente, implacabile, tanto più prende l’impronta settaria e il settarismo è la premessa della divisione. La divisione è la premessa dell’impotenza o della sconfitta. Ieri come oggi».
Anni 70: quando il Pci propone il compromesso storico il Psi è sulla linea dell’alternativa, con il congresso di Torino. Poi il Pci, scottato dalla vicenda della solidarietà nazionale, propone l’alternativa democratica e in quel momento il Psi si immerge nel buco nero del pentapartito. È una conversazione continuamente interrotta. Si è sempre cercato di essere divisi?
«Bisogna essere onesti: per ragioni diverse, forse opposte, né Berlinguer né Craxi volevano l’incontro. Non per ostilità tra di loro. Per una visione diversa delle cose, ma simile nella scelta dell’interlocutore principale. Per Berlinguer il grande incontro, quello storico, era con le masse cattoliche e, in un certo senso, anche per Craxi era così. Craxi era veramente convinto dell’alleanza con la Dc. Lui fino al ’56 affiggeva i manifesti della sinistra unita e c’erano, anche a Milano, sezioni in comune tra i due partiti. Ma l’Ungheria cambiò tutto, anche in lui. Le sue esperienze cambiano, diventa l’interlocutore, nell’Unuri, dell’ala democristiana. In realtà quello che ha sempre diviso i socialisti e i comunisti è la questione cattolica. Ma non nel senso che non fossero d’accordo. Tutti e due erano convinti fosse la questione decisiva, molto più che i rapporti tra i loro partiti di sinistra. Ma volevano un’esclusiva del rapporto e temevano l’avesse l’altro».
Frattocchie 1983, incontro tra Pci e Psi. Che ricordo hai?
«Mah. Una cosa abbastanza fredda, con momenti di aperture reciproche. Però pesava una coltre di diffidenza. Lì c’è stato un eccesso di chiusura da parte di Berlinguer. Se avesse assunto un atteggiamento diverso nei confronti della presidenza del consiglio di Craxi forse qualcosa sarebbe cambiato. Forse, qualcosa. Non era una svolta pazzesca, era un grado di avvicinamento, quello compatibile con il mantenimento delle proprie posizioni. Il compromesso storico era tramontato, l’unità nazionale pure, si era già votato, quindi si era entrati in una nuova fase. Il Pci, in quella fase, era attratto dall’idea del “governo degli onesti”. Sono sempre stati molti i giochi di specchi nella storia politica italiana: pezzi della borghesia illuminata che dialogano con il Pci, esponenti della borghesia più dinamica e più nuova che invece dialogano con il Psi. Settori del mondo cattolico e della Dc che guardano piuttosto ai socialisti ed altri che guardano invece ai comunisti. Alla fine però questo gioco era a somma zero e l’unica che se ne è avvantaggiata è stata la Democrazia cristiana. I due forni sono sempre esistiti. Anche prima di Andreotti. Lui ne è diventato il teorico, tenendo aperte molteplici ipotesi di collaborazione. Era stato l’uomo del governo a destra con Malagodi, poi della solidarietà nazionale con il Pci, poi del pentapartito con un rapporto preferenziale con il Psi. Una catena di forni, sempre aperti».
Vicenda Moro. Nell’intervista che mi ha rilasciato, Formica si chiede: noi vedevamo Pace e Piperno all’aperto, non di nascosto, informavamo Viminale e Quirinale, poi Pace e Piperno andavano da Morucci. Perché diavolo i servizi non li hanno seguiti?
«E perché via Gradoli? Il Lago della Duchessa?»
Che idea ti sei fatto di quei giorni?
«La domanda di Rino è pertinente. Come mai nessuno si è mai sognato di seguirli? Sarebbero arrivati alla prigione di Moro. C’era l’Unità di Crisi presieduta da Cossiga con addirittura dei collaboratori internazionali, gli americani Pieczenik e Ledeen. Ledeen: quello che, per Sigonella, fece litigare Reagan e Craxi, con una traduzione che esasperò i toni della polemica. Anche quel passaggio non è mai stato chiaro: nella vicenda di Sigonella quali interessi serviva Ledeen dentro l’amministrazione? La Cia? Moro: troppi episodi che dimostrano che non lo si è voluto salvare. Fili di collegamento con i servizi cecoslovacchi, c’è la presenza americana preoccupata, la dichiarazione di Kissinger. E poi le figure di Cossiga e Andreotti. Il primo fa un gioco spericolato e spregiudicato, lo fa essendo amicissimo e legatissimo a Moro. Come fai a non impazzire? Ricevi quella lettera e contemporaneamente hai, nella tua Unità di Crisi, gente che dice che non lo vuole trovare o che spera di trovarlo già morto. Altro che non dormirci la notte... Si capisce che poi sia stato male per il resto della sua vita, si è portato sulla coscienza un peso. Anche Andreotti chiuse qualunque varco e pare addirittura che la dichiarazione del Papa sia stata corretta da lui. C’è da restare sgomenti. Mai visto un’interpretazione così estrema e così crudele della ragion di Stato. Mai».
Al vostro congresso di Verona Berlinguer viene fischiato. Colpì l’avallo finale di Craxi: «Se avessi saputo fischiare, avrei fischiato anch’io». Non si seminava un odio che creava un baratro? Che impressione fecero a uno come te, che nell’unità della sinistra credeva?
«Beh, devo essere sincero, ero molto combattuto tra la mia educazione e la temperie della lotta politica. Mi dispiace fischiare, inviti uno e poi lo fischi... Però lui aveva appena detto che noi eravamo un pericolo per la democrazia, il governo Craxi era un pericolo. Nei festival dell’Unità c’erano gli stand con la trippa alla Bettino. Craxi era un combattente per natura, temperamento e convinzione. Lui è diventato un anticomunista nel ‘56, dopo gli anni di esperienza unitaria di cui abbiamo parlato. Esistevano gli anticomunisti democratici, anticomunisti non reazionari, categoria di cui il Pci togliattiano, soprattutto, tendeva a negare l’esistenza. Se sono anticomunisti sono fascisti. Kennedy, Moro, Brandt erano anticomunisti, ma certamente democratici. I fischi sono la replica di uno che è in conflitto aperto con i comunisti. Nenni non era mai arrivato a questo, forse neanche Saragat. La categoria del “tradimento” è stata molto presente, spesso tragicamente, nella storia della sinistra. Craxi si ribellava a questi toni e, facendolo, allargava però il solco. Dicendo “fischierei anch’io”, difende il suo popolo, che lui stesso aveva fomentato, si identifica con esso, non lo delegittima. Quindi, pur essendo lontano dal mio spirito, capivo. Lo capivo e l’ho anche condiviso. Quando l’ha detto, ho applaudito anch’io. Ma tra fischi e insulti la sinistra allontanava la sua unità possibile».
Parliamo della parabola di Craxi.
«Guarda la storia del Psi prima di Craxi: la crisi dell’unificazione socialista nel ’66, la nuova scissione, le peripezie, Mancini, quell’andamento così plumbeo della segreteria di De Martino: insomma la doppia subalternità. Al governo con la Dc, all’opposizione con i comunisti. Liberarsi da questo retaggio è stata un’impresa titanica, come riprendere un partito esangue, com’era quello del ’76, e tirarlo fuori dalla sua crisi. Il Psi era malato di divisioni, di velleitarismo che volta per volta diventava massimalismo o ministerialismo. Craxi aveva chiarissime tutte le debolezze strutturali del suo partito, voleva superarle e ha lottato per superarle».
Quando inizia la parabola discendente?
«Nel 1987. Con la fine dell’esperienza di governo lui diventa lentamente un’altra persona. Non credo mi faccia velo il fatto che allora sono cominciati tra di noi dei contrasti. Noi avevamo raccolto le firme con i Radicali per il referendum sulla giustizia giusta e io avevo difeso il diritto di quelli che avevano raccolto le firme sul nucleare a celebrare il loro referendum. De Mita, con la staffetta, ritira la fiducia al governo Craxi. Si aprono le consultazioni. Craxi dice: “O mi ridanno l’incarico o andiamo al voto”. “Ma tu sei sicuro che ti lascino andare al voto guidando il governo?” “Sono sicuro”. “Io non ci credo”. Puntualmente Cossiga dà l’incarico a Andreotti. Alle consultazioni vado io. Con Andreotti concordiamo una soluzione per l’uscita dal nucleare, dopo il referendum, attraverso un nuovo piano energetico nazionale e lui si spinge fino ad aprire sull’elezione diretta del presidente della Repubblica. Disse: “La Dc non può accettare questa impostazione però ne potremmo accettare una più gradualista. Se, dopo la terza elezione nulla in Parlamento, non si configura nessuna maggioranza in grado di eleggere il presidente della Repubblica, a quel punto si può ricorrere al voto popolare”».
Per la Dc una bella svolta...
«Entusiasta corro da Craxi. È furioso: “Tu la devi smettere di occuparti della crisi, la seguo io”. “Guarda che ci propongono di celebrare i referendum. Noi li vinciamo, andiamo a votare dopo. Che ti frega di tenerti Andreotti per un anno?”. Ma disse no al tentativo di Andreotti, e ci beccammo Fanfani. Nell’87 si spezza la fase ascendente. Lo riconobbe: “Ho fatto un unico errore” mi disse, “tornare a via del Corso dopo la presidenza. Avrei dovuto occuparmi di Onu e di Internazionale socialista. Tornando al partito sono passato dal ruolo che avevo conquistato per me e per i socialisti — guidare il governo più duraturo della storia repubblicana e occuparmi delle grandi questioni — a dover brigare per fare ministri, sottosegretari”».
Quando finisce il Psi?
«Il Psi finisce con Mani pulite. Inutile girarci attorno. Alla vigilia delle elezioni del ‘92 il rapporto tra Bettino e me era sempre molto affettuoso, però si era creata qualche distanza. Io pensavo fosse finito il ciclo della coalizione con la Dc e bisognasse rischiare e sperimentare vie nuove. Un sabato sera vado a casa sua. Gli dico che trovo sbagliato impegnarsi con la Dc prima del voto, lo spingo a tenere una mano sulla testa al passaggio da Pci a Pds perché, se noi ci mettiamo a fare i guardiani di una roba finita, il pentapartito, il risultato sarà che loro cercheranno un’intesa con la Dc. È inevitabile. Mi ascolta, ma scrolla la testa: “Claudio io li ho combattuti tutta la vita, me ne hanno fatte di tutti i colori. Adesso quella storia è finita, quella del Comunismo internazionale, e io non voglio che nemmeno un calcinaccio di quei muri mi cada in testa. Si arrangino”. Era questa la sua posizione. L’unità socialista rivestiva, ma in modo difensivo, questa attitudine».
Il congresso di Torino del 1978 e la Convenzione programmatica di Rimini del 1982, famosa per le idee sul «merito e il bisogno», sono punti avanzati del pensiero riformista italiano. Ma poi molto cambia, nella costituzione materiale del Psi. Come se il partito fosse stato «occupato» da persone che, con quei valori, non avevano molta relazione.
«Sì, e Bettino se ne accorse. Ricordo un incontro nell’ascensore alla Direzione del partito. Entra un compagno noto, non dico chi. Lui lo guarda e dice: “Ma a te non ti hanno ancora arrestato? Con quello che stai combinando...”. L’affaire politica è sempre esistito, anche nel glorioso primo dopoguerra, anche nel secondo dopoguerra. Mussolini pigliava quantità sterminate di denaro da tutti i suoi foraggiatori e nel dopoguerra i partiti appena nati avevano bisogno di vivere. La Dc prendeva i soldi dalla Cia, il Pci dall’Unione Sovietica, il Psi per un po’ li ha presi anche lui dall’Unione Sovietica poi invece sono passati al Psiup, come è poi successo al Pci con Cossutta. Dopo di che il partito si è arrangiato. Naturalmente l’arrangiarsi era molto più rischioso che non i canali super riservati dei finanziamenti internazionali. Ogni tentativo di mettere ordine, che pure facemmo con Formica e Nesi, fu travolto dalle lotte correntizie interne. Le correnti si devono finanziare e la forma è ancora più rischiosa. Questo andazzo è durato dieci anni. Ma, diciamoci la verità, Tangentopoli e Mani pulite non sarebbero successe senza il crollo dei muri a Berlino Est. Fu un cambio d’epoca».
Se tu nell’87 fossi diventato Segretario cosa sarebbe cambiato nella sinistra italiana?
«Quello era il momento giusto. Avremmo costituito un polo laico e socialista oltre il 20%, e a quel punto il rapporto con il Pci si poteva impostare, ben prima del crollo dei muri, in modo più serio. Quale era la richiesta che Occhetto, il gruppo dirigente del Pci di quegli anni, poneva come una prova di serietà delle nostre intenzioni e di lealtà futura? Che noi sperimentassimo di stare all’opposizione insieme. Ma Bettino diceva: “Sì, così noi andiamo all’opposizione e si ritorna al ’76: il Pci si mette d’accordo direttamente con la Dc”. No, in quel momento bisognava cercare strade nuove. Dopo il ’92, dopo la fine del Psi, quando la sinistra tutta era poco oltre il trenta per cento, avrei lavorato per il Partito democratico, prospettiva della quale, con Occhetto, avevamo parlato».
Claudio Martelli è nato a Gessate (Milano) nel 1943. È stato deputato italiano ed europeo, ministro della Giustizia e vicepresidente del Consiglio. Ha lasciato la politica nel 2005.
C’è un momento, nel ‘92, in cui tu hai capito che stava arrivando lo tsunami?
«Non Mario Chiesa. Gli avvisi di garanzia ai due sindaci, Tognoli e Pillitteri. Lì cominciò tutto. La gente che scappava. La catastrofe la avverto nell’estate del ’92. In quei mesi ero concentrato sulla questione della mafia. E forse non ho percepito per tempo che stava arrivando la grande slavina. Ero ministro della Giustizia e il mio fronte principale era Palermo: avevano ammazzato Falcone e Borsellino, tolto di mezzo Scotti, lo Stato era in ginocchio. Caponnetto diceva “tutto è perduto”. Lo chiamai al ministero per tornare ad impegnarlo. C’era un clima da fine vera. Io ho avuto paura di un cedimento dello Stato. L’ho avuta, l’ho vista ai funerali di Falcone. Quella era la guerra vera. La mafia contro lo stato. E poi il cedimento ci fu. Non c’è stata la trattativa, c’è stato un cedimento, unilaterale. Quando Conso dice: “Io e solo io decisi di togliere dal 41 bis centinaia di mafiosi e lo feci per dare un segnale di disponibilità all’ala moderata di Cosa nostra guidata da Provenzano”, tratta la mafia come fosse un partito. Non è una trattativa, è un cedimento unilaterale».
Un collaboratore di Messina Denaro ha riferito di un attentato in preparazione contro di te. Tu chiamasti Falcone al ministero e questo bastò per scatenare, contro di lui, una polemica durissima.
«La mattina ho giurato da ministro, il pomeriggio ho chiamato Falcone. Gli ho detto di venire a Roma, volevo offrirgli la direzione degli Affari penali. Falcone non era un politico, era il miglior magistrato al mondo, così era considerato. Salvo che a Palermo. Come disse Borsellino anche la magistratura aveva responsabilità gravi. Falcone ha cominciato a morire quando gli preferirono Meli al Consiglio superiore, quando lo fregarono per l’elezione al Csm, quando lo rifregarono per la nomina a procuratore a Palermo. Il tutto condito, come tu ricordavi, con azione denigratoria pazzesca, che non veniva da anfratti di sovversivi, erano membri del Consiglio superiore della magistratura, ambienti di stampa e politici».
Ti ricordi l’ultima conversazione che hai avuto con Craxi?
«Sì, nel dicembre del ’99. Alla vigilia di Natale. Non lo sentivo da un pezzo. All’inizio, dopo che era rifugiato a Hammamet, mi aveva lasciato un numero riservato. Lo chiamavo dalle cabine telefoniche. Noi vivevamo come braccati, chi non l’ha vissuto fa fatica a capire il clima in cui abbiamo vissuto il ’92, ’93, ’94. Abbiamo parlato i primi due anni, poi non so cosa è successo, in esilio. Per due o tre anni sono caduti i contatti. Alla fine Stefania me l’ha passato al telefono. Mi dice: “Ti devo fare una sorpresa” ed ero felice. Anche lui era molto contento, mi chiese di mio figlio. Mi sono commosso, lui aveva una voce stanchissima. Gli ho detto: “Vengo a trovarti”. “Aspetta un momento, adesso mi sono appena ripreso dall’operazione”. Invece non si riprenderà più. La sua morte è ancora oggi inaccettabile. Non esisteva per il governo la possibilità di prendere un aereo e farlo operare a Madrid, a Parigi, a Tel Aviv? Non si fa operare un ex presidente del Consiglio in un ospedale non attrezzato, con uno dei medici che deve chiedere all’infermiere di reggere la lampada per illuminare il tavolo operatorio. Napolitano ha ragione: Craxi è stato trattato con una durezza senza eguali. Qualunque cosa abbia fatto è stato trattato con una durezza e spietatezza inaudita, in Italia. Perché? È una storia tragica però bisogna avere il coraggio di ripensarla. Ripensare Craxi non è così un vezzo per i craxiani, o gli orfani, è una necessità, quantomeno un’utilità per ricomporre una storia. Si sono perdonate cose ben più gravi, nella storia della sinistra italiana, che non il finanziamento illecito al partito».
È finito il socialismo?
«No, io non penso che sia finito, il socialismo. Dedicherò quel che mi resta da vivere a dimostrarlo. È stato un errore credere alla storia della fine delle ideologie, bubbola inventata dal pensiero unico. In realtà, spazzando via insieme con il comunismo anche il socialismo, la socialdemocrazia, i fermenti più radicali delle varie forme di sinistra e persino il liberalismo nella sua forma autentica e le culture democratiche, è rimasta in piedi un’unica ideologia che è il nazionalismo sovranista. Prima gli italiani, dicono. Quando uno dice prima gli italiani, prima gli americani, la cosa importante che ti sta dicendo è che tu vieni dopo. Tu non sei importante, non sei come loro. Non esisti, sei un problema. Non una risorsa, come invece è chiunque di noi».
Caro Martelli, nell’ 87 fu De Mita a impedire un governo Andreotti. Così mi confessò Bettino. Francesco Damato il 15 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Il leader della Dc voleva andare alle elezioni e fece in modo di favorire il governo monocolore di Fanfani, ingabbiare Cossiga e incassare la staffetta. Anche a distanza di quasi vent’anni dalla morte di Bettino Craxi avverto una certa difficoltà umana a contestare qualcosa che Claudio Martelli gli attribuisce o rimprovera rievocando la loro collaborazione politica, come ha appena fatto in una lunga ed anche toccante intervista a Walter Veltroni sul Corriere della Sera. La difficoltà nasce dalla conoscenza personale che ho avuto della particolarità del loro rapporto. Che era simile per certi versi a quello che il leader socialista aveva con Silvio Berlusconi. Dell’uno o dell’altro capitava spesso a Bettino di lamentarsi confidenzialmente per cose o affari piccoli e grandi, sentendosi un po’ strattonato da loro. Ma se, magari invogliato da questi suoi sfoghi personali, prendevi anche tu qualche volta l’iniziativa di criticarli per una qualsiasi ragione, anche estranea ai loro rapporti con lui, Bettino si rabbuiava e, spiazzandoti, li difendeva come se avessi toccato un suo familiare. Persino nella torrida primavera del 1992, dopo le ultime elezioni della cosiddetta prima Repubblica, quando Marco Pannella diffuse la voce di un curiosa udienza al Quirinale dei ministri dimissionari dell’Interno e della Giustizia, il socialista Martelli, appunto, in cui il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, allarmato dagli sviluppi delle indagini giudiziarie milanesi su Tangentopoli, si mostrò tentato di mandarli insieme a Palazzo Chigi uno come titolare e l’altro come vice, al posto del leader socialista, che vi aspirava con l’appoggio del segretario della Dc Arnaldo Forlani; persino allora, e in quel frangente, dicevo, Bettino prese con me le difese di Claudio dai sospetti di slealtà nati dalle indiscrezioni pannelliane. Poi – è vero – si disse che nella formazione del governo, dopo l’incarico di presidente del Consiglio affidato su designazione dello stesso Craxi a Giuliano Amato, fosse caduto su Martelli un imbarazzante veto di Bettino per la sua conferma a Guardasigilli, nonostante il ministro uscente fosse stato da Craxi incluso nella terna socialista, con Amato e Gianni De Michelis “in ordine non solo alfabetico”, proposta al Capo dello Stato al termine delle consultazioni per la soluzione della crisi. Ma Martelli fu confermato. E se lo sentì garantire dallo stesso Craxi al telefono. Ora vengo a sapere da Martelli, nella già citata intervista a Veltroni, che nel 1987 egli si vide rifiutare da Craxi, presidente del Consiglio ormai dimissionario per la fregola della “staffetta” a Palazzo Chigi rivendicata dall’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita, una più che ragionevole e onorevole soluzione della crisi a favore di Giulio Andreotti. Che peraltro era in quel momento il suo ministro degli Esteri, con reciproca stima e amicizia seguite agli anni in cui Craxi sognava la “volpe” Andreotti in “pellicceria”: magari, quella situata nel piano sottostante a quello dell’ufficio dello stesso Andreotti in Piazza San Lorenzo in Lucina. In particolare, Andreotti avrebbe garantito lo svolgimento dei referendum sulla giustizia e sul nucleare avversati da De Mita e aperto all’elezione diretta del presidente della Repubblica dopo tre tentativi eventualmente falliti in Parlamento. «Che ti frega di tenerti Andreotti per un anno» a Palazzo Chigi di fronte a queste concessioni?, ha raccontato Martelli di avere detto in quell’occasione a Craxi, peraltro seccato che lui si fosse “occupato” della crisi. Ebbene, a questo punto debbo dire che ben altro fu il racconto di quel passaggio fattomi da Craxi, e confermato dai fatti poi avvenuti. Andreotti fu fermato non dal no di Bettino ma dal no di De Mita, che voleva, fortissimamente voleva e ottenne insieme la fine della prima presidenza socialista del Consiglio e lo scioglimento anticipato delle Camere, il cui mandato ordinario scadeva l’anno successivo. Le elezioni furono gestite da un governo monocolore democristiano di Amintore Fanfani cui i deputati del suo partito negarono la fiducia, astenendosi, perché il presidente della Repubblica Francesco Cossiga non potesse sottrarsi al dovere di trarne le conseguenze sciogliendo le Camere. Lo ricordo per la cronaca, o per la storia con la minuscola, perché quella con la maiuscola non dovrebbe neppure contemplare una vicenda così poco ortodossa, a dir poco, sul piano istituzionale e persino etico.
· Le lettere del giovane Craxi: ho tante grane politiche.
Le lettere del giovane Craxi: ho tante grane politiche. Pubblicato mercoledì, 8 maggio 2019 da Stefano Lorenzetto su Corriere.it. Sono indirizzate all’«avv. Vittorio Craxi, via Besana 10, Milano». Lettere prive di date (desumibili però dai timbri postali) che il figlio Bettino, ventiquattrenne vicepresidente dell’Unione nazionale universitaria rappresentativa italiana, scrisse nel 1958 al padre, da Roma. Le ha ritrovate il cognato Paolo Pillitteri fra le carte di sua moglie Rosilde, sorella di Bettino, morta nel 2017. Offrono squarci inediti sulla personalità del futuro leader socialista. «L’aria di Roma mi fa ingrassare», si cruccia Craxi, attribuendo al ponentino i probabili effetti delle amatriciane. Vive alla pensione Padova, «ma ho in animo di cambiare in meglio», anche se le comodità dell’hotel Raphaël sono di là da venire. «Sto naturalmente bene», rassicura spavaldo. «Sono però pieno di grane politiche come non mai. Dovrò quindi riflettere e lavorare non poco per superarle. (Senza considerare i miei casi personali che ho sempre messo in sottordine ma che cominciano a premere con una certa urgenza. In particolare debbo dire che non sono affatto disposto ad attendere i crismi della “assoluta tranquillità” economica ecc. ecc. per risolvere il problema mio e di Anna, giunto a sufficiente maturazione)». Sposerà Anna Maria Moncini l’anno seguente, usando il tram per recarsi in municipio. Un passo esortativo denota l’inclinazione alla prodigalità: «Che la madre non si preoccupi perché se ho bisogno di biancheria di ricambio me la compro». Lo stipendio di «90.000 lire mensili più le spese extra» glielo consente. Subentra tuttavia uno scrupolo morale: «Dovrei percepire comunque, sia che firmi presenza a Roma sia che non la firmi (ma ovviamente non ne posso approfittare)». Nella lettera c’è un post scriptum: «Tempo fa promisi al Festa un favore. Dovreste pregarlo di inviarmi i dati necessari (nome, cognome, qualifica dell’ente “fantasma” che rappresenta). Forse forse ho trovato una via», con l’avverbio ripetuto due volte. In uno scritto successivo diventerà «la “ditta” del Festa». Un ricordo è per «la mamma che mi ha messo un sant’Antonio nella giacca, e mi ha commosso molto». Quando lo intervistai ad Hammamet, un anno prima che morisse, Craxi mi rivelò che da bambino avrebbe voluto farsi prete: «Nella sacrestia della chiesa di San Giovanni in Laterano, a Milano, stavo per ore sull’inginocchiatoio a fissare un dipinto con il volto della Sindone. E Gesù a un certo punto apriva le palpebre e mi guardava». Ci sono poi le missive di respiro internazionale. Una arriva da Pechino: «Sono all’hotel dove Malaparte alloggiò nel suo soggiorno in Cina (facciamo le corna ai ricorsi e alle analogie)». Interessanti le osservazioni antropologiche: «I cinesi sono di una generosità senza pari. Se starnutisci, ti portano dal dottore. Raffinati e gentili, vogliono che l’ospite non abbia desideri inappagati». Craxi non ne ha: «Ho tutto ciò che desidero. Dico tutto». La storia dimostrerà che ancora non gli bastava.
In ricordo del Presidente Francesco Cossiga. Stefania Craxi su Il Corriere del Giorno 17 Agosto 2019. Il 17 agosto di 9 anni fa veniva a mancare Il Presidente Francesco Cossiga. La senatrice Stefania Craxi lo ricorda con questo testo, uscito come speciale per l’Adnkronos. La Fondazione Craxi pubblica nel giorno in cui si celebra il nono anniversario della morte di Francesco Cossiga, una lettera inedita, custodita nei suoi archivi, che il leader socialista Bettino Craxi scrisse all’allora presidente del Consiglio durante gli anni del suo esilio ad Hammamet. A quasi un decennio dalla sua scomparsa, Francesco Cossiga resta una delle figure di maggior spessore politico e di altro profilo istituzionale della nostra storia repubblicana. Una personalità enigmatica, le cui scelte e decisioni sono state spesso di difficile lettura, a tratti incomprensibili, e mai definitive. Era anche questa una delle cifre caratterizzanti del rapporto con Bettino Craxi. Dalle dimissioni anticipate dalla Presidenza della Repubblica alle oscure vicende di “Tangentopoli“, passando alla sua mutevole relazione con il “giudice” e il “politico” Di Pietro – senza tralasciare le vicende degli anni ’80 come Sigonella, in cui i due gestirono la vicenda l’uno dal Quirinale l’altro da Palazzo Chigi – sono molti i momenti che congiungono due personalità diverse ma con sensibilità comuni. Su tutto, basti pensare al tema delle riforme istituzionali che mai come in questi giorni, segnati da una crisi che più di governo potremmo definire l’ennesima crisi di sistema, si presenta come questione aperta. Infatti, dopo il saggio “VIII legislatura” vergato da Craxi sulle colonne de “L’Avanti”nel settembre del 1979 in cui il leader socialista invocava una "grande riforma" che abbracciasse insieme l’ambito istituzionale, amministrativo, economico-sociale e morale, fu proprio Cossiga a recuperare con forza il tema delle riforme in un messaggio alle Camere del giugno ’91. È sufficiente rileggersi le cronache del tempo per comprendere il clamore, l’isolamento e la portata riformatrice di quel messaggio presidenziale che evidenziava la necessità, un anno e mezzo dopo la caduta del muro di Berlino, di adeguare il dettato costituzionale, specie alla vigilia del varo di Maastricht. Cossiga come sappiamo fu bersagliato e isolato. Il suo messaggio trovò di fatto, non a caso, il solo Craxi come sostenitore, vista la freddezza di una parte della DC e, addirittura, la richiesta di messa in stato di accusa da parte del PCI. Ma quell’atto presidenziale resta ancora oggi un punto di riferimento, poiché ha il merito di indicare le principali direttrici di una ‘vera’ riforma costituzionale: dalla forma di governo al ruolo delle autonomie, passando per la disciplina dell’ordine giudiziario, ai nuovi diritti di cittadinanza, fino agli strumenti di finanza pubblica che, tra l’altro, da lì a poco le norme europee avrebbero radicalmente modificato. Il messaggio resta quindi, oggi come ieri, un prezioso vademecum per le riforme’, ignorato quanto utile, anche perché individuava le procedure possibili ed alternative, seppur rispettose del 138, per una revisione organica della Carta. Altro che le riforme "un tanto al chilo" di cui si parla oggi! Ma, il rapporto tra Craxi e Cossiga continuò, tra diversità e comunanze di vedute, anche dopo la "falsa rivoluzione" di "Mani pulite" e negli anni dell’esilio tunisino. Craxi si chiese spesso il perché di quelle dimissioni anticipate dalla Presidenza che, guardate a posteriori, cambiarono e influirono molto sugli accadimenti successivi. Viste i suoi legami internazionali e la nuova geopolitica che si schiudeva, era conoscenza di qualcosa? Viveva un altro dei suoi contrasti interni come negli anni del delitto Moro? Molto c’è ancora da capire e su molto c’è ancora da indagare e studiare. Ad ogni modo ricordo la sua visita ad Hammamet pochi mesi prima della morte di Bettino. È un incontro che ancora oggi mi emozione modi e intensità. Fu un pranzo tra due vecchi amici, con poche parole e molti sguardi, un incrocio tra due combattenti, duri e franchi, con due stili diversissimi, con alcune domande di Bettino e alcuni silenzi di Cossiga. Fu proprio l’ex Presidente a chiedere in quella occasione a Craxi di raccontare la verità sulla vera natura del finanziamento irregolare del PSI e sul suo principale impiego, ossia il sostengo a quanti, da Est a Ovest, in Medioriente come in Sudamerica, lottavano per la democrazia e la libertà. Ma in quella circostanza la perseveranza di Cossiga non ebbe la meglio. Craxi gli rispose che non avrebbe mai e poi mai mischiato le cause di libertà di mezzo mondo con le miserie italiane. Chissà, nell’opportunismo e nella confusione delle contingenze, nell’incapacità di leggere e agire nel quadro internazionale, quanti sarebbero oggi coloro disposti a farlo! Nel giorno in cui si celebra il nono anniversario della morte di Francesco Cossiga, la Fondazione Craxi pubblica una lettera inedita, custodita nei suoi archivi, che il leader socialista scrisse all’allora presidente del Consiglio durante gli anni del suo esilio ad Hammamet.
La lettera di Bettino Craxi a Francesco Cossiga. “Caro Presidente, mi auguro che tu stia bene e leggo con piacere ciò che scrivi a proposito di questa Araba Fenice chiamata ‘riforma costituzionale’. Leggo però anche cosa scrivi riguardo a Di Pietro: ‘Poveretto ha tanti guai. Lasciate in pace Di Pietro’. Ti confesso che sin dall’inizio non ho mai capito la tua posizione a proposito di questo signore. Mi sono chiesto tante volte a che cosa fosse dovuta” si legge nell’incipit della missiva. Gran parte della lettera è dedicata all’ex pm di Mani pulite, definito un “avventuriero” ma l’ex leader del Psi assicurava a Cossiga: “In ogni caso non starò zitto io. Sino ad ora subendo quello che ho subito e subisco, ivi compresa una sentenza della Cassazione che si è messa sotto i piedi anche una pronuncia chiarissima della Corte Costituzionale, senza che un’ombra di costituzionalista levasse una parola di protesta, mi sono imposto una condotta di estrema responsabilità. Aspetto ancora con pazienza una soluzione politica”. “Se non verrà e se mi convincerò che è inutile farsi illusioni – proseguiva Craxi – credo che la mia reazione, peraltro molto documentata, non mancherà, e renderà un buon servizio all’Italia e alla storia. Quanto al Di Pietro, come un suo libro, certo non scritto da lui, non meritava una tua prefazione, la sua attuale situazione non merita proprio quello che dici. Io mi auguro ancora che tu stesso riprenda il tema della ‘operazione verità’ di cui si è parlato e si parla. Ricordo, di tanto in tanto, i tempi passati e ti invio un fraterno saluto. Bettino Craxi”.
· "Una volta ladro sempre ladro".
"Una volta ladro sempre ladro", di Lorenzo Moretto. C'era una volta Tangentopoli. Recensione di Matteo Di Gesù. La Repubblica, 28 aprile 2019. Almeno 4.525 persone arrestate, 25.400 avvisi di garanzia, circa 1.100 tra parlamentari, consiglieri e politici a vario titolo coinvolti. Hanno ormai la caratura refertuale della contabilità della storia, queste cifre. Eppure sono spaventose. Sono i numeri delle inchieste su quella serie di episodi di corruzione e concussione, di frodi fiscali e molto altro, rubricati sotto a un lemma che, da neologismo bislacco dell'italiano televisivo, si sarebbe trasformato in una parola carica di una tale potenza significante da fecondarne altre: Tangentopoli. Come un inaspettato dispaccio da un passato recente, ma che è già lontanissimo, il romanzo d'esordio Lorenzo Moretto, "Una volta ladro sempre ladro", impone di varcare la ragioneria della cronaca degli anni Novanta e a rovistarvi dentro, raccontandoci di una di quelle 4525 persone. Si tratta del padre dell'autore: Giovanni Moretto, classe 1937, trevigiano trapiantato a Monfalcone, dirigente di un'azienda che produceva aviazione leggera e da diporto, il quale l'11 giugno del 1994 veniva arrestato con l'accusa di ricettazione, rivelatasi infondata dopo sei mesi di carcerazione preventiva e altrettanti di domiciliari. Moretto ricostruisce la vicenda optando per una scrittura sorvegliata e asciutta, ancorata a una prima persona che narra al passato e che non deroga mai da un impianto documentale rigoroso e quasi asettico, che non cede ad alcuna concessione digressiva o sentimentale, a tutto vantaggio della resa stilistica. Nel racconto del padre c'è anche quello del figlio, all'epoca ventitreenne prossimo alla laurea: a lui e al suo tempo appartiene il repertorio di riferimenti, da quelli musicali a quelli calcistici (la tensione, però, si indebolisce quando egli subentra, come protagonista, nella seconda parte, segnata da uno stacco cronologico e tipografico). Se, manzonianamente, la letteratura risarcisce chi nel regesto della Storia è andato disperso, restituendogli un nome e una storia, ci si può dire più che soddisfatti.
· Di Pietro, i tuoi segreti sono affari di Stato.
Di Pietro, i tuoi segreti sono affari di Stato, scrive Stefano Zurlo, Sabato 13/04/2019, su Il Giornale. Voleva farsi prete e questo ci sta. Ma poi la vita ha preso un'altra piega: dalla tonaca alla toga, il destino di Antonio Di Pietro si è compiuto. Ora però l'ex pm di Mani pulite gioca a fare il misterioso nascondendosi negli anfratti oscuri di una biografia mai scandagliata a sufficienza. Dal Molise contadino e democristiano alla procura di Milano e alla Rivoluzione che tagliò le teste dei democristiani, dei socialisti e della Prima Repubblica. Sono passati ventisette anni da quel 17 febbraio 1992 e dall'arresto di Mario Chiesa. Sospetti e retropensieri non sono mai evaporati. Le braci di quell'inchiesta travolgente ardono ancora nel camino della storia italiana e adesso, sorpresa, è proprio lui a riattizzarle nell'intervista a Diva e Donna. «La mia vera storia me la porterò nella tomba», annuncia sibillino l'ex magistrato, in precedenza contadino, operaio, poliziotto, e in seguito fondatore dell'Italia dei valori, un partito che anticipava alcuni temi della cosmogonia grillina, ministro dei Lavori pubblici e tante altre, troppe cose. Sì, oggi Di Pietro si coniuga soprattutto al passato ma questo non è un motivo sufficiente per seminare altri dubbi su un capitolo della nostra storia che è ancora divisivo, che non è stato mai risolto - sì, come si risolve un problema - in modo definitivo, che suscita dopo un quarto di secolo grandi interrogativi. Non si tratta di sposare in modo manicheo tesi complottiste o scenari dietrologici, ma certo la genesi di quella vicenda, al quarto piano del Palazzo di giustizia di Milano, pur raccontata mille e mille volte solletica domande ulteriori. Come quando si è scoperto che Di Pietro frequentava, quando era un perfetto sconosciuto, il console americano a Milano. Coincidenze, ma pure legami da spendere nella drammatica stagione che stava per cominciare. Stupisce dunque che il pm del Pool, dopo aver querelato per anni e anni chi ipotizzava una sua vicinanza o rapporti con gli 007 o con le potenze internazionali o, più banalmente, con la sinistra che si salvò dal naufragio e fu poi sconfitta a sorpresa da Berlusconi, ora si raggomitoli come un ragazzo fra le pieghe di quelle troppe esistenze cucite addosso con il filo e l'ago della sua ruvida impronta meridionale. Un uomo di Stato, un personaggio che ha segnato e anzi spaccato la coscienza di questo Paese, colui che ha mandato al macero i Craxi, i Forlani e i loro epigoni, dovrebbe averci detto tutto da un pezzo. Senza se e senza ma. Senza riserve e senza reticenze. C'era già stato un momento critico (eufemismo) quando si sfilò la toga. Inseguito dai fantasmi del suo passato non proprio cristallino. Ora tornare così, con mezze allusioni, su arresti, manette e flash di quei giorni lontani e decisivi, non è all'altezza del compito sostenuto. «Dovevano lasciarmela vivere in uno stato di diritto», si giustifica a proposito della propria parabola. Un finale sconcertante. Ma, ne siamo sicuri, non sarà nemmeno questa l'ultima puntata. Stefano Zurlo
Da Unione Sarda il 12 aprile 2019. "Volevo farmi prete, ma mi piacciono troppo le donne". Questa la rivelazione di Antonio Di Pietro, che si è raccontato in una lunga intervista al settimanale Diva e Donna. Rispondendo a una domanda sulla sua famiglia, l'ex magistrato ed ex leader dell'Italia dei Valori ha spiegato che ai suoi tempi, nel Molise rurale, "l'alternativa era fare il contadino o il prete o la suora. Dunque ho fatto le scuole medie in seminario. Ma poi, crescendo e 'impelando', ovvero diventando maschietto, ho capito che non era quello il mio mondo. Le minigonne mi interessavano più delle tonache". Ma l'uomo simbolo dell'inchiesta Mani Pulite non ha mancato di parlare, oltre che di Tangentopoli, anche dell'attuale situazione politica e dei suoi leader. Da Salvini ("Non mi piace chi governa facendo opposizione e strillando") a Berlusconi, che si ostina a restare in campo, nonostante l'età ("Ognuno fa quello che lo fa soffrire meno"). E proprio l'aver fondato un partito, diventando poi ministro, ha rivelato Di Pietro, è il suo grande rimpianto. "Rifarei tutto nella mia vita, meno che la politica. Non la rinnego, ne sono orgoglioso, ma non la rifarei. Perché devi dipendere troppo dagli altri". Poi una chiosa sibillina: "La mia storia vera? Me la porterò nella tomba. Dovevano lasciarmela vivere in un Paese di diritto".
Sul nuovo 7 Antonio Di Pietro racconta: «Ecco perché sono ritornato in campagna». Pubblicato domenica, 26 maggio 2019 da Vittorio Zincone su Corriere.it. Questa è una parziale anticipazione dell’intervista che Vittorio Zincone ha realizzato per 7, incontrando l’ex pubblico ministero ed ex ministro Antonio Di Pietro. L’uomo che fu protagonista della stagione giudiziaria di Mani Pulite, da circa cinque anni ha lasciato la politica. Oggi fa l’avvocato. Ogni tanto spunta il suo nome per qualche candidatura (o autocandidatura?), ma soprattutto, è tornato col cuore in campagna.
Arriva con un trolley di cuoio a forma di cartella. Entra in casa: «Aspetti che svuoto la valigia». Si dirige verso la cucina: «Ho portato qualche uovo di quaglia». Antonio Di Pietro, 69 anni, è stato il pubblico ministero più famoso d’Italia. Per rendere l’idea di quanto fosse popolare quando era la star del pool Mani Pulite, Gian Antonio Stella qualche anno fa sul Corriere mise in fila alcuni elogi: «... La Voce titolava: “Così eroe, così normale”. Maurizio Gasparri tendeva entusiasta il saluto romano: “È un mito: mejo lui del Duce”. Silvio Berlusconi gli rendeva omaggio: “Le mie televisioni sono al suo servizio”. Romano Prodi lo blandiva: “Quello lì dove va si porta dietro i voti come la lumaca il guscio”. Per non dire di Francesco Cossiga: “Ha le qualità morali per andare al Quirinale”. Un sondaggio di Elle lo immortalò come l’uomo più sexy del pianeta dopo Harrison Ford». Siamo nella casa romana di sua figlia Anna, che lo ospita. Dismessa la toga alla fine del 1994, Di Pietro è stato ministro nei governi Prodi, è diventato uno dei più virulenti avversari di Berlusconi, ha guidato un partito, l’Italia dei Valori, che ha toccato l’8% dei votanti e poi si è sgretolato nel nulla. Ora, da circa cinque anni ha lasciato la politica, fa l’avvocato, ogni tanto spunta il suo nome per qualche candidatura (o autocandidatura?), ma soprattutto, è tornato col cuore in campagna. Approfondiamo. Fa una lunga premessa: «C’è stato un momento in cui sul mio carro sono zompati tutti. Si appiccicavano al mio nome come mosche. Poi quando il carro ha cominciato a incepparsi sono scesi. È normale. Non ho invidie, gelosie o rancori». Prosegue poetico: «Ho sempre vissuto col pensiero che sarei tornato nella mia masseria molisana per sdraiarmi sulla terra a guardare le stelle, come faceva mio padre. Vivo questa terza fase della mia vita con la voglia di tornare alle origini». A Bergamo, dove vive con la moglie Susanna, tiene galline e gallinacci. A Montenero di Bisaccia in Molise, ci sono le bestie più grandi e le terre: «Sto piantando un mandorleto». Produce il vino, come Massimo D’Alema e Bruno Vespa? «Ho una vigna e consegno l’uva alla cooperativa. Imbottiglio solo un po’ di rosso». Elenca gli altri prodotti dei suoi campi: «Cinquantacinque quintali di lino, una ventina di quintali d’olio... L’altra mattina un vicino mi ha dato le uova di quaglia in cambio di un pezzo di ventricina». Un pezzo di ventri...che? «La ventricina. È un salame. Lo faccio io. Il suino lo ammazziamo a Natale, a Montenero». Lei ammazza i maiali? «Quest’anno no. L’anno scorso sì. Ora non li si fa più soffrire, eh. Ma quando mio padre me lo faceva fare per educarmi...». Suona il campanello di casa. È la figlia Anna. Entra e dice al padre che ha trovato una ricetta su Google per le uova. Lei ha trent’anni, è avvocato e lavora all’Onu. Anche Antonino, il terzogenito, è avvocato, ma vive a Milano. Antonio Di Pietro si toglie la toga per l’ultima volta, il 6 dicembre 1994, al termine della requisitoria al processo Enimont. «Lo sceriffo è stato disarmato. I ladri di bestiame esultano. Nel saloon la festa può ricominciare. Stia attento anche il pianista», scrisse l’indomani Enzo Biagi, sul Corriere della Sera
· Sergio Castellari, il giallo dell’uomo senza volto «Fu suicidio».
Sergio Castellari, il giallo dell’uomo senza volto «Fu suicidio». I 7 dubbi. Pubblicato domenica, 07 aprile 2019 da Fabrizio Peronaci su Corriere.it. Quando la fotografia arrivò in redazione, quel 25 febbraio 1993 in cui la bufera di Tangentopoli spirava fortissima e ogni giorno piovevano avvisi di garanzia - s’erano appena dimessi i ministri Martelli (Giustizia), Goria (Finanze) e De Lorenzo (Sanità) - la reazione del capo fu di quelle che i giovani cronisti non dimenticano. La sede romana del Corriere era in via Tomacelli, all’angolo con via del Corso. Terzo piano, stanzone della cronaca. «Venite a vedere, questa foto diventerà un simbolo! E diamoci una mossa!» Immagine da brividi, anche se un po’ sfocata: le scarpe del morto in primo piano, il pantalone di foggia elegante neanche troppo spiegazzato, la posizione supina, un braccio semiaperto, il viso invisibile per la prospettiva schiacciata. E, sulla destra, la bottiglia di whisky miracolosamente in piedi nell’erba... Sergio Castellari, il direttore generale delle Partecipazioni Statali morto nel febbraio 1993Sergio Castellari, ecco chi era. Chissà da che distanza aveva puntato il teleobiettivo, il fotoreporter dello scatto che sarebbe diventato l’icona nera della I Repubblica morente. Il cadavere era stato trovato nella campagne di Sacrofano, non distante dalla sua villa. Mancava parte del volto, due dita erano mozzate. Ma non poteva essere che lui, il direttore delle Partecipazioni Statali indagato per sottrazione di documenti e sconvolto all’idea di finire dentro per il caso Enimont (il matrimonio fallito tra chimica pubblica e privata), sparito da 5 giorni dopo aver incontrato nientemeno che Giulio Andreotti, un colloquio breve, fonte di grande amarezza, «mi sono sentito trattato come un pezzente qualsiasi», aveva confidato Sergio a un amico. «Scusate, ma secondo voi...» Appena me la rigirai tra le dita, mentre i colleghi più esperti (non era una storia da pivellini...) s’erano già attaccati al telefono, ricordo che ebbi un pensiero sghembo: Che whisky sarà? L’etichetta non si leggeva. Particolare irrilevante, certo, ma mai dire mai... Anche perché - a ripercorrerlo oggi, alla luce di ciò che la verità storica ha nel frattempo chiarito - l’affaire Castellari più di qualsiasi altro cold case, delittaccio o storia maledetta è sui dettagli che fonda il suo macabro e insuperabile appeal. Suicidio? Omicidio? Messinscena sofisticatissima dei «soliti» servizi deviati? Istigazione al suicidio? Da quel 25 febbraio, mentre le manette di Mani pulite continuavano a tintinnare, la fine del supermanager diventò materia di discussione anche in redazione. Nell’infinita casistica fornita dalla scena criminis dei fattacci di ogni epoca e continente, infatti, mai s’erano viste tante stranezze, tante anomalie... Tutto sembrò congiurare per togliere il sonno agli investigatori. Uno era Rodolfo Ronconi, oggi prefetto in pensione. «Pilota, punta su quella collinetta, è lui!» gridò quella mattina l’allora dirigente della Squadra Mobile romana, salito su un elicottero in perlustrazione. L’altro era Alberto Intini, che si precipitò a Sacrofano partendo dal suo ufficio di capo della Sezione Omicidi, in via San Vitale. Già, non era affatto detto che fosse un suicidio...I primi tasselli fuori posto balzarono agli occhi. L’arma - una Smith & Wesson calibro 38 - fu trovata infilata nella cintola, operazione ardua per un disperato che doveva essersi appena sparato; il cane era alzato, come se l’agonizzante fosse stato lucido al punto di volersi sparare di nuovo; infine, non v’era traccia di impronte. L’attuale prefetto di Imperia, che è anche autore di manuali di criminologia, il giallo Castellari lo ricorda perfettamente. «Tutte le risultanze indicarono che fu suicidio, ma...» Cominciamo dalla pistola. «Innanzitutto - precisa Intini - va precisato che l’arma non era infilata alla cintola per intero, ma solo con una parte della canna. Per questo si ipotizzò che fosse scivolata sotto mentre il dorso cadeva all’indietro. Quanto al cane alzato, non fu escluso che lo fosse per una contrazione del dito post-sparo. Mentre l’assenza di impronte poteva avere una spiegazione: le guanciole del revolver non erano lisce, tali da far attecchire con facilità». Alberto Intini, nel 1993 alla guida della Sezione omicidi della Squadra mobile romana Va be’, ma la bottiglia in piedi nonostante la pioggia? Risposta di puro buon senso: «Quali eventi ci danno la certezza che una bottiglia, per lo più mezza piena, debba cadere?» Il sigaro vicino al cadavere con Dna femminile? «Accertammo che la compagna fumava anche lei e che le tracce erano miste. Non è da escludere che il sigaro fumato da Castellari fosse stato in precedenza acceso o assaggiato dalla signora». E le scarpe pulite? «Dopo la morte piovve, quindi lui non vi camminò...» E sia: però il corpo scempiato da belve no... Andreotti, quasi a voler accreditare l’ omicidio, se ne uscì con una delle sue: «Pensavo che ciò accadesse nelle foreste lontane, non a pochi passi da Roma». Ribatte Intini: «La mutilazione del corpo e la scarnificazione del cranio furono opera di animali che gravitavano in zona» Si parlò di cinghiali, di maiali selvatici... «E d’altronde non dimentichiamo un altro elemento: la traiettoria del proiettile nel cranio portò a escludere l’intervento di un killer». Poveretto, l’ultimo dei grandi commis di Stato. Correva il 1993. Di lì a poco i referendum di Mariotto Segni avrebbero mandato in soffitta la I Repubblica... Chi fu l’assassino? Giovanni Castellari, il figlio minore allora 28enne, indignato per il clamore mediatico dichiarò: «Nelle lettere la lui scritte, mio padre ha indicato il colpevole della sua morte: la magistratura...» Già, l’uomo che per 20 anni aveva sussurrato ai potenti le scelte in materia di economia fu il primo di una catena di suicidi eccellenti: Raul Gardini, Gabriele Cagliari... «Però - riflette Intini - va anche detto che quel cane alzato si spiega con difficoltà. Che il dito abbia avuto una forte contrazione un istante dopo lo sparo, come un riflesso involontario, è davvero poco sostenibile...» Transeat. Riposi in pace, dottor Castellari. A meno che, come in tutti i misteri italici che si rispettano, qualcuno, da un giorno all’altro, non inizi a ricordare...
· Bersani: Bettino Craxi. I guai se li è meritati.
“I GUAI CON LA GIUSTIZIA SE LI È MERITATI” di Niccolò Magnani per www.ilsussidiario.net il 16 marzo 2019. Pier Luigi Bersani torna a parlare e lo fa tramite il microfono de La Confessione di Peter Gomez. Ecco alcune delle sue parole prima di vedere la puntata completa stasera su Nove: “Bettino Craxi è stata una figura molto complessa. I guai con la giustizia li ha avuti e se li è anche meritati. Stiamo parlando di un combattente politico che non va ridotto né in un modo né nell’altro. Posso solo dire una cosa che non ho mai rimpianto la Prima Repubblica“. Sicuramente il politico è un personaggio interessante e dalle mille sfaccettature, per questo l’appuntamento di stasera diventa interessante e ci può regalare delle riflessioni sull’attuale Governo ma anche su quella che è la storia del nostro paese di cui ha fatto e fa ancora parte. Bersani risponderà a molte domande complicate e si parlerà di diversi personaggi interessanti come appunto Bettino Craxi. Clicca qui per il video. (agg. di Matteo Fantozzi). Un ex premier “mancato” intervistato questa sera a “La Confessione”, il programma-intervista nel salotto di Peter Gomez (ore 22.45 su “Nove”): si tratta ovviamente di Pier Luigi Bersani, ex Ds e soprattutto ex Pd di cui è stato Segretario (vincendo la prima sfida alle Primarie contro Matteo Renzi) prima di rompere definitivamente e uscire in maniera “drammatica” proprio per dissidi con la gestione renziana. Ha creato LeU assieme a Roberto Speranza e Massimo D’Alema ma il fallimento di una “federazione di sinistra” alternativa al Partito Democratico durante le Elezioni del 4 marzo lo hanno di fatto tenuto in “stallo” per oltre un anno: ora però alla guida dei dem c’è Nicola Zingaretti e proprio su questa “nuova figura” la sinistra spera e crede in una rifederazione, estromettendo l’ala centrista-renziana. Proprio da questo, molto probabilmente, Gomez partirà per l’intervista odierna nella Confessione: dal lavoro al reddito di cittadinanza, uno degli altri temi “forti” dell’ex segretario dem è quello “Ius Soli” mai approvato dal “suo” Pd e che di recente ha raccontato essere un rimpianto. «Se fossi al governo farei subito lo Ius Soli. L’80% degli italiani è contrario? Non me ne frega niente!», attaccava giorni fa a Quarta Repubblica proprio Bersani, avendo Salvini nel suo mirino ma anche i governi passati di colore Pd «I barconi non ci sono già con Minniti, problema è che abbiamo 600mila irregolari, dove ci sono i buoni, i meno buoni e i cattivi». Interessante è invece quanto Pier Luigi Bersani ha spiegato giusto ieri in una intervista a Radio Radicale in merito al grande tema della Via della Seta (l’alleanza strategia tra la Cina e vari Paesi nel mondo a cui l’Italia mira per un possibile ingresso imminente, ndr) che così tanto scuote la politica italiana: «Vicenda Italia-Cina? Credo che ci sia stato un limite nell’azione di governo, perché ci troviamo a essere più esposti politicamente, pur essendo quelli che in Europa hanno fatto meno affari con la Cina. Questo è molto curioso» raccontava ieri il deputato di Liberi e Uguali intervistato da Lanfranco Palazzolo. Al netto delle critiche “di rito” al Governo, il passo provato da Bersani è alquanto interessante: esattamente in quel 2003 con il famoso “streaming” poi naufragato quasi subito, un “passo” verso possibili alleanze col M5s potrebbe rappresentare un’altra prova del progetto di “sinistra allargata” che da Zingaretti fino a Fratoianni potrebbero dialogare in futuro (prima o dopo le Elezioni Europee?) con l’ala sinistra del M5s. Tutti contro Salvini insomma, e contro Trump come ancora Bersani ieri sottolineava «Dobbiamo fronteggiare un Trump che è campione di farsi gli affari in casa sua. Dobbiamo sentire le perplessità di una Ue fatta di Paesi, come la Germania e la Francia, che hanno enormemente più rapporti economici, commerciali e di investimento con la Cina. E ci troviamo singolarmente esposti. Suggerirei comunque di far valere il criterio di non offendere un orientale».
Da Renzi a Salvini, la corsa a riprendersi Bettino Craxi. Pubblicato venerdì, 01 novembre 2019 su Corriere.it da Tommaso Labate. Simbolo dell’uomo forte (con pochi voti), l’ex leader del Psi torna sulla scena a 20 anni dalla morte. Tra citazioni e rimpianti. Ma Renzi sindaco rifiutò di intitolargli una via. Bettino Craxi, è nato a Milano il 24 febbraio 1934 ed è morto ad Hammamet, in Tunisia, il 19 gennaio 2000. Presidente del Consiglio dal 4 agosto 1983 al 17 aprile 1987, è stato leader del Psi (foto Archivio Cicconi/Getty images)Nel libro dei visitatori della tomba di Bettino Craxi ad Hammamet, dieci anni fa, è spuntata la firma di Francesco Totti. Il custode aveva intravisto la sagoma dell’allora capitano della Roma mentre usciva dal cimitero; e aveva avvertito telefonicamente Bobo, il figlio dell’ex leader socialista morto diciannove giorni dopo l’avvento del nuovo millennio. Qualche tempo dopo Bobo, incontrando per caso il calciatore a un concerto, si era avvicinato un po’ per ringraziarlo e un po’ per verificare che fosse davvero lui, il visitatore della tomba di Craxi che somigliava a Totti e che aveva firmato il registro come «Francesco Totti». Quasi non credesse che Totti — che viene da una famiglia di sinistra e che si è sempre detto di sinistra, certo, ma che non era mai stato censito tra i socialisti tout court — si fosse recato a visitare la tomba del padre. Il numero dieci della Roma e della nazionale aveva confermato che sì, era lui. In quegli stessi anni, siamo nel 2009, la parola Craxi è ancora impronunciabile, almeno per un pezzo significativo della classe politica. Soprattutto per quella emergente, a sinistra come a destra. Beppe Grillo, epurato dalla Rai per la celeberrima battuta sui socialisti, e quindi orgogliosamente anti-craxiano, aveva appena fondato a sua immagine e somiglianza il Movimento 5 Stelle. E Matteo Renzi, qualche settimana dopo la sua elezione a sindaco di Firenze, aveva interrotto l’iter per l’intitolazione al leader del Psi di una via del capoluogo toscano. Dieci anni dopo, quando mancano due mesi alle celebrazioni per il ventennale della morte di Craxi (si terranno il 19 gennaio 2020 ad Hammamet), tutto è cambiato. Il leader socialista viene riscoperto, celebrato, citato, portato a esempio anche là dove sarebbe parso inimmaginabile.
La Lega, il partito che cavalcava l’onda di Mani Pulite e che col suo deputato Luca Leoni Orsenigo agitava a Montecitorio il cappio all’indirizzo della Prima Repubblica morente, riscopre il craxismo, tenta di accaparrarsene un pezzetto di eredità. «Craxi è nel pantheon dei miei politici ideali insieme a Sturzo e Bossi», ha spiegato qualche mese fa Giancarlo Giorgetti, che probabilmente sarà presente alle celebrazioni di gennaio in Tunisia. «A Sigonella», ha detto Matteo Salvini citando il celebre niet dell’allora presidente del Consiglio socialista agli Usa, «seppe tenere la schiena ben dritta». Sono passi politici decisamente più significativi del pentimento postumo che nel 2008 aveva messo a verbale Umberto Bossi, quando disse: «Craxi mi aveva chiesto aiuto, e io non feci nulla». Giuseppe Conte, da Palazzo Chigi, ha detto più volte ai suoi collaboratori che la sua stella polare è il percorso di Romano Prodi. Anzi, più precisamente, che vuole lavorare per diventare «il nuovo Prodi». Si muove in una logica bipolarista, il presidente del Consiglio; e immagina lo scenario in cui due blocchi contrapposti possano sfidarsi per la guida del Paese. Il giorno dell’Armageddon, come fu per Prodi contro Berlusconi, lui vorrà essere quello che contende Palazzo Chigi a Salvini. Eppure neanche «Giuseppi», come è stato ribattezzato nell’ormai celebre tweet di endorsement da Donald Trump, ha resistito al fascino della citazione craxiana dicendosi in privato — proprio a proposito del rapporto con gli Stati Uniti e in merito al suo coinvolgimento nell’ultimo rivolo di Russiagate — «più duro di Craxi a Sigonella». Qual è il fascino di Craxi nel 2019? Che cosa c’entra l’alba della presunta Terza Repubblica col protagonista indiscusso del crollo della Prima?
L’elevazione del «si stava meglio quando si stava peggio» a legge della politica — la stessa che ha portato un pezzo di sinistra a rimpiangere Andreotti quando c’era Berlusconi, Berlusconi quando c’era Renzi, Renzi quando c’era Di Maio e Di Maio quando c’era Salvini — basta per spiegare la gran voglia di craxismo che si respira a vent’anni dalla scomparsa del leader del Psi, morto ad Hammamet da latitante? Nel 2018 Matteo Renzi, nove anni dopo aver negato a Craxi l’intitolazione di una via di Firenze, ha utilizzato una celebre frase dell’allora leader del Psi — che quest’ultimo aveva pronunciato dopo il suicidio del socialista Sergio Moroni — per attaccare il M5S. «Hanno creato un clima infame». Oggi, con la fondazione di Italia viva, l’ex segretario del Pd tenta di imitare Craxi nel miracolo di riuscire ad arrivare a Palazzo Chigi con un partito lontano delle percentuali dei big. I paralleli tra i due, sempre negati dai custodi dell’ortodossia craxiana, tornano ciclicamente nel dibattito tra gli osservatori della politica. Ed è un fatto — simbolico, più che altro, comunque un fatto — che sia stato proprio un accordo col Partito socialista italiano, oggi guidato da Riccardo Nencini, a consentire alla nuova creatura renziana di avere un gruppo parlamentare autonomo al Senato. Nel centrodestra così come nel centrosinistra, l’eredità ufficiale del craxismo si era divisa in più pezzi come si erano divisi i due figli dell’ex premier. Bobo col centrosinistra, sottosegretario agli Esteri con D’Alema (2006-2008); Stefania col centrodestra, sottosegretaria agli Esteri con Berlusconi premier (2008-2011). Storie e vicende umane che si mischiano, si fondono. In una miscela che a volte esplode, si ricompone, torna a esplodere.
Berlusconi amico di Craxi, Berlusconi che va al governo sulle ceneri della Prima Repubblica, Berlusconi che non sarebbe mai andato a far visita a Craxi ad Hammamet (c’era andata la moglie di allora, Veronica Lario), Berlusconi che l’avrebbe visto per l’ultima volta nella primavera del 1994, quando stava per diventare premier e i due, a Roma, abitavano a pochi passi (Craxi all’Hotel Raphael, Berlusconi a via dell’Anima) e si incontravano qualche volta di nascosto. D’Alema è premier quando Craxi sta morendo, D’Alema che tratta con Francesco Saverio Borrelli il ritorno in patria dell’esule-latitante prima della morte, l’ipotesi della grazia che — ricorda oggi Bobo Craxi — «Ciampi avrebbe concesso perché c’erano le condizioni politiche per arrivarci, nel 1999». Sarebbe arrivata prima la morte. Ad agosto del 1999, pochi giorni prima che la malattia lo conduca nell’anticamera della fine, Craxi riceve ad Hammamet l’allora giovanissimo Fabio Caressa, da anni il volto e la voce più noti di Sky sport. Il giornalista lo intervista per l’emittente Telepiù a proposito della sua fede per il Torino. Dirà, nel corso della chiacchierata, che «nel mio rapporto col Toro sono stato come i carabinieri, nei secoli fedele». E ancora: «La prima volta che vedo giocare il Torino fu quella domenica che a Milano si giocò Inter-Torino. Zero a zero. Io vidi la partita domenica; tre giorni dopo, mercoledì, ci sarebbe stata la tragedia di Superga. Uscendo dallo stadio, aspettai il pullman dei giocatori granata per chiedere autografi e me ne diede uno Gabetto, che era vestito con un paltò di cammello e una sciarpa azzurra».
L’attaccante del Grande Torino che, pochi giorni prima di morire, firma un foglietto nelle mani di un Craxi bambino, 1949. L’attaccante della Roma che firmerà il registro delle visite della tomba di Craxi, 2009. Ritagli minuscoli di una storia più grande, come dimostra la spasmodica corsa all’eredità del craxismo della politica di oggi. Marco Pannella, un giorno, raccontò che Craxi, poco prima di lasciare l’Italia, gli aveva chiesto di prendere le redini di un polo laico-socialista che avrebbe dovuto salvare il salvabile prima della dissoluzione del Psi. L’aveva indicato come suo erede, «mi aveva detto “ora tocca a te”», avrebbe rivelato anni dopo il leader dei Radicali. Un’altra ultima volta, quell’incontro Pannella-Craxi. Stavano su un terrazzino dell’Hotel Raphael, all’aperto, perché Pannella fumava il sigaro mentre Craxi aveva smesso di fumare. Qualche giorno dopo, il leader socialista avrebbe preso un aereo per la Francia e, da lì, un altro per la Tunisia. «Aveva solo il bagaglio a mano, come chi parte per pochi giorni», racconta il figlio Bobo. Non sarebbe tornato mai più.
· I moralizzatori di sinistra anti Trump.
Università e raccomandati: lo scandalo dei "moralizzatori" anti-Trump, scrive il 14 Marzo 2019 Libero Quotidiano. I protagonisti incriminati per frode nello scandalo delle ammissioni fraudolente ad alcuni dei colleges più prestigiosi d’America sono stati descritti sui media come il “Who’s who” dell’America facoltosa e amorale. Vero. Ma ciò che non è stato sbattuto in prima pagina è la perfetta coincidenza tra l’essere disposti a truffare personalmente il sistema in segreto per un tornaconto privato, e il presentarsi in pubblico come modelli di superiore moralità politica, aperti sostenitori di Obama e dei Democratici, e fustigatori di Trump. Cinquanta individui sono stati incriminati, e alcuni arrestati. Trentatrè sono genitori ricchi che pagavano da decine di migliaia a 6 milione di dollari (per un totale di 25 milioni). Il resto sono funzionari degli esami esterni (SAT e ACT) che falsificavano i test di ammissione innalzando il voto ai candidati, e allenatori che costruivano curriculum sportivi fittizi per farli entrare come atleti di qualità che non avevano: tutto pur di dare a rampolli incapaci dei posti che venivano sottratti ad altri meritevoli, visto che nelle università USA di elite c’è il numero chiuso. Al centro della trama c’è il consulente William Singer, che ha creato una Fondazione che formalmente doveva fare servizi onesti di assistenza e che serviva invece come sua cassaforte privata con cui pagare i funzionari dei test e gli allenatori corrotti perchè facessero il lavoro sporco. Ad alimentare il “fondo”, che appariva “senza scopo di lucro”, erano i genitori che versavano le somme richieste per il “servizio” e che, vergogna nella vergogna, potevano a fine anno metterle nella dichiarazione dei redditi come contributi di beneficenza. Singer ha confessato tutto, e rischia 20 anni per la truffa. Nessuna università è stata coinvolta come parte della truffa, e nessuno studente è stato incriminato. Singer collabora da settembre con l’FBI e il Dipartimento di Giustizia nell’indagine chiamata “Operation Varsity Blues” e ha fatto per ora, pare, solo una parte dei nomi del suo giro. In totale avrebbe “aiutato” 800 ragazzi e ragazze, gran parte ignari della cospirazione dei genitori, a entrare nei colleges desiderati. Quelli resi noti finora sono Yale, Stanford, USC, Georgetown, Ucla (colleges che hanno un tasso ufficiale di “accettati” rispetto al numero di quelli che fanno domanda che va dal 5% di Stanford al 7% di Yale e al 16% delle altre 3). Poi ci sono pure scuole meno prestigiose, ma che erano nel network di Singer: Wake Forest (tasso di ammissione del 28%), Texas Austin (36%) e San Diego (50%). Se un genitore paga e truffa per far entrare il figlio in un college dove normalmente c’è il 50% di chance di entrare senza trucco vuol dire che ha proprio una bella stima di lui.
Ecco qualche nome della galleria dei ricchi & amorali, la quasi totalità di sinistra.
Felicity Huffman è una attrice molto famosa (protagonista della serie le “Mogli Disperate”) e una abituale finanziatrice dei DEM, da Obama alla senatrice DEM Kamala Harris. In un articolo di fine 2016 appare combattiva e virtuosa sotto il titolo “Ultima star che conferma la sua partecipazione alla Marcia delle Donne di Washington per protestare la Inaugurazione di Donald Trump, appena eletto”. “Andrò alla marcia con le mie due figlie Sophia Grace di 16 e Georgia Grace di 14”, disse a testa alta. “Sento che questa elezione è diventata una questione da femminista. Sento che il meglio di noi sia stato battuto”, aveva pontificato . Era proprio eticamente già matura per costruire un paese migliore, e per dare alle sue bambine l’educazione giusta. A qualunque costo.
Jane Buckingham, autrice di vari libri tra cui una “Guida per le ragazze moderne in situazioni scabrose”, è stata una collaboratrice di Cosmopolitan e un guru del marketing. Nei suoi articoli e testi, dice la pubblicità del libro citato, “dispensa sagge soluzioni per le miriadi di piccole problematiche che angustiano la vita con calore, grande umorismo e saggezza impeccabile”. Nello scambio con Singer, finito negli atti processuali, ha detto, non senza ironia: “So che è una pazzia… ma io ho bisogno che mio figlio entri alla USC…. E poi ho bisogno che tu trovi la cura per il cancro e che tu faccia la pace in medio oriente”.
Gordon Caplan, co-chairman dello studio legale Willkie Farr & Gallagher LLP, ha donato a Hillary Clinton e alla senatrice DEM Kirsten Gillibrand.
Agustin Huneeus è un imprenditore vinicolo californiano: ha dato 33mila dollari a Hillary nel 2016, 150mila dollari al Comitato Nazionale Democratico e 66mila a Nancy Pelosi.
Robert Flaxman, padrone della Crown Realty and Development, ha donato alla campagna di Hillary nel 2016. Essendo un immobiliarista è un donatore seriale, e ha contribuito negli anni sia ai DEM sia al GOP (come ha fatto Trump in carriera, peraltro).
Gordon Ernst, allenatore di tennis alla Georgetown University quando falsificò le credenziali di alcuni candidati senza capacità, è tra le persone incriminate. Nella capitale, diciamo che “frequentava bene”. Infatti, è stato il trainer privato di tennis di Michelle Obama e della figlia Malia. “Michelle ha un gran rovescio”, disse Ernst al New York Times. Tra il 2012 e il 2018 ha accettato oltre 2,7 milioni in mazzette in cambio dell’inserimento nel team femminile di quel college di almeno 12 studentesse, comprese “alcune che non giocavano a livello competitivo”, e quindi non avevano titolo. Malia è ora ad Harvard, e sicuramente nessuno può pensare che abbia avuto qualche implicazione nello scandalo. Con quel cognome non ne aveva certo bisogno. Ciò che si può dire su Ernst è che la familiarità e la frequentazione della famiglia Obama non gli ha elevato il carattere etico.
Tangenti per far entrare i figli ai college: attrici e top manager coinvolti nello scandalo Usa. Pubblicato martedì, 12 marzo 2019 da Corriere.it. Ci sono le attrici Felicity Huffman (la Bree di «Casalinghe Disperate») e Lori Loughlin (protagonista della serie tv «Summerland»), oltre a vip e amministratori delegati tra le decine di persone coinvolte nello scandalo delle ammissioni ai college che scuote il mondo delle accademie Usa. Secondo il procuratore generale di Boston i sospettati avrebbero pagato ciascuno tangenti fino a sei milioni di dollari per garantire ai loro figli l’accesso a università prestigiose come Yale, Georgetown, Stanford e Usc (University of Southern California). Le autorità federali hanno parlato di un vero e proprio racket e di un giro d’affari da 25 milioni di dollari. Tra gli arrestati, anche allenatori e amministratori degli atenei, che avrebbero accettato di far fittiziamente figurare gli studenti come atleti (che notoriamente hanno un accesso privilegiato) o di falsificare i risultati dei test di ammissione. Secondo i funzionari, le bustarelle andavano da poche migliaia di dollari fino a sei milioni e venivano versate a un mediatore californiano - William Rick Singer, 58 anni - che attraverso la sua società College & Career Network si occupava di «aggiustare» le application e le graduatorie. Per quanto riguarda Felicity Huffman, secondo i media americani gli inquirenti sarebbero in possesso di registrazioni che proverebbero che l’attrice e il marito (l’attore William H. Macy) avrebbero corrisposto una «regalia» di 15mila dollari per spingere la candidatura della figlia maggiore; avrebbero poi avviato trattative anche per la secondogenita, ma senza portare a termine il piano. Lori Loughlin e il marito, un noto stilista, avrebbero invece accettato di pagare 500mila dollari per far inserire le due figlie in una squadra sportiva della Usc e così facilitarne l’ammissione al college, senza che poi avessero mai partecipato ad alcuna attività specifica.
Università Usa nella bufera: 50 incriminati per scandalo tangenti milionarie nelle ammissioni, scrive Marco Valsania il 12 marzo 2019 su Il Sole 24 ore. Un vasto scandalo di corruzione scuote nel profondo il mondo universitario americano, con ramificazioni anche nello sport, nello spettacolo e nel mondo aziendale americano. Procuratori federali hanno incriminato decine di persone, quasi 50 in tutto tra le quali allenatori di prestigiosi centri accademici, attori di Hollywood e leader di business, in una vasta truffa che vedeva di fatto la compravendita dell’ammissione degli studenti in cambio di ingenti bustarelle e tangenti, per un totale di svariati milioni di dollari. Gli studenti venivano accettati quali “atleti” sotto mentite spoglie, cioè senza avere alcun reale merito sportivo o accademico. I nomi delle università nella bufera sono da shock: ci sono Yale, Stanford e la University of Southern California. Vale a dire la “crema” dell’accademia. Di rilevo anche i nomi degli attori coinvolti: tra questi Felicity Huffman e Lori Loughlin (entrambe arrestate), che avrebbero pagato le tangenti per ottenere in cambio l’ammissione dei propri figli. Nel mirino anche un noto avvocato e uno stilista di moda. Allenatori e dipendenti delle università in questione hanno intascato milioni di dollari in cambio della falsificazione del sistema di ammissioni. A far esplodere lo scandalo è stata la procura federale di Boston. Il suo responsabile Andrew Lelling ha definito la vicenda come il più grave e ampio scandalo nell’ammissione universitaria mai indagato e perseguito dal Dipartimento della Giustizia. Al cuore del caso è una società privata di gestione delle procedure e pratiche di ammissione con sede a Newport Beach in California. Genitori abbienti pagavano forti somme affinchè i loro “pargoli” potessero truccare i test di ammissione e inventare credenziali sportive. Il proprietario dell'azienda, William Rick Singer, è stato incriminato di una lunga serie di reati, da associazione a delinquere a riciclaggio di denaro, da ostruzione della giustizia a truffa ai danni degli Stati Uniti. L'impresa era nata nel 2007 e si chiama “The Edge College and Career Network”. Con un soprannome, però, forse rivelatore: “The Key”, la Chiave. Di ingresso nelle università, si intendeva, ma questa volta forse in prigione. Il sistema universitario americano è oltretutto già attraversato da forti polemiche e crisi di credibilità che lo vedono accusato di perpetuare e rafforzare un clima sociale di elitismo e discriminazione, rischiando di minare alla radice la vantata meritocrazia americana. In discussione sono aspetti quali i costi sempre più elevati delle rette universitarie - oltre 50-60.000 dollari l’anno per gli istituti privati di maggior prestigio, parte della cosiddetta Ivy League e non solo. Sotto accusa è anche il fatto che gli studenti di fasce sociali meno abbienti, anche quando ammessi, spesso si trovano poi oppressi da impossibili ammontari di debito. Le università americane, uniche al mondo, mantengono oltretutto in vita una pratica di cosiddetta “legacy”, che favorisce apertamente i figli di chi già ha frequentato quelle istituzioni, e che rimane in vigore nonostante sia stata denunciata da più studi e libri.
Mazzette per l’ammissione dei figli ai college Usa: la lista di famiglie e allenatori accusati. Pubblicato mercoledì, 13 marzo 2019 da Corriere.it. La procura di Boston ha incriminato una cinquantina di persone per aver pagato mazzette di denaro in cambio dell’ammissione dei figli in prestigiosi college come Yale, Stanford e la University of Southern California. La lista degli imputati comprende 33 genitori, 13 tra coach e dirigenti scolastici e un imprenditore californiano che avrebbe fatto da tramite incassando 25 milioni di dollari dal 2011. Si tratta William Rick Singer fondatore di «The Edge College and Career Network», una società di consulenza per l’ammissione ai college fondata nel 2007 e con sede a Newport Beach, in California. Singer è anche l’amministratore delegato della Key Worldwide Foundation, una ong che aiutava gli studenti a superare i test con metodi non leciti. Insieme a Singer lavorano Steven Masera e Mikaela Sanford. I genitori sono accusati di aver pagato mazzette che variavano tra i 100 mila dollari e i 6,5 milioni di dollari per assicurare ai pargoli un posto in un’università prestigiosa.
Tra questi Gamal Abdelaziz, manager di un resort.
Gregory e Marcia Abbott, lui è il fondatore e il presidente di una compagnia di packaging di cibo e bevande.
Diana e Todd Blake, lei è l’amministratrice delegata di una compagnia di merchandising e lui è investitore e imprenditore.
Jane Buckingham, a capo di una compagnia di marketing.
Gordon Caplan, avvocato e co-presidente dello studio legale internazionale Willkie Farr&Gallagher.
I-Hsin «Joey» Chen, lavora nell’industria navale.
Amy and Gregory Colburn. lui è un medico.
Robert Flaxman, a capo di una compagnia immobiliare basata a Los Angeles.
Mossimo Giannulli, celebre designer di moda, e Lori Loughlin, che ha recitato nella nota serie tv Full House (Gli amici di papà) ed è stata la protagonista di Summerland, telefilm statunitense arrivato anche in Italia nell’estate del 2005.
Elizabeth e Manuel Henriquez. lui è il fondatore e il presidente di una compagnia finanziaria.
Douglas Hodge, ex amministratore delegato di Pimco.
Felicity Huffman, attrice, resa famosa dalla serie tv «Casalinghe disperate», dove interpretava Lynette Scavo.
Agustin Huneeus, possessore delle vigne di Napa, Calif.
Bruce and Davina Isackson. Bruce è il presidente di un’azienda immobiliare ed edilizia.
Michelle Janavs, ex dirigente di un’azienda alimentare.
Elisabeth Kimmel, imprenditrice a capo di una compagnia editoriale.
Marjorie Klapper, co-proprietaria di un’azienda di gioielli.
Toby MacFarlane, un ex dirigente di una compagnia di assicurazioni.
William E. McGlashan Jr., dirigente alla TPG, una delle più grandi equity firm.
Marci Palatella, amministratore delegato di un’azienda che distribuisce liquori.
Peter Jan “P.J.” Sartorio, imprenditore.
Stephen Semprevivo, dirigente in un’azienda di outsourcing.
David Sidoo.
Devin Sloane, fondatore e amministatore delegato di una compagnia che si occupa di acqua potabile.
John Wilson, fondatore e amministratore delegato di un’azienda di costruzioni.
Homayoun Zadeh, professore associato di odontoiatria alla University of Southern California.
Robert Zangrillo, fondatore di un’agenzia immobiliare e di costruzioni basata a Miami.
I soldi venivano usati per corrompere i coach, in particolare di calcio, tennis e pallavolo, e indurli a reclutare i rampolli di famiglie ricche come atleti anche se non avevano capacità sportive: una strada che, negli Stati Uniti, aumenta le possibilità di entrare in un college. Per questo venivano create false storie di successo, manipolando foto di competizioni e falsificando le partecipazioni a vari programmi sportivi.
Ecco la lista degli allenatori accusati di aver preso mazzette:
Michael Center, allenatore di tennis alla University of Texas di Austin.
Gordon Ernst, ex allenatore di tennis a Georgetown.
William Ferguson, allenatore della squadra di pallavolo femminile di Wake Forest.
Donna Heinel, direttrice associata di atletica alla University of Southern California.
Laura Janke, ex vice allenatrice della squadra di calcio femminile della University of Southern California.
Ali Khosroshahin, ex allenatore della squadra di calcio femminile della University of Southern California.
Rudolph Meredith, ex allenatore della squadra di calcio femminile a Yale.
Jorge Salcedo, ex capo allenatore della squadra di calcio maschile alla University of California, a Los Angeles.
John Vandemoer, ex allenatore di vela Stanford.
Jovan Vavic, ex allenatore di polo alla University of Southern California.
Complici della grande truffa anche istruttori privati e esaminatori.
Igor Dvorskiy, esaminatore del College Board e A.C.T., è accusato di aver preso tangenti per facilitare il passaggio di alcune persone al West Hollywood Test Center Niki Williams, insegnante alla high school di Houston esaminatore del College Boarde A.C.T.
Mark Riddell, sorvegliante durante i test è accusato di aver aiutato gli studenti per far loro ottenere un voto migliore.
Martin Fox, presidente dell’accademia privata di tennis a Houston.
COME SI DICE "FAMILISMO AMORALE" IN CINESE? Giuseppe Sarcina per il “Corriere della sera” il 3 maggio 2019. Nella lista dei «clienti» del faccendiere William Singer c' è anche Tao Zhao, co-fondatore e presidente della Shandong Buchang, gruppo farmaceutico con sede nel Nord della Cina e quotato alla Borsa di Shanghai. L' imprenditore cinese avrebbe versato 6,5 milioni di dollari a Singer per ottenere l' ammissione della figlia Yusi Zhao nell' Università di Stanford, in California. È l' ultimo sviluppo dello «scandalo degli atenei». La procura di Boston, titolare del dossier, ha già ordinato l' arresto di 33 persone, tutti personaggi facoltosi, manager in vista o celebrità come le attrici Lori Loughlin e Felicity Huffman. Singer, 59 anni, l' architetto dello schema criminale, ha confessato tutto. Operava con una società di preparazione ai test universitari, «The Key» e con una fondazione non profit, «The Key Worldwide Foundation». Il sistema era a suo modo flessibile. Singer poteva falsificare i risultati delle prove di ammissione, gonfiare il curriculum degli studenti o, alla vecchia maniera, distribuire mazzette agli allenatori dei diversi istituti, spacciando per atleti formidabili anche i giovani meno dotati nelle discipline sportive. Alla fine del 2016, scrivono il Los Angeles Times e lo Stanford Daily , il tycoon Tao Zhao sta cercando di iscrivere la figlia Yusi in uno dei college più prestigiosi degli Usa. Chiede un consiglio a Michael Wu, consulente finanziario della filiale di Morgan Stanley a Los Angeles. Wu risponde segnalando lo studio «The Key» di William «Rick» Singer che figurava tra i contatti della banca dal 2015. Parte l' operazione. «Rick» allunga una tangente di 500 mila dollari al coach della squadra di vela a Stanford, John Vandemoer ed ecco che, nel marzo del 2017, Yusi «Molly» Zhao viene ammessa nell' istituto, come velista prodigio, anche se dagli accertamenti non risulta tutta questa passione per le imbarcazioni. L' intervento della magistratura di Boston ha disintegrato il meccanismo: Morgan Stanley ha licenziato Wu, l'Università di Stanford ha cacciato l'allenatore Vandemoer e ha fatto sapere di non aver incassato un dollaro dei 6,5 milioni versati dagli Zhao. E Yusi? Aveva iniziato a frequentare i corsi sull' Asia Orientale, ma nel marzo di quest' anno avrebbe lasciato il campus californiano. Anche un' altra famiglia cinese, secondo il Wall Street Journal , avrebbe consegnato 1,5 milioni di dollari a Singer per spingere la figlia ventunenne Sherry Guo nelle aule di Yale. Colpisce il doppio standard del broker: di solito la sua tariffa, a obiettivo raggiunto, arrivava fino a 250 mila dollari. Ma per l' élite cinese d' esportazione si passava ai milioni. Forse perché i controlli delle Università sono diventati più severi con le domande in arrivo dalla Cina. In ogni caso i posti a disposizione sono contesi in modo feroce dall' establishment americano. Qualche numero: nelle otto Università della Ivy League, a cominciare dalle tre stelle Harvard, Yale e Princeton, il 70% degli studenti proviene da quella che i sociologi chiamano «upper class», il 20% dalla «middle class» e solo il 10% dalla «bottom class». Chi esce da qui entra direttamente nella classe dirigente degli Stati Uniti e non solo.
· Lobbia e la prima Tangentopoli.
Lobbia e la prima Tangentopoli. Più del pugnale poté il fango. Pubblicato martedì, 11 giugno 2019 da Gian Antonio Stella Corriere.it. L’eroe nazionale Cristiano Lobbia entrò nella storia, avviandosi a morire di crepacuore, la notte del 15 giugno 1869. Centocinquanta anni fa. Quando, mentre svoltava in via dell’Amorino nel cuore di Firenze, come avrebbe scritto «La Riforma», «un uomo uscì dall’ombra, gli si avventò di fronte e gli vibrò un colpo di stile diretto al petto. L’aggredito alzò istintivamente il braccio sinistro a difesa; lo stile ferì il braccio, passò fuor fuori un portafoglio di pelle, gonfio di carte, di quattro o cinque centimetri di spessore, che l’aggredito teneva nella tasca interna dell’abito al lato sinistro».
Ingegnere e patriota, nato ad Asiago (Vicenza) nel 1826, Lobbia aveva combattuto contro gli austriaci e poi al fianco di Garibaldi nella spedizione dei Mille (1860) Quel portafoglio, entrato nel mito popolare, pareva contenesse proprio i plichi coi documenti dello scandalo prossimo a scoppiare. Plichi che il deputato aveva giorni prima sventolato nella sala dei Cinquecento di Palazzo Vecchio a Firenze, dove stava il Parlamento in attesa del trasloco a Roma: «Annunzio solennemente alla Camera che posseggo dichiarazioni di testimoni, superiori a qualsiasi eccezione, le quali dichiarazioni sono a carico di un deputato nostro collega, e si riferiscono a lucri che avrebbe percepito nelle contrattazioni della Regìa dei Tabacchi».
Ed ecco l’attentato! Poche ore prima che quei misteriosi plichi fossero aperti davanti alla Commissione d’inchiesta! Sdegno dei giornali d’opposizione, tumulti nelle piazze, telegrammi di Giuseppe Garibaldi: «Caro Lobbia! Rispettato dal fuoco nemico sui campi di battaglia, ove ammirabile fu l’intrepido vostro contegno, voi quasi cadeste sotto il pugnale dell’assassinio…». Eccolo, il nuovo Eroe! Un patriota vicentino, di Asiago, che aveva aderito ai moti padovani del 1848, combattuto nella Prima guerra d’indipendenza, raggiunto con un folle viaggio via Malta i Mille in marcia su Messina, conquistato l’amicizia del condottiero nella battaglia di Milazzo. L’Italia intera s’infiammò d’amore. Al «Biffi in Galleria» nacque il plico Lobbia: un foglio di carta oleosa piegata come una busta che, aperta, liberava l’aroma d’una costoletta d’anatra con julienne di verdurine. Un cappellaio fiorentino, letto che il sicario aveva dato al nostro una legnata in testa causando «come di un solco» sulla bombetta, si inventò qualcosa di simile e lo mise in vetrina: «Cappello alla Lobbia». E presto, come annoterà lo scrittore verista Paolo Valera, «tutte le vie erano popolate di cappelli Lobbia, di cravatte Lobbia, di giacche Lobbia» e «non c’era più negozio senza la sua fotografia» e fu «coniata una medaglietta con la sua effigie da appendersi al panciotto…»
La monarchia, il governo, la Destra, non potevano sopportare tanto baccano contro il «potere». E cominciò lì l’estate più torrida dopo l’Unità. I debiti accumulati per fare l’Italia (mancavano solo Roma, Trento e Trieste), i costi della unificazione di sei diversi sistemi monetari, l’esorbitante peso di un esercito che divorava mezzo bilancio («che ne fate di tanti uomini in divisa?», rideva il «Times») avevano creato nei conti una voragine. E da quella era partito il ministro delle finanze Luigi Guglielmo di Cambray-Digny, erede di un’antica famiglia devota prima ai francesi, poi al granduca di Toscana e infine a Vittorio Emanuele II, per convincere il re e il primo ministro Federico Menabrea, scienziato, militare, teorico del trasferimento dei «briganti» in Patagonia o nel Borneo («no grazie», dissero argentini e olandesi) a fare due cose.
La prima: introdurre la tassa sul macinato, che avrebbe scatenato rivolte nelle strade con morti e feriti per soli 28 milioni d’incasso contro i 72 previsti. La seconda: la cessione per vent’anni (ridotti a 15 per sedare gli animi) del monopolio dei tabacchi («l’unica entrata certa dello Stato» secondo il banchiere de Rothschild) al «Credito mobiliare», una società anonima che mai si era occupata di sali, bolli e tabacchi ed era stata messa insieme da spregiudicati finanzieri, trainati da un certo Domenico Balduino, per un anticipo di cassa di 180 milioni di lire. Rastrellati emettendo obbligazioni dello Stato stesso. Una scelta insensata, avrebbe confermato il presidente della Camera Giovanni Lanza, un galantuomo lui pure di destra che si sarebbe dimesso per poter attaccare l’operazione: «I monopolii bisogna o sopprimerli o che li tenga il governo!» Non bastasse, avrebbe fatto poi sapere d’aver ricevuto una lettera del conte De Kervéguen: un’altra cordata europea aveva offerto il doppio, e cioè 400 milioni, senza chiedere «alcuna garanzia da parte dello Stato». Risposta del governo? «Nemmeno un avviso di ricezione». Puzzava, quel contratto. E montavano in Parlamento e sui giornali le voci di una distribuzione a vari deputati (una sessantina, giuravano alcuni) di azioni sottocosto del «Mobiliare» e di «zuccherini», così eran chiamate le tangenti, con qualche «pan di zucchero» a chi contava di più. Immaginatevi il fastidio degli affaristi davanti all’irruzione del Lobbia e alla sua immediata popolarità: dovevano liberarsi di lui. Così, mentre l’inchiesta sull’attentato proseguiva condotta da un galantuomo, il procuratore del re Giuseppe Borgnini, i giornali allineati col governo iniziarono a insinuar dubbi: e se l’agguato non fosse avvenuto? Se l’«eroe» si fosse ferito apposta? Se si fosse trattato di una macchinazione? Finché a mezzanotte del 24 agosto Cristiano e un amico con cui passeggiava dalle parti di Santa Maria Novella fecero l’errore di denunciare ai carabinieri di essere seguiti da un losco figuro. Che voleva? L’uomo, deciso a farsi arrestare, rifiutò di rispondere. Era una trappola. Tre giorni dopo, al processo organizzato in tutta fretta, alla presenza di cronisti richiamati dalle ferie, l’uomo dichiarò di chiamarsi Giuseppe Lai, di esser un ex frate espulso per «pederastia» e di avere seguito il Lobbia sperando che forse, chissà, magari…
«Signori!», tuonò il difensore ammiccando ai
giornalisti, «Giammai l’imputato attentò alla vita dell’onorevole Lobbia. Semmai
attentò alla sua castità!» Bastò quella infame malizia. E i giornali scatenarono
la più oscena campagna di fango mai vista. Obiettivo: annientare quello che per
tutti era un eroe popolare nemico della corruzione. Di tutto successe, in
quell’estate del 1869. Di tutto. Il procuratore del re Borgnini, convinto che
l’attentato in via dell’Amorino ci fosse stato davvero, diede furente le
dimissioni, rivelando di aver rifiutato di mettersi in ferie per non lasciare le
indagini a un magistrato addomesticato. Il nuovo inquisitore Adolfo de Foresta,
fedelissimo ai Savoia e avviato a una carriera di onori, cariche e prebende,
ribaltò l’inchiesta, accusando Lobbia d’essersi inventato tutto. La Camera,
teorizzando che l’immunità valeva solo a Parlamento aperto, chiuse fino al 17
novembre in attesa del verdetto sull’eroe da stroncare.
Il ferroviere Francesco Scotti, il primo testimone, intimorito dall’enormità
degli eventi, morì di «itterizia» perché per l’accusa «aveva mangiato troppi
gelati e granite». Sarebbe stata solo la prima di una dozzina di morti
misteriose: annegamenti nell’Arno, risse anomale e mortali, pestaggi
inspiegabili…Fu condannato, infine, Cristiano Lobbia. Appena in tempo. Due
giorni prima che il Parlamento fosse costretto a riaprire. «Tutta la storia
della tirannia non ha una pagina così schifosa come questa», scrisse «Il Popolo
d’Italia» di Napoli. L’anno dopo, per accorrere con Garibaldi nei Vosgi in aiuto
della Repubblica francese contro i prussiani, il generale Lobbia si dimise dal
Parlamento e dall’esercito, rinunciò agli stipendi e ai gradi, riprese la
camicia rossa e partì. Fu costretto ad aspettare cinque anni prima di ottenere
nel 1875, dalla Corte d’appello di Lucca, l’agognata assoluzione. Troppo tardi.
Pochi mesi e morì. Di dolore, dissero. Di lui, un secolo e mezzo dopo, nelle
vetrine più esclusive del mondo, è rimasto il cappello.
· "Tangentopoli nera". La verità sulla corruzione del Ventennio fascista.
"Tangentopoli nera", dalle carte segrete di Mussolini arriva la verità sulla corruzione del Ventennio fascista. Le mazzette giravano sotto il Regime, mentre la propaganda inneggiava all'austerità, scrive il 16/10/2016 AdnKronos. Quando c’era Lui, il Duce, non solo i treni arrivavano in orario, ma si poteva lasciare aperta la porta di casa, perché l’ordine e la legalità erano così importanti da valere persino il sacrificio della libertà. L’immagine di un potere efficiente e incorruttibile, costruita da una poderosa macchina propagandistica, ha alimentato fino a oggi il mito di un fascismo onesto e austero, votato alla pulizia morale contro il marciume delle decrepite istituzioni liberali. Ma le migliaia di carte custodite nei National Archives di Kew Gardens, a pochi chilometri da Londra, raccontano tutta un’altra storia: quella di un regime minato in profondità dalla corruzione e di gerarchi spregiudicati dediti a traffici di ogni genere. Dalle carte segrete di Mussolini arriva la verità sulla corruzione, la faida interna al partito fascista, le ruberie, i ricatti e gli scandali nell'Italia del Ventennio. A raccontarla due studiosi Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella nel saggio "Tangentopoli nera", ora in uscita per Sperling e Kupfer (pagg. 252, euro18). Il primo, saggista, è esperto di archivi anglosassoni; il secondo è un giornalista investigativo, specializzato nella storia segreta italiana. Così, si scopre che, a Milano, il segretario federale del Fascio, Mario Giampaoli, e il podestà Ernesto Belloni si arricchiscono con le mazzette degli industriali e con i lavori pubblici per il restauro della celebre Galleria, coperti dall’amicizia col fratello di Mussolini. Il ras di Cremona, Roberto Farinacci, conquista posizioni sempre più importanti tramite una rete occulta di banchieri, criminali e spie. Diventa così il principale antagonista del Duce, che a sua volta fa spiare i suoi maneggi. Lo squadrista fiorentino Amerigo Dumini tiene in scacco il governo con le carte -sottratte a Giacomo Matteotti dopo averlo assassinato- che provano le tangenti pagate alle camicie nere dall’impresa petrolifera Sinclair Oil. Utilizzando i documenti della Segreteria particolare di Mussolini e quelli britannici desecretati di recente, gli autori ricostruiscono, con lo scrupolo degli storici e il fiuto degli investigatori, l’intreccio perverso tra politica, finanza e criminalità nell’Italia del Ventennio. E attraverso alcune storie emblematiche che si dipanano col ritmo di una "spy story", vengono mostrati i meccanismi profondi e mai completamente svelati delle ruberie, delle estorsioni e degli scandali sui quali crebbe, in pochi anni, una vera e propria "Tangentopoli nera". Ma i misteri continuano ad essere tanti. Ad esempio quelli dei documenti scomparsi a Roma il 10 giugno 1924: si tratta delle carte della borsa di Matteotti, sottratte da Amerigo Dumini, militare a capo della squadraccia che sequestrò e uccise il politico antifascista. Saranno usati come arma di ricatto contro Mussolini e poi seguiranno Dumini nelle sue peregrinazioni nel mondo. "A oltre 90 anni dal delitto - spiegano all'Adnkronos i due autori - quelle carte continuano ad essere irreperibili, malgrado decenni di ricerche in Europa e in America, da parte di storici e studiosi. Ma è innegabile che, al giorno d'oggi, siano custodite negli archivi segreti del Naval Intelligence Department, a Londra, e in quelli del Federal Bureau of Investigation e del Dipartimento di Stato statunitense, a Washington". Inglesi e americani, dunque, gli alleati.
· Tangentopoli Bianca. Così Moro avvertì i giudici: «Noi Dc non ci lasceremo processare nelle piazze!».
Così Moro avvertì i giudici: «Noi Dc non ci lasceremo processare nelle piazze!». Lo scontro tra politica e magistratura iniziò ufficialmente nel marzo del ’77 con l’affare Lockheed, scrive Paolo Delgado il 31 gennaio 2019 su Il Dubbio". C’era una volta, in un’Italia lontana lontana, tanto lontana da somigliare a una fiaba o a una leggenda, un primato della politica sulla magistratura tanto assoluto e incontrastato da autorizzare seri e fondati dubbi sull’effettiva divisione dei poteri sancita dalla Costituzione. La politica era di fatto intoccabile. Il potere togato si arrestava di fronte alla soglia del Palazzo. Non è che di scandali non ce ne fossero. Ma le richieste di autorizzazione a procedere sbattevano regolarmente contro il voto contrario del Parlamento. Nella legislatura 1963- 68, ad esempio, su 75 richieste di autorizzazione a procedere ne furono accolte 5. Nella successiva, 1968- 72, le richieste furono 69 e le autorizzazioni 4. Il boom di richieste da parte della magistratura fu tuttavia nella legislatura successiva, 1972- 76, indice chiaro di un rapporto di subalternità della magistratura che i togati iniziavano a sopportare sempre meno. Le richieste furono ben 159, di cui solo 40 accolte. Se si dovessero indicare un anno e una vicenda precisa per datare l’inizio, ancora molto in sordina, di un braccio di ferro che prosegue a tutt’oggi bisognerebbe risalire al 1965 e alla vicenda che coinvolse il senatore democristiano ed ex ministro delle Finanze Giuseppe Trabucchi. Era accusato di aver permesso a una società guidata da un altro notabile democristiano ed ex sottosegretario, Carmine De Martino, di acquistare illegalmente partite di tabacco messicano per poi rivenderle in patria con un guadagno netto di un miliardo e 200 milioni di lire dell’epoca, cifra di tutto rispetto e anche qualcosina in più. Il tutto, ovviamente, in cambio di generosa tangente. Trabucchi ammise ma si difese impugnando l’interesse di partito: «Era solo un finanziamento illecito per la Dc». La commissione, nel giugno 1965, respinse la richiesta. Il mese dopo le camere riunite furono chiamate a votare per una decisione definitiva. Servivano 476 voti per accogliere la richiesta della Procura di Roma. Ne arrivarono 461. Trabucchi se la cavò alla grande. Prima che si ripetesse un braccio di ferro di dimensioni anche maggiori passarono quasi 10 anni. Nel febbraio 1974 i segretari amministrativi di tutti e quattro i partiti di governo, Dc, Psi, Psdi e Pri, furono indagati con l’accusa di aver incassato tangenti dall’Enel in cambio di scelte politiche contro le centrali nucleari. Lo scandalo fu enorme e coinvolse numerosi ex ministri. Il governo Rumor in carica si dimise. Per rientrare in maggioranza il leader repubblicano Ugo La Malfa impose una legge che regolamentasse il finanziamento dei partiti. Varata a spron battuto, in soli 16 giorni e con l’approvazione di tutto il parlamento a eccezione del Pli, sulla base di una proposta firmata da uno dei principali leader Dc, Flaminio Piccoli. La legge non servì a fermare il finanziamento illecito ma derubricò i reati per i quali erano indagati segretari a amministrativi e tesorieri. Restava lo spinoso caso degli ex ministri e i nomi in ballo erano davvero pesanti. La commissione parlamentare incaricata di vagliare i casi affrancò subito i dc Andreotti e Ferrari Aggradi perché i reati erano prescritti. Decise l’archiviazione per il dc Bosco e il Psdi Preti, ma ordinò di aprire un’inchiesta a carico di altri due ex ministri, Ferri del Psdi e Valsecchi, Dc. L’inchiesta si concluse cinque anni dopo con il proscioglimento. Il grande scandalo degli anni ‘ 70 fu tuttavia il cosiddetto "affare Lochkeed". Una tangentona di 61 milioni di vecchie lire, pagata secondo gli inquirenti dalla società americana per favorire l’acquisto da parte del governo italiano di 14 aerei Hercules 130. Erano coinvolti due ex ministri della Difesa, Luigi Gui, Dc, e Mario Tanassi, Psdi, e un ex premier, Mariano Rumor, Dc. Nel marzo 1977 il Parlamento votò, in seduta comune, la messa in stato d’accusa dei primi due mentre salvò Rumor. In quell’occasione Aldo Moro pronunciò un discorso destinato a essere ricordato ancora oggi: «La Dc fa quadrato intorno ai propri uomini. Non ci lasceremo processare nelle piazze». In effeti il processo si svolse, secondo le regole di allora per i ministri, direttamente di fronte alla Corte costituzionale, con unico grado di giudizio. Nel 1979 Gui fu assolto, Tanassi condannato. Nel 1989 una riforma costituzionale modificò i criteri dei processi contro ministri ed ex ministri, affidandoli alla magistratura ordinaria e con procedura altrettanto ordinaria. Mai accusato, mai processato, mai condannato, a pagare più di tutti fu il presidente della Repubblica Giovanni Leone. Indicato da una forsennata campagna giustizialista come coinvolto nello scandalo fu costretto alle dimissioni. La sua innocenza fu acclarata solo anni dopo. Quando si rovesciano i rapporti di forza che almeno in apparenza restano identici per tutti gli anni ‘ 80? In apparenza il punto di rottura è Tangentopoli, quando le inchieste di mani pulite spazzarono letteralmente via un intero ceto politi- co e spianarono la prima Repubblica. In realtà i rapporti di forza avevano iniziato a subìre una modifica profonda già da prima. La magistratura si affranca dalla soggezione alla politica non con Tangentopoli ma con la lotta al terrorismo. All’epoca, tra la fine degli anni ‘ 70 e i primi anni ‘ 80, era abbastanza comunque sentir dibattere di ‘ delega alla magistratura’ del contrasto al terrorismo. Quella delega fu in realtà totale e appena tra le righe lo si percepisce nella memoria di due tra i magistrati che di quella fase furono protagonisti assoluti, Gian Carlo Caselli e Armando Spataro: «Nel 1978, però, in particolare nel periodo post- Moro, la situazione registrò un’evoluzione positiva grazie all’iniziativa autonoma di Pubblici Ministeri e Giudici Istruttori, che diedero vita ad un coordinamento spontaneo tra gli uffici giudiziari ed alla creazione di gruppi specializzati nel settore del terrorismo. Il sistema di legge non prevedeva allora alcuna norma in tema di coordinamento: anzi conosceva barriere formali che ostacolavano lo scambio di notizie. Ciononostante, a partire dalla metà del 1978, quei magistrati, superando ogni logica formalistica ed ogni possibile diversità di estrazione culturale, cominciarono ad incontrarsi spontaneamente, con periodicità molto ravvicinata ed in modo riservato». Nella stessa fase la magistratura irruppe di fatto anche nella sfera di competenza del potere legislativo: alcune delle principali leggi anti- terrorismo, incluse quelle squisitamente politiche come la legge sulla dissociazione furono dettate norma per norma dalla magistratura.
Tangentopoli intervenne su equilibri già radicalmente alterati. Il risultato del referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati è non a caso l’unico nella storia italiana a essere stato completamente disatteso, a conferma del peso enorme che il potere togato aveva acquisito nel decennio precedente, a fronte di un progressivo ma inesorabile indebolirsi del potere politico colpito da una crisi di legittimazione all’epoca senza precedenti. Tangentopoli chiuse il conto e siglò l’affermazione di un equilibrio opposto a quello che aveva segnato la prima Repubblica, con un primato assoluto del potere togato. La seconda Repubblica è stata segnata dall’inizio alla fine dal confronto e a volte dal conflitto aperto tra un potere tanto più saldo perché legittimato dal sostegno dell’opinione pubblica, quello della magistratura, e un potere debole e sempre sotto scacco, infragilito dalla scarsa legittimazione popolare, quello della politica derubricata ormai a casta. Quando, nel 1994, il primo governo Berlusconi tentò di frenare le procure con quello che è passato alla storia come ‘decreto salva- ladri’, i quattro giudici del pool milanese Mani pulite si limitarono a presentarsi in tv spogliandosi per protesta delle toghe e bastò per suscitare una tale ondata di proteste da costringere il governo a una sgangherata retromarcia. Pochi anni dopo, nel 1998, il solo tentativo serio e approfondito di riformare la Costituzione, la bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, fu condannato al fallimento, come ha più volte confessato il relatore Cesare Salvi allora dirigente dei Ds, dall’opposizione del potere togato a qualsiasi revisione delle norme sulla magistratura. Quella delle ‘ toghe rosse’ è una leggenda che, diffusa dalla destra, ha avuto ampio corso negli anni della Seconda Repubblica ma che è in realtà destituita di fondamento. Se a confliggere con la magistratura è stato in quei decenni quasi esclusivamente il centrodestra è perché la controparte ha sempre evitato di contraddire, se non superficialmente e di sfuggita, le toghe. Ma la stessa destra, nonostante i fragorosi pronunciamenti del leader Berlusconi, ha sempre evitato di sfidare la magistratura se non quando non era possibile evitarlo, cioè quando ci andavano di mezzo la sua sorte o quella delle sue aziende. Il Movimento 5 Stelle nasce dalla stessa temperie culturale, sociale e politica che ha accompagnato e in buona misura determinato il prevalere della magistratura sulla politica: una crisi di legittimazione popolare della politica accompagnata nella delega assegnata dal basso alle toghe come unico freno alla corruzione dei politici. Per il Movimento fondato da Grillo la magistratura è sempre stata la bussola. In teoria il successo elettorale dei pentastellati avrebbe dovuto quindi siglare il trionfo finale del potere in toga nel lunghissimo duello con il potere che siede in Parlamento. La pratica si sta rivelando subito e si rivelerà diversa. Per sua stessa natura il ‘ governo del cambiamento’ deve almeno provare ad affermarsi come governo forte, sovvertendo così quel rapporto tra un potere politico debole e un potere della magistratura forte che data ormai dalla fine degli anni ‘ 80 del secolo scorso. L’incidente sull’autorizzazione a procedere contro il ministro Salvini è solo il primo di una lista che sarà probabilmente lunga.
· Poggiolini, verso l’assoluzione (a 90 anni).
Udienza clou, il 21 gennaio, al tribunale di Napoli per il processo sulle morti da “sangue infetto”. Il pm Claudio Giugliano, infatti, terrà la sua requisitoria, scrive il 16 Gennaio 2019 Paolo Spiga su lavocedellevoci.it. Regolarmente oscurato sia dai media nazionali (tranne il Fatto quotidiano, grazie alle corrispondenze di Vincenzo Iurillo) che locali, il processo è cominciato quasi tre anni fa, ad aprile 2016: era iniziato a Trento nel lontano 1999, per poi passare a Napoli, dove i faldoni sono rimasti a marcire per anni negli scantinati del centro direzionale, sede sia del tribunale che di parecchi uffici giudiziari. Sotto i riflettori i traffici e la distribuzione di sangue non testato ad hoc (quindi infetto) che hanno causato la morte di migliaia di pazienti (le cifre più attendibili parlano di circa 5 mila vittime): ma al processo partenopeo sono presenti solo nove parti civili. Un processo comunque “storico”, anche per la memoria dei tanti morti che non potranno mai avere uno straccia di giustizia. Alla sbarra ex funzionari e dirigenti del gruppo M., all’epoca dei fatti (gli anni ’80, fino al ’91) oligopolista nella distribuzione di emoderivati, ed oggi ancor più solido, con la corazzata Kedrion che, dopo la morte del patriarca G. M., è oggi capitanata dal figlio Paolo, mentre il fratello A. M. è il capogruppo del Pd al Senato, dopo gli esordi politici e la prima elezione nel 1991 sotto i vessilli del Pli di Sua Sanità Francesco De Lorenzo. Tra gli imputati anche l’allora Re Mida Duilio Poggiolini, il braccio destro di De Lorenzo al ministero e vera eminenza grigia, entrambi condannati ad un maxi risarcimento danni, 5 milioni di euro a testa, per la Farmatruffa. Il vero nodo processuale, che dovrà essere “sciolto” dal presidente della sesta sezione penale Antonio Palumbo, riguarda il nesso di causalità intercorrente tra l’assunzione degli emoderivati infetti e la morte dei pazienti. Nesso “minimizzato” dai consulenti d’ufficio nominati dal tribunale, i quali in pratica si sono rifatti alle tesi del primo teste sentito a processo, l’ematologo milanese Piermannuccio Mannucci: un teste in palese conflitto d’interessi, dal momento che è stato consulente di Kedrion e relatore (gettonato) a non pochi simposi nazionali e internazionali organizzati dalla stessa corazzata di casa M.. Non solo: Mannucci ha confessato – vera viola mammola – di essere del tutto all’oscuro circa la provenienza di quel sangue: “mi avevano detto che arrivava dai campus universitari e dalle casalinghe americane”! Quando era ben noto negli ambienti scientifici all’epoca (e gli avvocati delle parti civili – Stefano Bertone ed Ermanno Zancla – hanno documentalmente provato) che quel sangue proveniva anche dalle carceri americane, in particolare dell’Arkansas. Lo ha ribadito un teste chiave che ha verbalizzato un anno fa: il regista americano Kelly Duda, autore dello choccante docufilm “Fattore VIII” sui traffici di sangue nelle carceri a stelle e strisce, senza alcun problema e alcun controllo esportato in Europa, ovviamente anche in Italia. Il pm, nei quasi tre anni di processo, non ha particolarmente brillato per grinta, come ritualmente ci si attende da un pubblico ministero: “non è stato un centravanti, piuttosto uno stopper”, commentano non pochi al palazzo di giustizia partenopeo. Mostrerà una maggior determinazione il 21 gennaio in occasione della sua requisitoria?
Poggiolini, verso l’assoluzione (a 90 anni). Arrestato durante Tangentopoli, venne coinvolto nella vicenda delle trasfusioni di sangue infetto, scrive Titti Beneduce su Il Corriere del Mezzogiorno (Campania) il 22 gennaio 2019. Nell’aula 212, quando il pm ne ha chiesto l’assoluzione dall’accusa di omicidio colposo plurimo per le trasfusioni con sangue infetto, Duilio Poggiolini non c’era. Nell’aula 212, quando il pm ne ha chiesto l’assoluzione dall’accusa di omicidio colposo plurimo per le trasfusioni con sangue infetto, Duilio Poggiolini non c’era. L’ultima volta che l’ex potentissimo direttore generale del servizio farmaceutico del ministero della Sanità, oggi novantenne, è comparso in pubblico, è stata nell’ottobre del 2015, quando la polizia di Roma, intervenuta per chiudere una casa di riposo abusiva, lo ha individuato tra gli ospiti e lo ha poi trasferito in un’altra struttura. Lì, probabilmente, Poggiolini ha saputo dall’avvocato Luigi Ferrante che l’ultima vicenda giudiziaria che lo riguarda si avvia alla definizione dopo anni di ricorsi, rinvii, colpi di scena, dichiarazioni di incompetenza territoriale, prescrizioni. E chissà se ha esultato o, ormai stanco e anziano, è rimasto indifferente. La vicenda del sangue infetto risale alla fine degli anni Ottanta, quando, in assenza di leggi precise, alcune case farmaceutiche italiane e straniere vendevano sacche di plasma donato in cambio di denaro da persone a rischio: in particolare detenuti e tossicodipendenti di Stati americani come l’Arkansas, la Louisiana, l’Alabama, ma anche cittadini di Paesi del Terzo mondo. Molto di quel sangue era infetto e ha contagiato a pazienti italiani — soprattutto emofiliaci — l’epatite C o l’Hiv. Ne sono seguite storie strazianti raccontate più volte nel corso di questi anni. Uno dei tanti processi per questa vicenda si è svolto a Napoli, dove gli atti erano stati inviati dal Tribunale di Trento che si era ritenuto incompetente a decidere per motivi territoriali. I procedimenti, per la verità, erano due: uno a carico delle case farmaceutiche straniere, che si concluse con l’archiviazione da parte del gup. L’altro, quello a carico delle case farmaceutiche italiane, ha avuto una storia complicatissima, il cui esito, secondo le attente valutazioni fatte dalla Procura, non poteva che essere la richiesta di assoluzione per tutti gli imputati. In un primo momento era stato ipotizzato il reato di epidemia colposa: in seguito all’uso dei farmaci derivati da sangue infetto, era l’ipotesi accusatoria, c’era stato un contagio diffuso. Nel 2005, tuttavia, il gup dispose l’archiviazione dell’accusa di epidemia colposa e contestualmente l’imputazione coatta per il reato di omicidio colposo plurimo. Con una differenza non da poco: al pm toccava ora dimostrare non solo che all’uso di quei farmaci era seguito un contagio, ma che quel contagio aveva provocato la morte dei pazienti. La complicazione derivava dal fatto che su questo aspetto mancassero del tutto le indagini preliminari, dal momento che era stato necessario imbastire in dieci giorni l’imputazione coatta disposta dal giudice. Questa e altre complicate vicende accadute nel corso degli anni sono state sintetizzate ieri davanti al giudice monocratico Antonio Palumbo dal pm Lucio Giugliano, che pure, con il coordinamento dell’aggiunto Vincenzo Piscitelli, aveva a lungo studiato se vi fosse un esito alternativo. Oltre all’ex Re Mida della sanità sono imputati un ex infermiere dell’ospedale Cardarelli, due rappresentanti di una ditta specializzata nella raccolta e nel trasporto di plasma e sei ex manager all’epoca impiegati nelle aziende del colosso farmaceutico fondato da G. M., padre di Andrea, capogruppo del Pd al Senato, nel frattempo deceduto, assistiti dall’avvocato Alfonso Stile. Venti le parti offese, tra cui una ragazzina di 14 anni e il ministero della Salute. Il dibattimento riprenderà l’11 febbraio quando prenderanno la parola gli avvocati di parte civile tra cui Stefano Bertone ed Ermanno Zancla, che da anni portano avanti una battaglia in favore delle persone trasfuse e dei loro familiari. Altre udienze sono in programma nelle settimane successive fino alla sentenza, prevista per il 25 marzo. Tutto lascia ritenere, dunque, che il giudice accoglierà la richiesta di assoluzione avanzata dalla pubblica accusa; nel frattempo le persone contagiate hanno potuto contare su un indennizzo, disposto per legge nel 1992, e molte di loro sul risarcimento arrivato al termine del processo civile. Duilio Poggiolini, intanto, già da tempo è stato condannato in via definitiva per le tangenti nel settore della sanità e sta risarcendo lo Stato — che gli ha chiesto 60 milioni di euro — un tanto al mese, con la propria pensione. La moglie, Pierr Di Maria, che negli anni Novanta diventò famosa per avere nascosto in un pouf denaro proveniente dalle tangenti, è morta da tempo.
DOPO VENTITRÉ ANNI, DUE PROCESSI ARCHIVIATI, UNO SVOLTO CON DECINE DI UDIENZE E TRE ORE DI CAMERA DI CONSIGLIO “IL FATTO NON SUSSISTE”: ASSOLTO DUILIO POGGIOLINI, OGGI 93ENNE, EX RE MIDA DELLA SANITÀ ITALIANA. Giovanni Del Giaccio per “il Messaggero” il 26 marzo 2019. Dopo ventitré anni, due processi archiviati, uno svolto con decine di udienze e alla fine di tre ore di camera di consiglio «il fatto non sussiste». Sono stati assolti Duilio Poggiolini, oggi 93enne, ex Re Mida della sanità italiana, ospite da tempo di una casa di riposo e ormai nemmeno in grado di sapere che il suo ultimo processo è finito nel modo migliore. Lui, all' epoca direttore del servizio centrale farmaceutico, autorizzava i farmaci prodotti con emoderivati che dovevano salvare la vita agli emofilici. Cioè a persone alle prese con un difetto del fattore ottavo e quindi della coagulazione del sangue. Molti, la vita, l'hanno persa. A seguito di infezione per Hiv (il virus dell' Aids) o per epatite C. Per otto persone decedute si è celebrato il processo a Napoli per una vicenda iniziata a Trento nel 95 e in parte già chiusa. A nulla è valso sostenere che Poggiolini, attraverso omissioni, agevolazioni e autorizzazioni specifiche avesse - secondo il capo di imputazione - favorito le aziende. I farmaci, vennero prodotti e rimasero in commercio anche dopo che ci si rese conto della loro pericolosità per una intera comunità, praticamente distrutta dagli emoderivati indicati come salvavita. Per questo si era parlato, inizialmente, di epidemia colposa. Inutilmente. «Nessuno voleva farlo questo processo - dice sconsolato l'avvocato Ermanno Zancla, rappresentate delle parti civili - ci siamo trovati l' ufficio del pubblico ministero comunque contro e il Ministero della salute si è prima costituito parte civile e poi si è ritirato». Era stato lo stesso pubblico ministero, Lucio Giugliano, a chiedere di assolvere gli imputati. Pur comprendendo che si era di fronte a uno scandalo - quello del sangue infetto che ha attraversato l'Italia fino agli anni 90 - era impossibile stabilire il nesso causale tra i farmaci e la morte delle persone per le quali si era arrivati al processo. Non solo, cambiando il capo di imputazione «non sono state effettuate nuove specifiche indagini». Poggiolini e i rappresentanti delle aziende Sclavo e Farmabiagini, sono usciti indenni. Così ha stabilito il giudice Luigi Palumbo. L'avvocato Luigi Ferrante, difensore di Poggiolini, esprime «viva soddisfazione» per la sentenza di assoluzione. Il legale sottolinea «con amarezza, che nonostante fosse chiarissima la normativa, che riferiva ad altri la responsabilità dei controlli sugli emoderivati, siano stati necessari ben 23 anni per liberare il mio assistito da una così pesante contestazione». Era un processo simbolo, questo, per i familiari delle dieci vittime e per le migliaia di emofilici che cercavano giustizia. Ma anche per tutti i trasfusi occasionali che hanno contratto Aids o epatite perché sul sangue non c'erano i controlli adeguati. Migliaia di persone, molte delle quali aspettano risarcimenti dallo stesso Ministero che al processo di Napoli si è sfilato. Rispetto alla vicenda degli emoderivati realizzati con sangue infetto proveniente dalle carceri americane: «Serve una commissione parlamentare d' inchiesta - dice l' avvocato Stefano Bertone, altro rappresentante di parte civile - su un fenomeno che ha causato migliaia di morti. Sugli attuali imputati possiamo persino essere d' accordo ma è ora di fare luce su questa triste vicenda italiana aspettiamo le motivazioni». Fissate in 90 giorni. Nulla rispetto ai 23 anni per concludere questo processo e ai 30 da quando le associazioni dei malati o i trasfusi chiedono giustizia. Spesso inutilmente.
Poggiolini, da re corrotto della Sanità a ospite di una casa di cura abusiva. La parabola discendente di un ex potente. E' stato trovato tra i 14 anziani ospiti di una struttura chiusa a Roma per abusi edilizi e denunce, scrive Gabriele Isman l'8 ottobre 2015 su "La Repubblica". All'epoca di Tangentopoli era il Re corrotto della sanità italiana, con i miliardi nascosti in un pouf nella villa da sogno all'Eur. Ieri mattina Duilio Poggiolini, classe 1929, era soltanto uno dei 14 ospiti di una casa per riposo chiusa alla Storta, periferia nord della capitale, dai vigili, dalla polizia e dalla Asl tra abusi edilizi e email anonime che segnalavano, specie di notte, urla provenienti da quella villetta di via del Casalino. È la parabola discendente di un potente, che prima di Mani pulite, era presidente della Commissione per i prodotti farmaceutici dell'allora Comunità economica europea, oltre che numero due della Commissione della Farmacopea italiana. Secondo quanto accertato dal pool di Milano e dai giudici di Napoli, Poggiolini - che all'apparenza conduceva uno stile di vita monacale, legatissimo alla moglie Pierr di Maria - veniva pagato dalle case farmaceutiche per manipolare i prezzi delle medicine. Alla fine se la cavò con 4 anni e quattro mesi di reclusione: su quaranta episodi di corruzione ipotizzati dai pm, venti trovarono conferma al processo. Fu condannata anche la moglie, morta poi nel 2007: era lei a riscuotere i soldi dalle multinazionali del farmaco. Due anni fa, nei caveau della Banca d'Italia furono ritrovati 26 milioni di euro che facevano parte del tesoro di Poggiolini. Molti soldi in più degli oltre 15 miliardi di lire che gli erano stati trovati su un conto svizzero intestato alla moglie all'epoca dell'arresto, senza dimenticare i lingotti d'oro, gioielli, dipinti e monete antiche e moderne (fra cui rubli d'oro e krugerrand sudafricani). La Svizzera era stata anche il luogo della latitanza di Poggiolini, durata poche settimane. Negli anni successivi a Mani Pulite e alla condanna sua e dell'amata Pierr, Poggiolini aveva anche provato a raccontare la sua versione dei fatti in un libro - "Niente altro che la verità: i farmaci in Italia, le mie lotte, i miei errori" - che era stato presto ritirato dal mercato per insuccesso editoriale. E così ieri quando i vigili del gruppo XIV e gli agenti del commissariato Primavalle con i funzionari della Asl RmE sono entrati in quella casa, grande è stata la sorpresa: la casa, che veniva gestita da una donna con la figlia poi denunciate, era autorizzata ad ospitare 8 persone, ma ne accoglieva 14. Sei dormivano in un'unica stanza, un bagno era senza finestre, e nella struttura sono state trovate parecchie confezioni di sedativi. Mesi fa la polizia municipale aveva provato a ispezionare la casa di riposo privata, trovando però l'opposizione della titolare. "L'indagine era partita da una denuncia alla Procura da parte del Servizio sociale del municipio XIV" racconta il minisindaco Valerio Barletta che poi ha accolto una parte degli anziani in una struttura dell'ex circoscrizione. Chi invece aveva familiari disposti ad accoglierli, è tornato a casa.
Il tesoro di Poggiolini aspetta di passare allo Stato da 25 anni. Lingotti d'oro e quadri d'autore si trovano nel caveau della filiale partenopea della Banca d'Italia: i beni dell'ex re Mida della Sanità (oggi 89enne) ammontano a 125 milioni di euro. E a Napoli è ancora in corso il processo, scrive il 10 Gennaio 2019 Giancarlo Tommasone su stylo24.it. Arenato nei meandri della burocrazia e nei gangli dei procedimenti giudiziari, il «tesoro» di Duilio Poggiolini, l’ex «re Mida della Sanità», condannato in via definitiva da Cassazione e Corte dei Conti, è ben lontano dall’essere a disposizione dello Stato. Beni quasi tutti da monetizzare, che come si sottolinea nell’edizione odierna de «La Verità», nell’articolo a firma di Roberto Faben, giacciono ancora «in un labirinto di sentenze e incartamenti». Sentenze ancora da scrivere, come quella relativa al processo che per l’89enne romano, è in corso presso il Tribunale di Napoli. Il processo in corso a Napoli, Poggiolini è accusato di epidemia colposa per la vicenda degli emoderivati killer. Più di quattro lustri, da tanto si trascina il procedimento che inizia negli anni Novanta e arriva fino ai giorni nostri. A Napoli, viene trasferito da Trento, nel 2003. Testimonianze inquietanti quelle che emergono dal processo, storie di vite cambiate per sempre e in molti casi conclusesi a causa di una trasfusione di «sangue non controllato», come ipotizza l’accusa. Plasma che sarebbe poi stato riversato copioso anche nella nostra Penisola. I «conti» del dramma li porta da anni l’Associazione politrasfusi: dal 1985 al 2008 (anno in cui parte processo penale) le vittime di trasfusioni con plasma infetto sarebbero state 2.605. Alla fine dello stesso periodo di tempo si registrano 66mila domande di risarcimento rivolte al Ministero della Salute.
I «conti» dell’Associazione politrasfusi. Ma i responsabili della citata associazione, annotano pure che delle domande di risarcimento, quelle accolte e liquidate con un assegno bimestrale di 1.080 euro staccato agli sfortunati incappati nel sangue infetto, sono più o meno 49mila. Verticalizzando l’attenzione sull’inter del processo in corso a Napoli, si può considerare specchio dei ritardi connessi alla giustizia nel nostro Paese. A giugno del 2005, quindi quasi quattordici anni fa, la Procura di Napoli aveva chiesto l’archiviazione. Ma a luglio del 2007, gli avvocati di parte civile spiegano al giudice per le indagini preliminari, il perché della loro opposizione alla richiesta della Procura. Il gip, dunque, alla fine di dicembre (sempre del 2007), ordina ai pm di formulare l’imputazione di omicidio plurimo nei confronti di 11 indagati. Si arriva dunque al 2008, quando si apre il processo penale. Dopo più di dieci anni, però, si va avanti senza particolari accelerazioni. Se tutto dovesse andare bene, potremmo assistere a un sua conclusione, con ulteriore richiesta di danni, nel corso della prossima primavera.
Lingotti d’oro e tele d’autore nel caveau della filiale napoletana della Banca d’Italia. Nel frattempo il tesoro di Poggiolini è ancora parcheggiato, in attesa che lo Stato possa effettivamente acquisirlo e disporne come risarcimento. Giusto per fare un esempio, nel caveau della filiale di Napoli della Banca d’Italia (che ne è custode giudiziario) ci sono lingotti d’oro da mezzo chilo cadauno e dipinti d’autore – tra cui un De Chirico – che furono sequestrati a Roma, nella villa all’Eur, dopo l’arresto di «re Mida» avvenuto il 20 settembre del 1993. Ancora in attesa che si concluda un iter, a distanza di 25 anni e di 125 milioni di euro.
L’infinito caso Poggiolini e la giustizia penale, utile anche se non condanna. A smentire le teorie che vorrebbero di nuovo far regredire il processo al modello inquisitorio provvede il caso di Duilio Poggiolini: due giorni fa la Procura di Napoli ha chiesto l’assoluzione dell’ex “Re Mida” della sanità, ormai 90enne, dall’accusa di omicidio colposo plurimo nel processo per il “sangue infetto”, scrive Errico Novi il 23 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Serve il processo? In Italia non tutti lo danno per scontato. C’è chi come Piercamillo Davigo e Nino Di Matteo si fermerebbe volentieri alle indagini, con la prescrizione e se possibile anche con l’accertamento: una volta che il pm ha raccolto le prove, di cos’altro c’è bisogno? Una esemplare – nella tragicità dei fatti – dimostrazione che si fa male a pensarla così viene dal processo a Duilio Poggiolini e ad altre 8 persone in corso a Napoli, e nel quale lunedì scorso il pm Lucio Giugliano ha chiesto l’assoluzione. Ebbene: a parte l’incredibile prova di tenuta esibita da una storia che risale, processualmente, ai primi anni Duemila e che si riferisce a fatti iniziati addirittura 40 anni fa, a parte l’ormai 90enne Poggiolini, la casa di cura abusiva in cui era stato trovato anni fa e tutto il corollario di mitologia nera di Tangentopoli, c’è anche una incredibile utilità “extrapenale”, verrebbe da dire, di questo processo, che realizza seppur informa capovolta la perfetta smentita delle ipotesi davighiane. Qui non siamo di fronte al dibattimento in cui emerge l’innocenza di una persona che l’accusa, nella fase preliminare, dava per sicura colpevole: ci troviamo casomai con una storia andata avanti per quasi quattro lustri grazie alla tenacia delle associazioni degli emofiliaci e che, pur nell’ormai chiara impossibilità di pervenire a delle condanne, consente di ricostruire storicamente i fatti comunque gravissimi richiamati nei capi di imputazione. Nello specifico, Poggiolini è tuttora imputato per omicidio colposo plurimo di 8 pazienti emofiliaci, l’ultimo deceduto nel 2011, insieme con 8 fra ex manager e dipendenti di alcune fra le maggiori case farmaceutiche italiane. Secondo lo stesso pm, l’accusa è indimostrabile: manca il nesso di causalità che è richiesto perché si possa parlare di omicidio. Più precisamente, non è stato possibile individuare le dosi di farmaco che hanno direttamente provocato il decesso di ciascuna delle 8 vittime. Il giudice monocratico del Tribunale di Napoli Antonio Palumbo difficilmente potrà decidere in modo diverso da quanto chiede la Procura. Ma chiarire perché sia così difficile vuol dire risalire alla genesi dei fatti e spiegare anche per quale motivo va comunque considerato addirittura prezioso questo lungo processo. Vicenda giudiziaria che, visto il tempo trascorso, qualcuno potrebbe snobbare come un clamoroso dispendio di denaro. E invece, come vedremo tra un attimo, grazie al “processo Poggiolini” si è chiarito quanto sia importante evitare approvvigionamenti di sangue da donatori troppo remoti per essere davvero affidabili. Tutto nasce assai prima che Poggiolini diventasse un simbolo del male nell’ancien régime della Prima Repubblica. Siamo ancora negli anni Settanta quando negli Stati Uniti avanzano dubbi sull’opportunità di accettare sangue donato, dietro pagamento, dai detenuti o dai cittadini di Paesi poveri. La Food and drug administration vieta l’uso di quel sangue all’interno degli Usa, incredibilmente ne lascia libero il commercio verso altri Paesi. È il primo atto di grave imprudenza. In molte carceri americane ci sono reclusi affetti da una patologia ancora sconosciuta: l’Aids. Altri hanno l’epatite C. In Italia alcune aziende farmaceutiche intendono acquistare quel sangue. Serve per produrre gli emoderivati. Non per fare trasfusioni, dunque, ma per curare pazienti emofiliaci, che a ogni minima distorsione generano ematomi. Già dal 1972 Duilio Poggiolini era un’importante funzionario del ministero della Salute, arriva quindi a dirigere il precursore dell’Aifa, ossia l’ufficio che autorizza tra l’altro l’acquisto di materiale biologico da parte dell’industria farmaceutica. C’è un broker canadese pronto a smerciare il sangue comprato nelle carceri americane. Poggiolini dà il via libera, in cambio di tangenti, secondo quanto accertato in un altro processo. Grazie alla sua imprudenza, ma quando dell’Aids ancora non si sa nulla, dunque a inizio anni Ottanta, arriva il sangue rifiutato dagli americani. Secondo le ricostruzioni dell’accusa e delle parti civili, erano comunque ben noti i potenziali fattori di contagio, anche se non lo era la terribile malattia da immunodeficienza, scoperta solo nell’ 85. La contraggono centinaia di pazienti italiani che acquistano farmaci prodotti col sangue che viene dall’Arkansas e dal Tennessee. Contraggono l’epatite B e C, oltre all’Aids. A inizio anni Duemila viene aperta la prima indagine. A Trento, distretto di residenza della prima persona deceduta. Si parte con l’accusa di epidemia colposa, comunque difficile da strutturare. Il processo arriva a Napoli nel 2003, passano un paio d’anni, la Procura è decisa chiedere l’archiviazione. Qui entrano in gioco le associazioni degli emofiliaci: il gup Maria Vittoria De Simone (poi passato alla Dna) le ascolta e dispone l’imputazione coatta: non più epidemia ma omicidio colposo plurimo. Scelta processuale impegnativa, ma appunto preziosa. Passano però altri anni, finché le parti civili convincono Beatrice Lorenzin, nuova ministra della Salute, a superare il parere contrario dell’avvocatura dello Stato e a costituire come parte civile il ministero stesso. A sua volta l’avvocatura cambia linea e sceglie di inoltrarsi, peraltro con grande determinazione, nella nuova fase processuale. Ne viene un percorso di revisione storica. Emerge che Poggiolini non poteva ovviamente sapere dell’Aids, ma che la sua condotta sarebbe stata a un passo dal dolo eventuale. Solo che non è possibile stabilire appunto quali determinate dosi di farmaco avessero provocato ciascuno dei decessi. Anche perché quando le aziende italiane, autorizzate da Poggiolini, acquistarono il sangue Usa dal broker canadese, si seguirono processi di produzione su larga scala: le sacche di sangue venivano mescolate a gruppi di 20, quindi se pure i malati di Aids ed epatite C, fra i donatori, fossero stati pochi, i virus sarebbero comunque finiti nella maggior parte dei casi, negli emoderivati. Altre case farmaceutiche producevano anticoagulanti con approvvigionamenti memo spericolati, e visto che quasi tutti i pazienti acquistavano farmaci da industrie diverse, era impossibile stabilire il nesso tra singole somministrazioni e singole morti. Ci ha provato, l’avvocatura dello Stato, insieme con il dirigente del ministero Lorenzo Montrasio, che da consulente di parte ha sostenuto come ogni singola somministrazione infetta contribuisse a condurre il paziente alla morte. Il collegio dei periti non lo ha seguìto. Ma Montrasio ha trovato conferma delle sue diffidenze verso il commercio disinvolto di farmaci di derivazione biologica: ha bloccato per esempio l’acquisto, da parte del ministero, di sacche di sangue raccolte in Iran. Prudenza che Poggiolini e i vertici delle case farmaceutiche italiane non ebbero. Ma che oggi, anche grazie al processo a loro carico, si è finalmente radicata, nel ricordo doloroso delle vittime e nella consapevolezza delle nostre istituzioni.
· Quando Craxi disse: «Non tornerò in Italia neanche da morto…».
Craxi, una via a 20 anni dalla morte? Dibattito (politico) aperto a Milano. Pubblicato venerdì, 29 novembre 2019 su Corriere.it da Andrea Senesi. Milano ricorderà il leader socialista il prossimo 19 gennaio per i venti anni dalla morte. Pressing della figlia: gli sia dedicata una strada. La ricorrenza, questa volta, non sarà ignorata: Milano, la sua città natale, ricorderà il ventennale della morte di Bettino Craxi, il 19 gennaio prossimo. «Bisogna affrontare politicamente la questione», dice Beppe Sala e quella del sindaco ha il sapore questa volta di un’apertura vera. Intitolargli una via? Per ora prematuro immaginare che il nome dell’ex presidente del Consiglio finisca già a gennaio nella toponomastica cittadina. «Io penso che politicamente sia il momento di affrontare la questione, poi sulle forme siamo qui per ascoltare proposte e, più che prendere iniziative, io vorrei capire la città che tipo di idee ha. Però giustamente nel ventennale credo sia un passaggio storico da non ignorare», spiega Sala che poi conclude: «Si parla di gennaio 2020, quindi praticamente domani mattina e noi siamo qua in ascolto. Secondo me non sarebbe sbagliato un dibattito in Consiglio comunale, il primo passo potrebbe essere sicuramente questo». Milano e l’omaggio postumo a Craxi. Una storia che inizia dieci anni fa, con l’annuncio dell’allora sindaco Letizia Moratti di volere intitolare proprio a «Bettino» una via in occasione del decennale della scomparsa, intenzione poi finita in nulla, e prosegue sette anni dopo con la prima, timidissima, apertura dello stesso Sala. «Una via? Non so se Milano sia pronta o meno — spiegò allora il sindaco —, bisogna ascoltare la città. Certamente, è giusto interrogarsi per capirlo. Quindi bene il dibattito, almeno». Ora la nuova, e forse più convinta, apertura, affidata però al Consiglio comunale, incaricato di «suggerire» le modalità più consone per ricordare la figura del premier socialista e milanese. Il dibattito, nel frattempo, è (ri)partito. Per la figlia Stefania il passo avanti del sindaco è apprezzabile, ma ancora decisamente timido e largamente insufficiente: «Lui dice di voler ascoltare la città. Bene. Ma è una dichiarazione che ha già fatto nella ricorrenza del 2017, tre anni fa. Anche allora diceva che bisognava aprire una discussione. Eppure, a Milano, nonostante momenti di approfondimento e di riflessione sulla figura e l’operato del leader socialista, la Fondazione Craxi ne ha promossi tanti, il sindaco, ripetutamente invitato e sollecitato, non ha mai per diverse ragioni partecipato. Sala abbia quindi il coraggio di intitolare, nel ventesimo anniversario della scomparsa, una importante via nella sua città». Sostanzialmente d’accordo Forza Italia e buona parte del centrodestra, resta più d’uno scoglio a sinistra. Basilio Rizzo ha fatto l’opposizione alle giunte socialiste degli anni 80. «È singolare — osserva ora l’esponente di Milano in Comune — che nello stesso anno si conferisca l’Ambrogino alla Memoria all’ex procuratore Francesco Saverio Borrelli e poi si intenda celebrare Craxi. In ogni caso è giusto che ci sia un momento di confronto politico e parteciperò volentieri, anche se preferirei che si trattasse di un convegno o qualcosa di simile piuttosto che un dibattito in Consiglio comunale». Franco D’Alfonso, eletto nella lista civica Sala, proviene invece dalla famiglia socialista e fa persino parte del comitato per la celebrazione del ventennale della morte di Craxi: «Bettino è stato uno dei pochi primi ministri milanesi, ma il dibattito non deve essere divisivo. Penso che alla fine dovrà essergli tributato un riconoscimento, anche se sono poco appassionato alla toponomastica. Meglio quindi un richiamo al Famedio». Filippo Barberis, capogruppo del Pd, garantisce da parte del partito di maggioranza relativa «la massima disponibilità a ragionare all’interno di un dibattito che rifletta sulla figura di Craxi politico, anche alla luce della sua esperienza da amministratore milanese, non riducendo la sua vicenda politica alla conclusione giudiziaria». Granitica invece l’opposizione dei Cinque Stelle. «Consiglierei al sindaco di occuparsi dei problemi della città, che non sono pochi, invece di pensare a dibattiti più o meno revisionisti e di nessun interesse per la maggioranza dei milanesi», attacca Gianluca Corrado.
Milano, la proposta del sindaco: "Un dibattito per ricordare Craxi", il centrosinistra si divide. Il 19 gennaio del 2000 moriva ad Hammamet il leader del Psi travolto da Tangentopoli. La figlia Stefania: "Dedicategli una strada". Massimo Lorello il 28 novembre 2019 su La Repubblica. Un dibattito su Bettino Craxi. Al Comune di Milano. Un dibattito vent’anni dopo la scomparsa del leader del Psi travolto da Tangentopoli come tutti i protagonisti principali della Prima Repubblica. La proposta arriva dal sindaco Giuseppe Sala che argomenta: "Io penso che politicamente sia il momento di affrontare la questione, che non passi ignorato questo ventennale. Poi sulle forme siamo qui per ascoltare proposte e, più che prendere iniziative, io vorrei capire la città che tipo di idee ha. Però giustamente nel ventennale credo sia un passaggio storico da non ignorare". Bettino Craxi morì il 19 gennaio del 2000 nella sua villa di Hammamet in Tunisia, dove si era rifugiato nel 1994 dopo l’inchiesta di Mani pulite. L’iniziativa dedicata a Craxi dovrebbe essere organizzata a gennaio, "quindi – sottolinea Sala - praticamente domani mattina”. Secondo il sindaco di Milano “non sarebbe sbagliato un dibattito in Consiglio comunale, il primo passo potrebbe essere sicuramente questo".
Ricordare Craxi, la proposta della figlia. Stefania Craxi, senatrice di Forza Italia e figlia del leader socialista, incassa la proposta di Sala e rilancia: "Credo alla buona fede del sindaco di Milano. Ma abbia la forza di fare un passo in avanti. Intitoli, nel ventesimo anniversario della scomparsa di Craxi, una importante via nella sua città".
Ricordare Craxi, l’apertura dei consiglieri dem. Filippo Barberis, capogruppo del Pd a Palazzo Marino, assicura "la massima disponibilità a ragionare all'interno di un dibattito che rifletta sulla figura di Craxi politico, anche alla luce della sua esperienza da amministratore milanese, non riducendo la sua vicenda politica alla conclusione giudiziaria". Barberis immagina il dibattito in Consiglio comunale come l'ultima tappa di un percorso che dovrebbe passare prima da altre sedi non necessariamente istituzionali. Del Pd fa parte anche Carlo Monguzzi che su Craxi ha un’idea differente: "Non è un problema che hanno i milanesi: è stato una persona intelligente ma ha commesso dei reati". Da sinistra, Basilio Rizzo, di Milano in Comune, pur sottolineando che il Craxi di Sigonella "sarebbe da ricordare con una targa", anzi, ricordarlo sarebbe "sacrosanto", non può fare a meno di sottolineare che "nella storia di Milano forse il leader socialista richiama più una vicenda negativa" come Tangentopoli. E quindi, a rigor di logica: "Se diamo l'Ambrogino a Francesco Saverio Borrelli non possiamo celebrare Craxi".
Sala: «Una via per Craxi? No, riaccende contrapposizioni». Pubblicato venerdì, 29 novembre 2019 da Corriere.it. «Torno sul dibattito relativo a Bettino Craxi per chiarire meglio il mio pensiero. Intitolargli una via rischierebbe di riproporre, più che altro, vecchie contrapposizioni. Mettere ancora gli uni contro gli altri ha poco senso, meglio capire se c’è spazio per riconciliarci con il nostro passato e fra di noi». Così il sindaco Beppe Sala con un post su Facebook sul dibattito, che è tornato a dividere la politica, relativo alla figura del leader socialista e al modo per ricordarlo, soprattutto quest’anno: il 19 gennaio prossimo, infatti, saranno 20 anni dalla sua morte. «Il mio invito — ha sottolineato — è quindi un altro: fare i conti con la complessità di una storia che, nel bene e nel male, ha significato molto. Le ricorrenze hanno anche un valore simbolico, venti anni sono un tempo giusto per aprire una riflessione seria. Non fermiamoci ai sì e ai no, si abbia l’ambizione di riflettere su questo». Duro il commento della figlia di Craxi, Stefania, dal 2018 al Senato tra i banchi di Forza Italia: «Solita sinistra ipocrita. Il sindaco Sala dice che una via a Craxi riaprirebbe contrapposizioni. È vero. Ma solo a sinistra. Nella sua maggioranza. Non altrove. Quindi basta ipocrisie. Basta nascondersi dietro un dito. Diciamo come stanno le cose. La solita sinistra ipocrita cerca formule per non affrontare un tema che ancora oggi li divide».
Goffredo De Marchis per ''la Repubblica'' il 30 novembre 2019. "Via Bettino Craxi a Milano? Secondo me è una scorciatoia semplificatrice e consolatoria. Mette a posto la coscienza e non risolve". Infatti il sindaco Beppe Sala, ora che si avvicina il ventennale della morte del leader socialista (gennaio), preferisce una riabilitazione per evitare nuovi scontri ideologici. Ha ragione lui? Rino Formica, storico dirigente del Psi, più volte ministro, della proposta di Sala si interessa fino a un certo punto. Nonostante i 92 anni guarda al futuro e lo vede nero. Perché l'Italia, da Tangentopoli in poi, ha buttato un quarto di secolo imboccando una via senza ritorno.
Formica, ripartiamo dall'omaggio a Craxi. Con buon senso il figlio Bobo propone, anziché la via, una targa: "Qui visse il primo milanese presidente del Consiglio". Senza fronzoli. Si può fare?
"Vogliamo proprio avere una targa? Allora facciamola e scriviamoci sopra quel brano del discorso fatto al congresso di Bari, nel 1991. È il vero testamento politico di Bettino, non il famoso intervento alla Camera sui finanziamenti ai partiti".
Cosa disse Craxi a Bari?
"Citò Giovanni Spadolini che a sua volta aveva ripreso parole di Ugo La Malfa. "Io potrei fare il populista, mettermi alla testa di una rivolta, prendere altri 3-4 milioni di voti grazie alla crisi del sistema. Ma non posso farlo. Perché sono figlio di questo sistema". Craxi chiosò: "La penso esattamente allo stesso modo"".
Però non si fece da parte. Dovettero scattare le inchieste.
"La crisi arrivò non per colpa del pool di Milano. I giudici cercarono un capro espiatorio. Craxi e il Psi erano l'anello debole del sistema politico. Furono sacrificati. Ma sa una cosa? Quel sacrificio poteva anche essere utile perché ha risparmiato le istituzioni. Era un prezzo che qualcuno doveva pagare da risarcire poi, tra un secolo, con un bel libro di storia. Senonché il sacrificio è stato inutile".
Ai socialisti la Seconda repubblica non è mai andata giù. Perché siete spariti?
"Nel 92-94 si rompe il rapporto tra le istituzioni, i partiti e l'elettorato. Cosa ha di differente quella crisi dalla situazione attuale? Che allora, da parte di gruppi ostili, si abbatte un simbolo non avendo la forza di abbattere il sistema. I nuovisti infatti non intaccano le istituzioni. Il che significa che tutti i partiti della Prima repubblica, di governo e di opposizione, avevano costruito un'Italia solida. Se abbiamo retto per 25 anni lo dobbiamo ai vecchi non ai nuovi che diventano parassiti delle istituzioni. Avrebbero dovuto cambiarle loro ma senza il sangue popolare dei corpi intermedi le istituzioni deperiscono, rinsecchiscono. Fanno la fine degli ulivi attaccati dalla xylella".
I nuovi sono scadenti, i partiti non esistono più, i corpi intermedi nemmeno. Chi ci pensa a salvare il sistema?
"Partire dalla fine è sempre sbagliato. Come diceva Sciascia, la memoria serve perché è necessario "cavare". Dentro quel "cavo" ci siamo noi oggi, quello che stiamo vivendo ora. Non si guarda mai al fondo della vicenda storica, all'esaurirsi del miracolo di un equilibrio dei poteri come lo abbiamo conosciuto. Bisognerebbe ritrovarlo o costruirne uno diverso. Ma lo sfasciume di questi 25 anni ha fatto solo danni. Le élite non hanno saputo fare di meglio che buttarsi sulla tenuta del vincolo estero, cioè l'Europa. Così è nato il sovranismo. Ah, dimenticavo: all'estero le élite ci hanno portato anche i soldi".
C'è una speranza?
"Partire dal piccolo per andare al grande. Ricominciare dai territori. I consigli comunali tornino ad essere quelli che noi vedemmo nascere nel '45 e nel '48: fucine politiche. I corpi dello Stato adesso sono frantumati. Purtroppo nella frantumazione prevale la tutela della struttura autonoma. Penso a voi dell'informazione. Difendete la libertà di stampa, lottate per salari decenti: giusto. Ma dovete anche comportarvi come organo della ricostruzione delle istituzioni. Penso alla magistratura. Renzi adesso dice che è perseguitato ma è stato premier per tre anni, aveva tutto il tempo per stabilire un nuovo equilibrio. È successa una cosa enorme: si sono dovuti dimettere il procuratore generale della Cassazione e 5 consiglieri del Csm che è guidato dal capo dello Stato. Dove si è aperta una riflessione? Silenzio. Per molto meno pesci piccoli della Prima Repubblica sono stati inguaiati perché non potevano non sapere. Ci avviamo a un'ulteriore degenerazione che alla fine si chiamerà guerra civile, altro che riduzione del numero dei parlamentari".
Il capo dello Stato doveva agire diversamente?
"Ce l'ho col sistema, non con lui. Semmai Mattarella corre il rischio di diventare nei prossimi mesi il bersaglio del rigurgito nazionalista che c'è. Ha visto l'insistenza di Salvini per incontrarlo? Cosa ha in mente, l'applicazione dell'articolo 90, la messa in stato di accusa per alto tradimento? L'attacco adesso sarà direttamente alle istituzioni. E vuole che se la prendano con la Casellati o Fico? Non mi sembrano bocconcini appetibili. Punteranno dritto al Quirinale".
Dal ''Corriere della Sera - Cronaca di Milano'' il 30 novembre 2019. Vent' anni non bastano. Bettino Craxi continua a dividere. A Milano più che altrove. E chi aveva letto le parole di Beppe Sala come un' apertura all' ingresso del nome del leader socialista nella toponomastica della sua città natale dovrà ricredersi. «Intitolargli una via - precisa il sindaco - rischierebbe di riproporre, più che altro, vecchie contrapposizioni». Cosa che in effetti non ha tardato ad avverarsi. Anche all' interno della stessa famiglia dell' ex presidente del Consiglio. Da una parte Stefania s' è infatti scagliata contro Sala accusandolo di «ipocrisia». «Dice che una via a Craxi riaprirebbe contrapposizioni. È vero - attacca la figlia -.Ma solo a sinistra. Nella sua maggioranza. Non altrove». Dall' altra Bobo, che prova invece a placare gli animi definendosi «allergico alla toponomastica», che davvero potrebbe «rinnovare antichi rancori», e preferirebbe allora una più sobria targa «storica» in uno dei luoghi della città legati all' azione politica del padre. Quell' invito dell' altro giorno ad affrontare la questione Craxi affinché non s'«ignorasse» il ventennale alle porte è diventato subito un caso. Tanto che il mattino dopo Sala preferisce chiarire il suo appello. «Mettere ancora gli uni contro gli altri ha poco senso - scrive sui social network - meglio capire se c' è spazio per riconciliarci con il nostro passato e fra di noi». La sua idea non era dedicargli una strada o una piazza, prosegue, semmai «fare i conti con la complessità di una storia che, nel bene e nel male, ha significato molto». Un dibattito, quindi - magari proprio in quell' aula di Palazzo Marino che ha visto i primi passi del Craxi politico - per rimuovere quell' ostacolo che impedisce alla Milano riformista di partecipare al dibattito internazionale sulla possibilità di un socialismo rinnovato. «Mi dispiace che Stefania Craxi pensi che il non dedicare una via al padre sia un modo per sfuggire il tema - spiegherà Sala in serata -: è assolutamente il contrario. Dopodiché, io sono interessato a una riflessione: oggi c' è un' attenzione mondiale sul tema di un nuovo socialismo, dagli Usa all' Europa. La mia impressione è che da noi non si abbia il coraggio d' affrontare la cosa perché non si vuole fare i conti con la memoria di Craxi». Il mondo politico intanto si schiera. «Condivido il fatto che ci può essere un' occasione di riflessione pubblica - dice Pierfrancesco Majorino, a margine della prima delle due giorni della sua rete dedicata ai diritti Casa Comune - poi per quello che riguarda l' intitolazione della via ero contrario prima e non ho cambiato idea». È tutto il Pd a giudicare prematura l' idea di dedicargli una via. «Penso che l' apporto politico di Craxi alla città di Milano sia stato molto importante. È giusto partire da questo, piuttosto che intitolare una via», commenta la segretaria cittadina dem Silvia Roggiani. Sul fronte opposto c' è Forza Italia, che giudica un «dietrofront» le parole del sindaco. «Ci eravamo illusi», protesta il consigliere regionale azzurro Gianluca Comazzi, secondo il quale «oscurare il ricordo di uno statista come Bettino Craxi in una ricorrenza così importante resterà una macchia nella storia amministrativa della città». Concorda Mariastella Gelmini: «L' intitolazione di una strada non rischia di "riproporre vecchie contrapposizioni", ma semmai aiuterebbe a superarle e a riconoscere la statura di un politico che ha rappresentato molto per Milano e per l' Italia». Infine, i Cinque stelle, che definiscono «surreale» la discussione: «Invece di avviare inutili e surreali dibattiti - è l' invito che arriva dal consigliere comunale pentastellato Simone Sollazzo - Sala si occupi dei tanti problemi che i milanesi vivono quotidianamente».
Giampiero Mughini per Dagospia l'1 dicembre 2019. Caro Dago, e ci mancherebbe altro che non sia venuto il tempo di dare a Bettino Craxi, uno dei giganti della politica italiana del dopoguerra, quel che è di Bettino Craxi. Il sindaco di Milano, Beppe Sala, aveva accennato al dedicargli una via, e subito lo avevo elogiato con un messaggio personale. Un paio di sere fa eravamo nello studio televisivo presieduto da Barbara Palombelli, e c’erano Daniele Capezzone, il professore Miguel Gotor, il mio amico Stefano Zecchi. All’idea di ricordare Craxi a vent’anni dalla morte eravamo tutti entusiasti. Zecchi, che alcuni anni fa era stato assessore nella giunta comunale di Milano, disse che a suo tempo era riuscito a fare intestare una via di Milano addirittura a Giovanni Gentile, assassinato dai gappisti comunisti a Firenze. Figuriamoci se non era d’accordo nell’intestare una via del capoluogo lombardo al protagonista massimo del riformismo socialista milanese. E’ appena uscita, a cura del mio vecchio amico Luigi Covatta, una ricca antologia dei settant’anni (1948-2018) di “Mondoperaio”, il mensile del Psi socialista che ai tempi della rivoluzione d’Ungheria (1956) e dell’avvento di Craxi alla segreteria del Psi (1976) marchiò due momenti cruciali della storia politica e intellettuale del socialismo italiano e della sua “revisione” rispetto alla storia politica e intellettuale del Partito comunista italiano. Uno dei più bravi librai antiquari italiani e mio carissimo amico, il bolognese Piero Piani, mi segnala una sua bruciante raccolta di libri e riviste che hanno ad oggetto il socialismo autonomista di Pietro Nenni e di Craxi e che lui mette in vendita. Craxi merita a Milano una via, una targa? Molto di più. A vent’anni dalla sua morte dopo un’operazione chirurgica fatta nelle condizioni disperate di un ospedaletto tunisino, Craxi merita la sua piena e totale reimmissione nella storia politica italiana recente la più importante se non la più drammatica. Non capisci nulla, ma proprio nulla, di quel che è successo nell’Italia che va dalla metà degli anni Settanta all’alba di Tangentopoli se al centro di quello scenario non metti l’omone che aveva cominciato a far politica nell’Ugi universitaria degli anni Cinquanta e che negli anni Sessanta era andato una volta a far visita al suo amico Carlo Ripa di Meana, uno che era andato a vivere e a lavorare nella Praga del comunismo reale. “Che roba è tutto questo?”, chiese a Carlo. “E’ una roba che fa schifo” gli rispose Carlo. Era ancora il 1975, e il dominio etico e culturale dell’italocomunismo in Italia era assoluto, quando in un’auletta della Casa della Cultura di Largo Argentina a Roma organizzarono la presentazione di un mio libretto che faceva da antologia ragionata del “revisionismo socialista”. A difendere le ragioni dei comunisti c’erano due pezzi da novanta, Gerardo Chiaromonte e Alfredo Reichlin. Craxi arrivò in ritardo e subito prese la parola: “Ma di che cosa stiamo discutendo e finché in Europa esiste quel muro di Berlino che separa le democrazie occidentali dai Paesi dove imperversa la dittatura dei partiti comunisti?”. Vi assicuro che detto a quel modo e detto in quel momento faceva il suo porco effetto. Era ancora un tempo della storia politica e culturale italiana in cui Lenin e le sue gesta bolsceviche la facevano da padroni. Guai a toccarglieli agli intellettuali comunisti persino i più aperti di allora. Ci vollero ancora un po’ di anni, ossia quel che stava avvenendo nella Polonia in cui avevano tentato di aprire uno spiraglio all’incombere del comunismo pro-Urss, perché Enrico Berlinguer dichiarasse “esaurita” la spinta propulsiva che veniva dal colpo di stato bolscevico del 1917. S’era dunque esaurita nel 1979, non prima, già negli anni Trenta, quando Giuseppe Vissarianovic Stalin aveva fatto ammazzare a milioni e milioni i russi di ogni specie e classe. Panzane. Cose di cui oggi nessuno obietta neppure una virgola, tanto è assodato che si andata così. Non lo era nel 1977, quando senza Bettino Craxi il mio amico Carlo Ripa di Meana non avrebbe potuto organizzare quella Biennale del dissenso sovietico che la gran parte dell’intellettualità comunista avversò fino all’ultimo, ed è per pietà intellettuale che non cito le fetenzie che scrissero al riguardo. Certo, Bettino divenne capo di un partito che esercitava alla grande la spartizione delle spoglie, ossia il prelievo illegale di tangenti eccetera. Lo facevano tutti, a tutti i livelli, e finché nel 1989 il parlamento – all’unanimità – amnistiò quel reato. All’unanimità. Cancellato. Cancellati i milioni e milioni di dollari che il Partito comunista aveva ricevuto da una potenza straniera e nemica e che permettevano l’opulenza della sua organizzazione nel territorio, della sua attività interna, della sua stampa, e ferma restando la dirittura morale dei suoi uomini e dei suoi dirigenti. Ve li immaginate Chiaromonte o Reichlin che si mettono in tasca un solo centesimo? Indubbiamente la linea separatoria tra etica politica e etica privata non era in Craxi così netta, e ciascuno ha il diritto su quest’argomento di accludere fatti e dati. Cosa diversa è stato l’annientamento del Psi craxiano, una cosa diversa e delittuosa. Delittuosa perché il Psi craxiano aveva avuto ragione su quasi tutto, lo dice oggi Massimo D’Alema e lo dicono molti degli intellettuali ex comunisti degli anni Settanta che replicavano a muso duro a quello che noi di “Mondoperaio” scrivevamo sull’Urss di Lenin e di Stalin. E resta che quando Craxi nell’aula di Montecitorio puntò il dito alla sua destra e alla sua sinistra verso tutti i parlamentari italiani dicendo “C’è qualcuno di voi che non sa fin da quando aveva i pantaloni corti che la politica democratica del nostro Paese si regge sul prelievo di tangenti illegali?”, non uno di quei parlamentari fiatò. In quegli anni Norberto Bobbio aveva criticato il comportamento morale del Psi craxiano. Adoravo Bobbio. Gli portai in casa uno dei dirigenti del Psi, il torinese Giusy La Ganga, il quale era stato suo allievo all’università. C’era una elezione politica all’orizzonte. La Ganga disse quanto sarebbe costata al minimo la sua imminente campagna elettorale in Piemonte. Quattrocento milioni secchi. Al minimo. Il prezzo della democrazia. Bobbio allibì e non replicò. Di questo dobbiamo discutere a vent’anni dalla morte di quell’omone. Una via a Milano? Il minimo dei minimi.
Stefania Craxi: «Su papà Bettino basta meline ridicole. Ora a Hammamet tutti i leader politici». Pubblicato sabato, 30 novembre 2019 su Corriere.it da Francesco Battistini. «Sulla tomba di mio padre vengono 5 mila persone all’anno.
«Bando alle ipocrisie, alle dichiarazioni avide, alle meline ridicole».
Stefania Craxi, lei usa raramente mezzi termini.
«Ma sì. Lo sa che cosa intende Beppe Sala, quando dice che una via Craxi a Milano riaprirebbe contrapposizioni? Solo una cosa: che a spaccarsi sarebbe la sua maggioranza in Comune. La sinistra. Quel Pd che è nato sulle ceneri di Tangentopoli e non ha mai voluto sanare la ferita, fare i conti con un passato che non passa».
Sembra di tornare a dieci anni fa: Letizia Moratti che pensava a quale strada dedicare...
«Non parlo di toponomastica, solo di politica».
Ma la politica è anche simboli: Renzi, per esempio...
«Sì, a volte il tema è politico. E quando lui era sindaco di Firenze, disse che intestare un luogo a mio padre non era “pedagogico”. Spero che ora si rileggerà, particolarmente con ciò che sta passando, e ripensi a che cos’è “pedagogico” e che cosa non lo è».
Perché Craxi sì e Almirante no?
«Sono contro ogni posizione ipocrita. E per chi guarda in faccia la propria storia, nelle luci e nelle ombre».
Dal Pd dicono: la riflessione è necessaria perché non basta che Craxi abbia ammesso «tutti sapevano», doveva raccontare di più...
«Raccontare cosa? Non è mai stato un delatore. E non s’è mai occupato del finanziamento ai partiti, non c’è mai stato nessun tesoro. Come vivevamo noi, bastava chiederlo ai prefetti che ci davano le scorte».
Ma con Sala avete mai parlato d’una via Craxi?
«Tre anni fa. Mi rispose: mah, bisogna prima interrogarsi, dibatterne... Ho fatto almeno un dibattito al mese sulla memoria di Craxi, e Sala non è mai venuto. Ora è superfluo domandarsi ancora che cosa mio padre rappresenti nella storia d’Italia, coi suoi errori e i suoi meriti. Sono passati 20 anni dalla morte! E il sindaco è ancora qui a discuterne la memoria? Prenda esempio dal suo collega di Hammamet, che ha dedicato un viale e intitolerà il giardino ai piedi della Medina».
A gennaio, in Tunisia, sarà un anniversario particolare...
«Faccio un appello a tutti i leader politici. Venite a Hammamet fra il 17 e il 19. Tutti, nessuno escluso. Sarà l’occasione per una pluralità di risposte, a questi interrogativi che ancora ci si pone».
Proprio tutti? Anche i leghisti che agitavano il cappio alla Camera? O CasaPound?
«Ma perché, serve una patente di presentabilità? E perché un Salvini dovrebbe stare alla larga, scusi? Un consigliere regionale leghista ha detto l’altro giorno che, sì, il cappio fu uno sbaglio. Va bene così: la sinistra non s’è mai scusata... Sulla tomba di Craxi, vengono 5 mila persone all’anno. A gennaio, venga chiunque abbia spirito di verità. Basta che stia alle regole della casa: niente applausi, nessun comizio, solo silenzio».
Chi ci sarà?
«Vedremo. Il comitato ha ricevuto molte adesioni. Mi ha chiamato Costantino della Gherardesca. E poi Eugenio Bennato, Giuseppe Bono, Caterina Caselli, Maria Luisa Trussardi, Mara Venier...».
Ha già visto il film «Hammamet» di Gianni Amelio?
«No, ma sono molto curiosa. Sono certa che abbia letto bene il dolore. Ho consentito che per le riprese usasse anche la famosa villa di Hammamet, per togliere dai piedi certe leggende su di noi».
Dopo i Savoia, va rimpatriata anche la salma di Bettino?
«No. La sua volontà era di restare nel Paese che l’ha accolto e amato».
C’è un giudizio su suo padre che non riesce a digerire?
«I riformisti combattono le idee, non le persone. Dagli avversari politici, m’aspetto parole sempre dure. Ma dai supposti amici, gente come Rutelli che poi disse quel che disse… Ora ricompare qualche amico che s’era eclissato: Martelli, Mancini… Giuliano Amato, mi auguro trovi il tempo di ripresentarsi, almeno per il ventennale».
Che direbbe oggi Craxi dei grillini?
«Le sedute spiritiche non le faccio ancora. Lui era figlio d’una politica fatta di vita e di morte. Non gli piacerebbe fatta solo di tv e di web».
Un angolo di Milano che sceglierebbe, per via Craxi?
«Uno slargo di piazza Duomo: lì, aveva lo studio. O dove c’è la famosa fontana. Quella che dicevano che stava a Hammamet».
Bobo Craxi: «Ma quale tesoro? Mio padre ci lasciò sul lastrico». Pubblicato sabato, 16 novembre 2019 da Corriere.it. Vittorio Michele Craxi, detto Bobo, nato nel 1964. In questa intervista Bobo Craxi racconta a Francesco Battistini gli anni vissuti accanto al padre. «Come cammina, come parla. Sì, sembra proprio lui...». Un giorno di primavera tunisina, Bobo ha visto rivivere suo papà: «Ero ad Hammamet. Al piano terra giravano il film. Sono sceso. C’era il nostro vecchio Amida commosso: dopo anni, rivedeva Craxi muoversi per le stanze... Allora ho stretto la mano a Pierfrancesco Favino, il protagonista, il mio “papino”. Identico. Impressionante».
Il film «Hammamet» sta per uscire...
«La grande metafora del potere che finisce nella polvere. Il dramma d’un uomo sconfitto e in cattività. La storia di mio padre non si può assorbire in due ore di cinema, ma la sceneggiatura tocca il cuore. Anche se non combacia con la realtà. Diciamo che Gianni Amelio s’è preso qualche licenza poetica. Per esempio su mia sorella: Stefania ebbe una forma di rimorso, per essere stata lontana in quegli anni, ma capisco che nel racconto il rapporto padre-figlia funzioni meglio...».
Lei invece è stato sempre lì.
«E’ stato un dramma da cui non ci siamo mai più ripresi. Una storia che io ho vissuto da vicino. Per me e Scilla, mia moglie, stare tre anni consecutivi in esilio non fu proprio toccare il cielo con un dito. Fu una grandissima sofferenza. D’altronde, non potevo andare da nessuna parte. A un certo punto, lui sceglie la Tunisia e mi dice: vieni con me, che cavolo fai a Milano?»
Bobo Craxi è stato sottosegretario agli Esteri (2006-2008) e deputato (2001/2006)
Che cosa c’è di suo, nel film?
«Qualche parte del mio Route El Fawara Hammamet è stata saccheggiata. A proposito, sa come lo pubblicarono? Una volta mi chiamò Elvira Sellerio. Aveva fatto leggere le bozze a Camilleri e il giudizio era stato: interessante, il libro del figliolo di Craxi...».
Che cos’è stata, per lei, la villa di Hammamet?
«Il mio primo ricordo è da bambino: capii subito che sarebbe stato un luogo dove un giorno sarei vissuto anche d’inverno. Probabilmente, un presagio. Fui il primo della famiglia ad abitarci, ancora non era finita. Paradossalmente, è dove sono stato di più con mio padre: di lui a Milano, ricordo poco».
Ad Hammamet vi siete ritrovati?
«Noi parlavamo di politica da quando avevo dieci anni. Ma io non mi sono mai messo in modalità Trota: io andavo nelle sezioni e non sono stato eletto quando mio padre era vivo, come La Malfa o la figlia di Nenni. Non mi sono mai posto nemmeno il problema dell’emulazione, perché l’unico figlio d’arte che conosco superiore al padre è Paolo Maldini: la mia carrierina politica mi ha dato comunque soddisfazioni insperate. Insomma, non sono stato un figlio ribelle. Però critico, questo sì. Già ai tempi dei successi, vedevo nel partito cose che non mi piacevano».
Che padre è stato?
«Io mi sento il figlio d’un figlio del partito. E ho assolto la mia responsabilità come figlio e come militante. Con lui, sono in pari. È stato un padre da bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto: prima veniva la politica, poi il partito, poi il Paese, poi gli amici e, solo a un certo punto, arrivavamo anche noi. Non fosse stato così, oggi non avrei difficoltà di tutti i generi. Lui ebbe amici o ex collaboratori che hanno vissuto come maragià. Io mi son trovato sul lastrico economico. L’ho messo nel conto: non è che i figli di Allende abbiano vissuto una vita serena».
E il famoso tesoro di Craxi?
«Questa storia del tesoro funzionava come racconto. Vero è che a molti di quelli che s’occupavano di denaro, qualcosa è rimasto in tasca. Ma io, dopo Tangentopoli, ho vissuto i peggiori anni della mia vita. Se sei un politico, nessuno t’assume. Non sono stato più rieletto e sono ancora percepito come uomo della Casta, senza esserlo: non ho uno stipendio pubblico da dieci anni, né vitalizi. La mia casa a Roma è finita all’asta. Dov’è, questo tesoro?».
S’è molto fantasticato sulla villa tunisina: i pavimenti lastricati con la fontana del Castello Sforzesco, Paolo Rossi che cantava “ad Hammamet perfino il vino viene giù dal rubinèt”...
«Diventò un luogo comune. La sentina di tutti i mali. E si passò direttamente al dileggio. Puoi farci poco. Col senno di poi, da Parmalat a Montepaschi, i politici ne han combinate talmente di peggio che è stata riabilitata anche questa casa: di fascino, ma sfarzosa proprio no. Un compagno di partito era stato ad Hammamet negli Anni 50 e aveva detto: è un posto meraviglioso, a un’ora da Roma... All’inizio doveva essere un terreno sul mare, ma c’era una disputa fra eredi. Allora, nel 1970, i tunisini ci proposero una campagna desolata in collina, più fresca. Ma s’arrivava solo in auto attraverso una pista, la sera niente luce, quando pioveva s’allagava tutto. Fu un vero disagio: chi passava a trovarci si domandava se Craxi fosse matto, come mai era finito laggiù e non a Forte dei Marmi».
Dice Rino Formica che la fuga ad Hammamet è stato il più grande errore di Craxi.
«Bisogna sapere che c’era anche un pericolo fisico. In Tunisia, capitarono due incidenti stradali casualmente identici. Un pezzo della frizione manomesso. Io ho rischiato la vita, ma il vero obbiettivo era ammazzare mio padre. Laggiù, lui si mise al riparo. E comunque non riconosceva i tribunali che lo condannavano. Fu il rifiuto d’una legislazione straordinaria, mai votata dal Parlamento, che applicava le norme in forma arbitraria. Fu un esilio».
Non tutti chiamano esilio una latitanza...
«Non si trattava più di sottrarsi alla giustizia. Era il rifiuto d’una logica politica che voleva punire solo lui. Come dice un grande poeta tunisino, Meddeb, l’esilio è una ricerca e non un castigo. Di sicuro, lo influenzò il mito di Garibaldi. E il riferimento storico agli oppositori esiliati. La Tunisia è sempre stata terra d’esiliati, dai fascisti o dai Borboni. Seguo da vicino il caso catalano e due anni fa incontrai Puidgemont, il leader indipendentista. Mi chiese della vita in Tunisia di mio padre. Non capivo il perché: due giorni dopo, Puigdemont fuggì da Barcellona per il Belgio. Anche gente come Dell’Utri ha pensato d’imitare quella scelta, ma fu una cosa diversa. Mio padre non scappò come un Matacena qualsiasi».
Da Hammamet, sua madre Anna non s’è più mossa.
«E’ andata lì prima di lui, nel ‘93. Adesso trascorre sei mesi là e sei a Roma. Ha preso la cittadinanza tunisina, furono i tunisini a chiederlo: lei accettò in segno d’affetto. Un giorno, riposerà accanto a mio padre. Del resto, Ben Ali rispettò sempre il trattato che escludeva l’estradizione e anzi, per la verità storica, disse letteralmente: se gli italiani mi chiedono Craxi, io gli piscio in testa... La Tunisia però non fu la prima scelta. Venne fuori dopo la Francia. Lui all’inizio voleva lasciare l’Italia per Parigi: era logisticamente più facile. Ma in Francia non c’erano le condizioni per l’esilio, sarebbe stato un casino politico. Andò all’Eliseo e Mitterrand gli disse che aveva il problema dello scandalo Bérégovoy: il governo francese era sotto tiro, non poteva proteggerlo più di tanto. Così mio padre si convinse che non fosse il caso».
Che anni furono, in Tunisia?
«Di riscoperta delle piccole cose. La famiglia, la solidarietà, l’amicizia. Le visite improvvise di chi gli voleva bene. Persone diversissime: Arrigo Sacchi, Renato Pozzetto, Gianfranco Funari, Cavallo Pazzo... Artisti che si fermavano mesi a scolpire, a dipingere. Un Barnum, un demi-monde. Lucio Dalla era molto commovente, mi chiedeva: “Stasera suoniamo per Bettino?...”. C’erano le lunghe telefonate notturne di Edoardo Agnelli, il figlio dell’Avvocato: chiamava per incoraggiare, ma in realtà era mio papà a sostenere lui. Una volta entro in casa, sento dei cori: ma cosa succede? Erano dei pellegrini bresciani col prete, li aveva incontrati alla Medina, ed erano venuti a cantar messa. Lui stava in un cantuccio, non era credente».
Quando capì che non sarebbe mai più tornato da Hammamet?
«Subito. Anche se sperava che la salute l’aiutasse a rientrare da uomo libero. Nel ‘99, la malattia era già più forte della sua volontà e ci fu il tentativo d’ottenere la grazia. Andreotti andò da Ciampi, lo trovò disponibile: mio padre era l’unico leader ancora impigliato nella giustizia. Ma chi s’oppose a farlo morire in Italia, fu Borrelli: lo stesso che qualche anno dopo avrebbe chiesto scusa per il disastro di Mani pulite. Chi non l’aiutò a farsi operare in Italia, fu il governo D’Alema: lo stesso che aveva appena concesso l’asilo al leader curdo del Pkk, Ocalan, mettendolo in fuga su un aereo dei servizi. Per questo dicemmo di no, quando ci offrirono i funerali di Stato. Non è un grande Paese, quello che preferisce la forca. Gli Stati Uniti, con Nixon, si sono comportati in modo meno feroce».
L’Italia ha fatto i conti con la memoria di Hammamet?
«Non li ha mai fatti col fascismo, con la Prima repubblica e, immagino, non li farà nemmeno con la Seconda. La morte violenta di mio padre è un tornante della storia e si preferisce non parlarne, come accadde per Aldo Moro».
Violenta? Moro fu ucciso dalle Br...
«L’uno rapito, l’altro esiliato. Con violenza, noi fummo spazzati via tutti. Non è che ci fu una sconfitta elettorale. Fu un golpe. Poi, come dice il mio amico De Gregori, “la Storia dà torto o dà ragione” e i socialisti hanno avuto tante ragioni. Non posso non ricordare i magistrati aguzzini che pressavano i capi d’accusa per prolungare le detenzioni. Io la considero una vera guerra civile, in cui siamo morti tutti. E’ stata un po’ la nostra guerra d’Algeria. Non scomparve solo mio papà: crollò una Repubblica, le vite di milioni di persone furono squassate. Un dramma collettivo. Per noi, poi, il Psi era tutto. Era la casa, s’occupava di noi dalla culla alla tomba. Io non avrei mai conosciuto Scilla, se non ci fosse stato il partito. Quando scomparve una collaboratrice di mio padre, e il Psi non c’era più, qualcuno mi s’avvicinò e mi chiese: dei funerali si può occupare il partito?».
C’è una verità giudiziaria...
«Io non sono negazionista. Se mi vuol dire dell’assessore “che ‘ndentro ‘a roulotte ci alleva i visoni”, per citare De André, questo va da sé. Dico solo che per ripulire un appartamento, hanno buttato giù il palazzo. Era un’onda dovuta al crollo della logica di Yalta. I vincitori della seconda metà del ‘900 finirono nella polvere uno dopo l’altro: Kohl in Germania, Mitterrand che scampò solo perché morì... La politica non ha trovato più pace, dopo la fine dei partiti. E alla fine abbiamo accettato il fatto come una vittoria».
A gennaio, saranno 20 anni dalla morte. I fratelli Craxi celebreranno insieme?
«Non so se sia prevista una reunion. Sono sempre contento di vedere Stefania. Semplicemente, i figli non sono la cassazione storica del pensiero paterno ed è noto che non condivida certe scelte politiche di mia sorella: se pensa di trasferire nostro padre nella destra, commette un falso storico. Lui era eurocritico, non antieuropeo. Tutelava gli interessi nazionali, non era sovranista. Sapeva che le frontiere sono le ferite cucite sulla pelle della Terra. E quando Maria Giovanna Maglie dice che oggi si difendono i confini come Craxi a Sigonella, confondendo i marines della Delta Force con gli africani in mutande, il paragone è sballatissimo. Apprezzo che Giorgetti riscopra Craxi, che Giuseppe Conte vi si paragoni. Berlusconi, da premier, andò sulla sua tomba di notte. Ma quando sento che Salvini forse sarà ad Hammamet, mi sembra inopportuno: questi sovranisti di oggi, sono gli stessi che ieri esibivano il cappio in Parlamento. Quanto alla sinistra ex comunista, non vuole proprio fare i conti con lui».
Dieci anni fa, si discuteva d’una via Craxi a Milano...
«Non amo la toponomastica politica. Milano faccia un gesto, non se ne pentirà. Ricordo Renzi, sindaco di Firenze, che disse no. Ma era molto giovane, aveva il babbo demitiano... Poi da premier scoprì la statura internazionale di mio padre e ne riparlammo».
Sono rientrate le salme dei Savoia: quella di Bettino?
«Ho visto la traslazione di Franco: per quanto doverosi, sono gesti macabri che non m’appassionano. Io amerei tantissimo fare il funeralone che mio padre non ebbe. Abbiamo venti volumi di firme e dediche lasciate al cimitero, da Totti a italiani sconosciuti. A gennaio, spero ci siano i nostri Mille. D’altra parte, lui era Garibaldi: i suoi compagni prendano un barcone al contrario e vengano a trovarlo. Hammamet è la nostra Caprera».
Tommaso Labate per corriere.it/sette/politica il 18 novembre 2019. Nel libro dei visitatori della tomba di Bettino Craxi ad Hammamet, dieci anni fa, è spuntata la firma di Francesco Totti. Il custode aveva intravisto la sagoma dell’allora capitano della Roma mentre usciva dal cimitero; e aveva avvertito telefonicamente Bobo, il figlio dell’ex leader socialista morto diciannove giorni dopo l’avvento del nuovo millennio. Qualche tempo dopo Bobo, incontrando per caso il calciatore a un concerto, si era avvicinato un po’ per ringraziarlo e un po’ per verificare che fosse davvero lui, il visitatore della tomba di Craxi che somigliava a Totti e che aveva firmato il registro come «Francesco Totti». Quasi non credesse che Totti — che viene da una famiglia di sinistra e che si è sempre detto di sinistra, certo, ma che non era mai stato censito tra i socialisti tout court — si fosse recato a visitare la tomba del padre. Il numero dieci della Roma e della nazionale aveva confermato che sì, era lui (...)
Craxi racconta Craxi. Visite ad Hammamet, pubblicazioni, film. L'attualità del leader socialista 20 anni dopo Parla la figlia Stefania: «La storia lavora, ma solo la destra ha fatto i conti con lui». Alberto Giannoni, Martedì 15/10/2019, su Il Giornale. Hammamet - Nel piccolo cimitero cristiano, un vento fresco sfoglia il quaderno degli ospiti su un leggio. Soffia dal Mediterraneo, dall'Italia. Chi non ha mai visitato la kasbah di Hammamet non immaginerebbe mai un luogo così semplice, così raccolto, così aperto, così vicino al mare. Qui riposa Bettino Craxi. Un tricolore, una bandiera tunisina, un fazzoletto del Partito socialista. E il libro in cui si legge l'ormai famoso epitaffio: «La mia libertà equivale alla mia vita». E garofani. E rose. «Hai pagato per tutti» si legge in uno dei mille messaggi. «Viva la libertà» ha scritto un altro militante. Non sono solo «nostalgici». A due decenni dalla sua morte, tanti italiani continuano a parlare a Craxi. E il primo premier socialista continua a parlare al suo Paese. Di economia e riforme, di Europa e sovranità, di giustizia e politica. Il caso Craxi equivale al caso Italia. A pochi metri dal cimitero cristiano, quello ben più grande dei musulmani. Fra i due, lo striscione di una mostra: «Garibaldi a Tunisi». L'eroe dei due mondi per poco visse esule in Tunisia. Il leader socialista era un cultore di Garibaldi e collezionava i suoi cimeli. C'è qualcosa di struggente e di romantico in questo esilio, cui Craxi volle dare carattere perpetuo: «In Italia non tornerò né da vivo né da morto, ma solo da uomo libero». Erano gli anni di una drammatica caccia mediatica a politica, cui fece seguito la malattia. Il 19 gennaio 2000 Craxi è morto ad Hammamet, e il ventennale si annuncia come un evento. La Fondazione Craxi presieduta dalla figlia Stefania custodisce questa memoria. «Ogni anno organizziamo questo ricordo - dice - e quest'anno sarà particolare. Partirà con la tre giorni tunisina, un viaggio alla volta di Hammamet, e proseguirà con un calendario ricco di iniziative. Sarà un anno craxiano». La politica italiana fa finta di niente. «Del riformismo di cui è stato l'ultimo leader in Italia si fa un gran parlare ma io non ne vedo tracce» riflette Stefania, oggi senatrice di Forza Italia. L'opinione pubblica però è un altro discorso. Anche l'ostilità più accesa ha lasciato il posto a un giudizio più equanime. «Il tempo è trascorso e la storia comincia a fare il suo lavoro, mettendo in luce menzogne e verità» riflette la senatrice Craxi. «Ma alcune contraddizioni e molte ipocrisie restano, come certi nodi insoluti. Penso ad esempio a un Pd che continua a votare contro l'intitolazione a Craxi di strade e vie. D'altra parte cosa aspettarsi? Questa sinistra ha avuto come atto costitutivo il moralismo e il giustizialismo militante». Intanto a destra si moltiplicano le citazioni craxiane sull'Europa: «La destra i conti con Craxi prova a farli - osserva Stefania - non è un tabù, anzi. Anche se il sovranismo di Craxi era di tutt'altra cifra. Immaginava una nazione orgogliosa, un Paese rispettato anche dal suo alleato migliore, non un piccolo paese spaventato e ripiegato su se stesso, o subalterno, senza agenda politica e senza alleanze strategiche». Si definì un euro-pessimista, Craxi. «Dette vita all'atto unico europeo e quindi all'Ue - ricorda Stefania, già sottosegretario agli Esteri - ma vide con largo anticipo come l'Europa di Maastricht non si attagliasse a una realtà complessa. Denunciò la deriva burocratica del progetto europeo, le sue storture, e la mano di certi poteri, consapevole che l'Ue aveva bisogno di un grande Paese come il nostro e noi di lei». Era soprattutto, Craxi, un politico mediterraneo: «Pensava che l'Italia dovesse avere un ruolo di leadership dell'area e colse le sfide - dalla radicalizzazione all'immigrazione - e le opportunità di una regione in cui siamo immersi fino al collo». Anche da qui il legame col mondo arabo e la Tunisia, lui che aveva origini siciliane: «In Tunisia c'è un villaggio, oggi in rovina, dove mio padre si recava spesso. Le case hanno anche le tegole, era un centro di pescatori siciliani, quando i migranti eravamo noi. È un legame antico, quello fra Tunisia e Italia. «Basti pensare che tutti gli anni al porto della Goulette, Tunisi, si celebra una processione della madonna di Trapani, partecipata da cristiani e non». Pochi giorni fa, in una clinica dell'Arabia Saudita è morto Ben Alì, per 23 anni presidente tunisino. E l'attuale governo si è subito reso disponibile ad accogliere le sue spoglie. «La Tunisia è un Paese civile» commenta Stefania. «Craxi - racconta - non aveva un rapporto speciale con Ben Alì, lo aveva col popolo tunisino, che l'ha amato, difeso e rispettato. Ben Alì con mio padre non ha fatto altro che rispettare le convenzioni internazionali - quelle che venivano violate in Italia - riconoscendo la natura politica dei reati che gli erano ascritti e modalità persecutorie nei suoi confronti». Ora l'accostamento col destino del presidente tunisino è inevitabile: «Craxi - ricorda Stefania - disse in modo definitivo che sarebbe tornato da uomo libero o non sarebbe più tornato. Riposa, per sua scelta, in una tomba che guarda all'Italia in una terra che, come ebbe a dire, era straniera ma non estranea». «Io sono - aggiunge - testimone del fatto che la presidenza del Consiglio, con D'Alema presidente, offrì poche ore dopo la sua morte i funerali di Stato. Se aveva diritto a funerali di Stato, perché non aveva diritto a essere curato nel suo Paese?». Le cure. «I tunisini hanno fatto tutto quanto era nelle loro possibilità, ma certo le strutture mediche non erano paragonabili a quelle italiane ed europee». Nella sua tomba, anche una croce: «Non era un credente - racconta la figlia - ma aveva un senso religioso della vita e profondo rispetto della cultura cristiana. Da ragazzo doveva fare il prete, poi trovò un'altra strada per stare vicino ai deboli». Il socialismo, democratico. E oggi anche l'Europa attesta che il Comunismo era altra cosa: «La storia ha decretato vinti e vincitori, attestando che il comunismo era un'ideologia fallimentare e antitetica alla libertà. La cosa paradossale è che in Italia le sue macerie siano crollate in testa a chi stava dalla parte della ragione».
E’ ora di riscoprire la cultura politica di Craxi. Fabrizio Fratus il 12/08/2019 su Il Giornale Off. Dall’intervento dello Stato nell’economia all’Unione Europea, dal ruolo dell’informazione alla gestione delle finanze pubbliche, fino ad arrivare alla politica estera e all’idea di Socialismo Mediterraneo. Ricominciando da Enrico Mattei e Aldo Moro (con riferimento alla storia repubblicana ma già dalla tradizione dell’impero romano se si tiene conto della millenaria storia del nostro paese), Craxi ha ripreso a tracciare un solco profondo: un solco entro il quale l’Italia deve muoversi per liberare le sue potenzialità, per essere un punto di riferimento globale nelle relazioni internazionali e nell’economia. Secondo la tesi dell’economista Luca Pinasco, autore di “Bentornato Craxi” (Avanti Edizioni, 2019, 14,90€ ) le soluzioni a gran parte dei problemi che piegano il nostro paese oggi non vanno inventate ex novo, ma vanno recuperate nell’azione politica di chi, come Craxi, mise a punto delle soluzioni efficaci, capaci di portare il nostro paese ai vertici mondiali dal punto di vista economico, così come trasformarlo in un pesante attore internazionale dal punto di vista geopolitico. Sul versante economico, nel testo arricchito dalla prefazione di Giulio Sapelli e dalla postfazione di Rino Formica, il lettore può apprendere, con dovizia di dettagli, numeri e grafici, come Craxi intuì le drastiche conseguenze derivanti dalla rimozione dello Stato dall’economia con le politiche di privatizzazione, liberalizzazione, flessibilizzazione del mercato del lavoro e le soluzioni che lo statista mise in atto per evitarle. Così come intuì che aderire a Maastricht e al sistema monetario europeo avrebbe imbrigliato le leve di politica economica e monetaria condannando il nostro paese alla riduzione continua dei salari e alla recessione permanente. Proprio da tali argomentazioni parte la critica di Craxi ai parametri europei e alla moneta unica, riportati nel testo con gli originali dei ragionamenti di Craxi, commentati dall’autore. Sempre nella parte economica il testo smonta la tesi sostenuta per anni dai nostri pseudo intellettuali manettari, ovvero che Craxi fu la causa del debito pubblico. Pinasco dimostra con grande profondità di analisi che in realtà la causa del debito pubblico è rintracciabile nel divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, divorzio al quale il Partito Socialista di Craxi, nella persona di Rino Formica, si oppose con estrema durezza. L’ex Ministro delle Finanze si scontrò duramente con il Ministro del Tesoro Andreatta provocando la caduta del governo Spadolini con l’episodio che passò alla storia come “Lite delle Comari”. Craxi piuttosto mise in campo delle soluzioni precise per evitare che il debito pubblico del nostro paese si trasformasse in un problema, ovvero evitò in ogni modo di internazionalizzarlo, seguendo quello che oggi definiremmo “modello giapponese”, ma che in realtà, secondo Pinasco, lo abbiamo inventato noi. Nella seconda parte di “Bentornato Craxi” invece si parla di politica estera, non limitandosi però al solito episodio della crisi di Sigonella, pur raccontato nei suoi intricati dettagli da spy story, ma si parla di tutti quegli episodi di affari internazionali, meno conosciuti ma altrettanto importanti, nei quali Craxi ha difeso in modo eccellente gli interessi nazionali italiani. Tutti questi episodi hanno in comune l’idea di Socialismo Mediterraneo, stella polare della politica estera craxiana. Si parla dell’operazione “El Dorado Canyon” nella quale Craxi salvò la vita a Gheddafi dal bombardamento americano, del “Golpe Medico” in Tunisia, della questione isrealo-palestinese, della soluzione di Craxi al problema dell’immigrazione di massa, strettamente connessa a suo avviso al debito dei paesi dell’Africa sub-sahariana. Insomma un testo che recupera in modo innovativo ed attuale l’azione politica dell’ultimo grande statista italiano, mostrando come essa sia oggi soluzione a molti, apparentemente irrisolvibili, problemi.
Quando Craxi disse: «Non tornerò in Italia neanche da morto…». Il 19 gennaio del 2000 moriva in esilio il primo presidente del consiglio socialista, scrive Paola Sacchi il 20 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Come rimetto piede per l’ennesima volta all’aeroporto di Tunisi- Cartagine, insieme con la Fondazione Craxi, per le iniziative organizzate ogni anno ad Hammamet da Stefania Craxi per l’anniversario il 19 gennaio della scomparsa del padre, il primo ricordo stavolta che si riaffaccia alla mente, ancora con doloroso sentimento di imbarazzo come italiana, sono le due più lunghe ore di Craxi in sala operatoria. Pioveva quella mattina di martedì 30 novembre 1999 su Tunisi. Uscì un timido e breve sole verso le 11 quando “Bettino” fu portato in sala operatoria, dove gli fu asportato il rene destro (colpito da un vasto tumore maligno), dopo una lunga e complicata preparazione all’anestesia per via del cuore mal messo. Che neppure nella Francia dell’allora primo ministro socialista Lionel Jospin vollero operare. E questo dopo un secco rifiuto opposto dal nostro e suo Paese al “paziente italiano”, chambre numero 1 dell’Hopital Militare, il meglio che la Tunisia potesse mettere a disposizione di Craxi. In Italia la magistratura gli aveva fatto sapere: torna, ma con due carabinieri dietro la porta d’ospedale. Lui: «Io in Italia non tornerò né da vivo né da morto, ma solo da uomo libero». Prima di entrare in sala operatoria lo statista socialista, ospite come rifugiato politico dello Stato tunisino, aveva probabilmente già ordinato alla famiglia la scritta da apporre sulla sua tomba nel piccolo cimitero cristiano di Hammamet: «La mia libertà equivale alla mia vita». Furono toccanti e angoscianti quelle due ore anche per noi inviati speciali sul caso Craxi, anche per quelli irruviditi da guerre e missioni internazionali, anche per quelli che filo- craxiani non erano. Anzi, l’opposto. Ci scambiavamo sguardi apprensivi in particolare con Gianni Pennacchi, Gigi Fenderico, Marco Sassano, il “maestro” che teneva a bada le nostre ansie di giornalisti ma anche di amici di Craxi. Aspettavamo, essendoci impedito l’accesso anche di fronte all’Hopital Militaire, nella hall dell’albergo, tra telefonate un po’ nervose dei rispettivi direttori dall’Italia, mentre la radio diffondeva musica italiana degli anni ’ 60, con la carinissima Anna Identici di «Quando mi innamoro». Craxi fu operato su un lettino arrugginito e con un infermiere che teneva ferma la lampada penzolante (come scrisse Fabio Cavaliera per Il Corriere della sera) da un équipe, coadiuvata dagli ufficiali sanitari tunisini, del S. Raffaele di Milano, coordinata dal professor Patrizio Rigatti, atterrata a Tunisi il giorno prima su un aereo privato messo a disposizione da Silvio Berlusconi. Craxi, come scrissi nel mio reportage per L’Unità, si comportò da Craxi anche poco prima di andare sotto i ferri: «Tanto non gliela do vinta», furono le ultime parole. «Forse – raccontò poi a operazione riuscita Stefania – è stata la prima volta in vita sua che ha avuto un po’ di paura». In quelle due interminabili ore, che tennero anche l’Italia politica con il fiato sospeso, è racchiusa tutta la tragedia di “Bettino”, della sua famiglia, del suo partito sfaldatosi sotto il maglio di “Mani pulite”. Dall’Hopital Militaire uscirono per primi i figli Bobo e Stefania, più tardi la signora Anna, moglie dell’ex premier socialista. Una famiglia di colpo trovatasi sola. Confortata e aiutata da uno Stato amico, ma straniero. Quando “Bettino” si risvegliò dopo ore dall’operazione, ancora tutto intubato, al di là del vetro fece alla moglie un gesto sbrigativo, girò il dito indice della mano per dirle: appena posso parliamo. Più tardi, le prime parole furono: «De l’eau, s’il vous plait». La notte seguente noi inviati ci svegliammo di soprassalto perché qualcuno ci disse che Bobo era stato visto in lacrime tornare all’Hopital Militaire. E pensare che Craxi all’inizio della sua crisi, quando ebbe un malore verso la fine di ottobre del 1999, dopo la prima assoluzione per Giulio Andreotti ( che commentò con grande soddisfazione per “Giulio” ma anche con parole amare per la sua sorte: «Qui alla fine resto solo io il malfattore…» ) non voleva proprio ricoverarsi. A me nell’ultima telefonata in cui sentendo la sua voce molto rauca gli chiesi se si sentisse bene rispose: «No, no una bronchitella. Mi ci metto giù vedrai, con la biro come Pietro Nenni, l’intervista la facciamo». A sua figlia Stefania, che raggiunta all’aeroporto di Nizza dalla notizia del malore del padre organizzò il primo ricovero nella piccola clinica più vicina a casa Craxi, sentendosi dire che doveva trasferirsi a Tunisi all’Hopital Militaire, Craxi rispose secco: «Vacci tu…». Il cuore mal messo non resse, come purtroppo i medici avevano temuto. Craxi ha resistito fino al pomeriggio del 19 gennaio 2000. L’unico che sfidò tutti andandolo a trovare su un aereo di linea e senza scorta pochi giorni prima dell’ultimo Natale di Craxi fu il presidente emerito Francesco Cossiga. Ero al seguito con altri colleghi quando alla dogana disse con aria un po’ spavalda: «Vado a trovare un caro amico…». La Fondazione Craxi giunta in Tunisia con “Gli amici del Garofano”, dell’ex sindacalista socialista Roberto Giuliano, con la presenza immancabile dell’ex parlamentare del Psi Saverio Zavettieri, lo ricorda quest’anno con la mostra “Garibaldi a Tunisi”, alla presenza delle autorità tunisine. Spiega Stefania Craxi: «Ricordiamo mio padre anche con i suoi scritti sull’esilio tunisino di Giuseppe Garibaldi. Un personaggio della nostra storia, cui dobbiamo l’esistenza del nostro stesso Stato nazionale, ma sempre più spesso dimenticato e bistrattato». Stefania, senatrice di Forza Italia, vicepresidente della Commissione Esteri di Palazzo Madama, sottolinea: «Vogliamo rinnovare come di consueto, il nostro messaggio di vicinanza ed incoraggiamento al popolo e alla democrazia tunisina». Qui Bettino Craxi era e resterà sempre “Monsieur le President”. E in Italia a quasi vent’anni dalla morte?
Così nacquero Tangentopoli e poi il giustizialismo, scrive Fabrizio Cicchitto il 27 Dicembre 2016 su Il Dubbio. L’intervento del ministro Orlando alla direzione del Pd e la lunga intervista al Dubbio del filosofo Biagio De Giovanni hanno costituito la prima radicale rimessa in questione di quel giustizialismo che nel Pds– Ds e poi nel Pd ha costituito una fondamentale scelta ideologica di larga parte dei post– comunisti (con l’eccezione dei miglioristi come Chiaromonte, Napolitano, Umberto Ranieri) e una altrettanto marcata scelta politica determinata da un misto di strategia e di tattica di cui poi vedremo le ragioni di fondo. Orlando ha denunciato il fatto che per anni il giustizialismo esercitato contro Berlusconi ha sostituito le scelte culturali e politiche di stampo realmente riformista che invece non sono state fatte. Biagio De Giovanni ha denunciato il fatto che sul giustizialismo della sinistra si sono innestati due fenomeni devastanti: “la politica distrutta dall’invadenza della magistratura” e un’antipolitica che si innesta su questo ruolo prevaricante di un potere dello stato e che attraverso di esso sta distruggendo il confronto politico e culturale. De Giovanni ha anche rilevato, a proposito dell’attività più propriamente politica del ministro Orlando, che egli ha realizzato positivi interventi sulle carceri ma non è riuscito neanche a sfiorare i due temi centrali della riforma della giustizia, la separazione delle carriere e il superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale. Per completare questa rassegna preliminare citiamo anche l’intervista di Giorgio Napolitano sul Messaggero a proposito del confronto sul referendum: Napolitano ha rilevato che la forza dell’antipolitica è diventata tale che nell’ultima fase della campagna referendaria il Presidente Renzi ha pensato bene di riuscire a smontare il vantaggio del No dando al Sì il valore della lotta alla casta: fatto dal presidente del Consiglio in carica questo appello è risultato controproducente e anche un po’ grottesco. Ciò detto, però, dobbiamo per forza fare un passo indietro. Il finanziamento organicamente irregolare dei partiti parte dagli anni 40 e ha per nome e cognome una serie di padri della patria ( da Alcide de Gasperi, a Palmiro Togliatti a Pietro Nenni). Negli anni ’ 40–’ 50 la Dc era finanziata dalla Confindustria, dalla Cia, da una rete di imprenditori privati. Poi, con l’avvento di Fanfani, il finanziamento della Dc fu sostenuto anche dalle aziende a partecipazione statale. A sua volta il Pci era finanziato dal Pcus, dalle cooperative rosse, da una rete di imprenditori amici, specie nelle regioni rosse. Prima di Craxi, il Psi dipendeva per il suo finanziamento dal principale alleato: nella fase frontista esso si basò sul finanziamento sovietico e sulle cooperative rosse, nella fase del centro– sinistra sulle partecipazioni statali. Tutto ciò si aggregò in un sistema organico, quello di Tangentopoli. A fondare quel sistema dal lato imprenditoriale furono altri due padri della patria, cioè Vittorio Valletta ed Enrico Mattei. Mattei considerava i partiti e le loro correnti dei “taxi” ( tant’è che finanziava abbondantemente anche l’Msi, un partito che poi anch’esso, come del resto il Pci– Pds, si è rifatto la verginità), e poi fondò in modo esplicito con Albertino Marcora quella sinistra di base ( corrente democristiana) che ha esercitato una grande influenza nella Dc e nell’intero sistema politico. Che il Pci affondasse le sue risorse in un finanziamento irregolare dalle molteplici fonti ( altro che feste dell’Unità) è messo in evidenza dal verbale di alcune riunioni svoltesi in Via delle Botteghe Oscure citato a pagina 495– 498 nel libro di Guido Crainz “Il paese mancato”. Giorgio Amendola nella direzione del 1 febbraio 1973 disse: “quando me ne sono occupato io “le entrate straordinarie” ( eufemismo ndr)erano del 30% ora siamo al 60%”. A sua volta Elio Quercioli disse: “molte entrate straordinarie derivano da attività malsane. Nelle amministrazioni pubbliche prendiamo soldi per far passare certe cose. In questi passaggi qualcuno resta con le mani sporche e qualche elemento di degenerazione finisce per toccare anche il nostro partito”. E nella riunione dell’ 1 e del 2 marzo 1974 il Pci diede il sostegno alla legge sul finanziamento pubblico con l’esplicita motivazione di ridurre il finanziamento sovietico e le “entrate straordinarie derivanti da attività malsane”. Armando Cossutta disse: “negli ultimi anni si è creato in molte federazioni un sistema per introitare fondi che ci deve preoccupare. C’è un inquinamento nel rapporto con le nostre amministrazioni pubbliche nel quale c’è di mezzo l’organizzazione del partito e poi ci stanno dei singoli che fanno anche il loro interesse personale”. Quando, poi, decollò la politica di unità nazionale, il Pci entrò anche nel “sistema degli appalti pubblici” che aveva come sede di compensazione l’Italstat: in quella sede c’era un meccanismo che assicurava la rotazione nell’assegnazione degli appalti che riguardava tutte le grandi imprese di costruzione pubbliche e private: alle cooperative rosse era garantita una quota che oscillava dal 20 al 30%. A sua volta Bettino Craxi per rendere reale fino in fondo l’autonomia del Psi dalla Dc e dal Pci, prese direttamente e tramite Vincenzo Balzamo rapporti con il mondo imprenditoriale: una mossa i cui rischi furono evidenti poi. Avendo però alle spalle quella realtà del suo partito, Berlinguer fece la famosa intervista sulla questione morale nella quale presentava il Pci come il partito delle “Mani Pulite”: la mistificazione è evidente. In sostanza Tangentopoli era un sistema che si fondava su un organico rapporto collusivo fra tutte le grandi imprese pubbliche e private senza eccezione alcuna ( quindi compresa la Cir di De Benedetti, come risultava dalle sue stesse ammissioni processuali) e da tutti i partiti dell’arco costituzionale senza eccezione alcuna ( quindi compreso il Pci; l’Msi, a sua volta, o aveva diretti rapporti con le imprese, vedi l’Eni, o, a livello locale era “tacitato” dagli altri partiti). Questo sistema era fondato sulle grandi imprese, sui partiti, sulle correnti dei partiti. In esso, dalla seconda metà degli anni ’ 80 in poi, emersero degenerazioni personali. Comunque, con l’adesione dell’Italia al trattato di Maastricht che costrinse “a calci” il capitalismo italiano a fare i conti con il mercato e la libera concorrenza ( cosa che fino ad allora non aveva fatto) il sistema di Tangentopoli diventò chiaramente antieconomico ( lo era anche prima ma esistevano meccanismi di compensazione quali il debito pubblico e specialmente le svalutazioni competitive, in genere decise di comune intesa fra la Fiat e Banca d’Italia) e doveva essere superato. Ora la via maestra di quel superamento– eliminazione avrebbe dovuto essere un’operazione consociativa, con un’intesa generale fra le forze politiche, quelle imprenditoriali, quelle giudiziarie, e magari concluso con un’amnistia. Le cose non andarono affatto così. L’ultima amnistia fu quella del 1989 che servì a salvare il Pci dalle conseguenze penali del finanziamento irregolare di derivazione sovietica. Negli anni ’ 90 i partiti, specie la Dc, il Psi, i partiti laici, ma per altro verso anche il Pci ( che con il cambio del nome in Pds e il “superamento” del comunismo perse circa metà del suo elettorato) avevano perso vivacità culturale e consenso. A quel punto, invece, si affermò nella magistratura la corrente più aggressiva e più ideologica, cioè Md, che teorizzava il ruolo sostanzialmente rivoluzionario del magistrato che, superando un’asettica e burocratica terzietà, avrebbe dovuto rimettere in questione gli equilibri economici e quelli politici. Questa teorizzazione trovò nel pool di Milano di Mani Pulite chi la cavalcò sul piano dell’esercizio della giurisdizione mettendo in essere un’operazione del tutto unilaterale, fondata su due pesi e due misure: nel caso della Dc, Mani Pulite arrivò addirittura a distinguere fra le correnti di centro– destra di quel partito che furono sostanzialmente distrutte ( chi non ricorda Forlani al processo Enimont, e poi, fuori da Milano, Andreotti alla sbarra per l’assassinio di Pecorelli e per il concorso con la mafia e Antonio Gava e Paolo Cirino Pomicino in carcere?) e invece la sinistra Dc, e sull’altro versante, il Pci– Pds, furono interamente salvati. A loro volta il Psi, il Psdi, il Pli, il Pri furono rasi al suolo. Quando l’unilateralità dell’operazione non era ancora chiara e sembrava che avrebbe colpito tutto e tutti, Achille Occhetto si precipitò alla Bolognina a “chiedere scusa agli italiani” perché conosceva bene il retroterra finanziario del Pci– Pds. Quella di Mani Pulite fu comunque un’operazione rivoluzionario– eversiva unica in Europa: fu l’unico caso nel quale ben 5 partiti di governo furono distrutti prima dai magistrati che dagli elettori. Lo strumento principale di questa operazione era la cosiddetta “sentenza anticipata”: se un dirigente politico viene raggiunto da un avviso di garanzia, enfatizzato da giornali e da televisioni, a quel punto egli perde totalmente il suo consenso elettorale. Se la stessa sentenza colpisce altri mille dirigenti di quel partito, è il partito nel suo complesso ad essere azzerato. Se poi, magari dopo cinque o sette anni, interviene la vera sentenza processuale ed è di assoluzione, i suoi effetti politici sono nulli. In seguito a Mani Pulite, dal ’ 92–’ 94 in poi, i rapporti fra politica e magistratura sono stati totalmente rovesciati. A “comandare” è chiaramente la seconda. A sancire quel cambio di equilibrio fu anche nel 1993 l’eliminazione di quell’immunità parlamentare che fu ideata dai costituenti proprio per bilanciare la totale autonomia di cui gode la magistratura italiana diversamente da altri ordinamenti. In un primo tempo il Pds fu l’utilizzatore passivo di quella unilateralità dell’azione della magistratura. Poi ne diventò il fruitore attivo. La storia, però, è paradossale. Il Pds di Occhetto, D’Alema, Veltroni credeva che grazie a Mani Pulite sarebbe arrivato sicuramente al potere. Di conseguenza la discesa in campo di Berlusconi fu un’amara sorpresa per il gruppo dirigente del Pds. Berlusconi da parte sua fece leva anche sul “nuovismo”, sul populismo e sull’antipolitica che Mani Pulite aveva suscitato. A quel punto, però, il giustizialismo fu esercitato dal Pds ( e da tutto il circolo mediatico costituito da Repubblica, il Tg3, Samarcanda, poi Travaglio e Il Fatto)contro Berlusconi provocando una “guerra civile fredda” durata 20 anni. Anche in questo secondo caso, però, c’è stata un’altra amara sorpresa: quando Berlusconi è stato messo fuori gioco attraverso un’interpretazione retroattiva di una legge già di per sé assolutamente iniqua, qual è la Severino, il Pd di Bersani si è trovato di fronte ad un altro scherzo della storia: Forza Italia era stata messa fuori gioco, il centro– destra era in crisi ma a quel punto, a cavalcare fino in fondo la tigre e l’onda del giustizialismo e dell’antipolitica, è nata una forza integralmente protestataria, ultra– giustizialista e gestita con meccanismi di stampo autoritario da un comico– demagogo e dalla società di comunicazione della Casaleggio associati. Bisogna guardare anche all’altra faccia della medaglia: mentre a suo tempo Tangentopoli era un sistema fondato su grandi imprese e sui partiti in quanto tali, da dopo il ’ 92–’ 94 è avvenuta la parcellizzazione della corruzione, che si è fondata su una miriade di mini– catene o reti composte da singoli imprenditori, singoli alti burocrati, singoli politici, in qualche caso anche con singoli magistrati. Questa corruzione capillare è ciò che è avvenuto dopo il ’ 92–‘ 94 enfatizzando a dismisura il ruolo della magistratura con effetti sconvolgenti. Oggi anche gli apprendisti stregoni sono vittime di sé stessi e cioè anche i grillini sono ormai dominati dall’incubo dell’avviso di garanzia che per loro, è ancor più distruttivo perché finora, quando esso riguardava gli “altri” equivaleva ad una sentenza di terzo grado. Per concludere: le riflessioni del ministro Orlando e di Biagio De Giovanni costituiscono certamente un fatto positivo: non vorrei, però, che essi arrivino troppo tardi, quando già Davigo, non a caso eletto “a furor di popolo” presidente dell’Anm, si comporta come una sorta di super– commissario ad acta nei confronti del fallimento delle istituzioni della Repubblica, del Parlamento e dei parlamentari in primis, soggetti, questi ultimi, considerati dei delinquenti potenziali, da trattare nei dovuti modi.
M.A. per “il Messaggero” il 28 marzo 2019. Silvio uber alles. Ora avrà anche i suoi problemi Berlusconi. Però ascoltare anche i suoi avversari di sinistra, che egli sbaragliò il 25 marzo del 94, farne l' elogio sperticato - lui aveva capito tutto e noi niente - fa impressione. Specie se si pensa che allora - e di questo s' è parlato nel convegno della Fondazione De Gasperi, voluto da Angelino Alfano, e intitolato Una Seconda Repubblica? A 25 anni dalle elezioni del 1994 - il tycoon che entrò in politica era il Cavaliere Nero, il nuovo fascista in doppiopetto, il dittatore telecratico piovuto dalle sue aziende per distruggere la democrazia italiana e piegarla ai suoi oscuri interessi. Ebbene? Massimo D' Alema, in questo convegno cui partecipano oltre ad Alfano, Gentiloni, Cicchitto, Maroni, La Russa, Castagnetti, D' Alia e vari storici alla Lumsa - esalta e non da solo l' intelligenza politica di Berlusconi, che è anche un modo per infierire ancora una volta sulla «gioiosa macchina da guerra» occhettiana. «Nel 94 Berlusconi vinse - spiega D' Alema - perché mentre noi inseguivamo il nuovismo, e leggevamo i giornali di sinistra, lui fece emergere tutta quella Italia tradizionale di tipo moderato e anti-comunista, che era maggioritaria. Le diede rappresentanza politica e così ci sconfisse». Analisi impietoso e veritiera. «Dovevamo - prosegue Max - allearci con il centro, nel 94, per fermare Berlusconi». Con il centro la sinistra - che D' Alema non smette di considerare minoritaria nella storia italiana - si sarebbe alleata più tardi, sulle ceneri del sogno ulivista della risicata vittoria del 96, e D' Alema andrà al governo nell' operazione mastellata con Dini e Cossiga. Ma stiamo parlando del passato? Mica tanto. Come aveva capito tutto Berlusconi, oggi sembra aver capito tutto Salvini, e non capisce niente il Pd, nella lettura dalemiana. «Sbaglia chi crede che Salvini durerà poco», attacca Max sulla scia di Bobo Maroni che ha illustrato la strategia egemonica del Capitano dopo le Europee. «Il consenso a Salvini - incalza D' Alema - non è affatto effimero. Perché lui ha capito che, per effetto della crisi economica, dei flussi migratori, della globalizzazione non governata e del bisogno d' identità, la società s' è radicalizzata». E dunque - per la prima volta D' Alema non è dalemista - «oggi non funziona più l' idea che si vince più al centro. La società si radicalizzava e, mentre il Pd si spostava verso il centro, il centro non c' era più. Il Pd andava verso il nulla e nel nulla è precipitato». Gentiloni, neo-presidente dem, non condivide e dice che il suo partito deve fare alleanze con tutti, sia a sinistra sia al centro. Il Cavaliere e il Capitano al convegno non ci sono, ma le star del convegno sono loro due.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Berlusconi e le donne.
Nadia Toffa, spunta Silvio Berlusconi: cosa ha fatto per lei quando stava male. Libero Quotidiano il 4 Ottobre 2019. Tra le persone che hanno aiutato Nadia Toffa, e che dunque appariranno nel video che le Iene manderanno in onda a Natale, c'è anche Silvio Berlusconi. È stata la stessa Nadia a rivelare i dettagli del loro rapporto, lo ha fatto nel video che le Iene hanno trasmesso nei giorni scorsi. "Berlusconi io non l'ho mai conosciuto. Dici che mi riceve?", ha detto l'inviata, scomparsa lo scorso agosto, "io avrei delle curiosità da chiedergli. Non è mio amico però diciamo che provo molta gratitudine per lui, perché lui è la persona che ha fatto partire l'elicottero da Trieste quando sono stata male il 2 dicembre e mi ha fatto arrivare al San Raffaele. In azienda, tutti continuano a riportarmi che lui chiede di me, vuole sapere come sto, è sinceramente preoccupato per me, umanamente preoccupato. Mi piacerebbe ringraziarlo, innanzitutto, e poi conoscerlo. Avrei delle curiosità da chiedergli. Cosa gli chiederei? Gli direi così: Io non l'ho mai votata, non l'ho mai incontrata, non sono la miglior conduttrice di Mediaset, perché ci tiene così tanto a me? Perché mi ha voluto bene tanto da mandarmi l'elicottero da Trieste al San Raffaele? Mi aveva anche telefonato, mi sembrava il suo imitatore". Il Cavaliere ha una stanza personale all'ospedale San Raffaele e non ha esitato a metterla a disposizione della Toffa. Dichiara Davide Parenti, storico autore delle Iene: "Siamo profondamente grati al nostro editore. La sua stanza fissa, riservata al San Raffaele, l’ha messa a disposizione di Nadia, ha sempre chiesto sue notizie, ha fatto il possibile per lei. Le telefonava e commentava le puntate. Le diceva: Quando non ci sei tu, quelle tre cornacchie…".
Da ilfattoquotidiano.it il 9 novembre 2019. Mentirono quando negarono di essersi prostituite con Silvio Berlusconi. Con quest’accusa la Procura di Bari ha chiesto il rinvio a giudizio per falsa testimonianza di quattro donne, durante il processo sulle escort portate fra il 2008 e il 2009 dall’imprenditore barese nelle residenze dell’allora presidente del Consiglio. Il pm Marco D’Agostino ipotizza il reato di falsa testimonianza nei confronti di Vanessa Di Meglio, Sonia Carpentone, Roberta Nigro, Barbara Montereale. E anche per Dino Mastromarco, ex autista di Gianpaolo Tarantini. L’udienza preliminare sarà fissata nei prossimi mesi, mentre proprio oggi si è tenuta un’altra udienza del processo nel quale Berlusconi è imputato per aver pagato Tarantini affinché mentisse ai pm che indagano sulle escort. Il procedimento per falsa testimonianza ha origine con la sentenza escort del 13 novembre 2015 (attualmente pendente in appello) che portò alla condanna di quattro imputati per reclutamento di prostitute, tra i quali Tarantini (condannato a 7 anni e 10 mesi di reclusione). Nella sentenza i giudici avevano disposto la trasmissione degli atti alla Procura per procedere nei confronti delle ragazze, per falsa testimonianza. I successivi accertamenti della magistratura barese – svolti incrociando le dichiarazioni al processo tra ottobre 2014 e maggio 2015 con quelle rese agli inquirenti dalle stesse donne nella fase delle indagini, e con il contenuto delle intercettazioni telefoniche, in particolare le conversazioni con Gianpaolo Tarantini – avrebbero confermato le presunte menzogne per le quali ora i cinque indagati rischiano un processo.
Da BlitzQuotidiano. il 22 maggio 2019. Fuorionda piccante di Silvio Berlusconi a Quarta Repubblica, il programma di approfondimento della prima serata di lunedì di Rete Quattro. “Me ne facevo sei per notte. Adesso non ci crederete… Dopo la terza mi addormento”, ha detto Silvio Berlusconi al pubblico femminile presente in studio. Nel corso del programma l’ex presidente del Consiglio ha poi criticato l’attuale premier, Giuseppe Conte: “E’ un buon comunicatore, prova a comportarsi come un vero presidente del Consiglio, ma mi sembra più un burattino di Di Maio e Salvini”. Quindi l’attacco a M5s: “I 5 Stelle sono assolutamente di sinistra, condividono l’ideologia comunista, non vogliono lo sviluppo ma la decrescita. Il reddito di cittadinanza è un disastro nella sua applicazione. Per i poveri serve soprattutto creare buoni posti di lavoro”. Il presidente di Forza Italia è stato ospite del programma condotto da Nicola Porro insieme al leader della Lega e vicepremier Matteo Salvini nell’ambito della campagna elettorale per il voto europeo del 26 maggio. La settimana scorsa Porro aveva avuto come ospiti il leader M5s e vicepremier Luigi Di Maio, la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, e l’ex ministro del Pd Carlo Calenda, mentre la settimana precedente era intervenuto il segretario del Pd, Nicola Zingaretti.
Massimo Falcioni per Tvblog il 22 maggio 2019. A Quarta Repubblica Silvio Berlusconi torna a otto anni fa e rispolvera la barzelletta del bunga bunga, coinvolgendo Cicchitto e Bondi. Poi si lancia in battute hot: "Cosa faccio all'una e mezzo di notte? La prima delle 3". Tutto come il 2011, almeno per qualche minuto. Silvio Berlusconi dimentica per un attimo le elezioni europee e gli attacchi al governo gialloverde per tornare alle barzellette, alle battute e all’ormai storico tormentone del bunga bunga che segnò la sua ultima esperienza a Palazzo Chigi. A Quarta Repubblica l’ex premier è senza freni, offrendo al pubblico a casa un salto a otto anni fa, quando il caso delle "olgettine" apriva occupava quotidianamente le scalette dei programmi televisivi. Berlusconi ribadisce che il bunga bunga non era altro che una barzelletta che, tra l’altro, all’epoca dei fatti Antonio Catania e Claudio Bisio raccontarono ad Antonello Piroso, nel corso di una puntata di Niente di personale. Il leader di Forza Italia la riprende, modificando però qualche particolare, inserendo all’interno della storiella “gli amici” Fabrizio Cicchitto e Sandro Bondi: “Prendo i due sfigati e li mando in Libia. Questi arrivano all’aeroporto di Tripoli, prendono l’auto per andare da Gheddafi, ma essendo sfigati vengono bloccati e catturati dall’unica tribù rivoluzionaria. Si trovano legati ad un palo in mezzo alla tribù che comincia a fare una danza con parole incomprensibili; si capiva solo bunga bunga. Lo stregone si rivolge a Cicchitto: ‘Tu morire o bunga bunga?’ Tra morire e bunga bunga Cicchitto dice bunga bunga e se lo fanno tutti. Allora lo stregone si rivolge a Bondi: ‘Tu scegliere, morire o bunga bunga’. Vedendo la sorte di Cicchitto, sceglie morire. Lo stregone gli dice: ‘Va bene, tu morire, ma prima un po’ di bunga bunga”. Pochi minuti e Berlusconi concede il bis, approfittando di una domanda di Nicola Porro: “Presidente, lei all’una e mezza di notte cosa fa?”. Silvio non se lo lascia ripetere due volte: “La prima delle 3”. Terminati gli applausi, arriva la versione ufficiale: “La sera, quando sono stanco di vedere sempre le facce di Salvini e di Di Maio , guardo le aste di quadri. E quando vedo uno che può entrare nella mia collezione chiamo e lo compro. L'arte è fondamentale, ristora lo spirito ed è bello guardare cose belle”.
Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 22 maggio 2019. L'altra sera, facendo zapping, ci siamo imbattuti in uno di quei revival di archeologia televisiva, tipo Techetè, con vecchi guitti in bianco e nero di tanti anni fa. Così almeno abbiamo pensato, quando abbiamo visto la buonanima di Silvio B. in gran forma, tutto pittato, laccato, moquettato e levigato come un set di sanitari Ideal Standard, con un suo impiegato che lo "intervistava" (si fa per dire) sulle tante, infami "calunnie" che ha subìto in vita sua. Attendevamo che, da un momento all' altro, entrassero le ragazze del Drive In o di Colpo Grosso, accompagnate da Greggio e D'Angelo o da Smaila. Poi abbiamo scoperto che era tutto in diretta: la buonanima era viva. E parlava. Strascicando alla Crozza, ma parlava. Come se, a cinque anni dalla dipartita dal Senato palla volta di Cesano Boscone, l'avessero scongelato dal freezer e liberato dalla funzione Pause per restituirlo al più consono Play. Il Rieccolo riprendeva il discorso da dove l'aveva interrotto nel 2013, come se intanto non fosse successo nulla, risultando lievemente sfasato rispetto al momento attuale. Anzi, al secolo attuale, visto che usava arcaismi come "gabina elettorale" che non si sentivano dai tempi di Costantino Nigra, prima di annunciare che a Bruxelles lui ci andrà davvero. Anzi, a minacciarlo. Il Cavalier Findus intratteneva il folto pubblico, accuratamente selezionato nella casa di riposo di Cesano Boscone per attenuare l' asincronia della scena e lo straniamento della testata Quarta Repubblica, su temi di interesse non proprio bruciante come i suoi "ben 88 processi con ben 105 fra avvocati e consulenti". O come i suoi soldi all' estero, ormai cristallizzati da anni di sentenze definitive sulle sue 64 società nei paradisi fiscali e le sue evasioni da 360 milioni di dollari, ormai digerite anche dai suoi fan più accaniti. "Neanche un euro!", trillava giulivo il conduttore. E B.: "Se mi trovate dei soldi all' estero, sono vostri!". Risate in sala, anzi in bara. Altra "calunnia": la condanna per frode fiscale, emessa da un fantomatico "collegio di deputati" (i cinque giudici di Cassazione, che firmarono tutti la sentenza, anche se a lui risulta che uno "non voleva firmarla, ma fu costretto da qualcuno in alto, forse un alpinista"), per "eliminare un avversario politico". Fu così che lui presentò "un appello in 18 punti alla Corte di Strasburgo che in cinque anni non ha mai aperto neanche un foglio". In realtà la Corte ha archiviato il caso il 27 novembre senza pronunciarsi, perché i suoi legali, probabilmente senza dirglielo, hanno ritirato il ricorso con una lettera del 27 luglio. Lì non le eurotoghe rosse, ma Ghedini&C., spiegavano alla Corte che un verdetto "non avrebbe prodotto alcun effetto positivo" per lui, cioè sarebbe stato respinto con perdite) Uno si sarebbe atteso una replica del conduttore informato dei fatti, ma trattandosi di un giornalista di Mediaset e del Giornale era troppo sperare. Altra "calunnia": "Una frase irriferibile e volgarissima che non ho mai pronunciato sulla signora Merkel". Che, essendo irriferibile, nessuno in studio e a casa conosceva. Peccato, perché era carina: "Culona inchiavabile". Noi, che a suo tempo la riportammo perché i suoi la riferivano, terrorizzati che uscisse da qualche intercettazione, sappiamo bene di non aver inventato nulla. E lo sapevano persino il Giornale e Libero, che per due anni chiamarono la Merkel "culona" sapendo di far cosa gradita al padrone, che le attribuiva il famoso "complotto dello spread" per rovesciare il suo terzo governo. Poi, come spesso accade a quell' età, batté la testa, si scordò tutto e si risvegliò da antieuropeista sfegatato a filoeuropeista arrapato, da nemico ad ammiratore dell'"amica Angela". L' altra sera, per dire, s' è inventato di averla convinta a fargli "eleggere Draghi" affinché "la Bce stampasse moneta" (tutti eventi mai accaduti nella realtà, ma nessuno ha ancora avuto il coraggio di comunicarglielo). Ma ecco l' ultima "calunnia": il bunga bunga. Migliaia di pagine di sentenze hanno accertato il "sistema prostitutivo" orchestrato per lui, nella villa di Arcore, a Palazzo Grazioli, a villa Certosa e non solo, dai vari Tarantini, Mora, Fede, Minetti. E lui che fa? Come se fosse ancora il 25 aprile 2009 sul palco di Onna, travestito da partigiano col fazzoletto rosso al collo, osannato da tutti ignari di tutto, racconta che "il bunga bunga è una barzelletta che ho inventato io sui due più sfigati che avevo: Bondi e Cicchitto" (la gratitudine è sempre stata il suo forte), simpaticamente sodomizzati "da una tribù libica rivoluzionaria". Quanto ai festini nelle ville, "Emilio Fede scoprì che lavoravo pure il sabato notte e allora mi portò due delle sue meteorine, che la volta dopo portarono quattro amiche, che ne portarono altre, finché mi ritrovai con 32 ragazze". E non ebbe cuore di lasciarle fuori all' addiaccio. Ma erano frugali "cene eleganti, i miei figli passavano a salutare prima di andare a letto, io raccontavo storielle e cantavo", del resto era o non era già "a vent'anni il miglior cantante di Parigi", quando anche Aznavour gli faceva una pippa? Subito dopo, in un fuorionda, dice al pubblico che "qualche anno fa me ne facevo sei per notte, ora invece mi addormento dopo la terza", però ciò che conta è quel che va in onda, no? Dunque tutti a votare per lui che, appena seduto a Bruxelles, fermerà con le nude mani "il progetto egemone del comunismo cinese". Non solo, ma - con grave sprezzo del pericolo - "aumenterò le pene contro l' evasione e l' elusione fiscale", avendo appena scoperto con raccapriccio che "in Italia c' è un nero enorme". E non è Balotelli, no! Sono le "centinaia di miliardi di evasione". Senza contare, modestamente, i suoi.
CHI POTEVA COMPRARE LA VILLA DI ''PLAYMEN'' E ''LE ORE'' SE NON SILVIO? Mario Gerevini per ''L'Economia - Corriere della Sera'' il 18 maggio 2019. Silvio Berlusconi ha acquistato due nuove ville, per nulla anonime. Una è la splendida villa «La Lampara» di Cannes, in Costa Azzurra, che era della seconda ex moglie di Paolo Berlusconi, indebitata con Banca Mps. L’altra, in Sardegna, confinante con Villa Certosa, era degli eredi (figli e nipoti) di Adelina Tattilo, editrice di Playmen, e di Saro Balsamo, il re delle riviste porno anni ’70 (lanciò «Le Ore»). Le due operazioni immobiliari sono state chiuse già da diversi mesi ma non se ne era mai saputo nulla. A gestirle è stato il team «operazioni riservate» dell’ex premier. Ovvero i fidatissimi professionisti con base a Segrate che si occupano degli affari personali del Cavaliere: Giuseppe Spinelli, Marco Sirtori, Salvatore Sciascia e Giuseppino Scabini. Villa «La Lampara» è un gioiello da 500 metri quadrati più 2mila di giardino con piscina e vista mare. Fu costruita dal marchese George De Cueves, marito di Margaret Rockefeller e poi è passata di mano più volte. Era finita sulle pagine dei giornali tre anni fa per lo sfogo di Antonia Costanzo, l’ex moglie di Paolo Berlusconi che acquistò la villa nel 2007 con un prestito milionario di Mps e l’incoraggiamento – lei disse - di Silvio Berlusconi che gli mandò anche i suoi giardinieri a sistemare il parco. Lui, secondo quanto fu scritto, fece da garante fino a oltre 8 milioni. Poi le rate e il debito furono «dimenticate» per anni. Una «distrazione» che costrinse la banca nel 2015 a chiedere (e ottenere) dal Tribunale un decreto ingiuntivo contro i beni della signora Costanzo. Alla fine Berlusconi subentrò nel debito e rimborsò Mps diventando egli stesso creditore dell’ex cognata con annessi pignoramenti e connesse ipoteche. Da lì lo sfogo della Costanzo per essere «liberata»: «Sono pronta a dargli la villa di Cannes …». Ora il cerchio si è chiuso: una delle società immobiliari del leader di Forza Italia ha acquistato «La Lampara» per 3,55 milioni. Prezzo presumibilmente al lordo dei debiti e anche degli oneri di ristrutturazione che dovrebbero essere piuttosto consistenti. La proprietà nell’entroterra di Porto Rotondo, a Punta Lada, a poche decine di metri dall’immenso parco (oltre 100 ettari) di Villa Certosa, è stata per anni il buen retiro di Adelina Tattilo, fondatrice dell’omonima casa editrice e pioniera dell’eros con le sue riviste erotiche a partire dall’esordio di Playmen nel 1967. L’immobile sardo era intestato, prima della cessione a Berlusconi, a Federico (24 anni) e Orsetta Balsamo (39) che a loro volta l’avevano ricevuto per donazione dal padre. I nonni sono morti da tempo: Adelina, appunto, e l’ex marito Saro Balsamo, ricchissimo e spregiudicato imprenditore a luci rosse che per primo portò la pornografia in edicola con «Le Ore». Gli eredi hanno venduto l’immobile, che era intestato a una società, alla Immobiliare Idra di Berlusconi per 2,4 milioni, liquidati con quattro assegni provenienti dai conti del patron di Fininvest al Montepaschi: 1.188.000 euro a Orsetta Balsamo e 1.212.000 a Federico Balsamo. È una cifra apparentemente bassa ma non si sa se l’ex premier si sia accollato anche eventuali debiti. Si sa però che la superficie è di 436 metri quadrati e la rendita di 3.876 euro. La categoria catastale, nonostante la posizione esclusiva, è A7 cioè quella dei villini più economici. L’operazione rientra probabilmente nel piano di Berlusconi di allargare progressivamente i confini (e la sicurezza) della Certosa comprando le proprietà adiacenti.
Peppe Aquaro per il ''Corriere della Sera'' del 31 marzo 2017. «Raffaella Carrà. Nuda e privata». Perché poteva capitare di imbattersi anche in questo, in una sorta di «Carrambata», sfogliando Playmen, la rivista per soli uomini pubblicata per diversi anni da una sola donna: Adelina Tattilo, pugliese di Manfredonia, fondatrice dell’omonima casa editrice. Ed appena pochi mesi prima dell’avventura in solitaria di Playmen, moglie di Salvo Balsamo, siciliano di Catania, l’inventore in Italia del Porno di carta. Che è poi il titolo di un libro pubblicato in questi mesi da Iacobelli editore. Erano gli anni Sessanta del secolo scorso: quando il comune senso del pudore faceva nascondere con una pecetta seni nudi e parti più intime di donne bellissime e sensuali.
Dieci anni con il re del porno. Il libro è stato scritto da Gianni Passavini, il giornalista che all’International Press di Milano (era il nome della casa editrice di Balsamo, in vita, come il suo fondatore, fino all’inizio del Terzo Millennio, e che ha pubblicato, tra gli altri, Le Ore, Cronaca italiana e Supersex con i suoi «Foto film fanta-erotici») ha trascorso dieci anni della sua primissima vita professionale. «Sono entrato al numero 15 di via Fatebenefratelli, a due passi dalla Questura, nel 1982, quando Balsamo era ormai un miliardario, elegantissimo e con orologi preziosi al polso: uno di quelli che si spostavano ogni giorno in Lamborghini o con l’aereo privato», ricorda l’autore di Porno di carta (da poco presentato al Book Pride di Milano), il cui sottotitolo è proprio «Vita, morte miracoli di Saro Balsamo: l’uomo che diede l’hard-core all’Italia». E anche più di uno scappellotto a sua moglie Adelina.
Il marito fedifrago e il blitz di Adelina. Proprio la Tattilo, divenuta editore nel 1967 — dopo aver cacciato dal tetto coniugale e dagli uffici della casa editrice romana l’impenitente marito fedifrago, costretto a fare armi e bagagli in direzione Milano, per reinventarsi editore — fece decollare Playmen che nel giugno di quell’anno aveva preso il posto di Men. «Balsamo, in seguito ad uno dei suoi numerosi guai giudiziari, appena uscito di galera, dovette rientrarvi immediatamente a seguito delle percosse inferte alla moglie», dice Passavini, il quale dipinge benissimo un’epoca (mezzo secolo fa) in cui non esistevano ancora dvd, videocassette, né cinema porno. Soltanto carta. Tonnellate di carta. Sistematicamente sequestrata dalla magistratura.
Il sotterraneo del sesso vietato. Nell’aprile del 1969, nei sotterranei del palazzo di Giustizia di Milano erano stipate 500 tonnellate di riviste requisite nel giro di due anni: da Playmen a Caballero, da Kent a Strip, da Belfagor a Supersex, Due Amiche e il mitico King. Mitico per due motivi. Neanche il tempo di fare capolino dall’edicolante, e il primo numero — febbraio del ’67 — viene subito sequestrato. Una cosa da nulla rispetto al sequestro degli otto primi numeri di Men, altra geniale invenzione del ‘66 di mister Balsamo, «scippatagli», tre anni più tardi, dalla moglie Adelina, donna «Bella, bionda e piacente, dalla voce roca resa baritonale per le tante sigarette fumate, gli occhi miopi e gli occhiali enormi, che arriva spesso in ufficio in blazer, pantaloni, camicia e cravatta». La descrive così Passavini, ricordando come il look manageriale di Adelina abbia ispirato il personaggio della direttrice senza scrupoli, interpretata da Florinda Bolkan, nel film «Il comune senso del pudore» (1976, nella foto sotto, la Bolkan in una scena del film). Tornando a King, e al secondo mitico motivo, galeotta fu la foto in copertina dall’evidente sapore «lascivo»: un grande letto, una coppia intravista sotto le lenzuola, e gli indumenti lasciati a casaccio nella stanza. I due sotto le lenzuola sono Paul Newman e Julie Andrews. Sì, perché l’immagine è tratta dal film, «Il sipario strappato» di Alfred Hitchcock. Ma si sa, la magistratura non ama il brivido, soprattutto quando è troppo caldo. Ancora numeri. Passavini: «Nel 1968, saranno sequestrate 377 riviste e denunciate 1.800 persone». E tra queste, diverse figure di intellettuali, collaboratori fedeli di riviste come Kent, sul quale scrivevano nomi del calibro di Mario Soldati, Gianni Brera, Gian Carlo Fusco e Luciano Bianciardi.
I Settanta, la pornografia sdoganata e Cicciolina. Qualche anno dopo, negli anni Settanta, quelli della pornografia ormai sdoganata, seni, pubi e fondoschiena di attrici e modelle non intervalleranno più i romanzi a puntate degli scrittori. Al posto delle «Ragazze del venerdì», che potremmo definire fin troppo caste e rassicuranti, irromperà su Le Ore, pensato e realizzato da Balsamo all’inizio del 1970, una giovanissima ragazza svedese, Ilona Staller, più conosciuta col nome d’arte di Cicciolina. Un’altra trovata, indovinata, su suggerimento di Riccardo Schicchi, dell’editore che inventò il porno. Insieme alla sua ex-moglie Adelina. Due vite parallele — e neanche più di tanto — perché destinate a incontrarsi comunque, tra Milano e Roma, sul numero delle copie vendute. Quello delle vendite era un punto sul quale la Tattilo sembrava imbattibile: sono suoi, rispettivamente con Men e con Playmen, gli scoop realizzati nelle estati del ’70 e del ’71, con le foto dei marchesi Casati-Stampa, ripresi sull’isola di Zannone come mamma li ha fatti (soprattutto la moglie Anna Maria Fallarino, nella foto sotto, che poi venne da lui uccisa insieme all’amante); e quello su Jacqueline Onassis (ex signora Kennedy) immortalata tutta nuda sull’isola greca di Skorpios. Quando il porno stava ormai seppellendo il piacere della scoperta. Paradossi della pornografia classica, che come ha scritto Andrea Di Consoli sulla pagina Opinioni del Corriere (leggi sfiorando l’icona blu), «è sempre più vintage» rispetto al mondo dei video online.
· Berlusconi e gli animali.
Berlusconi e le lodi al cane Dudù: «Capisce più di certi politici. A lui devo molta mia felicità». Pubblicato venerdì, 18 ottobre 2019 da Corriere.it. «Dudù è vivo e imperante, è un gentiluomo cane. È da lui che deriva molta mia felicità quando riesco ad averlo vicino con suo figlio Peter. Mi seguono ovunque: sono intelligenti e capiscono molto di più di certi politici...». Così ha detto ieri Silvio Berlusconi a Perugia. Dudù — che un pesce d’aprile di pessimo gusto fece credere morto nel 2014, schiacciato da un’auto blu — è il cane preferito da Berlusconi. Di lui (e suo figlio Peter, che ebbe da Dudina, la barboncina di Francesca Pascale, insieme con altri due cuccioli) il Cavaliere parla spesso e volentieri. E così tutto, da sempre, si sa degli amati cagnolini di Villa San Martino, l’elegante residenza di Arcore, di cui Dudù per esempio rosicchia spesso i preziosi tappeti, come raccontano i pochi testimoni diretti. Dudù che dorme nel letto con Berlusconi, si sveglia e fa colazione con lui e abbaia, pare, solo all’ex deputato di Forza Italia, Daniele Capezzone, quando gli capita di vederlo (ormai di rado). Dudù senza età, apparso agli albori perfino a Milanello quando Berlusconi — era il dicembre 2013 — era il presidente del Milan. Ad accoglierli entrambi, quella volta, all’atterraggio dell’elicottero, c’era l’allora amministratore delegato rossonero, Adriano Galliani. Il trio, affiatatissimo, ora è passato al Monza. Il patriarca dei barboncini, però, è molto geloso: pretende che non entrino suoi simili quando c’è lui in stanza. Un problema in più, per il leader azzurro, che pure i cani li ama e ne è arrivato ad avere ben 11 (una squadra di calcio). E Dudù-star è finito di recente anche nel mirino di Maurizio Crozza, che sul canale Nove quando imita il Cavaliere, lo fa nutrendo sempre sul divano un barboncino di peluche con croccantini finti. Ora, però, non s’è compreso bene a chi si riferisse ieri Berlusconi quando ha detto che i suoi cani «capiscono più di certi politici». Di sicuro, chi s’è sentito chiamato in causa, non l’ammetterà mai.
· Silvio Berlusconi: “Io, un padre orgoglioso”.
Ugo Magri per “la Stampa” l'1 novembre 2019. Nemmeno il tempo di salutare Mara Carfagna, che dal mondo berlusconiano sta già per venire espulsa un' altra donna simbolo. Si tratta di Francesca Pascale, l'eterna fidanzata del Cav. Nei suoi confronti è scattato l' ostracismo totale dei figli di lui (Marina, Piersilvio, Barbara, Eleonora e Luigi). Tutti e cinque stanno premendo perché l' anziano babbo metta fine a questa relazione giudicata ingombrante. In questo caso, però, la politica non conta (sebbene nelle ultime settimane Francesca si sia parecchio esposta su Instagram a difesa di lesbiche e gay). Nemmeno c' entrano le indigestioni di dolciumi e bollicine che l' ex premier troppo spesso si concede quando cena a Villa Maria (la dimora della Pascale). Ciò che viene rimproverato a Francesca è lo stress cui sottopone Silvio con le scenate di gelosia, unite a un eccesso di presenzialismo sui social. E Berlusconi? Per ora non cede, ma la resistenza pare sempre più fiacca. Ha accettato di partecipare senza Francesca alle nozze della nipote Lucrezia, e addirittura ha lasciato che venisse esclusa dalla sua festa di compleanno. Siamo quasi ai titoli di coda.
Silvio Berlusconi l'1 novembre 2019 su Facebook. Ancora una volta leggo con stupore sul quotidiano “La Stampa” di quest’oggi notizie del tutto inventate e del tutto infondate a firma del signor Ugo Magri, che già in altre occasioni ha avuto modo di riportare asserite informazioni destituite di ogni fondamento per quanto mi concerne. Ogni singola parola di questo ultimo articolo deve essere recisamente smentita. Come è naturale e come è ovvio, i miei figli non si sono mai permessi e mai si permetterebbero alcuna intromissione nella mia vita privata. Ogni ipotesi in tal senso è palesemente risibile. Il mio rapporto con Francesca Pascale continua da molti anni con immutato, reciproco affetto e senza gelosie.
(ANSA il 6 dicembre 2019) - "Marina e Pier Silvio Berlusconi smentiscono nella maniera più categorica le fantasiose ricostruzioni contenute nell'articolo di Repubblica, ribadendo ancora una volta che il loro impegno è interamente dedicato alla vita delle imprese del Gruppo e certo non a disegnare o tantomeno suggerire strategie politiche". E' quanto dichiara un portavoce Fininvest "in relazione all'articolo che compare stamane su 'Repubblica' dal titolo 'Per il bene di Berlusconi - Così i figli e Mediaset offrono Forza Italia a Salvini' ".
Carmelo Lopapa per “la Repubblica” il 6 dicembre 2019. L'effetto goccia raccontano l'abbia avuto la caduta dell'anziano leader al congresso Ppe di Zagabria, lo scorso 21 novembre. Tanta paura ma nulla di grave per Silvio Berlusconi, per fortuna. Ma i figli Marina e Piersilvio la loro decisione l' avevano presa già da un pezzo. Col conforto dell' ala più giovane e rampante dell' establishment Mediaset, in testa Mauro Crippa, direttore generale dell' informazione dell' azienda di famiglia. Parole d' ordine: «Adesso basta». Evitare a tutti i costi che il crollo politico di Forza Italia si trasformi nella disfatta personale e finale del fondatore. I sondaggi sono ormai impietosi, se di dovesse davvero votare nella prima metà del 2020 - come i più ottimisti sognano a destra - il partito del Cavaliere rischia di inchiodarsi al 5% se non al di sotto, con Giorgia Meloni a doppia cifra e Salvini oltre il 30. Sarebbe il sipario più catastrofico su un quarto di secolo di storia berlusconiana. E allora? Meglio scommettere tutte le residue fiches sul cavallo vincente, Matteo Salvini. Il progetto, maturato in una serie di riunioni molto ristrette e top secret delle ultime settimane in famiglia, è dunque quello di sposare la "Lega Italia" alla quale Matteo Salvini darà vita col congresso milanese del 21 dicembre. A sentire i dirigenti forzisti, il leader del primo partito avrebbe dato il suo via libera per accogliere nelle liste, soprattutto al Sud, un drappello di 20-30 parlamentari di quel che resta di Fi. La squadra dei fedelissimi, vicini all'azienda di famiglia e ai suoi interessi. Voce (e disponibilità), va detto, per nulla confermate dallo stato maggiore leghista. Anche se l' ex ministro dell' Interno al momento ha tutto l' interesse a rafforzarsi, soprattutto nel Mezzogiorno, per frenare l' ascesa sorprendente di Fdi. Tutto poi dipenderà dalla legge elettorale, ovvio, che la maggioranza Pd-M5S vuole proporzionale. I bene informati raccontano che tra i pontieri in azione per facilitare il travaso ci sia Denis Verdini. Ovvero l'ex coordinatore berlusconiano, al momento suocero di Salvini, al fianco del quale Salvini sedeva e parlava fitto l' altro ieri sera al convegno "Il ratto di Europa", organizzato da Il Tempo a Roma. Se andrà in porto, il progetto porterà di fatto allo smantellamento di Forza Italia da qui a qualche mese. Poco male, in Mediaset si sono già allineati. Prova ne sarebbe il rilancio in grande spolvero dei giornalisti ritenuti assai vicini alle posizioni sovraniste e filo salviniane: da Mario Giordano a Paolo Del Debbio a Nicola Porro. Non sarebbero stati rimpiazzati dall'azienda nei talk di punta, fa notare chi frequenta Cologno Monzese, per portare acqua a mulini avversari. Poi invece c' è chi, in ossequio alla lealtà incrollabile al vecchio amico, non si è allineato affatto: è il duo Fedele Confalonieri-Gianni Letta. Consapevoli, entrambi, che il Cavaliere non fa salti di gioia all'idea di farsi da parte per indossare i panni del "padre nobile". «Cos' è che dovrei fare io?», sembra sia stata l'espressione stupita con la quale l'ex premier si è rivolto non più tardi di dieci giorni fa a un senatore dei suoi che lo ha raggiunto ad Arcore per illustrargli la soluzione. Subito accompagnato alla porta di Villa San Martino con un piccato: «Ti ringrazio, terrò conto del tuo consiglio». Il piano ormai è così poco segreto che in Fi è scattato il panico da sopravvivenza. Bisogna guardarli, i volti, nei capannelli in Transatlantico. Le capogruppo Anna Maria Bernini e Mariastella Gelmini non alzano barricate contro il nuovo capo del centrodestra. Qualcuno già esce allo scoperto, vedi il senatore romano Francesco Giro, per dirsi «molto interessato al nuovo progetto della Lega di Salvini, di un movimento nazionale a vocazione maggioritaria». Poi ci sono quelli che non vogliono morire leghisti. Erano meno di trenta ma più di venti i parlamentari vicini a Mara Carfagna che si sono ritrovati mercoledì sera in un ristorante di Piazza di Spagna a Roma, raggiunti a fine cena dalla loro capocorrente. Si sono detti che non finiranno come pesci nella rete leghista, che faranno barricate per la candidatura del loro Mario Occhiuto in Calabria. Ben sapendo che nel vertice previsto a Milano per sciogliere la complicata matassa nella regione in cui si vota il 26 gennaio, Salvini opporrà il suo veto definitivo su quel nome agli alleati Berlusconi e Meloni. Vicenda calabrese a parte, c' è quel pezzo di Fi che piuttosto che confluire nella Lega, accelererà la scissione, saluterà e sbatterà anche la porta.
Alessandro Di Matteo per “la Stampa” il 9 dicembre 2019. I timori sono diventati certezze. I "ribelli" di Forza Italia, quelli che guardano a Mara Carfagna come argine a quella che considerano una resa di Silvio Berlusconi a Matteo Salvini, hanno perso ormai anche le ultime speranze. Mercoledì scorso, convocati da Renata Polverini, oltre venti tra parlamentari e senatori si sono ritrovati a cena da Gina, a piazza di Spagna a Roma, insieme appunto alla Carfagna, per chiedere di passare all' azione e avviare finalmente la costituzione di un soggetto autonomo da una Fi considerata ormai in liquidazione. I partecipanti, stavolta, erano molti meno della sessantina della cena precedente, «ma siamo sempre tanti - assicurano - almeno il doppio di quelli che erano presenti». Tra gli altri, raccontano, c' erano Andrea Cangini, Maurizio Carrara, Luigi Casciello, Franco Dal Mas, Massimo Mallegni, Osvaldo Napoli, Paolo Russo, e persino Paolo Romani, che ha già lasciato Fi per seguire Giovanni Toti. «Qualcosa bisogna fare - dice uno dei partecipanti - la strategia di Fi è fallimentare. Non vogliamo rotture traumatiche, ma è il momento di dire a Berlusconi: a noi galleggiare non basta». Il timore è che il Cavaliere, spinto anche dalla famiglia, scelga di fatto di consegnare lo scalpo Fi a Salvini. Il richiamo di Matteo Renzi sui dissidenti di Fi si è affievolito, per le inchieste su Open e per via dei sondaggi deludenti. La stessa Carfagna avrebbe chiarito di voler restare nel centrodestra e di non avere intenzione di fare la stampella al governo Conte. Su questo, in realtà, le posizioni non collimano. Spiega un parlamentare di Fi: «Se si va a elezioni Salvini candida non più di una trentina di noi». Dunque, «se si aprisse una crisi è certo che parecchi sosterrebbero soluzioni che evitino il voto...». La Carfagna, raccontano, avrebbe chiesto ancora tempo: «Non rinuncio al tentativo di convincere Berlusconi». La vice-presidente della Camera, spiegano, «non vuole apparire come una traditrice». Ma è anche importante capire se si andrà a elezioni in primavera o se davanti c' è un po' di tempo per costruire qualcosa. Spiega uno dei commensali: «Col nuovo anno arriverà il momento di decidere: o Berlusconi accetta di azzerare tutto e rilanciare puntando su nomi nuovi, oppure - sperando che non si voti a marzo - bisognerà dar vita ai gruppi autonomi. Altrimenti anche tanti che guardano alla Carfagna potrebbero prendere altre strade. Perché è chiaro che l' abbraccio con Salvini stritola Fi».
Carmelo Lopapa per “la Repubblica” il 9 dicembre 2019. Silvio Berlusconi non ha atteso le proteste degli alleati Salvini e Meloni - televisive e pubbliche quelle del primo, più discrete e riservate dalla seconda - per investire Francesca Pascale con una nuova sfuriata delle sue. Anche perché l' outing della (ancora ufficialmente) fidanzata del Cavaliere sul colpo di fulmine per le "sardine" si è trasformato nell' ultima, clamorosa picconata per i precari equilibri di quel che resta di Forza Italia. «Sappi che non tollererò mai più un' uscita come questa, adesso basta, mi hai messo in serie difficoltà con gli alleati», raccontano che le abbia urlato, andando a trovarla nella residenza di Villa Maria dove ormai la giovane campana vive da oltre un anno. Lei ha fatto i bagagli ed è scappata per qualche giorno nella sua Napoli. Era stata messa in rete da neanche un' ora l' intervista all'Huffington Post di venerdì: le simpatie per il movimento di popolo più anti salviniano che ci sia, l' annuncio che lei stessa potrebbe manifestare con loro sabato a Roma, il «no al monocolore sovranista» e l' invito al fidanzato a fare altrettanto. Su Forza Italia è calato il gelo. Nemmeno l' ombra di una reazione nelle 48 ore successive - se si fa eccezione per il plauso del corregionale Gianfranco Rotondi anche perché, come spiegano i vertici di Forza Italia, «nessuno di noi sa realmente come vadano davvero le cose tra quei due, se la ragazza sia diventata una scheggia impazzita o se Silvio faccia sparare a lei cose che lui non direbbe mai». Questa volta però sembra che prevalga la prima versione. Inutile nascondere come nel fiume di veleni che può scorrere in una corte medievale in piena decadenza, qual è oggi il mondo berlusconiano, le maldicenze e le cattiverie tra faide contrapposte si sprecano. La più ricorrente è quella che riconduce strumentalmente la militanza anti salviniana di Francesca, non più nelle grazie di Piersilvio e Marina, alla lunga e non risolta trattativa in corso sulla proprietà di Villa Maria, la lussuosa e costosissima residenza fatta costruire per lei dal magnate ma a lui tuttora intestata. Certo è che nella pur ridotta distanza (pochi chilometri in Brianza) tra Villa San Martino ad Arcore e Villa Maria a Casatenovo si misura plasticamente la faglia tra le due "zolle" basculanti di Forza Italia. Partito alla deriva, che alle Politiche 2018 aveva raggiunto il 14 per cento, per scendere all' 8,8 delle Europee del maggio scorso e ritrovarsi infine al 6,5 per cento del sondaggio Demos pubblicato ieri da Repubblica. Pascale si è schierata dalla parte di Mara Carfagna e di quella fetta dei berlusconiani che non si rassegnano a morire salviniani. Che poi sono più o meno i venti deputati e otto senatori che la scorsa settimana si sono ritrovati con la capocorrente in un ristorante di Piazza di Spagna a Roma. La deputata salernitana è stata convinta di recente da Berlusconi a restare in Fi, dietro una promessa di rilancio e l' impegno a un' investitura a coordinatore del partito. Ora tutto vacilla pericolosamente. Carfagna e i suoi si sono schierati contro la candidatura di Stefano Caldoro in Campania e a favore di Mario Occhiuto in Calabria. Solo che il Cavaliere ha confermato la corsa dell' ex governatore a Napoli e si è piegato al veto di Salvini su Occhiuto, puntando su Jole Santelli nella regione in cui si andrà al voto il 26 gennaio. L'unica incognita era legata alla disponibilità personale della deputata cosentina, che ieri però ha sciolto la riserva. Risultato: un post su Facebook di fuoco dell' escluso Occhiuto che accusa la collega di «tradimento» e lascia intendere che correrà comunque, contro «una manovra di palazzo», e poco importa se la conseguenza sarà la sconfitta della destra nella sua regione. Villa Maria ormai è un bunker, chi va lì non mette più piede a Villa San Martino, racconta chi frequenta la seconda. Pascale, oltre al rapporto consolidato con Carfagna, vanta l' amicizia di Mariarosaria Rossi, assidua ospite, ma pochi altri politici. Francesca però scalpita. Ha affidato la sua immagine a una società di comunicazione, dal 19 ottobre posta su Instagram commenti volutamente anti sovranisti. A cominciare dal primo selfie: «Questo è il mese delle famiglie. Di tutte», con inequivocabili hashtag: #gaylib #arcigay #uguaglianza. Fino all' ultimo di due giorni fa con una sardina al posto della testa sotto un cappello e hashtag #primagliultimi. Quanto basta per rompere le uova nel paniere al compagno e ai figli di lui, ormai proiettati (nonostante le smentite ufficiali) a smantellare il giocattolo Fi e consegnare l' eredità politica a "Matteo". «La Pascale, Saviano e Carola in piazza con le sardine. Li vedo bene insieme per il futuro del Paese. In democrazia tutto è possibile», è la sferzata di Salvini in tv da Lucia Annunziata su Raitre. Lei, già virtualmente accolta dalle Sardine, non ha ancora deciso se andare sabato a San Giovanni. Le possibilità che accada, se il leghista continua così, rischiano di lievitare.
Giuliano Urbani affonda Berlusconi: "Capisco chi fugge da Forza Italia. La più brava? Giorgia Meloni". Libero Quotidiano il 13 Dicembre 2019. La nave di Forza Italia sta affondando, tutti scappano. "È naturale, del resto fare il bel gesto di restare sarebbe del tutto inutile". Chi potrà spartirsi le spoglie del partito di Silvio Berlusconi tra Salvini, Meloni e Renzi? "Tutti e tre, anche se in misura diversa". Lo rivela Giuliano Urbani in una intervista a Italia Oggi, in edicola venerdì 13 dicembre. Politologo, tra i fondatori nel 1994 di Forza Italia, di cui elaborò il programma istituzionale, due volte ministro nei governi Berlusconi, Funzione pubblica e Beni culturali, Giuliano Urbani ascolta le voci che giungono dal parlamento di abbandoni imminenti di deputati e senatori azzurri pronti a passare sotto altre bandiere. E dice: "Non capisco lo scandalo, per chi dovrebbero morire?". Tra gli attuali leader di centrodestra, Urbani, crede che avraà più successo Meloni, rispetto a Salvini: "Il leader della Lega finora è stato un leader monodimensionale, riconoscibile solo per le battaglie sull' immigrazione. Nel momento in cui dovesse avere il 33% dei consensi e diventare premier, Matteo Salvini dovrà dimostrare di essere un leader a tutto campo, di poter governare i problemi nazionali, dall'Ilva alla bassa produttività del Paese. Non poco". E Giorgia Meloni di Fratelli d'Italia? "è la più brava. È la leader che meglio incarna lo spirito anticomunista di Forza Italia. È vero che ha un passato che ha poco a che fare con la caratura liberale di Fi, ma è stata brava ad allontanare da se stessa l'immagine della vecchia destra e a costruire e argomentare posizioni politiche limpide, chiare".
Tommaso Ciriaco per “la Repubblica” il 14 dicembre 2019. Eccolo, il partito-ombra di Mara Carfagna. Nascerà già lunedì. Non porterà per adesso a una scissione da Forza Italia, ma prenderà la forma di una associazione. Una maxi corrente ufficiale con 25 parlamentari, una struttura pesante, un nome già pronto: "Voce libera". Di fatto, un gruppo nel gruppo - soprattutto al Senato, dove ogni scranno è fondamentale - una sfida ad Arcore, la piattaforma per lo strappo di domani. Dopo lunga riflessione, la vicepresidente della Camera adesso parte davvero. Non costituendo subito gruppi parlamentari autonomi (quello è il piano di Paolo Romani, che per adesso non raccoglie grande seguito). Piuttosto, con un'associazione che lancia la sfida interna a Forza Italia. «Restiamo nel centrodestra - ha spiegato a tutti Carfagna - ma in una posizione, diciamo, dialettica...». Nell'atto costitutivo ci sarà un richiamo all'affermazione dei «principi e dei valori liberali». La sfida a Matteo Salvini, è chiaro, sarà una delle ragioni sociali del gruppo. Colpisce soprattutto la struttura, in questa nuova creatura che farà infuriare Silvio Berlusconi. Perché si chiama associazione, ma assomiglia davvero a un partito: ci sarà il presidente, Carfagna naturalmente, ma sono previsti anche una serie di ruoli che di solito definiscono una forza politica autonoma: tra gli altri, un responsabile enti locali, uno per la giustizia, uno per l' economia, un tesoriere. Anche i numeri sono da partito, più che da corrente: tra i 20 e i 25 parlamentari, tra loro diversi senatori. Guida il reclutamento a Palazzo Madama Massimo Mallegni, amico anche di Matteo Renzi, senatore toscano che ieri ha incontrato a Montecitorio un' attivissima Renata Polverini e la stessa Carfagna. Mallegni ha già convinto diversi colleghi a seguirlo, ad esempio Andrea Cangini e Andrea Causin. oltre ad altri toscani e campani. Alcuni di loro già lunedì, nel voto di fiducia sulla manovra al Senato, diserteranno l' Aula. Un segnale politico: né con i giallo-rossi, né con Salvini. «Io parto - spiega Mallegni - sarò fuori, lontano...». Ecco il segnale più importante, in questa sfida. Perché l' operazione ha la necessità di tenersi alla larga dall' immagine dei Responsabili di berlusconiana memoria, ma spinge la pattuglia a confrontarsi nei prossimi mesi con il centro del Parlamento: con i renziani, con quel che rimane di moderato in una Forza Italia annichilita dal leader del Papeete, con chiunque garantirà all' associazione il tempo necessario a costruire un' alternativa alla destra salviniana. Dopo il segnale sulla manovra è in cantiere già una nuova sfida: sostenere a gennaio la candidatura di Mario Occhiuto - fratello del vicecapogruppo di FI alla Camera Roberto Occhiuto - alla presidenza della Regione Calabria. In quella partita il centrodestra ha invece scelto di appoggiare Jole Santelli. Osvaldo Napoli, anche lui al fianco di Carfagna e tessitore a Montecitorio, lo dice senza mezze misure: «Salvini ha posto il veto sui fratelli Occhiuto. Che tristezza vedere che nessuna voce si è levata dai dirigenti di Forza Italia per difendere la dignità del partito». Proprio Roberto Occhiuto è il pezzo da novanta reclutato da Carfagna alla Camera. E con lui, tra gli altri, i deputati Daniela Ruffino, Maurizio Carrara e Roberto Novelli, Luigi Casciello e Paolo Russo. Ma conta soprattutto Palazzo Madama, ovviamente. E lì il gruppetto di sette o otto senatori d' area è pronto a muoversi in autonomia, pur restando nel frattempo in Forza Italia. «Dobbiamo giocare la partita con coraggio - consiglia a tutti Polverini - almeno usciamo dal torpore. E proviamo a divertirci...»
Barbara Jerkov per “il Messaggero” il 15 dicembre 2019.
«Sgombriamo subito il campo da possibili equivoci».
Sgombriamo, onorevole Carfagna.
«La nostra associazione, Voce libera, non è né un partito né una corrente di FI. E noi non siamo i nuovi responsabili che sosterranno il Conte bis».
E cosa siete allora?
«Un'associazione che nasce per mettere insieme idee e persone che vanno oltre anche la cerchia dei parlamentari o dei dirigenti di partito. E per mettere anche un po' di benzina nel motore della politica del motore di centrodestra. Perché il centrodestra italiano non può vincere solo di morte all'Europa o di stop ai barconi, ma deve saper offrire soluzioni serie alle sfide globali con cui facciamo i conti».
Mi faccia riassumere: noi siamo altro da Salvini. Giusto?
«Questa sarebbe l'ambizione di un partito e noi, lo ripeto, non siamo un partito. Siamo una sorta di laboratorio per coinvolgere personalità anche sterne al nostro mondo per elaborare proposte su temi concreti».
Non mi ha risposto sul vostro rapporto con Salvini, però.
«Io penso che lui abbia bisogno di un'area moderata, liberale, garantista, europeista di sana e robusta costituzione per essere sicuro di vincere le elezioni e anche per rassicurare l'Europa e i mercati. Però, ripeto, questo è un discorso che riguarda un partito, e Voce libera non nasce come partito ma per andare oltre i recinti dei partiti».
Andare oltre fino a sostenere magari singoli provvedimenti del governo rosso-giallo?
«No, no, no. Questa associazione si propone di dare voce all'Italia moderata, liberale, riformista, europeista e quindi aderirà chiunque ne condivida spirito e obiettivi. Ci saranno anche persone aderenti a partiti diversi, ma sempre appartenenti a questo perimetro ideale, così come personalità che non fanno parte di nessun partito. Perché l'obiettivo è aprire, costruire ponti e dare voce a un'Italia plurale e non confinata dentro determinati steccati».
Lo sa, vero, che dentro FI sono in tanti a guardare a lei come l'anti-Salvini?
«E' chiaro che sto ricevendo attenzione da molti colleghi che vogliono dare una mano, mi preoccuperei se fosse il contrario. Ma a tutti dico: non è una corrente di FI né tantomeno un partito, perché io un partito ce l'ho già ed è FI».
E allora perché questa stessa mission di aprirsi non può essere condotta semplicemente da FI ma serve un nuovo soggetto?
«Perché sicuramente FI attraversa un momento di difficoltà, il mondo di FI è preoccupato da tempo non solo per il declino elettorale ma anche per la sensazione che FI si sia un po' rassegnata ad essere il terzo partito della coalizione. Chi non si rassegna all'attuale 6% prova a lottare, per difendere la voce dei liberali italiani che negli ultimi mesi è diventata troppo flebile e rischia di lasciare spazio a una deriva sovranista ed estremista».
E' vero che avete contatti con Renzi e Calenda?
«Assolutamente no. Stiamo ricevendo già tante adesioni anche oltre FI ma tutto abbiamo in mente fuorché dar vita a un progetto di responsabili per Conte. Non abbiamo nulla a che fare con eventuali operazioni di palazzo, per essere ancora più chiara: io non sosterrò mai questo governo. Penso che sia dannoso per il Paese. Era difficile fare peggio del Conte 1 eppure ci stanno riuscendo».
Sarà una delusione per chi pensava che ci fosse una costola di FI pronta a staccarsi, guidata da lei, per sostenere il governo e la legislatura.
«Voglio stroncare senza se e senza ma questa suggestione».
E quindi qual è la prospettiva?
«L'associazione serve a dare idee nuove che faranno bene al centrodestra e a FI. Ci sono già alcuni progetti pronti. Penso ad alcune campagne sul tema dell'occupazione femminile, sulla giustizia, sul Sud. Ma penso anche a offrire soluzioni concrete per sbloccare la stagnazione economica. Molti italiani non credono più alla politica perché alimenta le paure ma non le affronta».
E Berlusconi in tutto questo?
«Offrire idee, proposte praticabili alle grandi emergenze del Paese, è esattamente quello che voleva fare il presidente con l'Altra Italia. L'Altra Italia è un'idea forte che non ha avuto ancora piena realizzazione. Spero che succeda. In questo momento dobbiamo temere solo l'immobilismo, non certo lo sviluppo di nuove iniziative».
Appunto, c'è anche l'Altra Italia. Perché serviva un ulteriore pensatoio se l'obiettivo non fosse a un certo punto mettervi in proprio?
«Vede, la nostra è una grande scommessa. I partiti nascono da lunghi processi e devono poggiare sul consenso popolare, ma lo spirito con cui affrontiamo questa avventura è l'ottimismo e l'euforia. Poi naturalmente vedremo dove questa scommessa ci porterà».
Quindi, soprattutto se si voterà col proporzionale, Voce libera potrebbe presentarsi?
«Non si sa né quando né con che sistema si voterà. Al momento non è proprio all'ordine del giorno».
Francesca Pascale da un po' di tempo non smette di elogiarla. Sarà anche lei dei vostri?
«Francesca Pascale non va tirata per la giacca, la sua è una posizione delicata. Ha espresso in maniera coraggiosa e libera le sue idee, ha tutto il diritto di farlo, ma non va strumentalizzata».
Francesca Pascale contro Repubblica: "Sardine, la fantasiosa ricostruzione su Silvio Berlusconi". Libero Quotidiano il 10 Dicembre 2019. La vicenda è nota: Francesca Pascale, fidanzata di Silvio Berlusconi, ha parlato con toni positivi delle sardine, le quali da par loro la hanno chiamata nelle loro piazze. Fino a qui, i fatti. Poi scende in campo Repubblica, che in un articolo dà conto di un Cavaliere infuriato per l'endorsement sardinato della Pascale. Un retroscena contro il quale la stessa Pascale si scaglia con veemenza: "Leggo che Berlusconi si sarebbe arrabbiato per le mie dichiarazioni. Sorrido. Chi ha suggerito tali scritti non lo conosce. Mi riferisco, ad esempio, alla ricostruzione molto fantasiosa di Repubblica". E ancora: "Se avessi voluto nascondere la mia visita a Napoli - sottolinea Pascale - non l’avrei pubblicata su Instagram. Lo dico per amore della verità: ero lì nella mia amata Napoli, la città per me più bella del mondo, a festeggiare l’Immacolata con le mie sorelle come da tradizione familiare. Ringrazio invece, il senatore Gasparri per la correttezza nei miei confronti. Pur avendo sensibilità diverse ha dimostrato rispetto per le mie idee", ha concluso Francesca Pascale.
Francesca Pascale con le Sardine? Osho punge Silvio Berlusconi: "Ci manca l'abbonamento all'Inter". Libero Quotidiano l'8 Dicembre 2019. È stato uno dei casi di sabato 7 dicembre, quello di Francesca Pascale che ha ammesso di guardare con interesse alle sardine anti-Salvini e di essere anche pronta a scendere in piazza con loro. Parole che il movimento senza idee se non quella di picchiar duro contro il leghista ha accolto con trasporto, dicendo di aspettare la Pascale in piazza. E chissà cosa ne ha pensato Silvio Berlusconi, di questa adesione della sua fidanzata alle sardine: avrà gradito? Avrà stigmatizzato? Se ne sarà fregato? Ai posteri o ai retroscena l'ardua sentenza. Nel frattempo, però, sulla possibile reazione del Cavaliere arriva l'interpretazione di Osho, che come sempre viaggia sulla prima pagina de Il Tempo, dove viene ripresa la vicenda. Il lavorato di Osho, oggettivamente, strappa una sonora risata. Sopra a una foto che ritrae Berlusconi parlare all'orecchio della Pascale, la scritta: "A sto punto fatte pure l'abbonamento all'Inter, no?".
Francesca Pascale: «Io sto con le Sardine, pronta a scendere in piazza con loro». Pubblicato sabato, 07 dicembre 2019 su Corriere.it da Franco Stefanoni. Come la compagna di Silvio Berlusconi si è smarcata dalla linea più tradizionale del centrodestra, nel nome della «libertà» evocata nel tempo da Forza Italia e contro gli estremismi. Dice: «Mi interessa il sociale, non i partiti». «Guardo con interesse alle sardine, vi ritrovo elementi e quella libertà che furono propri della rivoluzione liberale di Berlusconi». Lo dice Francesca Pascale in una intervista a Huffington post. «Si tratta di un fenomeno spontaneo, dilagante, animato da giovani, quindi va guardato con rispetto, interesse e soprattutto non va sottovalutato. Un errore che a suo tempo è stato commesso con i 5 stelle ed il risultato è quello che è oggi sotto gli occhi di tutti. Perché etichettarlo come un gruppo manovrato da ambienti di sinistra, al fine di sminuirlo?», dice la compagna di Silvio Berlusconi. «Nelle sardine ritrovo alcuni elementi della rivoluzione liberale, naturalmente attualizzati», spiega lady Berlusconi. E poi: «Se le sardine, oltre al moto di ribellione verso l’intolleranza sapranno interpretare lo spirito democratico e liberale di chi oggi non vuol rassegnarsi ad un’Italia che sia un monocolore e sovranista, penso che valuterò il piacere di riscendere in piazza per la libertà di tutti», dice ancora la Pascale a proposito della manifestazione del 14 dicembre a piazza San Giovanni a Roma. E riguardo il suo impegno per i diritti sul fronte Lgbt, ammette senza remore: «Oggi amo Silvio, ma se domani mi innamorassi di una donna, che male ci sarebbe?». Mattia Santori, il giovane leader del movimento spontaneo non si è lasciato sfuggire l’occasione e dà il benvenuto all’illustre simpatizzante: ««Non abbiamo bandiere proprio perché accettiamo chiunque voglia prendere posizione contro la retorica sovranista divisiva professata da una parte della destra. Rimane il fatto che in Emilia Romagna e non solo Forza Italia è alleata proprio con i principali artefici di questa retorica. Ma se viene con una sardina bella colorata, chiuderemo un occhio».
Tommaso Labate per il ''Corriere della Sera'' l'8 dicembre 2019. Dice lei che «guardo con interesse alle Sardine» e aggiunge pure: se le Sardine interpreteranno fino in fondo lo spirito anti-sovranista, allora «valuterò il piacere di scendere in piazza» insieme a loro. Risponde lui, e anche in questo caso è una sorpresa, che lei è la benvenuta. Certo, «rimane il fatto che Forza Italia è alleata proprio con i principali artefici della retorica sovranista». Ma «se viene in piazza con una Sardina bella e colorata, chiuderemo un occhio». Sotto gli auspici di una tranquilla giornata di Sant' Ambrogio, nasce una coppia così politicamente assortita da risultare strana persino in una sceneggiatura di Lina Wertmüller. Perché lei è Francesca Pascale, militante di Forza Italia da quand' era adolescente e soprattutto fidanzata, da quasi dieci anni, di Silvio Berlusconi. Mentre lui è Mattia Santori, frontman del quartetto di giovani che ha lasciato la prima manifestazione delle Sardine e secondo alcuni in predicato di una candidatura come numero uno della lista civica di Bonaccini in Emilia-Romagna. Il collante dell' opposizione al sovranismo, evidentemente, è tutt' altro che debole. Persino all' interno di quella Forza Italia ormai divisa tra un' area platealmente filoleghista e un gruppo che preme per mollare gli ormeggi e scappare il più lontano possibile dall' ex vicepremier. Ma, con l'intervista rilasciata ieri all' Huffington Post , Francesca Pascale diventa il primo caso censito di «sponda» tra il centrodestra e le Sardine. Sponda che rimarrà probabilmente isolata, almeno a prendere per buone le voci secondo cui Berlusconi non avrebbe preso affatto bene l' uscita della sua compagna. Ma sponda significativa, anche per gli annali, soprattutto se si considera che uno degli endorsement eccellenti alle Sardine è arrivato da Romano Prodi, storicamente l' avversario numero uno dei berlusconiani. E così, con buona pace dei mille tentativi fatti negli ultimi anni ad Arcore per tentare disperatamente di riconnettersi con «lo spirito del '94» della prima Forza Italia, a Villa Maria (dove vive la Pascale, dove dorme anche Berlusconi) vengono individuati proprio nelle Sardine «alcuni elementi» di quella stessa «rivoluzione liberale». Per giunta, dice la Pascale, «attualizzati». L'ala anti-salviniana del partito gongola per l' uscita a sorpresa della Pascale, attivista a difesa delle campagne Lgbt, che non esclude dopo Berlusconi di potersi innamorare di una donna. «Una Francesca così brava non l' avremmo immaginata nemmeno noi che l' abbiamo vista crescere», twitta Gianfranco Rotondi. Mentre la maggioranza forzista, a cominciare dal cerchio magico, inizia il pressing nei confronti dell' ex premier perché prenda pubblicamente le distanze dall' intervista bollandola a «uscita personale». Ma è tutto riconducibile a schermaglia, o quasi, se paragonato alla sorpresa per la coppia politica che nessuno poteva prevedere. E che potrebbe vedersi presto dal vivo, forse già a Roma, tra pochi giorni. Al più grande appuntamento della finora breve storia delle Sardine, in piazza San Giovanni.
Luciana Matarese per huffingtonpost.it il 7 dicembre 2019. “Guardo con interesse alle sardine, vi ritrovo elementi e quella libertà che furono propri della rivoluzione liberale di Berlusconi”. E poi: “Mi auguro non facciano come i grillini”. E ancora: “Valuterò il piacere di riscendere in piazza il 14 dicembre”. Eccola qui, la Pascale che non ti aspetti. Si parla di diritti, della necessità di continuare la battaglia per sostenere le istanze del mondo Lgbt+, e Francesca Pascale collega anche questa, che ritiene “esigenza imprescindibile”, alla spinta che sta facendo scendere nelle piazze italiane giovani e adulti, in nome della libertà di pensiero e contro Matteo Salvini. Che il leader della Lega le aggradi poco non l’ha mai nascosto, che la parola “libertà” sia al centro della sua vita pure. L’ha messa anche nel titolo dell’associazione, in difesa dei diritti della collettività arcobaleno e dei bambini e delle donne svantaggiati, che presiede e presenterà agli inizi del nuovo anno: si chiamerà “I colori della libertà”. Quella libertà che, racconta, l’ha portata, quindici anni fa e quarantanove di differenza tra loro, a legare la sua vita a Silvio Berlusconi, già tycoon delle televisioni, ai tempi di nuovo premier. Lei chiama Berlusconi “il mio presidente”, dice che è “un uomo che mi ha fatto crescere e non mi ha mai tradito moralmente, che quando rientra a casa mi porta un raggio di sole”. Ripete di essersene innamorata “per la sua idea di libertà”. Quella libertà per cui ora Pascale intende impegnarsi al servizio della causa Lgbt+ - “questo è il mio futuro”, scandisce - e che le fa dire sorridendo a fior di labbra: “Oggi amo Silvio, ma se domani mi innamorassi di una donna, che male ci sarebbe?”. Quella libertà che le ha fatto scattare, a lei “berlusconiana”, “di fronte ad un periodo oscurantista”, la curiosità per le sardine.
“Guardo con interesse alle sardine”. Cosa intende dire?
«Si tratta di un fenomeno spontaneo, dilagante, animato da giovani, quindi va guardato con rispetto, interesse e soprattutto non va sottovalutato. Un errore che a suo tempo è stato commesso con i 5 stelle ed il risultato è quello che è oggi sotto gli occhi di tutti. Perché etichettarlo come un gruppo manovrato da ambienti di sinistra, al fine di sminuirlo? Prima di chiedersi da chi è costituto bisognerebbe riflettere sul motivo che li ha portati a scendere in piazza. Un fiume di persone che invadono le principali città italiane è sicuramente un sussulto civico contro un linguaggio che è risultato inattuale e pericoloso, illiberale, diseducativo, in grado di innescare odio. E l’estremismo fa emergere sempre movimenti di protesta. Le sardine “pescano”, pertanto, anche tra coloro che non hanno mai votato e che mai voteranno a sinistra, incarnano l’esigenza di un cambiamento. Spero, però, che non accada quanto successo in passato ad altri».
Cioè?
«Mi auguro che le “sardine”, al fine di non perdere la propria indipendenza e per far sì che il messaggio che stanno lanciando non perda la propria autenticità, cambino idea sul diventare movimento strutturato o partito politico. Restando anima critica potranno evitare la sorte che è toccata ai grillini, prima anti-sistema, oggi in giacca e cravatta attaccati alla poltrona. Dico loro: restate indipendenti, restate liberi, siate l’anima rivoluzionaria che alberga in tutti i partiti e che pertanto non ha bisogno di etichette.
Il movimento, per le dichiarazioni di uno dei fondatori e per il passato politico di tanti organizzatori dei flash mob che si stanno tenendo nelle varie città, è considerato di sinistra. Lei è ancora iscritta a Forza Italia o sta tentando la fuga come si dice di altri?
Oggi gli ideali non si limitano ai concetti rigidi di destra e sinistra. Ci sono nuove categorie che si stanno definendo. Per quanto mi riguarda, non sono solo di Forza Italia, sono berlusconiana. Nessuno lo è più di me! Poi, va detto in modo netto che se una cosa è giusta, è giusta e basta, non ha colore politico.Cerchiamo, inoltre, di ricordare bene le premesse, lo spirito che ha animato la discesa in campo di Silvio Berlusconi, la nascita di Forza Italia e di quel centrodestra del 1994 che ha dato un contributo fondamentale alla democrazia compiuta dell’alternanza».
Che c’entra con le sardine?
«Nelle sardine ritrovo alcuni elementi della rivoluzione liberale, naturalmente attualizzati. Il messaggio azzurro infatti è sempre stato incentrato sulla libertà contro il regime, sui diritti di tutti contro i diritti dei pochi, sulla centralità della persona e la sua dignità, contro la violenza, il razzismo, le discriminazioni, attraverso un linguaggio costruttivo e mai distruttivo, che ha dato coraggio e speranza ai cittadini, mai basato sulla paura».
“Odio i sovranismi, non ho particolare simpatia per Salvini”, ha detto in passato. Oltre all’antipatia verso il fronte sovranista e il leader della Lega, cosa la unisce alle sardine?
«Il messaggio forte che queste piazze stanno dando mira a riaffermare la democrazia, il bene comune, la libertà, il dialogo, l’inclusione, la solidarietà. Princìpi che la comunicazione sovranista, con i suoi inevitabili effetti a 360 gradi, sta marginalizzando, creando oggettivamente un clima che porta inevitabilmente all’intolleranza, alla demonizzazione del nemico, alla mancanza di rispetto, all’incitamento e alla continua contrapposizione. Certo, la vera sfida sarà trasformare gli ideali in azioni concrete. Quella che auspico pertanto, per il bene del nostro paese, è una nuova rivoluzione culturale. L’intolleranza non si combatte solo con la politica, anche se questa è uno strumento fondamentale. Ci vuole uno scatto di reni da parte di tutta la società, che parta da ognuno di noi. Dobbiamo mobilitarci e assumerci le nostre responsabilità, ad iniziare dalle scuole, approfondendo la storia, la Costituzione, attualizzandone valori e insegnamenti».
Il 14 dicembre andrà in Piazza San Giovanni a Roma per la prima grande manifestazione nazionale delle sardine?
«Se le sardine, oltre al moto di ribellione verso l’intolleranza sapranno interpretare lo spirito democratico e liberale di chi oggi non vuol rassegnarsi ad un’Italia che sia un monocolore e sovranista, penso che valuterò il piacere di riscendere in piazza per la libertà di tutti.
Scusi, ma il suo compagno, Silvio Berlusconi, alleato di Salvini, è a conoscenza di questo?
«Voglio ribadire che un conto è la rivoluzione liberale di Silvio Berlusconi, un conto l’estremismo sovranista. Ecco perché sento di espormi! Per dire a tutti i liberali, a quel popolo di centrodestra, anche a quello che non ci vota più, che deve risvegliare i propri sentimenti, riaffermare con coraggio i propri valori, anche attraverso l’indignazione. Il presidente è stato il primo vero interprete dei desideri del popolo, sin dalla discesa in campo, ma lui ha saputo trasformare la paura in speranza, in voglia di cambiare, per questo non mi rassegno».
Crede ancora in Forza Italia, insomma.
«Credo ancora in quella Forza Italia che, a parte il mio presidente, ha avuto degli interpreti abbastanza mediocri. Silvio Berlusconi non ha mai utilizzato un linguaggio razzista e, soprattutto non ha mai lasciato le persone in mare; ha davvero contrastato l’immigrazione clandestina, facendo accordi direttamente con l’Africa. Ricordo al Ministero dell’Interno un galantuomo, Roberto Maroni, per dire che non ho nulla contro quella Lega che era parte allora di un centrodestra inclusivo e non esclusivo. Io da cristiana sono cresciuta con valori diversi rispetto a chi si rivolge al prossimo con: zingaro, puttana, sporco negro, terrone, frocio. Queste le sembrano parole cristiane? Il cristianesimo è l’opposto. Gesù era straniero in patria, ebreo, perdonava, accoglieva, moltiplicava la ricchezza per distribuirla senza chiedere nulla in cambio. Come è scaduta la politica oggi: da un lato Salvini, a rappresentare un centrodestra completamente snaturato, e dall’altro Di Maio e Toninelli. Quando il vero centrodestra era tenuto insieme da Berlusconi, i suoi oppositori erano l’illuminato Pannella, Amato, Veltroni, Rutelli e Bertinotti, uomini da cui mi divide quasi tutto, ma dei quali non posso non riconoscere preparazione e cultura».
A proposito di battaglie culturali e della sua “I colori della libertà”, ha detto di aver pensato a questa costituenda associazione “anche nel mio interesse”. Cosa intendeva?
«Lo intendevo da cittadina libera che crede nella libertà. Ognuno di noi deve sempre pensare che i diritti negati agli altri potrebbero essere i propri».
“Né etero né gay, sono libera”, ha dichiarato. Più volte hanno detto che “è lesbica”. Lei ha rilanciato “Amo Berlusconi, ma se domani scegliessi di vivere in una famiglia arcobaleno?”.
«Il clamore e la curiosità che suscita questa mia dichiarazione sono il sintomo che c’è ancora tanto da fare... non amo le definizioni, né le categorie. Oggi amo Silvio ma se domani mi innamorassi di una donna, che male ci sarebbe? L’amore è il principio cardine della vita e all’interno di quello tutto è possibile. Quindi non pianifico la mia vita secondo uno schema precostituito. L’unico confine che vedo non è tra eterosessuali e gay ma tra libertà e repressione, tra dignità e pregiudizio, tra cultura e ignoranza».
Francesca Fagnani per “il Fatto Quotidiano” il 2 novembre 2019. Francesca Pascale, 35 anni, fidanzata di Silvio Berlusconi. Ogni tanto si parla di crisi e invece lei è sempre lì, al suo posto e al suo fianco, scomoda in un centrodestra in cui non si riconosce più, a suo agio nel movimento Lgbt, per difenderne i diritti: "Anche nel mio interesse", dice. Politica, sessualità, famiglia: sceglie di parlarne col Fatto.
Sul palco di San Giovanni a Roma che ha segnato la rinascita del centrodestra a trazione leghista, lei non c' era. In quelle stesse ore, è partita la sua battaglia social per la difesa dei diritti umani, di genere soprattutto.
«Non credo nelle rinascite, ma nell'unione d'intenti. Ho sempre accompagnato il Presidente, ma in piazza San Giovanni ho scelto di non esserci perché non condivido il sovranismo, aborro gli estremismi. Berlusconi ha sempre messo in atto i principi liberali: è sotto quella bandiera che mi sento a mio agio».
Lei quel giorno ha detto a Berlusconi: "Ho paura, ma mi fido di te". Paura di cosa?
«Mi fa paura vedere che l' asse della coalizione si stia spostando verso destra, a discapito dei moderati. Mi preoccupa che nel 2019 ci sia ancora da combattere per affermare i diritti e le libertà di ciascuno, compresa quella di vivere senza pregiudizi il proprio orientamento sessuale».
Perché lei ha a cuore così tanto la causa Lgbt?
«Le famiglie arcobaleno, come quelle tradizionali, affrontano tutti i problemi che la vita riserva, ma in più devono sopportare il pregiudizio».
Anche di lei hanno detto che è lesbica: le ha mai pesato?
«Non mi sono mai sentita offesa, semmai violata nella privacy. Ho subito sulla mia persona la discriminazione dovuta a un amore non convenzionale con un uomo più grande di 49 anni. Non ho mai usato paletti per definirmi, non ho mai detto né di essere eterosessuale né gay.
Nelle amicizie come nell' amore non seguo stereotipi.
«Dieci anni fa mi sono innamorata di un uomo straordinario, domani chissà. Combattere a favore dei diritti Lgbt va a tutela anche della mia persona: e se domani io scegliessi di vivere in una famiglia arcobaleno? Perché dovrei vivere in uno Stato che mi odia a prescindere?»
Lei ha detto: "Salvini è il male". Eppure negli appuntamenti elettorali stravince.
«Per Salvini non ho particolare simpatia, com' è noto. Sono cresciuta con l' esempio di Silvio Berlusconi, un uomo che non ha mai fatto leva sulla paura, bensì sulla speranza, un uomo che non ha avuto bisogno di individuare un nemico e che soprattutto non se l' è mai presa con i più deboli».
Ha mai avuto ospite Matteo Salvini a Villa Maria?
«Francamente no, e lo dico con sollievo».
È vero che Dudù mal sopporta Daniele Capezzone?
«(Ride) Non ci crederà, ma Dudù e suo figlio abbaiano a tutti i politici: solo a loro. È un po' imbarazzante».
Lei si è mostrata spesso vicina a Mara Carfagna, che certo non ha vita facile all' interno di FI.
«Apprezzo sempre le donne che hanno il coraggio di lottare per le proprie idee e lei lo sta facendo in nome dei valori con cui è nata Forza Italia. Ricorda quando Berlusconi nel 2008 la scelse come ministro? Furono in molti a malignare su quella scelta, ma lei dimostrò di valere, introducendo per esempio la legge sullo stalking. Quelle voci critiche dove sono finite quando hanno nominato ministro degli Esteri un incompetente come Di Maio?»
Le piacerebbe che Mara Carfagna diventasse il capo politico di Forza Italia?
«Forza Italia è un partito costruito su Silvio Berlusconi, la personalizzazione è fortissima e inevitabile. Non può esistere un successore del Presidente. Chiunque aspiri, pur valido, a questo ruolo, pagherebbe il prezzo di questo confronto. Più che sull' erede, bisogna ragionare sul futuro di Forza Italia e della coalizione».
Qual è il progetto: un partito comune? Ogni volta che lei esprime una posizione politica, c' è sempre chi storce il naso.
«Vuol dire che dico la verità e qualcuno si infastidisce Di solito è un uomo, credo si tratti di qualche nostalgico fascista».
Qualora fosse costretta, preferirebbe un pranzo di maggioranza o di famiglia (Berlusconi)?
«Di famiglia senza dubbio!»
È cosa nota che i rapporti con la famiglia Berlusconi non siano proprio idilliaci.
«I figli non si intrometterebbero mai nella vita del padre, non è nel loro stile. Certo, hanno un atteggiamento vigile e di tutela, ma questo è comprensibile vista l' enorme differenza di età. Ho sempre dovuto fare un gran lavoro per farmi riconoscere per quello che sono: questo è indubbio. Certi aneddoti sono costruiti ad arte da chi fuori dalla famiglia vuole mettere zizzania».
I pregiudizi si combattono o ci si convive?
«È naturale nel mio caso subire pregiudizi. È difficile credere all' amore: eppure sono 15 anni che stiamo insieme, fosse stata una relazione di puro calcolo sarebbe già finita. I pregiudizi però si combattono, stando dalla parte di chi ne è vittima. Mi hanno detto di tutto, ma io sono fortunata, per questo ho creato un' associazione per difendere chi non può farlo da solo».
Qual è la cosa che dicono di lei che la fa più soffrire?
«Mi mortificano quando mi definiscono "la badante". Più in generale è il giudizio cattivo dato senza conoscermi che mi spiace. Poi, un conto è il pettegolezzo, un conto la calunnia».
Facendo un bilancio, questo fidanzamento cosa le ha dato o cosa le ha tolto?
«Quindici anni assieme Avevo vent'anni. Il bilancio è solo meraviglioso, la nostra storia è un miracolo. Il Presidente mi ha insegnato tanto».
Tipo?
«L' umiltà, e a dire sempre grazie. La maggior parte dei ricchi sono stronzi, lui no, lui è uno di noi con una storia incredibile».
Le piace quando la chiamano "first lady"?
«Mettiamola così, se la domanda fosse chi sceglierebbe tra Lady Diana o Cenerentola, risponderei senza dubbio Lady D».
Giorgio Gandola per “la Verità” il 3 novembre 2019. Due outing in un solo giorno e nella stessa frase da titolo. Un concentrato di ribellione, più choc di un jeans strappato sul ginocchio. Fa rumore la doppia svolta della donna che da alcuni anni incrocia i passi, l' affetto e i pensieri privati di Silvio Berlusconi: «Odio il sovranismo e i paletti. Né etero né gay, sono libera». Francesca Pascale - che non riusciamo a non immaginare con Dudù pensieroso sullo stesso divano in fiorato Sanderson - si pone a sorpresa dalla parte comoda della Storia, quella progressista. E lo fa in due mosse, le più scontate. Prima rigurgita con eleganza su Matteo Salvini («Per lui non ho particolare simpatia, mi fa paura vedere che l' asse della coalizione si stia spostando verso destra»), poi sventola la bandiera Lgbt con una convinzione da Gay Pride: «Difendo quei diritti anche nel mio interesse: e se domani decidessi di vivere in una famiglia arcobaleno? Nelle amicizie come nell' amore non seguo stereotipi». Perbacco, qui si prefigurano colpi di scena e si ipotizzano rivoluzioni copernicane di cui nulla possiamo immaginare. Per ora notiamo solo un deficit di visibilità colmato in un amen da parte di una signora che improvvisamente diventa, per chi non sopporta il Cavaliere, la Lady Diana della Brianza. Così indipendente da criticare le alleanze politiche di Forza Italia dal di dentro (o almeno da Villa Maria a Casatenovo), dopo la vittoria in Umbria e il rilancio del centrodestra unito. E così controcorrente da poterlo fare con parole che non sarebbero tollerate neppure se fossero Licia Ronzulli o Niccolò Ghedini a pronunciarle. È la mossa del cavallo, lo scarto improvviso che la accomuna a un'altra signora, insofferente allo stesso modo 10 anni fa: Veronica Lario, abile a cominciare lo sganciamento dal berlusconismo con un' uscita pubblica dall' effetto della criptonite. Anche il quotidiano scelto per l' intervista ha il valore subliminale della provocazione. Allora fu Repubblica, l' avversario editoriale, il collante del centrosinistra prodiano e pro giudici. Oggi è il Fatto Quotidiano diretto da Marco Travaglio, vale a dire Joker per Batman o una gerla d' aglio per un vampiro. Tutto per colpa di una festa di compleanno, allora come oggi. Dieci anni fa, a far partire i fuochi d' artificio di Veronica fu un anniversario con una presenza eccessiva: quella di Berlusconi a Casoria per il diciottesimo di Noemi Letizia, che quando vide entrare nel locale il premier lo chiamò «Papi». Leggendo le cronache del party, la moglie del presidente del Consiglio sbalordì e disse al giornale allora diretto da Ezio Mauro: «Quello che emerge dai giornali è un ciarpame senza pudore. E tutto in nome del potere. Figure di vergini che si offrono al drago per rincorrere il successo e la notorietà». Parole che diedero inizio alla stagione del bunga bunga. Qui l'acidità di stomaco che traspare dalle modalità sembrerebbe dipendere da una crisi di coppia, sancita dall'assenza della ex soubrette napoletana ai festeggiamenti per l' ottantatreesimo di Berlusconi il 29 settembre scorso a Villa Gernetto. Un vuoto notato da molti e ribadito due giorni fa da un articolo della Stampa in cui si raccontava di un malessere dei figli del Cavaliere, che avrebbero chiesto al padre di «mettere fine alla relazione con Francesca Pascale perché giudicata ingombrante» e causa di «un continuo stress con le sue scenate di gelosia e l' obbligo di un' eccessiva presenza sui social». Uno scenario turbolento al quale si è aggiunto un altro tassello: il leader ha partecipato da solo al matrimonio della nipote Lucrezia. Ma lo stesso Berlusconi ha voluto spazzare via le nubi con un post su Facebook: «Ancora una volta leggo con stupore notizie del tutto inventate o del tutto infondate. Come è naturale i miei figli non si sono mai permessi e mai si permetterebbero alcuna intromissione nella mia vita privata. Il mio rapporto con Francesca Pascale continua da molti anni con immutato, reciproco affetto e senza gelosie». Se il gossip famigliare si può facilmente incenerire, è più difficile derubricare l'intervista con nette valutazioni politiche. Scendendo in campo apertamente contro Salvini anche sul piano personale («mai avuto ospite a Villa Maria e lo dico con sollievo») e ponendo un quesito che sembra un ultimatum («qual è il progetto di Forza Italia, un partito comune con la Lega?»), Pascale si pone come un elemento di corto circuito. Una Wanda Nara extraparlamentare che imbarazza il partito e conferma come il leader sia tirato per il doppiopetto Caraceni dal mattino alla sera. Nel valutare amici e nemici, cherchez la femme. Lei che viene considerata l' antitesi della Ronzulli (ora in auge) apre con decisione a Mara Carfagna. «Apprezzo sempre le donne che hanno il coraggio di lottare per le proprie idee e lei lo sta facendo in nome dei valori con cui è nata Forza Italia», spiega Pascale idealmente alleandosi con la vicepresidente della Camera, molto critica sull' astensione alla mozione di Liliana Segre. Liberali o sovranisti? Il rovello interiore degli azzurri è così evidente che si nota non solo negli uffici di presidenza, ma anche sui divani del soggiorno. A leggere tutto ciò c' è da immaginare che buona parte del Partito democratico, da domani, comincerà a trattare Francesca Pascale come Nilde Jotti. E chiederà alla neonata commissione della bontà di rimuovere i video con il calippo.
Pietrangelo Buttafuoco per il “Fatto quotidiano” il 4 novembre 2019. Francesca Pascale può afferrare di sé - e su se stessa - qualunque cosa. Compagna di Silvio Berlusconi - che è benestante di suo, dunque garante di un' esistenza dorata - la volitiva Francesca può decidere di indossare qualsiasi destino con la stessa naturalezza con cui tutti noi scegliamo le calze al mattino. Non fa la moglie bambina, non certo la sfasciafamiglie, non la mangiauomini e tampoco la timorata, o la favorita, o la domina - o chissà che tra i tanti ruoli de sexual personae - piuttosto lei è l' altrove di ogni esserci. Come Maria Antonietta arriva dall' Austria per regnare gaia in Francia, così lei si lascia alle spalle la terragna matria campana per installarsi nella performance art dove ogni patimento, eventuale rifiuto o derisione è mera astrazione. Come quei motocarri dove squilla la scritta "invidioso crepa!" lei fa proprio il chiassoso tumido e invitante progetto - godersela, nell' incurabile tormento della fugacità - alla faccia di chiunque le voglia male. Monella, sfrontata e divertita assai, Francesca Pascale sbarca su Instagram e moltiplica su di sé una mitologia affollata e autoreferenziale. E se in qualche scatto concede allo zeitgeist l' ode all' amore senza genere e perfino degenere (mietendo la ola sugar-arcobaleno), in ben 21 post comunque offre la complicazione pittoresca di un punto di vista esterno al berlusconismo in sé ma, soprattutto, l' inarrestabile sua ascesa nell' orizzonte sociale. Con la pompa di benzina in pugno si lascia alle spalle la tetra retorica della sociologia. Alice nel paese delle meraviglie qual è non trova tempo di pulire le tazze di tè. Pittrice - in lotta con quella parte di sé ancora da esplorare - Francesca Pascale non è sgraziata e goffa com' è tipico l' essere di tutti noi, gregge di strapaese. È bensì maschia, tonica, meccanica e pronta all' impersonale epifania del pop. Tutta la sua vita volge in forma astratta. Tutti i suoi happening - ogni singolo suo post inanella un evento - sono una estensione stroboscopica della trasgressione. Come la pallottola altro non è che un buco fumante, così la combinazione di tuta, casco e rombo della Pascale è la réclame scorbutica - la rampante e gloriosamente solitaria fuga in motocicletta - di una scultura in azione. L'esibizione palestrata di curve sature, irreali e voyeuriste è una didascalia, anzi, un eccesso di disorientamento che trova avallo in un doppio ruolo: da un lato costruire un genere visuale, dall'altro proiettare di sé - ma sempre nel ruolo pubblico - l' ombra. Ed è come quando la luna s' illumina del sole al tramonto. Francesca ha 10 figli che le scodinzolano intorno per farla felice. Come in un tondo rinascimentale - nel sotto testo che rimanda a un altare - è ritratta nella cornice di castagne, calice di rosso, candele e bacio. Nella scena fa capolino uno dei pargoli - 'u canuzzu - ma quella di Pascale, e il messaggio qui si esplicita, è famiglia. Ed ecco il focus di quel furore mediatico cui urge un effetto dissolvenza affinché la sua icona si confermi factory per l' immaginazione popolare, facondia di una saga che abbia la nonchalance dei classici, altro che lo squittio - la citazione è da Lucio Dalla - di una qualunque "checca che fa il tifo". Se il film di Chiara Ferragni è Unposted, volontà e la rappresentazione di una ragazza di Cremona nella scena internazionale, dunque uno Schopenhauer tutto di selfie, quello di Francesca Pascale è Wille e Vorstellung nell' home theater di casa Berlusconi dove lui è Sandro - che noia, che barba! - e lei è Raimonda.
Dal “Fatto quotidiano” il 13 novembre 2019. “Una storia d’amore bellissima! Grazie #renault”. Così sul suo profilo Instagram Francesca Pascale, compagna di Silvio Berlusconi, commenta lo spot della casa automobilistica francese sulla Clio, ripreso dal sito gay.it e rilanciato sui social dall’ex deputata Paola Concia, ispirato a una storia d’amore tra due donne. La Concia aveva appena twittato: “Cara @renaultitalia mandate questo spot sulle reti italiane, sì? Coraggio, un po’ di coraggio, forza! È bellissimo”. Il tweet della fidanzata dell’ultraottuagenario B. non meraviglia. Proprio in un’intervista a Francesca Fagnani per il Fatto d’inizio novembre, la first lady del mondo berlusconiano ha dichiarato: “Non ho mai usato paletti per definirmi, non ho mai detto né di essere eterosessuale né gay. Nelle amicizie come nell’amore non seguo stereotipi. Dieci anni fa mi sono innamorata di un uomo straordinario, domani chissà. Combattere a favore dei diritti Lgbt va a tutela anche della mia persona: e se domani io scegliessi di vivere in una famiglia arcobaleno? Perché dovrei vivere in uno Stato che mi odia a prescindere?”.
Da liberoquotidiano.it il 10 novembre 2019. Tempo di confessioni per Francesca Pascale, che parla dei suoi impegni e delle sue battaglie in un'intervista a Il Messaggero. Da 15 anni al fianco di Silvio Berlusconi, ora si è lanciata nel terzo settore con il lancio dell'associazione "I colori della libertà", in difesa dei diritti Lgbt. E la Pascale spiega: "La inaugurerò il 22 gennaio. Inviterò donne che da tempo conducono battaglie per i diritti e che sono simboli dell'impegno civile trasversale, da Mara Carfagna a Paolo Cancia. Donne coraggiose, in prima linea". Parole, quelle della Pascale, che innescano la domanda su Virginia Raggi: allora inviterà anche lei? E qui la risposta si fa politica: "Purtroppo mi è bastato fare un giro in città per accorgermi di quanto Roma si fuori controllo - premette -. I topi passeggiano in allegria per le strade, tra i rifiuti. Vorrei fare una domanda alla sindaca". Quale? "Che fine ha fatto l'adrenalina della sua campagna elettorale? Si è forse accorta che dopo tre anni non è in grado di gestire Roma? Se è una donna intelligente e coraggiosa, come credo sia, dovrebbe ammettere i propri limiti e farsi da parte il prima possibile", conclude Francesca Pascale picchiando durissimo sulla sindachessa M5s.
Emilio Pucci per “il Messaggero” il 30 settembre 2019. Scaramanticamente non vorrebbe ricevere gli auguri. «E' un altro anno di vita in meno», ripete con il sorriso Berlusconi agli amici più stretti ad ogni compleanno. Una battuta certo, ma che cela la brama di essere in qualche modo immortale. Lo definiva così già il suo ex medico, Scapagnini, che gli propinava l'esilir di lunga vita. Ieri il Cavaliere ha spento ottantatré candeline ed è stato festeggiato nella sua villa di Arcore da tutti i suoi figli e dalla nutrita schiera di nipoti. Al pranzo in realtà era assente Francesca Pascale (che ha festeggiato con Berlusconi sabato sera a Villa Gernetto). Un'assenza che fa rumore. Perché si tratta di una ulteriore conferma sostiene chi segue più da vicino le vicende arcoriane - di una rottura ormai consumata della famiglia di Berlusconi con la sua compagna. La Pascale risulta non fosse presente neppure al matrimonio della figlia di Pier Silvio, Lucrezia, celebrato a inizio settembre. Anche tra gli amici più intimi del Cavaliere starebbe del resto aumentando il fastidio della Pascale per quelle che verrebbero considerate continue, indebite e maldestre interferenze nella vita di Forza Italia, interferenze che - questa l'argomentazione - aggiungerebbero confusione ad un partito già alle prese con una fase a dir poco complicata. Il rapporto tra la Pascale, 34 anni da poco compiuti, e la famiglia dell'ex presidente del Consiglio non è mai stato idilliaco - gelido soprattutto con Barbara, Eleonora e Luigi ma ogni qualvolta la fidanzata (da quasi dieci anni) del Cavaliere ha preso qualche posizione politica c'è stata fibrillazione. In questo momento poi la famiglia preferisce viene riferito - che nessuno, ancorché lei che ha giurato amore eterno a Berlusconi (sostenendo che «il più nobile dei sentimenti non necessità di contratti o di vincoli religiosi per esistere»), si intrometta nelle vicende private di villa San Martino. Del resto raccontano che l'ex premier sia molto combattuto. L'obiettivo resta quello di essere centrale. I 25 anni di FI festeggiati a marzo (era presente pure la Pascale) sono stati un traguardo importante, con l'ex premier entrato di forza nella storia (riconoscimento arrivato anche dal premier Conte), ma gli azzurri ora sono alla ricerca della nuova (e per certi versi anche della vecchia) identità. Berlusconi da una parte vorrebbe, stando ai più informati, operare delle scelte, capisce che gli equilibri del centrodestra così come sono rischiano di mettere all'angolo i forzisti; dall'altra vorrebbe aspettare del tempo, far sì che siano magari gli eventi in primis una rottura del governo rosso-giallo a determinare il percorso da intraprendere. Il patto nella coalizione a livello regionale tiene, anche se le spinte autonomiste sul territorio sono sempre più forti e hanno fatto sì per esempio che Berlusconi desse ampia libertà sui referendum promossi dalla Lega sulla legge elettorale. Ma l'attrazione verso il proporzionale è sempre più forte e con Lega e Fdi non tutto funziona per il meglio. Anzi. La polemica sui «fascisti» innescata proprio dal Cavaliere è solo l'ultimo segnale di un malessere e rappresenta pure la risposta dell'ex premier alla campagna acquisti degli alleati e alle voci di fuoriuscite dal partito. L'ex premier per ora riflette. E intanto si gode le sue ottantatré candeline. Tra l'affetto dei cari, dei capigruppo e dei vice, dei collaboratori come Giacomoni e di tantissimi parlamentari. E le telefonate, tra gli altri, di Putin, Salvini, Meloni e Monti.
Francesca Pascale corre da sola. Forza Italia affonda, lei registra la sua associazione: scende in campo. Libero Quotidiano il 13 Dicembre 2019. Mentre Forza Italia affonda, Francesca Pascale scende in campo. La compagna di Silvio Berlusconi lancia l'associazione I colori della Libertà, per la tutela dei diritti della comunità LGBT. Una battaglia di bandiera in un momento assai critico per gli azzurri, sull'orlo della scissione e spaccati tra autonomisti pro-Conte, ribelli in fuga verso Matteo Renzi e filo-leghisti. In questo caos, la Pascale "politica" conferma però la propria linea anti-conformista, perlomeno nel centrodestra, già anticipata con qualche post su Instagram e con l'apertura alle sardine. Il 26 novembre, spiega il Quotidiano nazionale, la Pascale "ha depositato all'ufficio marchi e brevetti del Mise quello che tecnicamente si chiama la dicitura Associazione I Colori della Libertà".
Francesca Pascale fonda l’associazione I Colori della Libertà. Veronica Caliandro il 13/12/2019 su Notizie.it. Francesca Pascale, compagna di Silvio Berlusconi, ha lanciato l'associazione "I Colori della Libertà", per tutelare i diritti delle persone Lgbt. Da sempre impegnata nella lotta per i diritti civili, Francesca Pascale, compagna di Silvio Berlusconi, ha lanciato l’associazione “I Colori della Libertà”, per tutelare i diritti delle persone Lgbt.
L’associazione di Francesca Pascale. Lo aveva annunciato e ora è ufficiale: Francesca Pascale ha creato l’associazione “I Colori della Libertà”. L’obiettivo è quello di tutelare i diritti delle persone Lgbt, le famiglie arcobaleno, le donne vittime di violenza, passando anche attraverso l’impegno nella prevenzione dell’Hiv. In base a quanto si evince da Adnkronos, quindi, la compagna di Silvio Berlusconi ha depositato il nome dell’associazione, “I Colori della libertà”, presso l’ufficio marchi e brevetti del ministero per lo Sviluppo economico lo scorso 26 novembre. Dopo aver registrato ben cinque anni fa, ovvero l’11 settembre 2014, il simbolo della Fondazione “I Colori della Libertà” con tanto di veste grafica, quindi, la Pascale ha finalmente lanciato la propria associazione. Nei giorni scorsi, inoltre, Francesca Pascale ha espresso il proprio parere sul movimento delle sardine, che nelle ultime settimane sta riempiendo le piazze di molte città italiane, con l’intento di contrastare il sovranismo. A tal proposito da alcuni giorni si vocifera di una possibile partecipazione della compagna del Cavaliere alla manifestazione di piazza San Giovanni, in programma sabato 14 dicembre a Roma. La stessa Pascale, in un’intervista rilasciata ad Huffington Post, non ha escluso tale possibilità e ha dichiarato di guardare “con interesse alle Sardine”. Per poi aggiungere: “Vi ritrovo elementi e quella libertà che furono propri della rivoluzione liberale di Berlusconi. Mi auguro non facciano come i grillini”.
Massimo Tartaglia: che fine ha fatto l’aggressore di Berlusconi. Antonella Ferrari il 13/12/2019 su Notizie.it. Dieci anni fa l'aggressione a Silvio Berlusconi in piazza del Duomo: Massimo Tartaglia fu arrestato per lesioni pluriaggravate. Era il 13 dicembre 2009 quando il nome di Massimo Tartaglia è balzato agli onori di tutte le cronache italiane per aver aggredito Silvio Berlusconi al termine di un comizio a Milano, in piazza Duomo. L’aggressore si è accanito sull’allora Presidente del Consiglio colpendolo violentemente al volto con una statuetta, gesto per cui è stato subito arrestato. Oggi sono trascorsi 10 anni e sono in molti a chiedersi che fine abbia fatto Tartaglia. Massimo Tartaglia: che fine ha fatto. L’aggressione avvenne poco dopo le 18 del 13 dicembre, in piazza del Duomo, nel pieno centro di Milano. Tartaglia, all’ora 42enne, fu subito arrestato per lesioni pluriaggravate. Il giudice di allora gli riconobbe però l’incapacità di intendere e di volere valutando per lui il regime di libertà vigilata. Nel 2016, però, complice un percorso di cura presso una comunità terapeutica, la misura cautelare è stata revocata perché Tartaglia è stato giudicato “non pericoloso” dal giudice del tribunale di Sorveglianza. Ex perito elettronico, dopo il ritorno in libertà, si è reinventato una nuova vita come manutentore del verde in una cooperativa. Intervistato solo qualche mese fa da Repubblica, raccontò: “Berlusconi aveva tutto e gli tirai una statuetta. Ora non lo odio più“.
L’aggressione 10 anni fa. Massimo Tartaglia era tra il pubblico che quel pomeriggio era accorso in piazza del Duomo per assistere al comizio di Silvio Berlusconi. Tenendo tra le mani una statuetta del Duomo di Milano, l’uomo si è fatto strada tra la folla fino a raggiunge l’allora presidente del Consiglio. Con violenza si è scagliato con il leader ferendolo in maniera grave al volto e procurandogli una grave ferita al labbro. Trasportato subito in ospedale, i medici gli diagnosticarono la frattura del setto natale e di due denti.
Da Notizie.it il 29 settembre 2019. Silvio Berlusconi, dal Teatro Manzoni di Milano, ha rispolverato la barzelletta del ‘commendator Bestetti’. Dal palco ha chiesto: “Ma la barzelletta del commendator Bestetti la conoscete? È fondamentale saperla, datemi qualche minuto”. Poi, grazie al momento di ironia, è riuscito a trasformare la sala in un teatro di Cabaret. La platea si è lasciata andare alle risate e ha applaudito il Cavaliere. Vediamo cosa ha raccontato.
Berlusconi racconta una barzelletta. In occasione del convegno di Forza Italia a Milano, Silvio Berlusconi ha approfittato per attaccare il Pd e la Lega. Poi, però, si è lasciato andare alle risate e ha chiesto ai sostenitori un minuto di attenzione. Berlusconi, infatti, ha rispolverato la barzelletta del Coordinatore cittadino di Forza Italia Giovani a Milano, Marco Bestetti. “Il commendator Bestetti (come tutti i milanesi) alle dieci di sera è ancora alla scrivania a lavorare” esordisce il Cavaliere. “Ad un certo punto, però, entra la signora Bestetti, che gli va addosso con la borsetta sul tavolo o sulle spalle e rivela “Tutte le sere vai al night e consumi tutti i soldi della famiglia””. “Ma a quel punto Bestetti si difende “Non è vero…be si qualche volta… quando c’è un americano””. Quella sera, però, si indirizza verso il night con la moglie che gli sta addosso. Davanti al buttafuori scambia qualche battuta, spiegando di averlo ingaggiato per fargli un favore. Poi davanti alla sigaraia: “I sigari preferiti del commendator Bestetti…”. Questa sarebbe la nipote della segretaria di Bestetti ingaggiata per incrementare le entrate. E ancora: “Il tavolo di centro davanti a tutti del commendator Bestetti…”: i due si siedono e inizia lo spettacolo. Le ballerine iniziano lo spogliarello e la più bella fa uno strip completo. “Togliendosi l’ultimo indumento (che potete immaginare quale fosse)” conclude il Cavaliere (che estrae un fazzoletto dalla tasca per sventolarlo sopra alla testa). “E questo a chi lo do? E la clientela in coro risponde di consegnarlo a Bestetti”. A quel punto la moglie mette fine alla relazione con il commendator Bestetti, che però la insegue anche verso il taxi. Infine, il tassista interviene nel litigio tra i due: “Signor Bestetti…di troie ne abbiamo caricate tante, ma una brutta, vecchia e cattiva come questa qui mai”. Il pubblico è scoppiato a ridere e ha applaudito.
Lucrezia Vittoria Berlusconi, le nozze in gran segreto della figlia di Pier Silvio che "nessuno conosce". Libero Quotidiano il 7 Settembre 2019. L'indiscrezione, piuttosto esplosiva, viene rilanciata dal sempre ben informato Dagospia in un "flash". Poche righe in cui si dà conto del fatto che oggi, sabato 7 settembre, si è sposata la figlia di Pier Silvio Berlusconi, Lucrezia Vittoria Berlusconi, nata nel 1990 dalla relazione con la modella Emanuela Mussida. Oggi la ragazza ha 29 anni, da sempre si tiene lontana dai riflettori, tanto che qualcuno scherza definendola "la figlia di Pier Silvio che nessuno conosce". E non tradendo la sua vocazione alla privacy, Lucrezia Vittoria si è sposata in gran segreto: la cerimonia è avvenuta in Provenza, nella villa di Marina Berlusconi. Alle nozze, fa sapere sempre Dagospia, era ovviamente presente il nonno, Silvio Berlusconi.
Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 31 agosto 2019. L' incontro al teatro Manzoni, il suo teatro, appena comprato; lei, bellissima, recitava Stella in una commedia brillante, Le cocu magnifique , il magnifico cornuto; lui, poco più che quarantenne, irresistibilmente simpatico, andò in camerino e la sera dopo lo riempì di rose rosse. E poi si sa e al tempo stesso non si sa quel che davvero accadde, perché come in tutte le vicende che riguardano Berlusconi, il mito si appiccica alla realtà e non le si scrolla più di dosso, per giunta con il sussidio oltremodo colloso dei rotocalchi e della tv, sempre di proprietà della Real Casa - anche se sulla figura di Veronica Lario, che si chiama in realtà Miriam Bartolini, anche se tutti in famiglia la chiamano Lella, esiste una piccola, ma sintomatica pubblicistica, tra l' indie e lo scandalistico, s' intende per maniaci. Comunque un vero amore, inizialmente clandestino: lui mette lei a vivere come lietamente segregata negli uffici Fininvest di via Rovani. Nasce la prima figlia, Barbara; quando sta per arrivare la seconda, Eleonora, l' inevitabile disvelamento; poi il divorzio dalla prima moglie, con il vincolo che nessun' altra possa mai entrare ad Arcore, dove lui rimane con Dell' Utri (e stalliere), e finalmente il matrimonio con Veronica che va ad abitare a Macherio, villa Belvedere. Insomma, ville separate, che è un po' una stranezza - ma i ricchi sono strani. Nasce pure Luigino. Coppia in ogni caso sfolgorante. Lui lanciato verso la conquista del mondo, lei un po' misteriosa: coltiva l' arte, legge libri di filosofia, ma da sfoglina emiliana fa la pasta in casa, niente tv per i bimbi, scuola steineriana, grande amore per la natura, servizi fotografici con moderazione, in uno particolarmente country tiene in braccio una capretta. È il 1994. Lui sta per prendersi l' Italia. Gliela tolgono, ma quando sette anni dopo se la sta per riprendere, lei sorride radiosa sull' opuscolo "Una storia italiana" spedito per posta: «Veronica - squilla la didascalia - il grande amore». Eppure già allora non era più una favola bella. Lui si agitava, lei se ne stava da parte, rifiutava un ruolo ornamentale, ogni tanto interveniva sui diritti umani, una volta sull' aborto, un' altra sulla pace, un' altra ancora su una barzelletta sui malati di Aids, una volta su una censura al teatro di Siracusa, una volta Veltroni le chiese di aderire al centrosinistra, o giù di lì. E poi? E poi è andata malissimo, ma per altre ragioni, ed eccoci qui. Ieri Veronica ha perso, Silvione ha vinto, adesso lei deve a lui un sacco di milioni, mica bruscolini; lui forse farà il beau geste e dirà che non li vuole più: sempre nei codici dei miliardari sarebbe la peggiore vendetta. Tra parentesi: al colmo dell' ira, quando nel fatidico 2009 lei gli assestò il più clamoroso calcione là dove lui si sentiva meglio e insieme poteva continuare a proclamarsi «un-buon-padre- di-famiglia», ecco Berlusconi disse: «La ridurrò in miseria». Non c' è riuscito, ma non è questo che conta. Ciò che conta, se è consentito buttarla parecchio al di là degli impicci coniugali, ma anche post-coniugali e meta-coniugali, è che questo amore, insieme con il disamore e il divorzio sono entrati pienamente a far parte, in qualità di eventi fondanti, della vita e forse anche della storia d' Italia. Nel senso che attraverso tali vicende per la prima volta è apparso chiaro il crollo di ogni residuo confine fra sfera pubblica e privata. Si perdoni il tono oracolare e vagamente sociologese, ma si tratta di qualcosa che va ben al di là del gossip, avendo anzi fatto proprio del gossip il centro, l' orizzonte tecnologico e il linguaggio corrente di questo tempo; in altre parole il nucleo incandescente della vita nuda che ha sostituito gli ideali e i progetti, indizio e segno di uno smottamento profondo, per certi versi cataclismatico. Si dirà: eh, che esagerazione! D' accordo. Si dirà pure: era tutta questione di quattrini, i figli di primo letto, quelli di secondo, l' incerta divisione dell' immane patrimonio. Può darsi. Ma senza la rivolta di Veronica - pubblica rivendicazione della propria dignità contro l' ennesima gallo- euforia di Re Silvione, proclamazione del «ciarpame senza pudore» a proposito delle ragazzette da spedire in Parlamento e dolorosa invettiva sulle «vergini che si offrono al drago» - ecco, senza tutto questo, e tutto ciò che ne è seguito, l' Italia non sarebbe quella di oggi.
Mattia Feltri per “la Stampa” il 31 agosto 2019. Di quanto Silvio Berlusconi ha perduto con gli anni, il tocco vincente e il travolgente fascino, gli è rimasta la generosità e pertanto non rinnegherà il gesto regale con cui disse a Veronica «chi ha avuto, ha avuto». Ieri la Cassazione ha confermato la sentenza d' appello, l' ultima di uno spettacolare e inestricabile viluppo di pronunciamenti, secondo la quale lui nulla deve a lei in alimenti. E in effetti questo termine, alimenti, aveva assunto una connotazione ironica, essendo stati quantificati una volta in tre milioni di euro al mese (stipendio da Cristiano Ronaldo: centomila al giorno), poi ridotti a due (sessantaseimila) infine a un milione e quattrocentomila (quasi cinquantamila), cifre quotidiane con cui si potrebbe alimentare a vita l' intero Burkina Faso. Ma queste banali e spicciole considerazioni morali non c' entrano nulla: ognuno divorzia secondo possibilità e al prezzo che stabiliscono i giudici, e i giudici hanno ora deliberato che nessuna delle cifre precedenti è adeguata, essendo adeguato lo zero, poiché non è vero, come fu sentenziato, che Berlusconi abbia messo in piedi la sua spettacolare fortuna anche grazie al contributo domestico di Veronica che, restando a casa a badare ai figli e alla serenità del focolare, aveva permesso al consorte di dedicarsi agli affari e all' accumulo. Berlusconi, conferma la Cassazione, accumulava prima di Veronica e ha accumulato durante e dopo e così niente assegno. Nell' ultimo appello si era addirittura previsto che l' ex moglie restituisse all' ex marito sessanta milioni del maltolto, adesso ridotti, sembra di capire, a quarantacinque. Ma di fronte ai sessanta, il Sire fece un cenno di magnanimo distacco: tienili pure, (ex) amore. Chi ha avuto, ha avuto. Ed era davvero il modo migliore di chiudere una storia già chiusa nel modo peggiore. In fondo Berlusconi dovrebbe sapere che le sue sfortune politiche dipendono da quello che si è promesso e non si è stati capaci di mantenere, e dal tempo che passa e rende appassiti pure gli uomini più rigogliosi, compresi gli uomini di tutte le stagioni. Ma di certo sa che il «ciarpame senza pudore» del velinismo di cui fu accusato da Veronica in una lettera a Repubblica - scandaloso il destinatario forse più del contenuto - hanno contribuito ad accelerare bruscamente il declino, e a renderlo un po' più inglorioso. E tuttavia sa, altrettanto, che per lustri lei è stata il volto più socialmente presentabile - anche per l' ipocrisia della presentabilità sociale - della famiglia. Era lei che sapeva muoversi con elegante prudenza, sempre distante dalla quotidianità delle zuffe politiche, quasi sempre alla larga dagli impegni di palazzo, e però capace di comparire di splendente blasone quando serviva, per esempio a ricevere la coppia più importante del mondo: Hillary e Bill Clinton (che qualche problemino analogo l' hanno avuto). Era lei che si faceva fotografare per le copertine dei rotocalchi, e anche di settimanali più prestigiosi, in testimonianza di una vita familiare placida al limite del bucolico. Era lei (e chi scrive dimentica meno di chiunque) l' editore del Foglio di Giuliano Ferrara, del quale non fu mai messa in discussione la libertà di praticare un aperto berlusconismo apertamente non ortodosso: siamo berlusconiani tendenza Veronica, diceva Ferrara, e «Tendenza Veronica» diventò il libro di memorie di lei, la Berlusconi che potevano amare anche gli antiberlusconiani. Chi ha avuto, ha avuto: giusto così.
Da liberoquotidiano.it il 14 Novembre 2019. Non è un mistero: Silvio Berlusconi è il leader politico più ricco di tutti. Con un imponibile invariato rispetto allo scorso anno, il Cav vanta 48 milioni di euro dichiarati al fisco nel 2019. Soldi con cui il leader di Forza Italia è riuscito a conservare tre fabbricati a Milano. Tra queste - ricorda l'Adnkronos - la storica residenza di via Rovani, quella di Villa Campari, sul Lago Maggiore a Lesa (No), due case ad Antigua e una a Lampedusa (l'ex villa Due Palme, acquistata nel 2011). Immobili non solo per lui, perché il leader di Fi ha riserbato una villa anche per la compagna Francesca Pascale. Si tratta della tenuta Villa Maria, a Rogoredo di Casatenovo. Ma le proprietà di Berlusconi vanno oltre. Tra i suoi averi spunta infatti un'Audi A6 immatricolata nel 2006 e tre imbarcazioni da diporto: la San Maurizio (comprata nel 1977), il Magnum 70 (del '90) e la Principessa vai via (del 1965). Altrettanto invariato rimane il "pacchetto titoli" con 5.174.000 azioni della Dolcedrago spa, 2.444.144 azioni della Holding italiana 1 spa, 2.199.600 della Holding italiana 2 spa. Nel portafoglio del Cavaliere risultano poi 1.193.400 di quote della Holding italiana 3 spa, 1.095.140 azioni della Holding italiana 8 spa, 200 azioni della Banca popolare sviluppo di Napoli e 896mila titoli della Banca popolare di Sondrio.
Il «tesoro» da 100 milioni di euro della famiglia Berlusconi. Pubblicato martedì, 18 giugno 2019 da Mario Gerevini su Corriere.it. Si è chiusa così la «campagna dividendi» della famiglia, alimentata, attraverso holding personali, quasi esclusivamente dalle performance della controllata Fininvest. Complessivamente, dunque, sono stati distribuiti 100 milioni di euro: 61 milioni a Silvio Berlusconi ( 61% di Finivest), 10 milioni a Pier Silvio (7,65%), 8 a Marina (7,65%) e il resto ai tre fratelli più giovani. Sulla base del patrimonio netto della H14, che è un valore solo indicativo della ricchezza, le quote di Barbara, Eleonora e Luigi valgono circa 95 milioni ciascuna. La holding di Pier Silvio ha un patrimonio netto di 143 milioni e quella di Marina di 57,5.Intanto è stato approvato anche il bilancio, in leggero utile, della Dolcedrago, controllata direttamente dall’ex premier e capofila delle proprietà immobiliari, a partire da Villa Certosa in Sardegna. Da notare che durante il 2018 il Cavaliere si è ripreso 50 milioni del prestito da 222 milioni residui che lui stesso aveva erogato (a tasso zero) alla società e questa ha in buona girato alla Immobiliare Idra. Complessivamente oggi la Dolcedrago ha ridotto da 300 a 231 milioni i debiti, quasi tutti verso l’azionista, tranne circa 9 milioni di scoperto su un conto corrente in Intesa Sanpaolo Private Banking. Ma è uno scoperto «coperto», anche lì, da una fideiussione da 9 milioni di Berlusconi.
Mario Gerevini per Il Corriere della Serail 19 giugno 2019. Il «tesoro» da 100 milioni della famiglia Berlusconi. Con i sette milioni di euro a testa incassati da Barbara (35 anni), Eleonora (33) e Luigi Berlusconi (30), il totale dei «guadagni» realizzati dalla famiglia Berlusconi arriva a 100 milioni. È la cifra dei dividendi distribuiti dalle casseforti alle persone fisiche. L’ultimo bilancio 2018 approvato è quello della H14, la holding dei tre fratelli (figli di Veronica Lario) proprietaria del 21,4% di Fininvest e di un portafoglio diversificato di strumenti finanziari. Quest’anno la cedola è stata di 21 milioni contro i 15 dello scorso anno.
Effetto Fininvest. Si è chiusa così la «campagna dividendi» della famiglia, alimentata, attraverso holding personali, quasi esclusivamente dalle performance della controllata Fininvest. Complessivamente, dunque, sono stati distribuiti 100 milioni di euro: 61 milioni a Silvio Berlusconi ( 61% di Fininvest), 10 milioni a Pier Silvio (7,65%), 8 a Marina (7,65%) e il resto ai tre fratelli più giovani. Sulla base del patrimonio netto della H14, che è un valore solo indicativo della ricchezza, le quote di Barbara, Eleonora e Luigi valgono circa 95 milioni ciascuna. La holding di Pier Silvio ha un patrimonio netto di 143 milioni e quella di Marina di 57,5.
Silvio Bank. Intanto è stato approvato anche il bilancio, in leggero utile, della Dolcedrago, controllata direttamente dall’ex premier e capofila delle proprietà immobiliari, a partire da Villa Certosa in Sardegna. Da notare che durante il 2018 il Cavaliere si è ripreso 50 milioni del prestito da 222 milioni residui che lui stesso aveva erogato (a tasso zero) alla società e questa ha in buona girato alla Immobiliare Idra. Complessivamente oggi la Dolcedrago ha ridotto da 300 a 231 milioni i debiti, quasi tutti verso l’azionista, tranne circa 9 milioni di scoperto su un conto corrente in Intesa Sanpaolo Private Banking. Ma è uno scoperto «coperto», anche lì, da una fideiussione da 9 milioni di Berlusconi.
Carlantonio Solimene per ''Il Tempo'' il 19 giugno 2019. Non fa più attività politica dal novembre 2013, ma alla famiglia Berlusconi continua a costare caro. È il paradossale caso del Popolo della Libertà, «sepolto» dal Cavaliere ormai quasi sei anni fa, all' indomani della scelta di mollare il governo Letta, per far risorgere Forza Italia. Eppure, come capita a tanti altri partiti ormai politicamente inattivi, anche il Pdl ha continuato a vivere economicamente, sostanzialmente per saldare vecchie passività che si erano accumulate negli anni precedenti. E così II Tempo - analizzando le donazioni dei privati ai partiti tra il 1° maggio 2018 e il 4 giugno 2019 - ha scoperto che in questo periodo la famiglia Berlusconi ha deciso di dirottare interamente sul Popolo della Libertà (e non su Forza Italia) i propri «investimenti». Nel dettaglio, si tratta di tre donazioni. Una di Luigi Berlusconi, effettuata nel 2018 e «protocollata» il 14 febbraio 2019, da 100 mila euro. Le altre due, effettuate da Marina e Pier Silvio, da 50 mila euro l' una, effettuate ancora una volta nel 2018 e protocollate entrambe il 20 febbraio 2019. In tutto 200 mila euro, gli unici incassati dal Popolo della Libertà, mentre nulla risulta dalla famiglia Berlusconi per Forza Italia, che però può contare sui versamenti dei vari parlamentari. La prassi è nota. Da quando la legge del governo Letta che ha abolito il finanziamento pubblico ai partiti ha imposto ai privati e alle imprese un limite massimo di centomila euro per le donazioni ai singoli partiti, per il Cavaliere è diventato impossibile ripianare Quelli presi in esame da II Tempo: dal 1° maggio 2018 al 4 giugno 2019 Le donazioni dei figli del Cav: 100mila euro da Luigi, 50mila ciascuno per Marina e Pier Silvio personalmente le passività delle sue creature politiche. Di conseguenza, negli anni successivi alla riforma, spesso e volentieri sono stati i familiari dell' ex premier a «dividersi», nel limite consentito dalla legge, l' onere di finanziare Forza Italia e Pdl. Così è avvenuto anche nel 2018. Ma perché stavolta concentrarsi esclusivamente sul Popolo della Libertà? «C' erano delle pendenze da saldare, in particolare nei confronti degli ex dipendenti» svela il senato re di Forza Italia Salvatore Sciascia, che in qualità di segretario amministrativo generale, ha firmato l' ultimo bilancio reso pubblico dal Pdl, quello del 2017. «Ora i debiti nei confronti dei dipendenti sono finiti» continua Sciascia, «ma ci sono ancora molte passività da saldare». Il senatore non si vuole sbilanciare sull' ammontare attuale del debito, svela solamente che si tratta di una cifra «superiore al milione di euro». Ma il mistero non resterà tale a lungo.
«Ho firmato qualche giorno fa il bilancio 2018 del Pdl, quindi entro il 30 giugno sarà reso pubblico». Nel corso degli ultimi anni il Popolo delle Libertà, pur politicamente inattivo, ha continuato ad avere un' attività economica intensa. L'«annus horribilis» è stato il 2013, quando partito chiuse il bilancio con un disavanzo da oltre 14 milioni di euro che portò il debito complessivo oltre i 18 milioni. Poi, con il trasferimento di diversi asset (e parte dei dipendenti) alla rinata Forza Italia, la situazione si è normalizzata. Il bilancio del 2014, con un attivo di circa 14 milioni di euro, riportò il monte debitorio intorno ai 4 milioni. Negli anni successivi, il conto economico è stato più equilibrato. Al sostanziale «pareggio» del 2016 è seguita la perdita di 947mi1a euro del 2017. Tra le passività principali dell' ultimo bilancio visionabile i quasi 3 milioni di euro dovuti ai «Fondi per rischi e oneri», i 2,8 milioni di euro da restituire ad «altri finanziatori» e i 916.273 euro dovuti ai «fornitori». A ripianare parte delle passività è stata ancora una volta la famiglia Berlusconi. Per il volume dei debiti residui l' appuntamento è tra qualche settimana.
BERLUSCONI A PIER SILVIO: “IO, UN PADRE ORGOGLIOSO”. Fabrizio De Feo per “il Giornale” l'8 maggio 2019. «Sono orgoglioso di te, come padre e come uomo, mi hai sostituito come nessuno». Pier Silvio Berlusconi compie 50 anni e riceve un regalo importante, una lettera nella quale il padre Silvio esprime i suoi sentimenti e racconta il legame profondo con il suo secondogenito. Una missiva letta nei giorni scorsi dal Cavaliere a Cannes dove la famiglia Berlusconi si è riunita per festeggiare il compleanno di Pier Silvio: dalla compagna Silvia Toffanin con i figli, alla prima moglie di Berlusconi, Carla Elvira Lucia Dall' Oglio (madre di Pier Silvio e Marina, ndr) ma anche i mariti, mogli e figli dei membri della famiglia si sono ritrovati tutti sulla barca di Pier Silvio. «Eccoci qui a festeggiare con te, con Marina, con la mamma il tuo anniversario del mezzo secolo. Mi sembra davvero impossibile che così tanto tempo sia passato da quando ti tenevo fra le braccia da piccolo e da quando giocavo con te godendomi la tua bellezza, la tua simpatia la tua allegria» si legge in alcuni estratti delle 5 pagine pubblicate in esclusiva su Chi. «Da allora tanto tempo è passato ma - sottolinea l' ex premier - quei ricordi e quelle immagini sono sempre rimaste nel mio cuore. E ancora oggi quando il lunedì entri nella sala da pranzo e vieni a baciarmi, si rinnova ogni volta l' emozione di allora. Mi hai sostituito alla guida della televisione come nessun altro avrebbe saputo fare, ti sei conquistato la stima di tutti, hai preso sempre le giuste decisioni nei momenti difficili. Bene, potrei dirti molte altre cose sul mio rapporto con te ma credo che questo basti. Sono un padre orgoglioso, molto orgoglioso di avere un figlio come sei tu. Il tuo papà. 28 aprile 2019», si firma il leader azzurro. La vicinanza di Pier Silvio al padre non è mai mancata. Il vicepresidente di Mediaset è stato presentissimo anche negli ultimi giorni all' ospedale San Raffaele di Milano durante il decorso post operatorio per l' intervento per un' occlusione intestinale. «Mio padre sta bene come ho avuto modo di dire ieri. È stata una bella botta però ha superato l' intervento alla grande - aveva detto parlando con la stampa al suo arrivo in ospedale -. È un uomo forte e anche questa vicenda è stata un insegnamento, lo dico da figlio, perché ha uno spirito unico davvero. Adesso starà a lui ma, conoscendolo, penso che sia pronto per la volata finale» della campagna elettorale. Durante le vacanze Pier Silvio Berlusconi si è goduto le feste assieme al figlio Lorenzo Mattia, nato dalla sua relazione con la conduttrice Silvia Toffanin. Il vicepresidente di Mediaset è stato anche fotografato da Chi mentre passeggiava per Paraggi in bici assieme al figlio. Un augurio speciale è stato quello che gli ha riservato Maria De Filippi. La conduttrice ha fatto intonare ai ragazzi di Amici 2019 Serale un «tanti auguri musicale», senza svelare a chi fosse indirizzata la canzone. Ha fatto salire la curiosità, provocando l' ironia di Rudy Zerbi. Ha puntualizzato che «non si tratta di Maurizio (Costanzo) che li compie il 28 agosto e non compie 50 anni». Ha chiesto più volte di sapere se poteva dirlo e se non desse fastidio la sua sortita al diretto interessato. Poi ha concesso un indizio: «Lei ci ha parlato e ci ha telefonato e ora mi ha detto che posso dirlo. Lei la conoscete, ha una trasmissione qui. Ora probabilmente avrete capito. Ci tengo a farglieli perché se c' è questa trasmissione è anche grazie a lui: auguri veri e assolutamente sentiti al mio capo Pier Silvio Berlusconi».
Da Corriere.it il 30 agosto 2019. Silvio Berlusconi vince anche l'ultimo round, in Cassazione, contro Veronica Lario sul maxi assegno legato al loro divorzio. In particolare, secondo quanto risulta a Radiocor, oggi la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza della Corte d'Appello di Milano emessa nel giudizio Berlusconi-Lario rigettando, integralmente il ricorso presentato dalla ex moglie. Lario non ha quindi diritto all'assegno di divorzio dopo la fine del matrimonio con Berlusconi. La Cassazione ha, così, confermato la sentenza emessa nel novembre 2017 dalla Corte d'appello di Milano, con cui era stato disposto lo stop all'assegno divorzile - fissato in primo grado dal tribunale di Monza in un milione e 400 mila euro mensili - a favore di Lario e la conseguente restituzione della somma (che era stata inizialmente stimata in circa 60 mln) percepita dalla ex moglie di Berlusconi dal marzo 2014, ossia dallo scioglimento del matrimonio.
Silvio Berlusconi, vittoria contro Veronica Lario: la Cassazione conferma il no all'assegno di divorzio. Libero Quotidiano il 30 Agosto 2019. Ha vinto Silvio Berlusconi: la sua ex moglie Veronica Lario non ha diritto all'assegno di divorzio dopo la fine del loro matrimonio. È la decisione definitiva della Cassazione che ha confermato la sentenza emessa nel novembre 2017 dalla Corte d'Appello di Milano, con cui era stato disposto lo stop all'assegno divorzile - fissato in primo grado dal tribunale di Monza in un milione e 400 mila euro mensili - a favore di Lario e la conseguente restituzione della somma (che era stata inizialmente stimata in circa 60 milioni di euro) percepita dalla ex moglie di Berlusconi dal marzo 2014, ossia dallo scioglimento del matrimonio. Con l'ordinanza depositata oggi 30 agosto i giudici della prima sezione civile della Cassazione hanno rigettato sia il ricorso di Veronica Lario (al secolo Miriam Bartolini) - la quale chiedeva l'annullamento della sentenza d'Appello - sia quello incidentale proposto da Berlusconi, secondo cui la decorrenza della revoca dell'assegno doveva essere fissata in un momento ancora precedente rispetto a quello stabilito dai giudici di secondo grado. Sul verdetto d'appello aveva inciso la linea giurisprudenziale indicata nel 2017dalla prima sezione civile della Cassazione con la nota sentenza riguardante il divorzio dell'ex ministro Vittorio Grilli, che aveva eliminato il criterio del "tenore di vita" durante le nozze come snodo centrale per le decisioni sugli assegni divorzili. Un orientamento poi rivisto, con un’accezione ben più ampia dei parametri da considerare, dalle sezioni unite lo scorso anno, ma che non ha spostato, nel caso in esame, i punti fondamentali della sentenza sul no all'assegno per la Lario.
Veronica Lario, vittoria giudiziaria di Berlusconi: pignoramento dei beni, il divorzio è un dramma economico. Libero Quotidiano il 20 Settembre 2019. Pignoramento dei beni per Veronica Lario. È l'ultima (dolorosa) tappa giudiziaria nella vicenda del divorzio da Silvio Berlusconi. Secondo Repubblica, il giudice del Tribunale civile di Milano ha emesso un decreto ingiuntivo su richiesta degli avvocati del Cavaliere, che di fatto ha portato al congelamento dei conti della ex seconda moglie di Berlusconi. A fine agosto la Cassazione aveva confermato la sentenza del novembre 2017 della Corte d'Appello di Milano che aveva bloccato gli "alimenti" dovuti dall'ex premier alla Lario, un assegno di divorzio da 1,4 milioni al mese. Una sentenza, quella, che ha avuto conseguenze anche sull'ultimo provvedimento, sia pur scollegato dal punto di vista processuale: come ricorda ancora Repubblica, infatti, "i circa 60 milioni di assegni di divorzio già versati da Berlusconi dal marzo 2014 (il mese successivo alla sentenza di divorzio) al novembre 2017, quando si è pronunciato l'Appello, non erano soldi dovuti". I legali della Lario hanno presentato un nuovo ricorso: i tempi per la parola fine si allungano.
Luca De Vito per “la Repubblica” il 20 settembre 2019. Un decreto ingiuntivo per il pignoramento dei beni di Veronica Lario. A deciderlo è stato il tribunale civile di Milano su richiesta degli avvocati di Silvio Berlusconi: il giudice ha emesso un provvedimento esecutivo che, di fatto, ha portato al congelamento dei conti della ex signora di Berlusconi. È un nuovo capitolo nella battaglia legale che il leader di Forza Italia sta portando avanti nei confronti di Lario e che arriva dopo la Cassazione di fine agosto che ha confermato la sentenza del novembre 2017 con cui la Corte d' appello di Milano aveva bloccato l'assegno di divorzio da 1,4 milioni al mese. Il decreto ingiuntivo - a cui Cristina Morelli, l'avvocata di Lario, ha fatto opposizione - e il pronunciamento della Cassazione sono cose scollegate, anche perché le sentenze non hanno stabilito risarcimenti (come è normale che sia). Tuttavia il decreto si basa su un elemento sottinteso anche da quei provvedimenti: ovvero il fatto che i circa 60 milioni di assegni di divorzio già versati da Berlusconi dal marzo 2014 (il mese successivo alla sentenza di divorzio) al novembre 2017, quando si è pronunciata la Corte d'appello, non fossero soldi dovuti. Da qui la nuova battaglia sui risarcimenti. Che però sembra lontana dal trovare una soluzione: l'opposizione presentata dai legali della ex moglie di Berlusconi rappresenta di fatto l' inizio di una nuova causa e darà quindi vita a un altro procedimento, su cui il giudice si dovrà esprimere. Non solo. Prima di arrivare a una sentenza potrebbe decidere anche per la sospensione del pignoramento. Se da una parte Silvio Berlusconi aveva dichiarato di non volersi rifare sui beni della sua ex moglie, questa mossa sembra descrivere esattamente il contrario, ovvero il desiderio di arrivare a una resa dei conti. A complicare il quadro, il fatto che Lario fino ad ora ha pagato le tasse sul patrimonio che adesso le viene chiesto di restituire. I conti in tasca a lei, del resto, hanno provato a farglieli sia gli avvocati della controparte, sia i giudici della corte d' Appello. Una stima credibile prende le mosse dal fatto che la ex attrice sia socia unica della società immobiliare il Poggio srl, che ha un patrimonio complessivo di oltre 50 milioni di euro (bilancio 2015). A questo bisogna aggiungere i gioielli dal valore di decine di milioni che però sarebbero destinati ai figli, due immobili di pregio a Milano e in Engadina e i circa 104milioni di euro ricevuti dall' ex marito con l' assegno di mantenimento. Nel suo pronunciamento su questo celebre divorzio, la Cassazione aveva spiegato come «l' oggettivo squilibrio» tra il patrimonio di lei e quello di lui non fosse causato «dall' impostazione della vita coniugale e familiare», perché Berlusconi era già enormemente ricco di suo. Non solo: i giudici, accogliendo i rilievi dei difensori di Berlusconi Valeria De Vellis e Pier Filippo Giuggioli, avevano ribadito che l'intero patrimonio di lei, invece, era stato formato negli anni «da parte dell'ex coniuge». Cosa che le avrebbe consentito «di affrontare la fase successiva allo scioglimento del vincolo in condizioni di assoluta agiatezza», oltre a compensare «il sacrificio delle aspettative professionali della ricorrente», visto che era stata costretta ad abbandonare la sua carriera di attrice. Una soluzione sembra ancora lontana I legali della ex moglie si oppongono probabile un nuovo procedimento giudiziario.
Silvio Berlusconi la spunta due volte su Veronica Lario: 46 milioni, sì al pignoramento dei conti. Libero Quotidiano il 25 Settembre 2019. E' un diritto di Silvio Berlusconi la restituzione, da parte dell'ex moglie Veronica Lario, dei 46,3 milioni di euro che le ha versato dopo il divorzio indebitamente. Lo ha ribadito il Tribunale di Monza, riporta il Corriere della Sera, che ha negato alla Lario la sospensiva del pignoramento dei suoi conti che ha subìto dopo che la Cassazione ha confermato la cancellazione dell'assegno di divorzio da 1,4 milioni mensili che le versava il Cavaliere. Una "settimana di gloria", insomma, per il leader di Forza Italia, quanto meno nella diatriba con l'ex moglie: per due volte in pochi giorni, piuttosto incredibile ma vero, i giudici si sono schierati al suo fianco. E per Veronica Lario si mette male...
Veronica Lario, il suo patrimonio da 34 milioni in immobili e quella mossa prima della decisione dei giudici. Libero Quotidiano il 16 Ottobre 2019. L'ultima mossa di Veronica Lario, poco prima che il tribunale di Milano decidesse, con decreto ingiuntivo, di pignorare i suoi beni nel contesto della causa con Silvio Berlusconi. Ultima mossa svelata da Italia Oggi, che dà conto di come lo scorso 30 settembre, a Missaglia, "davanti al notaio Francesco Brini si è presentata Monica Limonta, amministratore unico de Il Poggio, per siglare l'affitto del ramo d'azienda che riguarda l'attività di ostello per la gioventù iniziata a palazzo Borromini di Segrate, immobile di proprietà", scrive il quotidiano. Dunque sottolinea come l'affittuario sia la società Midue, che ha sede al medesimo indirizzo legale a Milano de Il Poggio e che ne detiene il 20%, mentre il controllo - con l'80% - è della Cosmo srl, a sua volta controllata da Equitago, la cui proprietà è detenuta fiduciariamente dalla Spafid e il cui 100% è in pegno a Intesa Sanpaolo. L'affitto del ramo d'azienda, per sei anni, è stato stabilito a 315mila euro per il primo anno, 441 mila euro per il secondo e terzo, e 630 mila euro per ciascuno degli ultimi tre anni. La decisione del tribunale di Milano è arrivata dopo che la Corte di cassazione aveva stabilito che Berlusconi non dovesse più provvedere al mantenimento dell'ex moglie, di fatto confermando quella che fu la sentenza d'appello del 2017, che cancellò l'assegno mensile da 1,4 milioni al mese che fu calcolato dal tribunale di Monza nel 2013. E ancora, prosegue Italia Oggi, Il Poggio nel 2018, vendendo un palazzo a Milano, aveva registrato una plusvalenza di 1,2 milioni e il primo utile dopo anni di perdite. La società della Lario, infatti - che ha immobili per un patrimonio pari a 34 milioni di euro - ha chiuso il bilancio con un mini profitto di 295 mila euro andato a parziale copertura delle perdite di oltre 6,3 milioni accumulate negli anni precedenti. Oltre a palazzo Borromini in carico a 7,6 milioni, l'asset immobiliare più importante è palazzo Canova, sito a Milano 2 all'interno del complesso immobiliare denominato Centro direzionale Milano 2, e in carico a 33,9 milioni e fu comprato dalla Lario nel 2009 grazie a un mutuo di 34 milioni concesso dalla Banca Popolare di Sondrio, conclude Italia Oggi.
· E’ morto Paolo Bonaiuti, ex portavoce di Silvio Berlusconi.
(ANSA il 16 ottobre 2019) - E' morto a Roma, dopo lunga malattia, Paolo Bonaiuti, ex portavoce di Silvio Berlusconi e parlamentare.
BIOGRAFIA DI PAOLO BONAIUTI. Da cinquantamila.it, sito a cura di Giorgio Dell'Arti.
Firenze 7 luglio 1940. Politico. Del Pdl. Giornalista. Parlamentare dal 1996. Eletto senatore nel 2013, prima deputato (Forza Italia, Pdl). Portavoce di Silvio Berlusconi. Sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel Berlusconi II, III e IV.
«Ho avuto un’educazione severa. Se mangiavo con i gomiti larghi subito arrivava la sberla e a letto senza cena. Vengo da una famiglia con un nonno carabiniere, un padre ispettore generale di una delle più grandi banche del Paese, e un altro nonno amministratore del manicomio di Firenze» (a Barbara Romano).
Maturità classica conseguita al liceo Berchet di Milano dove «per sostenere la prova di ginnastica ho sbattuto su un gradino e mi sono incrinato un malleolo, va da sé che quell’esame non l’ho più sostenuto. La gamba però mi faceva così male che la sera stessa mi sono dovuto ingessare» [S24 20/6/2012].
Laurea in Giurisprudenza, deve la sua passione per il giornalismo al nonno materno «che era un grandissimo lettore di giornali e un vero socialista». Prima al Giorno poi al Messaggero «di cui è stato inviato, editorialista, vicedirettore fino al 1996, quando su un titolo di prima pagina non sapevano più che pesci prendere a tarda ora il direttore Mario Pendinelli lanciava un urlo: “Chiamate Paolino”. E il titolo arrivava dopo pochi minuti» (Paola Sacchi).
«Nato e cresciuto a sinistra, orgogliosamente socialista».
Fedelissimo di Berlusconi (lo conobbe nel 1994 per un’intervista, il Cavaliere lo chiama «mia suocera»): «Non è un rapporto di lavoro quello tra me e Berlusconi, ma di affetto. Io non ho più mio padre, né mia madre. Per me lui è un fratello maggiore. Io gli voglio bene. Se mi arrabbio, lo faccio con affetto, il nostro è un rapporto tra due familiari, di stima e di fiducia».
«È la reincarnazione dell’abate Dinouart, per difendere il suo Luigi XIV ha appreso l’arte del tacere fino a sublimarla, perché tacendo non rimane mai in silenzio e neppure mente, piuttosto omette, anzi parla d’altro. Colpisce di nascosto alle caviglie il Cavaliere per frenarne la verbosità» (Francesco Verderami).
Fu molto corteggiato dal Pdl fiorentino per una candidatura a sindaco nel 2009, lui rifiutò: «È noto a tutti l’interesse di Bonaiuti alle vicende politiche della sua città, in particolare da quando c’è in ballo la storia della tramvia che lo vede in prima linea nella battaglia contro i binari in piazza del Duomo» (Simona Poli).
«La vedo sempre in tv... finalmente la incontro di persona» (Benedetto XVI a Bonaiuti durante una visita in Vaticano).
Sposato con Margherita.
Da giovane ha giocato ai cavalli. «Fino ai miei 28 anni. Ma puntare soldi sui cavalli è praticamente un lavoro. Ho smesso» (Vittorio Zincone) [Magazine, ottobre 2007].
Appassionato di Dante: «È alla base della nostra lingua, del nostro essere italiani (…) Consiglierei di far diventare testo scolastico il bellissimo cd in cui il grande Carmelo Bene recita alcuni canti della Divina Commedia: una lezione altissima» [Radio24 11/8/2009].
Collezionista di lapidi e memorabilia garibaldine.
E' morto Paolo Bonaiuti, ex portavoce di Berlusconi. Il Cav: "Piango l'amico, mi è mancato molto". La Repubblica il il 16 ottobre 2019. Fiorentino di origine, aveva 79 anni. E' stato anche parlamentare di Forza Italia e sottosegretario alla presidenza del Consiglio. E' morto Paolo Bonaiuti, giornalista ed ex portavoce di Silvio Berlusconi. Originario di Firenze, 79 anni, Bonaiuti fece diverse esperienze giornalistiche arrivando sino alla vicedirezione del Messaggero prima di assumere l'incarico a fianco del fondatore di Forza Italia. E' stato anche parlamentare e sottosegretario alla presidenza del Consiglio nei governi Berlusconi II, III e IV. "Piango, con tutti i miei collaboratori, la scomparsa del senatore Paolo Bonaiuti. A lui, che era un giornalista di successo, chiesi di diventare il mio portavoce e di accompagnarmi nella mia esperienza alla Presidenza del consiglio, dove è stato a lungo un apprezzato Sottosegretario. E' stato un collaboratore particolarmente prezioso e soprattutto un grande amico col quale ho condiviso un lungo percorso. Mi è mancato molto in questi ultimi anni e mi mancherà a maggior ragione ora che è scomparso prematuramente". Così, in una nota, Silvio Berlusconi. "Lascia un grande vuoto - scrive ancora leader di Forza Italia - in tutte le persone che gli hanno voluto bene, a partire dalla moglie Daniela alla quale mi unisco con un forte ed affettuoso abbraccio". Bonaiuti era nato a Firenze il 7 luglio 1940. Laureato in Giurisprudenza, da giovane ha insegnato inglese e ha anche lavorato nella pubblicità come copywriter. Lunghissima la sua carriera come giornalista, prima al "Giorno", poi, dal 1984 al "Messaggero", dove arriverà alla vicedirezione nel 1992, prima di diventare lo storico portavoce di Silvio Berlusconi. Nel 1996 viene eletto parlamentare nelle file di Forza Italia per la prima volta: dopo 4 legislature consecutive alla Camera, nel 2013 entra al Senato. Il 21 aprile 2014 abbandona Forza Italia ed aderisce al Nuovo Centrodestra di Angelino Alfano. Il 18 marzo 2017, con lo scioglimento del Nuovo Centrodestra, confluisce in Alternativa Popolare. "Molto addolorato per la scomparsa di Paolo Bonaiuti, è stato un gentiluomo a Palazzo Chigi", scrive subito su Twitter Filippo Sensi. Oggi deputato del Pd, Sensi ha ricoperto lo stesso incarico di portavoce del premier nel governo Renzi e in quello Gentiloni. "Sono addolorato per la scomparsa di Paolo Bonaiuti. Con lui abbiamo condiviso tante battaglie elettorali, di partito e di comunicazione. Ma soprattutto con lui abbiamo condiviso una storia politica ed umana e mi sento di dire anche una sincera amicizia. Ci mancherà'', commenta il deputato Maurizio Lupi.
L’ultima risata di Paolo Bonaiuti. Dal profilo Facebook di Marco Molendini il 17 ottobre 2019. Se ne è andato un altro pezzo di vita al Messaggero, Paolo Bonaiuti, persona sensibile, giornalista intelligente, amico vero. Abbiamo passato giornate, anni a via del Tritone ridendo, lavorando, prendendoci in giro. Quando è arrivato Paolo faceva l’inviato, veniva da Milano e dal Giorno con un gruppo di colleghi di grande valore come Vittorio Emiliani, Sergio Turone. Era un gran Messaggero. Lavoravamo in settori diversi ma ci siamo subito intesi, per comuni interessi e sensibilità. A un certo punto Paolo è diventato vicedirettore, incarico che ha svolto con discrezione e attenzione. Dal Messaggero se ne è però andato in malo modo, non per colpa sua. Sono rimasto sorpreso quando ha cominciato a lavorare con Berlusconi, perché non immaginavo che si sarebbe trovato bene, lui abituato a fare la vita comoda del giornalista, sballottolato da una parte all’altra del mondo, chiamato a qualsiasi ora del giorno e delle notte. E non me lo sarei immaginato alle prese con le brutalità della politica. Non consideravo la suggestione, la fascinazione del vivere accanto al potere. Paolo lo ha fatto, però, con discrezione, a volte perfino troppa, non ha approfittato del suo ruolo, quando tutti lo cercavano e lo chiamavano. E se ne è andato in punta di piedi quando hanno pensato che non servisse più. So che ne ha sofferto, ma la sua discrezione, il suo spirito gentile, gli ha impedito di lamentarsi. Come durante la malattia. L’ho sentito qualche giorno fa, parlava con difficoltà, ma era affettuosissimo. Sono andato a vedere su whatsapp il suo ultimo messaggio: era una risata.
Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 17 ottobre 2019. Paolo Bonaiuti, che ieri se n' è andato, era una persona amabile e molto civile; e se non suonasse inopportuno in questa circostanza, e magari anche un po' pretestuoso rispetto a una vita piena e tutto sommato felice, si potrebbe aggiungere che questa sua rara e benigna civiltà risaliva dal suo essere, nel novero dei berlusconiani, il più originale e scanzonato e in fondo, paradossalmente ma fino a un certo punto, il meno berlusconiano. Bonaiuti, che pur essendo alto e grosso molti suoi ex colleghi chiamavano affettuosamente "Paolino", aveva 79 anni; era nato a Firenze e prima di entrare stabilmente nel giro stretto del Cavaliere, sottosegretario portavoce in almeno tre governi, aveva lavorato a lungo nei giornali, al Giorno e poi soprattutto al Messaggero , viaggiando molto in Italia e all' estero. Adesso conta poco che prima del 1994 avesse simpatie socialiste e che anche dopo nutrisse un certa diffidenza nei confronti dell' imprenditore della tv sceso in politica. Berlusconi è un seduttore implacabile e fulminante, e nel 2001, tornato al governo, gli serviva uno come Bonaiuti, e insomma: lo fece suo. Per un giornalista passare dall' altra parte non è mai facile, specie quando lo si fa acquistando di colpo influenza, prestigio, cariche e potere. Indimenticabile in questo senso l' espressione incredula di Paolino inseguito da un nugolo di cronisti fin dentro le "maioliche", che sarebbero i bagni di Montecitorio. Eppure si può pensare che la curiosità più di ogni altra virtù, lo abbia preservato dal divenire, come tanti di quella corte per tanti versi sciagurata, una specie di robot in permanente estasi idolatrica. Così, avvicinandolo, si capiva subito che certo il suo ruolo era importante, a volte decisivo, ma poi per fortuna nella vita e nel mondo c' era altro: la storia, la bellezza, i sentimenti, i mosaici, i viaggi nella città più a sud del pianeta, sullo stretto di Magellano, l' oste toscano che declamava la Divina commedia, la cremolata al pistacchio del cavalier Matranga... Che poi tutto questo i giornalisti della Rai e di Mediaset trasformassero in serviziucci e marchettine da tg per far contento l' uomo più vicino a Berlusconi è un' altra faccenda, ma che ci vuoi fare? Del resto, il Cavaliere se lo teneva a fianco perché pronto, disponibile, fedele, educato, di bell'aspetto e anche galante; ma non gli dispiaceva anche perché diverso: un po' dandy, ma premuroso, dopo tutto scettico. Ciò detto, nel periodo d' oro (2001-2008) Bonaiuti ha svolto dignitosamente il mestiere più difficile perché gestire la comunicazione del Comunicatore più ingestibile del mondo comportava una pazienza e una resistenza da santo laico. I giornalisti ricorderanno certamente gli ameni siparietti per cui «è la mia suocera» diceva Berlusconi, ma pure «il mio mentore», o anche «quasi quasi lo mando via e lo sostituisco con una bella donna...», ah-ah-ah! Ma il potere è in realtà una bestiaccia crudele e in tempi di visioni a distanza, e con un leader come nessun altro abituato ad assegnare le parti facendo sembrare tutti quelli attorno a lui come dei servi, beh, insomma tra corna, spropositi, chirurgie e malattie, adulazioni e approssimazioni, crisi internazionali e miserie domestiche, si può dire che Bonaiuti è riuscito a non annullarsi nel suo ruolo, nonostante tutto - e nel "nonostante" s' annida forse il miglior encomio. Intorno al 2010, quando fu chiaro che gli scandali sessuali non erano una bagattella, ma una torva faccenda che attirava telecamere dal Brasile alla Corea, cominciò a emergere un disagio, all' inizio clandestinamente, comunque da entrambe le parti: occhi al cielo, scatti di insofferenza. A Palazzo Grazioli, dove si compilava un superfluo Mattinale, s' insediò il cerchio magico: Dudù, Francesca Pascale, con tanto di recriminazioni su preziosissimi fagiolini. Sul piano politico, lo smottamento del berlusconismo. «Di questo passo - si limitò a rimare lui con lo spirito di un Maccari o Flaiano - andremo a Patrasso». La fine, come tutte le fini, fu triste: una mattina Bonaiuti trovò la stanza occupata da Toti e i suoi scatoloni nel cortile. Detta così stride, ma passò con Alfano. Stava già male. In realtà la vita era tornata a essere più importante del potere; ora che se n' è andata tutto diventa più chiaro, e anche più lieve.
Il Bonaiuti liberale e moderato tentò di convincere Silvio a rimanere se stesso. Con la scomparsa di Paolo Bonaiuti se ne va un pezzo della storia di Forza Italia. Sandro Bondi il 18 Ottobre 2019 su Il Dubbio. Con la scomparsa di Paolo Bonaiuti se ne va un pezzo della storia di Forza Italia. Anzi, la sua vicenda personale e politica esemplifica meglio di altre il percorso del movimento fondato da Silvio Berlusconi. Il suo allontanamento da Forza Italia e dall’ex premier, cui era stato legato da oltre 18 anni di collaborazione, scaturì da problemi umani più che politici. La sua fedeltà a Berlusconi non sarebbe stata scalfita da fratture o contrasti di carattere politico. In fondo, Bonaiuti, come tanti altri, lasciò Forza Italia per aderire al movimento fondato da Angelino Alfano per restare fedele alla primigenia vocazione liberale e moderata di Forza Italia e, ancor di più, per "aiutare" Berlusconi a restare fedele a se stesso. Solo in seguito, la rottura umana nata da vicende di cui non rimarrà traccia nella grande storia ma in tante storie personali sì, divenne una rottura politica. Questo avvenne in occasione della formazione del governo Letta e successivamente di quello guidato da Renzi. Due scelte cruciali in cui si decise il futuro di Forza Italia e del nostro Paese. Da quel momento la storia di Forza Italia è segnata per sempre. Il socialista libertario e laico Bonaiuti, con la sua raffinata cultura e la sua garbata e graffiante ironia di giornalista, lo aveva capito subito. E gli rimase l’amarezza di non aver saputo convincere Berlusconi: per il suo bene.
Angelino Alfano e Silvio Berlusconi si rincontrano, l'abbraccio ai funerali di Paolo Bonaiuti. Libero Quotidiano il 18 Ottobre 2019. Nella triste occasione del funerale di Paolo Bonaiuti, Angelino Alfano ha rincontrato Silvio Berlusconi. "Mi fa piacere vederla ma mi dispiace che sia stato per questo avvenimento" ha riferito dopo l'abbraccio con il Cav. I funerali del braccio destro del leader di Forza Italia si sono tenuti alla chiesa di Sant'Ivo alla Sapienza a Roma.
Vittorio Sgarbi sbrana Angelino Alfano: "Silvio, i traditori non si baciano". Libero Quotidiano il 19 Ottobre 2019. "Silvio, i traditori non si abbracciano". Questo il ferocissimo commento su Facebook di Vittorio Sgarbi al gesto di Silvio Berlusconi, che ai funerali di Paolo Bonaiuti ha abbracciato l'ex delfino Angelino Alfano, il quale ha lasciato la politica per tornare al mestiere di avvocato. Sgarbi si riferisce al noto tradimento dell'ex ministro che lasciò Forza Italia che l'aveva cullato politicamente. Sgarbi ha sempre odiato Alfano, questo va ricordato. Da Daria Bignardi, nel 2015, aveva detto che era il peggiore politico della storia. "Alfano mi fa schifo fisicamente, sembra Frankenstein!", aveva detto. In un'altra occasione lo aveva definito un ladrone. Insomma, una grandissima stima.
Da corriere.it il 18 ottobre 2019. Si sono svolti nella chiesa di Sant’Ivo alla Sapienza i funerali di Paolo Bonaiuti, lo storico portavoce di Silvio Berlusconi e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri in tre governi del Cavaliere. A scortare il feretro la moglie Daniela, i parenti e amici più stretti, e Silvio Berlusconi appena arrivato da Perugia, Il leader di FI s’è diretto verso Angelino Alfano, che ha salutato e abbracciato. Nell’edificio del Borromini, a un passo da palazzo Madama, tante le persone arrivate a dare l’ultimo saluto a uno dei personaggi simbolo del ventennio berlusconiano: Antonio Tajani, Angelino Alfano, Gianfranco Fini, Gianni Letta, Clemente Mimun, Denis Verdini. E poi ancora Paolo Gentiloni, Pierferdinando Casini, Maurizio Sacconi, Ugo Sposetti, Luigi Zanda, Lorenzo Cesa. «Mi fa piacere vederla, ma mi spiace che sia per questa occasione»: le parole rivolte da Angelino Alfano a Berlusconi (Ansa)
· Berlusconi, Cicchitto e la cronistoria del romanzo azzurro.
(ANSA il 29 settembre 2019) - "Lega e fascisti, se non avessero noi in coalizione non vincerebbero e sicuramente sarebbero incapaci di governare. Li abbiamo legittimati e costituzionalizzati noi". Silvio Berlusconi rivendica per Forza Italia un ruolo cruciale nel destino del centrodestra e riallarga le distanze nell'alleanza di centrodestra. Tanto che Matteo Salvini in serata replica piccato: "qualcuno avvisi Berlusconi che parlare di fascismo nel 2019 non ha più senso, lo lasci fare a quelli del Pd, a Saviano a Gad Lerner. Ormai si confrontano partiti a favore degli italiani e partiti contro gli italiani, telecomandati dall'estero. Chi si allea con la Lega deve avere ben chiaro questo: prima gli italiani". Ancora più dura la reazione di Fratelli d'Italia: che "tristezza", noi siamo una "destra moderna, aperta, matura, che guarda al futuro e non al passato". Il cavaliere definisce Forza Italia "il cuore, il cervello e la spina dorsale" del fronte alternativo al "governo delle quattro sinistre", ma ammette che la sua creatura politica non può prescindere dagli strumenti comunicativi che hanno fatto la fortuna anche dei rivali-alleati, Matteo Salvini in primis: lo fa "ridere" chi posta foto "mentre mangia un panino e dice 'bacioni'", ma spiega che "le campagne in tv non bastano più" e serve "aggredire internet e i social", per rilanciare un partito che sondaggi danno "ancora all'8%". La svolta social, annunciata in un Teatro Manzoni non del tutto pieno, davanti ai 'seniores' settentrionali del partito riuniti per un convegno sulle pensioni, prevede la creazione di "troupe di giovani" in grado di comunicare FI anche attraverso internet, dove "il 67% degli italiani forma la propria opinione politica". "Per noi è incredibile ma è così", ha osservato l'ex premier, che alla vigilia dell'ottantatreesimo compleanno è rimasto sul palco oltre un'ora, con due interventi ricchi di aneddoti e barzellette, e di un velato riferimento all'indagine su di lui per la trattativa Stato-Mafia ("Avevano ancora paura di me"). Ma soprattutto di riflessioni sugli avversari dichiarati, Pd e M5s, e sulle alleanze da tarare, in una strategia per conquistare "i 7 milioni che non votano e si dichiarano moderati, liberali, di centro". "Leghisti e fascisti nel '94 noi li abbiamo fatti entrare al governo, li abbiamo legittimati e costituzionalizzati" ha rivendicato Berlusconi convinto della centralità di FI nell'asse con il Carroccio e FdI, con cui "siamo alleati ma ben diversi": "Senza noi in coalizione non sarebbero centrodestra, ma una destra estremista. Il centrodestra deve esistere per il bene del Paese. Ma siamo distinti, non siamo populisti, sovranisti, non siamo arroganti né incolti. Abbiamo studiato e lavorato, in Italia siamo i garanti della tradizione occidentale, liberale, democratica, cristiana, garantista". Per il leader azzurro "il sovranismo è una bufala da mettere da parte, è un'idea stupida e stupido è chi ci crede", e a chi pensa che la Lega stia svuotando FI ha replicato: "Non è vero, i nostri potenziali elettori sono delusi e disgustati dalla politica che non vanno più a votare". Allo stesso modo assicura di non temere le fuoriuscite verso Italia Viva. " La prossima sfida è alle Regionali, dove "il centrodestra unito può vincere anche nelle regioni rosse", ma l'ex premier guarda anche alle politiche, "non a breve perché quelli si sono incollati alla poltrona". Alla platea del Manzoni promette seniores candidati in ogni regione e poi un ministero della terza età.
Vittorio Feltri, gli auguri a Silvio Berlusconi: "Quanti errori, ma sei un grande". Libero Quotidiano il 29 Settembre 2019. Silvio Berlusconi compie oggi 83 anni, tanti eppure non sufficienti a immobilizzarlo sulla poltrona. È ancora talmente vivo che la magistratura, composta da gente perbene che spesso agisce male per divertirsi, ancora non ha smesso di accusarlo di tutto e di più, persino di aver tentato di uccidere la sua gallina dalle uova d' oro, Maurizio Costanzo. Le toghe non si accaniscono su di lui per cattiveria, bensì per sfizio. Di questo tema hanno scritto tutti i quotidiani, per cui ci asteniamo dalle chiose. Piuttosto commemoriamo il Cavaliere senza cavallo per informarlo che, nonostante le nefandezze che gli hanno attribuito, noi gli siamo grati per ciò che ha realizzato. In primis, per aver sconfitto nel 1994 i comunisti e la loro gioiosa macchina da guerra, anzi del cazzo, la quale ora arranca a braccetto dei cinquestelle offuscati dalla loro pochezza culturale e intellettuale. Silvio ovviamente ha commesso parecchi errori, ma chi se ne frega?! Gli sono comunque riconoscente per avermi assunto al Giornale al fine di sostituire il mostro sacro, Indro Montanelli, consentendomi di attuare un miracolo con l' assistenza di Sanculo, ovvero di raddoppiare le vendite dello storico foglio. Ciò mi ha garantito stipendi favolosi che mi hanno affrancato definitivamente dalla miseria. Sono trascorsi una ventina di anni da quell' epoca gloriosa e sono tuttora memore della sua generosità. Ciò mi impedisce di criticare Berlusconi, benché ne abbia una voglia matta. Sì perché l' uomo di puttanate ne ha inanellate una serie impressionante, tra cui quella di essersi contornato di imbecilli coi fiocchi che hanno distrutto Forza Italia, come si evince dai sondaggi più attuali. Non faccio nomi perché allo scopo di trascriverli tutti dovrei occupare la totalità delle pagine di Libero. Al di là di questi dettagli, mi preme ricordare che Berlusconi è stato ed è un fenomeno inimitabile. Ha creato un impero vastissimo e ricco ed è per codesta ragione, probabilmente, che lo hanno combattuto con ogni mezzo, specialmente vile. Gli hanno affibbiato l' etichetta del delinquente senza avere in mano lo straccio di una prova e neppure di un indizio. Lo hanno condannato quale capo di Mediaset quando invece non era più in azienda ma a Palazzo Chigi. Lo hanno tacciato di essere mafioso, lui milanese, che non mai visto neanche una puntata della «Piovra» poiché gli faceva schifo. Silvio è abile, non mascalzone. Quando chiacchieravo con lui di questioni finanziarie legate al Giornale non mi lasciava finire di pronunciare tre parole che già aveva compreso la faccenda e mi interrompeva. Così: «Feltri, lo so». Come facesse ad averlo capito è un mistero. Naturalmente era troppo intelligente perfino per me che mi do arie di essere dritto. Oggi gli auguro buon compleanno e ribadisco di essergli obbligato a livello personale e pure come italiano. Grande Silvio, ti abbraccio. E se penso alla tua passione per la figa mi viene da ridere. Essa piace anche a me ma non ne ricordo il motivo. riproduzione riservata. di Vittorio Feltri
Aldo Grasso per il Corriere della Sera il 15 settembre 2019. Edipo a Cologno. In Lombardia sette consiglieri di Forza Italia sono pronti a entrare in «Cambiamo!», il neopartito fondato dal governatore ligure Giovanni Toti. «Cosa resta del padre?», si chiederebbe Massimo Recalcati, citando Freud e Lacan. Cosa resta di Silvio Berlusconi, dopo che i «figli» che ha cresciuto lo stanno abbandonando? È vero che nel percorso di crescita non può non esserci conflitto ed Edipo è la rappresentazione simbolica dell’uccisione del padre, ma qui siamo a un cruento rituale collettivo. Tu quoque, Toti, fili mi? Al cospetto di ogni verità un’angoscia segreta ci pervade. Sotto le antenne Mediaset di Cologno Monzese si sta consumando un «parricidio primordiale» con sgrammaticature fuori controllo. Paolo Del Debbio, altro «figlio» di Berlusconi, da tempo conduce in video battaglie sovraniste in favore di Matteo Salvini. Così come Mario Giordano, ormai in pieno trip berciante: «Le ruspe sono le cose più umane che ci siano». A un certo punto, persino Fedele Confalonieri si è accorto che il tracollo di Forza Italia è avvenuto anche grazie ai programmi populisti di Maurizio Belpietro, Del Debbio e Giordano. E ha pronunciato la famosa frase: «Stiamo portando i vasi a Samo». Mediaset è servita alla creazione di Forza Italia, Mediaset sta immolando Forza Italia? La riconoscenza non abita a Samo, provincia di Cologno.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” l'1 ottobre 2019. Domenica scorsa Silvio Berlusconi ha compiuto 83 anni. Mi piace ricordare i miei rapporti con lui utilizzando un capitolo del libro "Il Borghese" (Mondadori) firmato da me. Nel brano che segue parlo anche di Montanelli, perché la storia dei due personaggi è intrecciata. Nel 1989 assunsi la direzione del settimanale L'Europeo. Volevo prendere come vice Scarpino, ma io non avrei potuto portarlo via a Il Giornale senza confrontarmi con il suo direttore. Allora incontrai Indro, manifestandogli questo mio desiderio. Montanelli acconsentì e il giornalista cosentino, stimato tanto da Indro, passò a L'Europeo. Già dopo due anni iniziai ad avvertire il desiderio di cambiare, fui preso dalla mia frenesia. Avevo portato il settimanale da 78 mila a 130 mila copie, ora volevo nuove sfide. Puntualissima arrivò la proposta di dirigere L'Indipendente, che versava in una grave crisi. Nel 1992 lo presi e lo rivoltai tutto. A L'Europeo rimase Scarpino, che dopo qualche mese andò a lavorare come caporedattore a Rete4 con Emilio Fede. In quel periodo continuavo a sentire e a vedere ogni tanto Indro. Ricordo la sua Lancia Thema blu, con la quale dopo il nostro pranzo mi faceva accompagnare dall'autista ovunque avessi bisogno di recarmi. Non era una macchina di lusso, ed appariva anche un po' consumata. Montanelli non era uno che badava alle frivolezze. Tuttavia, curava con precisione il suo aspetto, era sempre vestito bene, un po' britannico, indossava camicie a quadri, dolcevita, e zoppicava perché era stato colpito dalle brigate rosse alle gambe. La sua gentilezza era addirittura estrema. Ma io non sono gentile e con L'Indipendente, che diventò in brevissimo tempo da malato terminale a quotidiano di successo, gli andai nel culo: da 15 mila copie lo portai oltre le 120 mila, creando serie difficoltà alla concorrenza. Superai Il Giornale. Montanelli se ne infischiava delle vendite, ma stava attento. Nell'aprile del '93 ricevetti la chiamata di Silvio Berlusconi. Ancora non si parlava del lancio in politica e Forza Italia non esisteva. Dirigeva allora l'ufficio stampa dell'imprenditore un giornalista con cui avevo lavorato a Il Corriere, Giovanni Belingardi, amico mio carissimo. Fu lui a contattarmi informandomi che Berlusconi desiderava incontrarmi. Non avevo motivo di rifiutare l'invito. Giovanni venne a prendermi in ufficio per portarmi ad Arcore. Mi lasciò davanti al cancello e andò via. «Il signore in questo momento si trova in giardino, sta accompagnando Gianni Agnelli all'elicottero. Se si incammina per questo vialetto, vi incrocerete», mi comunicò il maggiordomo appena varcata la soglia della residenza. E fu proprio lì che ci vedemmo per la prima volta, su quel vialetto. L'imprenditore mi venne incontro e mi salutò in modo cordiale, quasi affettuoso. Era giovane, gentilissimo ed energico. Avevo davanti a me un uomo semplice. Non provavo soggezione. Non ho avuto alcuna palpitazione. Mi interessava capire soltanto cosa egli volesse da me. Durante il pranzo piovvero le proposte.
LA CONDIZIONE. Berlusconi mi chiese innanzitutto cosa ne pensassi di un mio passaggio a Il Giornale in qualità di direttore. Non nascosi di essere attratto da questa ipotesi, sostituire Montanelli mi attizzava. Ma aggiunsi anche che io stavo alla grande lì dove mi trovavo. L'Indipendente andava molto bene e le mie entrate erano soddisfacenti. Sottolineai, infine, che fintanto che Montanelli fosse stato alla guida de Il Giornale io non avrei mai osato scavalcarlo e che solo nel caso in cui Indro avesse deciso di abbandonare il timone per motivi suoi, io sarei stato interessato ad un mio passaggio al quotidiano di via Negri. Berlusconi la prese bene. Non è un tipo che si scompone. Dopo il nostro primo incontro il futuro leader di Forza Italia mi chiamava spesso per farmi i complimenti per i miei titoli o i miei pezzi, mi diceva che il mio giornale gli piaceva molto. In occasione del ferragosto di quello stesso anno, il '93, fui invitato da Silvio a pranzo, sempre ad Arcore. «Mi trattengo a Milano per lavoro e sono da solo, porti anche sua moglie ed i suoi figli», mi pregò l'imprenditore. Mi presentai lì non accompagnato. A tavola questa volta Berlusconi si fece più insistente. «Venga da me, le affido la direzione di Canale 5», mi disse. Io non avevo mai fatto televisione, avevo alle spalle solamente qualche piccola esperienza in codesto ambito, sono un giornalista della carta. Berlusconi mi fornì il nome ed il numero di un suo amministratore, un certo ingegnere Spingardi, augurandosi che potessimo raggiungere un accordo fissando un compenso. Insomma, l'uomo mi voleva a tutti i costi. Incontrai Spingardi, più per farlo contento che per negoziare, infatti la trattativa non andò in porto. Influì sull'esito infausto anche la reciproca antipatia tra me e questo amministratore.
LA DIATRIBA. Nei mesi successivi la stampa ci diede dentro con la diatriba infocata tra Montanelli e Berlusconi. Il primo non accettava che il secondo avesse fondato un partito. Indro era incazzato nero, poiché aveva capito che il suo giornale sarebbe diventato un organo di partito. Si mormorava che Montanelli avesse intenzione di mollare la presa. Agli inizi di dicembre di quello stesso anno, il '93, Berlusconi mi telefonò per chiedermi un consiglio. «Non so a chi affidare il partito, che ne pensa di Mariotto Segni?», mi chiese. «Mi sembra flaccido», osservai. «E Mino Martinazzoli come lo vede?», proseguì. «Anche peggio. Mino, lumino cimiteriale, è una specie di agente mortuario», risposi. Berlusconi rideva e mi ascoltava. Ad un certo punto incalzò: «Insomma, Feltri, lei chi metterebbe a capo di Forza Italia?». «Metterei Silvio Berlusconi. Perché, quando ero direttore de L'Europeo feci fare un sondaggio al fine di sapere quale fosse il cittadino più ammirato d'Italia e al primo posto risultò lei. Se decide di entrare in politica, il partito deve dirigerlo lei, altrimenti lasci perdere», conclusi. Sospetto di avere fornito a Forza Italia non solo il leader, ma persino il nome. Negli anni '80 io, Walter Zenga e Nicola Forcignanò conducevamo un programma televisivo che si chiamava Forza Italia, trasmesso sull'emittente di Tanzi. Berlusconi premeva e mi chiedeva in modo sempre più incalzante di andare a Il Giornale. Ci fu un altro incontro, ancora una volta ad Arcore. «Ok, vengo al Giornale», dichiarai dopo estenuanti tentativi di convincimento. Le condizioni erano cambiate rispetto ai mesi precedenti. Montanelli stava andando via. Era deciso. «Quando Indro toglierà le tende, ammesso che ciò accada effettivamente, io accetterò di prenderne il posto. Di sicuro non verrò lì a dargli una gomitata», specificai. E, in effetti, Montanelli, sicuramente messo a dura prova da un Berlusconi che voleva scaricarlo, abbandonò il quotidiano da lui stesso fondato. Dimessosi, il posto per pochi giorni restò vacante. Nel mentre prese avvio la trattativa riguardante la mia assunzione. A L'Indipendente guadagnavo mezzo miliardo l'anno, ecco perché mi misi a ridere allorché i dirigenti de Il Giornale, nel corso di un colloquio, mi offrirono 600 milioni. Li mandai a quel paese senza esitazioni. Già non ero molto eccitato al pensiero di lasciare un quotidiano che vendeva molte copie, inoltre mi veniva proposto di farlo per 100 milioni in più. «Se vi serve un cretino, ce ne sono in giro tanti. Se avete bisogno di un direttore, io sono ancora per poco disponibile», dissi rivolgendomi a tutti i presenti, incluso Paolo Berlusconi. Poi lasciai la stanza. Davanti all'ascensore fui recuperato e riportato dentro.
IL COMPENSO. A quel punto mi offrirono 800 milioni e, per convincermi ad accettare, mi proposero un compenso anche per le copie vendute. Insomma, più avrei recuperato lettori più avrei incrementato i miei guadagni. Una bella sfida, che colsi al volo. Già dopo pochi giorni vendevo 30 mila copie in più. I pranzi con Montanelli si interruppero. Non sentivo di averlo usurpato. Non appena presi la direzione de Il Giornale uscì il mio primo articolo, quello di saluto ai lettori. Il giorno successivo, tra le 10:30 e le 11, ricevetti la telefonata di Indro. Parlava in modo pacato e sicuro, come sempre. Nella sua intonazione nessun accenno di rancore o di rabbia: «Vittorio, ti faccio gli auguri ora che sei diventato il mio successore, ho letto il tuo articolo di fondo e devo dire che mi è molto piaciuto. Mi secca solo di non averlo firmato io». Restai sbalordito ancora una volta dalla sua gentilezza. Montanelli era un vero signore. Nelle sue parole percepivo affetto. Forse voleva togliermi dall'imbarazzo. Quanta delicatezza! Il Giornale andava abbastanza bene quando esordì il nuovo quotidiano fondato da Montanelli La Voce, che vendette da subito la bellezza di 500 mila copie. Tuttavia, io ero tranquillo. Avevo studiato bene quel giornale e lo vedevo brutto. Non avevo nessun timore. Sapevo che La Voce sarebbe stata una meteora. Scintillante all' inizio e dalla vita breve. Infatti, durò solamente un anno. Da 115 mila copie a gennaio del '94, Il Giornale superò le 200 mila a fine luglio. Indro mi portò via una cinquantina di giornalisti, tra cui Beppe Severgnini, sebbene di lui mi dicesse «Beppe è soltanto cipria», Marco Travaglio, Mario Cervi, e tanti altri.
«LA VOCE» CHIUDE. Dopo un anno dalla sua uscita, La Voce vendeva 30 mila copie o 40. Il giorno in cui chiuse io mi trovavo a Santa Margherita Ligure. Appresa la notizia, feci fare 10 righe sulla prima pagina, una colonna, per rispetto, al fine di informare i lettori che il giornale di Indro aveva terminato le pubblicazioni. Neanche una parola di commento. Non avrebbe avuto senso infierire. Rientrato a Milano, il giorno seguente, mi chiamò Montanelli per chiedermi di vederci. Ci incontrammo in un ristorante di corso Venezia, Santini. Mi appariva quasi stanco, ma sereno. «Ho dovuto chiudere il giornale. Aiutami, vorrei che tu riprendessi con te queste persone», e mi fece il nome di alcuni giornalisti. «Se posso, Indro, lo faccio più che volentieri», risposi. E, in effetti, ne feci assumere qualcuno. Mi segnalò Cervi, che reintegrai subito. Iniziò così una nuova fase di frequentazione tra me e Montanelli, che tornò a Il Corriere come editorialista. Non seppi mai cosa Indro pensasse di me dalle sue labbra. Lo appresi leggendo Panorama, dove io peraltro in quel periodo curavo una rubrica di opinione e rispondevo ai lettori. Intervistato dal settimanale, al fondatore del giornale che io dirigevo fu chiesto se fosse vero ciò che si diceva, ossia che io fossi un suo allievo. «Questo non lo posso dire, ma da come scrive sento che è un mio parente», fu la sua risposta. E poi: «De Il Giornale cosa ne pensa?». «È come avere un figlio drogato», dichiarò gelido ed ironico Indro. Montanelli mi accusò di cavalcare il peggio della borghesia italiana, cosa che aveva fatto pure lui. Ciò che gli era sfuggito era semplicemente il fatto che era la borghesia ad essere cambiata. Io l'avevo seguita. Lasciato Il Giornale, fui invitato a cena a casa sua. «Avevi ragione tu, Indro, quando andasti via da via Negri. Sono stato lì quattro anni e mi sono davvero rotto i coglioni», gli confessai. Montanelli scoppiò a ridere. «Perché hai mollato?», mi domandò. «Ero stufo e, siccome avevo una cospicua liquidazione da riscuotere, ho sloggiato più volentieri», spiegai. Ridevamo come matti. Lo divertiva il fatto che avessi strappato una bella vagonata di soldi, lui non era bravo a trattare con il denaro. Io, invece, quando c'è da riscuotere divento ancora più tignoso ed incazzato. Dopo qualche mese decisi di fondare Libero e la notizia venne diffusa. Mi trovavo a pranzo con Renato Farina al ristorante Il Porto quando nel tavolo in fondo alla sala vidi Montanelli, il quale si alzò e mi raggiunse. «Noto che non fai più parte del mio club, quello dei magri, hai messo su qualche chilo, caro Vittorio», poi aggiunse: «Tu, a differenza mia, sai fare bene i conti, ce la farai con il tuo Libero». E poi la rottura. In diretta tv. Durante una trasmissione condotta da Santoro, Raggio Verde, in onda su Rai2, ci fu un' accesa discussione tra me e Indro. Era presente anche Travaglio. Era il marzo del 2001. Non ci chiarimmo mai più. Indro morì. Mi dispiace non averci parlato, ma, in fondo, non c' era nulla da chiarire. Avevo ragione io. Indro era andato via incazzato da Il Giornale perché Berlusconi si era gettato a capofitto nell' agone politico, io comprendevo le sue paure e ragioni, tuttavia il modo che utilizzava per criticarlo era ingiusto. Sosteneva che il leader di FI fosse un fascista, un despota, un pericolo per la democrazia, un manganellatore. «Caro Indro, per vent'anni hai sempre affermato che Berlusconi fosse il migliore editore che tu avessi mai potuto immaginare di avere, perché non ha rotto mai le palle. Ad un certo punto, da un giorno all' altro, hai capovolto la tua opinione, dipingendo l'uomo come una sorta di mostro», gli dicevo. Il punto è che Indro era convinto che Berlusconi fosse il proprietario del suo giornale e lui il padrone assoluto. Ma il proprietario, se non gli vai più a genio, ti caccia. È una realtà schifosa, ma questa è. Siamo tutti liberi, certo. I giornalisti italiani sono i più liberi di attaccare l'asino dove vuole il padrone. Indro però non aveva torto, non sopportava che arrivasse qualcuno, quantunque fosse colui che mette il grano, a dettare legge imponendogli una certa linea, che magari avrebbe seguito di sua spontanea volontà se non fosse stata l'unica strada permessa. Devo ammettere che io andai via da Il Giornale poiché mi ero rotto le scatole delle pressioni ricevute non da Berlusconi ma dagli ominicchi del suo partito, che davano per scontato che il quotidiano che io dirigevo fosse al loro servizio. Di Montanelli restano gli insegnamenti. Mi sembra ancora di sentirlo e non c' è mattina in cui io, giunto in redazione, non ripensi a queste parole: «Caro Vittorio, quando fai un giornale, devi sempre tenere presente che alla gente non interessano molto gli spiccioli della politica, per cui devi fare due articoli di fondo alternati, di cui uno contro un personaggio politico importante, ed il titolo deve essere "testa di cazzo". Se invece fai un pezzo sull' Italia, il titolo deve essere "Paese di merda". Questa è la tecnica migliore». E come un' eco si aggiunge Gaetano Afeltra: «Vittorio, ricordati sempre la regola delle tre "s", sesso, sangue e soldi. E, infine, uno schizzo di merda qua e uno là». Certe persone restano per sempre, persino quando non ci sono più.
FORZA ITALIA? UN AFFARE DI FAMIGLIA. Vittorio Amato per Adnkronos il 13 settembre 2019. Forza Italia resta sempre una 'questione di famiglia'. Quando non ci pensa il fondatore Silvio Berlusconi in prima persona (dal 2014 ha sborsato di tasca propria quasi 100milioni di euro), ci sono le sue aziende o i familiari a rimpinguare le casse del partito. Due mesi fa la Fininvest ha staccato un assegno di 100mila euro, confermandosi il principale 'finanziatore' del movimento nato nel '94. Spulciando 'l'elenco dei contributi' percepiti da Fi dal 31 gennaio 2019 ad oggi e resi pubblici in base alla cosiddetta legge spazza corrotti, spicca, infatti, l'obolo versato il 15 luglio scorso dal gruppo del Biscione, per l'esattezza dalla 'Finanziaria d'investimento Fininvest spa' con sede a Roma, in Largo del Nazareno. Sempre Fininvest, due anni fa, aveva donato la stessa cifra (sotto forma di 'libera contribuzione da persone giuridiche'), come certificato dall'ultimo bilancio forzista, quello chiuso il 31 dicembre 2018 e pubblicato il giugno scorso. Quest'anno, in soccorso delle finanze azzurre è arrivato pure Paolo Berlusconi, fratello dell'ex premier, che l'8 maggio scorso ha offerto 100 mila euro. Ancora una volta, con 200 mila euro in totale, la famiglia del Cav "contribuisce alla causa". Solo lunedì scorso, alla riunione dei suoi gruppi, si era lamentato dei costi della politica: ''Prima i soldi li mettevo tutti io per finanziare Fi, poi, quando hanno fatto una nuova legge che ha imposto il tetto di 100mila euro, ci hanno pensato i miei figli e il mio amico Ennio Doris...''. Tra gli azzurri, c'è chi ha interpretato il recente 'contributo familiare' non solo come il modo (di fatto l'unico) per ripianare i debiti accumulati dal partito, ma anche come un segnale positivo, ovvero la dimostrazione che Berlusconi non abbia nessuna intenzione di rinunciare al suo storico brand, ma sia un segnale modo per rilanciare. Non a caso, ora che si è insediato il Conte bis, il leader azzurro non perde occasione per rimarcare le differenze dalla destra sovranista di Salvini-Meloni, ricordando agli alleati Lega-Fdi che senza Fi e un centrodestra unito si perde dappertutto. Nella lista dei "finanziatori" Forza Italia figurano anche nomi di rilievo del mondo imprenditoriale del settore alimentare: big del vino, come la piemontese "Fratelli Martini Secondo Luigi spa" (20 mila euro il suo contributo), tra le maggiori aziende vinicole italiane a conduzione familiare, nota per i suoi spumanti con i marchi di punta, Casa Sant'Orsola e Canti. C'è pure la regina del tartufo, Olga, una delle eredi della "Urbani Tartufi srl", del gruppo omonimo, leader mondiale della produzione del pregiato tubero, che controlla circa il 70 per cento del mercato globale: la società di Sant'Anatolia Di Narco, in provincia di Perugia, il 9 maggio scorso ha fatto un versamento di 3 mila euro. Consistente pure la "donazione" di Confagricoltura: 25 mila euro accreditati il 24 maggio scorso. Vanno segnalate poi la 'Grafica Veneta spa' con socio unico di Trebaseleghe (Padova) che ha sborsato 10mila 400 euro (il 7 maggio) ; la "Nuovo Molino Di Assisi srl" di Bastia Umbra, del gruppo Grigi produttore di mangimi, 5mila euro). A completare il quadro: la srl di Roma "Ciemme Hospital" ( 5mila euro) e la "Rsa Viterbo S.r.l" (1500 euro).
Morte e resurrezione di Silvio Berlusconi. Ad un passo dal baratro il leader di Forza Italia si è ripreso un ruolo importante nel centrodestra. Carlo Puca il 29 agosto 2019 su Panorama. Era una domenica, l’11 agosto 2019. Quel giorno la parabola di Forza Italia e di Silvio Berlusconi è stata a un passo dalla fine ingloriosa. Superato il grande spavento, soltanto ora lo staff del Cavaliere lascia trapelare indiscrezioni, prima segrete, sulle circostanze che hanno cambiato la storia del partito e della legislatura. I fatti. Quarant’otto ore prima, il 9 agosto, Matteo Salvini aveva detto che alle elezioni sarebbe andato da solo, senza alleato alcuno, annunciando una potenziale ecatombe di eletti per il partito azzurro. Su quel discorso si era infilato l’altro Matteo (Renzi) proponendo un governo di legislatura in chiave anti-salviniana. I più disponibili, va da sé, si erano dimostrati i forzisti, soprattutto senatori, già pronti al salto della quaglia pur di allungarsi la vita e lo stipendio da parlamentare. Su un gruppo di 62 eletti, c’è chi ha contato appena 17 fedelissimi al Cavaliere. Indotti dai «carfagnani», i seguaci di Mara Carfagna, altri 25 erano pronti a buttarsi sul renzismo, una ventina titubavano invece tra i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, il Cambiamo dello scissionista Giovanni Toti e lo stesso Renzi. Berlusconi ha intuito di dover intervenire, e anche presto. Domenica 11 ha riunito, di persona o via telefono, una piccola «war room» di fedelissimi. C’erano l’europarlamentare Antonio Tajani, il coordinatore dei gruppi parlamentari italiani Giorgio Mulè, le capogruppo di Camera e Senato (Maria Stella Gelmini e Annamaria Bernini), la senatrice Licia Ronzulli, che gode di un rapporto diretto e privilegiato con Salvini. Bernini e Gelmini hanno messo sull’avviso i naviganti: «Rischiamo il fuggi fuggi generale». Nella riunione si è pure ipotizzato di assecondare la linea di Gianni Letta, aperturista con Renzi, una linea alla quale si sono decisamente opposti Mulè e Ronzulli. Fino a che i due non hanno indicato un escamotage tattico: far presente a Salvini che senza una decisa rassicurazione ai parlamentari di Forza Italia, Renzi sarebbe riuscito a dar vita a un governo con numeri importanti. Il risultato? Siccome Salvini detesta Renzi (ma ne teme anche l’appeal sul Palazzo), la sera stessa - per la precisione a Catania, durante il suo beach tour - ha cambiato decisamente strada, annunciando che dal giorno successivo avrebbe lavorato per ricostituire il centrodestra classico. Non solo. Lunedì 12, intervistato dal direttore Alessandro Sallusti, il leader del Carroccio è uscito con un’intervista a tutta pagina sul Giornale berlusconiano per garantire che Lega, FI e FdI sarebbero andati insieme alle elezioni. In un sol colpo la mossa di Salvini ha spiazzato Renzi e Carfagna in primis, costretti a rinunciare - almeno per ora - al sogno di «grande centro» alternativo a destra e sinistra. Ma ha messo in difficoltà anche Toti, diventato improvvisamente meno attrattivo per i peones azzurri, e Meloni, che aveva teorizzato un’alleanza esclusiva tra Lega e Fratelli d’Italia. Infatti la corsa degli scissionisti verso Cambiamo e FdI si è improvvisamente arrestata. Nonostante le smentite di rito, dovute alla necessità contingenti, Berlusconi ha rassicurato Salvini pure su un altro punto decisivo: a giochi fatti, cioè poco prima di presentare le liste elettorali, troverà il modo di nascondere il brand Forza Italia in un contenitore diverso. Si tratta di un piccolo sacrificio a fronte dell’enorme vantaggio di rientrare nel pieno del gioco politico-elettorale. Anche perché, con i sondaggi riservati che ha in mano (e ha girato pure a Salvini), la coalizione a tre conquisterebbe la stragrande maggioranza dei collegi uninominali, lasciando a 5 Stelle e Pd appena sei seggi a testa. Insomma, c’è posto per tutti. Anche per Carfagna. Nonostante le continue ribellioni, Berlusconi continua a considerarla un’importante risorsa politica ed elettorale, grazie alla sua popolarità al Sud (dove Salvini è meno forte) e al gruppo di parlamentari portatori di voti che guida. Certo, c’è da far digerire ai fedelissimi del Cavaliere alcuni atteggiamenti non proprio gentili. Anche qui conta un giorno in particolare, il 1° agosto 2019. Berlusconi si era deciso a nominare Carfagna coordinatrice unica di Forza Italia a danno di Toti. Ma poche ore prima dell’ufficializzazione, la vicepresidente della Camera si sarebbe spinta a trattare malissimo Tajani davanti a diversi testimoni. A quel punto Tajani ha chiamato Berlusconi dicendo testuale: «O me o lei». E quindi niente nomina a coordinatrice e sostituzione con un Coordinamento di presidenza costituito da Bernini, Gelmini, Tajani, Sestino Giacomoni e nel quale Carfagna si è rifiutata di entrare. Senza uscire da Forza Italia. Non conviene a nessuno, ora. Nemmeno a lei.
Ilaria Proietti per “il Fatto Quotidiano” il 31 agosto 2019. In fondo gli ha sempre voluto bene. Ma l'ex Cavaliere non vuol vederlo più neanche in cartolina. Anzi di più: perché ogni volta che Giovanni Toti lo attacca, a Silvio Berlusconi vengono le bolle. Peggio che al dottor Silvano Baracchi alias Renato Pozzetto in Sette chili in sette giorni che dava di matto quando sorprendeva il bambino Paolone a rubare in dispensa, nonostante lo avesse messo a dieta stretta. Ora B. non fa il medico e mai uscirà dalla sua bocca un "mi fa incazzare" liberatorio: vorrebbe dimenticarlo, ma non può. Perché Giovannino Toti insiste a prenderlo di petto e a tentare di fare le scarpe a B. nella speranza di rosicchiarne boccone dopo boccone l'elettorato. Anche se pure per lui, ora che con Berlusconi sembra finita per sempre, è tutta in salita. Quanto lo sapremo a breve. Perché il governatore se ne è andato da Forza Italia sbattendo la porta a inizio agosto. Per fondare un partito tutto suo, apertamente filoleghista, data la difficoltà di convertire al verbo salviniano la ditta azzurra. E questo pochi giorni prima della disfatta del "Capitano" che, all'apice del successo politico ha mandato all' aria l' alleanza con il Movimento 5 Stelle non riuscendo però ad andare all' incasso delle elezioni anticipate. Livido per i 3 anni e mezzo circa che lo aspettano ai banchi dell'opposizione, Salvini ora non pensa ad altro che a ottenere la rivincita. E non ha certo modo né voglia di rassicurare quanti si sono nel frattempo agganciati al suo carro che però scalpitano come non mai. Il primo di tutti è proprio Toti che però non può starsene con le mani in mano: per far conoscere la sua creatura che ha battezzato "Cambiamo! " (in aperta polemica con Forza Italia, refrattaria a ogni discontinuità con il passato e quindi, a suo dire, destinata a morte certa), ha organizzato un tour che partirà da Matera, Basilicata, il prossimo 2 settembre. Ma nel frattempo è già costretto ad allontanare il dubbio peggiore: che il suo partito sia nato già morto prima ancora di essersi misurato almeno una volta alle urne. "Siamo sicuri di fare un buon risultato, ma al momento quel buon risultato non è all' orizzonte visto che in questo Paese non si voterà. Io trovo che i partiti morti nel centrodestra siano francamente altri e che si siano auto-condannati per suicidio, dal momento che hanno perso elezioni su elezioni e hanno cercato di non cambiare niente" ha detto ieri. Ovviamente sempre all' indirizzo della sua ex casa madre forzista che dopo mesi e mesi di fastidio più che di tolleranza nei confronti dei suoi tira-e-molla, ha usato la clava. I totiani sono stati fatti tutti decadere dagli incarichi di partito e rischiano pure l' espulsione se non se ne andranno spontaneamente. Nel frattempo Toti non si perde d' animo. E rilancia sulle prossime regionali dove spera di poter giocare un ruolo e magari addirittura sostituire Forza Italia nella coalizione con Carroccio e Fratelli D' Italia. E allora che fa "Paolone" Toti? Annuncia non solo la partecipazione alle elezioni del 27 ottobre in Umbria, ma pure l' appoggio alla candidata presidente della Lega Donatella Tesei che, Forza Italia permettendo, se eletta avrebbe come vice Marco Squarta di Fratelli d' Italia. Ma il governatore ligure non ha neppure la certezza di potersi sedere al tavolo con gli alleati dato il veto di B. sul suo ex consigliere per non dire delfino. "Toti che cos' è? È un partito, una lista civica? Non ci siamo posti il problema" taglia corto Antonio Tajani che appena terminate le consultazioni con il premier incaricato Giuseppe Conte, ha la testa altrove. Certamente non al perimetro dell' alleanza a cui vorrebbe partecipare il governatore, che in cuor suo sperava di incontrare già lunedì Matteo e Giorgia anche per mettere al sicuro la sua ricandidatura in Liguria nel 2020. Che però lo rimbalzano.
Berlusconi lancia "Altra Italia": «È una federazione di centro». Pubblicato mercoledì, 31 luglio 2019 su Corriere.it. «Credo sia giunto il momento di chiamare a raccolta tutti i soggetti, i singoli cittadini che fanno parte di questa "Altra Italia", le realtà organizzate, le forze politiche, gli amministratori locali, le associazioni, le realtà civiche che avvertono questo vuoto». È questo l'appello rivolto da Silvio Berlusconi, dopo aver analizzato la situazione politica. «Non si tratta di fondare un nuovo partito — ha chiarito il leader di Forza Italia —, ma di creare una federazione fra i soggetti che pensano a un nuovo centro moderato ma innovativo, nettamente alternativo alla sinistra, saldamente ancorato alle idee e ai valori liberali e cristiani, alla tradizione democratica e garantista della civiltà occidentale, in prospettiva alleato ma non subordinato alle altre forze del centro-destra». Berlusconi ha confermato la necessità di un rinnovamento di Forza Italia, sottolineando come «avendo avuto il privilegio di guidare il mio Paese per quasi dieci anni, e di rappresentarlo oggi in Europa, sento il dovere di mettere a disposizione la mia esperienza, la mia competenza, le mie capacità di imprenditore e di uomo di Stato per chiamare a raccolta gli italiani che non si riconoscono in questa situazione».
Silvio Berlusconi, il blitz del "partito di Arcore": così ha tradito la promessa fatta a Mara Carfagna. Libero Quotidiano il 2 Agosto 2019. Una giornata drammatica, quella di giovedì 1 agosto, per Forza Italia. Dopo l'annuncio del lancio de L'altra Italia, il summit in cui Silvio Berlusconi dice sì alle primarie, ma solo per gli iscritti, e soprattutto nomina un nuovo ufficio di coordinamento accostato da Mara Carfagna all'"ufficio liquidazione" del partito. Giovanni Toti a strettissimo giro di posta ha annunciato l'addio agli azzurri; la Carfagna da par suo ha speso parole durissime contro il leader e le sue scelte, semplicemente come non era mai avvenuto in passato. Questo, di fatto, l'epilogo della battaglia durata mesi tra il governatore ligure e Berlusconi. Ma come mai, dopo le iniziali aperture, Berlusconi ha scelto di chiudere alle richieste di Toti e di chi, come la Carfagna, pur con toni più soft invocava il rinnovamento? Una risposta arriva da un retroscena pubblicato su Il Tempo. Chi è vicino a Toti sostiene che il Cav sia stato "malconsigliato". I fedelissimi del leader, "il partito di Arcore" così come lo chiama il quotidiano capitolino, dice invece che la scelta è avvenuta in totale autonomia. Il Tempo, però, mette insieme una serie di tappe. E si legge: "Martedì, in una riunione che si sarebbe tenuta ad Arcore (partecipanti Tajani, Bernini, Gelmini, Ronzulli, Ghedini) si sarebbe deciso lo stop a quell'iniziativa che il Cavaliere aveva in animo (e pare avesse assicurato alla diretta interessata), ossia fare di Mara Carfagna coordinatrice unica in caso di uscita di Toti. E poi l'altroieri pomeriggio, con il lancio della federazione aperta ai movimenti centristi che conteneva l'alt ad un percorso congresso-primarie invocato da Toti". Una riunione, dunque, lo scorso martedì. In cui Berlusconi ha deciso come muoversi, come agire. Scelte bollate dall'entourage di Toti come "una provocazione". Scelte non condivise anche da altri importantissimi esponenti del partito. E il dubbio, sullo sfondo, resta sempre piuttosto concreto: trattasi davvero di scelta autonoma di Berlusconi oppure, qualcuno, lo ha indirizzato temendo di trovarsi fuori dai giochi? Un sospetto più che legittimo.
Silvio Berlusconi, in sua difesa Antonio Martino: "Chi è davvero Giovanni Toti", scissionista smascherato? Libero Quotidiano il 5 Agosto 2019. Nella Forza Italia dilaniata dai malumori, dalle ipotesi di scissione e dai traditori, c'è ancora chi, al di fuori del cerchio magico di Arcore, difende Silvio Berlusconi. Anche se in questo caso, chi lo difende, è ormai decisamente lontano dal partito e dalla politica attiva. Si parla di Antonio Martino, storica "tessera numero 2" della Forza Italia nata nel 1994, il quale dice la sua in un'intervista concessa a Il Tempo: "Il problema di Forza Italia è che all'orizzonte non si vede nessuno che possa prendere il posto di Berlusconi, perché possiamo criticarlo quanto vogliamo, ma uno come lui non c'è". Né Angelino Alfano né i vari Giovanni Toti, spiega l'ex ministro della Difesa. E ancora, Martino sottolinea come "Berlusconi ha costruito un partito attorno alla sua figura e quindi il problema è che quando la sua figura mancherà il partito scomparirà". Su Toti, nel dettaglio, il giudizio è netto: "Primarie? Non credo che avesse ragione. Credo che Toti sia convinto che essendo stato eletto presidente della regione Liguria fosse un leader invincibile. In realtà Toti non è un leader, è un gregario e non lo vedo come leader". Più che un parere, una sentenza.
Toti-exit. E in Forza Italia è il caos. Ufficializzato l'addio al partito. Carfagna sul piede di guerra. Il Tempo il 2 Agosto 2019. Forza Italia - e centrodestra - in movimento dopo il reset imposto ieri da Silvio Berlusconi al Tavolo delle regole. Giovanni Toti ufficializza il suo addio a Forza Italia e lancia il suo "Cambiamo insieme", con tanto di "tour di lancio" del movimento, che partirà il due settembre da Matera. Il presidente della Liguria lascia, ma non strappa: «Non intendo stracciare la tessera di FI, è un caro ricordo», ammette. La rotta, però, è chiara: «Siamo di centrodestra, saremo alleati della Lega e di FdI. Non vogliamo un partitino di centro. Saremo alleati della Lega e di Fratelli d’Italia. Siamo convintamente in questa famiglia e in questa famiglia vogliamo restare», dice sicuro, annunciando la volontà di includere in famiglia anche «coloro che si riconoscono in un voto riformista, liberale e popolare». E se Toti è a Genova, in Parlamento i movimenti che fanno seguito alla sua decisioni sono più che avviati. Le liste dei possibili totiani girano sulle chat WhatsApp, con tanto di distinzione tra certi e probabili. Nella prima categoria rientrerebbero i deputati Monica Gagliardi, Osvaldo Napoli, Daniela Ruffino, Giorgio Silli, Alessandro Sorte, Stefano Benigni, Claudio Pedrazzini, Laura Ravetto, Guido Della Frerae i senatori Massimo Vittorio Berruti, Paolo Romani, Gaetano Quagliariello, Luigi Vitali. Dato per probabile, invece, l’arrivo di Galeazzo Bignami e del coordinatore azzurro della Liguria e componente di palazzo Madama Sandro Biasotti. Sia alla Camera che al Senato (dove comunque non è consentito dal nuovo regolamento) le truppe non avrebbero i numeri per formare un nuovo gruppo parlamentare. Proprio a palazzo Madama, però, ogni singolo voto in più sui provvedimenti in bilico farebbe comodo a Matteo Salvini (cui Toti è sempre stato particolarmente vicino). In Forza Italia, intanto, il day after dello strappo non è privo di polemiche. Mara Carfagna assicura che non lascerà il partito. La vicepresidente della Camera è in Sardegna per impegni presi in precedenza. Sull’isola, a villa Certosa, c’è anche Silvio Berlusconi. Un incontro tra i due non è ancora fissato, ma «il week end è lungo» - dicono fonti azzurre. Carfagna per ora non intende indietreggiare: «La scelta del quadrumvirato va nella prima direzione, la direzione sbagliata - ribadisce - Il bivio davanti a cui ci troviamo è questo: grandi ambizioni contro piccolo cabotaggio, un progetto per il Paese o un progetto di sopravvivenza per noi stessi. Personalmente so da che parte stare e continuerò a lavorare in quella direzione». Nessuna polemica, né problemi di natura personale con il Cav, viene spiegato: il problema è politico. Il leader azzurro, intanto, osserva il campo. Chi ci ha parlato lo definisce «stupito» delle reazioni dei suoi. «Lo dico agli scontenti: basta con queste dichiarazioni coram populo. Basta perdere tempo in chiacchiere e polemiche. Oggi la situazione del Paese è diventata drammatica. Dobbiamo lavorare tutti insieme per salvare l’Italia», tuona in serata. Il congresso si farà, il cambiamento ci sarà e le regole d’ingaggio possono ancora cambiare, è il ragionamento, che emerge anche da una piccola apertura concessa da Antonio Tajani. Quando si capirà quando si tornerà a votare, poi, Berlusconi punterà su "Altra Italia". E sulle forze moderate da riportare a casa.
Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 5 agosto 2019. Indecisa se offrirsi a Matteo Salvini o imboccare la strada del «nuovo centro moderato» indicata da Silvio Berlusconi, Forza Italia soffre e si spacca. E così rischia di commettere l' ultimo errore, quello fatale: arrivare esanime al momento in cui il leader della Lega toglierà la spina al governo Conte, o troverà il modo di farla staccare ai Cinque Stelle, che già oggi, durante il voto in Senato sul nuovo decreto sicurezza, perderanno altri pezzi. Non sarà in queste ore, ma presto il pateracchio gialloverde si sfascerà, perché ai suoi guai non c' è rimedio. Quel giorno, se i forzisti vorranno avere un minimo di potere contrattuale nei confronti di Salvini, dovranno parlargli con una voce unica, e piaccia o meno potrà essere solo quella del Cavaliere. Insulti, faide e fughe in avanti servono solo a deprezzare ulteriormente il valore della ditta, già ridotto ai minimi storici. È il momento in cui esplodono antipatie e invidie represse da anni e nessuno ne esce indenne, nemmeno il fondatore. «Un giorno di questi mi rompo i c... e inizio a raccontare i commenti al veleno su Berlusconi che mi sono stati detti negli anni da sti/ste signori/e che in queste ore tentano di additarmi come traditrice/golpista sui giornali per passare come novelli lealisti», si è sfogata ieri su Twitter l' azzurra Laura Ravetto. Ufficialmente alcuni colleghi di partito l' accusano di essersi presentata il 6 luglio alla convention organizzata da Giovanni Toti, quando era ancora coordinatore di Forza Italia, al teatro Brancaccio di Roma. In realtà non digeriscono le sue frequenti apparizioni televisive, dove spesso risulta più efficace degli altri. Così, anche se sinora non ha preso posizione, la Ravetto è finita dentro al frullatore, additata dai "lealisti" come "golpista" e usata come specchietto per le allodole da quelli che vogliono accreditarsi con Toti. Un gioco al massacro nel quale, in modo diverso, sono finiti un po' tutti gli azzurri, e che ha contribuito a velocizzare la fuga degli elettori: l' 8,8% rimediato alle Europee del 26 maggio, peggiore risultato nella storia del partito, secondo i sondaggisti si è già ridotto al 7,3%, rendendo concreto il rischio del sorpasso da parte dei Fratelli d' Italia di Giorgia Meloni. Servirebbero due cose. La prima è uno gesto di chiarezza da parte del fondatore. Che intenzioni ha Berlusconi? La federazione di centro da lui vagheggiata, ribattezzata Altra Italia, serve a tumulare Forza Italia o a darle una chance di sopravvivenza? E nel caso, in quale modo? Cercando assieme a Lorenzo Cesa, Stefano Parisi e gli altri che hanno aderito all' appello un accordo con Salvini, il quale non ha alcuna intenzione di farsi vedere in giro con gente che si definisce «moderata» e ha come riferimento il Partito popolare europeo di Angela Merkel? Oppure il Cavaliere punta a un' intesa con chi capita, si chiami pure Carlo Calenda o Matteo Renzi, due che presto potrebbero mollare Nicola Zingaretti al proprio destino? Esistono altre opzioni? Se Berlusconi rimane vago su questo, i suoi gli attribuiranno le intenzioni peggiori e continueranno ad azzuffarsi tra loro mentre cercano un' uscita di sicurezza che non c' è. La seconda cosa necessaria è proprio uno sforzo di razionalità da parte dei forzisti. Quando il deputato Sestino Giacomoni, ovvero la voce del Cavaliere, avverte tutti che «non c' è uno spazio politico fuori da Forza Italia, chi è uscito da qui non ha mai avuto successo», ricorda una verità storica. Con la differenza, rispetto alle scissioni del passato, che allora c' era una casa dal padre alla quale poter tornare, come hanno fatto alcuni di quelli che se ne erano andati con Angelino Alfano. Stavolta no, perché quel 7% di voti rimasti non ammette spezzettamenti. L'unico che si salverebbe dalla diaspora è Berlusconi, il quale una villa pronta ad accoglierlo non faticherebbe a trovarla. Gli altri finirebbero ai giardinetti pubblici, anche perché Salvini e la Meloni hanno fatto capire chiaramente che non intendono imbarcare profughi. Restare uniti, o almeno fingere di esserlo sino al patatrac del governo Conte, è l' unico modo per guadagnarsi una speranza di futuro.
Silvio Berlusconi, addio pure di Licia Ronzulli? Sospetto maliziosissimo di Dagospia: "Con quella legge..." Libero Quotidiano il 5 Agosto 2019. Licia Ronzulli, senatrice di Forza Italia e fedelissima di Silvio Berlusconi, ha presentato una legge sull'adozione minorile in scala nazionale. Fin qui niente di strano, se non fosse che Dagospia ha insinuato il dubbio: "Mentre la Lega si concentra sul caso Bibbiano (gli affidi illeciti di bambini avvenuti a Reggio Emilia) la senatrice Ronzulli presenta una legge sull'adozione minorile. Che la Ronzulli voglia presto passare con la Lega di Salvini che ormai sfiora il 40%? Ah Saperlo". Se fosse vero quanto sostenuto da Dago, per Berlusconi sarebbe un nuovo duro colpo in questi tribolatissimi giorni. Dopo l'annuncio di Giovanni Toti, del quale lo stesso Cavaliere affermava di essere a conoscenza, sono piovuti i malumori di altri azzurri: da Mara Carfagna fino alle voci su Laura Ravetto. Ma il sospetto di Dago nei confronti della Ronzulli, da sempre vicinissima al leader, appare forse un po' troppo malizioso.
Centrodestra, Paolo Romani: "Vado con Toti. Mi dispiace ma Forza Italia ha più eletti che elettori". L'ex fedelissimo di Berlusconi sarà stamattina dal notaio per dare vita al nuovo movimento totiano "Cambiamo". E dice: "Il dominus nel centrodestra oggi non è più il Cavaliere, ma Salvini". Concetto Vecchio il 07 agosto 2019 su La Repubblica.
Senatore Paolo Romani, anche lei seguirà Giovanni Toti?
"Sì, oggi alle 11,30 saremo dal notaio, a Roma, per dare vita a "Cambiamo", insieme a Quagliariello, Vitali, Berruti e altri. Osvaldo Napoli ha dato la sua adesione dalla Cina".
Forza Italia è finita?
"Bisogna prendere atto che il dominus nel centrodestra oggi non è più Berlusconi, ma Salvini. Forza Italia è precipitata al sei per cento, i conti non tornano. A Silvio Berlusconi, a cui devo riconoscenza infinita, già anni fa avevo chiesto di prevedere forme di partecipazione dal basso, un partito più orientato sul digitale. Non è successo nulla. Oggi sembriamo avere più eletti che elettori".
I sondaggi danno Cambiamo al 2 per cento.
"Ma noi non faremo subito un partito. Vogliamo tentare un ultimo tentativo per cambiare dall'interno Forza Italia, che io non lascio. Chiediamo a Berlusconi di farsi, da monarca assoluta, monarca costituzionale, e di concederci lo Statuto albertino".
È la scissione?
"No, vogliamo riconquistare quegli elettori che ci hanno abbandonati, collocandoci alla sinistra della Lega".
Cosa ci fa un moderato come lei con Salvini? Non voleva fare il partito della Nazione con Renzi?
"Io con Renzi ho fatto le riforme, è diverso. Oggi Forza Italia non è un partito contendibile, perché non ci sono regole e modalità di partecipazione. Intendiamo, insieme ai tanti amministratori locali di Cambiamo, tornare discutere, collocandoci nel perimetro del centrodestra".
Ma non rischiate di fargli da stampella?
"È un rischio possibile, siamo talmente piccoli. Ma la politica è fatta di progetti, di speranze, bisogna rischiare. Se siamo al minimo storico vuol dire che c'è un problema".
Perché invece Salvini è al 38 per cento?
"Perché la sinistra ha sottovalutato il problema della sicurezza, che è ritenuta la prima emergenza per gli italiani. Prenda Milano, dove il 28 per cento che lavora non è nato in Italia, ma il problema è dato da quei 200 stranieri che importunano le persone davanti alla stazione".
Ma i populisti non sono maestri nell'enfatizzare questa percezione rispetto alla realtà?
"È così. Ma vada a dirlo ai miei concittadini di Milanino, esasperati dai furti negli appartamenti, ad opera di ladri georgiani, o zingari".
Ma la polemica di Salvini è contro i migranti, quelli che vengono dal mare. I neri.
"Alcuni di coloro che sono scesi dai barconi, hanno contribuito a formare organizzazioni mafiose, come quella nigeriana in Italia".
Tutti quelli che hanno sfidato Berlusconi, da Fini a Alfano, sono finiti male.
"Sì, ma erano altri tempi. Noi, per dire, non puntiamo a fare gruppi parlamentari autonomi".
Da quanto tempo non sente Berlusconi?
"Da un bel po'. Diciamo che non l'ho cercato".
Vittorio Feltri su Silvio Berlusconi: distrutto e accoltellato, come lo hanno fatto fuori. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 4 Agosto 2019. Caro Silvio Berlusconi, tardivamente le do un consiglio: non faccia mai del bene ad alcuno se non è sicuro di poterne sopportare l' ingratitudine. Me lo ripeteva sempre la mia mamma. E lei ha fatto del bene a tanta gente, alla quale ha regalato posti importanti nel partito e nelle sue aziende, gente che ora le volta le spalle, fugge alla ricerca di nuovi protettori e benefattori inesistenti. Quando Forza Italia era florida e mieteva consensi alla grande, lei aveva un codazzo di leccaculi impressionante. Tutti lì a farle festa, a chiederle favori, occupazioni, denaro, raccomandazioni. Ho assistito a scene pietose indimenticabili: «Silvio qui, Silvio là, tu sei immenso, io ti stimo, ti adoro, ma ti prego, fammi questo favore e io ti sarò eternamente riconoscente». Ovvio, aveva un potere notevole, governava, era visto come un padreterno in grado di dispensare a sua volontà onori e poltrone. Nella massa dei postulanti abbondavano gli arraffoni e specialmente i cretini, i più difficili da addomesticare, buoni a nulla e capaci di tutto. Poi, sintetizzando, la sorte, caro presidente, si è voltata e lei è rimasto con il cerino in mano. Ricorda quando sdoganò Gianfranco Fini in occasione delle elezioni del sindaco di Roma? Fu una mossa elegante e intelligente. Ma lui, essendosi montato la testa come tutti coloro che non ce l' hanno, poi ha lasciato il Pdl nel tentativo di sfasciarle il governo. Il quale poi si sfasciò da solo, e da quel momento è stato uno sfacelo. Io sono stato perseguitato e bollato in modo ingiurioso per aver utilizzato il cosiddetto metodo Boffo. Costui è scomparso e io sono ancora qui a rompere le balle. A lei Cavaliere le cose sono andate peggio: l' hanno distrutta grazie al metodo Berlusconi, una condanna per un reato mai commesso, visto che Mediaset non era più nelle sue mani. Poi la faccenda delle donne, come se uno non potesse scoparsi quelle che gliela danno volentieri. Non è finita. Allorché le fortune politiche sono scemate, i succitati lacchè si sono diradati fino a scomparire lentamente. E ora sono impegnati a ripararsi - illusi - sotto altri tetti ospitali. Silvio, ora ti do del tu, sei stato tradito da chiunque. Non devi prendertela con Salvini, un tuo concorrente, ma con i tuoi fedelissimi che si sono rivelati infedelissimi. Ominicchi e donnicciole, profittatori e profittatrici. Andreotti una volta mi disse: ho più fiducia in lei che è un nemico sincero che non in certi amici i quali, mentre ti lodano e ti sbrodano, affilano il coltello. Questo concetto vale pure per te. Ti sei contornato negli anni da un folto gruppo di traditori che adesso, nella bufera, smammano dimentichi di quanto, troppo, hanno ricevuto per servirti malamente. Non perdo tempo a fare dei nomi, li conoscono tutti, ma consentimi di menzionare almeno un cognome: Toti. Rammenti quando ti fotografarono accanto a lui, festante, perché promosso tuo consigliere principe? Ti ha compensato con una pugnalata nella schiena. E Forza Italia, a furia di scossoni, è andata a puttane. Stendo un velo pietoso sulla Ravetto nonché su vari deputati vicini alla Gelmini, un esodo disgustoso. Berlusconi è stato sfruttato ed abbandonato. Non si trattano così neanche i cavalli. E neppure gli asini. Vittorio Feltri
Da Libero Quotidiano il 5 agosto 2019. Tutto nasce da un articolo di Vittorio Feltri, pubblicato su Libero di domenica 4 agosto, una lettera a Silvio Berlusconi in cui il direttore di Libero ricorda come il leader di Forza Italia sia stato "sfruttato e abbandonato". Ha ripercorso la storia del partito, Feltri, suggerendo a Berlusconi di non prendersela, oggi, con Matteo Salvini ma con i suoi ex fedelissimi, chi insomma come Giovanni Toti non si è fatto troppi problemi a scaricarlo, anche in malo modo. Nella chiusa dell'articolo, il fondatore scriveva: "Stendo un velo pietoso su Laura Ravetto nonché su vari deputati vicini alla Gelmini, un esodo disgustoso". Parole alle quali aveva fatto seguito un durissimo cinguettio della Ravetto su Twitter: "Un giorno di questi mi rompo i cazzi e inizio a raccontare i commenti al veleno su Berlusconi che mi sono stati detti negli anni da sti/ste signori/e che in queste ore tentano di additarmi come traditrice/golpista sui giornali per passare come novelli lealisti". Il riferimento è a chi dava credito alle voci secondo le quali la deputata prenderebbe in considerazione l'idea di avvicinarsi alla Lega di Matteo Salvini, affrancandosi da Forza Italia (lei era infatti presente al teatro Brancaccio, sede della convention di Giovanni Toti, snodo cruciale verso la rottura con Berlusconi). Ultimo atto della querelle, lunedì mattina. Ad aprire il fuoco, su Twitter, ancora Vittorio Feltri, che fa sapere: "Laura Ravetto di Forza Italia (per ora) mi scrive: Quello che intendo fare e dove voglio andare sono cazzi miei. Ci rallegriamo con lei per tutti i cazzi cui deve badare", conclude tagliente il direttore. E lo scontro continua. Per inciso, sull'edizione cartacea di Libero di oggi, diamo conto in un articolo a firma di Fausto Carioti del fatto che la Ravetto si sfili dai "traditori di Silvio" (la deputata, infatti, ha rilanciato la prima pagina del quotidiano su Twitter).
Vittorio Feltri mostra gli sms spediti a Laura Ravetto: "Scrivo il cazzo che voglio, di te se ne fottono". Libero Quotidiano il 7 Agosto 2019. Prosegue lo scontro, durissimo, tra Vittorio Feltri e Laura Ravetto. Tutto nasce da un editoriale del direttore in cui veniva avanzata la possibilità che la deputata fosse tra chi, in Forza Italia, è pronto ad abbandonare Silvio Berlusconi. Tesi rigettata con veemenza dalla Ravetto, tesi peraltro ospitata anche sulla prima pagina di Libero il giorno successivo. Poi, però, il direttore ha rincarato su Twitter, dando conto di un messaggio ricevuto dall'azzurra: "Laura Ravetto di Forza Italia (per ora) mi scrive: Quello che intendo fare e dove voglio andare sono ca*** miei. Ci rallegriamo con lei per tutti i ca** cui deve badare", aggiungeva caustico. Pronta la replica della Ravetto, che ha pubblicato uno screenshot di quello che ha definito "il mio vero primo messaggio a te caro Vittorio Feltri". Dunque, in tono di sfida, aggiungeva: "Hai il coraggio di pubblicare ciò che mi hai risposto? Se hai perso il tuo messaggio ho lo screenshot". Ovviamente, il direttore non si è tirato indietro. E ha pubblicato il messaggio a cui la Ravetto alludeva. Che recita: "Intanto io nei miei editoriali scrivo il cazzo che mi pare. Di te ho detto che sorvolo perché non ho capito con chi stai e con chi vuoi andare. Non ho espresso giudizi negativi. Infine - aggiunge Feltri riferendosi al precedente sms della Ravetto - le donne che frequento si limitano ad amarmi e di te se ne fottono". Un sms condito, su Twitter, dal commento: "Cara Laura Ravetto, ecco la mia risposta al tuo messaggio. Avresti potuto pubblicarla tu senza problemi, ma hai preferito insinuare il sospetto che il mio sms di risposta contenesse chissà quali oscenità o segreti. Per amore di verità e trasparenza, eccolo". Touchè.
Non solo Carfagna. Da Alfano a Toti, le scissioni che hanno spaccato FI. Pubblicato domenica, 10 novembre 2019 da Franco Stefanoni su Corriere.it. Dal clamoroso addio di Fini dal Pdl alle divisioni con Raffaele Fitto e Denis Verdini. I tentativi di mettersi in proprio da Berlusconi, non sempre fortunati.
Gianfranco Fini. Gianfranco Fini, negli anni Novanta e primi Duemila leader della Destra, nel 2008 guida lo scioglimento di Alleanza nazionale, erede del Msi, in un nuovo partito di centrodestra, poi fondato insieme a Silvio Berlusconi. Il Partito delle libertà nella versione originale dura fino al febbraio 2011, con il divorzio politico di Fini da Silvio Berlusconi e la famosa frase: «Che fai, mi cacci?». Fino al maggio 2013, Fini presiede Futuro e libertà per l’Italia. Ma, a seguito dell’insuccesso alle elezioni politiche del 2013, che comporta anche la sua esclusione dal Parlamento nel quale, fino ad allora, aveva rivestito il ruolo di presidente della Camera, rassegna le dimissioni da presidente da Futuro e libertà. Successivamente, uscirà dalla scena politica.
Angelino Alfano. A lungo esponente di Forza Italia e più volte ministro, è stato il primo e unico segretario nazionale de Il Popolo della Libertà, fondato da Silvio Berlusconi. Nel novembre 2013, Alfano ha guidato la scissione dal PdL dando vita al Nuovo centrodestra (Ncd). Sostiene prima il governo Letta e dal 2014 il governo Renzi, della cui maggioranza di larghe intese ha fatto parte. Successivamente alla vittoria del no al referendum costituzionale e alle dimissioni di Matteo Renzi, Alfano entra nella maggioranza del nuovo governo Gentiloni. Il partito viene sciolto ufficialmente il 18 marzo 2017 da Alfano che fonda nella stessa data un nuovo partito, Alternativa popolare, di ispirazione centrista e moderata. Alfano poi non si ricandiderà al Parlamento e si ritirerà dalla vita politica.
Raffaele Fitto. Raffaele Fitto, presidente della Regione Puglia dal 2000 al 2005 e ministro per gli Affari regionali nel governo Berlusconi IV dal 2008 al 2011, con Forza Italia è deputato dal 2006 e dal 2008 con la Pdl. In forte dissenso con Silvio Berlusconi, perché non ne condivide importanti scelte politiche quali il Patto del Nazareno, e con i vertici del partito che formano il cosiddetto «cerchio magico», nel 2015 Fitto fonda una corrente in Forza Italia con il nome di Ricostruttori, costituita da qualche decina di parlamentari, molti pugliesi, a lui vicini. Nella primavera 2015 Fitto annuncia la sua uscita da Forza Italia e la costituzione dei gruppi parlamentari Conservatori e riformisti (poi costituito solo al Senato) e l’adesione al gruppo Conservatori e riformisti europei (formazione di cui fa parte David Cameron) al Parlamento europeo di cui è nominato vicepresidente. Nel gennaio 2017 il partito si federa con altre organizzazioni locali assumendo la denominazione Direzione Italia che alla Camera è nel Gruppo misto mentre al Senato è in Gal. Nel dicembre 2017 fonda e presiede Noi con l’Italia, che nel 2018 confluisce in Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
Denis Verdini. Con Forza Italia dal 1994 al 2009, l’ex senatore e deputato Denis Verdini nell’aprile 2008 è nominato coordinatore nazionale del partito, gestendo la fusione con Alleanza nazionale di Gianfranco Fini. Diventa poi il fautore del Patto del Nazareno tra Berlusconi e il segretario del Pd Matteo Renzi riguardante una collaborazione su riforme costituzionali (titolo V e Senato “Camera delle Autonomie”) e legge elettorale Italicum, patto sancito il 18 gennaio 2014. La fine dei rapporti si deve all’elezione di Sergio Mattarella come presidente della Repubblica il 31 gennaio 2015: Verdini viene allontanato dal cosiddetto «cerchio magico» di Berlusconi composto da Mariarosaria Rossi, Francesca Pascale, Deborah Bergamini e Giovanni Toti. Nel luglio del 2015 annuncia la sua uscita da Forza Italia, ritenendosi troppo distante dalle politiche intraprese dal partito. Infine, il 29 luglio presenta i nuovi gruppi parlamentari di Alleanza Liberalpopolare-Autonomie, dichiarando di voler sostenere il disegno di legge di riforma della Costituzione promosso dal governo Renzi.
Giovanni Toti. Giornalista di Mediaset, per anni molto vicino a Silvio Berlusconi, Giovanni Toti viene nominato, nel gennaio 2014, consigliere politico di Forza Italia in vista delle elezioni europee. Entrerà nel Parlamento di Strasburgo e nel 2015 diventerà presidente della Regione Liguria. Nel giugno 2019 viene nominato da Berlusconi coordinatore di Forza Italia insieme con Mara Carfagna: i due avranno la responsabilità di coordinare l’organizzazione del partito, sulla base delle indicazioni di Berlusconi, e di curare anche il coordinamento di un gruppo al quale verrà affidato l’incarico di redigere una proposta di modifica statutaria da presentare al congresso nazionale. Ma, il 1º agosto, Berlusconi nomina un nuovo coordinamento escludendo Toti, che così decide di lasciare il partito non essendo riuscito ad apportare cambiamenti nei precedenti quaranta giorni e di fondare il 7 agosto il movimento Cambiamo!.
Mara Carfagna. Dopo molte voci che l’hanno data meno in sintonia con Silvio Berlusconi, oppure all’opposto futura erede alla guida di Forza Italia, Mara Carfagna il 9 novembre 2019 ha detto: «Se Renzi (fondatore di Italia viva, ndr) dichiarasse di non voler sostenere più il governo di sinistra, ma di avere altre ambizioni, Forza Italia viva potrebbe essere una suggestione». Un’uscita che non è piaciuta all’ex premier del centrodestra. Carfagna, già ministra per le Pari opportunità con Berlusconi presidente del Consiglio, e deputata con Forza Italia dal 2006, più volte in tema di diritti civili si è schierata con il centrosinistra. Nel giugno 2019 Berlusconi l’ha scelta con il presidente della Liguria Giovanni Toti come coordinatrice di Forza Italia. Il 1º agosto 2019 Berlusconi ha deciso di nominare un nuovo coordinamento di presidenza composto da cinque persone, tra cui anche Carfagna, che sarebbe andata a sostituire i due coordinatori, ma Mara Carfagna non ha accettato l’incarico.
Silvio Berlusconi, tutte le coltellate: da Montanelli a Gianfranco Fini. L'agonia del leader di FI. Renato Farina su Libero Quotidiano il 5 Agosto 2019. È sempre stato un toro, in tutti i sensi, dove vedeva rosso caricava, creava il vuoto intorno, seminando il panico tra i matador. Quanti ne ha incornati Silvio Berlusconi di concorrenti e avversari nel mercato televisivo prima e in quello politico dopo, e in quello giudiziario pure? Una moltitudine. Nomi? Non è questo l' articolo giusto per ricordarli. Quelli meritano fiori. È la giravolta dei cicisbei a disgustare. Ora che il Toro è seduto e persino sedato, assistiamo infatti all' abbandono di figlioli e figliole da lui prediletti. Quando li ha fatti salire in ascensore con lui, erano festevoli. Ora che scende, anzi precipita, saltano fuori e gli fanno marameo. Nell' animo, nell' intelligenza e nella volontà resta lo stesso fenomeno mitologico, ma ora che gli pulsa la giugulare e ha reclinato un poco il capo, farfalline e farfalloni sono volati via. L' età del Cavaliere, 82 tondi, è quella che è, ma non è questo il punto. Si vedano Napolitano, Scalfaro, Pertini: a 85 anni erano riveriti e portati sulle spalle dal popolo e dai compagni più giovani, devoti nonostante le loro contraddizioni e procedettero di gloria in gloria fino ai 90 e passa. Una ragione c' è. Leader di partito e di governo non lo erano mai stati, non avevano trascinato verso il potere e il successo nessuno. Furono e sono calibri medi, spediti su un missile tra le stelle dai casi fortunati e dall' astuzia. Per Berlusconi sta accadendo come capitò nel secolo scorso ad uno che comincia per M, a un altro di nome De Gasperi, al terzo il cui cognome fa Craxi (più fortunati, quanto ad amici fedeli sono stati Andreotti e Cossiga). Per Berlusconi il festival del si salvi chi può è accentuato perché è stata sconsiderata la sua generosità e forse perché ha premiato costantemente i peggiori. Gli restano accanto di sicuro quelli che sono coetanei, e che anche senza di lui avrebbero primeggiato: Fedele Confalonieri e Gianni Letta. Gli sarebbero vicini, magari tirandogli le grande orecchie, anche Giampiero Cantoni, se non fosse precocemente deceduto e ricchissimo di suo, e Marcello Dell' Utri, consegnato però ai domiciliari. Sin dal principio in tanti e tante hanno sfruttato la forza della natura di questo signore che liberava il terreno politico e commerciale per regalarne l' usufrutto a personaggi senza qualità, a parte il blazer o le belle gambe. Posizioni prestigiose inventate per chi era poca cosa nel mercato della vita. Quanti (e quante) hanno approfittato molto volentieri dei suoi servizi taurini, e quando hanno scoperto che, come il vecchio capo apache, era vivo sì ma ferito e bisognoso di sentire il fiato amico di principini e principine da lui incoronati, si è ritrovato lì come un pirla. La storia di Berlusconi è sempre stata caratterizzata da questo andamento per metà trionfale e per l' altra metà di solitudine. A parte casi seri, e separazioni consensuali, la più parte dopo averlo implorato e per tre minuti ringraziato, una volta fatto il pieno e spremuto il succo dall' ubertoso brianzolo, lo ha mollato, spietatamente rinfacciandogli che la cuccagna non abitava più ad Arcore. Quello che sta succedendo in questi giorni è in realtà una ripetizione triste della stessa scena. Resa più drammatica dall' esplosione di un partito che lui avevafatto crescere fino al 38%. Per trent' anni ha ricevuto palle di cannone giudiziarie e mediatiche, certo incoraggiate da errori e debolezze anch' esse perlopiù taurine. Chi gli stava intorno non ha mai eccepito. Adesso che è stanco gli tagliano i tendini. Gli ultimi casi sono quelli di Giovanni Toti e, sia pure con motivazioni più angelicamente espresse, di Mara Carfagna. I quali hanno le loro ragioni, ma non quelle del cuore, come direbbe Pascal. Il partito va male. D'accordo. Che bisogno c' è di ferire il benefattore? Berlusconi sembra re Lear alla fine della sua parabola, assiso su un trono assai gramo, magari circondato da ancelle e famigli di levatura non straordinaria, però con il merito della fedeltà, si spera non pelosa. Chi si sente non più prescelto, usa questa scusa del cerchio magico per abbandonarlo e abbindolarlo, senza restituire la dote che Berlusconi aveva loro concesso, ma anzi sfruttandola per relegarlo ai margini della scena italica. Magari anche bendandolo a parola come una sacra mummia da onorare con un giro di turibolo dichiarandolo però defunto, come Lazzaro, ma senza più speranze di risurrezione. Possiamo cominciare dai primi tempi? A mollarlo senza un grazie fu nientepopodimeno che il grandissimo Indro Montanelli, che non osiamo includere nella categoria dei perdenti di successo, ci mancherebbe. Esiste l' esercizio della libertà e del ripudio, ma c' è modo e modo. Berlusconi aveva salvato, mettendoci un sacco di soldi, il Giornale nuovo (si chiamava così), il coraggioso naviglio pirata di Indro che aveva radunato una magnifica ciurma di ribelli al conformismo progressista del Corriere della Sera, la cui proprietaria simpatizzava per Mario Capanna e dintorni, consentendo che il glorioso quotidiano della borghesia milanese esponesse il vessillo comunista, custodito con paracula benevolenza da Piero Ottone. Il quotidiano, che elargiva fior di stipendi ai giornalisti azionisti, perdeva montagne di quattrini. Berlusconi comprò le azioni arricchendo i profughi di via Solferino, e da quel momento fu il padrone del Giornale specialmente nel senso che ne ripianava i debiti. Quando la famosa rivoluzione italiana mandò in tribunale, in galera, in esilio i leader del pentapartito, dando libero campo agli ex comunisti, Berlusconi pensò che l' unica speranza fosse fondare un suo partito e sfidare Occhetto. Chiese una mano a Montanelli e ai suoi fidi, e quelli lo abbandonarono, come era loro diritto. Ma, e questo forse non era proprio un dovere, con i fondi raccolti da un bravo faccendiere comunista, aprirono la Voce per affondare l' avventura del loro mecenate. Non ci riuscirono. Un anno e si inabissarono. Nella Voce militavano tra gli altri ex salariati del Cavaliere che non gli perdonarono mai di essere finiti sul suo libro paga. Un paio di nomi: Marco Travaglio e Peter Gomez. Camparono con lui e campano contro di lui. Anche quelli finiti al Corriere della sera, come Beppe Severgnini. Nella sua "discesa in campo", Berlusconi era riuscito nel capolavoro di mettere insieme, ascoltando Vittorio Feltri, Gianfranco Fini e Umberto Bossi. Sdoganò l' Msi sin dalle elezioni comunali di Roma del dicembre 1993. Poi portò Fini al governo con tutta la sua truppa fascista, che non è un insulto, per carità. Così come fece con Bossi, il quale pensò bene, dopo sei mesi, di ribaltare il governo di colui che allora chiamavano Sua Emittenza, ingannato da Oscar Luigi Scalfaro. Bossi peraltro è l'unico che dopo averlo tradito al grido di «Berluscaz!» ha compreso l' errore e dal 2001 è diventato il suo amico personale e politico più fidato. In quella tornata magica datata 1994, Carlo Freccero fu innalzato a direttore in Rai, avendo costruito il suo curriculum a Fininvest. Ottimo professionista. Ma non gli ha perdonato la regalia al suo mentore, ed è finito tra i fan di Daniele Luttazzi, che dopo aver lavorato nelle televisioni del Berlusca, ha chiamato in Rai Travaglio per dargli del mafioso. La parabola di Fini è troppo nota per rievocarla di nuovo. Altri casi clamorosi? Vittorio Dotti, avvocato di Berlusconi, e poi accusatore insieme alla sua compagna Ariosto. Il duo Casini-Mastella, cui si perdonano molte cose per la simpatia e la guasconaggine. Da lui salvati quando il loro partito valeva lo 0,8% e messi in lista in Forza Italia, fatti ministri e presidenti della Camera, e sbarcati poi con nonchalance come Guardasigilli con Prodi o senatori con Renzi e Zingaretti. Siamo ancora in politica: al capitolo delfini. Berlusconi ne ha scelti parecchi. Ed è brutto quando sei innalzato e poi, viste le scadenti evoluzioni, scaricato nell' acquario dei tonni. Ricordiamo Antonione, Scaiola, Bondi, persino apparve con rango simile la Daniela Santanchè. Noi guardiamo sempre le loro storie a partire dalla loro delusione. Ma dal punto di vista di Berlusconi, dove sta l' errore? Nell' averli scelti, e poi, avendo capito che non reggevano il compito, averli alla fine destinati alle seconde file? Buona la prima. Hanno giocato male, si perde. Alfano è un caso a sé, non ha detto mai una sola parola contro il capo, e ha dimostrato mollando tutto di saper reggere la concorrenza nella vita civile. Lo stesso dicasi per Verdini. Ma andarsene, se ne sono andati. Fuori della politica? Qui siamo al privato di nome Veronica. Basta la parola, lasciamo perdere. E il calcio? Silvio ha portato il Milan in cima al mondo. E gli ultrà si sono messi ad insultarlo, a invocarne la cacciata. Berlusconi, con Galliani, si è rifugiato nel Monza, vicino a casa, discute di terzini e forse di ballerine con il fratello Paolo. Quanta gente ad Arcore faceva la fila. Ne ricordo tanti. Personalmente, porto volentieri il suo orologio al polso. Renato Farina
Silvio Berlusconi, la rivelazione di Vittorio Dotti: "Così mi scaricò". La verità sulla fine del sodalizio. Libero Quotidiano il 16 Dicembre 2019. Dopo Silvio Berlusconi Vittorio Dotti era il numero 2 di Forza Italia. O meglio, il braccio destro del Cav. Eppure il loro sodalizio durò due anni appena, finito il giorno in cui l'avvocato ricevette l'ultima telefonata di Berlusconi. Quella in cui venne informato che "la sua candidatura non era più opportuna". Da allora più niente. Il motivo sembra chiaro: la compagna di Dotti all'epoca era niente di meno che Stefania Ariosto nonché Teste Omega che depose contro il leader di Forza Italia e Previti. "Con Berlusconi ce l'ho ancora oggi, non lo nascondo - esordisce l'ex azzurro in un'intervista al Tempo -. Avrei potuto fare tante cose". E invece, quanto è successo tra l'Ariosto e il Cav ha messo a repentaglio quella carriera, come lui stesso la definisce, "voluta dai deputati" che lo elessero ai tempi. Poi la frecciatina ai nuovi big vicini a Berlusconi: "Pensavo che avrebbe formato una personalità in grado di succedergli nel progetto politico". Invece questo, secondo Dotti, non è successo perché il numero uno di FI è stato in grado solo di "allevare personaggi capaci di andare nei talk show politici e ripetere gli slogan partoriti dalla casa madre". Insomma, quello del Cav sembra un partito agli sgoccioli, vivo solo "perché mantiene uno zoccolo duro del Paese che lo seguirebbe ovunque".
Dopo il Cav il diluvio: la lunga lista degli eredi destituiti. Così Silvio Berlusconi ha fatto il vuoto dietro di sè e ora Forza Italia rischia di sparire. Paolo Delgado il 3 Agosto 2019 su Il Dubbio. Dall'alba del 1994 all'attuale tramonto il posto d’onore in Forza Italia, quello del braccio destro e solo in un secondo momento del “delfino”, perché Silvio Berlusconi a una vera successione non ci pensa realmente neanche adesso ma a lungo non ne ha voluto neppure parlare per gioco, può essere paragonato solo a quello accanto al guidatore prima dell’invenzione dell'airbag. Il più pericoloso di tutti. E’ significativo notare che la situazione nella sua corte politica e diametralmente opposta a quella nell’azienda, dove al contrario i collaboratori più stretti e fidati sono sempre gli stessi da decenni: Fidel Confalonieri, Gianni Letta, Adriano Galliani. La differenza è chiara. Berlusconi non si è mai visto come un leader politico ma come un sovrano. Nella dimensione aziendale nessuno, neppure nei momenti di dissenso, ha mai messo in discussione quel ruolo. La logica della politica è diversa ed è al contrario quasi inevitabile che i disaccordi politici diventino lesa maestà.
Lista lunga, lunghissima quella che precede Giovanni Toti ( e forse anche Mara Carfagna) nella lista dei comandanti in seconda il cui sodalizio con il monarca di Arcore è finito in separazione, qualche volta quasi pacifica, molto più spesso virulenta e rancorosa. Il primo, probabilmente, fu Vittorio Dotti. Principe del foro, avvocato civilista di fiducia del Cavaliere, arruolato quando, in tutta fretta, si trattò di tirare fuori dal nulla le liste del neonato partito azzurro nel 1994. La sorpresa, il blitz, la guerra lampo era fondamentale nel piano di battaglia mediatico del nuovo partito. Non c’era modo di selezionare altrimenti un gruppo dirigente. Toccò pescare tra conoscenti e intimi e gli avvocati del gran capo figuravano in primissima fila. Dotti non approdò al governo come il losco collega Cesarone Previti, e sarebbe stato un vantaggio data la breve e travagliata vita di quel governo affondato da Bossi dopo 9 mesi. Rivestì invece i panni di capo del più forte gruppo alla Camera ma i dissensi con il capo e con la sua anima nera, appunto Previti, furono immediati. Quando l’allora fidanzata dell’avvocatone, Stefania Ariosto, la teste “Omega” iniziò a mitragliare testimonianze contro Cesarone e Silvio, a Dotti fu chiesto di testimoniare a sua volta, anche su fatti di cui non era a conoscenza. Si rifiutò e quando si tornò alle urne, nel 1996, Berlusconi lo chiamò al telefono: “Non ti possiamo ricandidare”. Si salutarono con un “Ciao” neppure troppo ostile.
Se ne andò senza chiasso, in quel 1996, un altro avvocato, tra i fondatori del partito, vicinissimo al sovrano e anche lui capogruppo: Raffaele Della Valle.
Clemente Mastella, fondatore con Casini del Ccd, il gruppo ex Dc che nel 1993 non aveva aderito alla trasformazione in Ppi, fu il primo alleato a mollare il capo dopo Bossi. Il caso però era diverso e una certa ingratitudine è innegabile. Nel 1994 il Cavaliere aveva inserito i leader del Ccd nelle sue liste, pur contrario per motivi d’immagine aveva soddisfatto la richiesta imperiosa di don Clemente, che voleva un ministero e ottenne quello del Lavoro. “Devo pur fare qualcosa per questi ragazzi che per me hanno spaccato la Dc”, spiegò il poi l’onnipotente azzurro. A dividerli non fu la politica ma il carattere. Mastella non sopportava la condizione di vassallo nella quale chiunque orbiti intorno al trono di Arcore inevitabilmente si ritrova. Nel 1998 lasciò il centrodestra, fu determinante per la nascita del governo D’Alema. Nel 2009, dopo essere stato ministro della Giustizia nel secondo governo Prodi, è tornato nel centrodestra.
Leader del secondo partito della destra, An, ministro, vicepremier presidente della Camera, Gianfranco Fini era l'erede naturale alla successione. Delfino senza neppure bisogno di dichiararlo. In un’alleanza politica durata quasi vent’anni però il ruolo di eterno secondo va stretto, tanto più dopo la decisione berlusconiana di fondere Fi e An, annunciata senza avvertire nessuno da un predellino d’automobile. “Siamo alle comiche finali”, commentò Fini. Invece fu un dramma e, per lui, una tragedia. I rapporti con Berlusconi, fino al celebre “Che fai mi cacci?” pronunciato di fronte all’intera direzione del partitone unico, passarono dall’amicizia all’odio. Nel 2010, col capo fiaccato dagli scandali sessuali, Fini tentò il colpaccio: una mozione di sfiducia firmata dalla maggioranza dei parlamentari. Sembrava fatta. Napolitano chiese però di rinviare il voto. Fini, con errore imperdonabile accettò. Silvio acquistò voti. La mozione fu sconfitta, la carriera politica di Fini sepolta proprio mentre la stampa berlusconiana lo metteva in croce per una storiaccia losca di appartamenti a Montecarlo.
Berlusconi non porta rancore. Tutti quelli che lo hanno abbandonato sono stati accolti di nuovo quando sono tornati all’ovile. Con Fini no. Lì la rottura è stata totale. come con Angelino Alfano, delfino “ufficiale” dopo che il papabile precedente, Franco Frattini, ex ministro degli esteri e commissario europeo, aveva a sua volta preso le distanze dal sovrano nel 2012. Alfano se ne andò nel 2013 portandosi dietro l’intero stato maggiore azzurro. Con Berlusconi condannato, messo fuori dal Parlamento e ai servizi domiciliari lo dava per spacciato. Calcolo sbagliato e neppure lui è stato perdonato. Perché Berlusconi può accettare di essere abbandonato. Ma non che qualcuno provi a prenderne il posto. A rubargli in trono.
Forza Italia, il mesto tramonto di una lunga storia. Riccardo Paradisi il 2 Agosto 2019 su Il Dubbio. La fine del partito azienda. Il Cavaliere non ha mai concepito vere successioni. Chi ha provato a smarcarsi da lui, alla fine ha dovuto abbandonare. La fine di Forza Italia – perché di questo si tratta – è un tramonto senza luce. Interrompendo con atto padronale il percorso di democratizzazione del partito e rilanciando da un predelilino in sedicesimo “L’altra Italia” Silvio Berlusconi ha scelto di chiudersi con i suoi fedelissimi nella ridotta finale di un potere personale esercitato su una realtà sempre più esigua, vecchia e marginale. Come un faraone ha deciso che Forza Italia deve essere la piramide della sua mummificata figura e di una corte che altro non è mai stata che una sua emanazione. Certo chi si era illuso come avevano fatto Mara Carfagna e Giovanni Toti di poter scrivere di propria mano una pagina nuova di una storia che è stata grande e importante contendendosi la leadership, come in un normale partito democratico, non aveva preso bene le misure alla realtà. La storia di Forza Italia dice che Berlusconi non ha mai concepito vere alternative o possibili successioni alla sua figura e chi ha solo osato immaginare di smarcarsi da lui, di uscire dal seminato, di azzardare non solo una mossa ma un’analisi autonoma, ha fatto la fine che conosciamo.
Sono le storie di Fitto, di Alfano, dello stesso Fini, tutti puntualmente definiti degli ingrati, uomini senza qualità, senza quid. E così il faraone, che pure era stato capace, nel bene e nel male, di innovare la scena politica italiana, di immaginare un partito unitario di centrodestra, liberale e popolare, si è ritrovato via via – e il punto di passaggio è il 2008 dopo il massimo del prestigio e del consenso ottenuto – sempre più vittima e prigioniero di se stesso e del cosiddetto cerchio magico che lusingandolo ha continuato a usarlo per perpetuare la propria rete di privilegi e di potere. Una corte che ha vissuto per più di un decennio di luce riflessa e che ha una responsabilità diretta nella puntuale soppressione sul nascere di ogni processo di rinnovamento del partito. E tuttavia la responsabilità principale è evidentemente di Silvio Berlusconi che ha continuato a raccontarsi in tutti questi anni di essere invincibile e politicamente immortale, esibendo all’infinito il noto palmares di vittorie politiche, aziendali, calcistiche, così reiterando la maschera del mattatore immarcescibile, senza accorgersi di quel confine tra la simpatia e il ridicolo il cui oltrepassamento risulta fatale. Ma non è solo una questione di psicologia umana, dei grandi difetti di Berlusconi, che sono per converso stati anche le sue grandi virtù. Chi oggi si rivolge al presidente di Forza Italia – ed è mezzo partito a farlo, da Paolo Romani a Osvaldo Napoli, passando per la fedelissima Michaela Biancofiore, detta la valchiria del cavaliere negli anni d’oro – invitandolo a considerare il valore d'un partito plurale, partecipato e aperto, fino a ieri non si era distinto per avere pubblicamente espresso simili critiche. E del resto queste critiche non avrebbero avuto senso, se non testimoniale, perché Forza Italia è sempre stato ed è sempre rimasto un partito aziendale, dunque un partito padronale, la cui classe dirigente – e in tempi passati ne ha avuta una di valore – ha avuto libertà di espressione fino a quando era in piena assoluta sintonia con quella del capo. Salvo poi essere rimossa al primo serio segnale di deviazionismo. Questa dinamica per anni è stata la forza del partito di Berlusconi. Mentre gli altri partiti si laceravano nelle guerre intestine Forza Italia vantava una leadership solida in grado di rispondere con riflessi decisionali immediati alle sollecitazioni sempre più rapide della realtà politica. Solo che alla lunga questa forza, con l’appannarsi del leader e il superamento del paradigma che ha segnato il suo ciclo politico, s'è tramutata in una fatale debolezza. E ha condannato Berlusconi alla replica: lo stesso repertorio di proposte, di idee, persino di battute. Ci sarà dunque “L'Altra Italia” forse, non ci sarà mai un’altra Forza Italia la quale resterà proprietà di Silvio Berlusconi: verghianamente roba sua. Oggi con questo nuovo predellino il Cavaliere dice ai suoi che la ricreazione è finita, che se c’è qualcuno legittimato a immaginare una strategia futura di alleanze a destra o al centro quel qualcuno è ancora e sempre lui. E c’è anche una residua abilità manovriera in questa mossa berlusconiana. Perchè annunciando un soggetto allargato che si candida a trattare direttamente con la Lega di Salvini per la formazione di un’eventuale futuro centrodestra Berlusconi ha depotenziato la mediazione dello scissionista Toti. E al tempo ha indirizzato un segnale forte anche a Mara Carfagna la quale in questi mesi - e anche nelle ultime settimane - aveva lavorato all'ipotesi di un soggetto centrista nell’ipotesi di un’implosione di Forza Italia e di un ricombinamento del quadro politico moderato. Anche qui il Cavaliere ha giocato d’anticipo: se invece che elezioni anticipate dovesse formarsi, con la crisi, un governo parlamentare sarebbe ancora lui a manovrare al centro con il suo nuovo soggetto federale moderato. Non certo Mara Carfagna. Ma appunto si tratta di operazioni difensive, residuali, che hanno come ambizione quella di gestire l’utile marginale di una grande storia. Un mesto tramonto appunto: triste, solitario y final.
Silvio Berlusconi, la verità: ecco perché ha ammazzato Forza Italia. Alessandro Giuli su Libero Quotidiano il 2 Agosto 2019. Quando non sanno più che altro fare, i tedeschi invadono la Polonia; Silvio Berlusconi rifonda Forza Italia, ne fa una cosa più triste di prima e l' affida a qualcuno di cui si stufa dopo pochi minuti. I suoi parti sono tutti, invariabilmente, preceduti e seguiti da una spaventosa sindrome depressiva. È con questo stato d'animo, il tedium vitae di un ricco adolescente ottuagenario, che il Cavaliere ha appena battezzato un nuovo movimento, "l'Altra Italia", sperabilmente l' ultima, per metterla nelle mani di un coordinamento collegiale dal vago olezzo testamentario. Forse per liberarsi dell' insorto Giovanni Toti, forse per necessità cosmetica aggiornata ai tempi grami e ipercinetici del sovranismo: fatto sta che Berlusconi c' è ricascato. Si è cucito addosso un completo nuovo, ha infilato all' occhiello il fiore di plastica delle primarie condominiali riservate ai soliti inquilini del privilegio cortigiano e ora si finge soddisfatto e battagliero. Non è dato sapere chi saranno i prossimi Gianfranco Fini, i prossimi Angelino Alfano o i futuri Raffaele Fitto, ma cosa volete che importi? Una cosa è già certa: non avranno il quid, la stoffa, il carattere, i numeri e il coraggio per venire a capo dell' eterno ritorno del berlusconismo sotto (s)mentite spoglie. Un trionfo di mesta autofecondazione il cui primo vagito risale a un quarto di secolo fa. Un po' di storia - Dapprincipio fu il partito-azienda, in effetti, e aveva un suo senso, una sua urgente freschezza per improvvisare un argine al dilagare di Tangentopoli con l' eco della cavalleria post comunista in rapido avvicinamento verso Palazzo Chigi. Dopodiché fu la noia del dover concepire predellini e altre escogitazioni al passo con gli infortuni della storia. Il Polo delle Libertà e quello del buon governo, anno 1994, non erano altro che il doppio volto del Giano di Arcore che guardava con sorriso aurorale al nord di Umberto Bossi e al centrosud dei democristiani e della destra postfascista. Funzionò, salvo trasformarsi subito nel ghigno del Polo per le libertà sconfitto da Romano Prodi nel 1996. Di lì in poi, Forza Italia è diventata la cavia di laboratorio di una finzione scenica in base alla quale tutto doveva apparire rinnovato da lustrini e polvere di stelle, dall' oggi al domani, pur di occultare la sopraggiunta estenuazione del grande capo. E in questo lungo piano sequenza si sono alternate le scappatelle berlusconiane con i Claudio Scajola e i Marcello Pera, le Michela Vittoria Brambilla e gli Stefano Parisi, delfini e acciughe, totani o tonni e altri squamosi aspiranti successori di un leader che tutto aveva in mente tranne di lasciare il trono a chicchessia. Dall' ingombrante Giulio Tremonti magnificato e poi fatto secco nel giugno del 2004 fino all' ultimo plenipotenziario, Antonio Tajani, volto consunto delle ultime catastrofi elettorali. In mezzo, un acquario limaccioso in cui Berlusconi ha via via allestito il proprio set politico-cinematografico. Il memorabile predellino del 2007, quello in cui il Cavaliere recuperava il rettilare Fini dalla denuncia delle "comiche finali" in vista d' una separazione annunciata e lo accoglieva nel nascente Popolo della libertà, è stato il culmine di una pochade che si è conclusa nel "che fai mi cacci" (e lui lo cacciò) e nell'eurocomplotto tecnocratico del 2011. E nemmeno quello è bastato, perché Berlusconi avrebbe presto ripetuto il medesimo errore di plastica con Alfano: nominato erede in mancanza di controprove, assegnato al turno di guardia sul vestibolo del Nazareno e perduto per sempre nei meandri del collaborazionismo con Matteo Renzi. Una mano di bianco - Un capolavoro da osteria reso appunto possibile dall' ennesima rifondazione di Forza Italia sulle ceneri del Pdl. Ogni crisi una mano di bianco, ogni riverniciata una scissione umana e politica: divorzio sacrosanto quello da Fini; amputazione dolorosissima e funesta quella di Denis Verdini; appena fastidiosa, come per una cattiva manicure, quella di Fitto nel 2015.
Non pervenuto il vai e vieni con il forzista intermittente Renato Schifani...Ma siamo all' oggi. Con Toti che scansa il frutto amaro del nuovo parto per congedarsi e dirigersi altrove; e Mara Carfagna che rimane basita sul limitare dell' uscio di un' Altra Italia che pare né più né meno la didascalia del solito dagherrotipo berlusconiano. E non è certo il sangue della contesa a cielo aperto per una leadership mai davvero contendibile, a scorrere adesso ai piedi del Cavaliere. Sono soltanto le lacrime del Caimano che si produce nell' ultima sua gemmazione politica ma non trova la sprezzatura per chiamare la tardiva creatura con il suo vero nome: L' Altro Silvio, movimento berlusconiano posseduto da Berlusconi, presieduto da Berlusconi grazie ai soldi di Berlusconi e per la sua gloria mondana o postuma. Alessandro Giuli
Vittorio Feltri: "Forza Italia è morta. Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini si sono ammazzati a vicenda". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 2 Agosto 2019. Disastro totale. Forza Italia è morta. Trattasi di suicidio. Dopo 26 anni di molte gioie e moltissimi dolori, Silvio Berlusconi ha staccato la spina al suo partito e lo ha soppresso per disperazione. Poiché, tuttavia, l' uomo non è di legno, non è rassegnato a scomparire dalla scena politica, nonostante abbia quasi 83 anni, e subito dopo aver affondato la sua prima creatura ne ha fondata una seconda, poco credibile, denominata Altra Italia, che vuol dire tutto e quasi niente. Contento lui...Ora bisognerà vedere se saranno contenti anche gli elettori, del che dubitiamo fortemente. La esperienza ci induce a sospettare che cambiare insegna a una bottega non significa rimetterla in piedi, talvolta la si abbatte completamente. Ed è proprio ciò che temiamo, dato che il Cavaliere non è più quello di una volta: ha inanellato una serie di errori e di orrori e difficilmente riuscirà a risorgere. Nominò suo delfino Angelino Alfano, e dopo una settimana disse che a costui mancava il quid, e non era vero. Fece un patto, cosiddetto del Nazareno, con Matteo Renzi e lo ruppe perché voleva Amato al Quirinale al posto di Mattarella, la persona giusta in quel momento. In precedenza era riuscito a litigare con Fini, e Fini ha chiuso, ma Silvio non ha più ricominciato. I due si sono ammazzati a vicenda. Infine ha promosso Tajani coordinatore mondiale degli Azzurri, i quali sono subito diventati viola. Un fallimento dietro l' altro non poteva che portare alla eutanasia di Forza Italia, che oggi è realtà. Altre cappellate? Il Cavaliere ad un certo momento pescò dal mazzo dei presunti fedelissimi Toti, direttore di telegiornali Mediaset. Pensava di aver trovato il jolly e invece era una scartina, un due di picche. Poi spinse la Carfagna ai massimi livelli, e pure questa si è rotta le budella e se ne è andata. Povero Berlusconi, un grande come lui nel giro di pochi anni si è purtroppo rimpicciolito al punto di dover alzare bandiera bianca e chiudere la baracca che in tempi lontani gli aveva garantito un enorme successo. E ora? Ha creato Altra Italia a cui auguriamo senza convinzione buona fortuna. Con tali chiari di Luna, un Salvini che galoppa e una Meloni che avanza, sarà un' impresa rimettersi al passo con questa gente scatenata e in fuga. Poiché tuttavia, siamo grati a Silvio per ciò che nella sua vita ha fatto, regalandoci benessere e trattamenti principeschi, gli diamo una spinta. Se tornerà in alto saremo i primi a festeggiarlo. Vittorio Feltri
Forza Italia, Toti se ne va: «Ognuno per la sua strada». Rocco Vazzana il 2 Agosto 2019 su Il Dubbio. Forza Italia perde i pezzi pregiati: i due ex coordinatori abbandonano la nave. Si sfila anche Carfagna: «stanno uccidendo il partito e io non farò parte del comitato di liquidazione». «Mi pare che ci siano le condizioni per cui ognuno vada per conto suo», parola di Giovanni Toti. La rottura definitiva tra il governatore ligure e Silvio Berlusconi si consuma nel primo pomeriggio, quando il leader azzurro «preso atto che il Tavolo delle regole per il nuovo Statuto di Forza Italia ha terminato i suoi lavori ed alla luce del suo esito», nomina un Coordinamento di presidenza. Ne fanno parte Annamaria Bernini, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, Sestino Giacomoni e Antonio Tajani. Toti, che chiedeva un cambiamento profondo delle regole e primarie aperte per la leadership, è fuori.
Le ragioni di Toti. «Non si ha intenzione di cambiare alcunché, dunque credo che questa avventura, cominciata il 19 di giugno per provare a cambiare qualcosa, onestamente finisca qua. Buona fortuna a tutti», dice perentorio il governatore, uscendo dalla sede di Forza Italia. L’ex consigliere di Berlusconi sembra già pronto a lanciarsi in una nuova avventura: «Il nuovo comincia oggi», scrive su Facebook. «Noi non ci rassegniamo, anzi, con entusiasmo partiremo presto per un grande giro d’Italia che avrà una parola d'ordine “Cambiamo” insieme per fare con tutti voi quello che altri, per egoismo, non hanno avuto il coraggio di fare».
Si defila anche la Carfagna. Ma Toti non è l’unico a strappare col fondatore. Mara Carfagna, vice presidente azzurra della Camera appena inserita nel nuovo Coordinamento, dice di aver appreso «dalla stampa di un superamento delle decisioni assunte dal presidente Berlusconi il 19 giugno innanzi ai gruppi parlamentari di Forza Italia e dell’insediamento di un Coordinamento di presidenza», spiega. «Coordinamento del quale nessuno mi ha chiesto di far parte e di cui non intendo far parte», aggiunge secca. «È una scelta in direzione esattamente contraria alle intenzioni che mi ha manifestato Berlusconi. Credo che questo sia il modo migliore per uccidere Forza Italia e io non farò parte del comitato di liquidazione», argomenta. Per il partito nato nel 1994 è un terremoto senza precedenti. Il Cav, ormai senza generali, resiste coi fedelissimi rimasti all’assalto delle nuove generazioni.
Porte chiuse al rinnovamento. «Il tavolo delle regole che doveva condividere le proposte dei coordinatori sembra aver prodotto la soppressione dei coordinatori stessi e soprattutto del percorso di rinnovamento e di ristrutturazione», è l’amara analisi di Paolo Romani, senatore ed ex ministro di Forza Italia. «Al loro posto, un Coordinamento di presidenza che nasce già monco e dalle competenze quanto meno confuse», continua il forzista, che punta il dito contro l’assenza di organismi di «elaborazione e confronto sulla linea politica». Con l’abbandono di Toti e Carfagna, secondo Romani, Forza Italia non solo ha «abbandonato un percorso necessario quanto entusiasmante di rinnovamento», ma ha «abdicato al ruolo primario di movimento politico». L’implosione di Forza Italia ha appena avuto inizio.
Silvio Berlusconi, altra cannonata di Mara Carfagna: "Piccolo cabotaggio, ora so dove andare". Libero Quotidiano il 2 Agosto 2019. Mara Carfagna non si nasconde più all'interno di Forza Italia, soprattutto dopo l'annunciato addio di Giovanni Toti. E proprio sull'esito negativo del "tavolo delle regole" di giovedì 1 agosto la vicepresidente alla Camera commenta: "Forza Italia si è trovata a un bivio: accontentare una ristretta classe dirigente che vuole confermare il suo ruolo oppure dare risposte alle centinaia di migliaia di elettori e dirigenti sul territorio che chiedono una nuova stagione di proposte, presenza, protagonismo". E ancora: "Il bivio davanti a cui ci troviamo è questo: grandi ambizioni contro piccolo cabotaggio, progetto per il Paese o progetto di sopravvivenza per noi stessi, una risposta efficace a militanti ed elettori o l'ennesimo esperimento di laboratorio che scontenterebbe anche i più leali". Un chiaro messaggio al dietrofront di Silvio Berlusconi che ha optato per accettare le primarie, ma soltanto per gli iscritti, oltre a istituire un nuovo coordinamento di presidenza bocciato senza appello dalla Carfagna. Due scelte con cui conservare il proprio potere all'interno del partito ed evitare scalate ostili. La Carfagna rincara poi la dose: "La scelta del quadrumvirato va nella prima direzione, la direzione sbagliata. Ho sempre detto di essere contraria: magari avrebbe potuto farmi comodo per prendermi un posto al tavolo, ma tra convenienza personale e speranza del nostro popolo scelgo di non tradire quella speranza". Il riferimento è al già citato coordinamento di presidenza, di cui fanno parte Annamaria Bernini, Mara Carfagna, Mariastella Gelmini, Sestino Giacomoni e Antonio Tajani. "Davanti al mio ufficio in questi 2 mesi c'è stata la coda di segretari locali, colleghi, ex-forzisti passati alle liste civiche, amministratori, sindaci, dirigenti. Energie molto superiori a quelle che qualcuno immagina. Se abbandoniamo queste aspettative abbandoniamo noi stessi. Personalmente so da che parte stare e continuerò a lavorare in quella direzione. Quindi, senza inutili polemiche: se la scelta è una gestione di apparato verso un improbabile congresso preferisco tornare al lavoro fuori, tra la nostra gente, nel Paese, sui progetti e sulle idee".
Tommaso Labate per il “Corriere della sera”il 2 agosto 2019.
Giovanni Toti, siete al punto di non ritorno? Lascia Forza Italia?
«Sì, lascio Forza Italia. Non ci sono più ragioni per rimanere, sinceramente. Ho sperato fino all' ultimo che ci fosse la volontà di far rinascere il partito, di aprirlo, di allargarlo alla società civile. Ma questa non è semplicemente la data in cui Giovanni Toti lascia Forza Italia. Questa è la data in cui finisce Forza Italia. Evidentemente non sono bastate le sconfitte alle Politiche, alle Europee, il crollo nei sondaggi al 6 percento. Qualcuno non ha avuto voglia di cambiare rotta».
Quel qualcuno è Silvio Berlusconi?
«Sì, senz'altro è Berlusconi. Non è dato sapere in che misura "in proprio" o quanto mal consigliato, resta il fatto che il presidente Berlusconi non ha dato seguito all' atto di generosità con cui, il 19 giugno scorso, aveva promesso un reale cambiamento».
Dalla nomina a coordinatore insieme a Mara Carfagna è passato poco più di un mese. Ora lei va via e nasce un direttorio allargato da cui la Carfagna si chiama fuori.
«Siamo passati in pochissimo tempo dalla tragedia alla farsa. Eravamo riuniti al comitato per le regole del congresso. Mara era appena andata via. Sul telefonino di tutti arriva la notizia di questo comunicato surreale di Berlusconi che liquida i due coordinatori e annuncia un coordinamento allargato».
Non se lo aspettava?
«L'ho appreso dal telefonino in quel momento, non ne sapevo nulla».
E gli altri presenti alla riunione, da Tajani alla Bernini?
«Loro hanno detto di non saperne nulla. Se è vero o no, non lo so. E, sinceramente, a questo punto m' interessa anche poco. Il succo politico della faccenda, quello sì, m'interessa eccome. Forza Italia, invece di aprirsi, si chiude in se stessa. Vince la mozione "meno siamo, meglio stiamo", come il titolo del vecchio programma di Arbore. Che però, in politica, non funziona. A meno che l' obiettivo non sia conservare le cariche di qualche dirigente seduto alla guida di un partito che oggi vale il 6 percento, domani il 5, dopodomani il 4».
Berlusconi ha lanciato l' Altra Italia, una federazione di partiti che presidia il centro.
«Lo ripeta ad alta voce e veda come suona, "una federazione di partiti che presidia il centro". A me sembra il lancio di un' auto d' epoca: non ci paghi il bollo, è vero; ma non vai neanche troppo lontano. Invece di scommettere sul rilancio di un partito che ha fatto la storia di questo Paese, lo si riduce a una federazione insieme a qualche cespuglio di centro, equidistante dal Pd e da Salvini, pronto ad allearsi alla bisogna indifferentemente con l' uno o con l' altro. Eravamo Forza Italia; ora diventeranno, e lo dico col massimo rispetto, come l'Udc. Il sottoscritto, e non ne ho mai fatto mistero, è ancorato con forza all' interno del centrodestra, con la Lega e Fratelli d' Italia».
Uscito da Forza Italia, fonderà un suo partito?
«Oggi (ieri, ndr) sono uscito da Forza Italia. Domani non entro da nessuna parte. Faccio il governatore della Liguria, ovviamente. E, da settembre, inizierò un giro per l' Italia per aggregare tutti quelli che avranno voglia di aderire a una sola parola d' ordine. "Cambiamo"».
Lei era il consigliere politico di Silvio Berlusconi. Com' è, umanamente, separarsi?
«Sono davvero dispiaciuto. Soprattutto per non essere stato in grado di convincere una persona che ha fatto tanto per questo Paese che fosse arrivata l' ora di mettersi di nuovo in gioco, di cambiare, di essere generosi. Ma in Forza Italia, ieri, la logica egoistica ha prevalso sulla generosità e la codardia sul coraggio. Me lo lasci dire. Anche dal punto di vista umano, per com' è andata a finire, là dentro è rimasto il deserto».
Berlusconi gela Toti: "È un nominatissimo". Il Cav apre la "fase due" azzurra e guarda all'asse con la Lega. Il governatore ai margini. Anna Maria Greco, Venerdì 14/06/2019, su Il Giornale. È la fase due di Forza Italia, a 25 anni dalla sua nascita. Meno verticistica, con più democrazia interna, più allargata alla base con l'elezione diretta di coordinatori nazionali e regionali, forse anche con le primarie. Silvio Berlusconi annuncia al comitato di presidenza che molto cambierà, venendo incontro al pressing di tanti azzurri. Cerca anche di disinnescare la bomba Giovanni Toti, ma basterà a evitare la scissione che sembra vicina? Sembra difficile, perché il governatore della Liguria diserta la riunione in cui sostanzialmente le sue principali richieste vengono accolte e prima che inizi lancia dalla radio un avviso di rottura, che alle orecchie del leader suona offensivo. «In tutta franchezza - dice a Un giorno da Pecora su Rai Radio 1 - penso che il presidente Berlusconi abbia un ruolo, uno status, uno standing diverso dal candidato delle primarie. Ho sempre detto che è il fondatore del centrodestra». E ci va giù duro: «Deve rendersi conto che un'epoca è finita, oggi deve cominciare a pensare a come lascerà il suo partito a questo Paese, come fanno i grandi statisti». Parla anche del nome di Fi su cui ragionare, «d'altronde, anche Berlusconi voleva cambiarlo». Ma per ora il problema non è all'ordine del giorno, l'alternativa che circola è solo L'Altra Italia. Gli chiedono se si presenterebbe a primarie per segretario e lui: «Mi candiderei, con le mie idee».
Un requiem brutale che non può non irritare il Cavaliere che, a fine riunione, dice di Toti: «L'ho nominato io e chiede la democrazia un nominatissimo?». Il clima, fra i due, ricorda l'ultimo scontro tra Berlusconi e Gianfranco Fini, con il suo «Che fai, mi cacci?». Solo che qui il leader ha pazientato molto, con i suoi fedelissimi ha cercato di ricucire fino al punto di valutare se andare alla manifestazione frondista di Toti del 6 luglio, l'ha invitato anche all'incontro di ieri. E l'altro, invece, ormai si scopre determinato a portare la sua scialuppa di transfughi verso i lidi di Lega e Fdi. In fondo, l'annuncio della rivoluzione in casa azzurra forse mirava proprio a questo, a scoprire le mire di Toti e togliergli ogni alibi. Ora che il rinnovamento che chiedeva è in atto, il governatore dovrebbe partecipare al Consiglio nazionale del 25 giugno, che approverà le modifiche dello statuto per consentire le elezioni interne. Se non lo farà, come sembra probabile, sarà fuori. Da traditore.
Il clima dentro Fi sembra sospeso, le liti tra ala nordista e sudista accantonate, tutto concentrato sulla nuova stagione di una forza che vuole rinascere e riguadagnare consenso, ma deve capire se Matteo Salvini accoglierà la proposta di federazione del Cav o vorrà correre da solo o solo con Fdi alle elezioni ormai vicine. All'intervento del capo non c'è che plauso, solo quando parla delle ipotesi sul tavolo, partito unico o alleanza a più identità, Brunetta e Romani intervengono per ribadire il no ad un Pdl 2.0. Il vice Antonio Tajani, reduce dal summit Ppe in Spagna, spiega il quadro incerto di alleanze e nomine in Europa, con il governo italiano isolato. La Carfagna, di cui si parla tra i 3 o 5 coordinatori nazionali (per Toti ha le sue chance), è defilata e a metà riunione va via per un impegno. Schifani ha già chiarito che l'opposizione al governo dev'essere «a tutto campo, senza distinzioni tra M5S e Lega, perché così si è arrivati all'8 %». Le capogruppo Gelmini e Bernini sono soddisfatte, perché la nuova linea politica forte nel centrodestra, si traccerà ascoltando i gruppi parlamentari. «Fi è pronta ad affrontare con determinazione la sfida del cambiamento».
Silvio Berlusconi, durissimo sfogo contro Mara Carfagna: "Si è montata la testa. Quella..." Lorenzo Mottola su Libero Quotidiano il 3 Agosto 2019. Berlusconi si aggira per i 4500 metri quadri di villa Certosa parlando nervosamente al telefono. È inviperito. Non certo per l' addio di Giovanni Toti, che era ampiamente previsto e che non disturberà i sonni di nessuno a Porto Rotondo («Bisognava buttarlo fuori due mesi fa», dice a uno dei suoi il Cavaliere). Il problema è la rivolta della Carfagna, che ora pretende di guidare il gregge azzurro («Si è montata la testa, si sente superiore agli altri», continua Silvio). E da quando Mara s' è imbizzarrita il partito è diventato una polveriera. Una valanga di critiche ha accolto la scelta del fondatore di Forza Italia di tornare sui suoi passi e formare un coordinamento a cinque che affianchi Berlusconi, lasciando ovviamente a lui l' ultima parola su ogni scelta rilevante. Una mossa che ha di fatto cancellato la presunta svolta democratica annunciata il 19 giugno scorso. La crisi con la Carfagna, in realtà, pareva tutt' altro che irreversibile. Nei prossimi giorni si sarebbe dovuto tenere un incontro chiarificatore in Sardegna per discutere delle richieste dell' ex ministro delle Pari Opportunità, che non sono irrealizzabili. Le era stato promesso che sarebbe stata lei a gestire il partito fino al congresso. Di conseguenza sarebbe bastato ricavarle un ruolo di prima inter pares tra i cinque dirigenti che il Cav ha nominato ai vertici per convincerla a rientrare nei ranghi. Le trattative, tuttavia, ieri sera sono saltate: una telefonata di fuoco ha fatto nuovamente salire la tensione tra i due.
L'APPELLO. All'ex premier, peraltro, resta l' amaro in bocca per un altro fatto: il lancio dell' Altra Italia è stato accolto con una certa freddezza. E a questo fatto si aggiungono sondaggi pesantissimi, con Forza Italia al 6,7 per cento, superata da Fratelli d' Italia (7,4%) e stracciata dalla Lega, ormai vicina al 40%. Non a caso continua la campagna acquisti di Giorgia Meloni tra i politici azzurri delusi (ieri è stata la volta del milanese Andrea Mascaretti, ne seguiranno altri). Molti ritengono ormai impossibile trovare spazi per continuare a far politica all' ombra di Arcore. In Lombardia, per esempio, la gran parte dei consiglieri e degli assessori minaccia di lasciare. Per questo Silvio ieri sera ha provato a lanciare un appello via Twitter: «Lo dico agli scontenti: basta con queste dichiarazioni coram populo. Basta perdere tempo in chiacchiere e polemiche. La situazione del Paese è drammatica. Dobbiamo lavorare tutti insieme per salvare l' Italia». Difficile, tuttavia, questo messaggio basterà a placare gli animi.
LA RIFORMA. D'altra parte un conto è restare in un partito aperto al cambiamento e di conseguenza alla possibilità di tornare a crescere, un altro è rimanere ancorati a Berlusconi, un leader non esattamente all' apice della sua carriera. E pensare che l' ex premier ceda lo scettro del comando a qualcuno è pura illusione. Il progetto di riforma approvato l' altroieri è in effetti un testo di una singola paginetta, dove si riconosce che tutto il potere resta nelle mani del Cav e si apre a primarie aperte a soli iscritti (un contronsenso, se può votare solo chi ha la tessera in tasca allora si tratta di un congresso, più che di primarie). Questa la ragione per cui Toti ha deciso di lasciare. Ieri il governatore ha annunciato che a settembre a Matera si terrà la prima tappa del suo grande tour per lanciare i suoi nuovi circoli. Dopodiché girerà tutte le regioni d' Italia per illustrare il suo progetto («ammesso e non concesso che trovi qualcuno interessato», replica qualcuno ai vertici azzurri...). Il cordone ombelicale con i berlusconiani tuttavia non è rotto. L' ex dirigente Mediaset resta comunque presidente di una regione grazie ai voti di Forza Italia. E anche dopo la rottura ha detto di aspettarsi che il suo ex partito sostenga la sua candidatura alle amministrative il prossimo anno, quando dovrà riguadagnarsi la poltrona. Per di più si terrà la tessera: «Stracciarla?» ha risposto ai cronisti, «no, ci mancherebbe. Non ho mai stracciato niente in via mia: sono tutti cari ricordi». Così il piede resta in due scarpe. Lorenzo Mottola
Marco Travaglio per “il Fatto Quotidiano” il 3 Agosto 2019. Ormai a parlare di Forza Italia si rischia il vilipendio di cadavere. Però con questo caldo bisogna pure svagarsi un po'. Non so se avete seguito gli ultimi sviluppi. A giugno quel che resta del Caimano nomina due coordinatori di FI : Giovanni Toti e Mara Carfagna. Ma Toti minaccia di andarsene un giorno sì e l' altro pure dal partito che dovrebbe coordinare. E tre giorni fa dà l' annuncio: "Stavolta me ne vado". Ma si sa com' è fatto: lo chiamano "Io me ne andrei", alla Baglioni. Dice sempre "Allora io vado", "Guardate che sto andando", "Mi avete sentito? Io esco". Ma nessuno lo trattiene. E alla fine resta. Ma B. pensa che sia uscito e nomina la Carfagna coordinatrice unica. Lei, pur conoscendolo bene da un pezzo, ci crede. E si scorda quanta sfiga porta quella carica: per informazioni, rivolgersi a Scajola, Antonione, Verdini, Bondi e Alfano. Ne ha ammazzati meno il colera. L' altroieri B. riunisce un fantomatico "tavolo delle regole" a cui -non avendone mai rispettata una in vita sua- non partecipa. Toti invece, siccome se n' era andato, c' è. E pure Mara. A un segnale convenuto, B. dirama un comunicato che annuncia un Comitato di Presidenza con Carfagna, Bernini, Gelmini, Tajani e un certo Sestino Giacomoni. Toti scopre di non esserci, si incazza e dice che se ne va, come se non se ne fosse già andato 23 volte: "Oggi sono uscito da FI , ma domani non entro da nessuna parte. E da settembre inizierò un giro per l' Italia". Quindi siamo alle minacce. Mara, passata in 24 ore da coordinatrice unica a una dei tanti, lascia il Comitato, ma non FI . L' unico che se ne va davvero è quello che l' ha fondata: cioè B., che con agile mossa fonda "L' Altra Italia". Nel senso che, dopo aver distrutto questa, ne cerca un' altra. L' annuncio lo dà sul Giornale, in una preziosa intervista a Sallusti, caposcuola della corrente bipolare del giornalismo: nei giorni pari lecca B., nei dispari incensa Salvini e la domenica riposa. Messo a dura prova dalle sue domande incalzanti -testuale: "Presidente, che sta succedendo. Lancia un nuovo predellino?"- il fu Caimano risponde: "Lancio l' Altra Italia dei veri italiani. Non sarà un partito, ma la casa di chi salverà il Paese", "una federazione fra soggetti di centro-destra che si ispirano alle idee e ai valori liberali e cristiani e alle tradizioni garantiste della civiltà occidentale". Tradotto: i soliti pregiudicati che vanno in chiesa e rubano pure dalla cassetta delle offerte. Il marchio, ancor prima del deposito Siae, è già un trionfo: "Poco tempo dopo la nostra uscita molte realtà politiche e civiche e personalità di primo piano hanno risposto positivamente al nostro appello". Non solo: "Altri si sono interessati e ci raggiungeranno: siamo solo all' inizio". L' ingresso a Palazzo Grazioli è già transennato per contenere l' assalto. "È il segno che c' è una grande voglia di darsi da fare per liberare l' Italia da questa situazione disastrosa", come del resto si era evinto dalle elezioni europee, con le forze di governo sopra il 51% e FI che vuole salvarci da loro all' 8. Della fiumana di prestigiose adesioni, B. non fa un solo nome. Ma il Giornale anticipa in esclusiva il meglio dei "politici, manager, rappresentanti della società civile ed esponenti provenienti dalla trincea del lavoro" ansiosi di "riaccendere la scintilla del centro moderato". Tenetevi forte: c' è l' ex ministro Maurizio Lupi, che paragona B. a "don Sturzo che trascorse anni a girare l' Italia per risollecitare pezzi di società viva", "molto colpito in particolare dal suo riferimento alla gratuità", che è da sempre il suo forte. C' è l' ex candidato trombato in Lombardia Stefano Parisi "con la sua Energie per l' Italia, forte del tour della Penisola alla ricerca di persone disposte a dare un contributo politico". C' è l' ex-governatore campano Stefano Caldoro. C' è Clemente Mastella. Ci sono l' ex-sottosegretario Mino Giachino, reduce dalle marcette Sì Tav con le madamine; l' ex deputato ed ex inquisito siciliano Saverio Romano; l' ex-tutto Fulvio Martusciello. E - udite udite - "Daniele Priori, di Gaylib (i gay di centrodestra) e Francesco Pasquali, ufficio di segreteria nazionale del Pli", che è un po' come dire aiutante di campo di Annibale. Più che l' Altra Italia, ricorda quella che si sperava archiviata per sempre. Mancano solo Dell' Utri e Formigoni, momentaneamente agli arresti domiciliari, e Matacena, latitante. Quindi il partito c'è e la federazione pure: mancano solo gli elettori, ma che saranno mai. I candidati invece stanno arrivando a frotte. Li contatta personalmente B. con le sue badanti, come Carlo Verdone di Un sacco bello che compulsa freneticamente l' agendina semivuota a caccia di un compagno di viaggio last minute : alla lettera E c' è "Elettrauto Silvano", alla F " FFSS informazioni", poi più nulla fino alla O di "Olimpico stadio" e alla S di "Stadio Olimpico" e "Sarta Adriana". Allora chiama un ex-compagno di scuola, ma trova il fratello: "Senti, noi ancora non ce conosciamo, io so' 'n' amico de tu fratello. Siccome me s' è creata 'na situazione strana e me s' è liberato 'n posto in machina pe' 'n viaggio che m' ero organizzato 'n Polonia, volevo sape' se a tu fratello je 'nteressava. É reperibile? É rintracciabile? 'O devo sape', perchè c'ho 'n' altro che m' ha già dato 'na mezza risposta. A te per esempio te 'nteresserebbe? Ma quanti anni c' hai? Ah, tredici. Vabbè, restamo 'n contatto". "Pronto Amedeo, ciao, so' Enzo! No Renzo, Enzo! Se te ricordi bene ce semo conosciuti du'-tre mesi fa ar Distretto militare in coda a pijà er duplicato der congedo. Io ero quello che stava dietro de te co' la majetta de spugna girocollo, tipo mare Volevo sape' com' eri messo pe' feragosto, perchè c' ho un progetto abbastanza str Ah, 'o passi co tu moje? Vabbè, buon feragosto! Anche a tu moje! Sarà pe' 'n' rtra vorta". O per un' Altra Italia.
Scissioni e arresti. I giorni più bui di Forza Italia. È in corso uno scontro interno a Forza Italia tra due cerchi magici: quello che vuole l’accordo con i sovranità e chi mal sopporta Matteo Salvini. Riccardo Paradisi il 12 Maggio 2019 su Il Dubbio. Abbandoni, contestazioni, minacce di scissione, i due cerchi magici in lotta e adesso l’inchiesta in Lombardia. Il partito di Berlusconi è sull’orlo dell’esplosione. Per Forza Italia non è mai stato più buio di così. L’inchiesta giudiziaria che in Lombardia ha investito tra gli altri Fabio Altitonante e Pietro Tatarella – su cui il partito aveva investito per un rilancio d’immagine in vista delle europee – ha colpito Forza Italia in sincrono con i nuovi problemi di salute di Berlusconi. «Stavolta ho avuto paura» ha detto il Cavaliere appena dimesso dal San Raffaele. Ed è la prima volta che sulla morte Berlusconi non scherza. Il leader di Forza Italia è molto provato, ma a dispetto dei consigli medici e famigliari è costretto ad affrontare la campagna elettorale per le europee. Forza Italia è sull’orlo dell’esplosione: un risultato sotto il 10% segnerebbe un punto di non ritorno. Ormai da mesi è in atto un’emorragia inarrestabile di quadri forzisti dal partito. In Sicilia la scelta di Miccichè di riesumare per le regionali lo schema del Nazareno – l’intesa tattica col Pd – ha accelerato le reazioni di chi non ci sta e si smarca. Basilio Catanoso, pochi giorni fa, ha rassegnato le dimissioni da vice coordinatore regionale per costituire insieme a un gruppo di dirigenti isolani Muovitalia, soggetto da portare in dote a un futuro centrodestra leghista. «Forza Italia – dice Catanoso – è ormai una nave senza nocchiero». E’ la stessa critica che muovono al partito i dirigenti azzurri piemontesi capeggiati da Massimo Baldini, ex sottosegretario alle Comunicazioni con l’ultimo governo Berlusconi, che hanno dato vita a “Progetto Italia”, che strizza l’occhio a Calenda e vuole aggregare i moderati europeisti «orfani della vecchia Forza Italia». Il governatore della Liguria Giovanni Toti invece, sempre più vicino ai sovranisti, pensa addirittura a un nuovo partito, «perché Forza Italia non ha più un futuro». Ultimo, ma non ultimo, due giorni fa è stato l’ex sindaco forzista di Andria Nicola Giorgino ( fratello del più noto Francesco, giornalista del Tg1, anche lui in riposizionamento sovranista) ad abbandonare Forza Italia e passare alla Lega. Clamorosa poi la protesta qualche giorno fa davanti alla villa di Arcore di un gruppo di militanti forzisti capeggiati da Fabio Sanfilippo dirigente piemontese del partito. Sotto accusa: «L’assenza di regole meritocratiche nel partito» e «i cerchi magici». Ed è evidente che non è solo la corte di Berlusconi il bersaglio ma anche la sua monarchia. Abbandoni, scissioni e contestazioni a cui ciò che resta del rissosissimo quartier generale forzista assiste impotente. Concentrato piuttosto a capire come andrà a finire lo scontro decisivo al massimo vertice del partito. Quello informale ma sostanziale dei due cerchi magici che circondano e condizionano Berlusconi: Arcore 1 e Arcore 2, come li chiamano nell’entourage di Forza Italia, o anche Villa San Martino contro Villa Maria, le due residenze del Cavaliere, presidiate da contrapposti cerchi di influenza. Arcore 1 o Villa San Martino, è il vecchio inner circle berlusconiano: Licia Ronzulli, Gianni Letta, Sestino Giacomoni, Fedele Confalonieri, l’avvocato Niccolò Ghedini, i figli Marina e Piersivlio, Antonio Tajani. E’ l’area aziendalista nostalgica sì del Nazareno ma che in nome della realpolitik bada, con gradazioni diverse, a non guastare i rapporti con Salvini e il governo ( anche se Gianni Letta, a cui proprio non garba Salvini, appare sempre più defilato). Mentre ad Arcore 2, Villa Maria, il cerchio è animato da Francesca Pascale, la fidanzata di Berlusconi e la senatrice Maria Rosaria Rossi, terminali degli sfoghi antisalviniani di settori del partito che non ci stanno all’annessione leghista. E per questo hanno guardato con favore all’esperimento siciliano di Micciché. Per ora la linea impartita da Berlusconi, ribadita da lui stesso anche in queste ore, è colpire i Cinquestelle e spingere Salvini al divorzio con Di Maio, perché, «il centrodestra non esiste senza Forza Italia». Ma di questa centralità azzurra si dovrà riparlare dopo il responso delle europee, dove il partito verrà misurato. Per questo Berlusconi è costretto a scendere di nuovo in campo. Per garantire un futuro a Forza Italia. E a questa condizione, la sopravvivenza del partito, è subordinata ogni ipotesi sulla successione. A proposito della quale è evidente l’attivismo di Mara Carfagna incentivato in via esplorativa dallo stesso Berlusconi che a lei ha sempre guardato con grande favore. Ma c’è chi in Forza Italia formula anche altre ipotesi. Ossia che il partito avrebbe inscritta nel suo futuro un’ordinata confluenza entro un nuovo soggetto moderato che potrebbe avere come punto di riferimento un leader dalle caratteristiche simili a quelle del Cavaliere e col quale Berlusconi condivide un’omogeneità di interessi. Un altro tycoon che attenderebbe solo lo schiarirsi dell’orizzonte per scendere in campo, passo a cui si prepara da tempo. Il nome ovviamente è quello di Urbano Cairo. Ma questa, come si dice, è un’altra storia.
MATRIMONIO O PATRIMONIO? F. D’E per “il Fatto Quotidiano” il 21 agosto 2019. Il ricovero di agosto, dicono da Arcore, sarebbe avvenuto dopo una tumultuosa cena di B. con la fidanzata Francesca Pascale, in cui lei gli avrebbe chiesto di essere sposata. Lettera di Francesca Pascale pubblicata da “il Fatto Quotidiano”: In merito all'articolo pubblicato lunedì sulle pagine del Fatto dal titolo: "Salvini resuscita B.: è la lunga notte degli azzurri viventi", le affermazioni, che mi riguardano, sono gravi e infamanti. Mi riservo quindi di intraprendere le opportune iniziative legali nelle sedi competenti. Chiedo, pertanto, di pubblicare la smentita alla notizia che è destituita da ogni fondamento. Piuttosto che affidarsi ai soliti spifferai magici è più opportuno sentire il diretto interessato. Per esempio, avrei persino potuto raccontare cosa significa per me l'Amore. Avrei detto che per me è il più nobile dei sentimenti, che non ha necessità di contratti o vincoli religiosi per esistere. Avrei spiega-to che per me non deve avere barriere o pregiudizi perché l'amore è una cosa seria e le leggi degli uomini spesso non lo sono. Personalmente non credo che il matrimonio possa ridursi a una mera firma o mero rito: quello civile mi intristisce e quello religioso mi fa simpatia. Pur rispettando il matrimonio come istituzione o scelta individuale, non ritengo però che esso sia tra le cifre fondamentali di un amo-re e né tra le condizioni che rendono nobile e autentico il più puro dei sentimenti.
La contro risposta dell’autore dell’articolo: Gentile Francesca, una donna che sa descrivere così bene l'Amore - sono d'accordo con lei sulla maiuscola - non può rabbuiarsi per le cattiverie degli spifferai magici di Arcore o di Palazzo Grazioli. Anzi, il retroscena riferitomi era alquanto feroce e io mi sono limitato a depurarlo. In ogni caso prendo atto della sua smentita: sarebbe triste discutere in tribunale del "più nobile dei sentimenti umani". Omnia vincit amor.
Silvio Berlusconi, Fabrizio Cicchitto: "Cosa gli è appena accaduto, la verità sul caos in Forza Italia". Fabrizio Cicchitto su Libero Quotidiano il 7 Agosto 2019. Caro direttore, mi consenta di sviluppare su Berlusconi e su Forza Italia alcune considerazioni derivante anche da un' esperienza politica diretta che non mi porta però ad avere il complesso astioso dell' ex perché anzi, visto quello che offre il mercato, io auspico un rilancio di Fi. Certo, non c' è dubbio però che se un leader, nel momento più grave della vicenda italiana, cioè nel 1994, fonda un partito grazie al suo carisma, ai suoi soldi, alle sue tv e ai suoi giornali e al suo coraggio («ti faranno fare la fine di Craxi», prevedevano Confalonieri e Letta e ci sono andati vicino) e ha il merito storico di aver salvato la democrazia italiana evitando che i pieni poteri fossero acquisiti dai pm di Mani Pulite e dall' ultragiustizialista PDS a un certo punto, arrivato a 82 anni, decide di chiudere baracca ha tutto il diritto di farlo. Diverso però è il discorso se Berlusconi quel partito in crisi vuole rilanciarlo. Allora, si deve aprire tutto un altro discorso perché le ragioni della crisi non stanno nei cosiddetti traditori che avrebbero lasciato il partito, ma in una serie di errori politici commessi anche da Berlusconi e che hanno provocato le ripetute divisioni nei suoi gruppi dirigenti. Dopo l' exploit del 1994 Berlusconi capì che da solo non ce l' avrebbe fatta e oltre ai fondatori come Giuliano Urbani, Gianni Letta, Marcello Dell' Utri, Cesare Previti chiamò a raccolta grandi intellettuali (Giuliano Ferrara, Lucio Colletti, Gianni Baget Bozzo, Francesco Forte, Paolo Del Debbio) e una serie di cosiddetti professionisti della politica provenienti dalla DC, dal PSI e dai partiti laici. Tutti costoro guidati da Berlusconi costruirono un partito che non era affatto di plastica, ma radicato nel territorio come poi dimostrarono le elezioni locali. Tutto ciò, insieme all' unificazione con AN, portò il PDL nel 2008 al 38%.
LA CRISI FINANZIARIA. I guai cominciarono dal 2010 in poi. Della rottura Fini ha tutte le responsabilità, ma qualcosa per evitarla si poteva fare e non fu fatta malgrado gli sforzi di Giuliano Ferrara, di Denis Verdini e del sottoscritto. A fine 2010 il governo rimase in sella per 4 voti e giustamente Bossi sostenne la necessità delle elezioni anticipate. Berlusconi volle insistere, ma arrivarono la terribile crisi finanziaria, la vicenda tutt' altro che brillante delle cene eleganti e addirittura la rottura con Tremonti. A quel punto la via più ragionevole erano le elezioni (come sostenevano Brunetta e Matteoli), ma l' azienda e Berlusconi scelsero il governo Monti. Monti fece un governo di lacrime e sangue, alcune giustificate altre no. La conseguenza di quelle lacrime fu nel 2013 l' esplosione politica del Movimento 5 stelle, mentre Fi perse 6 milioni di voti e il PD 3. Dal 2013 in poi Berlusconi ha guidato la corazzata Forza Italia come se fosse un side-car, sterzando a destra e a sinistra: prima scelse la presenza nel governo Letta, dopo pochi mesi ruppe con il governo e provocò la frattura dello stesso PDL (Alfano e NCD), ma solo due mesi dopo fece il patto del Nazareno con il PD, il patto durò un anno, ma poi fu rotto sull' elezione di Sergio Mattarella e con il rovesciamento della posizione sulle riforme: fu allora, a mio avviso, che Berlusconi e Renzi si sono suicidati. Tutto ciò è avvenuto con la rottura di larga parte del gruppo dirigente tradizionale e con l' affermazione di un ristretto cerchio magico guidato dall' on. Ghedini.
CONTINUI ZIGZAG. Ma attraverso questi continui zigzag nella linea politica Berlusconi ha consegnato un enorme spazio politico a Salvini che ha portato avanti una linea politica organica forte, aggressiva, anche se per quello che mi riguarda tutt' altro che condivisibile per il suo sovranismo e il suo modo di far politica. Poi è vero che tutti coloro che sono usciti da Forza Italia non hanno avuto fortuna, ma a sua volta Forza Italia a furia di perdere classe dirigente è passata dal 38% al 6%. Allora anche se avviene molto tardivamente un rilancio di Forza Italia per di più combinato con un accrocco con una serie di forze minori, vedi Altra Italia, non può consistere in marchingegni organizzativi, ma in una scelta politica forte. Berlusconi deve rivolgersi a quel circa 25% di elettori che non vota. Quindi questo partito, come sostiene anche l' on. Rotondi, deve essere un agile vascello pirata in rottura non solo con il PD e i grillini, ma anche con Salvini. Lanciare un nuovo centro per metterlo dentro l' alleanza con Salvini vuol dire preparare una sorta di suicidio assistito. Detto tutto ciò, sull' esigenza di una linea politica forte e marcata va anche detto che occorre una classe dirigente meno ripetitiva e smorta. Ci vorrebbe anche un' iniezione di fantasia. A Vittorio Sgarbi non può esser affidato un partito del 30% perché non avrebbe certo l' equilibrio per gestirlo senza fratture, ma invece un contributo di fantasia e di trasgressione, al di fuori di ogni schema, per far risalire un partito dal 6% a ben altre cifre forse una mano sarebbe in grado di darla. Insomma scelta di un progetto politico ambizioso e ingresso della fantasia nella politica. Fabrizio Cicchitto
Berlusconi, Cicchitto e la cronistoria del romanzo azzurro. Il volume su Forza Italia dell’ex capogruppo Pdl. In libreria per Rubettino il volume “Storia di Forza Italia, 1994- 2018”, scrive Paola Sacchi il 23 Marzo 2019 su Il Dubbio. Certo, a lui, ex amici, beneficiati vari e semi- alleati ora possono rimproverare di tutto: dalla rivoluzione liberale mancata fino al fatto che doveva andare a letto presto la sera, come Bob De Niro in C’era una volta in America. E naturalmente che doveva nominare un erede politico. Ma soprattutto che dovrebbe ritirarsi a fare “il nonno”. Seguendo l’adagio del luogo comune di un’“italietta” rimasta un po’ paesana, mentre nelle democrazie occidentali imperversano leader settantenni e ottantenni. Ma Silvio Berlusconi, sceso in politica quasi sessantenne e che in politica è da meno anni di Matteo Salvini, e forse anche meno di Matteo Renzi, è sempre qui, pronto ora a scendere in campo per le Europee. Pur essendo già da tempo anche “Storia”, avendo fondato il bipolarismo ed essendo, così, stato decisivo per dare un equilibrio allo stesso sistema decapitato da Mani pulite, che però “risparmiò ex comunisti ed ex sinistra Dc”. Fu un bipolarismo anomalo, rettosi su odio- amore, antiberlusconismo e berlusconismo. Eppure, leggendo Fabrizio Cicchitto nella sua Storia di Forza Italia, 1994- 2018 ( Rubettino, con prefazione di Francesco Verderami), anche chi, come la cronista, quegli eventi li ha scritti termina le 400 pagine dicendosi che forse manco un elefante avrebbe resistito. Che forse è un po’ da luogo comune la spiegazione secondo la quale Berlusconi avrebbe resistito solo perché è un uomo molto ricco. Non avrebbe retto senza la forza interiore, il “sentirsi sempre vincente”, il “carisma” che l’autore del libro gli riconosce. L’assalto concentrico fu scatenato contro di lui fin dal primo giorno. Una caccia grossa da parte di certa magistratura, del “circo mediatico”, di un centrosinistra mai liberatosi dal giustizialismo e dal vizio della delegittimazione dell’avversario, e anche di alleati da lui stesso “sdoganati”. Come scrive Verderami, Berlusconi «ridette la parola a tutto un mondo che non l’aveva», ovvero la destra. All’ “elefante” furono appioppati capi di imputazione che per numero e tipo di accuse quasi manco Al Capone, per dire, ebbe, come ha scritto Paolo Delgado per Il Dubbio. Chiaro che non è solo una vittima e che di errori ne ha commessi. Cicchitto, ex capogruppo del Pdl ( fusione tra Forza Italia e An, per poi tornare ad essere solo Forza Italia) alla guida per anni di oltre 200 deputati non glieli risparmia, glieli cantò anche in faccia. Però l’ex capogruppo chiude il libro tributandogli “l’onore delle armi”. Scrive: «La decisione di Berlusconi di presentarsi alle elezioni europee rappresenta un gesto di coraggio, al limite del salto nel buio. Esso deriva dalla presa di coscienza che senza un gesto esemplare è a rischio la stessa tenuta di Forza Italia come soggetto politico autonomo». Osserva: «Non è affatto certo che questa iniziativa riuscirà a rivitalizzare la sua leadership e il suo partito. Per altro verso, però, la decisione di Berlusconi di presentarsi alle Europee mira a dar voce a un’area moderata, liberale, riformista che non si riconosce nella sinistra italiana, ma nemmeno nel sovranismo al limite del razzismo di Salvini, e che è in totale contrapposizione con il M5s, caratterizzato da un estremismo infantile, autentico pericolo per l’Italia». Conclusione: «Al netto di tutti gli errori, non si può fare a meno di rendere a Berlusconi l’onore delle armi, anche tenendo conto dell’oggettivo ruolo liberal- democratico che la sua discesa in campo nel 1994 ha svolto». Come un crono-storico Cicchitto, coadiuvato dal giornalista Alessandro Fonti, riproietta l’intero film del “romanzo azzurro”. Con tutti contro uno, che già nel gennaio 1994 quando fece il famoso discorso “l’Italia è il Paese che amo” aveva ben nove procedimenti a suo carico: «Dopo che decise di fare politica ( lui, fino ad allora imprenditore incensurato, ndr) totalizzò da parte della Procura di Milano diciassette inchieste nel 1994 e ventitré nel 1995». Poi, il “rosario” si infittì di altri numerosi e velenosi grani. Fino ai nostri giorni. Quasi impossibile nel percorso di guerra dei suoi governi separare la politica dalla giudiziaria. Così come non si può separare anche la sua storia da quella della sua creatura Fi. Cicchitto riporta aneddoti gustosi in cui lui e Denis Verdini per due volte quasi vennero alle mani. In uno di questi duelli, per poco non finiti a botte, fu lo stesso Cav a mettersi fisicamente in mezzo ad Arcore nel 2013 per dividerli. Forza Italia, movimento- partito per la stessa definizione del suo fondatore e quattro volte premier è “monarchia e anarchia”. Quella stessa Fi, che nasce dai 26 manager di Publitalia, dal “sole in tasca” guidati da Marcello Dell’Utri, passa poi da partito accusato di essere di plastica ( in realtà ogni manager aveva referenti già da allora sul territorio) a partito radicato quasi in modo scientifico da Claudio Scajola. Fino all’arrivo di Sandro Bondi come coordinatore con Cicchitto nel ruolo di vice. Per spiegare una certa propensione del Cav al “divide et impera”, Cicchitto ricorda di quando «il presidente mi chiedeva: con Sandro come va?». E lui da vecchia volpe politica al Cav rispondeva: «Molto bene, Silvio». Poi, però Cicchitto in modo malizioso aggiunge che nell’aria percepiva «una certa delusione» del capo azzurro. Secondo Cicchitto, Berlusconi nelle elezioni del 2018 sottovalutò «la forza dirompente di Salvini». Quanto alle famose “ragazze” l’ex capogruppo svela di aver avvertito “Silvio”: «Guarda che una eminente personalità di sinistra mi ha avvisato che dovresti cambiare comportamenti». «Ma lui non mi dette retta», aggiunge l’ex capogruppo. Scrive Cicchitto, autore anche dell’Uso politico della giustizia, adottato come manuale dal Cav: «In quel perverso attacco che gli fu fatto non c’era alcun reato…». Ma forse mai per nessuno come per il Cav «è valso lo slogan sessantottino secondo il quale il personale è politico».
E Fede commosso disse: «Berlusconi ha vinto contro tutto e tutti…». Marzo 1994, cronaca della nascita della seconda Repubblica: «Partii verso gli studi di Rete 4 mentre gli italiani stavano ancora votando. Sul taxi da Linate l’autista leghista mi disse: “sì, vinceremo, ma con Silvio non dureremo…”», scrive Paola Sacchi il 29 Marzo 2019 su Il Dubbio. La mattina in cui gli italiani si svegliarono senza ancora sapere che da lì a qualche ora sarebbero entrati nella cosiddetta Seconda Repubblica c’era il sole e faceva più caldo di ora. Si portavano già tailleur primaverili. Quel lunedì 28 marzo, lo stesso giorno di ieri di un quarto di secolo fa, di buon mattino mi imbarcai a Fiumicino per Milano. Meta Tg4, studi Mediaset, Milano2, ufficio del direttore Emilio Fede. Da inviata dell’Unità il mio allora direttore, Walter Veltroni, giornalista molto fantasioso e creativo, ebbe l’idea di spedirmi nella ‘ tana del lupo’, in quello che era un vero e proprio ‘ fortino’ dell’imprenditore Silvio Berlusconi che da lì a poche ore sarebbe diventato il vincitore di quelle elezioni che fondarono il bipolarismo italiano. Allora non c’era la potente macchina dei sondaggi di ora. Ma evidentemente Veltroni valutò che comunque sarebbe andata con Fede il pezzo sarebbe venuto bene: sia per descrivere la sua incontenibile disperazione in caso di sconfitta sia per descrivere la sua incontenibile gioia in caso di vittoria, vittoria che quella mattina era già nell’aria. Partii mentre gli italiani quel lunedì 28 marzo stavano ancora votando. Sul taxi da Linate l’autista leghista già mi dette il primo scoop: «Si, vinceremo, ma con Berlusconi non dureremo tanto perché come facciamo con Fini e il Sud?». Erano tempi in cui i tassisti erano ancora antenne sensibili da prendere in considerazione. Capii subito che era una notizia. Ma mi sembrava come di essere entrata in un nuovo mondo, un nuovo pianeta tutto da scoprire. Il Nord, l’imprenditoria brianzola, Milano2 con il suo bel laghetto dei cigni, il Jolly Hotel uno dei migliori della catena, le aiuole ben tenute, le villette, gli uffici del Tg4. Insomma, il cuore dell’impero del Cav. Con il suo fedelissimo Emilio a ricevermi. Come uscii dal taxi forse un po’ per la tensione mi cadde il cellulare ancora un po’ a bussolotto tipo film Wall Street. Ma appena entrai mi trovai immediatamente a mio agio e non potevo credere ai miei occhi di assistere dal vivo a quel «Gessica, Patrizia, Giovanna…» ripetuto in continuazione dal megadirettore alle segretarie come nella celebre e divertente imitazione di Corrado Guzzanti. Io ero proprio lì, nell’ufficio di Emilio seduta di fronte a lui alla sua scrivania, mentre le segretarie chiamate ogni mezzo secondo gli portavano le agenzie, caffè e gli passavano telefonate. Fede fece un’operazione trasparenza, per dimostrare a me e al mio allora giornale avversario politico che Berlusconi e con lui tutti gli uomini del presidente, da lì a poche settimane, non era quello che dipingevano mi volle accanto a sé per tutta quella giornata particolare che cambiò per sempre l’Italia politica. Ufficio a piano terra, vetrate, prato e fiori fuori. E un continuo «Gessica, Giovanna ecc.». Lavorava, parlava con me, parlava al telefono con politici e dava interviste. Lo chiamavano in continuazione da Forza Italia ma anche da altri partiti, come ex dc ed ex Psi ma anche Pds e lui a tutti: «Guardate che vince, vince, è fatta, sarà un trionfo». A uno mi pare disse anche un bel vaff. Spettacolo puro. Goduria per l’inviata. Mi portò con lui poi alla riunione di redazione. Perfetto, in quattro e quattrotto stabilì tutto: tu fai questo, tu quello… Una macchina sincronizzatissima. Come del resto sono le aziende del Cav. Poi a pranzo al Jolly Hotel. E al caffè un filo lieve di malinconia: ‘ Ora certo per Lui inizierà un’altra vita, non sarà più il mio amico editore, la mia famiglia… E poi per Lui sarà molto dura’. Ma la malinconia durò un attimo. Tornammo in ufficio. Ma nel pomeriggio a un certo punto, dopo tutte quelle ore insieme, la segretaria gli passò la telefonata più attesa da Arcore. Quasi commosso, con il volto radioso, mi disse: «Perdonami cara se ti faccio uscire, ma è Lui che sta partendo per Roma!». Poi si cambiò d’abito, si buttò addosso un bel po’ di Eau Sauvage di Dior ed io, divertita pensai: ma tanto i telespettatori l’odore non lo sentono. In diretta Emilio a un certo punto si commosse, dopo aver detto: «Berlusconi ha vinto contro tutto e tutti… Tutta la stampa contro… Certo, ora lo vedrò meno, non sarà più il mio editore…». E qui quasi non trattenne più le lacrime. Fede non era una "macchietta", ma giocava a fare l’attore. Un gran professionista. Molto attento ai rapporti con gli avversari politici. Me ne andai da Milano2 pensando che quella in fondo non fosse per niente la tana del lupo. Emilio ancora li con ‘Gessica, Giovanna, Jolanda’ e tutti i suoi professionalissimi vice intorno per andare in onda fino a notte. Storia, il giorno in cui il Cav cambiò la politica.
Vittorio Feltri, il libro che inchioda Berlusconi e Forza Italia: perché oggi rischia di sparire, scrive il 27 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Fabrizio Cicchitto ha scritto un nuovo libro ponderoso che io, pur non avendolo letto interamente, ma interamente annusato, squarcia il velo sulle vicende di Forza Italia, dai fasti iniziali fino al mesto presente. È un testo documentato che riflette in parte anche la mia esperienza come direttore del Giornale ereditato da Indro Montanelli per volontà di Silvio Berlusconi, fondatore estemporaneo di un partito che sostituì la Democrazia Cristiana dopo la morte violenta del Caf, provocata da Mani pulite, la famosa o famigerata inchiesta che distrusse la prima Repubblica senza crearne una seconda decente. Cicchitto è un fine analista, anzi un grande storico, della politica. La sa raccontare da maestro e da maestro la interpreta, però non la sa fare perché a lui interessa di più la teoria rispetto alla pratica. Eppure chi vuole capire cosa sia successo negli ultimi 25 anni deve leggere il suo volume: "Storia di Forza Italia, 1994 - 2018". Lo raccomando dal basso della mia modesta esperienza a chiunque non sia indifferente ai destini della cosa pubblica di questo vituperato Paese. Ho vissuto anche io il periodo in cui Silvio mise al mondo la sua creatura. Fui ospite a casa sua durante la fase iniziale, quella della gestazione che sfociò nell' esordio del partito. La mia fu una presenza marginale che tuttavia merita di essere citata. Silvio mi interpellò per sapere se avessi gradito il mio passaggio dall' Indipendente al Giornale. Poi parlammo di vari argomenti collaterali. Mi chiese un consiglio: chi porresti a capo del mio nuovo partito? Martinazzoli o Segni? Roba vecchia, risposi. Il capo è bene che sia lei. Prenda personalmente in mano la pratica e otterrà buoni risultati. Ne era evidentemente già convinto tant' è che mi ascoltò. Fui assunto alla direzione del Giornale e il resto è noto. Forza Italia vinse le elezioni per un pelo. Il governo durò pochi mesi, ma si aprì la stagione del bipolarismo. Cicchitto si aggregò nel 1997 e interpretò il ruolo del faro insieme ad altri numerosi intellettuali, da Pera a Melograni e a Urbani, che successivamente furono giubilati perché troppo intelligenti per farsi dominare dal Cavaliere. Il quale non ha voglia di governare, preferisce regnare e se ne fotte di quel che accade in Italia. O meglio non riesce a incidere nella realtà della patria. Fabrizio lo ha intuito subito benché abbia resistito a lungo a fianco del monarca di Arcore. Il viaggio nella democrazia degli Azzurri è cosa nota. Non serve una descrizione dettagliata. Fabrizio ha tentato in ogni modo di raddrizzare la barca suggerendo a Silvio la rotta, ma non sempre è riuscito, anzi mai, a guidarlo. Berlusconi è così. Se ne trova uno bravo se lo toglie in fretta dalle scatole, se invece becca un cretino non lo molla più. E l' esito delle sue sciagurate scelte delle persone di cui contornarsi non è esaltante. Cicchitto essendo un genio viene considerato da Silvio un coglione. Pertanto invito caldamente il fenomenale fondatore del partito in questione a leggere la fatica letteraria dell' ex radicale e ex socialista, stimato da Craxi, allo scopo di scoprire gli errori commessi che lo hanno ridotto a capeggiare una formazione politica minoritaria, per quanto non ancora defunta. Forse esagero nei giudizi negativi, infatti ammetto di essere stato sempre un tifoso di Cicchitto, forse perché anche io, nel mio piccolo, ho militato nel Psi in età acerba. Avevo 18 anni allorché divenni segretario della federazione socialista di Bergamo, carica che lasciai presto per dedicarmi al giornalismo, che preferivo alle menate politiche. Oggi leggendo le pagine del compagno Fabrizio ho una punta di nostalgia e non posso fare a meno di apprezzarle per la loro profondità, assai lontana dalle banalità rivoltanti che mi offrono i commentatori odierni delle faccende nazionali. Un' ultima informazione: la Storia di Forza Italia, 374 fogli, editore Rubbettino, si vende in libreria a 24 euro. Buona lettura. di Vittorio Feltri
La leadership del Cavaliere: quando contavamo all'estero. Un saggio ripercorre tutta la strategia internazionale di Berlusconi. Fu denigrata ma era informale ed efficace, scrive Francesco Perfetti, Venerdì 22/02/2019 su Il Giornale. Quando Silvio Berlusconi, nel 1994, decise di scendere in politica era già trascorso qualche anno dalla caduta del Muro di Berlino e i regimi dell'Europa Orientale costruiti con il cemento del socialismo reale erano finiti in polvere. In Italia, la cosiddetta «Prima repubblica» era spaesata e agonizzante dopo la stagione di «Mani pulite», sembrava pronta a cedere all'offensiva, sia pure in controtendenza con quanto era avvenuto all'estero, dei post-comunisti. Crisi del parlamentarismo, disgusto per scandali e comportamenti corruttivi, disaffezione nei confronti delle istituzioni e della politica avevano generato un clima di rassegnazione. La discesa in campo di Berlusconi, all'insegna del progetto di «rivoluzione liberale» e di rinnovamento del sistema politico e istituzionale, fu percepita come una novità in grado di intercettare la pulsione «antipolitica» e trasformarla in passione «politica». Berlusconi fu visto come una specie di «corpo estraneo» alla tradizione e alla prassi di un sistema politico ingessato dalle preclusioni ideologiche e imbrigliato dai lacci e lacciuoli di una egemone cultura di sinistra fondata sul mito dell'unità della Resistenza a guida comunista. È fuor di dubbio, comunque, che, fra entusiasmi e demonizzazioni, egli abbia rappresentato, al governo o all'opposizione, un fattore fondamentale del pur incompiuto processo di trasformazione del sistema politico in direzione di una «democrazia concorrenziale» fondata, per usare la pregnante immagine di Schumpeter, sulla libera concorrenza per un voto libero. E ciò malgrado il fatto che, da più parti, in campo non solo giornalistico ma anche storiografico, non siano mancati i tentativi di derubricarne la figura e l'esperienza politica a incidente o a fenomeno transitorio della storia d'Italia. Anche per quel che riguarda la politica estera negli anni berlusconiani sono stati versati fiumi di inchiostro sulla presunta «anomalia Berlusconi» che avrebbe provocato perdita di credibilità internazionale per l'Italia. Le argomentazioni a sostegno di questa tesi sono state sostanzialmente le stesse usate per denigrare la politica interna di Berlusconi conflitto di interessi, personalizzazione della politica, discontinuità con il passato con l'aggiunta di commenti velenosi su certi suoi comportamenti ritenuti poco ortodossi negli incontri internazionali. Sono stati utilizzati cinicamente, per demolire l'immagine berlusconiana anche argomenti le «risatine», per esempio, di Sarkozy e della Merkel che avrebbero dovuto suscitare indignazione perché offensivi del popolo italiano. Tutto ciò ha precluso una riflessione storiograficamente seria su Berlusconi. Un tentativo di andare oltre gli stereotipi con un approccio scientifico è stato compiuto da due studiosi, Emidio Diodato e Federico Niglia, che hanno dedicato a Berlusconi nella sua versione «diplomatica» un bel volume dal titolo Berlusconi the Diplomat: Populism and Foreign Policy in Italy (Palgrave Macmillan, pagg. XVI-226). Il titolo farebbe pensare per la presenza del termine «populismo» a un ennesimo lavoro scritto per accreditare l'immagine di Berlusconi come antesignano del populismo. In realtà non è così. Il volume colloca Berlusconi nel solco della storia repubblicana ponendosi la domanda se egli abbia davvero inciso sulla politica estera italiana. La risposta è affermativa, anche se, come emerge dall'analisi, Berlusconi «diplomatico» non ha stravolto né alleanze né priorità dell'azione internazionale dell'Italia. Diodato e Niglia analizzano, per esempio, l'approccio berlusconiano alle direttrici classiche della politica estera italiana atlantismo ed europeismo facendo vedere, per un verso, come l'atlantismo sia stato confermato dal legame con l'amministrazione americana e, per altro verso, come Berlusconi non possa essere in alcun modo assimilato agli euroscettici o agli anti-europei. Anagraficamente figlio della Guerra fredda, Berlusconi ha sempre considerato l'Europa un riferimento necessario. Peraltro non ha mai digerito l'idea di una Europa «comitologica» e «burocratica» e ha puntato sempre a dare all'Ue un afflato politico di grande respiro. Sotto un certo profilo non è stato fortunato perché si è trovata di fronte una Ue che sia per circostanze internazionali sia per incapacità aveva abbandonato i grandi ideali delle origini trasformandosi sempre più in un'unione centrata sulla finanza e incapace di comprendere i popoli europei e le loro esigenze. Un'Europa, verrebbe da dire, senza anima e senza consenso. Diodato e Niglia fanno, poi, giustamente notare come il rapporto con Putin e, più in generale, con la Russia sia una novità soltanto apparente. L'anticomunista Berlusconi, meglio di altri, si è reso conto dell'esistenza, tra Italia e Russia, di un legame antico, che affonda le proprie radici nell'età della monarchia, cui si deve il primo trattato di amicizia firmato a Racconigi nel lontano 1909. Ha compreso, insomma, Berlusconi come la Russia post-sovietica non potesse essere oggetto di una politica di «contenimento» occidentale com'era accaduto negli anni del «bipolarismo» internazionale. Alla luce di questa intuizione deve essere visto il suo impegno per promuovere i rapporti tra Mosca e Washington, sanciti da quel vertice di Pratica di Mare che dette vita al Consiglio Nato-Russia. Il tratto innovativo, quanto meno rispetto alla prassi seguita nella prima repubblica, della politica estera negli anni del berlusconismo sta nel fatto che Berlusconi, forse per l'innata diffidenza da uomo d'azienda nei confronti di rituali burocratici, ha impostato la politica estera italiana come una «propria» politica. Diodato e Niglia, avvalendosi di testimonianze di uomini che lavorarono alla preparazione dei vertici, fanno capire come Berlusconi dedicasse una attenzione certosina alla scelta dei luoghi e alle agende degli incontri non per trasformare i vertici internazionali in feste riuscite, ma perché convinto che solo dalla «alchimia» tra i leader potessero scaturire le soluzioni. In sostanza, Berlusconi ha consolidato sempre più il ruolo della «leadership» come componente della politica internazionale nella convinzione che, in un mondo globalizzato, non sia più possibile impostare linee diplomatiche nel chiuso delle cancellerie. Si è proposto, insomma e nel contesto di una democrazia che considerava ormai post-ideologica, la ricerca anche in politica estera di un «consenso popolare». Che ci sia sempre riuscito o meno è altro discorso. Ma rimane il fatto, come emerge bene dal bel volume di Diodato e Niglia, che, con Berlusconi e dopo Berlusconi, molto, anzi moltissimo, è cambiato in politica estera.
La fase due del Cav: “Basta lotta ai migranti la gente vuole soldi!” Berlusconi pronto al gran ritorno punta tutto sull’economia e le tasche degli italiani, scrive Paola Sacchi il 29 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Può sembrare il colpo di testa o di cuore di “una mamma”. Ma non è così. Il gesto coraggioso di Stefania Prestigiacomo, la bionda e grintosa speaker del congresso di Assago 1998, quello dove Silvio Berlusconi tuonò che “Forza Italia non è un partito di plastica”, una che Forza Italia la ha nel dna, che, insieme con l’avversaria Sinistra Italiana di Nicola Fratoianni e il radicale Riccardo Magi, si mette alla guida di un gommone e va dai migranti della Sea Watch, è forse l’immagine più significativa della nuova ridiscesa in campo del Cav. Silvio Berlusconi proprio il giorno prima, per i 25 anni di Forza Italia, aveva detto che i 47 migranti dovevano scendere. Ma soprattutto il Cav aveva detto che l’immigrazione non è più il problema principale, ma invece lo sono detassazione, crescita e sviluppo. Ragionamento che si potrebbe riassumere così nello schema di un grande imprenditore: qui, bambole non c’è più una lira e io perché me la devo prendere con quattro disgraziati del mondo? Aveva un sondaggio alla mano? Chissà. Chi ne conosce bene le mosse da vero “animale” che capta gli umori della gente sostiene che sondaggio o non sondaggio “Silvio”, dando di fatto il là all’impresa della “Presti”, abbia fatto un ragionamento di buon senso. Non solo dettato da quella «linea della fermezza sempre coniugata con quella umanitaria», come ha chiosato Antonio Tajani, il Cav avrebbe più o meno pensato che ora che il numero degli sbarchi è crollato, ma il numero delle tasse è aumentato, la spinta propulsiva della lotta della Lega di Matteo Salvini contro l’immigrazione abbia iniziato a esaurirsi. Insomma, il leader azzurro ha ben presente che il vento sta mutando. E soprattutto il vento del Nord e Centro- Nord, di quei ceti in rivolta per i tentennamenti sulla Tav e la mancata detassazione, sta iniziando a spirare in modo contrario alla Lega. Alessandra Ghisleri “la maga” dei sondaggi in tv da Lucia Annunziata ha dato questa fotografia: il Cav ha già riportato Fi al 10 per cento (secondo un altro sondaggio è al 12) e intanto la Lega a fatica starebbe toccando quota 30. Certo non c’è proporzione per numero di voti tra Fi e Lega. Ma non siamo più in un sistema maggioritario, nell’arena italiana siamo ormai in un proporzionale di fatto. Dove c’è spazio per gli aghi della bilancia. Ma al di là di come finirà, l’umore berlusconiano forse è ben riassunto da Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, il quale ha scritto: che me ne importa di un barcone in meno per un montagna di tasse in più. Può sembrare un ragionamento cinico, che forse non rende la complessità del Cav, il quale nel dna di Fi ha messo anche i valori liberali e umanitari dei voti socialisti della sinistra moderna di Craxi. E nessuno dimentica le lacrime del Cavaliere nella Pasqua in cui ci fu un’ecatombe di albanesi, sotto il governo dell’Ulivo. Ma ora la preoccupazione è di accompagnarsi a un alleato come la Lega che al Sud potrebbe apparire la brutta copia dei grillini con il reddito di cittadinanza. E quindi se lui rischia di apparire appiattito sul Pd (che Prestigiacomo ha scavalcato) Salvini invece rischia la stessa cosa rispetto a Luigi Di Maio.
Berlusconi lancia la corsa per le europee: "La libertà è in pericolo". Berlusconi torna in campo e si ispira a don Sturzo: "L'Altra Italia si opponga ai rischi del pauperismo e dello statalismo", scrive Bartolo Dall'Orto, Venerdì 18/01/2019, su "Il Giornale". Oggi come ieri, Silvio Berlusconi torna in campo. E se quando lasciò "la mia attività di imprenditore per dare vita a Forza Italia" lo fece per "scongiurare il rischio che il nostro Paese cadesse in mano ad una sinistra comunista, giustizialista e profondamente illiberale", oggi la stessa sfida si ripropone contro i "rischi del sovranismo, del pauperismo, dello statalismo, del giustizialismo". "Nuove forme", dice il Cav, ma "ancor più pericolose del passato". In una lettera al Corriere della Sera, l'ex presidente del Consiglio spiega i motivi per cui ieri ha annunciato la sua decisione di candidarsi alle elezioni europee del prossimo maggio. Una sfida all'esecutivo gialloverde, al modello di Stato e alle politiche messe in campo in questi mesi di governo. "Sono passati esattamente 100 anni da quel 18 gennaio 1919, quando don Luigi Sturzo diffuse il celebre appello ai “liberi e forti” che segnò la nascita della partecipazione attiva dei cattolici alla politica italiana - scrive il Cav - Un appello che, riletto oggi, suona di sorprendente attualità, perché delinea un modello di stato, di società, di partecipazione politica ispirato ai valori cristiani e profondamente liberale nel metodo e nelle proposte. È il modello al quale mi sono ispirato quando ho lasciato la mia attività di imprenditore per dare vita a Forza Italia, per scongiurare il rischio che il nostro Paese cadesse in mano ad una sinistra comunista, giustizialista e profondamente illiberale". Berlusconi disegna l'idea di Europa e di Italia che intende portare avanti. Una visione, appunto, vicina a quella di don Sturzo. Una visione che riconosce gli ordinamento sovranazionali ma anche le autonomie locali. Che si basa sulla "sussidiarietà e sul "rispetto del singolo, delle comunità locali e dei corpi intermedi". Il Cav respinge il "sovranismo" così come il super-Stato centralizzatore. "Come l'Italia di cento anni fa - scrive il leader di Forza Italias - così oggi la nostra Patria, dopo un secolo, vive ancora una volta un momento confuso, di incertezza e anche di pericolo per la libertà". Il Cav si rivolge all'"Altra Italia", quella che "chiede serietà e sobrietà, competenza e onestà, coerenza ed esperienza". Ed è per questo che ha deciso di "scendere in campo" per combattere "sovranismo, del pauperismo, dello statalismo, del giustizialismo". E lo fa "prima che sia troppo tardi", prima che queste forme negative di politica - "che si ripropongono in forme nuove ma ancor più pericolose del passato" - prendano il sopravvento. "Oggi come allora - conclude il Cav nella sua lettera al Corsera - di fronte a grandi sfide e a grandi pericoli, per tornare a costruire un futuro di responsabilità, di crescita e soprattutto di libertà è indispensabile un'alta risposta civile e morale della parte migliore dell'Italia. Io ci sono, Forza Italia c'è".
Berlusconi e la sua discesa in campo con un video messaggio: nel 2019 come nel 1994, scrive il 26 gennaio 2019 Corriere Tv. «L’Italia è il Paese che amo», con questa frase ha esordito entrambi i discorsi. Berlusconi ha annunciato che si presenterà alle elezioni europee con un video messaggio che si apre con le stesse parole («L’Italia è il Paese che amo») con cui annunciò la sua discesa in politica nel lontano 1994. Ben 25 anni fa. Ma il Berlusconi del 2019 sceglie Facebook e Twitter per parlare delle sue motivazioni nel ritorno alla politica attiva e non le televisioni a cui risalgono le immagini ormai un po’ sgranate del 1994. La scrivani sembra la stessa, ma accanto alla bandiera italiana questa volta c’è anche la bandiera europea e accanto al classico slogan Forza Italia Berlusconi conclude il suo discorso con un «Forza Europa».
«I voti si pesano non si contano…». Parola di Cav! Silvio Berlusconi sta studiando i suoi sondaggi e dopo l’annuncio del suo ritorno Forza Italia sarebbe risalita dal 7 al 12 per cento, scrive Paola Sacchi il 26 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Completo blu Caraceni, stavolta probabilmente anche con gilet azzurro sopra, profumo di Antaeus di Chanel, tra i suoi preferiti, contro felpe, ruspe, divise varie delle forze dell’ordine, portate come testimonial. L’Italia borghese di self made man del ceto medio e medio alto che 25 anni fa si ribellò alla storia già scritta di un governo postcomunista; l’Italia impoverita e arrabbiata di oggi che trova nella lotta all’immigrazione il suo ultimo baluardo per sentirsi ancora viva e chissà forse continuare a sognare. Et voilà: Silvio Berlusconi contro Matteo Salvini. Ma il Cav non cerca affatto il duello. Tant’è che Salvini praticamente non lo nominerà. Duello sarà però nei fatti. Nella sua ennesima, ultima, ma chissà, discesa in campo alle Europee, a un quarto di secolo dalla madre di tutte le sue discese in campo (accadeva proprio il giorno di oggi: il 26 gennaio di 25 anni fa) non intende prendersi la rivincita su Salvini. Sa bene, il Cav, come spiega chi lo conosce bene, che il brillante ministro dell’Interno e vicepremier come minimo lo doppierà nelle preferenze, dal momento che sembra entrambi saranno capolista in tutte le circoscrizioni; sa bene che Salvini ha 45 anni e lui 82. Ma non si è Cav se ci si sottrae alla “guerra”. Perché per lui praticamente non si perde mai, visto che nella sua vita la “guerra” continua sempre. A Berlusconi non interessa il confronto con “il capitano” come chiamano in Lega il ministro dell’Interno. Interessa esserci ancora e, come ha spiegato Antonio Tajani, presidente del parlamento europeo e numero due di Forza Italia, avere quella rivincita, ritrovare quell’onore infangato dalla decadenza dal Senato dopo la sentenza definitiva Mediaset proprio in quell’Europa dei risolini che tolsero sotto gli occhi del mondo legittimazione al suo ultimo governo. A Berlusconi, insomma, almeno in questa sfida non interessa la rivincita sulla Lega e il sorpasso alle politiche del 4 marzo. Parafrasando Cuccia secondo il quale le azioni si pesano e non si contano, il leader azzurro e 4 volte premier riapplica ai voti che prenderà, con il sistema proporzionale delle Europee, la stessa logica del patron di Mediobanca. E sta già comunque apprezzando che secondo un sondaggio dopo l’annuncio del suo ritorno Fi sarebbe risalita dal 7 al 12 per cento, mentre la Lega sarebbe in flessione di oltre l’1 per cento. Il suo obiettivo di essere lui il vero uomo dell’Europa, quell’ago della bilancia che per Merkel ma anche per Macron potrebbe essere decisivo nel tentativo di tenere a bada nel Ppe l’ala cosiddetta sovranista capeggiata dall’ungherese Orban e anche lo stesso Salvini, alleato in Italia a livello locale. Un ago della bilancia, politico. Di craxiana memoria. Il cui peso potrebbe persino farsi decisivo, se ci sarà un’alleanza del Ppe con i sovranisti anche esterni al Ppe come Salvini, nell’elezione, se verrà candidato come si mormora, di Luca Zaia a commissario europeo. Un nome di peso quello del governatore leghista veneto, il lato cosiddetto “moderato” del Carroccio, e un modo alla fine, secondo i maliziosi, per lo stesso Salvini di mandare in Europa il suo più temibile competitor interno, facendo però guadagnare punti alla stessa Lega. In uno schema di questo tipo è chiaro che il Carroccio a Strasburgo a quel punto contribuirebbe per la conferma di Tajani a presidente dell’Europarlamento. Il Cav sta meditando da mesi di diventare l’uomo dell’Europa, o meglio l’uomo della stabilità di una Ue che però va rinnovata e resa sempre più politica. Il Cav è stato del resto il primo che ha battuto i pugni sul tavolo Ue e mal gliene incolse. Fino ai risolini di Sarkozy e di Merkel la quale però ora che è sul viale del tramonto si trova paradossalmente ad aver bisogno di “Silvio”. La competizione ora per “Silvio” è molto più elevata di una gara all’italiana con Salvini. Ecco perché per lui il rischio dell’umiliazione non ci sarà in ogni caso.
E Berlusconi per vincere quest’altra sfida che ha imposto a se stesso ha bisogno anche di scudarsi, con una immunità europea, che sembra sia più forte di quella italiana, rispetto alle tante pendenze giudiziarie che restano sul campo nei suoi confronti. Ma chi lo conosce bene assicura che non è questo l’obiettivo principale della sua ridiscesa in campo. Racconta l’ex parlamentare azzurro Massimo Palmizio, ex top manager stretto collaboratore di Marcello Dell’Utri a Publitalia, uno che lo conosce dal 1982 e vide nascere l’impero Mediaset: «Berlusconi comunque vadano le cose pensa sempre in grande. Ricordo che quando gli chiesi un po’ ingenuamente se con il sistema delle cassette della cosiddetta interconnessione funzionale, attraverso la quale le varie emittenti trasmettevano allora con un margine di tempo di differenza da 30 secondi a un minuto e mezzo, se lui volesse fare concorrenza a Italia 1 e Rete 4, allora le altre tv private, che poi Mediaset acquisì, Berlusconi mi guardò un po’ strano e mi disse: e no io qui la concorrenza la faccio alla Rai, io sono l’uomo che spezzerà il monopolio”. E ora sarà in Europa l’uomo che arginerà il sovran- populismo?
Martino: «L’inizio di Forza Italia? Giorni incredibili. A Silvio mandavo le idee via fax». L’ex ministro: «Quando mi disse che voleva il governo, mi voltai per non ridere». «Gli avevo sconsigliato sin da subito di entrare in politica», scrive Tommaso Labate il 26 gennaio 2019 su "Il Corriere della Sera".
«Ero appena atterrato dal Sudamerica, rintontito dal fuso orario. Mi chiama Paolo Del Debbio, “devi venire con me da una persona”. All’epoca, era il ’93, avevo appena chiuso il mio centro di ricerche liberista perché non avevamo risorse per andare avanti. Pensavo volesse presentarmi un finanziatore. E invece mi portò a via dell’Anima a casa di Berlusconi, che avevo intravisto anni prima a casa di Roberto Gervaso».
Stava per iniziare la storia di Forza Italia. Di cui lei, Antonio Martino, prese la tessera numero due.
«Subito gli do la prima delusione. Mi chiede “professore, le piace il calcio?”. Risposi di no. Lui mi disse “se sono a guardare una partita e qualcuno mi dice che una bella donna vuole conoscermi, io prima finisco di vedere la partita”. Mi spiegò anche che per lui il calcio era l’unica religione, il resto solo affari».
Altro che delusione. Dopo quell’incontro lei scriverà il programma.
«Ogni volta che avevo un’idea gliela mandavo via fax. Fax dopo fax, prese corpo il programma di Forza Italia del ‘94».
Il nome Forza Italia le piaceva?
«Dissi a Berlusconi che per fare un partito bisognava innanzitutto mettere la parola “partito” nel nome. Evidentemente avevo torto».
Eravate sfavoriti.
«Gli avevo sconsigliato sin da subito di entrare in politica. Ricordo la risposta: “Quando volevo fare una città satellite e i miei amici mi ridevano dietro, poi ne ho fatte due. Quando avevo detto a Boniperti che avrei portato il Milan sul tetto d’Europa e lui s’era messo a ridere, poi ce l’ho fatta. Quando avevo spiegato ad Agnelli che avrei fatto concorrenza alla Rai e anche Agnelli aveva riso… be’, ha visto come andata a finire. Adesso dico a lei che tra pochi mesi sarò presidente del Consiglio”».
E lei, professore?
«Mi voltai dall’altra parte per non ridergli in faccia».
E invece...
«Io ero sempre più terrorizzato dall’entusiasmo che avevamo innescato nella gente. Ero candidato al maggioritario a Milano e al proporzionale in Sicilia. A Milano, un giorno che passavo per strada, s’era fermato un tram. Il conducente era sceso a darmi la mano e tutti i passeggeri applaudivano. Non sembrava neanche vero».
L’ultimo giorno prima del voto del ’94.
«Traghetto Messina-Reggio, tornavo a Roma sfinito. Mi chiama Berlusconi: “Allora, professore?”. Gli rispondo “Se va come dice lei, domani sera mia moglie va a letto con un deputato”. E dire che non volevo neanche candidarmi. Dopo la proposta di Berlusconi, avevo telefonato al mio maestro Milton Friedman. “Antonio, non fare mai compromessi sui principi. Falli sui dettagli”».
E accettò.
«Per non fare compromessi sui miei principi, però, ho sempre rifiutato dicasteri economici. Berlusconi mi chiama e mi dice: “E se ti proponessi per gli Esteri?”. E io: “Mi sembra perfetto. La Farnesina è vicino casa e ha un parcheggio immenso. Ci sto”».
Durò poco. Ma la storia poi è andata avanti. Altre vittorie, altri governi. Il momento più buio?
«Nel 2005, il giorno in cui approvammo il Porcellum. A fine votazione dissi in Aula “speriamo che un giorno Dio ci perdoni”. Non sono sicuro che l’abbia fatto».
L’ultima volta che ha sentito Berlusconi?
«Il 22 dicembre. Mi ha chiamato per il mio compleanno. Lo sento ogni 22 dicembre».
Avete ricordato i vecchi tempi?
«Mai. Berlusconi parla sempre del presente o del futuro, mai del passato».
Resta una questione. La famosa tessera numero 2.
«Eravamo dal notaio per la fondazione del partito. C’era Berlusconi, ricordo Mario Valducci… Berlusconi prese la tessera numero 1. A me, che avevo scritto il programma, diede la 2».
Esiste ancora?
«Per anni l’ho portata con me. Poi, a un certo punto, l’ho messa in uno scatolone insieme ad altre cose che mi illudo possano servire al mio biografo. Ma che invece, con tutta probabilità, finiranno in un cassonetto della spazzatura il giorno che mi deciderò a tirare le cuoia».
Berlusconi europeista incompreso, avvicinò il popolo alla politica estera. Come Fancani e Craxi, il Cav mise al centro la figura del leader, scrivono Emidio Diodato e Federico Niglia il 2 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Uno degli argomenti avanzati da Silvio Berlusconi per spiegare la sua decisione di scendere in campo per l’ennesima volta, in occasione delle elezioni europee del 26 maggio, è stato quello della sua familiarità con i principali leader internazionali. Il tutto può apparire paradossale, se si riflette sul modo in cui si è conclusa la precedente vita politica di Berlusconi. Vale a dire quel 2011 in cui sembrò che l’unico modo che l’Italia avesse per uscire dalla crisi fosse proprio l’uscita di scena del Cavaliere. In molti in quell’occasione gridarono al complotto, dimenticando l’oggettiva debolezza del governo Berlusconi. Non bisogna però dimenticare gli sguardi ironici di Merkel e Sarkozy, di un’innegabile atmosfera di scetticismo (alle volte di ostilità) verso Berlusconi. Ma proprio per questo, quella del Berlusconi leader internazionale ci appare un po’ forzata, se non come una scelta tattica elettorale che fa leva sull’inesperienza internazionale delle attuali forze di governo e sulle difficoltà che il governo giallo- verde incontra nel dialogo con Bruxelles. Eppure dietro l’ultima sortita di Berlusconi c’è qualcosa di più. A voler dirla tutta, dietro a Berlusconi l’europeo c’è il senso più profondo degli ultimi venticinque anni di politica europea ed internazionale dell’Italia. Non tanto per il controverso “stile” internazionale di Berlusconi, quanto per la sua idea di politica internazionale e per il modo in cui ha declinato la politica estera nel contesto nazionale. Scorrendo il programma politico di Berlusconi nel 1994 di politica estera se ne trova poca, e i contenuti non sono particolarmente innovativi. È un’Italia che si muove nel solco della tradizione e che aspira ad assumere un ruolo più dinamico, in Europa e nel mondo. Diverso sarà il suo discorso dopo il 2001, quando invece Berlusconi connoterà la sua politica estera in modo più evidente, prendendo una posizione netta a fianco degli Stati Uniti nella “war on terror” e prendendo le distanze da un’Europa franco- tedesca che sembrava voler negare all’Italia del Cavaliere il ruolo che le spettava. Ma la novità maggiore di Berlusconi in politica estera non sta tanto nell’aver ripensato, dopo il 2001, le coordinate fondamentali della politica estera italiana. Certo, ha declinato la politica estera in base ai tempi e ai suoi orientamenti politici, ma non si può certo dire che abbia rivoluzionato le priorità e le alleanze. Se Berlusconi è stato un profondo innovatore è in un ambito altrettanto fondamentale delle relazioni internazionali, quello della legittimazione dell’azione internazionale. Negli anni della prima repubblica il collegamento tra popolo e politica estera era diventato sempre più formale e stereotipato. Sebbene gli italiani continuassero ad appassionarsi e a scontrarsi sulla politica estera – lo avevano fatto per prima volta in occasione della ratifica del patto atlantico e l’avrebbero fatto ancora negli anni Ottanta in occasione della crisi degli euromissili – la partecipazione dell’elettorato e dell’opinione pubblica al dibattito sulla politica estera era incostante e spesso retorico. Ai partiti maggiori risultava più agevole sottrarre la politica estera dal dibattito corrente (soprattutto la Democrazia Cristiana) o lasciare il confronto su un piano ideologico (soprattutto il Partito Comunista). Questo stato di cose non solo precluse, conclusa la Guerra fredda, l’emergere di un dibattito qualificato sull’azione internazionale del paese, ma ha anche favorito la deriva tecnocratica di cui oggi tanto si parla. Nel momento in cui Berlusconi giunse al governo, nel 1994, era entrato in vigore da poco più di un anno il trattato di Maastricht, che può essere visto (a prescindere dal giudizio di merito su di esso) come il culmine dell’opera tecnocratica. Il trattato che più di tutti definisce oggi la condizione degli italiani in Europa è stato negoziato e approvato senza un’effettiva partecipazione del Parlamento (che proprio in quel frangente viveva una delle sue maggiori crisi) né dell’opinione pubblica. Berlusconi comprese che, soprattutto in un mondo che si apriva e si globalizzava, le relazioni internazionali potevano e dovevano vedere la partecipazione e il sostegno degli elettori. Con lui la politica europea ed estera tornava a collegarsi al popolo e lo faceva attraverso una figura nuova, quella del leader che operava in perfetta autonomia sulla scena internazionale. Berlusconi certamente non ha inventato il personalismo sulla scena internazionale, e tra i suoi predecessori non mancano ambizioni leaderistiche, da Fanfani a Craxi. Berlusconi portò però al limite la personalizzazione della politica estera, nella convinzione che attraverso l’alchimia tra statisti si possa trovare la soluzione ai principali problemi internazionali. Manca completamente – qui il fatto che Berlusconi fosse un imprenditore si fa sentire – la coscienza del fatto che nel mondo delle relazioni internazionali la soluzione non sia sempre dietro l’angolo, o addirittura che in tanti casi lo status quo, per quanto insoddisfacente, sia da preferire a scenari evolutivi potenzialmente destabilizzanti. Questo forse spiega il successo, a volte apparente a volte reale, nel dialogo con alcuni dei principali leader internazionali (leggi George W. Bush e Vladimir Putin), ma anche la difficoltà di trovare un dialogo con l’Europa. Tradizionalmente infastidito dai dettagli e dai tecnicismi, Berlusconi ha sempre cercato di portare il dialogo nei Consigli europei sui grandi temi. Non ha sempre compreso che l’Unione Europea, soprattutto nei momenti non costituenti, funziona per accordi di dettaglio e per tessiture minute. Questo spiega perché Berlusconi, il cui europeismo appare (soprattutto nel momento attuale) come sincero e vigoroso, sia stato poco compreso dai suoi interlocutori, e che sia passato, alla fine, per euro- scettico. La possibilità di storicizzare la figura di Berlusconi, a prescindere dal fatto che il Cavaliere avrà o meno un’ultima vita politica dopo il voto di maggio, permette di comprendere meglio anche il nesso di continuità tra il ventennio berlusconiano e l’attuale leadership politica, soprattutto sul versante internazionale. A livello internazionale Berlusconi è stato un leader che, pur giocando molto di iniziativa, non ha mai messo in discussione né le regole del gioco né il fatto che l’Italia dovesse far di tutto per rispettare le regole internazionali (ivi incluse quelle europee). In questo senso si può dire che in politica estera Berlusconi non è mai stato un leader populista, nel senso che non è mai stato disposto a sacrificare (o a mettere seriamente a repentaglio) la stabilità del paese per ascoltare la voce del popolo. Al massimo si può dire che Berlusconi si è speso più di altri per avere la fiducia degli italiani sulle scelte di politica estera, magari anche strumentalmente alla ricerca del consenso. Ma Berlusconi non si è mai fatto veramente interprete di quelle istanze radicali che pur animavano il paese e il suo stesso partito. Ad esempio, non ha mai voluto seguire Antonio Martino nelle sue prese di posizione fortemente critiche nei confronti del trattato di Maastricht e della costruzione europea. La differenza tra l’era berlusconiana e l’oggi è che il filtro tra la dimensione interna e quella internazionale è venuto meno. Berlusconi, nella sconfinata fiducia che ha avuto per se stesso (e per gli italiani) ha sempre pensato che con il popolo- elettore si dovesse stabilire, sì, un legame fiduciario sui temi internazionali, ma che questo legame non avrebbe dovuto mai portare il governo a risentire, nella sua azione internazionale, di tutti i sommovimenti che hanno luogo sul piano interno, o a seguire, pedissequamente, quelli che sono gli umori dell’opinione pubblica. Forse non aveva tutti i torti.
Il solito vizietto: creare fake news contro il Cavaliere, scrive Francesco Maria Del Vigo, Domenica 27/01/2019, su "Il Giornale". Sguardo contrito, naturale come quello di un attore di telenovela sudamericana (il viaggio deve avere lasciato delle tracce), sottofondo lisergico dei Pink Floyd e camicia di jeans. Si presenta così davanti alla telecamera, Alessandro Di Battista, per ammettere la colpevolezza del padre. La storia è nota ed è stata smascherata dalle Iene: il papà dell’ex deputato ha assunto un lavoratore in nero nella sua azienda. Un reato. Un reato che, nel giacobino codice penale a 5 stelle, diventa passibile di pena di morte. Ma quando ci sono di mezzo i parenti i boia si fermano e i pentastellati sembrano cadere dalle nuvole e scoprire la normalità. La vita reale non quella virtuale di Rousseau e dei video deliranti della Casaleggio Associati. «Non lo giustifico ma comprendo la situazione di difficoltà generalizzata dei piccoli imprenditori». Oh, bravo Dibba. Finalmente ne hai detta una giusta. Tutti giù per terra. Fine del girotondo grillino. Invece di andare a zonzo per le Americhe e ammorbarci con inutili reportage, l’aspirante Che Guevara avrebbe imparato qualcosa di più stando nel tinello di casa sua e, magari, avrebbe capito com’è dura la vita dei piccoli imprenditori, strozzati tra tasse e burocrazia. E, sempre magari, avrebbe potuto impedire ai suoi amici al governo di mortificare e dissanguare chi prova a fare impresa. Ma ormai è troppo tardi. Ne ha detta una giusta - sottolineavamo - e poi ne ha subito inanellate altre due sbagliate. «Ora magari le Iene potrebbero trovare anche il coraggio di andare da Berlusconi e fare una bella inchiesta sui finanziamenti che ha effettuato a Cosa Nostra. Allora dico esistono le carte, le sentenze, è pure giusto fare quell’inchiesta». Berlusconi? Cosa c’entra, vi chiederete? Nulla. Un modo come un altro per mandare tutto in vacca. Dicendo delle balle. Perché non esistono le sentenze. Non solo: le indagini sono già state fatte da più di una procura e non hanno portato a nulla, nessun processo. Un buco nell’acqua. Non ci sono carte e non ci sono bonifici, Dibba propala solo fake news per distogliere l’attenzione dai suoi guai casalinghi e gettare fango sul Cavaliere. Salvo poi dire: «Ci vediamo domani pomeriggio dalla D’Urso». Cioè a «casa» del cattivissimo Berlusconi. Coerenza a Cinque Stelle.
La ferocia per dar nerbo alla politica. Il Fatto Quotidiano che insolentisce Berlusconi perchè è vecchio e debole…, scrive Piero Sansonetti il 23 gennaio 2019 su "Il Dubbio". Lafuria di Marco Travaglio contro Berlusconi accusato di essere vecchio, debole, e insolentito per questa ragione. La furia dello Stato al Cara di Castelnuovo. C’è qualcosa in comune tra questi due fatti? Io dico di sì. “Facite ’a faccia feroce”. Ma la ferocia serve solo a non sentirsi deboli…Cosa c’entra l’antiberlusconismo – elemento ormai organico nella politica italiana – con lo sgombero del Cara di Castelnuovo Di Porto? Qualcosa c’entra. Il punto di contatto, secondo me, è la ferocia. La ferocia intesa non come sentimento, o passione, o vizio: semplicemente come categoria stabile, e persino fredda, della politica. Provo a spiegarmi partendo dell’antiberlusconismo. L’altro giorno ho letto sul Fatto Quotidiano il consueto editoriale del lunedì di Marco Travaglio, che di solito è un bel miscuglio di arguzia, spiritosaggine genuina, e linciaggio. Alle volte prevale l’arguzia, spesso il linciaggio. Trascrivo due brevi brani di quell’articolo, tutti e due riferiti al capo di Forza Italia. Il primo brano parte da una battuta, al solito sboccata, fatta da Berlusconi durante le ultime ore della campagna elettorale in Sardegna: «“Una volta me ne facevo sei a notte, ora, a 82 anni, mi addormento dopo la terza…” (Silvio Berlusconi, Cagliari, 20 gennaio). La prima gli cambia il pannolone, la seconda gli leva la dentiera e la terza gli dà il tavor». La battuta di Berlusconi era sicuramente volgare. Non è la prima volta che gli succede. Il commento di Travaglio supera largamente in volgarità la battuta di Berlusconi. Immagino che anche il suoi redattori, leggendola sul giornale, si siano un pochino imbarazzati per il loro direttore. Il secondo brano viene qualche riga dopo e si riferisce a un titolo della “Stampa”: «” L’azzardo di Berlusconi dopo il calo di Lega e M5S: correrò per le europee”. (La Stampa, 18.1). Col girello». L’idea di Travaglio è che noi si debba ridere del fatto che Berlusconi è vecchio, porta la dentiera, cammina piano; mentre Travaglio è un cinquantenne aitante, magro, forse atletico. C’è da ridere di questo? Evidentemente no. Grillo, che di satira se ne intende parecchio più di Travaglio, per provocare ilarità chiamava Berlusconi lo “psiconano” perché pare che Berlusconi non sia altissimo. E’ una colpa non essere altissimi? E’ una cosa ridicola? Mi immagino cosa scriverebbero sul “Fatto” se Antonio Gramsci fosse tra noi.
Sospendiamo la questione antiberlusconismo e passiamo al Cara di Castelnuovo. A pagina 2 e 3 raccontiamo nel dettaglio quello che è successo ieri. L’arrivo dell’esercito, lo sgombero di 535 persone, rifugiati, avvenuto in poche ore, senza preavviso, ponendo fine a un esperimento importante di integrazione, all’educazione di decine di ragazzi, ai rapporti molto positivi di questa gente con il Comune, con lo Stato, con la parrocchia, tra i pianti a dirotto, la disperazione, la paura, il panico. Leggerete dell’indignazione del sindaco, del vescovo, del parroco, degli operatori del Comune.
Lo scopo di questa iniziativa? Beh, a me pare che lo scopo sia lo stesso che sta dietro gli articoli di Travaglio: fare la faccia feroce. Mostrarsi cattivi. Accanirsi. Perché? Oltretutto è assolutamente chiaro che una iniziativa come questa porterà alcuni degli sgomberati all’illegalità, o forse li consegnerà alla malavita. E’ un modo ragionevole per battersi per la sicurezza quella di costruire insicurezze? Non riesco a trovare una spiegazione logica. Forse invece una spiegazione c’è. La spiegazione sta nella debolezza della politica. Nella sua incapacità di progettare, di immaginare e realizzare strategie, di costruire o assumere valori. La politica è prima di tutto progetto e valori, poi consenso, poi potere. Se progetto e valori mancano si riduce solo a consenso e potere. E a quel punto la conquista e la difesa del consenso non avvengono più attraverso la discussione e la proposta di idee, ma solo di immagini e di sentimenti. In questo modo la ferocia, che è una potentissima maschera della forza (e un formidabile surrogato della forza) diventa uno strumento indispensabile. E si trasforma in strumento freddo, tecnico, senza aggettivi. Rende la ferocia? Rende in politica? Probabilmente nel periodo breve rende. Nel periodo lungo provoca solo disastri a chi la coltiva, e ferisce l’idea di civiltà. Pare che i generali borbonici dicessero alle loro truppe, sgangherate, che affrontavano i garibaldini: «facite ’a faccia feroce”. Loro la fecero. Ma vinsero i garibaldini. E oggi, di solito, se dici “borbonico” non fai un complimento…
Silvio Berlusconi torna in campo, inizia l’operazione nostalgia, scrive il 18 Gennaio 2019 su "Il Fatto Quotidiano" Pierfranco Pellizzetti, Saggista. Dopo le compiante dipartite 2018 dello chansonnier Charles Aznavour, della soprano spagnolo Montserrat Caballé e del macho di Hollywood Burt Reynolds, ci conforta la notizia del ritorno sulle scene di un altro showman: Silvio Berlusconi, che ha testé annunciato dalla Sardegna la propria intenzione di candidarsi al Parlamento europeo. Così un grande artista dell’intrattenimento ritrova il suo affezionato pubblico, seppure falcidiato dal susseguirsi delle primavere (come degli autunni). E se ormai l’età e gli acciacchi gli precludono i grandi teatri internazionali, il rischio di inciampare nel catetere impone una mobilità ridotta, il sibilo della dentiera scoraggia l’utilizzo di vocaboli con più di tre sillabe e i vuoti di memoria impongono rigorosamente di ridurre al minimo le performance pubbliche, ebbene: niente e nessuno può azzerare l’emozione per la rentrée del vecchio capocomico. Un’operazione nostalgia che impone di riandare con la memoria alle tappe salienti di una carriera impareggiabile, cominciata ancora da attor giovane nella compagnia della Banca Rasini, molto apprezzata dalle coppole siciliane, che gli finanziava gag edilizie. Un repertorio culminato nella costruzione di città fantasma sotto l’insegna del Biscione. Sceneggiatura che già gli aveva consentito di farsi notare con un a-solo scenico, accompagnato con scrosci di battimani da tutto il pubblico pagante dell’epoca: far deviare i voli di atterraggio sulle piste dell’aeroporto di Linate per non disturbare con il rombo dei motori la quiete dei residenti nei quartieri periferici di lusso, edificati dal giovane Silvio all’insegna di quel fasullo-brianzolo per Billionari che avrebbe fatto scuola negli anni a venire. Vedasi l’esempio della Costa Smeralda, calamita per riccastri con dubbio pedigree, ma dall’apprezzato cash faraonico. Già si intuiva da quella sceneggiata buzzurra di Segrate la griffe da grande innovatore del teatrino nazionale. Che ambiva a sempre più vaste platee. Nasce così l’avventura televisiva, anche grazie al felice incontro con un importante impresario politico – Bettino Craxi – che intuisce le notevoli potenzialità del giovanotto. Tanto da intervenire a ripetizione tra il 1984 e il 1985 a difesa del pupillo, minacciato da pretori che avevano la pretesa di fargli rispettare le normative in materia di occupazione dell’etere pubblico. Così il Biscione si trasforma nella triade di canali televisivi a disposizione del pirotecnico entertainer, assurto a maître à penser per milioni di video-dipendenti: l’opera ciclopica di clonazione e sdoganamento della neo-borghesia cafona come modello di apprezzabilità sociale. La genia di seguaci del profeta-maestro, magari venerandone il look: quei doppiopetti dai revers ascellari, “sogno da ragioniere”, che trasformano un bassotto/atticciato in perfetto tappo della Val Gardena. Ormai tutto era pronto per l’apoteosi, sulle note di We Are the champions già sperimentate in sinergie teatro-calcio, con cui il boss/tycoon si appropriava dell’intero patrimonio di immagine e successi dei suoi campioni pallonari: la discesa in politica del 1994. Dove seppe sperimentare l’assunto teatrale che teorizzava animando le convention Mediaset: il pubblico è composto da bambini di 12 anni e pure scemi. Però, dopo decenni di successi (per la propria cassetta, assai meno per quella degli italiani), qualche segno di stanchezza iniziava ormai a far capolino nel serial House of Cards de’ noantri di cui era la star. E qui arrivò il colpo di genio: la tardiva e pure geniale scoperta del porno, a cartellone nella pochade “cene eleganti”; accompagnata dal lancio di una serie di starlette sullo smandrappato. Veneri tra balera e ringhiera, in cui spiccava la Ruby Rubacuori dal doppio passaporto egiziano e marocchino. Ora il vecchio mattatore avrà ancora in serbo qualche estremo colpo d’ala? O si tratta solo dello stanco remake di chi non si rassegna all’inesorabile trascorrere del tempo? Solo malinconica polvere di stelle.
Giuseppe Alberto Falci per il “Corriere della Sera” il 18 gennaio 2019. La decisione a sorpresa del ritorno in campo è maturata compulsando i soliti sondaggi che arrivano con una certa costanza sul tavolo di villa San Martino. A oggi la maggior parte degli istituti di ricerca attesta Forza Italia - che tra qualche giorno festeggerà i 25 anni - attorno al 10%. Davanti, però, ci sono cinque lunghi mesi di campagna elettorale nel corso dei quali il fattore Berlusconi e la sua presenza in giro per lo Stivale potrebbero determinare un delta positivo e far balzare gli azzurri fra il 15 e il 20%. Non a caso, secondo alcuni report sul tavolo di villa San Martino, Berlusconi resta un vero e proprio brand, un catalizzatore di consensi che può solo giovare in vista delle Europee. Sempre stando ai numeri che ha visionato il Cavaliere in queste ore, la sua candidatura consolida lo zoccolo duro dell'elettorato azzurro e serve a riconquistare chi in passato ha votato centrodestra ma oggi si trova senza una casa ed è alla ricerca di una proposta politica alternativa «al governo degli scappati di casa dei 5 Stelle». Ecco perché, si legge in alcuni report, «Berlusconi resta l'azionista di una maggioranza di un partito ed è impensabile immaginare un futuro senza il suo fondatore». Ma quanti elettori è ancora in grado di attrarre il marchio Berlusconi? Secondo Nicola Piepoli «la sua ridiscesa in campo serve a mantenere, non a vincere. Ma attenzione: c' è ben un milione di cittadini che ancora oggi si butterebbe sul fuoco per lui». Mentre per Antonio Noto «il marchio Berlusconi vale quello che è oggi Forza Italia».
Marco Gervasoni per “il Messaggero” il 18 gennaio 2019. Quando, nel gennaio di venticinque anni fa, nacque Forza Italia, apparve subito una creatura marziana. Un partito-non partito, nato dal ventre di un'azienda (Publitalia più che Fininvest), che affidava la sua comunicazione a un trust di televisioni private, guidato da uno dei massimi imprenditori italiani. Qualcosa di inedito nel mondo. A breve Forza Italia si aggiudicò un altro primato: mai si era visto dal Dopoguerra un partito che dal nulla in pochi mesi arrivava al 21% dei voti, vinceva le elezioni e si proiettava alla guida del governo il suo capo. Anche il nome, Forza Italia, con la sua carica impolitica, lasciò basiti tutti. E proprio una gioiosa, ottimistica, e forse un po' inconsapevole carica antipolitica, di reaganismo latino e solare, colorava la ideologia anti-ideologica del Cavaliere e dei suoi. L' inconsapevolezza stava tutta nell' illusione di poter cambiare l'Italia e facilmente. Benché una classe dirigente e anche un ceto intellettuale Forza Italia li possedesse, la sua carica anti-establishment (molti già all' epoca parlarono di populismo) la rendeva indigesta al sistema. Il primo governo Berlusconi durò pochi mesi, il Cavaliere sottovalutò la perizia luciferina del Capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, anti-berlusconiano doc, e cominciò una lunga traversata nel deserto. Anche negli anni dell'opposizione, tuttavia, Forza Italia, grazie soprattutto al suo leader, riuscì a dettare l'agenda politica: i governi dell'Ulivo si reggevano soprattutto per evitare che il Cav. tornasse al potere. Cosa che comunque accadde nel 2001, dopo che l'alleanza di centro-destra aveva conquistato larga parte delle regioni e molte città. Forza Italia era già diventata diversa. L'ingresso nel Ppe, fortemente voluto dal cancelliere tedesco Helmut Kohl, l'aveva trasformata in un attore del nuovo popolarismo europeo, simile al Pp dello spagnolo Aznar. Restava tuttavia nel partito, ora più strutturato, una vena di erasmiana follia, di spirito anti-istituzionale, e quasi di sberleffo, soprattutto nei confronti di quella Ue con cui i rapporti sempre erano stati complicati. Il lungo governo Berlusconi usurò un po' Forza Italia, anche se nel 2006 il centro-destra arrivò a pareggiare con il centro-sinistra. Ma a quel punto la Grande Recessione stava cambiando il quadro del mondo e dell'Italia. Quando il Cavaliere vinse per la terza volta le elezioni, nel 2008, FI si era tramutata in Popolo della Libertà, unendosi con An. Una fusione a freddo e non riuscita che indebolì il Pdl, che finì subito per rinsecchirsi. Se nel 94 erano i rinnovatori, Berlusconi e Pdl si trasformarono nell'emblema della Casta, e cominciarono a fioccare i casi di corruzione, che fino a quel momento avevano poco lambito il gruppo dirigente del partito berlusconiano. Il tentativo di parricidio di Gianfranco Fini, e la sua uscita dal Pdl («che fai mi cacci?») coincisero con l'inizio della fine del Pdl. Quando il Cavaliere fu costretto a cedere il governo nel 2011, il suo partito era ormai un corpo indebolito e poco capace di reagire, anche se a dargli il colpo di grazia fu la condivisione delle politiche di austerità di Monti. Eppure il Pdl possedeva ancora forza organizzativa, se, nelle elezioni del 2013, raggiunse un dignitosissimo 21%: la saggia decisione di ritornare al nome originario, FI, dopo la scissione capitanata da Alfano, non fu in grado di fermarne il declino. L'Italia in 25 anni è profondamente cambiata, il blocco sociale che aveva portato agli altari il berlusconismo si è in parte dissolto, e il capo carismatico del partito è legittimamente stanco. FI deve ora dimostrare se è in grado di camminare anche senza Berlusconi oppure, come sembra, se non potrà mai fare a meno di lui.
La storia politica di Silvio Berlusconi. Dal videomessaggio del 1994 sulla sua discesa in campo, alla candidatura per le Elezioni Europee del 2019, scrive Claudia Daconto il 17 gennaio 2019 su "Panorama".
1994 - LA DISCESA IN CAMPO. “L’Italia è il Paese che amo, qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti. (...) Qui ho appreso la passione per la libertà. Ho scelto di scendere in campo e di occuparmi della cosa pubblica perché non voglio vivere in un paese illiberale, governato da forze immature e da uomini legati a un passato fallimentare”. E' il 26 gennaio del 2004, di mercoledì, quando da dietro una scrivania, circondato dai libri, tra le foto dei suoi cari, Silvio Berlusconi annuncia la sua decisione di dedicarsi alla politica. Il video, preregistrato, dura 9 minuti e viene trasmesso integralmente da Retequattro e Italia1, in un’ampia sintesi da Canale5, in forma molto stringata dai tg della Rai. Per il suo primo discorso da leader politico, Silvio Berlusconi sceglie il Palafiera di Roma. E' domenica 6 febbraio quando il più grande imprenditore televisivo italiano, dimessosi da tutte le cariche ricoperte nel gruppo Fininvest, lancia la sfida alla sinistra con una “chiamata alle armi” di tutti i liberaldemocratici. E' allora che avviene la presentazione di Forza Italia e del suo programma di governo: meno disoccupazione, più tolleranza, riduzione delle tasse. Sul fronte delle alleanze, l'apertura alla destra era stata già sancita alcuni mesi prima quando, inaugurando l'Euromercato di Casalecchio, alle porte di Bologna, Berlusconi disse che se avesse votato a Roma, nella sfida tra il candidato sindaco della sinistra Francesco Rutelli e quello della destra Gianfranco Fini, avrebbe sicuramente scelto quest'ultimo.
LA VITTORIA ALLE ELEZIONI CON FORZA ITALIA E IL POLO DELLE LIBERTA'. Il 27 marzo, alla guida del Polo delle Libertà (formato da Forza Italia, l'Alleanza nazionale di Fini, la Lega Nord di Umberto Bossi e il Ccd di Pierferdinando Casini e Clemente Mastella), Silvio Berlusconi vince le elezioni con il 42,9% dei voti e diventa presidente del Consiglio.
LA LEGA NORD TOGLIE LA FIDUCIA. Il 21 novembre viene coinvolto nell’inchiesta sulle tangenti alla Guardia di Finanza. Sono le 5.40 del 22 novembre quando Gianni Letta telefona al Cavaliere per leggergli la prima pagina del Corriere della Sera in cui viene riportata la notizia dell'avviso di garanzia emesso dalla Procura di Milano per ordine del pool di Mani pulite guidato allora da Antonio Di Pietro. Berlusconi in seguito verrà prosciolto dalle accuse, ma il danno di immagine sarà enorme. Approvata la Finanziaria nel dicembre del 1994 la Lega toglie la fiducia al governo e dopo appena otto mesi di governo Silvio Berlusconi è costretto a dimettersi.
1996 – LA PRIMA SCONFITTA CONTRO ROMANO PRODI. Alle politiche del 1996 Forza Italia si presenta senza l'appoggio leghista. Berlusconi, indagato nel frattempo anche per storie di mafia, falso in bilancio, frode fiscali e corruzione giudiziaria insieme a Previti, perde contro il professore bolognese Romano Prodi leader dell'Ulivo, coalizione di centrosinistra che comprendeva dai Comunisti italiani di Cossutta e Diliberto all'Udeur di Clemente Mastella. Si vita domenica 21 aprile, Forza Italia ottiene il 20,6 per cento.
1997 – IN PIAZZA A MILANO CON LA GRANDE PAURA DELLA MALATTIA. Sabato 3 maggio il Polo delle Libertà manifesta a Milano contro la politica fiscale del governo Prodi. In piazza del Duomo Silvio Berlusconi parla a sostegno della candidatura a sindaco di Gabriele Albertini. In un intervista a Mario Calabresi apparsa su Repubblica il 23 luglio del 2000 rivelerà: “Ero sul palco, in mezzo alla gente, ma parlavo con la morte nel cuore. La mattina dopo dovevo entrare in sala operatoria, non riuscivo a non pensarci, temevo che il male fosse incurabile”. Il lunedì dopo la manifestazione il Cavaliere viene operato di tumore alla prostata al San Raffale di Milano. “Sono stati mesi da incubo – racconta Berlusconi 3 anni dopo nella stessa intervista a Repubblica - può immaginare come stavo, però ce l’ho fatta”.
1998 – IL PRIMO CONGRESSO DI FI E LA FINE DELLA BICAMERALE. Il 16 aprile Silvio Berlusconi apre, al Forum d'Assago, il primo congresso nazionale di Forza Italia: “Non siamo un partito di plastica, virtuale, aziendale”. Nel frattempo, dopo mesi di trattative, il leader del centrodestra annuncia il suo voto contrario in Commissione bicamerale per le riforme istituzionali presieduta da Massimo D'Alema per bloccare “questo semi-presidenzialismo” e dire no a “alla deriva verso le sabbie mobili di un compromesso di basso livello”.
1999 – FORZA ITALIA SFONDA ALLE EUROPEE E ALLE REGIONALI. Alle elezioni europee del 1999 Forza Italia sfiora il 30 per cento dei consensi e vince anche alle Regionali. Le conseguenze di questo successo costringeranno Massimo D'Alema a dimettersi dalla carica di premier. In campo europeo Forza Italia aderisce al Ppe: Silvio Berlusconi diventa uno degli esponenti di punta.
2000 - “MENO TASSE PER TUTTI”. Mentre è ancora in carica il governo Amato, riparte la campagna elettorale di Silvio Berlusconi in vista delle elezioni del 2001. Tra gli slogan di maggior presa “Meno tasse per tutti” e “Città più sicure”.
2001 – “IL PRESIDENTE OPERAIO”. All'inizio di gennaio appaiono sui muri delle città quattro nuovi maxi-manifesti: Berlusconi è ritratto in maglione, sullo sfondo la bandiera di Forza Italia e in rilievo le scritte “Un presidente operaio per cambiare l’Italia”, “Un presidente imprenditore per realizzare le grandi opere”, “Un imprenditore innovatore per ammodernare lo Stato”, “Un presidente amico per aiutare chi è rimasto indietro”. Intanto Berlusconi recupera il rapporto con la Lega, apre ai repubblicani e consolida l'alleanza con Fini: nasce la Casa delle Libertà.
IL CONTRATTO CON GLI ITALIANI. Martedì 8 maggio mancano cinque giorni alle elezioni. Ospite di Bruno Vespa a Porta a Porta, il candidato premier del centrodestra sottoscrive un “contratto con gli italiani” in 5 punti nel quale si impegna ad abbattere la pressione fiscale, diminuire la criminalità, alzare le pensioni minime ad almeno un milione di lire al mese, creare un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro, aprire almeno il 40 per cento dei cantieri previsti dal Piano decennale delle Grandi opere.
NASCE IL SECONDO GOVERNO BERLUSCONI. Il 13 maggio la Casa delle libertà vince con il 45,4 per cento alla Camera e il 42,5 al Senato. In termini di seggi significa 368 seggi alla Camera (la maggioranza è di 315) e di 177 al Senato (la maggioranza è di 158). Forza Italia è il primo partito italiano con il 29,4 per cento dei voti.
2002- “L'EDITTO BULGARO”. Il 18 aprile scoppia il caso del cosiddetto “editto bulgaro”. Silvio Berlusconi è a Sofia in visita ufficiale. Durante la conferenza stampa un giornalista bulgaro gli chiede se comprerà una rete locale. Silvio Berlusconi risponde attaccando la sinistra per “ “l’occupazione militare” della Rai e accusando Biagi, Santoro e Luttazzi, che nel giro di poco verranno rimossi dai vertici di viale Mazzini, di “uso criminoso” della televisione pubblica.
2003 – LA PRESIDENZA EUROPEA E LO SCONTRO CON SCHULZ. Il 1 luglio inizia il semestre italiano nella Ue: Berlusconi diventa presidente del Consiglio europeo. Al suo esordio davanti al Parlamento di Strasburgo scoppia la polemica. Il capogruppo dei socialdemocratici, il tedesco Martin Schulz attacca pesantemente Silvio Berlusconi che replica dandogli del “kapò”. Il governo tedesco convoca l'ambasciatore italiano e Silvio Berlusconi è costretto a scusarsi: “Non volevo offendere nessuno, era una battuta ironica”.
2004 – IL CAVALLETTO IN PIAZZA NAVONA. E' venerdì 31 dicembre, Berlusconi passeggia tra le bancarelle di piazza Navona, a Roma, quando Roberto Dal Bosco, un muratore mantovano di 28 anni in gita nella Capitale con due amiche, gli lancia il cavalletto della macchina fotografica. Il premier è ferito dietro l’orecchio destro.
2005 – BERLUSCONI SI DIMETTE. Dopo la sconfitta alle regionali e l'uscita dal governo dei ministri di Udc e Nuovo Psi, il 20 aprile Berlusconi sale al Quirinale e si dimette. In carica quasi quattro anni, 1.412 giorni, il Berlusconi II è il governo più longevo della storia repubblicana. Tre giorni dopo, nasce il terzo governo Berlusconi.
2006 – LA SECONDA SCONFITTA CONTRO ROMANO PRODI. Nonostante la promessa elettorale di Berlusconi di abolire l'Ici sulla prima casa, gli italiani chiamati ad aprile alle urne scelgono nuovamente Romano Prodi. Il risultato resta incerto fino alla fine e il professore si ritroverà con una maggioranza risicatissima alla Camera e in minoranza al Senato, compensata solo dai tre seggi della circoscrizione estera. Il governo resta in carica per soli due anni.
2007 – IL PREDELLINO: NASCE IL PDL. Alle 17.17 di domenica 18 novembre, Silvio Berlusconi arriva in piazza San Babila, a Milano. Si stanno raccogliendo le firme contro Prodi e lui annuncia la nascita di un nuovo partito. Ma riescono a sentirlo in pochi per cui, raggiunta la sua auto che lo aspetta alla fermata del bus, apre la portiera, si appoggia al pianale e lancia il Popolo della Libertà.
2008 – PDL PRIMO PARTITO ITALIANO. Alle elezioni politiche del 2008 Berlusconi si presenta come leader della nuova formazione del PdL che unisce Forza Italia e Alleanza Nazionale, assieme a gruppi minori di orientamento democristiano e liberale. Il risultato delle elezioni decreta il PdL come primo partito italiano: nel maggio del 2008 prende il via il IV governo Berlusconi. Con il congresso del 29 marzo 2009, a Roma, viene poi sancita la nascita ufficiale del PdL.
2009 – L'ATTENTATO IN PIAZZA DUOMO. Silvio Berlusconi è colpito al volto al termine di un comizio con una riproduzione in miniatura della cattedrale del Duomo di Milano lanciatagli addosso da distanza ravvicinata da Massimo Tartaglia, incensurato, già in cura per problemi psichici. Berlusconi ha il setto nasale e due denti fratturati. E' domenica 13 dicembre.
2010 - “CHE FAI, MI CACCI?”, LA ROTTURA CON FINI. All’Auditorium della Conciliazione di Roma si tiene il Direttivo nazionale del Pdl. E' il 22 aprile e il rapporto tra i due leader fondatori è ormai alle corde. Dopo una serie di frecciate incrociate, Berlusconi chiede a Fini di dimettersi da presidente della Camera e lui, seduto in prima fila, si alza e, da sotto il palco, gli grida: “Che fai, mi cacci?”. E' la fine dell'alleanza. Giovedì 29 luglio viene votata l'uscita di Fini dal Pdl per “assoluta incompatibilità politica”. Il giorno dopo il presidente della Camera annuncia la nascita di Futuro e Libertà. Il 29 settembre Berlusconi si presenta alla Camera per chiedere la fiducia al governo che ottiene con largo margine: 342 sì e 275 no.
LA FIDUCIA DEL 14 DICEMBRE. Il 14 dicembre il Parlamento conferma di nuovo la fiducia a Berlusconi. Mentre la Camera vota, Roma è assediata dalle manifestazioni e blindata dalle camionette della polizia, che impediscono ai manifestanti di raggiungere Palazzo Madama e Montecitorio.
2011 - “NEL 2013 LASCIO, TOCCA AD ALFANO”. In un'intervista a Repubblica dell'8 luglio, Silvio Berlusconi attacca pesantemente il suo ministro dell'Economia Giulio Tremonti e che alle prossime elezioni il candidato premier del centrodestra sarà Angelino Alfano. “Io – dice - farò il padre nobile”.
LA RINUNCIA. Dopo la pesante sconfitta alle comunali di Napoli e Milano, il venire meno dell'asse con la Lega di Bossi, i nuovi scandali che hanno coinvolto alcuni esponenti della sua maggioranza, lo stesso Giulio Tremonti e lui in persona, la crisi economica che aggrava sempre di più la situazione finanziaria dell'Italia, colpito dal declassamento dell'Italia da parte delle agenzie di rating, le critiche della Chiesa, le risatine di Merkel e Sarkozy, la ribellione interna, le defezioni di alcuni parlamentari, alle 20.45 del 12 novembre Silvio Berlusconi getta la spugna e sale al Quirinale per rimette il suo incarico nelle mani del capo dello Stato Giorgio Napolitano mentre in piazza i suoi oppositori stappano bottiglie di spumante. Ad attenderlo al suo rientro a Palazzo Grazioli altri fischi, insulti e lanci di monetine.
2013 – LA GRANDE RIMONTA. “Abbiamo fatto una rimonta straordinaria, con questi numeri siamo determinanti. Dovranno venire a patti con noi”. E' il 25 febbraio del 2013. All'indomani dei risultati elettorali, Silvio Berlusconi festeggia il successo di un'impresa che solo poche settimane prima sembrava disperata. Dato per morto dal centrosinistra guidato dal candidato premier del Pd Pierluigi Bersani, a Silvio Berlusconi basta riprendere in mano le redini del suo partito per ribaltare tutti i pronostici. Complice anche l'exploit del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, la perdita in termini di numeri di milioni di voti rispetto al 2008 è consistente, ma non abbastanza da far vincere il centrosinistra. La coalizione di Bersani si impone sì alla Camera, come previsto, ma per solo mezzo punto percentuale: 29,53% contro il 29,13% dell'alleanza guidata da Pdl e Lega. Al Senato va ancora peggio: il centrosinistra non ha la maggioranza. Bersani non riesce a formare un governo e Napolitano, rieletto, darà vita a un esecutivo delle larghe intese in cui Silvio Berlusconi risulta determinante.
LA NUOVA FORZA ITALIA. 18 settembre 2013. A poche settimane dalla condanna definitiva in Cassazione nel processo Mediaset, sui diritti tv. All'indomani della sentenza di condanna ad un risarcimento di quasi 500 milioni di euro a De Benedetti per il Lodo Mondadori, Silvio Berlusconi affida ad un nuovo videomessaggio la sua nuova mossa politica: la "rinascita" di Forza Italia.
2014-2018 - LA SCONFITTA CON LA LEGA. Dal 2013 però parte forse il periodo più buio per Forza Italia e per il Berlusconi politico. Il partito perde consensi e l'uomo deve subire l'onta della condanna definitiva per frode fiscale con l'annessa applicazione della cosiddetta Legge Severino che lo terrò lontano dagli incarichi pubblici fino alla fine del 2018. A questo va aggiunto anche il malore con conseguente operazione che terrà Berlusconi fuori dalla politica attiva per diversi mesi. Alle elezioni politiche del 4 marzo Forza Italia si presenta alleata con la Lega di Salvini e Fratelli d'Italia. L'esito del voto è pessimo al punto che la Lega diventa partito di maggioranza nella coalizione. Dopo 90 giorni nasce il governo giallo-verde e Forza Italia diventa partito di opposizione.
"QUANDO BERLUSCONI S'INFATUÒ DELLA BRAMBILLA”. Fabrizio D’Esposito per il “Fatto quotidiano” il 29 marzo 2019. È una miniera infinita di retroscena inediti e centrali nella storia politica italiana dell' ultimo quarto di secolo. Ma anche un bilancio storico, a tratti spietato, della Seconda Repubblica all' insegna di Berlusconi e del berlusconismo carismatico. È il nuovo libro di Fabrizio Cicchitto sulla storia di Forza Italia dal 1994 al 2018. Già socialista lombardiano, indi berlusconiano di vertice e falco garantista convinto dell'uso politico della giustizia (altro libro recente), Cicchitto ha concluso la sua parabola politica da alfaniano moderato di Ncd. Abbandonata quindi la politica attiva ha coltivato la sua inclinazione di studioso storicizzando il fenomeno forzista di cui è stato protagonista. Non a caso in parecchi passaggi la citazione di se stesso è in terza persona. Come quando venne alle mani con Denis Verdini durante il tragico 2013 della condanna di B. in Cassazione e della conseguente scissione dei governisti di Angelino Alfano. Oppure, andando più indietro, quando rivela "l'infatuazione travolgente" dell'ex Cavaliere per la rossa salmonata Michela Vittoria Brambilla, oggi icona animalista dei superstiti azzurri. Era il 2006 e Berlusconi perse le elezioni ma anche la testa per la rossa MVB e la designò per la successione nel centrodestra. "Questo fu appunto uno dei molti contraccolpi fra il politico e il personale derivanti dalla sconfitta elettorale". Cicchitto affrontò pure B., che gli rispose: "Non hai capito nulla. Abbiamo per le mani chi, quando farò un passo indietro, potrà spiazzare Casini e Fini e affermarsi come un leader del tutto nuovo per la sua forza mediatica. Dai retta a me, che me ne intendo". Ma l'azzurro socialista rimase scettico, a ragione. Risultato: "L'operazione costò a B. e ai bilanci di Forza Italia qualcosa come 28 milioni di euro". Altro aneddoto notevole è quello su Ruby, che Cicchitto rivelò in un' intervista a Millennium nel febbraio 2018. Lui e Gaetano Quagliariello trasmisero un messaggio al Capo prima che esplodesse l' inchiesta milanese. "Nel 2009 un' eminente personalità della sinistra aveva avvisato Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliariello. (). 'State attenti a Milano, rimarrete esterrefatti ma adesso la questione giudiziaria non riguarda corruzione o concussione ma la prostituzione minorile. Metteteci un buon avvocato e dite al vostro amico di cambiare vita". Il giorno, a Palazzo Grazioli, i due riportarono il messaggio e B. lo respinse: "Come potete dar retta a un vecchio comunista? Io la sera faccio solo feste eleganti. Non andate indietro a queste provocazioni". Il libro di Cicchitto, si diceva, è un miniera infinita e preziosa, utile per capire l' ultimo quarto di secolo. Esempi sparsi: il solipsismo di Giulio Tremonti; le ambizioni di Claudio Scajola a succedere a B.; la riunione in cui Gianni Letta urlò contro Daniela Santanchè nel fatale 2013. E ancora: le trattative per la grazia mancata a B. di Napolitano e le manovre per il bis di Re Giorgio. Al garantista Cicchitto va pure reso l' onore delle armi in un certo senso: nel 2011 B. gli propose di fare il Guardasigilli. "Ringraziai Berlusconi, ma non avrei fatto un buon servizio alle istituzioni. Ero esposto su una posizione di garantismo assoluto, senza mediazioni".
Pomeriggio 5, bomba di Barbara D'Urso su Silvio Berlusconi: "Mi fece la corte, lo rifiutai perché era...", scrive il 26 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Racconti maliziosissimi a Pomeriggio 5 di Barbara D'Urso, dove si è parlato nuovamente del corteggiamento che Silvio Berlusconi aveva riservato alla conduttrice. Ad introdurre il tema è stato Vittorio Sgarbi, ospite in studio. E il critico d'arte ha ricordato come Carmelita riservò al Cav un "no". A quel punto, la D'Urso, ha voluto mettere i proverbiali puntini sulle i: "No, allora, già ho capito che è un pomeriggio difficile", ha premesso. E ancora: "Non sono io che sostengo, o ad aver divulgato di non aver mai avuto una storia sentimentale con il presidente Silvio Berlusconi, ma è stato lui (Berlusconi stesso, ndr) che lo ha voluto divulgare in diretta, peraltro davanti a me, tempo fa". Poi ha confermato nuovamente il tutto: "È vero, è vero. Anni fa il dottor Silvio Berlusconi mi fece la corte. Io ero molto piccola, anche lui era più giovane. Ma io non ho mai accettato la sua corte, perché in quel periodo lui era...". E a completare la frase lasciata in sospeso da Carmelita ci ha pensato Sgarbi: "Era ancora sposato". Nuovi, succulenti, particolari.
Silvio Berlusconi da Lilli Gruber, poi... Serata folle: "Quando la D'Addario...", rivelazioni piccanti, scrive il 22 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Il grande ritorno di Silvio Berlusconi, instancabile gran viveur. Il Cav, dopo l'ospitata da Lilli Gruber a Otto e mezzo, ha trascorso la serata romana al Circolo Tevere Remo, al compleanno della sua grande amica Anna Maria Quattrini. Al tavolo riservatissimo dell'antiquaria, rivela Gabriella Sassone sul Tempo, c'erano 25 selezionati amici, "tra cui Alberto Michelini e signora, Rita Dalla Chiesa, Valeria Fabrizi, Leda Bertè (sorella di Mia Martini e Loredana con cui non si parla da anni), Maria Grazia e Luca di Nardo, l'ortopedico Giuseppe Morabito con Mara Keplero, Franco Brel e Angelo Genovese". In mano Berlusconi aveva il regalo per l'amica, "una collana-sciarpa d'oro rosa", ed è stato il vero mattatore della serata. Entrato nella sala dei trofei, ha esordito: "Ho avuto più ragazze io di queste coppe in bella mostra. Pensate che Patrizia D'Addario mise in giro la voce che in una notte ero stato con 6 ragazze. Invece alla terza mi sono addormentato!". E Vladimir Putin? "Recentemente sono stato suo ospite per 8 giorni, mi ha spupazzato a destra e a sinistra, lui è anche un grande sportivo, cintura nera di judo, mi ha portato persino a fare hockey sul ghiaccio ma io ho resistito 10 minuti, lui fino alla fine e ha pure segnato". In ballo anche grandi affari immobiliari: "Putin mi voleva far ricomprare una villa con stucchi, marmi, rubinetti d'oro con 4 ettari in Ucraina che Gheddafi aveva acquistato per la vecchiaia. Ma io più che una reggia e un'intera tenuta, che già ho Villa Certosa in Sardegna, volevo una dacia nel bosco. Finite! Ce ne erano una cinquantina, le hanno prese tutte i francesi!".
Gabriella Sassone per “il Tempo” il 22 febbraio 2019. Silvio Berlusconi è tornato. In grande spolvero e ottima salute. Vulcanico come un tempo, spiritoso e con quel pizzico di goliardia che lo contraddistingue. Dopo un periodo in sordina, non solo si sta riaffacciando in politica e in tv ma anche nella mondanità romana. L’altra sera, dopo l’ospitata da Lilli Gruber a “Otto e mezzo” su La7, Silvio ha fatto il suo ingresso trionfale al Circolo Tevere Remo, in Lungotevere in Agusta. Non poteva mancare al compleanno numero 86 di una delle sue più care amiche da oltre 40 anni: l’antiquaria Anna Maria Quattrini che in una sala riservata “attovagliava” 25 amici intimi per festeggiare il suo genetliaco. Silvio era solo, accompagnato dalla scorta. In mano il regalo per Anna Maria, una collana-sciarpa d’oro rosa. Inutile dire che, dopo aver salutato tutti i commensali, tra cui Alberto Michelini e signora, Rita Dalla Chiesa, Valeria Fabrizi, Leda Bertè (sorella di Mimì e Loredana con cui non si parla da anni), Maria Grazia e Luca di Nardo, l’ortopedico Giuseppe Morabito con Mara Keplero, Franco Brel e Angelo Genovese, Berlusconi ha tenuto banco tutta la sera. Un vero mattatore. Aneddoti, barzellette, racconti politici e personali: Silvio si è lasciato andare, visto che si sentiva come a casa. Guardando tutte le coppe esposte nella sala del Tevere Remo, ha esordito così, tanto per non smentire la fama di playboy costruitasi negli anni: “Ho avuto più ragazze io di queste coppe in bella mostra. Pensate che Patrizia D’Addario mise in giro la voce che in una notte ero stato con 6 ragazze. Invece alla terza mi sono addormentato!”. Tutti ad ascoltare in rigoroso silenzio i racconti del prode Silvio che di smettere non aveva proprio voglia. Era la serata giusta, lui sereno e divertente. Impossibile non parlare di Vladimir Putin: “un uomo sincero, amante dell’amicizia di cui mi pregio essere amico. Ci diamo spesso consigli politici e imprenditoriali”. “Recentemente sono stato suo ospite per 8 giorni, Putin mi ha spupazzato a destra e a sinistra, lui è anche un grande sportivo, cintura nera di judo, mi ha portato persino a fare hockey sul ghiaccio ma io ho resistito 10 minuti, lui fino alla fine e ha pure segnato”. Poi ha aggiunto: “Putin mi voleva far ricomprare una villa con stucchi, marmi, rubinetti d’oro con 4 ettari in Ucraina che Gheddafi aveva acquistato per la vecchiaia. Ma io più che una reggia e un’intera tenuta, che già ho Villa Certosa in Sardegna, volevo una dacia nel bosco. Finite! Ce ne erano una cinquantina, le hanno prese tutte i francesi!”. E poi via con le sue epiche barzellette, i brindisi, la torta con una candelina verde per la festeggiata, i selfie con tutti i presenti. Silvio è tornato. Più forte di prima!
· Silvio Berlusconi, la Mafia e la Giustizia.
Silvio Berlusconi vince ancora, il gip archivia l'inchiesta per corruzione in atti giudiziari. Libero Quotidiano il 24 Luglio 2019. Archiviato. Ancora una volta vince Silvio Berlusconi. Il gip ha infatti archiviato l'indagine per corruzione in atti giudiziari nei confronti dell'ex premier in relazione alla sentenza del Consiglio di Stato che nel 2016 annullò l'obbligo di cedere oltre il 20% delle quote di Banca Mediolanum detenute da Fininvest. La notizia è stata data da Reuters, che rivela come l'archiviazione sia stata confermata anche da Niccolò Ghedini. La notizia dell'ennesima indagine ai danni del Cavaliere era trapelata lo scorso marzo: l'inchiesta si riferiva a una vicenda iniziata nel 2014, quando Banca d’Italia e TAR avevano imposto a Fininvest, holding della famiglia Berlusconi, di cedere azioni di banca Mediolanum per circa un miliardo di euro: Banca d’Italia riteneva infatti che, dopo la condanna del 2013 per frode fiscale, Berlusconi non avesse più quelli che vengono chiamati "requisiti di onorabilità" necessari per poter controllare una quota superiore al 9,99 per cento di una banca. Il Consiglio di Stato, nel 2016, aveva poi cancellato con sentenza l'obbligo imposto dalla Banca d'Italia. E nel 2017 la procura di Roma aprì un'ulteriore inchiesta legata proprio alla sentenza di qui sopra: le toghe ritenevano che il leader di Forza Italia avesse cercato di corrompere il giudice del Consiglio di Stato per ottenere una sentenza favorevole. Anche se il gip - rivela sempre Reuters - avrebbe rivelato alcune "anomalie", le prove raccolte non sono sufficienti per imbastire un processo.
Stato-mafia, le verità attese da Berlusconi e Di Pietro. Damiano Aliprandi il 7 Settembre 2019 su Il Dubbio. Berlusconi e Di Pietro saranno ascoltati come tsti nel processo di appello della trattativa Stato.mafia, fissata per il prossimo 3 ottobre. Nelle prossime settimane entrerà nel vivo il processo d’appello sulla presunta trattativa Stato- mafia. A luglio la Corte d’assise d’appello di Palermo, presieduta da Angelo Pellino, giudice a latere Vittorio Anania, ha deciso per la rinnovazione dibattimentale. E sono numerose le prove ammesse in accordo delle parti, comprese nuove testimonianze tutte finalizzate a completare il quadro.
In estrema sintesi, tali prove serviranno per far luce su alcune lacune oggettive e in alcuni casi saranno decisive. Il calendario è già stato scandito nei suoi tempi. La data che inevitabilmente sarà sotto le lenti d’ingrandimento è quella del 3 ottobre. A testimoniare saranno due big che hanno il tratto comune di aver dato l’avvio alla seconda Repubblica: Silvio Berlusconi e Antonio Di Pietro. Due testimonianze che potrebbero incrinare le motivazioni della sentenza di primo grado. Perché la testimonianza di Berlusconi è una prova decisiva? Secondo le motivazioni della condanna di primo grado, a partire dal 1994, quando fa il suo ingresso sulla scena politica nazionale Silvio Berlusconi nella veste di presidente del Consiglio, il ruolo di cinghia di trasmissione delle minacce mafiose avrebbe cambiato interprete e sarebbe stato assolto non più dagli ex ros Giuseppe De Donno e Mario Mori, per i quali, quindi, il reato si ritiene consumato nel 1993, bensì da Marcello Dell’Utri che, grazie ai rapporti con Vittorio Mangano, esponente di spicco della mafia siciliana trapiantato in Lombardia, avrebbe alimentato la trattativa. È infatti provato che anche in quel periodo uno dei principali ispiratori di Forza Italia e lo stalliere mafioso si siano incontrati, ma i contenuti estorsivi di quegli incontri sono ricostruiti in sentenza senza prove dirette e senza alcun riscontro della controparte, Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio. Ci si ferma a un ragionamento che assomiglierebbe più a una mera congettura che a un’effettiva prova. Quindi Berlusconi sarà ascoltato per riferire quanto a sua conoscenza in ordine alle eventuali minacce di matrice mafiosa pervenute al governo, da lui presieduto fino al 22 dicembre 1994.
DI PIETRO E BORSELLINO. E la testimonianza di Antonio Di Pietro? Come sappiamo, secondo l’accusa, la presunta trattativa Stato- mafia sarebbe stata il motivo dell’accelerazione della strage di via D’Amelio, che portò alla morte di Paolo Borsellino e della sua scorta. Ma c’è un’altra ipotesi, formulata dalla sentenza della Corte d’assise di Catania n. 24/ 2006, del 22 aprile di 13 anni fa, poi confermata in Cassazione, che indica come movente della strage il famoso dossier “mafia e appalti”. Di Pietro è ammesso come teste proprio per i contatti e dialoghi che ebbe con Borsellino prima e dopo la strage di Capaci e su eventuali progetti di indagini coordinate sul filone delle ingerenze mafiose e della corruttela politico- amministrativa nella gestione degli appalti. Anche perché, dato oggettivo, nel dossier “mafia e appalti” comparivano imprese del Nord che erano anche coinvolte nell’inchiesta “Mani pulite”, che l’ex magistrato Di Pietro stava conducendo.
NOTE DATE A FALCONE. In merito alla questione “mafia e appalti”, la Corte d’appello ha ammesso anche diverse prove documentali. A partire dalle annotazioni 96, 97 e 98 – a firma di De Donno – compilate per i magistrati Falcone e Guido Lo Forte relative alle indagini su quel filone. Parliamo di informative che precedettero il dossier generale depositato dai carabinieri del Ros il 20 febbraio 1991, su esplicita richiesta di Falcone, che all’epoca stava passando dalla Procura di Palermo alla direzione degli Affari penali del ministero della Giustizia. A proposito dell’importanza che dette Falcone al dossier, altra prova documentale ammessa è il suo intervento al convegno di studi al Castello Utveggio di Palermo del marzo 1991: la Corte d’appello l’ha ammesso come elemento atto a dimostrare l’importanza attribuita da Falcone alle indagini su “mafia e appalti”. Si, perché proprio durante quel convegno, reperibile nell’archivio di Radio Radicale, Falcone fa esplicito riferimento all’indagine che era ancora in corso, evidenziandone la primaria importanza. Così come sono stati ammessi i verbali delle audizioni al Csm di fine luglio ’ 92 degli allora sostituti procuratori Antonella Consiglio e Luigi Patronaggio. Sono state accolte in accordo delle parti in quanto rappresentative del clima all’interno dell’ufficio inquirente di Palermo dopo le strage di Capaci e via D’Amelio, e delle tensioni generate dal primo esito delle indagini su “mafia e appalti”. Testimoniano la presenza di Borsellino alla riunione del 14 luglio 1992, avvenuto cinque giorni prima della strage, ove emergerebbe che il magistrato avrebbe fatto un solo rilievo e che lo stesso fosse proprio relativo alle indagini scaturite dal dossier.
LE VARIANTI DI BRUSCA. Intanto, il rinnovo dibattimentale del processo d’appello si aprirà il 12 settembre con l’escussione dei pentiti Gioacchino La Barbera e Giovanni Brusca. Quest’ultimo verrà sentito soprattutto in merito alle nuove circostanze emerse dalle dichiarazioni, che egli ha reso all’udienza del processo di primo grado con particolare riferimento al ruolo attribuito a Calogero Mannino nel cosiddetto “aggiustamento” del processo Basile. «Mannino – disse Brusca – era stato cercato da Riina per aiutarlo ad aggiustare qualche processo o qualche altro favore. Tra gli anni ’ 80 e ’ 90 aveva cercato un contatto con lui tramite un tale notaio Ferraro, di Castelvetrano. L’interesse in particolare riguardava il processo Basile». Ma va precisato che su questo punto, l’ex ministro dc era già stato assolto dall’accusa di concorso esterno. E nelle motivazioni della sua assoluzione in primo grado – poi confermata in appello – in merito all’accusa di essere stato il promotore della presunta trattativa, la giudice ricorda che l’oggetto di prova della sua estraneità era «il tentativo di aggiustamento del processo Basile». Ricordiamo che il “caso Basile” riguarda la storia della morte di un coraggioso capitano che già allora era alla caccia dei Corleonesi: storia simbolo dei processi di mafia “aggiustati”. Ma è sull’attendibilità di Brusca che viene concentrata l’attenzione. Nelle motivazioni della sentenza del 2013, che assolse l’ex Ros Mario Mori e Mario Obinu nel processo clone sulla trattativa, il giudice Mario Fontana puntò il dito contro quei collaboratori di giustizia che il più delle volte hanno l’attitudine a compiacere la pubblica accusa. In particolare contro Giovanni Brusca «nelle cui dichiarazioni si devono registrare aggiornamenti inediti, seguiti a una nuova inchiesta giudiziaria promossa nei suoi confronti, e svariate oscillazioni, collegate a notizie di stampa relative a pregresse acquisizioni dibattimentali».
Mafia, Berlusconi indagato a Firenze per stragi '93.
(LaPresse il 25 settembre 2019) - Che Silvio Berlusconi fosse indagato nell'inchiesta riaperta dalla procura di Firenze sulle stragi mafiose del 1993 era emerso, come indiscrezione, nell'ottobre del 2017. Adesso è ufficiale e la notizia arriva da Palermo dove i legali di Silvio Berlusconi, l'avvocato Niccolò Ghedini e il professor Franco Coppi, hanno depositato presso la cancelleria della Corte d'Appellod i Palermo una dichiarazione in base alla quale il fondatore di Forza Italia risulta indagato a Firenze e dunque potrebbe avvalersi della facoltà di non rispondere nel processo palermitano sulla strage Stato mafia in quanto teste in un procedimento connesso. Lo ha confermato a LaPresse l'avvocato di Marcello Dell'Utri, Francesco Centonze.
(LaPresse il 25 settembre 2019) - La deposizione di Berlusconi davanti ai giudici della Corte d'Assise e Appello (e non Corte d'Appello come scritto in precedenza) di Palermo era prevista per il 3 ottobre prossimo giorno in cui si dovrà presentare in aula anche l'ex magistrato di Mani Pulite Antonio Di Pietro, convocato come teste dall'accusa. I legali di Berlusconi, però, avevano già fatto sapere che il Cavaliere sarebbe stato assente per impegni istituzionali al Parlamento europeo e nelle scorse ore hanno depositato in cancelleria una dichiarazione in base alla quale l'ex premier è indagato a Firenze.
(LaPresse il 25 settembre 2019) - La procura fiorentina aveva riaperto le indagini, delegando nuovi accertamenti alla Direzione investigativa antimafia, dopo aver ricevuto dai pm di Palermo le oltre cinquemila pagine di conversazione, tutte registrate tra il 19 gennaio 2016 e il 29 marzo del 2017, in cui Giuseppe Graviano, il boss di Brancaccio condannato anche per le stragi del '93, si confidava, nel carcere di Ascoli, durante l'ora d'aria, con il camorrista Umberto Adinolfi. Per i pm palermitani, Graviano, in quelle conversazioni, in più occasioni avrebbe fatto cenno o chiamato in causa il leader di Forza Italia. Una tesi avvalorata dagli esperti nominati dalla corte d'assise di Palermo nell'ambito del processo di primo grado sulla presunta 'trattativa Stato-mafia', secondo i quali il boss parla proprio di Berlusconi. Tesi respinta dal legale di Dell'Utri, Giuseppe Di Peri, e dai suoi esperti, secondo i quali Graviano non diceva Berlusconi, ma "bravissimo". I giudici della corte d'Assise di Palermo avevano convocato il boss delle stragi per chiedere a lui direttamente. Ma Graviano aveva preferito avvalersi della facoltà di non rispondere. Graviano aveva già fatto confidenze del genere al pentito Gaspare Spatuzza le cui affermazioni erano alla base della precedente inchiesta della procura di Firenze, poi archiviata nel 2011, su un presunto coinvolgimento di Berlusconi e Dell'Utri nelle stragi del '93.
Mafia, Berlusconi indagato per le stragi del 1993 a Firenze. Può non rispondere ai giudici di Palermo sulla «trattativa». Pubblicato mercoledì, 25 settembre 2019 da Corriere.it. La certificazione ufficiale secondo cui Silvio Berlusconi è indagato a Firenze, nell’ambito del procedimento per le stragi di mafia del ‘93 nel capoluogo toscano, a Roma e a Milano, è stata depositata questa mattina nella cancelleria della seconda sezione della Corte d’assise d’appello di Palermo, che sta celebrando il giudizio di secondo grado sulla trattativa Stato-mafia. Nell’ambito di questo dibattimento l’ex premier è stato citato come teste dalla difesa del senatore Marcello Dell’Utri. I legali avevano però chiesto di conoscere la veste giuridica in cui si sarebbe dovuto presentare e hanno ottenuto da Firenze una conferma ufficiale delle indiscrezioni giornalistiche circolate nel 2017. L’inchiesta su Berlusconi e sullo stesso Dell’Utri fu riaperta (i due erano già stati indagati e archiviati) a seguito delle intercettazioni in carcere dei colloqui del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, che tirava in ballo il leader di Forza Italia come complice e mandante occulto degli eccidi avvenuti fuori dall’isola. In base a questa certificazione, presentata dagli avvocati Coppi e Ghedini che assistono il leader azzurro, Berlusconi potrà avvalersi della facoltà di non rispondere al processo — connesso a quello sulle stragi — sulla trattativa. Convocato per il 3 ottobre, l’ex premier aveva declinato l’invito, sostenendo di non poter essere presente in quella data per via di impegni istituzionali al Parlamento europeo.
Berlusconi non depone per Dell’Utri. La moglie: Marcello rischia la vita. Pubblicato mercoledì, 25 settembre 2019 su Corriere.it da Virginia Piccolillo. I legali dell’ex premier al procedimento sulla trattativa Stato-mafia: «Il 3 ottobre in aula potrà non rispondere perché indagato anche lui per mafia». «È meglio che non parlo». L’ultimo capitolo procedimento sulla trattativa Stato-mafia si apre con lo sdegno della moglie di Marcello Dell’Utri, Miranda: «Meglio non dire quello che penso». Silvio Berlusconi, amico di una vita di suo marito, e cofondatore con lui di Forza Italia, sicuramente non sarà in aula il 3 ottobre a difenderlo, «a causa di impegni da eurodeputato». E forse nemmeno nelle udienze successive. Gli avvocati Niccolò Ghedini e Franco Coppi, hanno avuto notizia che l’ex premier «è, anch’egli, indagato per le stragi di Firenze e Roma del 1993, come mandante occulto, in una terza tranche di indagine basata sulle parole, intercettate in carcere, del boss Giuseppe Graviano che lo tira in ballo». E hanno ricordato alla Corte di Palermo che in tale veste ha la facoltà di non rispondere. Ma Miranda Dell’Utri non ci sta. «Ricordo che la testimonianza di Berlusconi era stata ritenuta decisiva persino dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo», scandisce, con l’amarezza distillata in questi cinque anni. Condannato a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, «per aver fatto da mediatore tra Cosa Nostra e Berlusconi», Dell’Utri è stato arrestato, in fuga a Beirut, il 12 aprile 2014 e dallo scorso febbraio è ai domiciliari per problemi di salute. «Ma qui c’è la vita di Marcello in gioco», rimarca Miranda. Affrontando di petto il sospetto che l’ex forzista Amedeo Laboccetta formula a voce alta: «Gli avvocati non vogliono far deporre Berlusconi. Però gli amici non si abbandonano mai. E Dell’Utri ha già pagato un prezzo troppo alto, non merita ulteriori atti pilateschi». Al Corriere, Ghedini smentisce che ci sia già una decisione in questo senso: «La Corte lo dovrà chiamare». Intanto sono stati proprio i legali a ottenere dalla procura di Firenze le informazioni relative alla sua posizione da «indagato» nell’indagine di mafia. E a segnalarla alla Corte d’Assise d’Appello di Palermo, in una nota che «in base all’articolo 210 cpp prevede, appunto, la facoltà di non rispondere» e che adesso dovrà prendere una decisione. La posizione di Berlusconi nell’inchiesta sulle stragi era stata archiviata due volte, ma poi alcune frasi del boss Graviano intercettate in carcere avevano spinto la Procura di Firenze a far ripartire le verifiche. «Berlusca mi ha chiesto questa cortesia... per questo è stata l’urgenza di... Ero convinto che vinceva le elezioni in Sicilia»: diceva il boss di Brancaccio, condannato per le stragi di Firenze e Roma, al camorrista Umberto Adinolfi, nelle ore d’aria tra il 19 gennaio e 2016 e il 29 marzo 2017 nel carcere di Ascoli Piceno. «Nel ‘92 già voleva scendere, voleva tutto, ed era disturbato... In mezzo la strada era Berlusca... lui voleva scendere... però in quel periodo c’erano i vecchi... lui mi ha detto ci vorrebbe una bella cosa...». Da lì «la cortesia». Poi la rabbia: «Nel ‘94 lui è ubriacato perché lui dice, ma io non posso dividere quello che ho con chi mi ha aiutato... Pigliò le distanze... e ha fatto il traditore». Infine: «25 anni fa mi sono seduto con te…Ti ho portato benessere, 24 anni fa mi è successa una disgrazia, tu cominci a pugnalarmi… Ma vagli a dire com’è che sei al governo, che hai fatto cose vergognose…».
Trattativa Stato-mafia, Berlusconi "scarica" Dell’Utri. In aula si rifiuta di testimoniare. E non vuole neanche essere ripreso da fotografi e Tv. La difesa del suo braccio destro rilancia: “Proiettate in aula l’intervista in cui dice di non aver subito alcuna minaccia dai boss”. Ma la corte dice no. Salvo Palazzolo su La Repubblica l'11 novembre 2019. Prima di entrare in aula i suoi avvocati fanno sapere che non vuole essere ripreso da fotografi e telecamere. Dispensa sorrisi, ma questa volta non parla. Silvio Berlusconi si avvale della facoltà di non rispondere al processo d’appello per la “trattativa Stato-mafia”: "Su indicazione dei miei avvocati", precisa. Nonostante la convocazione dei legali del suo amico di sempre, Marcello Dell’Utri, che è uno degli imputati del processo, condannato in primo grado a 12 anni di carcere. Mossa attesa il silenzio di Berlusconi, tanto che all’inizio dell’udienza l'avvocato di Dell’Utri, Francesco Centonze, aveva chiesto alla corte di acquisire una dichiarazione dell'ex premier, ripresa nel corso di una conferenza stampa da Rai news, il giorno della condanna di Dell’Utri, il 20 aprile 2018. “In quella occasione disse che il governo Berlusconi, nel 1994 o anche successivamente, non aveva mai ricevuto alcuna minaccia dalla mafia o dai suoi rappresentanti. E’ una dichiarazione che andrebbe proiettata in aula, magari anche prima dell’audizione del testimone”. Richiesta bocciata dalla procura generale: “Non siamo in uno studio Tv”, dicono Giuseppe Fici e Sergio Barbiera. Anche la corte boccia l'istanza: “Il documento è stato già acquisito agli atti, come dice la Cassazione non è necessario che la proiezione avvenga nel contraddittorio delle parti”. Fosse stato per Berlusconi, non sarebbe neanche venuto a Palermo: nei giorni scorsi, i suoi legali – l’avvocato Niccolò Ghedini e il professore Franco Coppi, oggi presenti in aula - erano corsi a presentare un certificato ai giudici della corte d’appello, per attestare che alla procura di Firenze c’è da due anni una nuova indagine sui mandanti occulti delle stragi del 1993, che riguarda proprio i due amici inseparabili da 45 anni, fra affari e politica. Per Berlusconi, era già un motivo per tacere al processo “Trattativa”, in quanto “indagato di reato connesso”, anzi proprio un motivo per non venire a Palermo. Ma i giudici hanno insistito per la convocazione. Non sono però riusciti a tirargli di bocca una sola risposta. E di corsa l’ex premier è uscito dall’aula, sfuggendo anche ai cronisti.
La delusione di Dell’Utri. Dell’Utri non c’è in aula. E’ rimasto nella sua casa di Milano, dove sta finendo di scontare un’altra condanna, quella per concorso esterno in associazione mafiosa, a dicembre avrà finito. Al momento, naturalmente, non può parlare. Ci aveva pensato la moglie, dopo aver saputo di quel certificato presentato dai legali di Berlusconi, ad esprimere tutta la delusione del marito. “È meglio che non parlo – disse Miranda Ratti all’AdnKronos, il 24 settembre scorso - meglio che non dico quello che penso. Ricordo solo che la testimonianza di Berlusconi era stata ritenuta decisiva persino dalla Corte di assise d’appello di Palermo. Qui c’è la vita di Marcello in gioco”. Una dichiarazione accorata, senza precedenti. Rafforzata anche da altre parole, attribuite dall’agenzia di stampa “all’entourage di Dell’Utri”: “Sorpresa, rabbia, incredulità. E una grandissima amarezza”. Un terremoto nella galassia che dagli anni Settanta ha tenuto insieme Berlusconi e l’allora segretario-amico tuttofare arrivato da Palermo, diventato il motore di tante attività imprenditoriali e poi uno dei fondatori di Forza Italia.
La smentita mai arrivata. Dell’Utri si aspettava che Berlusconi smentisse l’assunto su cui si fonda la condanna di primo grado del processo “Trattativa”: di aver ricevuto per il suo tramite le minacce di Cosa nostra quando era presidente del Consiglio, nel 1994. Minacce di nuove stragi, i boss puntavano ad ottenere un alleggerimento del carcere duro e una legislazione più favorevole. La sentenza “Trattativa” dice anche dell’altro: Berlusconi avrebbe continuato a pagare i boss durante quel periodo. Un pagamento iniziato a metà degli anni Settanta – dice l’altra sentenza, quella che ha condannato Dell’Utri per associazione mafiosa – un pagamento per quel “patto di protezione” che l’allora imprenditore Berlusconi avrebbe stipulato con i boss siciliani: prima per proteggere la sua famiglia dai sequestri di persona che terrorizzavano la Milano-bene, poi per proteggere i suoi ripetitori Tv in Sicilia. Ecco perché Berlusconi non ha mai parlato nelle aule di giustizia di Palermo. Perché la storia di Marcello Dell’Utri è strettamente connessa alla sua.
I soldi all’amico. “Sorpresa, rabbia, incredulità”. Le parole dell’entourage di Dell’Utri raccontano davvero di una frattura senza precedenti. E dire che fino a due anni fa Berlusconi faceva cospicui regali alla famiglia dell’amico- socio in carcere: fra il novembre 2016 e il febbraio 2017, sono arrivati bonifici per tre milioni di euro. Causale, “prestiti infruttiferi”. Operazioni che hanno fatto scattare una segnalazione alla Guardia di dinanza da parte dell’Uif, l’unità antiriciclaggio della Banca d’Italia. E, ora, sul tesoro di Dell’Utri vuole fare chiarezza anche la procura di Palermo. Mentre a Firenze sono arrivate le intercettazioni del boss Giuseppe Graviano, intercettato dai pubblici ministeri della "Trattativa". Diceva al compagno dell’ora d’aria: “Berlusca mi ha chiesto questa cortesia”. Così Berlusconi e Dell’Utri sono finiti indagati nuovamente per le stragi. Ma questa volta — ed è la prima volta — hanno scelto strade diverse per difendersi.
Emanuele Lauria per “la Repubblica” il 13 Novembre 2019. «L' immagine di Berlusconi che rinuncia alle telecamere e alla difesa di un amico rappresenta plasticamente la fine di un' epoca». E quell' epoca, annota tristemente Giuliano Urbani è l' era di Forza Italia, del sogno di un partito liberale di massa che oggi svanisce con il declino del suo leader. «Silvio voleva che Fi nascesse e morisse con lui: è quello che sta accadendo», sibila il professore 82enne con il tono del pioniere deluso e distaccato.
Berlusconi si rifiuta in aula di aiutare per la prima volta il vecchio sodale Dell' Utri. Se l' aspettava?
«Decisamente no, e sono sorpreso anche io. Immagino siano stati gli avvocati a spingerlo verso questa decisione. Ma certo è una cosa che colpisce. Mai una volta, nella mia vita, ho sentito Silvio usare parole meno che lusinghiere nei confronti di Dell' Utri. E, visto che conosco bene anche Marcello, posso immaginare il suo dispiacere».
Un tradimento?
«Diciamo che Dell' Utri soffre ancora di più perché oltre a essere persona intelligente e colta ha un concetto di amicizia solido, figlio anche delle sue radici meridionali. Sa di essere stato una vittima sacrificale: non avrebbe incontrato le difficoltà giudiziarie sofferte se non fosse stato vicino al vero bersaglio, Berlusconi. E ora si vede abbandonato: capisce le ragioni ma non può che essere addolorato. Anche perché nel processo corre qualche rischio in più».
La sentenza sulla Trattativa dice che Dell'Utri era l'uomo attraverso cui Cosa Nostra faceva pressioni sul primo governo Berlusconi, di cui anche lei faceva parte. Non si accorse di nulla?
«Io non ho mai saputo di un ruolo della mafia nella nascita di Forza Italia e nel primo governo Berlusconi. La nostra era un' organizzazione che aveva in sé degli anticorpi, era quasi anarchica, tecnicamente impossibile un controllo dall' esterno».
I giudici asseriscono che Dell' Utri anticipava allo stalliere Mangano i provvedimenti del governo che favorivano Cosa Nostra.
«Io queste cose le apprendo ora. Guardi, per quanto riguarda i rapporti fra Berlusconi e la mafia posso dirle solo questo: il presidente aveva subito attentati ai magazzini Standa e presumibilmente chiese a Dell' Utri, in quanto siciliano, di capire cosa chiedessero gli autori delle intimidazioni: regali, assunzioni. Mangano? Fu ingaggiato da Berlusconi per fare un favore a qualcuno, non per siglare un trattato di pace con la mafia».
Tesi non originale: accanimento giudiziario.
«Ma quello c' è stato, sicuramente. E sta scemando solo ora. Le dico di più: le vicende giudiziarie hanno contribuito a far sì che della stagione di Forza Italia non rimanga eredità degna di nota. Per carità, poi ci sono stati gli errori del Cavaliere».
Quale è stato il principale?
«Non aver mai fatto un vero partito, ma irridere la politica definendola un teatrino. Berlusconi è stato un fenomeno negli affari e nella comunicazione, ma il suo forte non è la conoscenza degli uomini. Non a caso è stato spesso tradito da collaboratori di basso livello».
Alfano? Toti?
«Non faccio nomi. Io nel 2006 sono andato via capendo che si era persa la strada del partito liberale di massa. Ricordo la scelta di Follini vice premier, era la democristianizzazione di Forza Italia. Poi venne il Pdl e fu l' inizio della fine. Ma Berlusconi ama affrontare i rischi. Si è sempre sentito un Superman più forte delle avversità. Ecco perché oggi mi sorprende l' atteggiamento rinunciatario nei confronti di Dell' Utri. Ma evidentemente siamo alla fine, mesta, di un' era».
Salvo Palazzolo Per “la Repubblica” il 12 novembre 2019. Per 46 anni sono stati inseparabili. Silvio Berlusconi ama raccontare che l'amico Marcello Dell'Utri ha sempre avuto una buona idea da proporgli, al momento giusto. La prima, del 1973, l'accolse subito: l'arrivo di un esperto fattore da Palermo per prendersi cura dei cavalli nella nuova villa di Arcore, era il boss Vittorio Mangano. L'ultima idea di Dell'Utri, invece, l'ha subito bocciata: Berlusconi non sarebbe voluto neanche venire a Palermo, come testimone citato dalla difesa del suo amico di sempre condannato nel processo "Trattativa Stato-mafia". E Dell'Utri c'è rimasto parecchio male. Perché rischia di tornare in carcere. E perché adesso la procura di Palermo ha avviato anche un'indagine sul suo patrimonio accumulato in tanti anni di amicizia, lavoro e militanza politica al fianco di Berlusconi. Qualche indiscrezione giornalistica su un'inchiesta ancora riservatissima avrà forse creato più di una preoccupazione. Di sicuro, fra il 2000 e il 2012, nel bel mezzo dei guai giudiziari di Dell'Utri - oggi condannato definitamente per concorso esterno in associazione mafiosa - l'amico Berlusconi aveva fatto arrivare donazioni per 40 milioni di euro. Fra il novembre 2016 e il febbraio 2017, sono arrivati bonifici per altri tre milioni. Causale, "prestiti infruttiferi". Operazioni che hanno fatto scattare una segnalazione alla Guardia di finanza da parte dell'Uif, l'unità antiriciclaggio della Banca d'Italia. E oggi un'indagine sui soldi di Dell'Utri ambasciatore dei boss dagli anni Settanta al 1992 potrebbe rivelarsi ancora più rivelatrice di tante dichiarazioni di pentiti. Una cosa è certa: prima di ieri, Berlusconi aveva sempre difeso a spada tratta il suo vecchio amico di università diventato compagno di tante imprese, da Publitalia a Forza Italia. Anche quando, nel 2002, si era pure avvalso della facoltà di non rispondere davanti ai giudici di Palermo arrivati a Palazzo Chigi nel corso del processo per mafia nei confronti di Dell'Utri. In silenzio davanti al tribunale, ma tanto prodigo di parole addirittura sul palco del Palacongressi di Montecatini Terme, con una mano sulla spalla dell' amico fondatore del partito ormai senatore e gran consigliere: «I giudici che accusano Marcello - disse Berlusconi - devono essere recuperati alla società». Era l'11 novembre 2007. E poi ancora, in Tv, qualche mese dopo: «Su Vittorio Mangano, ha detto bene Dell'Utri, eroicamente non inventò nulla su di me, anche quando i pubblici ministeri andavano in carcere e gli dicevano che se avesse detto qualcosa su Berlusconi sarebbe andato a casa». Mangano, il boss diventato eroe in tante dichiarazioni dei due amici inseparabili. Anche quando i giudici di Palermo scrivevano in sentenza che c'era ormai la prova del «patto di protezione» che l'allora imprenditore Berlusconi avrebbe stipulato con i boss siciliani, nel 1974: prima per proteggere la sua famiglia dai sequestri di persona che terrorizzavano la Milano-bene (questa era la vera attività di Mangano ad Arcore) e poi per proteggere i suoi ripetitori Tv in Sicilia. Mangano è rimasto "l'eroe" dei due inseparabili amici sulla ribalta della politica italiana anche quando è arrivata la Cassazione, nel 2014, a mettere il suggello definitivo all'accusa di mafia per Dell' Utri. Per i giudici della suprema corte non ci sono più dubbi sulle «cospicue somme» che negli anni Settanta Berlusconi pagò alla mafia, attraverso il "mediatore" Dell'Utri: «Dei versamenti di somme da parte di Berlusconi in favore di Cosa nostra, per la protezione, hanno parlato quattro collaboratori di giustizia». Mangano è morto nel 2000, un altro "amico" fra Palermo e Milano, il boss Tanino Cinà, è deceduto nel 2006. "Eroe" anche lui, non ha mai aperto bocca. Ma adesso che il peggio sembrava passato, Berlusconi ha deciso di "scaricare" il suo amico Dell' Utri. Chissà davvero perché.
Stato-mafia, Berlusconi non testimonia, manca la prova del reato. Damiano Aliprandi il 12 Novembre 2019 su Il Dubbio. Processo di appello sulla presunta trattativa Stato- mafia. Secondo l’accusa nel ’ 94, quando era a capo del governo, avrebbe subito minacce dei boss veicolate tramite Marcello Dell’Utri. «Su indicazione dei miei legali, mi avvalgo della facoltà di non rispondere». Alla fine l’ex premier Silvio Berlusconi ha deciso legittimamente di non essere sottoposto alle domande della Corte d’appello sulla presunta trattativa Stato- mafia. L’attesa era alta, tanto che nell’aula bunker i controlli sono stati più intensi da parte di polizia e carabinieri, soprattutto per il ritorno della stampa nazionale che, a differenza del processo di primo grado, non sembra seguire l’appello con altrettanta attenzione. Appena entrato in aula, i giudici hanno illustrato a Berlusconi le prerogative garantitegli dallo status di teste assistito, status determinato dal fatto che a suo carico pende una inchiesta – già archiviata, ma riaperta dopo le intercettazioni di Graviano recluso al 41 bis – a Firenze sulle stragi del ‘ 93, quindi su fatti “probatoriamente collegati” a quelli oggetto del processo trattativa. La Corte ha respinto la richiesta della difesa di Dell’Utri di proiettare un video di una conferenza stampa di Berlusconi del 20 aprile 2018, dopo la sentenza di primo grado sulla trattativa. In quell’occasione l’ex premier disse: “Il governo Berlusconi non ha mai ricevuto nessuna minaccia dalla mafia e dai suoi rappresentanti”. Non è stato, dunque, trasmesso il video, ma il giudice Angelo Pellino ha comunque acquisito le trascrizioni. La sua testimonianza era importante per l’ex senatore Marcello Dell’Utri. Perché? Secondo la tesi accusatoria, confermata in primo grado, il secondo corpo politico minacciato sarebbe stato il governo Berlusconi. A partire dal 1994, quando fa il suo ingresso sulla scena politica nazionale nella veste di presidente del Consiglio, il ruolo di cinghia di trasmissione delle minacce mafiose cambia interprete e sarebbe stato assolto non più dagli ex Ros, per i quali, quindi, il reato si ritiene consumato nel 1993, bensì da Marcello Dell’Utri che, grazie ai rapporti con Vittorio Mangano, esponente di spicco della mafia siciliana trapiantato in Lombardia, alimenta la trattativa. È infatti provato che anche in quel periodo uno dei principali ispiratori di Forza Italia e lo stalliere mafioso si siano incontrati, ma – qui il punto cruciale– i contenuti “estorsivi “di quegli incontri sono ricostruiti in sentenza in modo solo inferenziale, senza prove dirette e senza alcun riscontro della controparte, Silvio Berlusconi, allora presidente del Consiglio, sulla base di un ragionamento che assomiglia però più a una mera congettura che ad un’effettiva prova. Berlusconi avrebbe dovuto, appunto, testimoniare essendo “paradossalmente” designato come vittima, tanto che il processo di primo grado ha anche condannato gli imputati a risarcire i governi che sarebbero stati minacciati. Dalle risultanze processuali emerge ad avviso dalla corte di primo grado che nel periodo tra il 1992 e il 1994 i vertici di Cosa Nostra ( Riina, Provenzano e Cinà) hanno prospettato “agli esponenti delle Istituzioni, anche per il tramite di Vito Ciancimino, deceduto, una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura ( tra l’altro concernenti la legislazione penale e processuale in materia di contrasto alla criminalità organizzata, l’esito di importanti vicende processuali e il trattamento penitenziario degli associati in stato di detenzione) per gli aderenti” al loro sodalizio mafioso. “Ponendo l’ottenimento di detti benefici come condizione ineludibile per porre fine alla strategia di violento attacco frontale alle Istituzioni la cui esecuzione aveva avuto inizio con l’omicidio dell’onorevole Salvo Lima”. Ma quali benefici avrebbe ottenuto la mafia? Per quanto riguarda i primi due governi “minacciati” del biennio 92- 93, sarebbe stata la mancata proroga del 41 bis a circa 300 soggetti. Ma tale “prova” è stata sviscerata durante il processo d’appello ed emerge chiaramente che la mancata proroga è scaturita dalla sentenza della Consulta, la quale aveva cristallizzato il principio della valutazione caso per caso. E il governo Berlusconi? Nessuna, tranne una ipotesi sul famoso decreto Biondi, quello all’epoca ribattezzato “salva ladri” che però riguardava il divieto della custodia cautelare in carcere ( trasformata al massimo in arresti domiciliari) per i reati contro la Pubblica amministrazione e quelli finanziari, comprese la corruzione e la concussione. Di quelli mafiosi, non ce n’erano traccia.
Da Il Fatto Quotidiano il 13 novembre 2019. Berlusconi show da Maurizio Costanzo. L’ex premier, ospite della storica trasmissione tv, si è esibito in una performance comica sopra le righe: “Maurizio, ormai siamo vecchietti – ha esordito Berlusconi – dobbiamo smettere. Abbiamo un piede nella tomba”. L’ex Cavaliere – reduce dalla mancata testimonianza al processo sulla mafia a Palermo – si è concesso una battuta pure sull’attentato a Costanzo del ‘93 che gli costò un avviso di garanzia per l’attentato del ‘93: ' “Ma davvero sei qui da 4.445 puntate? Non ci sono riuscito a farti smettere Maurizio, non c'è l’ho fatta a farti scappare nemmeno con un attentato con una bomba...”. Poi l’ex premier si è concesso qualche battuta sull’attualità politica, sfogandosi direttamente con gli italiani: “Vi siete bevuti il cervello, avete votato malissimo” e ora gli tocca una manovra “tutta tasse e manette”. Un passaggio anche su Renzi (“Gioca nell’altra metà campo, c'è una distanza incolmabile tra noi e la sinistra) e una su Salvini: “Avete visto che inizia ad avere la barba grigia... non piace alle donne”.
Anna Maria Greco per “il Giornale” il 13 novembre 2019. «So che Renzi vi cerca, vuole flirtare con voi. Ma siamo incompatibili. Italia Viva non è un partito, ma è frutto di un gioco di palazzo». È l' avvertimento di Silvio Berlusconi ai suoi. In Senato, alla riunione con i responsabili dei Dipartimenti di Forza Italia, convocata da Adriano Galliani, ci sono le capigruppo Bernini e Gelmini e quasi tutti i parlamentari. Il leader di Forza Italia è molto diretto: «Se qualcuno sta pensando di lasciare Fi spero almeno che vada nel Misto. Andare in un altro partito oggi, lo dico chiaro, è un grave errore, anzi, è da c». Ricorda che Renzi «ha ispirato e fatto nascere il governo più a sinistra della storia repubblicana per interessi di bottega. Gli serviva tempo per fare la scissione e fondare un suo partito, ma intanto sono gli italiani a pagare il conto». È sera e il Cavaliere ha voluto l' incontro con gli azzurri perché sa bene quanto il momento sia delicato, con gli espliciti inviti renziani agli scontenti azzurri e il sospetto di un' intesa con Mara Carfagna. Alla vicepresidente della Camera Berlusconi ha offerto venerdì di candidarsi governatore della Campania, ma dopo il suo tergiversare lancia Stefano Caldoro: «C' è l' accordo con gli alleati». A lei e a chi lo accusa di sudditanza a Salvini replica: «Siamo alleati coi partiti di centrodestra, ma non saremo mai subalterni a nessuno». Poi passa all' altra Opa lanciata sugli azzurri: «Qualcuno vorrebbe andare nella Lega? Matteo Salvini è stato molto chiaro: non li ricandiderebbe. E poi lo sa bene anche lui: chi tradisce gli elettori una volta, li tradisce sempre». L' ex premier è sceso a Roma per partecipare, nel pomeriggio, al Maurizio Costanzo Show di Canale5, in onda stasera e anche lì parla di Renzi. Quando Costanzo gli chiede di Matteo, lui replica: «Di quale Matteo parli? Ce ne sono tanti, forse troppi. So che Renzi è stato qui da te e mi ha imitato, ma non sono ancora riuscito a vederlo. Gli faccio i miei auguri, anche se gioca nell' altra parte di campo. C' è una distanza incolmabile tra noi liberali e la sinistra». Nella trasmissione, non evita neppure temi delicati, giudiziari. «Ma davvero sei qui da 4.445 puntate? - chiede a Costanzo -.Non ti sembra di aver esagerato? Non ci sono riuscito a farlo smettere, gli ho fatto anche un attentato, con una bomba, e non ce l' ho fatta a farlo scappare...». Il leader di Forza Italia scherza sulle indagini nell' ambito della trattativa Stato-mafia. Quando il conduttore insiste perché Berlusconi canti sul palco, lui dice: «Non canto più. È inutile che insisti, sono diventato una persona seria». Maurizio non si dà per vinto: «Ma qui hanno cantato tutti i politici». E il Cav: «Conte canta? È bravo solo in quello. In primavera vengo qui, prendo l' impegno, mi preparo e vengo a cantare. Ne faccio tre: una in italiano, una in francese, una in inglese». Tra gli ospiti di Costanzo ce n' è uno barbuto, al quale Berlusconi fa qualche critica scherzosa. «La barba, quando non è più nera, non piace palle donne. Avete visto Salvini? Comincia ad avere la barba grigia e non piace alle donne...». La chiacchiera si avvicina al nocciolo politico, ma sempre con leggerezza: «Vi auguro con il prossimo governo, che sarà il nostro, di esaudire tutti i vostri desideri e i vostri sogni», dice Il Cav. Striglia gli italiani che «hanno votato malissimo, si sono bevuti il cervello e mandato al governo degli incapaci». E con i giornalisti ribadisce che la manovra è «negativa tutta tasse e manette, non contiene nulla per imprese, lavoro e famiglie». E i giallorossi litigano tra di loro: «Il dato dei moltissimi emendamenti della maggioranza dimostra che la maggioranza è in totale contrasto con il governo».
Costanzo gela gli anti-Cav: «Mai pensato in vita mia che Berlusconi mi abbia fatto un attentato». Il Secolo d'Italia mercoledì 13 novembre 2019. “La battuta di Berlusconi sull’attentato nei miei confronti? Erroneamente venne detto che lui era mandante del mio attentato. Lui ci scherza sopra. Io tutto posso pensare nella mia vita meno che lui mi abbia fatto un attentato. Se ci sono rimasto male per la battuta? Per niente”. Lo ha detto Maurizio Costanzo a Un Giorno da Pecora , la trasmissione di Rai Radio1 condotta da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Anche il Cavaliere, ospite del suo show, ha cantato come tutti gli altri politici che sono stati suoi ospiti? “No, non ha voluto cantare, secondo me per distinguersi. Ha promesso che quanto tornerà a marzo canterà, ma faccia come gli pare…”. Come l’ha trovato? “Tonico, in forma per i suoi 83 anni, è sempre uguale”, ha aggiunto Costanzo. Ecco la battuta”incriminata” di Berlusconi. “Ma davvero sei qui da 4.445 puntate? Non ti sembra di aver esagerato?”, ha esordito l’ex premier nella puntata del Maurizio Costanzo Show che andrà in onda oggi in seconda serata su Canale 5. “Parla lui”, ha risposto il conduttore. “Non ci sono riuscito a farlo smettere, gli ho fatto anche un attentato, con una bomba. Siamo vecchietti, dobbiamo smettere. Abbiamo un piede nella tomba”, ha controreplicatoil Cav. Riferimento diretto all’attentato di via Fauro del 1993 contro Costanzo. Un tentativo di omicidio contenuto dalle 23 contestazioni per le quali la procura di Firenze ha iscritto nel registro degli indagati lo stesso Berlusconi. La prende con leggerezza e ironia, Berlusconi, l’ultimo tentativo di incastrarlo. Però è bene ricordare che i suoi acerrimi memici non sono soggetti molto aallegri. Né spiritosi. Sono capaci di inguaiare le persone anche per una battuta. Quanta gente s’è ad esempio rivinata per una fanfaronata? La fortuna di Berlusconi è di aver pronucniato la battuta in pubblico. Se l’avesse detta in una conversazione telefonica sarebbe stati guai. E guai seri.
Mafia e politica. Ecco perché Silvio Berlusconi non va a testimoniare per difendere l'amico Dell'Utri. I messaggi mafiosi. I rapporti con i Graviano. Le pressioni per avere vantaggi legislativi durante il suo primo Governo. Pur di non rispondere a questi interrogativi l'ex Cavaliere svela ai giudici di essere indagato per le stragi del '93. Lirio Abbate il 25 settembre 2019 su L'Espresso. La carta che ha deciso di giocare Marcello Dell’Utri, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, è quella di far salire sul banco dei testimoni il suo amico Silvio Berlusconi, chiamato a difenderlo dalle accuse di collegamenti con la mafia. Lo ha citato in aula a Palermo davanti ai giudici del processo d’appello per la trattativa tra Stato e mafia, in cui Dell’Utri è stato condannato in primo grado a dodici anni. In questo procedimento però viene processato non per l’accordo fatto con i mafiosi, in particolare con Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca e Giuseppe Graviano, e quindi con Salvatore Riina, perché per questo è già stato giudicato e condannato definitivamente. Dell’Utri viene processato in secondo grado per aver veicolato il messaggio intimidatorio dei mafiosi al capo del governo che si era insediato nel 1994, e cioè Silvio Berlusconi, e incassare il premio per l’appoggio elettorale che sarebbe stato fornito dall’organizzazione criminale nel voto di venticinque anni fa. I mafiosi volevano vantaggi legislativi, e nell’attesa Marcello suggeriva di evitare altri eventuali stragi o omicidi eccellenti, in modo tale che nel silenzio il governo avrebbe agito indisturbato. I magistrati della procura generale di Palermo, che hanno riaperto le indagini in questa fase d’appello, stanno cercando di verificare se Dell’Utri si è effettivamente attivato in favore dei boss, facendo arrivare a Berlusconi il messaggio mafioso. L’ufficio coordinato da Roberto Scarpinato vuole provare se l’avviso criminale gli è stato recapitato. E se Berlusconi a fronte di questa pressione che proveniva dai vertici di Cosa nostra si è piegato ai loro voleri. Ora, venticinque anni dopo, Dell’Utri decide di far testimoniare Berlusconi, da sempre restio alle aule di giustizia, «per riferire in ordine a eventuali minacce di matrice mafiosa pervenute al governo da lui presieduto fino al 22 dicembre 1994». Questa mossa difensiva sembra aver colto di sorpresa l’ex premier, il quale ha fatto sapere alla Corte, tramite i suoi legali, che il 3 ottobre, giorno per il quale era stato convocato dai giudici, non potrà esserci perché «impegnato altrove». Berlusconi chiamato in aiuto dal suo ex braccio destro Marcello, che è anche uno dei fondatori di Forza Italia, svicola, tanto da far depositare ai propri legali una nota con la quale svela ai giudici che l’ex cavaliere è indagato a Firenze per l’inchiesta sulle stragi del 1993. In buona sostanza pur di non andare a difendere il suo (ex?) amico, si trincera dietro la certificazione che un’altra procura, in questo caso quella di Firenze, lo sta indagando per mafia e quindi non potrà essere sentito come testimone, che ha l’obbligo di rispondere. Il codice offre la possibilità al Berlusconi-indagato per strage, vista la posizione giuridica in cui si trova, di avvalersi della facoltà di non ripondere. E quindi fa scena muta. Intanto accanto alla richiesta della difesa accolta dalla Corte si è affiancata anche la procura generale con i sostituti Sergio Barbiera e Giuseppe Fici i quali ne vorrebbero approfittare per interrogare l’ex premier, un’occasione unica offerta su un piatto d’argento dall’imputato Marcello che Silvio però smonta subito mettendo il paletto giuridico dell’indagato di reato connesso. Ma quale potrebbe essere il vantaggio offerto ai mafiosi 25 anni fa? Una traccia di questo scivolo giudiziario è stata trovata dai magistrati della procura generale nei documenti acquisiti in primavera, in silenzio, dall’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia. Si tratta delle carte che tracciano l’iter burocratico che ha avuto il “decreto Biondi” che prende il nome dall’allora ministro guardasigilli del primo governo Berlusconi. Un decreto che avrebbe portato enormi benefici legislativi ai mafiosi perché andava a modificare l’articolo del codice penale sull’associazione mafiosa: in particolare tornava a rendere facoltativo e non più obbligatorio l’arresto degli indagati per mafia; inoltre avvantaggiava i corrotti ed i collusi ai quali era stata applicata la custodia cautelare. I documenti acquisiti in via Arenula e depositati nel processo rendono in maniera evidente il percorso politico del decreto, dal quale si evince che primo firmatario era Berlusconi. Un provvedimento governativo di cui i mafiosi conoscevano, in anticipo, come hanno rivelato i collaboratori di giustizia, tutti gli aspetti a loro favore. E così a luglio di venticinque anni fa, mentre tutta l’Italia è incollata ai televisori per seguire i quarti di finale dei mondiali di calcio, viene approvato il decreto Biondi, subito ribattezzato “salvaladri”, in virtù della quale non è più possibile mettere in prigione gli indagati per reati contro la pubblica amministrazione: decine di tangentisti uscirebbero di galera. Ma le norme sulla custodia cautelare che riguardano la mafia restano ufficialmente immutate, perché il ministro dell’Interno, il leghista Bobo Maroni, fa esplodere il caso e il 16 luglio, ai microfoni del TG3, dice: «Le cifre sulle scarcerazioni che ci hanno dato in Consiglio dei Ministri erano tutte sballate. Ma non è solo la questione di Tangentopoli che mi preoccupa. Oggi mi rendo conto che ci sono altre parti gravi del decreto che complessivamente depotenziano l’azione dello Stato contro la criminalità organizzata». In quel momento c’era un preciso intento da parte dei mafiosi di riscuotere il credito acquisito dopo il sostegno alle elezioni politiche del 1994. Dunque, Cosa nostra pretendeva l’attuazione dell’accordo e veniva ricordato a Dell’Utri, attraverso emissari mafiosi, di realizzare la pressione su Berlusconi. Le modifiche introdotte con il decreto legge non furono portate avanti perché è stato fatto cadere per l’opposizione del ministro Maroni e del capo dello Stato di allora, Oscar Luigi Scalfaro. Il messaggio minaccioso al governo non è l’unico sul quale la procura generale in questo processo d’appello vuole fare luce. Ce ne un altro che riguarda direttamente i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano che fino adesso non era mai emerso ma che lascia molte zone d’ombra. Intanto i Graviano sono accusati di stragi, omicidi eccellenti, compreso quello di padre Pino Puglisi, legati a Riina e Messina Denaro. Sono assassini con frequentazioni di politici e uomini di apparati deviati dello Stato. Custodi di tanti segreti. Entrambi i fratelli furono arrestati in latitanza a Milano, alcuni mesi dopo l’incontro che Giuseppe Graviano fece a Roma con Marcello Dell’Utri, di cui parla il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza. Però «c’è uno strano episodio che sconvolge i Graviano» come ha detto ai giudici il pg Sergio Barbiera, che si verifica a maggio 1994, dopo pochi mesi dal loro arresto, mentre sono detenuti nel carcere di San Vittore a Milano. È così strano, e per i boss sconvolgente, da indurli a fare uno esposto alle autorità giudiziarie. Pensare che due boss come i Graviano, con tutto il loro codice mafioso, arrivino a mettere mano alla carta bollata per denunciare è come mettere insieme il diavolo e l’acqua santa. Cosa sconvolge così tanto i Graviano? I boss sostengono di essere stati filmati in carcere da alcune persone che si sono qualificate come carabinieri. L’episodio può essere considerato di routine per le indagini e ne sarebbero dovuti essere abituati anche loro, ma per come è avvenuto o per le persone che hanno visto ha fatto scattare l’allarme, tanto da presentare un esposto attraverso i loro avvocati. La procura generale ha ritrovato la denuncia, che non era mai stata evasa, e indagando su chi fosse entrato a San Vittore a filmare i Graviano è emersa una delega di indagine disposta da un pm della procura di Roma, deceduto qualche anno fa. Gli investigatori della Dia che stanno svolgendo adesso gli accertamenti per conto dell’ufficio di Scarpinato hanno scoperto dall’elenco degli ingressi che alcuni nomi dei carabinieri, entrati per questo episodio e segnati nei registri del carcere, non risultano veri. Alcuni nominativi non risultano mai essere appartenuti all’Arma. Chi è stato a filmare i Graviano? I due fratelli dal giorno del loro arresto non hanno mai parlato: si sono limitati a lanciare in qualche occasione messaggi criptati durante le udienze dei loro processi, minacciando di parlare, in particolare dopo le rivelazioni fatte da Spatuzza dell’incontro avuto con Dell’Utri a Roma. Il loro silenzio è d’oro perché permette di far vivere bene e in maniera facoltosa le loro famiglie che vivono fra Roma, la Svizzera e Milano. Dopo un anno da questo fatto di San Vittore, a Giuseppe e Filippo Graviano qualcuno, ancora sconosciuto alle indagini, ha pure dato la possibilità mentre erano detenuti al 41 bis all’Ucciardone a Palermo, di incontrare le rispettive mogli e di concepire un figlio. Dopo nove mesi sono nati i due Graviano jr partoriti in una clinica in Costa Azzurra. Si chiamano entrambi Michele e sono cresciuti frequentando le migliori scuole private di Roma e Palermo. Per Giuseppe Graviano avere avuto un figlio è stato il “migliore regalo” che potesse ricevere, come lui stesso ha detto a un altro detenuto. Ma chi gli ha donato la possibilità di realizzare questo suo desiderio? È ormai accertato che la moglie del boss è entrata all’Ucciardone e vi è rimasta nascosta. Anche su questo aspetto la procura generale ha acquisito nuovi documenti dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che adesso sono stati riversati nel processo d’appello alla trattativa Stato-mafia. Vicende mai svelate del tutto, e ancora oscure. Tutto ciò ci fa pensare a Balzac, quando dice che vi sono due storie: quella ufficiale, menzognera, che ci viene insegnata; e la storia segreta, dove si trovano le vere cause degli avvenimenti, ma non si possono raccontare perché è una storia vergognosa.
Marco Lillo per ''il Fatto Quotidiano'' il 27 settembre 2019. All' improvviso l' Italia si è destata da un lungo letargo e ha scoperto che Silvio Berlusconi è indagato come ipotetico mandante esterno delle stragi avvenute e tentate nel 1993 e 1994. L' accusa è pluriaggravata dalla finalità di aiutare la mafia e di creare il terrore, peraltro in concorso con boss di prima grandezza già condannati, come Totò Riina e Leoluca Bagarella. Si tratta di accuse da far tremare i polsi e la presunzione di non colpevolezza deve essere rafforzata in questo caso. La notizia, a dire il vero, era nota dal 31 ottobre del 2017 quando uscì su la Repubblica, senza le carte però. Anche noi in questi due anni abbiamo dedicato decine di articoli e una serie di documentari all' inchiesta che vede indagati Berlusconi e Marcello Dell' Utri per le stragi del 1993. L' indagine, già aperta e chiusa in passato, è stata riaperta nella seconda metà del 2017 sulla base delle intercettazioni video-audio realizzate nell' indagine sulla trattativa Stato-mafia. Il boss Giuseppe Graviano (secondo l' interpretazione dei magistrati palermitani del processo Trattativa) in cella nel 2016-2017, sostanzialmente diceva al suo compagno di detenzione che "Berlusca" gli aveva chiesto una cortesia nel 1992 e che però si era dimenticato degli ex amici, una volta eletto. E Graviano, che sta in cella dal gennaio 1994 all' isolamento, lo considerava un traditore e intendeva inviargli un messaggio, tramite un intermediario non identificato, fuori dal carcere per mettergli pressione. Dopo la trasmissione da Palermo a Firenze di quelle trascrizioni delle parole di Graviano, il procuratore aggiunto Luca Turco e il Procuratore Giuseppe Creazzo hanno iscritto Silvio Berlusconi. Ora si scopre che sono ben 23 i capi di accusa. Il fascicolo è il numero 13.041 del 2017. La Dia in questi due anni ha fatto molti accertamenti. A breve Turco e Creazzo dovranno presentare o un' ulteriore richiesta di proroga ovvero una nuova richiesta di archiviazione come in passato è stato fatto altre due volte. In sostanza che Berlusconi sia accusato di essere parte del piano stragista della mafia nel periodo 1993-94 è noto. Ora che le carte con il timbro della Procura di Firenze sono state depositate però tutti i media non hanno potuto ignorare la notizia. Anche perché le accuse sulla tabella di due pagine intestata "Indagato Silvio Berlusconi" fanno impressione: l' ex premier è indagato per l' attentato (realizzato da mafiosi già condannati) contro i suoi collaboratori Maurizio Costanzo e Maria De Filippi il 14 maggio 1993 e addirittura per l' attentato fallito dell' aprile 1994 contro un ex boss pentito, Totuccio Contorno. L' elenco dei reati è stato depositato al processo di secondo grado per la Trattativa Stato-mafia. L' avvocato di Dell' Utri voleva ascoltare Berlusconi come testimone puro, per fargli dire che la minaccia della mafia nel 1994 non gli era mai stata trasmessa da Dell' Utri. Le stragi, nell' ipotesi dell' accusa di Palermo, sono il presupposto della minaccia a corpo dello Stato per la quale Marcello Dell' Utri è stato condannato nel processo sulla Trattativa a 12 anni. Quindi Berlusconi potrebbe chiedere di avvalersi della facoltà di non rispondere. Nella prossima udienza, il 3 ottobre, nel contraddittorio delle parti si capirà in quale veste vada sentito. La moglie di Marcello Dell' Utri, Miranda Ratti, ha visto nella manovra dei legali dell' ex premier una sorta di defezione ed è molto adirata con l' ex capo del marito. La difesa di Dell' Utri cercherà di sostenere che i reati non sono connessi ma è impresa ardua. "A prescindere dalle modalità dell' esame del presidente Berlusconi - spiega l' avvocato Francesco Centonze - confidiamo di dimostrare l' innocenza di Dell' Utri sulla base di altri elementi inconfutabili". A leggere l' elenco dei reati si resta impressionati. A Berlusconi sono contestati 26 reati per sei episodi. Il primo è l' attentato in via Fauro a Roma nella sera del 14 maggio 1993 quando una Fiat Uno riempita di tritolo, t4 e pentrite, salta in aria poco dopo il passaggio dell' auto che portava a casa Maurizio Costanzo e Maria De Filippi. L' ipotesi di un ruolo di Berlusconi è sempre stata respinta da Costanzo. Nel 2009 a Fabrizio d' Esposito che lo intervistò per Il Riformista ("Il mandante? Non fu il Cav.", 27 novembre 2009) disse: "Non ci credo". Poi c' è la strage di via dei Georgofili a Firenze nella notte tra il 27 e il 28 maggio 1993 quando il Fiat Fiorino imbottito di esplosivo fece crollare la Torre dei Pulci, alle spalle degli Uffizi, causando la morte dell' intera famiglia Nencioni, comprese le figlie Nadia di 9 anni e Caterina, 50 giorni, e lo studente Dario Capolicchio. Appena due mesi dopo, il 27 luglio 1993, ci furono gli attentati simultanei a Roma ai danni delle basiliche di San Giorgio al Velabro (vicino alla Bocca della Verità) e di San Giovanni. A Milano, quasi contemporaneamente, quella notte saltava in aria un' automobile imbottita di esplosivo davanti al Padiglione di Arte Contemporanea in via Palestro. Morivano quattro vigili del fuoco e un marocchino che si trovava lì per caso. Dopo questa ultima strage, ci sono stati altri due attentati falliti, entrambi contestati ora anche a Berlusconi. Il 23 gennaio 1994 un' autobomba imbottita di esplosivo doveva far saltare in aria durante la partita Roma-Udinese, un centinaio di carabinieri che facevano il servizio d' ordine. Fortunatamente il telecomando non funzionò. L' ultimo attentato è quello fallito contro Totuccio Contorno. Il collaboratore di giustizia fu individuato a Formello vicino a Roma nonostante fosse inserito nel programma di protezione. Il pentito catanese Francesco Squillace ha dichiarato recentemente al processo Trattativa: "I Graviano dissero a mio padre che fu Dell' Utri, attraverso i servizi segreti deviati, a fargli sapere dove si trovava". Un' accusa de relato tutta da riscontrare, come le parole di Graviano, come quelle di altri pentiti.
Silvio Berlusconi e l'attentato a Costanzo, pure i giudici sono in imbarazzo. Renato Farina su Libero Quotidiano il 28 Settembre 2019. E così, secondo carte affastellate presso la Procura di Firenze, Silvio Berlusconi è accusato di essere il mandante della mancata strage che avrebbe dovuto stroncare la vita di Maurizio Costanzo e Maria De Filippi. Era il 14 maggio 1993, alle 21.35 circa, un' autobomba esplose in via Fauro, causò ingenti danni, ferì ventitré persone, ma l' obiettivo fu mancato. È merito degli avvocati Franco Coppi e Niccolò Ghedini aver costretto la poderosa macchina della Giustizia italiana a sputare questo verme che ha in pancia da circa venticinque anni, infine rivitalizzato da rivelazioni alquanto finte registrate durante l' ora d' aria di un mafioso al 41 bis. La Procura ha spiegato che tutto questo è «un atto dovuto». Come dire: non è una cosa seria, ma intanto questa roba sta lì, è un macigno appeso per aria pronto a cascare in testa non solo al Cavaliere di Arcore, ma alla storia d' Italia, per trasformare il voto dato dagli italiani circa 220 milioni di volte in un consenso alla mafia stragista. Tutto questo è grottesco. Non si trovano parole. Sia chiaro. La volontà berlusconiana di assassinare le sue due galline dalle uova d' oro è soltanto la novità rispetto alla gragnola di reati che gli sono stati appioppati in ipotesi e sono ancora lì sospesi come il ghiacciaio che ci si aspetta di ora in ora precipiti dal Monte Bianco. Anzi, per proporzioni e conseguenze, più somigliante alla faglia di San Andreas in California con la sua minaccia di sisma apocalittico. Pentiti - Berlusconi avrebbe, secondo i sospetti che hanno avuto la forza sufficiente per incidere il nome di un presidente del Consiglio in un fascicolo per numerose stragi e impediscono tuttora di escluderne responsabilità, concordato con Cosa Nostra gli attentati di Milano (via Palestro), Firenze (Georgofili, qui è perita anche una neonata) e Roma (Velabro) del 1993, al fallito attentato all' Olimpico del '94. Questo si sapeva, era stato scritto. Ma da ieri sappiamo anche che avrebbe studiato "la pianificazione" dell' autobomba contro Costanzo e del fallito agguato al pentito Salvatore Contorno del 14 aprile 1994 a Formello. Colpisce soprattutto per l' assoluta incongruenza il caso Costanzo. Facciamo fatica a mantenerci composti, ma Giovanni Falcone predicava di "seguire il denaro" per capire l' origine dei delitti. In questo caso Berlusconi avrebbe concordato di farsi un danno da solo? Ci ripugna dover introdurre un simile discorso, quando il rapporto tra i due non era soltanto una questione di affari ma affondava in un' idea comune di televisione.
Monnezza - Lasciamo perdere. Anzi no. Occorre capire come sia possibile che una simile monnezza accusatoria sia viva e vegeta nel ventre della Repubblica seminando infezioni, e rendendo ridicola presso le persone di buon senso la reputazione dei Tribunali. Coppi e Ghedini hanno voluto che il serpente a sonagli uscisse dalla cesta della magistratura prima che fosse usato per mordere il loro cliente oggi eurodeputato quasi 83enne. Ci spieghiamo. A Palermo è in corso il processo d' appello sulla trattativa Stato-Mafia in cui è coinvolto Marcello Dell' Utri, condannato in primo grado con fior di mafiosi come Leoluca Bagarella e Antonino Cinà, e fior di galantuomini come i generali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni. Un processo incredibile, con una sentenza cervellotica, smentita dall' assoluzione dell' ex ministro Calogero Mannino per fatti e accuse identiche ma in un processo diverso. La difesa di Dell' Utri ha chiamato a deporre Berlusconi, perché sbugiardasse le accuse contro l' amico di una vita. Gli avvocati hanno valutato che accettare l' interrogatorio, oltre a non aiutare per nulla Dell' Utri, avrebbe esposto Berlusconi a un' autobomba sia pur metaforica ma spaventosa, vista la dichiarazione del primo promotore di questo processo, il pm Nino De Matteo, ora alla direzione nazionale antimafia. Come riportato in un titolo del Fatto quotidiano sentenziò alla notizia della condanna di primo grado: «Dell' Utri cinghia di trasmissione tra Berlusconi e Cosa nostra». Come indagato in reato connesso ha la facoltà di non presentarsi. Ci piacerebbe molto che Berlusconi in Corte d' Assise d' Appello a Palermo potesse esprimersi come sa, quando liquidò nel 2013 Travaglio spolverando la sedia dove prima aveva posato le terga il suo avversario storico, scuotendoselo via quasi fosse un botolo attaccato ai suoi calzoni. E capiamo Dell' Utri che desidera una prova d' amicizia. Ma entrare in quel tribunale, con le premesse enunciate sopra, è come tuffarsi nel fiume Congo coi coccodrilli. Palese idiozia - Certo Silvio ha un' arma: sventolare come una prova a discarico la palese idiozia del suo coinvolgimento nell' attentato a Costanzo e De Filippi. In un Paese dotato di logica e senso del ridicolo, sarebbe una lesione definitiva per la credibilità della pubblica accusa. Ma l' Italia è l' Italia e la Sicilia di più. Alt. Ho rintracciato il movente che potrebbero tirar fuori per la decisione di sopprimere in un colpo solo Maurizio Costanzo e il suo Show. Lo ha enunciato il 14 marzo del 2001 il già citato Marco Travaglio nella celebre intervista a Daniele Luttazzi su Rai 2. Spiegò il nesso «a livello cronologico» tra le stragi del '93 e l' autobomba di Via Fauro. «Maurizio Costanzo era uno, all' interno della Fininvest, ferocemente contrario alla nascita del partito della Fininvest, cioè alla scesa in campo della Fininvest in politica. Insomma, è un bel quadretto». Praticamente. Come Confalonieri, come Letta, come Mentana era contrario all' ingresso in politica. Ma Costanzo di più: lo era ferocemente. Allungando il collo e digrignando le gengive? E per questo Silvio ha chiesto alla mafia di ammazzarlo? Fantastico. Ci sono voluti diciotto anni e mezzo per scoprire che questo «livello cronologico» avesse molto colpito le procure. Che pena. Che Paese. Renato Farina
Alessandro Sallusti in difesa di Silvio Berlusconi: "Basta alla libertà di devastare vite". Libero Quotidiano il 27 Settembre 2019. "Ci risiamo, ogni tanto il mostro si immerge nelle sue putride acque e quando si spera sia scomparso per sempre eccolo riaffiorare, più violento e famelico di prima. La sua preda preferita da ormai trent'anni è sempre la stessa, Silvio Berlusconi". Alessandro Sallusti, come tanti italiani, condanna quella magistratura che spesso e volentieri (senza ragioni) torna a puntare il dito contro il Cavaliere. "Smascherato l'inganno che fosse un 'evasore seriale' per via di una (ingiusta) condanna, respinta al mittente l'infamante accusa di aver messo su un giro di prostituzione minorile (caso Ruby), ridicolizzato il sospetto con le scuse di fatto della procura di Milano che ci fosse la sua mano dietro la misteriosa morte (poi accertata per cause naturali) di Imane Fadil, una delle testimoni del processo Ruby, dopo tutta questa macelleria giudiziaria-mediatica ecco rispuntare la mafia". Ora, infatti, spunta l'ipotesi che potrebbe essere lui il mandante del fallito attentato al tritolo del '93 contro il suo amico (e dipendente) Maurizio Costanzo."Se per 'autonomia della giustizia' si intende la libertà di devastare vite e storie personali e pubbliche allora è davvero arrivato il momento di dire basta, non sui giornali ma in Parlamento".
(ANSA il 27 settembre 2019) - "Ho visto che Berlusconi è indagato perchè secondo qualcuno avrebbe tentato di uccidere Maurizio Costanzo...Ma basta...giudici che usano risorse pubbliche per indagini senza logica...Siamo seri, ma indaghiamo su stupratori, 'ndranghetisti e camorristi". Così il leader della Lega, Matteo Salvini, in diretta Facebook.
(ANSA il 27 settembre 2019) - "Il presidente Berlusconi che ordisce attentati a Maurizio Costanzo. Eccezionale. La magistratura ormai fa più ridere del miglior cabaret. A quando un'indagine su Silvio Berlusconi per l'omicidio di Giulio Cesare, o per la strage delle Torri Gemelle?". Lo Afferma Andrea Ruggieri di Fi riferendosi alla iscrizione di Silvio Berlusconi nel registro indagati della Procura di Firenze per la trattativa Stato-Mafia. "E pensare che paghiamo una valanga di tasse per alimentare la mitomania di qualche magistrato, che con la sua tragicomicità macchia l'onorabilità di un ordine che tutti vorremmo poter rispettare", conclude.
Renzi difende Berlusconi indagato per mafia: «Sono attonito per qualche magistrato». Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 su Corriere.it. da Paola Di Caro. Renzi in difesa di Berlusconi indagato «Attonito per qualche magistrato». L’affondo contro la Procura di Firenze (che indagò sui genitori): mafia? non c’è la prova. La solidarietà degli alleati, anche se del previsto vertice del centrodestra non ci sono tracce, era abbastanza scontata. Lo è molto meno quella arrivata ieri a Silvio Berlusconi da Matteo Renzi, dopo la notizia che conferma come dal 2017 la Procura di Firenze stia indagando su di lui per 23 reati, dalle stragi mafiose di Roma, Firenze e Milano all’attentato fallito a Maurizio Costanzo. «Vedere che qualche magistrato della Procura della mia città da anni indaghi sull’ipotesi che Berlusconi sia responsabile perfino delle stragi mafiose o dell’attentato a Costanzo mi lascia attonito», dice il leader di Italia viva. Le critiche alla Procura — quella che peraltro ha indagato i suoi genitori — e la difesa del Cavaliere mettono Renzi al centro di sospetti: è un tentativo di dialogo con FI, di conquista dei suoi parlamentari, o degli elettori delusi dagli azzurri? Aleggia ancora lo spirito del Nazareno, visto che anche Berlusconi ha fatto gli «auguri» all’avversario per il nuovo partito? «A differenza di quanto scrivono — rivendica invece Renzi — non ho mai governato con Berlusconi e mai FI ha votato la fiducia al mio governo (a tutti gli altri sì, a me no): dunque posso parlare libero, da avversario politico». E quindi «Berlusconi va criticato e contestato» ma «sostenere 25 anni dopo, senza uno straccio di prova» accuse così gravi significa «fare un pessimo servizio alla credibilità delle istituzioni italiane. Di tutte le istituzioni». E sulla riforma della giustizia (ieri un vertice di maggioranza tra i ministri Bonafede e Orlando), Renzi torna a farsi sentire: «Non ci ha chiamato nessuno, vedo che si sono messi d’accordo loro. Quando verranno in Aula daremo i nostri suggerimenti». L’uscita sicuramente fa piacere a Berlusconi, che oggi parlerà a Milano a un evento di FI, come quelle dei suoi alleati. Matteo Salvini sbotta: «Indagini sul Cavaliere? Ma basta, siamo seri, indaghiamo su spacciatori, stupratori, mafiosi e camorristi...». E Giorgia Meloni: «Se davvero le cose stanno così, l’inchiesta avrebbe del grottesco e rischierebbe di ridicolizzare il delicato e fondamentale ruolo della magistratura». Solidarietà anche da Giovanni Toti: «Ancora un’indagine su Silvio Berlusconi!! E basta dai...! L’Italia ha bisogno di una giustizia credibile. Questa inchiesta non aiuta».
Trattativa Stato- mafia: «Decidetevi, il Cav fu vittima o complice?» Errico Novi il 4 Marzo 2018 su Il Dubbio. Il difensore del generale Mori “inchioda” i pm: ” Come è possibile che l’ex premier sia rimasto amico di Dell’Utri anche dopo le minacce dei boss?” In genere i processi con più imputati parcellizzano le strategie di difesa. Difficile che una in particolare delle arringhe riassuma il senso dell’intero contraddittorio. Lo “Stato- mafia” fa eccezione anche in questo. All’udienza di ieri, l’avvocato Basilio Milio, difensore dei generali Mario Mori e Antonio Subranni, ha posto la domanda chiave: «Cara Procura, vuoi chiarirci se in questa vicenda la posizione di Silvio Berlusconi è quella della vittima di Cosa nostra o se invece fu autore di minacce mafiose?». Quesito non banale, anzi rivelatore. Evoca una delle più serie contraddizioni dell’accusa: il rapporto dell’ex premier con Marcello Dell’Utri, il solo dei due a figurare tra gli imputati del processone palermitano. «Se davvero Dell’Utri presenta a Berlusconi le minacce di Cosa nostra», chiede Milio alla Corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto, «come può avvenire che lo stesso Berlusconi conservi l’amicizia con Dell’Utri e poi addirittura se ne serva come tramite per stabilire un accordo con la mafia? ». Giusto, come può? E mica il dottor Nino Di Matteo, o gli atri pm impegnati nelle fluviali requisitorie, come Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia, hanno chiarito questa bizzarria? E non è certo il solo paradosso. Ce ne sono altri, sostanziali ma anche formali. E su questi ultimi si concentra ancora Milio, in particolare quando cita «la sentenza di assoluzione già emessa sul caso Mori-Obinu: il mio assistito», dice l’avvocato a proposito del generale, «non può essere giudicato due volte per fatti che sono sempre gli stessi». Non solo. Perché i “fatti” non sarebbero stati neppure specificamente indicati dalla Procura, secondo il legale: «È la pubblica accusa che deve dirci in quale circostanza Mori, Subranni o altri avrebbero portato la minaccia di Cosa nostra al presidente del Consiglio» . Perché, dettaglio tutt’altro che irrilevante, la specifica imputazione per il generale è di «minaccia a corpo politico dello Stato». Nello specifico, il “corpo” è lo Stato inteso nella sua funzione di governo. Affinché dunque possa riconoscersi il reato, è la tesi di Milio, dovrebbe essere indicato lo specifico passaggio in cui Mori trasferì la minaccia dei boss al vertice di Palazzo Chigi. «È la Procura che deve dircelo». E appunto, non lo fa. Ma certo è affascinante, più di tutte, la questione Berlusconi. È la cartina di tornasole dell’intero processo: quel nome vorrebbe essere suggestione di una sostenibilità delle accuse, ma nell’arringa di ieri si rovescia in suggestione che smonta l’impianto: «Da un lato», osserva il legale di Mori e Subranni, la Procura dice che Berlusconi è una vittima, per altro verso ha fatto sentire le intercettazioni di Graviano per dimostrare che Berlusconi era quello che aveva siglato i patti con la mafia. E quali erano i patti? Quelli che, secondo i pm, avrebbero permesso a Berlusconi di andare al governo. Vedete che c’è una contraddizione tra il Berlusconi vittima e il Berlusconi autore della minaccia?». Interessante che una parte così ampia della difesa di Mori e Subranni chiami in causa altri aspetti sostanziali del procedimento: è qui appunto che le parole di Milio si rivelano come arringa contrapponibile non solo alle accuse specificamente rivolte ai due generali, ma alla sostanza ultima dell’intera tesi accusatoria. C’è spazio anche per la liquidazione del teste principale, Massimo Ciancimino ( «il suo racconto sulla trattativa è fantascientifico» ) e per un’analogia tra la contraddizione su Berlusconi e quella relativa alla posizione di Calogero Mannino: «È strana anche la sua doppia figura: autore del reato e vittima del reato». Non manca un passaggio su Bruno Contrada ( fuori da questo processo) di cui Milio dice: «Non era un delinquente ma uno 007, non un boss mafioso come si tenta di farlo passare: e aggiungo che i servizi segreti non sono un covo di banditi e criminali ma servitori dello Stato». Fino alla evocazione di un vero e proprio metodo Ingroia, «iniziare un processo con un capo di imputazione e in corso d’opera puntare su un altro cavallo, con vagonate di atti a supporto delle nuove ipotetiche accuse. Tutto questo», lamentas l’avvocato Milio, «avviene in violazione della legge e determina l’inversione della prova». E d’altra parte, in quattro anni – da tanto dura questo procedimento ancora in primo grado – capita che le cose, un po’, cambino.
Berlusconi indagato per la trattativa Stato-Mafia. Così parlò Piero Vigna. Ecco cosa diceva il magistrato che per primo si occupò delle indagini anche sulle stragi del'93: "Berlusconi non ha nulla a che fare con tutto questo". Giorgio Sturlese Tosi il 26 settembre 2019 su Panorama. Venticinque anni dopo la procura di Firenze torna a indagare Silvio Berlusconi per la presunta trattativa Stato-Mafia e le stragi mafiose del 1993. La notizia è rimbalzata come se fosse una novità, ma in realtà il procedimento risale a due anni fa ed era già noto. Nel 2017 l’iscrizione nel registro degli indagati era stata disposta in seguito alla trasmissione, da Palermo a Firenze, delle intercettazioni in carcere del boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano. Si trattò di un “atto dovuto” per effettuare le verifiche del caso. Gli accertamenti, evidentemente non si sono ancora conclusi. I legali di Silvio Berlusconi, Franco Coppi e Nicolò Ghedini, si dicono “certi che come già nelle precedenti occasioni tale ipotesi non potrà che risolversi in un’archiviazione. Così è stato a Palermo, a Caltanissetta e nel passato anche proprio a Firenze”. Proprio la procura di Firenze, infatti, indagò per la prima volta Berlusconi nell’ambito dell’inchiesta sulle stragi mafiose. Erano i primi anni ’90. Ad aprire - e a chiudere - il fascicolo fu il magistrato Piero Luigi Vigna, che indagò e fece condannare mandanti e autori degli attentati mafiosi di Firenze, Milano e Roma. Le sue inchieste fruttarono alcuni ergastoli a Totò Riina e ai capi di Cosa Nostra. Vigna, scomparso nel 2012 e già procuratore nazionale antimafia, fu dunque il primo a raccogliere le dichiarazioni dei presunti collaboratori di giustizia e a voler approfondire la posizione del leader di Forza Italia. Arrivando a chiederne l’archiviazione. Nel libro In difesa della giustizia (Rizzoli, 2011), frutto di un’intervista durata mesi, Vigna si sofferma a lungo su quella indagine ed elenca i motivi per i quali ritenne senza ombra di dubbio che Berlusconi, con le stragi mafiose e la presunta trattativa, non c’entrasse affatto.
Ecco come Vigna ha ricordato quella prima indagine e le sue conclusioni. “Alcuni collaboratori di giustizia avevano reso delle dichiarazioni, piuttosto generiche per la verità, dalle quali emergeva il loro nome come presunti referenti politici della mafia. Con Gabriele Chelazzi (magistrato antimafia scomparso nel 2003, ndr.) quindi iscrivemmo Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri nel registro degli indagati con i nomi Autore Uno e Autore Due, così da mantenere una assoluta riservatezza sull’indagine. In seguito, però, ne chiedemmo noi stessi l’archiviazione, perché non si arrivò a una concretezza di elementi che potesse giustificare una richiesta di rinvio a giudizio e di quella iscrizione si seppe soltanto quando, anni dopo, un’analoga richiesta di archiviazione, formulata dalla procura di Caltanissetta, vi fece riferimento. Del resto, in questi anni, mi sono fatto l’idea che Berlusconi, con le stragi, non c’entri proprio nulla. Pur non condividendo vari provvedimenti adottati durante il governo Berlusconi, devo però riconoscere che l’esecutivo ha promosso numerosi e importanti azioni a contrasto della mafia. A cominciare dalla legge che ha reso definitivo il trattamento di carcere duro, il cosiddetto 41 bis, che è stato non solo mantenuto ma addirittura aggravato, entrando stabilmente nell’ordinamento con una legge e non più con decreti di volta in volta prorogati, fino alla legge sui collaboratori di giustizia, che nel 2001 è stata resa più stringente, prevedendo che gli aspiranti collaboratori debbano anche indicare i propri beni e quelli del clan perché vengano sequestrati. Come pure è innegabile che molti importanti latitanti siano stati arrestati. E a chi dice che il merito va riconosciuto ai magistrati e alle forze dell’ordine, ricordo che è altrettanto vero che un ministro dell’Interno può, se vuole, dettare obiettivi diversi e in un certo senso anche incanalare le indagini dei corpi di polizia. Ma questi obiettivi diversi, distraenti rispetto alla lotta alla mafia, non ci sono stati. Chi sospetta che Forza Italia abbia sottoscritto un accordo con i Corleonesi, deve anche leggere con obiettività le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza. Che ha raccontato che il 24 marzo 1994, in un bar di via Veneto, a Roma, Giuseppe Graviano, capomandamento di Brancaccio, gli disse: “Abbiamo l’Italia in mano”. Tre giorni dopo i due fratelli Graviano furono arrestati a Milano, al ristorante Gigi il cacciatore, dopo una complessa indagine e giorni di pedinamento e collaborazione tra i militari di Palermo e i colleghi milanesi. Insomma, bisogna essere oggettivi. Non si può negare che ci sia stata una vera e propria aggressione a Cosa Nostra. E non va neppure trascurata l’ipotesi che, da alcuni capi mafiosi, possa esserci stata una sorta di millanteria. Nulla di più facile che i mandanti abbiano raccontato di essere solo gli esecutori di un progetto superiore per avere in cambio una contropartita, ma che queste coperture in realtà non ci fossero affatto. (…). Di tutte le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia in cui viene riferito l’appoggio del nuovo partito di Forza Italia o di alcuni dei suoi esponenti, mai viene circostanziato un episodio, un incontro, un accordo con questi presunti referenti. (…). Ma se anche volessimo ritenere che Berlusconi abbia promesso protezione ai mafiosi in cambio di qualcosa, è evidente che lo stesso Berlusconi non ha rispettato gli accordi. Chi tradisce la mafia però la paga cara. Quanto meno sarebbero state attivate una serie di misure per colpire lui e il suo partito, magari anche con dichiarazioni da parte dei collaboratori di giustizia. A oggi, di tutte le indicazioni fornite, non ce n’è stata una che possa essere definita provata ed incontrovertibile. Ad oggi queste teorie complottiste non sono ancora state provate. Come del resto è accaduto per molte altre inchieste su mandanti, cospirazioni, “grandi vecchi” e trame internazionali. In Italia si suppone sempre che ci sia un secondo livello dietro ai più gravi delitti. Credo che dipenda dal fatto che, per il comune sentire, la gravità di certi fatti è ritenuta incompatibile con la personalità dei soggetti che li hanno compiuti. L’opinione pubblica fa fatica a credere che le stragi di mafia del ’93 siano opera di uomini dall’aspetto rozzo e ignorante come Riina, Provenzano e Brusca. Sembra più plausibile che questi siano stati gli esecutori pilotati da menti superiori. Questo principio, a cui Giovanni Falcone non credeva, e cioè la ricerca di un secondo livello, ha indotto alcuni magistrati, me compreso, a ricercare un’entità superiore che abbia pianificato le stragi per il proprio tornaconto. (…). Ma per provare in un’aula di giustizia un ipotetico secondo livello bisogna dimostrare che questi mandanti abbiano istigato a commettere un reato o che almeno abbiano promesso aiuto o protezione dopo che questo sia stato commesso. Se non lo si riesce a dimostrare, i mandanti, per la giustizia, semplicemente non esistono”.
Attentato a Costanzo. Lo ordinò Riina ma è indagato il Cav. Damiano Aliprandi il 27 Settembre 2019 su Il Dubbio. Il boss lo decise già dal ’ 91. La notizia di reato nei documenti della procura di Firenze, rilasciati ai legali di Berlusconi, che però potrebbe essere sentito nel processo trattativa come teste puro. Tra i vari i reati delle stragi mafiose del 1993 Silvio Berlusconi risulta indagato anche per il fallito attentato a Maurizio Costanzo. Lo si evince dalla documentazione rilasciata dai pm fiorentini ai legali dell’ex premier depositata alla Corte d’Assise d’appello di Palermo nel processo sulla trattativa Stato- mafia. Era stata chiesta dai legali di Berlusconi in vista della deposizione che l’ex premier avrebbe dovuto rendere al processo. I difensori hanno presentato istanza per sapere se il loro assistito è indagato in procedimenti connessi a quello in corso a Palermo e capire così se debba essere sentito come indagato di procedimento connesso ( stato che gli dà la possibilità di avvalersi della facoltà di non rispondere), o come teste puro. Ipotesi, quest’ultima che potrebbe essere presa in considerazione dal giudice Angelo Pellino Ricordiamo che la testimonianza di Berlusconi era stata richiesta, e accolta dai giudici della corte d’Assise d’appello come prova decisiva, dai legali di Marcello Dell’Utri. Prova decisiva perché secondo la tesi sulla presunta trattativa Stato- mafia, Berlusconi, in veste da presidente del Consiglio, sarebbe stato minacciato proprio dal suo ex delfino e amico Dell’Utri per far ottenere i benefici richiesti dalla mafia corleonese. Ora sappiamo che secondo i magistrati di Firenze, Berlusconi avrebbe perfino commissionato in concorso con Cosa Nostra l’attentato al giornalista, ma anche grande suo amico. Ora però nasce il problema come incastrare le accuse con la verità giudiziaria emersa nelle sentenze passate. Infatti, come si evince dalle ricostruzioni processuali, Riina già tra settembre e ottobre del 1991 aveva dato ordine, allo stesso gruppo che avrebbe poi organizzato le stragi del ‘ 93 e del ‘ 94, uccidere a Roma Giovanni Falcone, ma anche il ministro Claudio Martelli e Maurizio Costanzo, inviso per la propaganda antimafia che faceva nella sua popolare trasmissione tv sui canali Fininvest.. Un ordine, esclusivamente mafioso. In particolare, secondo il lucido resoconto del collaboratore Vincenzo Sinacori ( ben riportato nella sentenza della Corte di Firenze del 6 giugno 1998) Riina in quel periodo, durante una o più riunioni nella casa vicino Castelvetrano, aveva comunicato allo stesso Sinacori, a Matteo Messina Denaro, a Giuseppe e Filippo Graviano e a Mariano Agate che andavano eliminati Falcone e il ministro Martelli, i suoi principali obiettivi di quel momento, ma se possibile e subordinatamente anche il giornalista Maurizio Costanzo. Riina aveva disposto si usassero armi tradizionali e che solo in caso di necessità l’esplosivo a distanza, ma doveva essere preventivamente avvertito. II gruppo recatosi a Roma nel febbraio del ‘ 92, vi era rimasto per 8- 10 giorni. Impegnato nella ricerca di Falcone e Martelli. Non essendo riusciti a trovarli, la loro attenzione si rivolse a Costanzo e credendolo accompagnato da una guardia del corpo, optarono per la dinamite. Sinacori raggiunse Riina a Palermo per avere l’assenso, ma il boss gli ordinò di sospendere tutto, perché ” avevano trovato cose più importanti giù” alludendo al fatto che l’attentato a Falcone andava eseguito in Sicilia. Come sappiamo, furono di parola. Nel maggio successivo riprovarono a uccidere Maurizio Costanzo. Per fortuna l’attentato fallì.
Mafia, Berlusconi indagato anche per i falliti attentati a Costanzo e Contorno. Pubblicato giovedì, 26 settembre 2019 da Corriere.it. Tra i reati contestati dalla Procura di Firenze all’ex Premier Silvio Berlusconi c’è anche il fallito attentato al giornalista Maurizio Costanzo, che il 14 maggio ‘93 sfuggi all’esplosione di un’autobomba a Roma. È quanto si evince dalla documentazione rilasciata dai pm del capoluogo toscano ai legali dell’ex presidente del consiglio, depositata alla Corte d’Assise d’appello di Palermo nel processo sulla trattativa Stato-mafia. La documentazione era stata chiesta dai legali dell’ex premier in vista della deposizione che Berlusconi avrebbe dovuto rendere al processo trattativa. I difensori hanno presentato istanza per sapere se il loro assistito è indagato in procedimenti connessi a quello in corso a Palermo e capire così se debba essere sentito come indagato di procedimento connesso, stato che gli dà la possibilità di avvalersi della facoltà di non rispondere, o come teste puro. Alla richiesta la Procura Toscana, che ha riaperto l’indagine sulla stagione stragista di Cosa nostra che comprende dagli attentati di Milano, Firenze e Roma del 1993, al fallito attentato all’Olimpico del ‘94, ha risposto con l’elenco dei reati ipotizzati nei confronti del fondatore di Forza Italia. Oltre alle stragi del Continente e al fallito attentato all’Olimpico, dunque, Berlusconi, che nella ricostruzione avrebbe agito in concorso con Cosa nostra, sarebbe coinvolto nell’intera pianificazione stragista: quindi anche nell’autobomba contro Costanzo e nel mancato omicidio del pentito Salvatore Contorno del 14 aprile 1994 a Formello.
Renzi: «Berlusconi mandante attentato Costanzo? Non c’è uno straccio di prova». Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 su Corriere.it da Franco Stefanoni. «Ho sempre detto che rispetto i magistrati, ma l’ipotesi della Procura della mia città mi lascia sbalordito. Io posso parlare da avversario politico». «Pessimo servizio alla credibilità delle istituzioni». «Ho sempre detto che rispetto i magistrati e aspetto le sentenze definitive, quella della Cassazione. Confermo questo giudizio. Ma vedere che qualche magistrato della procura della mia città da anni indaghi sull’ipotesi che Berlusconi sia responsabile persino delle stragi mafiose o dell’attentato a Maurizio Costanzo mi lascia attonito». Lo scrive Matteo Renzi su Facebook. «A differenza di quanto scrivono taluni giornali - prosegue - non ho mai governato con Berlusconi e mai Forza Italia ha votato la fiducia al mio governo (a tutti gli altri sì, a me no): dunque posso parlare libero, da avversario politico. Berlusconi va criticato e contrastato sul piano della politica. Ma sostenere 25 anni dopo, senza uno straccio di prova, che egli sia il mandante dell’attentato mafioso contro Maurizio Costanzo significa fare un pessimo servizio alla credibilità delle istituzioni italiane. Di tutte le istituzioni». La certificazione ufficiale secondo cui Silvio Berlusconi è indagato a Firenze, nell’ambito del procedimento per le stragi di mafia del ‘93 nel capoluogo toscano, a Roma e a Milano, è stata depositata mercoledì mattina nella cancelleria della seconda sezione della Corte d’assise d’appello di Palermo, che sta celebrando il giudizio di secondo grado sulla trattativa Stato-mafia. Nell’ambito di questo dibattimento l’ex premier è stato citato come teste dalla difesa del senatore Marcello Dell’Utri. I legali avevano però chiesto di conoscere la veste giuridica in cui si sarebbe dovuto presentare e hanno ottenuto da Firenze una conferma ufficiale delle indiscrezioni giornalistiche circolate nel 2017. L’inchiesta su Berlusconi e sullo stesso Dell’Utri fu riaperta (i due erano già stati indagati e archiviati) a seguito delle intercettazioni in carcere dei colloqui del boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, che tirava in ballo il leader di Forza Italia come complice e mandante occulto degli eccidi avvenuti fuori dall’isola.
Marco Travaglio indemoniato contro Renzi per la “difesa” di Silvio Berlusconi. Il Cavaliere Nero, sabato 28 settembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Marco Travaglio ha bisogno di tranquillanti, fa brutti sogni e poi si sfoga con i lettori del Fatto Quotidiano. Questa bestialità dell’indagine contro Berlusconi per l’attentato – anni 90 – a Maurizio Costanzo per lui è zucchero nel caffè. E odia letteralmente quanti si sono indignati per la “giustizia” a scoppio ritardato. Nel consueto editoriale sul giornale che dirige, Travaglio ha citato Costanzo una sola volta. Tanto per reggere la tesi di Berlusconi equivalente ai boss di Cosa Nostra. Nel mirino di Travaglio – ma non è una novità – c’è finito Matteo Renzi e questa sarà una costante nei rapporti con governo rossogiallo, così come lo era con Salvini in quello gialloverde. Si salvano sempre i santi grillini, si massacrano gli alleati. Anche Zingaretti è della specie avversa. Ma oggi il direttore del Fatto si è particolarmente scatenato. Per carità, anche a noi è venuto il dubbio che la solidarietà di Renzi al Cavaliere, sull’inchiesta venticinque anni dopo, sia stata un po’ pelosa e mossa dalla volontà di ingraziarsi un pezzo di elettorato azzurro. Ma tanto per capire il clima, Travaglio ci ha messo del suo, con una spiegazione mica tanto filosofica: “L’impunito – che sarebbe ovviamente Renzi – ha bruciato sul tempo gli altri leader del centrodestra, da Salvini alla Meloni, nel difendere in simultanea con Sallusti e Farina-Betulla il martire perseguitato dalle toghe fiorentine”. Un fritto misto dunque, semplicemente per lanciare frecce acuminate contro tutti i nemici, rei di difendere Berlusconi da accuse che appaiono ai più inverosimili. E poi, si chiede il direttore del Fatto, perché Renzi attacca le “toghe fiorentine”? E ovviamente ha pronta la risposta, abbastanza datata: sono “le stesse – ma è solo una coincidenza, ironizza – che han fatto arrestare il su babbo e la su mamma e indagano sugli strani finanziatori della Leopolda”. In questa storia, per Travaglio le persone per bene si chiamano Graviano e Spatuzza. Cosa Nostra, nuova Cattedrale della Verità.
Marco Lillo per ''il Fatto Quotidiano'' il 28 settembre 2019. La linea di Italia Viva sulla giustizia arriva con un post su Facebook a metà mattinata: "Vedere che qualche magistrato della Procura della mia città da anni indaghi sull' ipotesi che Berlusconi sia responsabile persino delle stragi mafiose o dell' attentato a Maurizio Costanzo mi lascia attonito () Berlusconi va criticato e contrastato sul piano della politica. Ma sostenere 25 anni dopo, senza uno straccio di prova, che egli sia il mandante dell' attentato mafioso contro Maurizio Costanzo significa fare un pessimo servizio alla credibilità delle Istituzioni italiane. Di tutte le Istituzioni". Firmato: non Maurizio Gasparri o Daniela Santanché ma Matteo Renzi, già premier e segretario del Pd, ora grande elettore del governo giallo-rosso. Matteo Salvini e Giorgia Meloni, risvegliati dalla tromba renziana, si ricordano di essere stati fedeli alleati del Cavaliere ai tempi d' oro. Per Salvini è ora di dire: "Basta a giudici che usano risorse pubbliche per indagini senza logica. Siamo seri: indaghiamo su stupratori, 'ndranghetisti e camorristi", possibilmente escludendo i condannati per mafia come Dell' Utri che sono stati nostri alleati, si potrebbe aggiungere. Ma il leader della Lega tralascia. Giorgia Meloni invece rispolvera il grande classico: "Accanimento giudiziario". In serata a Zapping Renzi rilancia mettendo sotto la sua ala anche l' ex deputato Pdl Alfonso Papa: "È possibile - si è chiesto l' ex premier - che ci siano imputati che restano per 16 anni imputati e poi vengono assolti? Faccio un nome: Angelucci. O Alfonso Papa con i titoloni sulla P4 e poi è stato assolto". Peccato che per alcuni reati Papa sia stato assolto grazie alla prescrizione. La manovra di Renzi è chiara. Lo sgonfiamento di Forza Italia ha lasciato orfani i fan del mantra delle toghe politicizzate. Lo "sdoganamento" sul fronte antimafia di Berlusconi (solo indagato) e anche di dell' Utri (indagato per strage nella stessa inchiesta a Firenze ma già condannato per mafia) è utile anche per convincere i transfughi berlusconiani a salire sulla scialuppa di Italia Viva rendendo meno imbarazzante l' imbarcata. La mossa però non ha solo una spiegazione politica. Renzi parla "pro domo sua". I magistrati contro i quali ha scatenato un attacco in stile Sgarbi, si chiamano Giuseppe Creazzo e Luca Turco, quelli che hanno osato chiedere e ottenere gli arresti domiciliari per i genitori di Renzi con l' accusa di bancarotta. Non bastasse, Turco, insieme a Christine von Borries, ha portato a processo babbo e mamma Renzi anche per la storia delle fatture per operazioni inesistenti. Il 7 ottobre chiederanno la condanna e magari Matteo sarà convinto della loro innocenza e certo dell' assoluzione. Però i maliziosi notano che ha spostato alla Cassazione il suo giudizio, come a dire che la condanna in primo grado lo lascia indifferente, soprattutto con quei magistrati. "Non è la prima inchiesta che viene dal procuratore Luca Turco e dal suo capo Creazzo: sono certo che non sarà l' ultima. Che lavorino tranquilli sui numerosi dossier che hanno aperto: noi rispettiamo i magistrati e aspettiamo le sentenze della Cassazione, come prevede la Costituzione. Tutto il resto è polemica sterile", ha detto Renzi al Messaggero dopo la notizia delle indagini fiorentine dei soliti Turco e Creazzo sull' avvocato Alberto Bianchi, già presidente della Fondazione renziana Open, e sull' amico nonché organizzatore della Leopolda: Patrizio Donnini. Non bastasse Luca Turco è l' aggiunto che ha seguito in prima persona anche l' inchiesta sul fratello del cognato di Renzi, Alessandro Conticini, per la distrazione dei fondi Unicef verso attività private, che marginalmente coinvolge anche il cognato di Renzi, Andrea Conticini. A dire il vero un tempo i rapporti di Matteo Renzi con Creazzo e Turco non erano così negativi. Erano gli anni in cui Renzi era premier e Turco e Creazzo archiviavano (senza nemmeno iscrivere un reato o il suo nome sul registro degli indagati) gli esposti che lo mettevano nel mirino. Andò così nell' ottobre 2015 con l' esposto che chiedeva lumi sui contributi pagati da Comune e Provincia di Firenze a Matteo, grazie alla sua assunzioni nell' azienda di famiglia pochi giorni prima della sua investitura formale come candidato del Pds e della Margherita alla presidenza della provincia nel 2003. Il Fatto aveva descritto la vicenda spiegando come Renzi era riuscito ad accumulare un Tfr (poi incassato) e un' invidiabile anzianità pensionistica. Paolo Bocedi, presidente dell' Associazione Sos Italia Libera aveva presentato un esposto, iscritto a modello 45 e quindi archiviato senza nemmeno iscrivere un nome. Stesso destino, archiviazione senza l' iscrizione di un indagato, aveva avuto sempre nel 2015 l' esposto presentato dal dipendente comunale Alessandro Maiorano, seguito dall' avvocato Carlo Taormina, sull' affitto della casa usata da Matteo e pagata dal suo amico imprenditore Marco Carrai. Allora Turco e Creazzo andavano bene ai renziani. Poi sono arrivate le indagini su cognati, amici e gli arresti domiciliari dei genitori. Il clima è cambiato. Dalle intercettazioni sul caso Csm trascritte dalla Guardia di finanza si scopre che l' allora compagno di partito e amico di Renzi, Luca Lotti, parlava con alcuni membri del Csm e con l' ex consigliere e leader della corrente di magistrati Unicost, Luca Palamara, proprio del pm Giuseppe Creazzo, candidato alla Procura di Roma. La strategia enunciata da un consigliere del Csm amico di Palamara, Luigi Spina, era fare in modo che Creazzo lasciasse Firenze senza però 'promuoverlo' alla Procura di Roma. "Noi te lo dobbiamo togliere dai coglioni il prima possibile", diceva Spina a Lotti. "Se lo mandi a Reggio (Calabria, ndr) liberi Firenze", diceva Palamara. E Lotti concordava: "Se quello di Reggio va a Torino, è evidente che questo posto è libero. E quando lui capisce che non c' è più posto per Roma, fa domanda". A quel punto il deputato allora del Pd Cosimo Ferri chiede a Palamara: "Ma secondo te poi Creazzo, una volta che perde Roma, ci vuole anda' a Reggio Calabria o no?". Palamara risponde: "Gli va messa paura con l' altra storia, no? Liberi Firenze, no?". L' altra storia forse è un esposto presentato da un pm di Firenze, estraneo a queste vicende, contro Creazzo. A distanza di quattro mesi quell' esposto non sembra aver fatto molta strada. Creazzo è ancora in pista per Roma. Bisogna alzare un fuoco di sbarramento con altre munizioni. E l' inchiesta per strage contro dell' Utri e Berlusconi, anche se risale al 2017, può tornare utile.
Da ''il Fatto Quotidiano'' il 29 settembre 2019. Maurizio Costanzo non crede a una qualsiasi relazione tra Silvio Berlusconi e l' attentato che lo coinvolse nel 1993. Ogni volta che riemerge dal passato (negli anniversari o per uno scatto delle indagini) l' autobomba del 14 maggio 1993 in via Fauro, il conduttore è chiamato a dire la sua sul tema. Lo abbiamo contattato dopo l' uscita giovedì delle carte della Procura di Firenze su Berlusconi indagato per le stragi e gli attentati del 1993. Comprensibilmente ha declinato l' invito. Però nel maggio 2018 lo avevamo già intervistato sul punto. Non c' erano le carte sulle iscrizioni di Berlusconi ma nell' ottobre 2017 la notizia (senza dettagli) dell' iscrizione per gli attentati del 1993 era già uscita. E allora ci sembra interessante riportare oggi il testo di quell' intervista video che entrerà in un documentario della trasmissione Sekret sulla piattaforma pay tv del Fatto, Loft, e che è finora inedita. La Fiat Uno imbottita di tritolo esplose in via Fauro a Roma alle 21 e 45 pochi secondi dopo il passaggio dell' auto che portava a casa il conduttore e Maria De Filippi. Fu la prima bomba della stagione delle stragi del 1993. Stragi di mafia, per le quali sono stati già condannati L' ipotesi, tutta da riscontrare, della Procura di Firenze è che dietro via Fauro e gli altri attentati del 1993 a Roma, Firenze e Milano, potrebbe esserci anche Silvio Berlusconi, l' amico ed editore del Maurizio Costanzo show. "Ma io non ci ho mai creduto", sospira Costanzo.
Lei sa che Graviano in carcere nel 2017 (secondo l' interpretazione dei pm e giudici di primo grado di Palermo) parla anche di Berlusconi, e fa capire d' aver avuto contatti. Ha mai pensato che abbiano colpito lei per lanciare un messaggio a Mediaset?
«No, non mi monto la testa, non l' ho mai pensato. Ho sempre creduto di aver dato fastidio con le mie trasmissioni di inizio anni 90 con Michele Santoro sulla mafia. Sono stato l' unico e mi dissero che Totò Riina un giorno disse: 'Questo Costanzo mi ha rotto i c'. Mai pensato che c' entrasse Berlusconi, anche se ne ho lette tante non lo credo. Lui quella sera mi telefonò a casa e mi disse: "Stai attento". Mi venne naturale rispondergli: "Attento a cosa? Ormai è successo". Io ho letto tutto quel che è uscito, ma no, non ci credo».
Lei ha vissuto la discesa in campo di B. dall' interno, come andò?
«Lui ci chiamò tutti ad Arcore, Ferrara, Mentana, io e ci disse che scendeva in campo. Io gli dissi a tu per tu che lo preferivo editore a politico: non ne avrei parlato male, ma non lo avrei mai votato».
Che rapporto aveva con chi invece la discesa in campo la voleva?
«Io non ero ben visto per questo. E sotterraneamente non so chi qualche piccola angheria me l' ha fatta. Se dovessi pensare Non penso niente».
Che rapporto aveva con Marcello Dell' Utri?
«Normale. Era il capo di Publitalia. Lo vedevo alle riunioni».
Parlaste della discesa in campo?
«No, con lui no. Mi ricordo Mentana, Gianni Letta, Confalonieri, Ferrara a quella riunione. E Fede, forse».
I contrari tu e Mentana?
«Io gliel' ho detto in faccia e se lo ricorda ancora. L' ho intervistato 6 mesi fa (nel novembre 2017, ndr) per Canale 5 e gli ho detto che ho mantenuto la promessa: 'Non ti ho votato e non ti voterò, ma non ti ho mai attaccato'. Gliel' ho ridetto».
Tu, vittima della mafia, hai avuto in azienda Dell' Utri che è stato condannato per mafia. Oggi credi alla storia della trattativa Stato-mafia?
«Non lo so. Mi sono posto spesso a questa domanda. Non riesco a crederci molto. Non so rispondere anche perché non ho gli strumenti. Avendo avuto un attentato non sono andato a guardare troppo insomma ho già dato.
È giusto che i pm continuino il lavoro su quella stagione?
«È lodevole. Se ci sono ancora tracce da seguire, le seguano».
"BERLUSCONI È STATO SEMMAI VITTIMA DELLA MAFIA". COMUNICATO DEL 25/9/2019. L’indicazione dell’iscrizione del presidente Berlusconi da parte della Procura di Firenze non costituisce certamente una novità. Il fatto era già ben noto così come altrettanto noto che si tratti di una iscrizione dovuta come con la consueta correttezza riconosciuto dalla stessa Procura Fiorentina. Siamo certi che come già nelle precedenti occasioni tale ipotesi non potrà che risolversi in un’archiviazione. Così è stato a Palermo, a Caltanissetta e nel passato anche proprio a Firenze. Gli elementi asseritamente nuovi che hanno comportato la riapertura delle indagini, unitamente al materiale già acquisito, non potranno che condurre alla già richiamata archiviazione. Del resto l’assurdità dell’ipotesi è conclamata non solo dalle risultanze processuali ma dalle numerose sentenze passate in giudicato sul punto che hanno confermato che il Presidente Berlusconi è stato semmai vittima della mafia. E tutti i provvedimenti assunti dai governi da lui presieduti vanno ulteriormente ad illustrare il suo costante impegno nel contrasto del fenomeno mafioso. Chiunque conosca Silvio Berlusconi e la sua storia non può che concordare con la totale assurdità e insussistenza di quanto in oggetto. Sicuramente dunque non si potrà che addivenire ad una rapida chiusura del procedimento. Prof. Avv. Franco Coppi, Avv. Niccolò Ghedini.
Comunicato stampa del 25 settembre 2019. In relazione alle comunicazioni inviate alla Corte di Assise d’Appello di Palermo concernenti l’audizione del Presidente Berlusconi e alla veste che dovrà assumere, si deve ricordare che tale attività è stata svolta nel doveroso adempimento degli obblighi defensionali su una problematica ben nota, ampiamente riportata dalla stampa fin dal novembre 2017, già evidenziata dal giudice di I grado e tempestivamente e correttamente posta dalla stessa Procura Generale presso la Corte di Appello di Palermo nel corso di udienza. Ovviamente ogni decisione sul punto non potrà che spettare alla stessa Corte di Assise di Appello di Palermo. Prof. Avv. Franco Coppi, Avv. Niccolò Ghedini.
SE MATTARELLA E LA MAFIA SCUOTONO VENEZIA. Francesco Gallo per l'ANSA il 7 settembre 2019. Sempre nel solito stile cinico-tv, con un iperrealismo esasperato che sprofonda nel grottesco, ormai un vero e proprio marchio di fabbrica, piomba al Lido in concorso per l'Italia LA MAFIA NON È PIÙ QUELLA DI UNA VOLTA di Franco Maresco con Letizia Battaglia. E nel film, che alterna fiction anche a parti di animazione, c'è un non troppo velato attacco al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per non non aver commentato più di tanto la sentenza del 20 aprile 2018 che mostra la connivenza tra Stato e Mafia. Dice con ironia nel film Ciccio Mira, uno sconclusionato manager di neomelodici che interpreta se stesso, "in fondo è un palermitano e un palermitano, come si sa, non parla". "Tra le cose che il Presidente della Repubblica non può fare vi è, ovviamente, quella di commentare i processi e le sentenze della Magistratura", precisa il consigliere per la stampa e la comunicazione del Presidente della Repubblica, interpellato in merito. Nel film ancora il grottesco sguardo di Franco Maresco sulla Sicilia e la Palermo di oggi, la mafia e l'antimafia, con in prima linea la fotografa palermitana Letizia Battaglia e il ritorno di alcuni personaggi del suo "Belluscone - Una storia siciliana", il tutto per commentare quanto resta del ricordo di Falcone e Borsellino a quasi trenta anni dalla loro morte. E proprio in questa occasione, come si vede nel film, il manager mette su un improbabile concerto neomelodico allo Zen 2 in onore di Falcone e Borsellino, ma tuttavia i suoi discorsi e quelli del suo storico manager, Matteo Mannino, continuano a tradire una certa nostalgia per la "mafia di una volta". O meglio, questo il tormentone di tutto il film, tutti gli intervistati del concerto, tra il pubblico, nelle piazze, nei mercati di Palermo sembrano impossibilitati a poter esprimere una frase semplice come: "no alla mafia" e tantomeno "viva Falcone e Borsellino". Il film racconta poi, con il solito cinismo e tono surreale, questa volta attraverso un cartone animato, di una presunta occasionale amicizia della famiglia di Ciccio Mira - settanta anni Palermitano ex operaio, un arresto e un procedimento penale per associazione mafiosa - con quella dei Mattarella. Presunta amicizia che nella fiction è attribuita a un incidente che avrebbe fatto urtare l'auto del padre di Mira contro il cancello di casa dell'attuale presidente della Repubblica italiana. Da quell'incidente il film fa scaturire addirittura la passione di Mattarella per il cinema che, sempre secondo il racconto del film, avrebbe goduto di ingressi gratuiti al cinema Massimo di Palermo dove lavorava il padre di Mira. "Gli piacevano i film di Ingmar Bergman" dice Ciccio Mira storpiando il nome del regista svedese. Infine un riferimento al presidente quando, sempre il manager dei neomelodici, ricordando un suo amico in carcere, un certo Tiramisù, spiega che Mattarella potrebbe fargli un favore (quello della grazia?). Chiusura del film nel segno dell'omertà, virtù siciliana di origine squisitamente greca. Viene spiegato che l'espediente di Ulisse per sconfiggere Polifemo nell'Odissea, ovvero farsi chiamare Nessuno, sarebbe, alla fine, la madre di tutte le omertà mafiose. Nessun commento del regista Franco Maresco che non va a presentare il suo film al festival, c'è però la fotografa e co-protagonista Letizia Battaglia. "Franco rifugge platea, non è mai a suo agio, sfoga i malesseri nel lavoro, dorme troppo poco" dice subito il produttore Rean Mazzone a giustificare l'assenza del regista palermitano. "Certamente Maresco è un po' snob, ma di fatto oggi ci ha buttato nella mischia e lui non è venuto. Comunque - aggiunge Letizia Battaglia - meno male che Maresco c'è con il suo scetticismo. Del film non sono d'accordo con certe cose, ma comunque amo la sua ferocia". Sui riferimenti del film a Mattarella dice la Battaglia: "Non c'è polemica nel film almeno che non ve l'inventiate voi e poi, quelle cose, sono solo quello che pensa Ciccio Mira. Mattarella è una persona per bene, ma la cosa evidente che in quell'occasione non disse nulla".
Trattativa Stato-mafia, tante inesattezze condizionano la verità. La ricostruzione della vicenda spesso non è fedele, come è avvenuto giovedì su Rai Due. Damiano Aliprandi il 15 giugno 2019 su Il Dubbio. È utile, per amore della verità, chiarire alcune ricostruzioni in merito alla vicenda della Trattativa Stato mafia, perché ci sono circostanze oggettivamente non vere ma che vengono diffuse in questi giorni, compresa l’occasione del dibattito di giovedì sera su Rai due, dopo il film di Sabina Guzzanti. Primo punto. Non è vero che Liliana Ferraro, l’ex vicedirettore degli affari penali del ministero della Giustizia, disse a Giuseppe De Donno, che lui doveva riferire a Paolo Borsellino della sua volontà di agganciarsi con Vito Ciancimino. La verità è che disse che ci avrebbe pensato lei, e così avvenne. Ma per capire meglio bisogna leggere gli atti. Nell’aprile del 2014, al processo per la strage di via D’Amelio, la Ferraro ha deposto, ripercorrendo la sua carriera e in particolare la sua esperienza al ministero accanto a Giovanni Falcone. Successivamente, sempre nel corso della testimonianza, si è soffermata sull’incontro avuto con il capitano Giuseppe De Donno al ministero e ha precisato che l’ufficiale del Ros, costernato per l’assassinio del giudice Falcone e desideroso di fare qualcosa per individuare e catturare i responsabili, le aveva parlato di Massimo Ciancimino e della possibilità, per suo tramite, di contattarne il padre, Vito, per convincerlo a collaborare. Quindi, la Ferraro, sempre in testimonianza e davanti allo stesso giudice, ha aggiunto che De Donno le disse di avere più o meno già “agganciato” Vito Ciancimino e di volerne informare il ministro della Giustizia, Claudio Martelli. Cosa rispose a De Donno la Ferraro? Rispose che sarebbe stato meglio che lui ne avesse riferito all’autorità giudiziaria, mentre lei avrebbe provveduto a dirlo a Paolo Borsellino. Per capire ancora meglio, bisogna sentire cose lei disse innanzi alla Commissione Antimafia del 16 febbraio del 2011. «Il capitano De Donno – ha raccontato la Ferraro – venne a trovarmi per dirmi quello che mi dicevano tutti gli ufficiali di Polizia e dei Carabinieri ( sia quelli che conoscevo, sia quelli che non mi conoscevano ma che avevano conosciuto il dottor Falcone), e cioè che erano pronti a fare la loro parte per catturare gli assassini di Falcone. Per questo motivo il capitano De Donno mi parlò della necessità di capire, di scoprire chi era stato. Mi ricordò la sua strettissima amicizia, ma anche l’affetto che lo univa a Giovanni Falcone. La prima volta, li avevo incontrati sull’aereo andando a Palermo e avevo visto che avevano un rapporto molto confidenziale». Poi l’allora capitano De Donno le disse anche che, andando a Palermo, aveva rivisto Massimo Ciancimino e gli era venuta l’idea di contattarlo, perché poteva darsi che il padre, essendo già stato colpito da una sentenza definitiva, fosse disponibile ad una collaborazione. Cos’altro le disse De Donno? «Sosteneva – ha spiegato sempre la Ferraro – che Vito Ciancimino aveva una statura politica così forte che forse, per appoggiare il loro tentativo di contattarlo attraverso Massimo Ciancimino, era opportuno che io avvertissi anche il ministro». Lei quindi rispose che l’avrebbe riferito all’allora ministro Martelli e ne avrebbe parlato con Borsellino. Così, infatti, avvenne. La Ferraro e Borsellino si sono incontrati il 28 giugno del 92 all’aeroporto di Fiumicino e, dopo avergliene parlato, Borsellino rispose con tranquillità e senza alcuna aria di sorpresa «ci penso io» o «me ne occupo io». I due poi proseguirono il discorso e parlarono del famoso dossier “mafia- appalti”, che era stato consegnato alla Procura di Palermo dal Ros e che già, come aveva spiegato la Ferraro, era «oggetto di particolare attenzione da parte di Falcone». Ha anche aggiunto sempre in testimonianza la stessa Ferraro: «Il rapporto venne consegnato anche a me, ma mi limitai solo a sfogliarlo, perché ricevetti una telefonata da Giovanni ( Falcone, ndr), il quale mi pregò di chiuderlo e mi invitò a scrivere due lettere, una per il Csm e l’altra alla Procura di Palermo. Poi mi disse: «Questi qui cosa vogliono ottenere?». Non era chiaro perché il dossier di un’indagine fosse stato spedito al ministero, ma ciò è avvenuto. L’altra vicenda che ogni tanto rispunta, come è accaduto al dibattito di ieri su Rai due, è la lettera considerata “sedicente” dei familiari dei detenuti reclusi a Pianosa e risalente al febbraio del 1993 e rivolta non solo all’attenzione dell’allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, ma a tutte le varie personalità politiche, compreso il Papa. No, non era sedicente e non conteneva nessun messaggio oscuro. Si denunciavano le condizioni di detenzione a Pianosa, dove non mancavano torture come denunciato ancora oggi da tanti ergastolani che vi finirono. Recentemente anche il falso pentito Vincenzo Scarantino ha raccontato del trattamento inumano che dovette subire. Il carcere di Pianosa, ricordiamo, era stato denunciato anche da Amnesty International. Pianosa è stata chiusa nel 1998 per motivi ovvi. Venne già chiusa durante la stagione del terrorismo perché parliamo di una struttura già fatiscente, dove i detenuti erano sottoposti a condizioni ritenute disumane da numerose organizzazioni umanitarie nazionali e internazionali. Il carcere di Pianosa (così come quello dell’Asinara) fu riaperto per emergenza dopo la strage di Capaci e vi furono trasferiti in massa i detenuti mafiosi, nel giro di una sola notte, come misura di immediata rappresaglia alla strage. Poi c’è la solita storia del 41 bis, dove, ancora una volta, si mette in cattiva luce l’azione dello scomparso ex ministro Giovanni Conso, fine giurista, prestato alla politica. Le revoche dei 41 bis ai circa 300 detenuti (in minima parte mafiosi, ma comunque di serie b) disposte dal ministro Conso nel ’ 93, furono conseguenza di una sentenza della Corte Costituzionale ( a numero 349 e depositata in cancelleria il 28 luglio del 1993), che impose l’elaborazione di valutazioni individuali a motivazione di ciascun provvedimento che applicasse il carcere duro, a differenza di quanto era avvenuto in precedenza e in passato per i terroristi. Conso – come già lui stesso disse durante il processo sulla strage di Firenze – non fece altro che attenersi all’indicazione dei giudici della Consulta.
· Bunga. Bunga. La morte di Imane Fadil e la condanna di Emilio Fede.
Morte di Imane Fadil: tutto quello che sappiamo finora. Le analisi, i sospetti, l'inchiesta: le tappe del giallo sulla morte della 34enne testimone chiave del processo Ruby, scrive Oriana Liso il 18 marzo 2019 su La Repubblica. Un mistero, con un'unica certezza: una ragazza di 34 anni che muore senza che si sia ancora capito il perché, dopo quasi 20 giorni e dopo oltre un mese di ricovero. Il corpo di Imane Fadil è all'obitorio, in attesa di un'autopsia che chiarisca cosa è accaduto a questa ragazza, entrata giovanissima nel mondo dello spettacolo - nella scuderia di Lele Mora - e finita, suo malgrado, a testimoniare su bunga bunga e cene eleganti in tre processi con al centro le cene di Arcore. Ecco, in ordine, tutto quello che finora si sa di questa storia.
Il ricovero e la morte di Imane Fadil. Imane Fadil entra in ospedale il 29 gennaio. E' a casa di un amico che la ospita temporaneamente quando si sente male, ha dolori all'addome, vomita: viene portata all'Humanitas, clinica di Rozzano, alle porte di Milano. Lì resterà fino al primo marzo, giorno in cui muore alle 6 del mattino, "lucida e vigile" quasi fino alla fine. E in quel mese in ospedale - da quanto sembra capirsi finora - nessuno sa e capisce che quella paziente è la teste chiave del processo contro Silvio Berlusconi. La prima diagnosi che viene fatta è di una grave "aplasia midollare": il suo midollo osseo ha smesso di produrre globuli bianchi, rossi e piastrine, condizione tipica di tumori o malattie autoimmuni. Per questo, dopo essere stata ricoverata in Terapia intensiva, la paziente viene sottoposta ad analisi per la ricerca di linfoma o di lupus (una malattia autoimmune che causa l’attacco degli anticorpi degli organi interni). In quel mese che il procuratore capo di Milano Francesco Greco indica come "un calvario", in cui la ragazza dimagrisce continuamente e si consuma, passerà dalla Rianimazione a Medicina, e infine di nuovo in Terapia intensiva. Dieci giorni prima di morire la ragazza confida a suo fratello Tarek e al suo avvocato Paolo Sevesi di credere di essere stata avvelenata. Ed è dopo 20 giorni di cure che l'Humanitas chiede alla clinica Maugeri di Pavia di effettuare analisi per capire se sia vero.
La procura apre l'inchiesta sulla morte di Imane. L'Humanitas dice di aver informato la procura, come da prassi, lo stesso giorno del decesso di Imane e che il sequestro della salma e delle cartelle cliniche è avvenuto entro le 12 dello stesso giorno. La procura invece ha sostenuto di aver saputo della morte solo "una settimana fa". "Al decesso della paziente, il primo marzo scorso — ha scritto l'Istituto di Rozzano in una nota — l’autorità giudiziaria ha disposto il sequestro di tutta la documentazione clinica e della salma. Il 6 marzo Humanitas ha avuto gli esiti tossicologici degli accertamenti richiesti, e lo ha prontamente comunicato agli inquirenti". Ma - ed è uno dei tanti dubbi di questa storia - se è vero che dieci giorni prima di morire la paziente aveva detto di essere stata avvelenata, la segnalazione in procura sarebbe dovuta avvenire immediatamente da parte del personale medico, come possibile notizia di reato.
Le indagini. Il procuratore Francesco Greco, venerdì scorso, comunica quanto accaduto ormai da due settimane: la morte di Imane Fadil e l'apertura di un'inchiesta per omicidio volontario, affidata al procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e al pm Luca Gaglio, gli stessi del processo Ruby Ter, parlando di "anomalie nella sua cartella clinica". La prima versione è che sia morta per "un mix di sostanze radioattive". Di certo, negli ultimi giorni, sono stati sentiti in procura i medici, ma anche il fratello di Imane, Tarek, che continua a sostenere la tesi dell’omicidio. Ma nessuna strada resta esclusa.
Gli esami su Imane Fadil. La clinica Maugeri di Pavia ha smentito nei giorni scorsi l'ipotesi avvelenamento e ha fatto sapere di non aver fatto alcun test sulla possibile presenza di sostanze radioattive: "Il nostro centro antiveleni non identifica radionuclidi e non effettua misure di radioattività". Il test eseguito a Pavia su richiesta dell’Humanitas dopo venti giorni di cure senza successo ha analizzato i campioni di siero prelevati a Fadil soltanto per quanto riguarda la presenza o meno di sostanze tossiche. La Maugeri ha trasmesso gli esiti delle analisi il 6 marzo: gli esperti pavesi hanno individuato tracce nel sangue di cobalto, cromo, molibdeno e nichel, metalli tipici di protesi ortopediche e dentarie, con valori leggermente più alti rispetto alla media, ma non tali da far pensare all’avvelenamento. Senza contare che se davvero ci sono stati sintomi di contaminazioni radioattive, perché la paziente non è mai stata isolata? E perché medici e infermieri non sono stati sottoposti a profilassi?
Gli ultimi mesi di Imane. Di certo, da quando era iniziato il primo processo Ruby, la vita della modella e soubrette di origini marocchine era cambiata, in peggio. "Questa storia è iniziata che avevo 25 anni, adesso ne ho 34", aveva detto alle telecamere di Repubblica Tv soltanto due settimane prima di entrare in ospedale. Lavoro poco o niente, i soldi che mancavano: i 40mila euro di risarcimento per una diffamazione erano andati via in fretta e Imane era finita a vivere in una cascina a Chiaravalle, alle porte di Milano. "Viveva quasi da reclusa", raccontano i suoi vicini. Una cascina dove, si è detto, circolavano tanti topi: da qui anche le analisi per capire se avesse contratto la leptospirosi, ma il test è risultato negativo. A metà gennaio, durante una udienza del Ruby Ter, i giudici avevano deciso di escludere lei, Ambra Battilana e Chiara Danese, le testimoni chiave del processo per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza di cui devono rispondere l'ex premier e gli altri imputati, dalle parti civili "perché il reato di corruzione in atti giudiziari, al centro del processo come quello di falsa testimonianza, è "offensivo" nei confronti dello Stato soltanto e non di altre parti", come le ragazze appunto.
I sequestri degli oggetti personali. La procura ha sequestrato il cellulare di Imane, per ricostruire le tracce dei suoi spostamenti prima del ricovero e i suoi ultimi contatti. Acquisite anche le bozze del libro che Imane Fadil diceva di aver scritto sul caso Ruby, ma non si sa ancora cosa ci sia dentro. Silvio Berlusconi, pochi giorni fa, ha commentato: "Spiace che muoia sempre qualcuno di giovane. Non ho mai conosciuto questa persona e non le ho mai parlato".
L'autopsia sul corpo di Imane Fadil. Fissata tra mercoledì e giovedì e affidata a Cristina Cattaneo, l'anatomopatologa forense che guida il Labanof della Statale. Il corpo di Imane, nel frattempo, è in una cella dell'obitorio di piazzale Gorini. Nessuno - questo è l'ordine della procura - si può avvicinare.
Imane Fadil ha fatto "un nome" prima di morire? La voce-terremoto che filtra dalla procura, scrive il 19 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Imane Fadil, la ragazza egiziana morta per un probabile avvelenamento ed ex teste del processo Ruby, stava scrivendo un libro. L'avrebbe probabilmente pubblicato, se non fosse deceduta in circostanze ancora misteriose. Un libro con nomi e cognomi? Un dossier bomba? Forse no. Secondo il Messaggero, si tratta di "150 pagine di riflessioni filosofiche e religiose sulla sua vita, in cui l'esperienza di Arcore occupa una parte importante ma senza particolari inediti". Il malloppo sarebbe stato visionato dai pm. La bozza del volume è stata passata ai raggi X in cerca di possibili elementi per risolvere il giallo. Il titolo, va detto, è inquietante: Ho incontrato il diavolo. È stato il Fatto Quotidiano a rivelare il nome. Quanto alle circostanze del decesso, era l'ex modella amica di alcune olgettine ad aver ipotizzato, ormai quando le restavano poche ore di vita: "Mi hanno avvelenato". Lo ha detto ai medici poche ora prima di spirare. "Forse, prima di morire, ha fatto anche il nome di chi voleva farle del male", scrive sempre Il Messaggero. A domanda diretta, fatta dai cronisti al pm Francesco Greco, la risposta è secca: "No comment".
Il giallo della modella: i conti che non tornano sull'avvelenamento. Radioattività esclusa nella morte della teste del caso Ruby. I metalli nel mirino dei Pm, scrivono Cristina Bassi Luca Fazzo, Domenica 17/03/2019, su Il Giornale. Si complica ancora, se possibile, il mistero intorno alla morte di Imane Fadil. Smentita dagli scienziati l'ipotesi del «mix di sostanze radioattive», si continua a seguire la pista dell'avvelenamento. Per tre motivi: la 34enne, teste nei processi sul caso Ruby, riferì proprio questo timore. Presentava sintomi compatibili con la somministrazione di un veleno. E i medici dell'ospedale Humanitas, dove è morta il primo marzo dopo un mese di agonia, hanno effettuato esami in tale direzione. Il Centro antiveleni dell'Istituto Maugeri di Pavia, diretto da Carlo Locatelli, è un'istituzione in materia. Lì il 26 febbraio l'ospedale ha inviato i campioni per i test tossicologici. Ieri Locatelli, che firmò i referti del 6 marzo, precisa: «Ci è stato richiesto il dosaggio dei metalli, ossia la loro individuazione in liquidi biologici». Sull'avvelenamento e sulla radioattività: «Il nostro Centro non identifica radionuclidi (particelle che emettono radiazioni, ndr) e non effettua misure di radioattività». Gli esperti di Pavia, nel leggere i risultati, non hanno lontanamente pensato a un avvelenamento. Né che i metalli trovati fossero la risposta alle domande sulle cause della morte. Le uniche tre sostanze risultate leggermente sopra la norma sono state cobalto, cromo e molibdeno. Si trattava però di quantità trascurabili. Il più rilevante, il cobalto, aveva una concentrazione dello 0,7 per cento. E questa sostanza è tossica (ma non ancora letale) sopra il 41 per cento. Non solo. Sono sostanze reperibili abbastanza facilmente in commercio. La Procura di Milano, dove l'aggiunto Tiziana Siciliano ha aperto un fascicolo per omicidio volontario, non ha mai confermato la presenza di sostanze radioattive. Le indagini però si focalizzano sui metalli. In particolare sulla concentrazione di alcuni di essi nel sangue della giovane donna: se non trovati in valori considerati di certo letali, almeno presenti in modo da accendere più di un dubbio. I sintomi di Imane - dolori addominali, vomito, fegato compromesso - erano compatibili appunto con l'avvelenamento. Ma non è escluso che fossero dovuti a una malattia per ora misteriosa. La prima ipotesi formulata dal medici è stata quella del lupus, grave patologia autoimmune. La terapia somministrata e prevista in questi casi tuttavia è stata inefficace. La soluzione del giallo potrebbe arrivare dall'autopsia, disposta dai pm e prevista per mercoledì o giovedì (a ben 20 giorni dal decesso). A capo del pool di consulenti cui è affidata c'è Cristina Cattaneo, docente di Medicina legale alla Statale di Milano. Da quanto si è appreso ieri, la giovane al ricovero presentava una gravissima disfunzione del midollo osseo che aveva smesso di produrre globuli bianchi, rossi e piastrine. Perciò sono state necessarie molte trasfusioni. Quest'ultima circostanza, insieme al lungo tempo trascorso tra l'eventuale somministrazione di veleno e le analisi, potrebbe aver diluito la concentrazione di sostanze tossiche. I medici comunque a un certo punto hanno ordinato i test tossicologici, da prassi partendo dalle sostanze più comuni. Per poi arrivare a quello ad ampio spettro su 50 metalli. Alcuni dei quali, sulla carta, sono potenzialmente radioattivi. Qui si torna alle ipotesi più inquietanti, di sostanze molto sofisticate. Fonti sanitarie insistono: da quei test è risultato qualcosa di non comune. E dall'autopsia arriverà una risposta altrettanto fuori dall'ordinario. Difficile spiegare altrimenti perché i medici non siano riusciti a venire a capo del rebus.
Nessuno deve vedere il corpo di Imane. Il pm ha vietato all'obitorio di mostrare ad alcuno il cadavere della modella marocchina uccisa, pare, da un mix di sostanze radioattive. Era teste chiave nei processi Ruby, scrive Agi il 17 marzo 2019. Nessuno, neppure parenti e amici, deve vedere il corpo di Imane Fadil, la 34enne modella di origine marocchina e teste chiave nel processo Ruby morta il primo marzo per un sospetto avvelenamento. "Non farla vedere a nessuno", è la scritta che si legge sul fascicolo dell'obitorio, apposta da un funzionario del Comune su ordine del pm. La disposizione dell'autorità giudiziaria è stata confermata da un addetto della struttura. La morte di Imane Fadil ricorda quella, nel novembre del 2006, dell'ex agente dell'Fsb russo Aleksandr Litvinenko, avvelenato dal polonio che qualcuno aveva nebulizzato su una tazza di tè in un locale elegante a Londra. O quella, avvenuta sei anni dopo, nel novembre del 2012, dell'uomo d'affari Aleksander Perepilichnyy che collassò mentre correva vicino a casa sua a Weybridge, nel Surrey. La sua morte inizialmente fu attribuita a cause naturali, ma l'inchiesta ha trovato tracce di veleno nel suo stomaco. Prima di morire aveva aiutato una società d'investimento a scoprire un'operazione russa di riciclaggio da 230 milioni di dollari. Ora si torna a parlare di avvelenamenti e di mix di sostanze radioattive per una vicenda che appare lontana anni luce dalle morti misteriose di Londra: il decesso, per il momento altrettanto misterioso, di Imane Fadil, modella marocchina, assurta agli onori delle cronache italiane perché ospite di una delle “serate eleganti” organizzate per Silvio Berlusconi ad Arcore. Teste chiave dell'accusa nei processi Ruby, la donna è morta a 34 anni il primo marzo scorso per, secondo fonti vicine all'inchiesta, un "mix di sostanze radioattive che non si trovano in commercio, in quantità tale da escludere una contaminazione accidentale". La causa del decesso è certificata dagli esami tossicologici trasmessi dall'ospedale Humanitas in Procura il 6 marzo scorso, cinque giorni dopo la morte. Fonti della Procura di Milano non confermano però l'indiscrezione.
"Mi hanno avvelenata". A dare notizia del decesso ai giornalisti è il procuratore di Milano, Francesco Greco, che annuncia anche l'apertura di un'indagine per omicidio volontario. Un atto dovuto dal momento che la ragazza, durante il ricovero, aveva confidato a persone a lei vicine il timore di essere stata avvelenata e che una prima analisi delle cartelle cliniche descrive una "sintomatologia da avvelenamento". Tutte le ipotesi restano però aperte, dall'errore medico al decesso per una patologia ancora non identificata. La voce che la modella marocchina stesse male si era diffusa dopo che, il 14 gennaio scorso, il Tribunale aveva escluso lei, Ambra Battilana e Chiara Danese, cioè le tre ragazze che si ritenevano danneggiate dal bunga - bunga, dal novero della parti civili nel processo Ruby ter, sbarrando così la strada a eventuali richieste di risarcimento, in caso di condanna, a Silvio Berlusconi. "Ha avuto un crollo nervoso", si diceva. Invece, dopo un violento malessere a casa di un amico, era stata ricoverata dal 29 gennaio nella clinica Humanitas di Rozzano, dapprima in terapia intensiva e poi in rianimazione, con sintomi come mal di pancia e vomito che poi si erano aggravati, fino a trasformare il suo ultimo mese di vita in "un calvario", reso ancor più penoso dal fatto che quasi fino alla fine è rimasta "lucida e vigile". Al suo avvocato Paolo Sevesi, che più volte è andato a trovarla, e poi anche al fratello, Imane ha ripetuto più volte di essere stata avvelenata. "Non posso dire se mi ha fatto dei nomi", fa muro ora il suo legale, vincolato dal segreto perchè è stato sentito come testimone dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliana e dal pm Luca Gaglio.
"Una vicenda strana". Convocati in Procura anche i medici, il fratello e chiunque possa riferire informazioni utili in attesa che l'autopsia venga eseguita nei prossimi giorni. "Speriamo che la scienza ci risolva il problema", confida Greco definendo "una vicenda strana" la morte di Imane. Stando a quanto spiegato dal procuratore, ai magistrati la notizia del decesso è arrivata solo da una settimana dall'avvocato Sevesi e subito è stato disposto il sequestro delle cartelle cliniche da cui emergono "anomalie" e dei campioni di sangue prelevati durante il ricovero. Imane stava scrivendo un libro, la Procura ha acquisito le bozze anche se dalla loro lettura non sarebbe emerso nulla di rilevante. "Per ciò che succedeva ad Arcore noi ragazze che abbiamo deciso di non farci corrompere abbiamo pagato più di altre", aveva detto in un'intervista recente Imane, ragazza fragile che, in un colloquio un anno fa col 'Fatto Quotidiano' aveva parlato dell'esistenza di "una setta di Satana ad Arcore".
Testimone nel primo processo Ruby chiuso con l'assoluzione dell'ex premier, Fadil era stata parte civile nel processo a carico di Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti, ricevendo un risarcimento che ha sempre sostenuto di non avere incassato. Puntava al processo Ruby ter, quello con al centro l'accusa di corruzione per Berlusconi e agli altri 27 imputati, e spesso si era lamentata dei continui rinvii delle udienze che impedivano, a suo dire, l'accertamento della verità. Poi, l'esclusione dalla parti civili e il ricovero. Un mistero, il suo, che si aggiunge alla scomparsa dell'avvocato Egidio Verzini, andato a morire in una clinica Svizzera il 4 dicembre scorso per una malattia incurabile, il giorno dopo avere consegnato alla stampa la sua verità sul caso Ruby.
Imane Fadil, il terrificante sospetto del procuratore capo: "Come dobbiamo procedere per l'autopsia", scrive il 18 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Chi e cosa ha ucciso Imane Fadil? Qualche risposta, forse, arriverà dall'autopsia. Intanto sulla morte della testimone del processo Ruby Ter fa il punto il procuratore capo di Milano, Francesco Greco (si indaga per omicidio). Nel corso di una conferenza stampa, Greco ha confermato che nel sangue e nelle urine della ragazza sono stati trovati alti livelli di alcuni metalli pesanti, quali "l’antimonio che ha dato a un esame sommario su un campione di sangue già lavato un risultato di 3, mentre il range è tra 0,02-0,22". E ancora, ha sottolineato come siano emerse "tracce di sostanze particolari. Vorrei smentire la chiacchiera che è uscita sui giornali secondo cui i metalli nel sangue della ragazza sono piuttosto bassi. Anche il cadmio urinario è stato rilevato al livello di 7, mentre la normalità è fino allo 0,3". Insomma, l'ipotesi dell'avvelenamento si fa sempre più concreta, anche se "bisognerà aspettare i valori contenuti negli organi, che emergeranno dopo l'autopsia", ha aggiunto Greco. Ed è proprio sulle modalità con cui avverrà l'autopsia di Imane Fadil che Greco ha rivelato dettagli sorprendenti, che danno la cifra di quanto il caso sia complesso e di quanto preoccupi la procura di Milano. Le precauzioni infatti saranno molto particolari, a tutela dei medici legali. Verranno infatti impiegate attrezzature speciali di cui dispongono i Vigili del fuoco e messe a disposizione dal loro Nucleo radiologico. "Non conoscendo le cause del decesso - ha detto Greco - nulla si può escludere. Per questo, d'accordo con i legali, si è deciso di procedere con cautela ed è necessario procedere con particolari attrezzature tecniche che abbiamo recuperato anche con l’intervento dei vigili del fuoco specializzati in questo tipo di interventi. Si procederà quindi prima all'estrazione dei campioni e poi alla normale autopsia", ha concluso Greco.
Fadil, la procura conferma: «Nel sangue alta presenza di cadmio e antimonio». Pubblicato lunedì, 18 marzo 2019 da Corriere.it. «Dagli esami sui liquidi biologici effettuati sono stati trovati livelli superiori rispetto alla norma di antimonio e cadmio». Lo ha confermato in conferenza stampa il procuratore di Milano Francesco Greco, a proposito delle indagini sulla morte di Imane Fadil, la testimone chiave delle inchieste sul caso Ruby. Prima di pronunciarsi definitivamente sulla vicenda - ha aggiunto il Procuratore - «attendiamo l’esito degli esami autoptici». Greco ha sottolineato che l’antimonio era presente con un valore di quasi 3 volte superiore e il cadmio urinario di quasi 7 volte superiore il range normale. Negli esami fatti su Imane Fadil sono stati riscontrati anche «valori molto superiori di cromo e molibdeno». Invece i valori di cobalto erano «bassi, non significativi». «Gli esami - ha spiegato Greco - sono stati fatti in parte sul sangue che è stato lavato due volte nel corso della degenza e sulle urine». Lunedì mattina i pm milanesi che indagano sulla misteriosa morte di Imane Fadil hanno ascoltato in Procura Michele Lagioia, il direttore sanitario dell’Humanitas, dove la 34enne è morta lo scorso 1 marzo. La testimonianza di Lagioia, davanti al procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e al pm Luca Gaglio, titolari anche dell’inchiesta «Ruby ter» che vede a processo Silvio Berlusconi e altri imputati, si è tenuta al quarto piano del palazzo di giustizia milanese nell’ufficio dell’aggiunto ed è durata oltre due ore. Uscendo dal Tribunale, il direttore sanitario ha spiegato ai cronisti di non voler rilasciare alcuna dichiarazione. In programma in questi giorni, inoltre, ci sono molte audizioni di testimoni. Gli esiti parziali di un test eseguito in un centro specializzato avrebbero confermato, come è già emerso, presenza di radioattività sul corpo della 34enne. I pm quindi proseguono con l’attività istruttoria. La loro agenda è fitta, molte le persone convocate come testimoni: medici, infermieri e il personale della clinica di Rozzano dove Fadil è morta - ci sono da chiarire anche le versioni discordanti tra Procura e ospedale sui tempi di comunicazione del decesso - e poi, parenti, amici e anche alcune delle ragazze che sono state ospiti ad Arcore o personaggi che la giovane ha citato nei suoi verbali e che sono già stati convocati in aula durante i processi con al centro le feste hot nella residenza milanese di Silvio Berlusconi.
Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” 19 marzo 2019. Dovranno proteggersi contro le radiazioni ed usare le apparecchiature speciali in dotazione ai Vigili del fuoco contro il rischio nucleare i medici che esamineranno il corpo di Imane Fadil. La testimone del processo Ruby ter rischia di essere pericolosa anche da morta. Le operazioni per i prelievi di campioni di organi e di ossa dal corpo della 34enne marocchina, deceduta il primo marzo nella clinica Humanitas di Rozzano, cominceranno a giorni. Saranno «blindate», non solo perché la sua morte è il nodo dell' inchiesta per omicidio volontario aperta contro ignoti dalla Procura di Milano, che sospetta un avvelenamento, ma anche perché i prelievi su reni, fegato e ossa dovranno essere eseguiti con molta cautela per proteggere gli stessi operatori medici da una contaminazione. Infatti, un esame eseguito dopo il decesso su ordine dei pm ha trovato tracce di un elemento radioattivo molto pericoloso. Solo le analisi successive diranno c'è rischio e se Imane Fadil è stata uccisa da materiale radiattivo. Alla possibilità di una morte dovuta a radiazioni, accidentale o voluta, si è arrivati dopo che si sono rivelati inutili tutti i tentativi di individuare una cura per salvare la giovane donna che si è spenta consumandosi in un mese. «L'Humanitas ha cercato di seguire le ipotesi che la scienza offre, ma ha dovuto escluderle tutte», conferma il procuratore di Milano Francesco Greco ai giornalisti, presenti l' aggiunto Tiziana Siciliano e i pm Luca Gaglio e Antonia Pavan. Gli organi interni sono stati progressivamente compromessi in un quadro clinico compatibile con l'esposizione a radiazioni. Nulla si può escludere. Ci sono tracce che ci portano a ritenere la presenza di sostanze particolari e quindi si è pensato di procedere con cautela», dice Greco. Ma alla domanda se siano state rilevate radiazioni e di che natura risponde con un «no comment». Sempre come prevenzione, la salma, che potrebbe essere ancora e radioattiva ,«è stata cautelata», quindi all'obitorio nessuno può vederla prima dell'autopsia. Infine, il contatore geiger non ha trovato emissioni nocive né nella sua stanza d'ospedale né a casa di un amico che l'ospitava prima del ricovero. Dalle analisi su sangue ed urine fatte dal Centro antiveleni di Pavia emergono dati su cinque metalli (cromo, molibdeno, cadmio, cobalto e soprattutto antimonio) superiori a quelli di norma. Per Greco, quindi, sono solo «chiacchiere» quelle arrivate dallo stesso centro su valori bassi. Si chiarisce poi il giallo delle comunicazioni dopo il decesso. «Non ce n' è stata nessuna dall' Humanitas alla Procura o a corpi di polizia prima della morte», afferma il magistrato smentendo le notizie pervenute dalla clinica che parlavano di una segnalazione quando la donna era ancora in vita. Conferma il direttore sanitario della struttura, Michele Lagioia. Sentito come testimone, ha detto di essere «sconcertato dalle affermazioni mediatiche» sul punto. A riferire del decesso ai pm è stato il legale di Imane Fadil, ma non giorni dopo la morte, come aveva inizialmente detto la Procura, bensì il giorno stesso, quando i pm hanno sequestrato la cartella clinica, come riferito da Humanitas. Era stata la stessa Imane Fadil a dire al suo avvocato di essere stata avvelenata. Aveva anche detto che lo aveva saputo nell' Humanitas. Una convinzione che probabilmente si è concretizzata il 12 febbraio quando i sanitari le hanno annunciato che dovevano verificare la presenza di arsenico nel suo sangue. Non avendo trovato nulla, la clinica non ha ritenuto di fare comunicazioni alla magistratura. Oltre all' ipotesi di un avvelenamento, Greco non esclude comunque anche quella della malattia rara: «Ci pronunceremo dopo l' autopsia quando sarà chiaro il motivo della morte. Il resto sono solo suggestive congetture».
Giuseppe guastella per il “Corriere della Sera” il 18 marzo 2019. Tracce significative di radioattività sono risultate presenti nel corpo di Imane Fadil in quantità tali da accreditare l' ipotesi iniziale che la donna sia morta per un avvelenamento dovuto proprio agli isotopi dei metalli pesanti. È stato un esame eseguito dopo il decesso su ordine dei magistrati milanesi a confermare i sospetti che li avevano spinti ad aprire un fascicolo, con l' ipotesi di omicidio volontario a carico di ignoti, per fare luce sulle cause della morte di uno dei testimoni dell' accusa nel processo Ruby Ter, quello a carico di Silvio Berlusconi accusato di aver corrotto testimoni dei vari processi su cene e dopocena ad Arcore. A scoprire la presenza di radiazioni da metalli pesanti in quantità molto superiore alla norma sono stati i tecnici di un laboratorio di analisi specializzato di Milano incaricato dai titolari dell' inchiesta, il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il sostituto Luca Gaglio. Come in parte anticipato dalla Stampa , si tratta di un test parziale al quale ne dovrà seguire un altro molto più approfondito e specifico che si terrà durante l'autopsia sul corpo di Imane Fadil, che è stata programmata tra mercoledì e giovedì prossimo. Su richiesta specifica dei magistrati inquirenti, l' anatomopatologa Cristina Cattaneo utilizzerà degli strumenti particolari per verificare la quantità di radiazioni e il tipo di metalli pesanti che si sono depositati nei tessuti della donna, morta il primo marzo in circostanze ancora misteriose nell' istituto Humanitas di Rozzano, dopo un mese di atroci sofferenze a causa di un male che le aveva devastato gli organi interni e che non è stato ancora individuato. Le analisi del sangue, che servono a misurare la quantità di metalli pesanti, non hanno rilevato livelli di tossicità. Invece, il test preliminare che calcola la radioattività nei tessuti segnala radiazioni oltre i limiti di guardia. Una contaminazione che un investigatore ha definito paragonabile a quella di una persona che ha lavorato per 30 anni in una fonderia. Anche nei campioni di urina sono stati rilevati elementi sospetti sui quali si concentra l'attenzione della Procura. Se la presenza di radioattività sarà confermata dagli ulteriori esami, Siciliano e Gaglio dovranno scoprire come, dove e quando Fadil è stata esposta alle radiazioni. Fino ad allora, il corpo rimarrà nell' obitorio di Milano dove, su disposizione dei magistrati, per ora nessuno potrà vederlo, nemmeno i familiari che dal primo marzo piangono la sua morte. Per due motivi, evidentemente: deve essere conservato nello stato in cui si trova fino all' autopsia e come misura precauzionale per evitare che altre persone siano contaminate dalle radiazioni che potrebbero ancora essere irradiate dai tessuti. In questi giorni sono stati sentiti diversi testimoni, a cominciare dai parenti e dagli amici, pochi, della marocchina i quali, dal 29 gennaio fino al giorno della morte, sono spesso andati a trovarla all' Humanitas. Tra loro c'è anche l' avvocato Paolo Sevesi che l'ha assistita gratuitamente nei vari processi nei quali si era costituita parte civile. È stato il legale ad avvertire la Procura della morte della cliente una settimana dopo, come ha detto il procuratore Francesco Greco. Humanitas, invece, sostiene di aver comunicato il decesso il giorno stesso, tanto che già alle 10 del mattino la polizia giudiziaria avrebbe sequestrato la cartella clinica. La ex modella a tutti ha detto di essere sicura di essere stata avvelenata. Una convinzione che si sarebbe fatta strada in lei nell' ultimo periodo della degenza, quando le forze la stavano ormai abbandonando e cominciava a perdere le speranze di potercela fare. Secondo alcuni testimoni, però, quell'idea non era nata nella sua mente, molto provata psicologicamente ancor prima del ricovero, ma da qualcosa che le ha detto qualche sanitario dell'Humanitas quando nulla riusciva a dare una spiegazione di un aggravamento, lento e inesorabilmente progressivo, che stava distruggendo il suo corpo, devastando reni, fegato e midollo osseo.
Grazia Longo per “la Stampa” il 17 marzo 2019. Avvelenata con un mix radioattivo così insidioso che potrebbe mettere a rischio anche la vita dei medici che eseguiranno l' autopsia. L' esame sui poveri resti di Imane Fadil, la modella italomarocchina, 34 anni, teste chiave nel processo contro Silvio Berlusconi per le «cene eleganti» con le olgettine e Ruby Rubacuori, non è ancora stato effettuato proprio per non esporre al rischio contagio gli anatomopatologi. Dalla procura di Milano, guidata da Francesco Greco, filtra che il test autoptico dovrebbe essere fissato tra mercoledì e giovedì prossimo. Solo dopo, cioè, che saranno noti gli altri esami di laboratorio tuttora in corso. Al momento, infatti, esiste solo un «esito parziale» a sostegno della tesi del cocktail di elementi radioattivi che la ragazza avrebbe ingerito bevendo o mangiando qualcosa destinato ad ucciderla. Il decesso è avvenuto il primo marzo scorso, dopo un mese di una inesorabile agonia che le ha disintegrato gli organi interni. Il risultato parziale sull' avvelenamento radioattivo in mano ai magistrati che indagano per omicidio volontario - oltre al procuratore capo anche l' aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Luca Gaglio - è arrivato da un laboratorio milanese, diverso da quello di Pavia dove non era stata sondata la presenza di materiale radioattivo ma solo di metalli nel sangue. Per il semplice motivo che l' Irccs Maugeri di Pavia «non identifica radionuclidi e non effettua misure di radioattività». Per quanto concerne i metalli, gli unici a sforare i parametri sono stati cobalto, cromo, nichel e molibdeno. Altri esperti hanno invece lavorato alla ricerca di radionuclidi nel sangue e hanno ottenuto una mezza conferma. L' équipe medico legale guidata dalla nota anatomopatologa Cristina Cattaneo (la stessa del delitto di Yara Gambirasio) entrerà dunque in azione solo se e quando l' allarme radioattivo sarà definitivamente scongiurato. Intanto rimane aperta la domanda più inquietante: chi aveva intesse ad avvelenare Imane Fadil? E ancora: si è trattato davvero di un delitto o c' è stata una contaminazione accidentale? La procura, in collaborazione con la Squadra Mobile, procede per omicidio volontario. Ma il giallo è quanto mai fitto. La drammatica morte dell' ex olgettina, che aveva partecipato ad 8 cene e ne aveva denunciato l' atmosfera a luci rosse, si profila sempre più come la trama di un film di spy story con il coinvolgimento di potenti servizi segreti piuttosto che una storia di prostituzione e ricatti sessuali. L' italo-marocchina, durante una testimonianza in tribunale, nel 2012, tirò in ballo un siriano «che diceva di essere amico di Berlusconi» e che l' aveva invitata ad «andare ad un incontro ad Arcore per avere dei soldi» nella primavera del 2011, quando lo scandalo Ruby era esploso da pochi mesi. Ma queste dichiarazioni non ebbero riscontri. «Mi hanno avvelenata, mi sento morire» ha raccontano la giovane ai medici dell' Humanitas, al fratello e al proprio legale, l' avvocato Paolo Sevesi. Il dato clinico accertato dall' Humanitas è la disfunzione del midollo osseo che aveva smesso di produrre globuli bianchi, rossi e piastrine tanto da richiedere il ricorso a numerose trasfusioni di sangue. I medici, nel cercare le cause di questa grave aplasia midollare, avevano anche pensato ad un tumore, poi escluso. Come esclusa è stata anche la possibilità di un lupus, una grave patologia autoimmune. Determinate, a questo punto, la risposta che arriverà dai nuovi test di laboratorio e dall' autopsia per chiarire cosa abbia aggredito il midollo e poi gli organi vitali, portando, nel giro di un mese, alla morte. Nelle mani di inquirenti e investigatori ci sono anche le bozze del libro, non ancora pubblicato, scritto dalla modella cresciuta a Torino. All' interno anche esternazioni dal tono farneticante su una sua dimensione messianica e altre sulla connotazione satanica delle serate ad Arcore. Il leader di Forza Italia, dal canto suo osserva: «Spiace che muoia sempre qualcuno di giovane. Non ho mai conosciuto questa persona e non le ho mai parlato. Quello che ho letto delle sue dichiarazioni mi ha fatto sempre pensare che fossero tutte cose inventate e assurde».
Grazia Longo per “la Stampa” il 16 marzo 2019. Avvelenata da un mix di sostanze radioattive che avrebbe ingerito o con un cocktail o con del cibo. È questo che raccontano le cartelle cliniche sequestrate all' ospedale Humanitas di Rozzano, subito dopo la morte di Imane Fadil, 34 anni, marocchina, teste chiave nel processo contro Silvio Berlusconi per il caso di Ruby Rubacuori e le serate hot del bunga bunga. La Procura di Milano ha aperto un fascicolo per omicidio volontario e ha disposto l' autopsia sul cadavere. Il procuratore Francesco Greco assicura che «le indagini saranno approfondite perché siamo di fronte a una morte e la vicenda è seria». La ragazza è deceduta lo scorso 1 marzo, dopo quello che lo stesso Greco definisce «un mese di tormentata agonia». Era stata ricoverata il 29 gennaio, dopo essersi sentita male a casa di un amico. «Ho un forte mal di pancia e mi sento sfinita» disse ai medici che hanno faticato non poco a capire che fosse stata avvelenata. Ci troviamo infatti di fronte all' uso di un avvelenamento molto raro, un cocktail di elementi radioattivi, che determina il progressivo deterioramento degli organi interni. «Ho paura di morire, mi hanno avvelenata» ha raccontato Imane al fratello e al proprio avvocato Paolo Sevesi. E la procura ora conferma che «dalle cartelle cliniche emergono sintomatologie da avvelenamento». Ma che tipo di veleno è stato somministrato alla donna? E, soprattutto, da chi? Nel 2012, durante un interrogatorio di fronte ai magistrati, alla domanda se avesse ma ricevuto pressioni la giovane raccontò di essere stata avvicinata da uno strano personaggio, un siriano, che le consegnò una scheda e un cellulare Nokia, per non essere intercettata: «mi chiamò almeno cinque volte per dirmi prendi un taxi e vai là che devi parlare...». «Là dove?» le chiese il pm, e lei: «Per me era chiaro: era inteso Arcore. Io però non andai, avevo paura...». Imane Fadil si era costituita parte civile, insieme ad altre due ragazze, nei processi Ruby, bis e ter, ma da quest' ultimo era stata esclusa perché secondo i giudici della settima penale, davanti ai quali si svolge il filone principale del processo che vede imputati Berlusconi e altre 27 persone per corruzione in atti giudiziari, (compresa Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori), i reati contestati non ledessero direttamente le tre ragazze, ma lo Stato. A proposito di questa vicenda va poi ricordato che Imane, con le altre due giovani, aveva avviato una trattativa extragiudiziale con la senatrice di Forza Italia, Maria Rosaria Rossi, fedelissima del Cavaliere. Trapelò che le tre ragazze avessero richiesto un risarcimento intorno ai 2 milioni di euro. Ma il patto saltò e non ottennero nulla. Altra questione insolita riguarda le affermazioni di Imane sul contesto «satanico» in cui si svolgevano le serate del bunga bunga: «Si avvertiva la presenza del demonio e in un camerino accanto alla sala c' erano decine di tuniche che facevano pensare a riti satanici». Questo e molti altri particolari sono ampiamente raccontati in un libro scritto da Imane Fadil e ora al vaglio del pm Luca Gaglio e dell' aggiunto Tiziana Siciliano.
Piero Colaprico per “la Repubblica” il 16 marzo 2019. Imane Fadil cominciò a stare male, molto male, due anni fa, un male oscuro e invincibile. Un giorno mandò al cronista una fotografia in controluce: « Praticamente è la mia aureola, in caso non l' avessi capito». Non era uno scherzo, non rideva più, anzi. S' era convinta di discendere da Gesù e, in qualche modo, lo confidava con grande prudenza, di reincarnarlo. Allo stesso modo sosteneva che Silvio Berlusconi - era stata, si sa, una delle principali testimoni d' accusa di Ilda Boccassini e Antonio Sangermano nel caso noto come " Ruby Rubacuori" - fosse « un pericoloso satanista, un servo di Belzebù » . Adesso è morta, ai parenti e all' ultimo avvocato ha detto « mi hanno avvelenata » e la procura sta indagando per omicidio volontario. (…) Lo scandalo politico- giudiziario, nato dai rapporti tra Karima El Mahroug, detta Ruby Rubacuori, all' epoca minorenne, e l' allora presidente del Consiglio, aveva segnato Imane Fadil. Aveva frequentato la villa Casati Stampa ad Arcore, per un po' aveva taciuto, poi s' era rivolta all' avvocato Danila De Domenico ed era andata in procura, per raccontare ciò che sapeva. I suoi interrogatori fanno parte dei fascicoli processuali. Quindi - la logica conta nelle indagini - se il caso Ruby è noto dall' ottobre del 2010, se nel 2011 Imane ha parlato, se ha frequentato spesso i processi e all' inizio del 2019, infine, è stata esclusa come parte civile nel cosiddetto Ruby ter, perché " ucciderla" oggi? Quando il sogno di diventare soubrette s' era spezzato, Imane aveva cercato fortemente due cose nella stagione dei processi. (...) Ed è nel tardo inverno di due anni fa che Imane cambia. Radicalmente. Da solare che, nonostante tutto, era, questa ragazza che arrivava senza trucco, con le scarpe da ginnastica, così diversa nella vita quotidiana dalle foto di scena, diventa cupa e " complottista" e vede ovunque spie e nemici. Alcuni piccoli eventi - le api che avevano fatto il nido sotto la sua finestra, i cerchi nel grano, Internet con gli articoli deliranti sul "codice binario alieno" - venivano decifrati da lei come un messaggio da parte dell' Aldilà. (…) L' ultima volta che aveva parlato in pubblico, Imane Fadil s' era lamentata: « Ho detto la verità e pago, sono stata estromessa dai processi » . Lo ripeteva spesso, e non ne veniva fuori.
Imane Fadil, l'atroce "errore" dei pm di Milano: sapevano che stava per morire, eppure..., scrive il 18 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Nel mistero della morte di Imane Fadil giocano un ruolo pesantissimo alcune omissioni ed altrettanti ritardi. Nel mirino c'è la procura di Milano, che sapeva benissimo cosa le stava accadendo. Ed è per questo che non si capisce perché i pm, dopo la segnalazione sulla modella che era arrivata dalla polizia giudiziaria, non si siano precipitati all'Hmanitas di Rozzano dove era ricoverata, per recuperare la cartella clinica ma soprattutto per interrogarla. Secondo la procura, la Fadil era un testimone prezioso nel processo Ruby Ter. Eppure non hanno voluto sentirla anche se sapevano che, forse, sarebbe potuta morire: sin dal giorno del ricovero, il suo midollo spinale risultava compromesso. Ma tant'è, il buco ormai è incolmabile: nessun verbale, infatti, riporterà mai la sua verità. Un'omissione che, ad ora, resta inspiegabile ma soprattutto incomprensibile.
L'ultimo giallo del caso Imane: il pm sapeva e non l'ha sentita. La procura informata subito del ricovero dell'accusatrice. E ora l'ordine: "Nessuno può avvicinarsi alla salma", scrivono Cristina Bassi e Luca Fazzo, Lunedì 18/03/2019 su Il Giornale. Nel groviglio di ritardi e di misteri che circonda la morte di Imane Fadil una domanda si impone, tanto scomoda quanto inevitabile. Riguarda il ruolo che nell'intera vicenda svolge la Procura della Repubblica di Milano: che era perfettamente a conoscenza del calvario attraversato da quella che per i pm era a tutti gli effetti una supertestimone, una fonte decisiva nei processi già celebrati e in quelli ancora in corso intorno alle serate nella villa di Silvio Berlusconi. Imane Fadil si era fidata dei pm milanesi, di tutti quelli che in questi anni si erano avvicendati nell'indagine. E si potrebbe immaginare che la Procura la ricambiasse con l'attenzione che si riserva ai testimoni preziosi. Invece no. Poco dopo la metà di febbraio, in Procura arriva dalla clinica Humanitas, dove la modella marocchina è ricoverata, la notizia che Imane sta male e che denuncia di essere stata avvelenata. La segnalazione arriva alla polizia giudiziaria e viene girata al pm di turno. Che potrebbe precipitarsi a Rozzano, all'Humanitas, acquisire la cartella clinica e soprattutto parlare con la donna. Ma non accade nulla di tutto questo. E non è l'unica omissione inspiegabile. L'1 marzo, alle 6,30 del mattino, Imane muore. La Procura viene informata subito, tanto che poco dopo mezzogiorno vengono sequestrati la cartella clinica e il corpo della donna. Il primo passo ovvio, immediato, è l'autopsia per cercare di capire le cause di un decesso inspiegabile. Ma l'autopsia non viene effettuata. Per due intere settimane Imane Fadil rimane chiusa nella cella all'obitorio. Giovedì scorso il suo legale va dal procuratore, Francesco Greco, chiedendo spiegazioni di questa apparente inattività. L'indomani Greco annuncia alla stampa la morte della testimone e l'apertura dell'inchiesta. Finalmente viene disposta l'autopsia. Il primo ritardo, il mancato interrogatorio di Imane Fadil, lascia un buco ormai incolmabile: nessun verbale riporterà mai la sua verità. Ma conseguenze difficilmente riparabili rischia di averle anche il secondo ritardo, quello nell'esecuzione dell'esame medico legale. Perché non stiamo parlando di una morte per ferita d'arma da fuoco, i cui segni rimangono stabili. Le tracce dei metalli decadono progressivamente, i risultati che troveranno i medici in sede di autopsia saranno sicuramente diversi da quelli che il centro antiveleni di Pavia individuò e segnalò all'Humanitas l'1 marzo, il giorno stesso della morte della donna. E questi ultimi sono sicuramente molto diversi dai valori iniziali, quelli che si sarebbero riscontrati se l'esame fosse stato effettuato subito dopo il 29 gennaio, il giorno del ricovero di Imane. Nessuna delle concentrazioni di metalli indicate nelle analisi di Pavia è neanche lontanamente vicina alla soglia di tossicità. Un paziente che abbia subito un trapianto di anca anni fa, con le vecchie tecniche, convive abitualmente con decine di microgrammi di cobalto per litro, mentre Imane era intorno allo 0,7. Ma il problema è un altro: qual era la concentrazione il 29 gennaio? Non lo si saprà mai. Di certo c'è che il giorno del ricovero la donna aveva il midollo spinale in condizioni pessime, praticamente non produceva più globuli bianchi. Se la causa è stata una esposizione a metalli radioattivi, significa che l'esposizione è stata violenta. E, poiché le conseguenze sul midollo non sono immediate, si può ipotizzare che l'esposizione fosse avvenuta dieci o quindici giorni prima del ricovero. L'ora del delitto, se di delitto si è trattato, andrebbe dunque fissata tra il 15 e il 20 di gennaio. E così si torna ai giorni dell'ultima sconfitta di Imane, la estromissione dal processo Ruby ter, che l'aveva avvilita e indignata. Sono i giorni in cui la ragazza si sente abbandonata da tutti, anche dai giudici cui si era affidata. E sono i giorni in cui incontra la morte.
Imane Fadil, il responsabile dell'Osservatorio militare: "È la loro firma, che servizi segreti ci sono dietro", scrive il 18 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Come è morta Imane Fadil? È stata uccisa? E da chi? Domande che potrebbero restare senza risposta, domande per le quali si preannuncia decisiva l'autopsia che verrà effettuata in settimana sul corpo della testimone nel processo Ruby. E su cosa le possa essere accaduto, intervistato da Il Messaggero, dice la sua Domenico Leggiero, responsabile dell'Osservatorio militare che dal 1999 si occupa di uranio impoverito. Tra le ipotesi più accreditati dagli inquirenti, quella che la Fadil sia stata avvelenata con cobalto ionizzato, sostanza radioattiva le cui tracce scompaiono più velocemente. "Questa tipologia di intervento sporco viene utilizzato dai servizi segreti dell'Est, che normalmente utilizzano polonio o altre sostanze radianti - sottolinea Leggiero -. Per due motivi. Il primo è che si tratta di un marchio di fabbrica, un linguaggio in codice. E poi perché questo tipo di sostanze non ha un effetto immediato e l'omicidio lento nel tempo consente di mascherare ogni traccia e possibile identificazione del colpevole". Ma dove si reperiscono questi materiali? "Solo sul mercato nero - riprende -, è complicatissimo arrivarci e per questo è il segno distintivo dei servizi segreti russi. È inodore, insapore e può essere versato in una tazza di tè o in un piatto di pastasciutta senza sospetti". Quindi l'esperto spiega come viene somministrato: "Bisogna saperlo trattare, è molto pericoloso - premette Leggiero -. In trasporto in ogni caso è decisamente meno rischioso rispetto all'ingestione. Viene prodotto in fiale, pillole e ci sono anche delle pellicole che si sciolgono nei liquidi", conclude.
Imane Fadil, l'esperto Corrado Galli e la trappola perfetta: "Come è stata avvelenata, una sola possibilità", scrive il 17 Marzo 2019 Libero Quotidiano. A fare chiarezza sulla morte di Imane Fadil sarà l'autopsia che si terrà in settimana. Nelle ultime ore le analisi del sangue della ragazza, testimone al processo Ruby, hanno dimostrato la presenza di tracce di metalli che però non sono state ritenute in grado di condurre alla morte. Resta in piedi la possibilità dell'avvelenamento con sostanze radioattive. Ma come può essere avvenuto? A dare delle risposte ci pensa Corrado Galli, presidente della Società italiana di tossicologia, intervistato da Il Giorno. In primis, l'esperto spiega quali possono essere gli elementi più pericolosi: "L'elenco è lungo, mi limito a citare il piombo, l'arsenico, il mercurio, il cadmio, il cromo e il tallio". Quindi, Galli rivela come può avvenire il contagio: "Attraverso l'ingestione di cibi e bevande. I metalli sono nella maggior parte privi di sapore, quindi l'interessato può non accorgersi di niente". Questi elementi, sottolinea, vengono utilizzati "allo stato solido, polverizzati e idrosolubili". Infine le conseguenze, che portano alla morte, degli elementi radioattivi: "Si parla in questo caso di cesio e polonio, molto difficilmente reperibili, che vanno a minare nel tempo l' efficienza del sistema immunitario con esiti fatali", conclude Galli.
Imane Fadil, l'esperto e l'agghiacciante verità sull'avvelenamento: "Il delitto perfetto", scrive il 19 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Se Imane Fadil è stata uccisa per avvelenamento con sostanze radioattive, "siamo molto vicini al delitto perfetto". L'analisi, inquietante, è di Angelo Del Sole, professore di Diagnostica per immagini all'Università Statale di Milano e direttore della Struttura complessa di Medicina nucleare dell'ospedale San Paolo. Intervistato dall'agenzia AdnKronos Salute, il professor Del Sole spiega come non esista "un marker in grado di indicare con assoluta certezza che la causa di un decesso è stata la radiazione". È quindi probabile che "l'autopsia riesca ad accertare la condizione patologica che ha portato alla morte, ma non a identificare con esattezza l'agente che l'ha provocata". Se davvero si è utilizzata questa tecnica di avvelenamento, è assai plausibile che chi lo ha fatto sia qualcuno di molto competente sull'argomento - è il ragionamento - e che di conseguenza avrà scelto anche la sostanza o le sostanze radioattive a emivita più breve, ossia meno facilmente rilevabili a distanza di tempo". In caso di avvelenamento, "la radioattività viene inserita per via iniettiva (cosa che esige tuttavia uno stato di incoscienza della vittima) o più facilmente per via aero-digestiva, tipicamente attraverso una bevanda". Per di più, tra i metalli trovati nel corpo della ragazza "l'unico di possibile utilizzo medico è il molibdenoche è usato in Diagnostica".
Imane Fadil, Souad Sbai e il dettaglio agghiacciante: "Pista marocchina, perché e come l'hanno avvelenata", scrive il 18 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Imane Fadil sapeva tanto. Probabilmente aveva deciso di fare un passo indietro". E per questo l'hanno uccisa. Souad Sbai, 58 anni, ex deputata del Pdl e presidente dell'Associazione donne marocchine in Italia, aggiusta il tiro dopo il tweet sconcertante sulla morte per avvelenamento della modella marocchina testimone del processo Ruby contro Silvio Berlusconi. "L'hanno uccisa - assicura a Repubblica -. So che, come tante altre bellissime ragazze, frequentava molto la nostra ambasciata. È lì, nel giro dell'alta diplomazia, che devono andare a cercare". Avvelenata "con qualcosa che non è quello che è stato detto in questi giorni. Purtroppo da noi non è una novità, succede spesso". La pista marocchina, insomma: "Quella gente non si fa scrupoli. Ti fanno fuori con molto poco, ti fanno bere una cosa che contiene una sostanza particolare, una specie di mercurio, cristallo di acido, inodore, che ti avvelena. Sembra una malattia che ti distrugge gli organi e ti uccide. È successo anche a me". Altra clamorosa bomba: "Nel 2010. hanno tentato di avvelenarmi con cristalli di acido, ho passato l' inferno, mi sono salvata". Il quadro è torbido: "Di ragazze marocchine bellissime, come Ruby, come lei, in questi anni in Italia ne sono arrivate tante ed è facile immaginare a fare cosa. Incontri, filmini, ricatti. Non è successo solo a Berlusconi. Lui è conosciuto e la sua storia è venuta fuori ma di persone di alto livello ne sono state ricattate e minacciate tante. Probabilmente Imane si era tirata indietro, era diventata un problema e l'hanno eliminata. Ma non c'è solo lei".
(ANSA 18 marzo 2019) - I pm milanesi che indagano sulla misteriosa morte di Imane Fadil, la testimone chiave delle inchieste sul caso Ruby, stanno ascoltando in Procura il direttore sanitario dell'Humanitas, dove la 34enne è morta lo scorso 1 marzo. In programma in questi giorni, infatti, ci sono molte audizioni di testimoni. Gli esiti parziali di un test eseguito in un centro specializzato avrebbero confermato, come è già emerso, presenza di radioattività sul corpo della 34enne. «Imane Fedil sapeva tanto. Probabilmente aveva deciso di fare un passo indietro. E l' hanno uccisa. So che, come tante altre bellissime ragazze, frequentava molto la nostra ambasciata. È lì, nel giro dell' alta diplomazia, che devono andare a cercare». È una indicazione sconcertante quella che arriva da Souad Sbai, 58 anni, giornalista di origine marocchina ed ex deputata del Pdl, oggi presidente dell' Associazione donne marocchine in Italia.
Cominciamo dalla fine. Quindi lei è convinta che Imane Fadil sia stata uccisa?
«Assolutamente sì. Imane è stata avvelenata con qualcosa che non è quello che è stato detto in questi giorni. Purtroppo da noi non è una novità, succede spesso. Quella gente non si fa scrupoli. Ti fanno fuori con molto poco, ti fanno bere una cosa che contiene una sostanza particolare, una specie di mercurio, cristallo di acido, inodore, che ti avvelena. Sembra una malattia che ti distrugge gli organi e ti uccide. È successo anche a me».
È successo anche a lei?
«Sì nel 2010. hanno tentato di avvelenarmi con cristalli di acido, ho passato l' inferno, mi sono salvata, Ma parliano di Imane.
Chiedo alla magistratura italiana e anche al re del Marocco di fare chiarezza».
Che c' entra il re del Marocco?
«Ci sono delle responsabilità che vanno ricercate nell' ambiente dell' alta diplomazia marocchina con cui Imane lavorava. Io seguo queste storie dal 2010. Di ragazze marocchine bellissime, come Ruby, come lei, in questi anni in Italia ne sono arrivate tante ed è facile immaginare a fare cosa. Incontri, filmini, ricatti. Non è successo solo a Berlusconi. Lui è conosciuto e la sua storia è venuta fuori ma di persone di alto livello ne sono state ricattate e minacciate tante.
Probabilmente Imane si era tirata indietro, era diventata un problema e l' hanno eliminata. Ma non c' è solo lei».
Che intende dire?
«Che succede ancora ora. Sa quante ragazze arrivano come stagiste all' ambasciata, vivono a Roma in appartamenti di lusso che certo non possono permettersi in via del Corso, in via del Babuino e fanno la spola tra Roma e Milano?
Due di loro che hanno lasciato quel giro sono venute da noi a chiedere aiuto, altre sono tornate a nascondersi in Marocco, ma prima o poi le trovano. Anche per questo noi con l' Associazione donne marocchine in Italia ci costituiremo parte civile se, come mi auguro, ci sarà un processo per la morte di Imane».
Andrà in Procura a raccontare queste cose?
«Ha fatto benissimo la Procura a non restituire la salma. Bisogna fare accertamenti approfonditi, ma se chiedono una consulenza ai medici marocchini troveranno le risposte che cercano. Comunque se mi chiamano vado subito. D' altronde in passato ho già denunciato alla Procura di Roma il nostro ambasciatore. E non è un caso che stia per andare via».
Il cambio al vertice della diplomazia marocchina in Italia è già ufficiale. Dopo 10 anni al posto di Hassan Aboyoub, destinato a Bucarest, arriverà Youssef Bella.
Imane, l'ambasciata del Marocco querela Souad Sbai. L'ex deputata in un'intervista a Repubblica aveva parlato di una "pista marocchina" per la morte della modella. La reazione della sede diplomatica: "Informazioni menzognere, manipola i fatti e si sostituisce alla giustizia italiana anche se l'autopsia della vittima non è ancora stata eseguita", scrive il 18 Marzo 2019 La Repubblica. Con un comunicato stampa l'ambasciata del Regno del Marocco in Italia ha fatto sapere di aver sporto querela contro l'ex deputata Souad Sbai per le "gravi accuse" fatte in un'intervista a La Repubblica "contro il Regno del Marocco e le sue istituzioni, soprattutto quelle diplomatiche, in relazione al caso del decesso di Imane Fadil". Nell'intervista - scrive l'ambasciata - "la signora Sbai muove gravi accuse contro il Regno del Marocco e le sue istituzioni, soprattutto quelle diplomatiche, in relazione al caso del decesso di Imane Fadil". "A sostegno delle proprie accuse - scrivono ancora dall'ambasciata marocchina - , avanza informazioni menzognere, manipola i fatti e si sostituisce alla giustizia italiana anche se l'autopsia della vittima non è ancora stata eseguita. A fronte di simili diffamazioni, l’Ambasciata del Regno del Marocco a Roma ha intentato un’azione contro l’interessata presso il Tribunale di Roma per diffamazione e propagazione di informazioni menzognere volte a infangare l’immagine del Paese. Con questa azione, l’Ambasciata del Regno del Marocco respinge dunque tutte le accuse e le insinuazioni formulate contro di essa e ha piena fiducia nella giustizia italiana per stabilire la verità in questo affare". Nell'intervista Sbai aveva dichiarato che "Imane Fadil sapeva tanto. Probabilmente aveva deciso di fare un passo indietro. E l’hanno uccisa. So che, come tante altre bellissime ragazze, frequentava molto la nostra ambasciata. È lì, nel giro dell’alta diplomazia, che devono andare a cercare».
Morte di Imane Fadil, l'emissario siriano e l'ombra dei servizi segreti: cosa le propose quell'uomo, scrive il 16 Marzo 2019 Libero Quotidiano. La morte per avvelenamento di Imane Fadil, testimone nel processo Ruby che si è concluso con l'assoluzione definitiva di Silvio Berlusconi, è un giallo. Un mistero difficilissimo da decifrare. Per certo, è morta per un mix di sostanze radioattive lo scorso primo marzo: la procura di Milano indaga per omicidio colposo. E in queste ore è ritornata d'attualità una deposizione messa a verbale dalla modella 34enne, che agli inquirenti raccontò di un cittadino di nazionalità siriana "che diceva di essere amico di Berlusconi e mi propose di andare a un incontro nella villa dell’ex premier per avere dei soldi”. La Fadil ipotizzato che appartenesse a un servizio segreto straniero. Per la precisione nel giugno 2012 e nell’ambito dell'inchiesta Ruby, la modella scomparsa aveva ipotizzato con gli inquirenti che l’uomo siriano "fosse dei servizi segreti. Mi disse che dovevo andare a Arcore e mettermi d’accordo con l’onorevole Berlusconi per avere dei soldi”. In aula il 22 giugno aveva ripetuto il suo racconto, riferendo della presunta offerta di denaro per dichiarazioni reticenti nei processi al leader di Forza Italia. Quell’uomo, Saed Ghanaym, era stato rintracciato e interrogato. Alla domanda se avesse avuto ”rapporti con apparati pubblici di sicurezza” aveva risposto: ”Non mi ricordo”. Al pm che aveva domandato perché avesse deciso di parlare solo in queste udienze della vicenda del siriano e non nell’agosto 2011, quando presentò una memoria in Procura e venne sentita a verbale, la testimone affermò: "A un certo punto mi sono sentita in dovere di farlo. Prima avevo paura di parlare, ma anche di non parlare”. Il pm a quel punto le chiese anche se ”avesse coltivato pure l’idea di prendere dei soldi da quella presunta trattativa” con l’intermediario siriano. La Fadil replicò: "Di pensieri ne ho avuti tanti, ma se avessi fatto così sarebbe stato illegale".
"UN SIRIANO MI PREGÒ DI TORNARE DA B. E RITRATTARE PER SOLDI" di Gianni Barbacetto e Maddalena Oliva per ''il Fatto Quotidiano'' il 18 marzo 2019. È il 15 giugno 2012. Palazzo di Giustizia di Milano, aula 5° Penale. Imane Fadil è entrata per la prima volta nel Tribunale di Milano qualche mese prima, nel 2011, per l' udienza preliminare del primo processo Ruby. Da allora la modella di origini marocchine divenuta testimone chiave dell' accusa, partecipa a decine e decine di udienze. Per oltre 8 anni. Pubblichiamo qui stralci del verbale di quella giornata.
Teste Fadil - Mi recai da un legale per avere della consulenza riguardo a lo scandalo, riguardo il fatto che io figuravo tra le 33 donne del Presidente. Era il 2011. Questo avvocato mi propose semplicemente di incontrare una persona che conosceva lui, dicendomi che questa persona faceva da tramite ad Arcore, per avere un incontro ad Arcore. Io inizialmente lo guardai un po' basita Al che questo avvocato mi dice: "Organizzo l' appuntamento così parlate direttamente". Dopo un paio di giorni mi presentai in ufficio da questo avvocato e c' era questo signore straniero. Mi fece delle domande, che io adesso non ricordo benissimo, tra cui se pensavo di avere comunque il telefono sotto controllo. Allora lui mi dice: "Noi ci sentiremo per organizzare l' incontro ad Arcore, però comunque tu non devi chiamarmi col tuo numero sul mio telefono". La seconda volta che lo vidi, lo vidi a Linate: è stata la volta che mi diede il telefono con la tessera. Io sono andata dall' avvocato Peronace per chiedere consulenza legale, per chiedere come potevo procedere per iniziare a difendermi: lui divagava, io non sapevo neanche cosa volesse dire "costituzione di parte civile" ho visto le due ragazze, Chiara e Ambra, in Tribunale e poi venni a sapere che questo avvocato seguiva le gemelle De Vivo, allora insomma mi si è acceso un lumino.
Pm Sangermano - Questo signore come si presenta?
Teste Fadil - Inizialmente m' ha detto Marco (Saed Ghanaymi, ndr).
Pm Sangermano - E poi vi incontrate dove?
Teste Fadil - A Linate. Lui mi disse: "Onde evitare che comunque ci veda qualcuno" aveva dei comportamenti ambigui, strani come avesse da nascondere qualcosa, ecco. Mi diede una scheda e un apparecchio. E mi disse anche che la scheda era di una persona deceduta.
Pm Sangermano - Avete avuto dei contatti su questo cellulare?
Teste Fadil - Sì. Lui mi chiamava le volte che organizzava l' incontro ad Arcore mi chiamava e mi diceva di prepararmi, di prendere un taxi, di andare. La prima volta me lo disse normalmente, la seconda volta anche, poi Pm Sangermano - Cioè, la invogliava ad andare ad Arcore? A che cosa serviva questo incontro ad Arcore?
Teste Fadil - Eh, per soldi, dovevo andare all' incontro ad Arcore per dei soldi. Pm Sangermano - A che titolo l' on. Berlusconi le avrebbe dovuto dare dei denari, signora Fadil?
Teste Fadil - Guardi, io ho capito soltanto che l' avvocato non ha voluto darmi consulenza legale, non ha voluto prendermi come sua cliente, anzi mi disse: "Certo, la tua posizione è abbastanza diversa dalle altre".
"Però un consiglio: io, fossi in te, comunque non mi scontrerei con certe persone". Questo mi disse.
Pm Sangermano - Quindi, io voglio capire, garantisticamente, se questo incontro ad Arcore fosse finalizzato perchè l' Onorevole Berlusconi intendesse darle una sorta di risarcimento perchè lei aveva avuto un pubblico una cattiva fama, diciamo, a seguito dello scandalo, o serviva a incidere sulle sue eventuali dichiarazioni da rendere ai Pubblici Ministeri?
Che lei non aveva ancora reso, perchè poi renderà (il 9.8.2011, ndr).
Teste Fadil - Guardi, credo tutte e due le cose.
Presidente - "Credo" non va bene.
Teste Fadil - Mi ha detto Presidente - Cioè le ha detto "L' incontro ad Arcore", le è stato detto "soldi"?
Teste Fadil - Sì, assolutamente, più di una volta.
Pm Sangermano - Questi contatti erano volti sempre a provocare questo incontro in Arcore?
Teste Fadil - Certo, sì.
Pm Sangermano - Ma questo signore le disse che agiva a nome di qualcuno?
Teste Fadil - Me lo fece capire.
Ma non mi disse mai niente io non sapevo cosa facesse, chi fosse niente. Mi disse che era amico di Silvio Berlusconi. Che andò da lui a cena un po' di volte.
Pm Sangermano - Le sono stati promessi soldi da Saed? O ha ricevuto minacce?
Teste Fadil - Tutte e due. Uno che le dice: "Non mi hai mai visto, non mi hai mai sentito, stai zitta, cioè non mi tirar mai, mai e poi mai fuori", non lo so.
Pm Sangermano - Ma lei poi ha accettato questo invito a recarsi ad Arcore per questa chiamiamola trattativa o comunque per questa offerta di denaro, forse più propriamente, o no?
Teste Fadil - No, no ho preferito difendermi in un altro modo, perchè, anche se fossi andata, avessi percepito quel che potevo percepire, comunque sia il mio nome sarebbe rimasto lì. E questo non mi andava bene.
Imane Fadil, l'avvocato Paolo Sevesi: "Ho un'idea precisa sulla sua morte", fino a dove si spinge, scrive il 16 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Dopo la morte di Imane Fadil, la testimone del processo Ruby ter, il suo legale Paolo Sevesi ha commentato con poche ma importanti parole la vicenda a Il Messaggero. L'avvocato si dice abbastanza certo del fatto che non si sia trattato di un suicidio. "Non era depressa. Semmai era sovrattono". Questa la risposta secca alla domanda sulla morte della sua assistita, scomparsa il primo marzo per un "mix di sostanze radioattive". Secondo il Sevesi, che l'ha incontrata fino a qualche giorno prima della morte, la ragazza marocchina non avrebbe mai potuto commettere un atto così tanto contrastante rispetto alla sua indole combattiva, "la stessa che conoscevano i pm", ha aggiunto. Sono tante le domande senza risposta per il legale: "A chi avrebbe potuto dare problemi con le sue testimonianze? Pur avendo un'idea precisa, non posso parlarne perché sarebbe l'oggetto di un ipotetico movente". Sevesi si rimette ai pm, sperando che con il proprio lavoro possano fare luce sulla misteriosa vicenda.
Imane Fadil, Ambra Battilana: "I potenti coinvolti", bomba della modella che accusa Berlusconi, scrive il 17 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Ambra Battilana, modella Italo filippina, 27 anni, una delle grandi accusatrici nel processo contro Silvio Berlusconi per il caso di Ruby Rubacuori, si dice sotto choc per la morte di Imane Fadil. La ragazza parla alla Stampa. "Chi mi conosce un po' per via delle varie situazioni pubbliche che mi sono capitate, compresa la vicenda Weinstein, sa bene che non sono facile da intimidire", dice. "Bisogna andare avanti, bisogna dare l' esempio". "Siamo sempre state noi tre insieme (la terza ragazza è Chiara Danese, ndr) a raccontare quello che succedeva nelle notti di Arcore", prosegue, "contro tutti e contro tutto, abbiamo detto la verità. Anche se è stato difficile, io infatti per rifarmi una vita sono dovuta scappare dall' Italia".
Dice di non avere paura, ma con un però. Quale? "Sono coinvolte delle persone potenti". Imane ha scritto un libro, non ancora pubblicato, sulle serate ad Arcore. Ambra Battilana un anno fa annunciò addirittura la sceneggiatura di un film. "Ci sto ancora lavorando. E sarà più dirompente del film di Sorrentino".
Marco Lignana per www.repubblica.it il 19 marzo 2019. Niente processo. Quelle 178 persone querelate per diffamazione da Karima El Mahroug, alias Ruby Rubacuori, in un'altra vita e in un'altra epoca, non vanno rinviate a giudizio. Perché scrivere sul web espressioni come "si faceva solo scopare a pagamento" oppure "che serve quel ferro nel c.", pur usando un linguaggio "talvolta scurrile" esprimono "una profonda indignazione per la manipolazione e la negazione di condotte giudizialmente accertate". E infatti, scrive il gip Riccardo Ghio nell'ordinanza di archiviazione, "è indubbiamente vero che le sentenze del Tribunale di Milano e della Corte d'Appello di Milano ... abbiano entrambe ricostruito univocamente il rapporto tra l'imputato e El Mahroug Karima in termini di rapporto di prostituzione". Insomma, dice il gip: siccome quel che avvenne nelle ormai celebri serate del "bunga bunga" in casa dell'allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi è stato accertato da due sentenze fosse prostituzione, e se è la stessa Karima El Mahroug a dire su Internet di non essersi prostituita, non è reato risponderle e controbattere, anche usando parole volgari. Si chiama, secondo il giudice, diritto di critica. Un'ordinanza che segue la richiesta di archiviazione del pm Piercarlo Di Gennaro, che invece aveva puntato sul fatto che non è possibile sapere con certezza chi ci sia dietro un account diffamatorio sui social network. Un verdetto che certo non piace alla diretta interessata, assistita dal legale Salvatore Bottiglieri. In questi giorni di tempesta mediatica per la morte di Imame Fadil, l'ex modella testimone nell'indagine Ruby Ter morta in circostanze misteriose, Karima è chiusa nella casa di Albaro con il compagno Daniele Leo. La dichiarazione ufficiale, concordata con il suo legale e arrivata ieri a tarda sera, è di essere "molto amareggiata da questa notizia che mi colpisce profondamente, anche se non ricordo di aver mai conosciuto personalmente questa ragazza. Mi sembra quasi una notizia surreale. Ma non voglio rendermi partecipe della spettacolarizzazione di una morte tantomeno di una ragazza così giovane. Spero si faccia chiarezza su quanto accaduto". A chi le sta vicino, Karima in queste ore ha confermato che "no, io e Imame non ci siamo mai incontrate. Ma provo una pena grande per lei. Prima gli scandali, poi la malattia e ora questa fine terribile a 34 anni". Del resto la donna, con una figlia alle elementari e una casa in una delle vie più esclusive di Genova, a chi l'hs incontrata in tempi recenti prima che esplodesse il caso Fadil ha sempre raccontato di volersi solo "lasciare tutto alle spalle, vivere con il mio compagno e mia figlia. Voi giornalisti mi cercate soltanto per parlare di Berlusconi. Io sono diventata una persona diversa".
Imane Fadil, il terribile sospetto del cognato Cosimo: "So con chi ha cenato prima di sentirsi male", scrive il 20 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Si attendono risvolti decisivi sulla morte di Imane Fadil, la testimone chiave del processo Ruby ter deceduta in circostanze sospette il primo marzo scorso all’Humanitas di Milano. Oggi sono stati effettuati i primi prelievi di parte dei tessuti degli organi che daranno chiarimenti maggiori sul presunto decesso causato da un mix di sostanze radioattive. In caso di esito negativo, l’analisi verterà sulle altre due ipotesi. Quella di avvelenamento da metalli pesanti e di morte naturale, probabilmente per il Lupus, la patologia autoimmune che le venne riscontrata dal personale medico della struttura di Rozzano. Al momento è certo che la 34enne marocchina è morta agonizzante tra sofferenze atroci. È quello che hanno confermato gli amici che andavano a farla visita, testimoni del suo spegnersi lento, e i familiari. Questi ultimi, come si legge sul Corriere, hanno ammesso: "Sappiamo con chi cenò la sera prima di sentirsi male". E poi, "Le hanno mangiato la vita già una volta otto anni fa. Siamo sconvolti, distrutti dal dolore. Non crediamo a nessuno", ha dichiarato Sam Fadil, il fratello di Imane. Mentre la sorella Fatima Fadil, mostrando un animo molto combattivo ha detto: "L’hanno uccisa veramente. Vogliamo la verità. Non le credevamo e invece...". Ma le rivelazioni choc sono quelle del cognato Cosimo, il marito di Fatima. L’uomo ha raccontato che quando andò a trovarla in ospedale a fine gennaio si trovò al cospetto di una donna "davvero malandata". "Era un cadavere che soffriva terribilmente", ha aggiunto chiedendosi come sia possibile che una donna tanto giovane abbia fatto questa fine in un solo mese. Pur non volendo svelare l’identità, Cosimo ha rivelato di conoscere il nome e il cognome della persona che Imane ha visto a cena la sera precedente al suo ricovero. Il sospetto del parente della Fadil è che proprio quell'uomo possa averla avvelenata. Un’insinuazione indubbiamente molto pesante ma che, a detta del cognato, spiegherebbe anche perché la vittima abbia vissuto gli ultimi mesi con molta paura: "Si era rinchiusa in casa, non usciva più".
Imane, i pm si sbilanciano: "È morta per cause naturali". La linea della procura smonta il caso: "All'80% colpa di una malattia cronica, difficile da individuare", scrivono Cristina Bassi e Luca Fazzo, Giovedì 21/03/2019 su Il Giornale. Les, lupus eritematoso sistemico. A venti giorni dalla morte di Imane Fadil, l'inchiesta sulla tragica fine della testimone del caso Ruby riparte da questa sigla. È la diagnosi indicata nella cartella clinica dell'Humanitas, l'ospedale di Rozzano dove la modella marocchina era ricoverata dal 29 gennaio e dove è spirata l'1 marzo. Ed è, ogni giorno di più, la pista investigativa che sta prendendo l'indagine della Procura milanese. Al punto che ormai gli inquirenti si sbilanciano apertamente: «All'ottanta per cento possiamo dire che è morta di cause naturali». Che tutto, alla fine, possa venire liquidato come un caso di malasanità potrebbe sembrare paradossale, dopo la ridda di ipotesi scatenata dalla notizia della morte di Imane. Le supposizioni - più o meno ardite - erano peraltro alimentate da dati oggettivi e mai smentiti, come la presenza nell'organismo della giovane di concentrazioni anomale (anche se non letali) di metalli pesanti e soprattutto dalle dichiarazioni della stessa Imane, che in ospedale aveva confidato ai parenti, al legale e anche ai sanitari il timore di essere stata avvelenata. Proprio per questo prima di imboccare con certezza una strada la Procura sta compiendo tutti gli accertamenti necessari: analizzando e incrociano i tabulati telefonici, interrogando tutti i testimoni possibili e immaginabili, e soprattutto cercando di raggiungere con l'autopsia risultati certi sulle cause della morte. Ma ormai l'ipotesi privilegiata è quella che un inquirente fin dall'inizio aveva indicato: «Vedrete che alla fine si scoprirà che è solo un caso di colpa medica». Il Les, d'altronde, è un nemico insidioso: è una malattia cronica che può restare latente per decenni ma può essere scatenata dai fattori più disparati, da un farmaco a un virus; e soprattutto è molto difficile da individuare, perché i sintomi possono essere facilmente confusi con altri. E proprio questo può essere accaduto alla povera Imane. Ma per averne la certezza si dovrà attendere a lungo. La fase degli accertamenti medico-legali è ufficialmente partita ieri, con il summit tra i pm e la squadra multifunzioni guidata da Cristina Cattaneo. Primo step: fugare tramite «carotaggi» della salma gli ultimi timori sulla presenza di focolai radioattivi, già ritenuti assai improbabili dagli esami compiuti finora. Il primo responso arriverà oggi. Se verrà confermato che di radioattività non c'è traccia, si passerà agli accertamenti più tradizionali. Intanto si lavora alla ricostruzione minuziosa delle ultime settimana di vita di Imane prima del ricovero in ospedale. In una intervista al Fatto, il cognato italiano della modella ha detto di conoscere l'identità dell'uomo che ha cenato con lei l'ultima sera prima che si sentisse male. È un nome che gli inquirenti hanno già in mano ma che non ritengono particolarmente significativo, perché - qualunque fosse il male di cui soffriva Fadil - il fattore scatenante potrebbe essere insorto anche molto tempo prima. Ed oltretutto i ricordi dei parenti, come quelli di altri testimoni, sono basati unicamente sulle confidenze della stessa Imane, rese a distanza dai fatti e in uno stato mentale probabilmente non più lucido. Ben più affidabili sono considerati i tabulati del telefonino della donna, che documentano minuto per minuto contatti e spostamenti. Se Imane è stata uccisa, il nome dell'assassino potrebbe essere lì. Ma forse un assassino non c'è mai stato.
CHE COSA HA CAUSATO LA MORTE DI IMANE FADIL? Simona Ravizza per il “Corriere della Sera” il 22 marzo 2019. Imane Fadil non è stata uccisa da metalli radioattivi. È la prima certezza sulla morte misteriosa della modella marocchina di 34 anni, testimone nel processo Ruby ter sulle cene e i dopocena di Arcore (dove viene ipotizzata corruzione in atti giudiziari a carico di Silvio Berlusconi), deceduta il primo marzo con il fegato e i reni disintegrati e il midollo osseo compromesso. I risultati delle analisi svolte durante tutta la giornata di mercoledì sui campioni prelevati con le biopsie di reni e fegato escludono tracce di radioattività da raggi alfa, i più dannosi, come il polonio 210 (utilizzato, per dire, nel 2006 per uccidere Litvinenko, l' ex spia russa morta in ospedale dopo aver sorseggiato un tè). Scartata la presenza di raggi gamma. I test sono stati condotti da una squadra di medici, super esperti di fisica nucleare dell' Università Statale, Vigili del fuoco. Tutti guidati da Cristina Cattaneo, l'anatomopatologa più famosa d' Italia e aiutati da Arpa (l'Agenzia per la protezione dell' ambiente della Lombardia). La Procura di Milano conferma la notizia, anticipata da Corriere.it. Gli esami erano propedeutici allo svolgimento dell'autopsia vera e propria, slittata, salvo sorprese, a domani. Il loro esito era molto atteso, sia per le suggestioni da spy story, sia perché se fosse stato positivo, sarebbero servite precauzioni eccezionali per evitare una possibile contaminazione nei prelievi sulla salma. Per estremo scrupolo, in ogni caso, i campioni sono stati inviati anche all'Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l'energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) che darà un ulteriore riscontro a ore. Che cosa ha causato, allora, la morte di Imane Fadil? La Procura, scartata l'ipotesi della radioattività, vuole andare a fondo anche sulla presenza anomala di metalli pesanti nel sangue e nelle urine della modella marocchina. Proprio per verificare i livelli fuori norma di antimonio, cromo, molibdeno e cadmio urinario è stato arruolato dai magistrati tra i consulenti Corrado Galli, presidente della Società italiana di tossicologia, che in più di un' intervista negli ultimi giorni ha spiegato: «Le dosi riscontrate non sono tali da essere tossiche e tantomeno letali». Una posizione in linea con quella espressa dal Centro Antiveleni di Pavia guidato da Carlo Locatelli che ha eseguito gli esami sulla presenza di metalli pesanti per l'Humanitas, la clinica alle porte di Milano dov' è stata ricoverata per un mese la modella marocchina e dov'è morta, ancora senza che si sia capito perché. Imane Fadil è arrivata in ospedale in ambulanza il 29 gennaio dopo essersi sentita male a casa di un amico. I sintomi: spossatezza, forti mal di pancia, gonfiore del ventre, dimagrimento rapido. I medici hanno prima pensato a un tumore del sangue, poi che fosse affetta da una grave malattia autoimmune come il lupus. Ma le analisi non hanno dato riscontri in merito. Di qui l' ipotesi di avvelenamento, evocata da Fadil negli ultimi giorni di vita e dai medici stessi dell' Humanitas. Una pista su cui la Procura ha deciso di indagare, anche se ieri è emerso che il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e i sostituti Luca Gaglio e Antonia Pavan, impegnati nell' indagine per omicidio volontario contro ignoti, non sono mai stati convinti della tesi della radioattività. Così per i pm resta alta la probabilità di una malattia rara che i sanitari dell' Humanitas non sono stati in grado di diagnosticare. Ora, c' è da sperare che l' autopsia sciolga il mistero.
Morte Imane Fadil, l'avvocato rinuncia al mandato: "Contrasti con la famiglia su ipotesi avvelenamento". Sevesi rappresentava i parenti e un amico della ragazza. La decisione dopo i primi risultati negativi sulla radioattività sul corpo della ragazza, scrive il 22 marzo 2019 La Repubblica. L'avvocato dei familiari di Imane Fadil, la 34enne testimone chiave del processo Ruby morta il primo marzo in circostanze ancora da chiarire ha lasciato il mandato. Paolo Sevesi, che rappresentava anche un amico di Fadil (ovvero quello che l'aveva ospitata fino al ricovero all'Humanitas), stamani si è presentato dai pm per formalizzare la rinuncia all'incarico. Il motivo sarebbe un contrasto sulla linea nelle indagini con la famiglia della modella. Il legale, infatti, anche ieri dopo gli esiti delle analisi che hanno escluso la presenza di radioattività sul cadavere, aveva detto: "E' meglio per tutti, per Imane e per la sua famiglia. Alla fine vuol dire che in giro c'è un cattivo in meno". I familiari, invece, con una serie di dichiarazioni in questi giorni hanno sempre insistito chiedendo "verità" sul caso Fadil. Intanto, è improbabile che l'autopsia possa essere effettuata già domani e dovrebbe slittare a lunedì prossimo. Sevesi ha chiarito ai cronisti in Procura che la sua linea è sempre stata quella di seguire passo passo le indagini del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e dei pm Luca Gaglio e Antonia Pavan, che stanno cercando di fare luce sulle cause della morte della 34enne. Lo stesso difensore ha più volte manifestato la "speranza" che dagli accertamenti emerga che la modella non sia stata avvelenata. E ha raccontato che Imane già l'11 gennaio scorso, tre giorni prima dell'udienza sul caso Ruby ter in cui venne estromessa da parte civile nel processo a Berlusconi e altri, gli aveva inviato un messaggio dicendogli "oggi non mi sento bene". E poi anche il giorno dell'udienza si sentiva male. Fu ricoverata il 29 gennaio all'Humanitas. Dall'altro lato, invece, i familiari di Fadil hanno più volte ribadito la necessità di indagare per arrivare "alla verità" e trovare il presunto colpevole dell'avvelenamento. Nel frattempo, gli inquirenti stanno aspettando gli esiti delle analisi del Centro ricerche Casaccia dell'Enea da cui dovrà arrivare la conferma sull'assenza di radioattività nei tessuti degli organi prelevati due giorni fa. L'assenza di evidenze di radioattività è stata già certificata dagli esperti dell'Arpa di Milano e dell'istituto di Fisica dell'Università Statale. Dopo la conferma dell'Enea, si potrà eseguire in condizioni di 'normalità' l'esame autoptico nel quale dovrebbero diventare essenziali per far luce sul caso gli esiti delle analisi tossicologiche. Si cercherà di accertare se i metalli, tra cui il cadmio e l'antimonio, rintracciati in percentuali di parecchio al di sopra della norma nelle urine e nel sangue di Imane Fadil, siano stati letali. I pm andranno avanti su questa strada senza escludere, però, anche quella della malattia rara, autoimmune. Era stato l'esito degli esami di urine e sangue, comunicato in via ufficiale alla Procura di Milano il 12 marzo scorso, undici giorni dopo la morte di Imane Fadil, da parte del dipartimento di fisica dell'Università statale di Milano, a fare nascere negli inquirenti il sospetto che la 34enne, teste chiave nel Ruby Ter, fosse morta per avvelenamento da sostanze radioattive. Nel documento, di cui si è avuta conoscenza solo oggi, veniva comunicata alla Procura l'esistenza di "tracce di raggi alfa" nel corpo della donna, morta il 1 marzo all'Humanitas di Rozzano, in provincia di Milano. Tracce che secondo i fisici erano "degne di approfondimento".
SI SGONFIA IL GIALLONE FADIL? Luca Fazzo e Cristina Bassi per ''il Giornale'' il 23 marzo 2019. E adesso anche l' avvocato dei Fadil si tira indietro. A ventidue giorni dalla morte della supertestimone del caso Ruby, a teorizzare la morte per avvelenamento - più o meno radioattivo - sono rimasti praticamente da soli i familiari della ragazza, che però ora dovranno trovarsi un altro avocato, perché Paolo Sevesi, il legale che difendeva Imane nei processi per le cene di Arcore, spiega ieri che «non è il momento per fare la caccia alle streghe e non ce ne sono neanche i presupposti». D'altronde, aggiunge, «non ci sono moventi possibili» per pensare che la povera Imane sia stata ammazzata. Ieri Sevesi si reca in Procura per annunciare la sua decisione a Tiziana Siciliano, il procuratore aggiunto che coordina le indagini. Uscendo spiega la svolta parlando di linee inconciliabili: da una parte la sua, che dubita fortemente di una morte per avvelenamento; dall' altra quella che l' avvocato indica sinteticamente come «la linea del Fatto», ovvero la tesi di un possibile omicidio. Pista che un cognato di Imane aveva indicato esplicitamente in un' intervista al quotidiano diretto da Marco Travaglio, e che il giornale aveva in parte fatto propria. Su questa linea, spiega Sevesi, insistono ancora i fratelli e la madre di Imane, nonché l' uomo che viveva con lei, e che si era costituito anch' egli come parte offesa. A un delitto, l' avvocato Sevesi dice di non aver creduto neanche prima che i «carotaggi» sul corpo della modella escludessero la presenza di campi radioattivi. Non c' erano moventi per ucciderla, dice il legale: e lei stessa non aveva preoccupazioni di sorta. «Se avesse avuto dei timori me li avrebbe sicuramente manifestati - aggiunge Sevesi - perché mi diceva sempre tutto, mi chiamava anche se sull' autobus qualcuno la guardava in un modo strano». Imane stava male, questo sì: e lo disse al suo avvocato prima ancora dell' udienza in cui venne respinta la sua costituzione di parte civile contro Silvio Berlusconi. «L' 11 gennaio Imane mi scrisse sulla nostra chat dicendo di non stare bene. Il 14 ci vedemmo in tribunale per l' udienza e mi raccontò che non aveva dormito e aveva sudato tantissimo». Quindici giorni dopo, la modella marocchina venne ricoverata nell' ospedale da cui non sarebbe più uscita. Se la pista dell' avvelenamento sta progressivamente svanendo, resta la necessità di capire cosa abbia stroncato così rapidamente una giovane donna che fino all' inizio dell' anno appariva nel pieno delle sue forze. L' autopsia che doveva essere effettuata oggi è slittata all' inizio della prossima settimana, in attesa della controprova sull' assenza di radioattività nei resti affidata all' Enea. Certo, rimane da chiedersi come mai la procedura decisa nei giorni scorsi - test radioattivo precauzionale, poi esame medico legale classico - non sia stata messa in atto già a partire dall' 1 marzo, subito dopo la morte di Imane, comunicata in diretta dall' ospedale alla Procura. La sensazione è che in tutta questa vicenda vi sia un «non detto» che prima o poi andrà chiarito, e che magari spiegherà come l' ipotesi di un assassinio a raggi X sia stata portata alla ribalta planetaria e poi affossata. Di certo c' è quando il caso è divenuto di dominio pubblico, su iniziativa del procuratore Francesco Greco, l' ospedale e i magistrati si sono scontrati frontalmente: Greco parlava apertamente di «anomalie» della cartella clinica, l' ospedale accusava la Procura di avere saputo che Imane diceva di essere stata avvelenata e di non essersi mossa per interrogarla. Poi, con il primo interrogatorio formale del direttore generale dell' Humanitas, pm e ospedale hanno raggiunto una linea comune, e i dissensi sono stati messi da parte. Le conseguenze si sono viste: le fonti della Procura che fino a poco prima parlavano di morte da «colpa medica» adesso parlano di «morte per cause naturali», che non è esattamente la stessa cosa. In questo pasticcio clinico-mediatico-giudiziario prima o poi un bandolo andrà trovato.
Non è l'Arena, Fabrizio Corona e la rivelazione-choc su Imane Fadil: "Cosa chiedeva sul letto d'ospedale", scrive il 25 Marzo 2019 Libero Quotidiano. A Non è l'Arena di Massimo Giletti, il programma della domenica sera su La7, nelle ultime battute si parlava del misterioso caso di Imane Fadil, la testimone del processo Ruby morta in circostanze misteriose. Un decesso accostato da qualcuno, e in modo vergognoso, a Silvio Berlusconi, almeno fino a quando i primi esami autoptici hanno iniziato a puntare l'attenzione su una probabile malattia ancora non identificata. E ospite da Giletti, della modella marocchina, ne ha parlato anche Fabrizio Corona, il quale ha premesso parlando in generale delle Olgettine: "Queste ragazze è anche vero che non erano stinchi di santo, fanno delle attività molto particolari". Dunque, parlando nel dettaglio della Fadil, l'ex re dei paparazzi ha svelato: "A me l’avvocato di Imane ha detto che lei sul letto di ospedale chiedeva di essere fotografata per far vedere in che condizioni era. Lui ha rinunciato al mandato perché la famiglia e gli altri volevano il complotto". Parole pesanti, quelle di Corona, che pongono la vicenda sotto un'altra luce. E ancora, conclude sottolineando: "Ho visto la differenza di quello che hanno pubblicato i giornali. Lei non viveva in una casa infestata di topi, anzi in una casa piena di libri e pulitissima. Il degrado descritto è inesistente", ha concluso.
E SE IMANE FADIL FOSSE STATA UNA “HONEY TRAP”? Estratto dell’articolo di Carlo Bonini e Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 25 marzo 2019. […] Trappola per potenti È un lavoro che si muove su dati circostanziali, sullo studio e incrocio dei tabulati telefonici di Imane, su due uomini più importanti di altri nella sua vita, e su un' indicazione tanto generica quanto diretta, di Souad Sbai, giornalista, ex deputata Pdl e Presidente dell' Associazione donne marocchine in Italia. È così che torna ad essere osservata la posizione di Saeed Ghanaymi, il siriano residente a Milano che era stata la porta di accesso di Imane ad Arcore. Frequentatore del giro delle « olgettine » e che, all'epoca, le aveva messo in mano un cellulare e tre schede telefoniche intestate a una inesistente cittadina rumena residente a Napoli di cui faceva fede una falsa carta di identità. E che oggi, per pura e suggestiva coincidenza, è amministratore di un' azienda siderurgica del bergamasco. Che dunque tratta metalli. Ed è così che la Mobile si mette dietro anche a uno "sceicco", così viene genericamente indicato, residente negli Emirati, che dicono frequentasse Milano, che con Imane aveva avuto una relazione e che Imane, negli ultimi due anni, per certo era andata a trovare almeno una volta. Ed è così infine che viene ritenuto utile ascoltare in Procura Souad Sbai, subito dopo la sua intervista a Repubblica. Nel suo racconto, pure privo di indicazioni specifiche e sfidato dall' annuncio ufficiale di una querela per diffamazione delle autorità marocchine, l'ambasciata marocchina a Roma è evocata come il perno di un altro tipo di cene eleganti in cui Imane sarebbe finita insieme ad altre ragazze. Utilizzate come honey trap, trappola al miele, in cui catturare, con l' arma del ricatto, uomini d' affari, potenziali informatori e in genere quel mondo che si muove felpato intorno al Potere dei soldi. Dove Imane avrebbe commesso un passo falso. Fatale.
L'unico veleno nel caso Fadil. Di avvelenato, nel caso della modella marocchina Imane Fadil morta di recente in un ospedale milanese dopo un breve ricovero, c'è solo il clima fetido creato attorno alla tragica vicenda dai soliti giornalisti odiatori, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 23/03/2019 su Il Giornale. Di avvelenato, nel caso della modella marocchina Imane Fadil morta di recente in un ospedale milanese dopo un breve ricovero, c'è solo il clima fetido creato attorno alla tragica vicenda dai soliti giornalisti odiatori di professione e dai gazzettieri di magistrati sempre a caccia di inchieste mediaticamente appaganti. Siccome la ragazza aveva partecipato ad alcune serate ad Arcore, ecco che per forza nella sua prematura scomparsa doveva esserci lo zampino di Silvio Berlusconi o di chi per lui, come dato per certo nei giorni scorsi da Marco Travaglio, uno che vede trame e complotti ovunque e che sforna una condanna definitiva al giorno su tutto tranne, pura coincidenza, che sulle malefatte grilline, per le quali vale la presunzione di innocenza fino a sentenza, ma forse anche dopo. Nei giorni scorsi le perizie avevano già escluso prima la morte come conseguenza di un avvelenamento classico (tracce anomale di alcune sostanze erano state rilevate, ma non in misura tale da provocare il decesso) e poi l'avvelenamento da radiazione, tipo quello al polonio, arma già utilizzata da alcuni servizi segreti dell'Est Europa per regolare conti in sospeso. Per parlare di omicidio un po' poco, quindi: manca l'arma, ma pure il movente. È vero che la ragazza era teste nell'ennesimo processo «Ruby» contro Silvio Berlusconi, ma la sua posizione era già stata giudicata assolutamente marginale dai giudici che, per questo, avevano respinto la sua richiesta di costituirsi parte civile. Così come i suoi presunti memoriali-bomba sono stati cestinati perché, letti e riletti, nulla aggiungono a quanto già noto a tutti. Fadil è morta per cause naturali, spiace, ma capita. Quello che non doveva succedere dopo è stato l'avventarsi come sciacalli affamati sul suo martoriato corpo per provare a dare un'altra spallata a Berlusconi. È stato uno spettacolo indegno al quale non si sono sottratti, oltre le solite firme del (povero) giornalismo, neppure amici, parenti ed ex sue colleghe. Ieri il suo avvocato ha rimesso il mandato: «È chiaro - ha commentato - che non è un omicidio, basta con questa sceneggiata». Per giorni ci hanno inchiodato a una bufala, oggi si dice fake news. Povera Fadil: la notorietà che ha inutilmente cercato in vita l'ha trovata da morta. Ma forse anche per lei sarebbe stato meglio l'oblio.
IL MISTERO R-IMANE. Da La Stampa il 24 aprile 2019. Altri tre mesi per concludere gli accertamenti autoptici e depositare una relazione sulle cause della misteriosa morte di Imane Fadil, una delle testimoni chiave del caso Ruby deceduta lo scorso 1 marzo all’ospedale Humanitas di Rozzano. È la proroga concessa dalla Procura di Milano al pool di consulenti, guidato dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo, incaricato dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e dai pm Luca Gaglio e Antonia Pavan di fare chiarezza sul decesso della modella marocchina. Lo scorso 26 marzo era iniziata l’autopsia all’Istituto di medicina legale di Milano e gli inquirenti avevano dato un mese di tempo agli esperti per il deposito della relazione finale. Da quanto si è saputo, però, per la complessità delle analisi sono stati concessi ora altri 90 giorni e quindi il termine, inizialmente previsto per fine aprile, slitta a fine luglio. Tra le ipotesi al vaglio l’avvelenamento per intossicazione da metalli o la morte naturale per una malattia fulminante. A fine marzo sono iniziati gli accertamenti degli esperti sul cadavere della giovane (non c’è ancora stato il nulla osta dei pm alla restituzione della salma alla famiglia per i funerali), dopo che esami più approfonditi avevano escluso la presenza di radioattività negli organi della modella, radiazioni che erano state, invece, rilevate in analisi sulle urine e sul sangue. Il quesito, a cui gli esperti nominati dalla Procura devono rispondere nell’inchiesta aperta per omicidio volontario, prende in considerazione ogni aspetto: si va dall’avvelenamento per intossicazione da metalli (è stata trovata, infatti, una massiccia concentrazione di cadmio, antimonio e cromo), alla morte naturale per malattia fulminante (si ipotizza anche una forma rarissima di aplasia midollare). I familiari della modella, intanto, stanno seguendo le indagini e gli accertamenti, assistiti dai legali Mirko Mazzali e Nicola Quatrano. I consulenti, tra l’altro, sono anche chiamati ad accertare proprio il motivo per cui dal risultato di un test comunicato ai pm lo scorso 12 marzo siano emerse appunto «tracce di raggi alfa».
Gli ultimi giorni di Imane: «Cenò con un uomo, poi cominciò a stare male». Pubblicato giovedì, 25 aprile 2019 da Giuseppe Guastella su Corriere.it. La serenità con cui accarezza i ricordi riesce solo apparentemente a nascondere il dolore che prova per la scomparsa della donna alla quale lo legava un sentimento «reciproco e profondo» che per volere di entrambi non si è mai trasformato in una relazione sentimentale ed è rimasto «un’amicizia perfetta, che contemplava un per sempre». John è stato fino alla fine vicino a Imane Fadil, la 34enne marocchina testimone nei processi Ruby morta il primo marzo in circostanze non ancora chiarite dall’inchiesta per omicidio della Procura di Milano. All’anagrafe è Giuseppe, 55 anni, originario della Sicilia, ma si fa chiamare John Pisano e insegna privatamente l’inglese imparato in giro per il mondo facendo per 30 anni «il volontario in missioni umanitarie» e che ha fatto incrociare il suo cammino con quello di Imane. È anche un Life coach, una persona «che aiuta gli altri a vedere le cose in un modo diverso», spiega. A 7 anni di distanza ricorda distintamente la telefonata di Imane che cercava un insegnante. «Abbiamo parlato come se ci conoscessimo da sempre. Alla seconda lezione le dissi: “Noi non ci siamo incontrati per caso”. “Lo so molto bene”, mi rispose». Imane Fadil entra in Italia nel 1989 a 4 anni. A Milano arriva nel 2004. Fa piccole comparsate in tv, la modella e la hostess. Si fidanza con un ragazzo e per un paio di anni esce dall’ambiente, nel quale rientra quando la relazione si interrompe. Finisce nel giro di Lele Mora e di Emilio Fede e, nel 2010, ad Arcore. Nel 2012 testimonia nei processi Ruby riferendo dei balletti hard in casa dell’allora premier Silvio Berlusconi che, come faceva spesso con le sue ospiti, le regalò in due volte 7 mila euro. Fadil ha sempre dichiarato di aver incontrato il Cavaliere perché sperava di diventare una giornalista sportiva. Per questo motivo, quando scoppiò il caso Ruby, reagì offesa perché non voleva essere accumunata alle olgettine. «Aveva una fortissima integrità e una grande fede religiosa», dice Pisano. Quando John e Imane si incontrano lei ha problemi di lavoro. «Con il nome infangato non poteva più lavorare mentre le altre avevano ottenuto il risarcimento da Berlusconi». Nel 2015, ai pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio, che indagano sulle corruzioni di testi dei processi Ruby, una Fadil «estremamente agitata» dichiara che due delle olgettine, Barbara Guerra e Iris Berardi, tre anni prima avevano tentato di convincerla a non testimoniare. Aggiunge che la Berardi le confidò che era stata ad Arcore quando era minorenne, vicenda sulla quale le indagini non hanno trovato nulla. I soldi non bastano e Imane deve trasferirsi nella cascina di Chiaravalle, periferia di Milano, dove resta fino al novembre scorso quando va ad abitare con Pisano. «La cascina non era infestata dai topi, ce n’era qualcuno come capita in campagna. Una donna così elegante non avrebbe potuto vivere in un tugurio», dice John. La sera del 16 gennaio, due giorni dopo l’udienza del processo Ruby ter, dalla quale esce furente perché è stata esclusa dalle parti civili, Imane non si sente bene. «Nei giorni precedenti aveva avuto dei malesseri, ma erano mali di stagione», racconta l’amico. Rientrata da una cena con un uomo, di cui Pisano non vuole dire in nome (lo ha fatto agli inquirenti) e potrebbe essere un professionista che ha lavorato per lei, vomita. «Disse che aveva bevuto un bicchiere di vino rosso e mangiato un’insalata». Da allora non si è più ripresa. «Ha cominciato ad avere dolore alle gambe, poi problemi allo stomaco. Mi diceva “sento che dentro di me sta accadendo qualcosa”», racconta Pisano che solo il 24 gennaio riesce a convincerla a chiamare la guardia medica che però, dice, riconduce tutto a un forte stato di stress. «Non voleva andare in ospedale perché temeva che potessero farle qualche cosa perché lei aveva dato fastidio». Chi poteva volerle del male? Lei non fa nomi, a sentire Pisano, il quale però condivide i timori dell’amica. Imane peggiora ulteriormente e il 29 John chiama un’ambulanza che la porta all’Humanitas. La situazione appare subito molto grave. «Mi dicono che presentava sintomi legati a problemi tossicologici che interessavano fegato e polmoni e il midollo osseo era compromesso gravemente». Per volere della donna, la famiglia viene avvisata solo nei giorni seguenti. «I medici non capiscono cosa le è successo, le fanno molte trasfusioni di sangue e le estraggono 6 litri di liquidi dal ventre e due dai polmoni» finché «sospettano un avvelenamento». La reazione di Imane e John è la stessa: «Pensiamo alla cena del 16 gennaio. Quello era un fatto concreto, una certezza». Gli esami clinici, però, non trovano nulla, né veleni né malattie. «Una dottoressa mi dice che determinati veleni non si riescono più a rintracciare dopo un certo tempo dalla somministrazione». Le condizioni di Imane precipitano, fino alla morte tra sofferenze atroci. È il primo marzo. Lo stesso giorno arrivano i risultati informali degli esami chiesti al Centro antiveleni di Pavia giorni prima. Rilevano altissimi livelli di 5 metalli pesanti, pari a quelli di chi ha lavorato 30 anni in fonderia, ma insufficienti a causare il decesso. John si chiede se l’esame sia stato accurato o no, visto che è stato fatto su sangue e urine diluiti dalle trasfusioni e dalle cure che ne potrebbero aver abbassato i valori, e se non sarebbe stato possibile un trapianto di midollo osseo. «Di che cosa è morta questa ragazza? Non posso dire adesso con certezza che sia stata uccisa, la mia paura è che non venga fuori nulla». John e Imane volevano mettere su un’azienda di servizi. Lui avrebbe insegnato inglese e fatto il Life coach, lei la Spiritual coach, perché diceva di aver ereditato la capacità di «percepire la presenza del male». Ultimamente sosteneva di aver visto Satana ad Arcore e prima ancora in un viaggio a Dubai dal quale aveva portato una foto in cui vedeva due demoni. Aveva messo tutto in un libro scritto con l’amico che solo ora qualcuno sarebbe disposto a pubblicare. John l’ha sognata mentre felice diceva: «Venite tutti che adesso ci divertiamo».
"Vi racconto la mia amica Imane Fadil e la sua malattia: cominciò a stare male dopo una cena". John Pisano è l'uomo che ha ospitato l'ex modella Fadil, teste nel processo Ruby. "Lei si sentiva addosso lo stigma delle cene eleganti di Arcore". Scrive Sandro De Riccardis il 25 aprile 2019 su La Repubblica. Il volto di Imane, con i lunghi capelli che le incorniciano il viso e le mani giunte come in preghiera, lo tiene sempre con sé, impresso sullo schermo del suo telefonino. Imane Fadil, l'ex modella teste nel processo Ruby, sembra felice. John scorre le app in cerca dei messaggi delle chat, inviati da lei dall'ospedale. 'John sono stata di m.. Ti prego vieni qui al piu presto e non mi lasciare sola', scrive il 25 febbraio scorso alle 10.30 di mattina, quattro giorni prima di morire. 'John stamane febbre.. delirio volevo mia mamma e mio padre.. cosa che non ho mai detto prima - scrive l'11 febbraio - spero che qst finisca al più presto, sono veramente stanca'". John è John Pisano, l'uomo che ha ospitato per due mesi e mezzo Imane nella sua casa di Rozzano, hinterland di Milano, fino alla sera del ricovero, il 29 gennaio scorso. John ha 55 anni, un passato in giro per il mondo da volontario impegnato in progetti formativi per i giovani, un presente da insegnante privato di inglese. "Ci siamo conosciuti nel 2012, ricordo che era primavera. Ero tornato da poco in Italia dopo trent'anni all'estero, lavoravo part-time come venditore di elettrodomestici, e avevo messo da poco i primi annunci online per insegnare inglese. Guidavo il furgone verso Varese, quando chiamò lei".
Che impressione le fece?
"Fissammo un appuntamento per una lezione a domicilio, lei allora abitava in via Noto. Si creò subito una bella intesa, lei era molto brava, imparò subito, dopo tre mesi non aveva più bisogno di lezioni. Io non sapevo nulla di quello che stava vivendo. Diventammo inseparabili, era un'amicizia talmente rara che io non la chiamavo Imane ma “sister”, eravamo fratello e sorella. Già allora soffriva moltissimo. Ogni volta che doveva ricordare i fatti delle serata ad Arcore, riviveva la vergogna, l'onta di essere messa nel calderone delle “olgettine”. Imane era una persona di una moralità altissima, che si è scontrata da subito con quel mondo".
Perché si trasferì da lei?
"Non lavorava e non poteva più pagare l'affitto. Così, l'11 novembre scorso è venuta da me. E' stato detto che viveva tra i topi, ma non è vero. Se fosse stato per lei non sarebbe mai andata via da Chiaravalle, lei amava quel posto. Era finalmente lontana da occhi indiscreti, poteva vivere la sua vita, nessuno la conosceva. Aveva l'abbazia vicino, per lei era il paradiso. E non c'era traccia di topi".
Quando inizia a stare male?
"Imane ha sempre avuto una salute di ferro, non si ammalava mai. Quest'anno, a ottobre, abbiamo avuto l'influenza negli stessi giorni. Poi, credo fosse il 10 gennaio, inizia a dire che non si sentiva bene. Una settimana dopo parte un leggerissimo ma costante peggioramento quotidiano. Finché il 24 decido di chiamare la guardia medica, perché lei era debole, non si alzava più dal letto, ma non voleva andare in ospedale".
Cosa le dice il medico?
"Non ci capisce nulla. Io gli faccio notare che aveva gli occhi un po' gialli, che non riusciva a digerire, che faceva fatica a respirare. Lui alla fine dice 'forte stress', le prescrive dei tranquillanti, le dice di rivolgersi al medico curante. Ma Imane era debolissima. Io le dicevo “sister, devi farti ricoverare”. “E' pericoloso, qualcuno mi può fare del male”, rispondeva lei. Il giorno dopo, domenica 27, riesco a convincerla. La pettino, le preparo la borsa, ma dice ancora di no. Solo il 29 non fa nessuna resistenza. Viene portata in ambulanza e io la seguo in auto, e resto sempre con lei. Il giorno dopo, parlo per la prima volta con un medico, mi spiega che fegato e polmoni sono danneggiati, un rene non funziona. Non riescono comunque a capire cosa abbia: mi chiedono se assume farmaci, droghe, se è stata esposta a escrementi di topi. Ma lei non prendeva medicine, le droghe non le ha mai nemmeno provate, aveva visto un topo vicino casa due anni prima".
Chi sapeva che era ricoverata?
"Nessuno. Dopo il 10, lei decide di avvisare due amici di Chiaravalle. Le chiedo se vuole avvisare la sua famiglia, e mi dice di no. Nemmeno il suo avvocato sa che è ricoverata. Poi una notte sta davvero male, mi scrive che delirava, che chiamava la madre e il padre, così si decide ad avvisarli".
Cosa ricorda dell'ultima sera in ospedale, il 28 febbraio?
"Stava davvero male, nemmeno gli antidolorifici o i massaggi che le facevo placavano ormai il dolore. 'Non mi lasciare sola John', mi diceva. Pensarci ora mi fa ancora tanto male. Aveva fortissimi dolori all'addome. Sul letto c'era una chiazza di sangue, e lei tossiva e sputava sangue. Grumi, non liquido. Le dicevo che dovevo tornare a casa, ma lei mi chiedeva di rimanere, di dormire accanto a lei. Io però dovevo andare: il venerdì mi alzo presto per andare a lavorare a Vimercate, in più dovevo prenotare un albergo per i suoi familiari. 'Resta ancora un po'', mi diceva, e mi teneva strette le mani. Avevo due impulsi: da una parte stavo male ad andare via, dall'altra era come se sentivo di dover andare. Alla fine le ho detto “sister, adesso vado, ci vediamo domani”. Ma non l'ho più vista".
Cosa pensa che abbia ucciso Imane?
"Non è stata lei a parlare di avvelenamento. Sono stati i medici che, dopo aver escluso tutte le diagnosi con mille esami, avendo trovato quell'alta concentrazione di metalli pesanti nel sangue, ci hanno detto: 'Sospettiamo l'avvelenamento'. Né io né lei ci avevamo pensato, ma dopo abbiamo fatto un collegamento con un certo periodo, con un fatto preciso".
A cosa si riferisce?
"Non posso parlare di questo, c'è l'indagine in corso. Dico solo che è stata male dopo una cena, un mese fa".
Quindi lei crede che Imane sia stata avvelenata.
"Non sono un medico, ma credo che anche la malattia più rara e fulminante non possa portare una persona in una condizione del genere in due settimane. Qualcuno deve darci una risposta sulla presenza di metalli in una quantità, non mortale, ma molto superiore alla norma".
Si è parlato di rapporti con un siriano e uno sceicco arabo.
"In sette anni, Imane mi ha parlato una volta del siriano, ma per fatti precedenti al nostro incontro. Per un periodo, invece, è stata fidanzata con un ragazzo di Dubai. Ma in due anni, lei è andata una volta in Medio Oriente, lui è venuto un paio di volte. Diceva che a Dubai c'erano troppe presenze negative, 'demoni'. Credo che abbiano chiuso a settembre. A volte lei diceva di avere il fidanzato solo per evitare che qualcuno la importunasse".
Accadeva spesso?
"Purtroppo lei sentiva addosso lo stigma delle cene eleganti di Arcore. 'Mi hanno fatto terra bruciata', diceva. Faceva i provini come hostess, e sentiva nei camerini le altre ragazze dire 'quella è un'olgettina'. E poi ha fatto colloqui come barista o commessa nei negozi del centro di Milano, e diceva di essere sempre tampinata. Non perché era bella, ma perché pensavano che fosse disponibile, non riusciva a liberarsi dal mondo del 'Bunga Bunga'. E così ha smesso di cercare lavoro. Una maledizione che andava avanti da quando si seppe di Ruby. Mi ha raccontato che in quelle settimane non usciva di casa, aveva perso i capelli, dimagriva, si vergognava di se stessa. Anche se non c'era ragione. Lei non ha mai voluto fare la valletta. Il suo sogno era fare la giornalista sportiva e mi spiegava che aveva accettato di andare ad Arcore per parlare con Berlusconi perché entrambi si intendevano di calcio".
Cosa pensa ora guardando le foto di Imane che sorride?
"Mi resta la rabbia per le ingiustizie che ha subito prima da viva, poi da morta: con chi continua a fare illazioni sulla sua vita, o a dire che sia morta per una forte depressione. Lei era forte, combattiva. Nel letto di ospedale, tra mille dolori, non ha mai ceduto di un millimetro. Le facevano male le persone, più passava il tempo, più diceva che non poteva fidarsi di nessuno. Mi aspetto delle risposte chiare dalla giustizia. Lei per me era come una candela che faceva luce ovunque, e in pochissimo tempo si è consumata. Ora mi resta un buio profondo".
"Imane Fadil non fu avvelenata". Per l'autopsia fu morte naturale. La modella deceduta quattro mesi fa. Il team di medici: "Non ci sono elementi a supporto di ipotesi di morte non naturale". Giovanni Neve, Venerdì 12/07/2019, su Il Giornale. "Non ci sono elementi a supporto di ipotesi di morte non naturale". È questa la conclusione a cui, stando a quanto risulta all'agenzia Adnkronos, sono arrivati i consulenti che sono stati incaricati dalla procura di Milano di individuare la causa del decesso di Imane Fadil, morta lo scorso primo marzo all'ospedale "Humanitas" di Rozzano dopo un mese di agonia. "Se non c'è avvelenamento, ci dicano come è morta, così almeno si potranno fare i funerali", ha commentato Mirko Mazzzali, avvocato dei familiari della giovane. "Speriamo non si debba attender ancora a lungo". La relazione arriva a cento giorni della morte della modella coinvolta nel processo Ruby e, dopo i primi esiti controversi, evidenzia che non c'è alcuna evidenza sull'ipotesi di avvelenamento. Il lavoro degli esperti di Medicina legale di Milano guidati dall'anatomopatologa Cristina Cattaneo, iniziato lo scorso 16 marzo e svelato oggi in esclusiva dall'Adnkronos, è stato un lungo percorso di esclusione. Scartata fin da subito l'ipotesi di una morte legata a sostanze radioattive, gli esami sono stati tesi a cercare la presenza di metalli, come il ferro, il molibdeno, l'antimonio e il cromo, su ossa, tessuti e sangue. Sebbene sia stata trovata una concentrazione superiore alla norma, i consulenti non l'hanno ritenuta mortale e dunque non sufficiente a ipotizzarla come causa del decesso. Nel team di esperti, come rivela l'Adnkronos, fa parte anche un farmacologo clinico, Francesco Scaglione, che ha affiancato i medici nello studio di possibili tumori ed effetti collaterali legati all'assunzione di farmaci, a cui Fadil è stata sottoposta nel tentativo di salvarle la vita. I consulenti della procura di Milano hanno anche vagliato l'ipotesi di una malattia rara o autoimmune come l'aplasia midollare, per cui il midollo della modella 34enne non sarebbe stato più in grado di produrre cellule sanguigne e piastrine. Anche questa strada, però, non ha dato risultati certi. A quattro mesi dal decesso, non ci sono evidenze, finora, per parlare di morte sospetta nel caso su cui stanno indagando il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e i pm Luca Gaglio e Antonia Pavan.
(ANSA il 18 settembre 2019) - La consulenza medico-legale sulla morte di Imane Fadil "ha dato un esito piuttosto sicuro" su un decesso "per malattia", anche se restano ancora ignote "le cause che hanno generato la patologia, possono essere molteplici, da un'infezione ad altre". Lo ha spiegato il procuratore di Milano, Francesco Greco, chiarendo che mesi fa di fronte a vari allarmi sulla vicenda, tra cui la telefonata della giovane e gli esiti sulla presenza di metalli pesanti e radioattività, venne presa in considerazione anche l'ipotesi "dell'avvelenamento da cianuro".
(ANSA il 18 settembre 2019) - "Sentivo che volevano avvelenarmi e farmi fuori": sono queste le parole di Imane Fadil, una teste chiave dei processi Ruby, pronunciate al telefono con il suo legale poco prima della sua morte avvenuta in ospedale lo scorso marzo. Il file audio della telefonata è stato fatto sentire ai giornalisti durante la conferenza stampa in cui la Procura di Milano sta dando conto dei risultati del lavoro dei periti sul decesso della 34enne marocchina, addebitata ad aplasia midollare.
(ANSA il 18 settembre 2019) - Dai primi accertamenti su un campione di urine di Imane Fadil era stato "individuato un movimento positivo relativo alle onde alfa con una frequenza radioattiva vicina a quella del polonio". Lo ha spiegato in conferenza stampa il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano che ha ripercorso l'allarme poi rientrato di un possibile avvelenamento "da radiazioni" come causa della morte della modella marocchina, una delle teste chiave del processo Ruby. Siciliano ha spiegato poi che i successivi e ripetuti accertamenti hanno poi escluso qualsiasi "traccia di radioattività". Inoltre, nel ripercorrere le tappe degli esami che hanno portato ad accertare come causa della morte l'aplasia midollare, ha sottolineato che in tutti gli organi della ragazza fu trovata anche "in quantitativi elevati una sostanza tossica, la piridina".
(ANSA il 18 settembre 2019) -I pm di Milano Tiziana Siciliano, Antonia Pavan e Luca Gaio hanno chiesto oggi l'archiviazione dell'inchiesta aperta per omicidio volontario sulla morte di Imane Fadil. Il procuratore aggiunto Siciliano, nella conferenza stampa, ha spiegato che c'è la "certezza" che la testimone del caso Ruby è morta per aplasia midollare. I pm hanno anche escluso responsabilità mediche. I familiari della modella stanno valutando di opporsi alla richiesta di archiviazione, come era già emerso.
«Fadil morta per malattia»: i pm chiedono l’archiviazione. Pubblicato mercoledì, 18 settembre 2019 Corriere.it. La consulenza medico-legale sulla morte di Imane Fadil «ha dato un esito piuttosto sicuro» su un decesso «per malattia», anche se restano ancora ignote «le cause che hanno generato la patologia, possono essere molteplici, da un’infezione ad altre». Lo ha spiegato il procuratore di Milano, Francesco Greco, chiarendo che mesi fa di fronte a vari allarmi sulla vicenda, tra cui la telefonata della giovane e gli esiti sulla presenza di metalli pesanti e radioattività, venne presa in considerazione anche l’ipotesi «dell’avvelenamento da cianuro». I pm di Milano Tiziana Siciliano, Antonia Pavan e Luca Gaglio hanno quindi chiesto mercoledì l’archiviazione dell’inchiesta aperta per omicidio volontario sulla morte di Imane Fadil. Il procuratore aggiunto Siciliano, nella conferenza stampa, ha spiegato che c’è la «certezza» che la testimone del caso Ruby è morta per aplasia midollare. I pm hanno anche escluso responsabilità mediche. «L’aplasia midollare associata a epatite acuta costituisce un’entità clinica estremamente rara e di estrema gravità in cui l’esito infausto è purtroppo frequente sia come conseguenza dell’insufficienza epatica che di quella emopoietica», scrive il pool medico legale nominato dai pm di Milano nella consulenza di 100 pagine. La malattia, ha ricordato il pm Gaglio, «uccide 50 persone all’anno in Italia e spesso ha un esito fatale». I medici parlano anche di «scelte terapeutiche» non «coerenti» alla diagnosi di aplasia che venne fatta all’Humanitas, ma escludono colpe mediche. Anche se le scelte terapeutiche degli ultimi giorni - scrivono i medici legali nella relazione finale - successive alla diagnosi formale di aplasia midollare (che venne fatta dai medici dell’Humanitas mentre Fadil era ricoverata, come spiegato oggi dai pm, ndr), non sono state coerenti con tale diagnosi, si deve considerare che qualunque corretta terapia immunosoppressiva, con o senza trapianto di midollo osseo, avrebbe richiesto molte settimane prima di poter modificare la storia clinica naturale di questa malattia». Per tali considerazioni, scrivono ancora, «non vi sono elementi indicativi di profili di colpa media», né «è ipotizzabile una responsabilità dell’equipaggio intervenuto a casa della ragazza qualche giorno prima del ricovero». La consulenza, firmata dalla nota anatomopatologa Cristina Cattaneo e anche dai medici legali Gaetano Iapichino, Domenico Di Candia, Biagio Leone, Alessandro Rambaldi e Francesco Scaglione, è stata depositata ai pm qualche giorno fa dopo mesi di complessi accertamenti iniziati con l’autopsia a fine marzo, dopo che era stata esclusa definitivamente la presenza di radioattività. I familiari della modella stanno valutando di opporsi alla richiesta di archiviazione. Il legale dei familiari della testimone del caso Ruby, l’avvocato Mirko Mazzali, ha fatto notare che dalla consulenza medico legale è emerso che «le scelte terapeutiche non sono state azzeccate»: «La consulenza ha sì escluso la colpa medica, ma questo fronte delle terapie deve essere approfondito e la famiglia farà di tutto per sapere come è morta Imane», ha spiegato. «È probabile che i familiari, che avevano già parlato di una nuova perizia da fare, si oppongano alla richiesta di archiviazione della Procura», conclude l’avvocato.
Crolla la fake news: Imane non è stata uccisa. I periti: «Nessun segno di cause non naturali». La famiglia chiede di approfondire. Luca Fazzo, Sabato 13/07/2019, su Il giornale. Accade. Accade che una ragazza con una storia fragile alle spalle si ritrovi in una ribalta planetaria di politica, pettegolezzi, processi. Accade che ne venga demolita. E accade che muoia, per caso, per natura, come normalmente si muore. Quella di Imane Fadil, bella ragazza marocchina, non è stata una vita normale. Ma la sua morte non è un giallo, non lo è più. Ci sono voluti mesi, ma la risposta è finalmente contenuta nelle carte che i consulenti della Procura di Milano hanno depositato al termine di un lungo lavoro, con le cautele dovute alla radioattività - che non c'era - e alle esigenze, che invece c'erano, di non lasciare nulla di inesplorato. La risposta dice che Imane Fadil non è stata assassinata. Sul tavolo del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano è arrivato il referto dell'equipe guidata dal più celebre dei medici legali italiani, Cristina Cattaneo: una Kay Scarpetta tricolore dall'autorevolezza inattaccabile. La Cattaneo e i suoi colleghi dicono che «non ci sono elementi a supporto di ipotesi di morte non naturale»: così alle 18 di ieri un lancio dell'Adnkronos chiude il giallo. Era, anche nella più spericolata delle ricostruzioni, un delitto senza movente: ammazzare Imane non aveva senso per nessuno, non serviva farla tacere perché sulle feste di Arcore aveva già detto tutto quello che sapeva e anche quello che non sapeva, come quando nella villa di Silvio Berlusconi raccontava di avere incontrato Satana. Eppure per oltre quattro mesi i retroscena più spericolati sul presunto assassinio della ragazza si sono affastellati senza posa. Ora il referto chiude tutto. «Lupus eritemato sistemico»: con questa diagnosi nella clinica Humanitas di Rozzano era stata catalogata la malattia della Fadil, ricoverata il 29 gennaio in condizioni già critiche e spirata l'1 marzo. È una malattia dai confini e dalle cause incerte, spesso confusa con altre. A lungo, la Procura ha tenuto aperta, insieme alla pista del delitto - e infatti l'inchiesta era ufficialmente aperta per omicidio volontario - anche l'ipotesi della colpa medica. Ora è possibile che anche questa sfumi, perché difficilmente si avrà mai la certezza che, anche se la patologia fosse stata individuata in anticipo, la giovane donna potesse venire salvata. Rimane quella registrazione, che il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Luca Gaglio hanno sentito e risentito più volte: «Mi hanno avvelenata». È l'ultimo grido di dolore di Imane, quando i medici le spiegano che nel suo sangue ci sono metalli pesanti che non dovrebbero esserci. Non si saprà mai come li abbia assorbiti, negli ultimi difficili mesi della sua vita, nel vagabondare precario e sempre più marginale. Ma una cosa è certa: non è stato quel concentrato di metalli a causare la sua morte. ''Alla famiglia interessa sapere come è morta. E allora se non c'è avvelenamento lo dicano ufficialmente, dicano come è morta, così almeno si potranno fare i funerali»: così Mirko Mazzali, legale di parte civile dei Fadil. È una morte che pesa. Ma è una morte senza colpevoli.
Giuseppe Guastella per corriere.it il 13 luglio 2019. Imane Fadil sarebbe morta per cause naturali, probabilmente per una malattia violenta e fulminante che l’ha consumata in poco più di un mese tra atroci sofferenze. A quasi cinque mesi dalla morte della ex modella marocchina di 34 anni, che era indicata tra i testimoni del processo Ruby ter a Silvio Berlusconi, i primi risultati ancora del tutto parziali della lunga autopsia escluderebbero l’ipotesi di un avvelenamento. Il lavoro dei periti nominati dai pubblici ministeri Luca Gaglio e Antonia Pavan, coordinati dall’aggiunto Tiziana Siciliano, cominciato il 16 marzo, è agli sgoccioli e dovrebbe concludersi la prossima settimana con il deposito delle conclusioni finali. Dovranno chiarire le cause del decesso della donna, che è avvenuto il primo marzo scorso nella clinica Humanitas di Rozzano dopo quasi un mese di ricovero durante il quale è stata sottoposta a innumerevoli esami che non sono riusciti a individuare una diagnosi precisa. Esclusa subito dopo la morte l’ipotesi che Imane Fadil sia stata uccisa da metalli radioattivi, un sospetto che aveva allarmato i magistrati al punto da rendere necessario l’intervento dei tecnici dei Vigili del fuoco e dell’Enea per schermare il corpo, i periti si sono concentrati su una malattia, forse una neoplasia, che potrebbe aver aggredito il midollo osseo e che potrebbe essere tra le cause principali del decesso. Un male che non era stato individuato nel ricovero. Cadrebbe quindi l’ipotesi di omicidio volontario con la quale la Procura di Milano aveva aperto un fascicolo di indagine contro ignoti, e di conseguenza anche quella di un avvelenamento, indotto o accidentale, che, peraltro, era stata bocciata dagli esami tossicologici eseguiti poco prima della morte dal Centro Antiveleni di Pavia. Gli ultimi dubbi restavano sulla presenza di alcuni metalli pesanti nei residui dei campioni di sangue e di urine, ma bisogna attendere le conclusioni per capire come essa sia stata spiegata, anche perché su questo ci sarebbero ancora alcuni punti controversi tra gli esperti. La notizia di un decesso per cause naturali non stupisce il legale dei familiari di Imane Fadil, l’avvocato Mirko Mazzali: «Non ne sono sorpreso. Ora la famiglia attende di conoscere le cause esatte della morte e capire se qualcosa poteva essere fatta per salvare la vita di Imane alla quale, dopo tanta attesa, vogliono dara una pietosa sepoltura».
Da Il Foglio il 13 luglio 2019. Imane Fadil non è stata avvelenata. "Non ci sono elementi a supporto di ipotesi di morte non naturale", è la conclusione - anticipata dall' agenzia Adnkronos (ma ancora prima dal buon senso) - dell' autopsia svolta dai consulenti della procura di Milano sul corpo della giovane donna, una delle testimoni del processo Ruby, deceduta lo scorso primo marzo all' ospedale Humanitas di Rozzano dopo un mese di agonia. A oltre cento giorni dal decesso, i consulenti spazzano via tutti i sospetti e la passione giallistica alimentati con gusto inebriato da una parte degli organi di informazione: "Non ci sarebbero risultanze indicative di avvenuto avvelenamento". Scartata fin da subito l'ipotesi di una morte legata a sostanze radioattive, infatti, gli esami si sono poi concentrati sulla presenza di metalli nel sangue. I consulenti hanno rilevato una concentrazione superiore alla norma, ma non ritenuta mortale e dunque non sufficiente a ipotizzarla come causa del decesso. Secondo i medici, dunque, non c' è nessun mistero sulla morte della povera Fadil. Solo una conclusione scientifica poteva mettere la parola fine a una vicenda segnata dall' impazzimento di alcuni quotidiani e di sbrigliatissimi politici (il giorno dopo la morte di Imane, la Repubblica di Carlo Verdelli titolò a caratteri cubitali: "La donna che sapeva troppo", mentre il Fatto con altrettanta attenzione a combattere la cultura del sospetto dedicò tutta la prima pagina alla tesi dell' avvelenamento). A sprezzo del ridicolo avevano tamburellato sul "mistero" di Fadil, dando praticamente per certo che fosse morta avvelenata e che a spiegare il movente potesse essere una persona sola: Silvio Berlusconi. Roba da matti o da ubriachi. Così, Repubblica dedicava pagine e pagine (un giorno addirittura quattro) alla "donna che sapeva troppo", sottolineando che "nessuno ha avuto pietà per l' Olgettina d' Italia", definendola pure "testimone chiave" del processo Ruby, anche se tale non lo era mai stata. Nel frattempo, Marco Travaglio, sul Vernacoliere quotidiano, paragonava il Cav. al Benito Mussolini dell' omicidio Matteotti, evocando le amicizie dell' ex premier con i russi, la massoneria, la mafia... E i rettiliani? Ora, a distanza di oltre quattro mesi, non resta in piedi nulla. Ovviamente. Resta soltanto una gigantesca farsa recitata sul corpo di una povera donna morta troppo giovane.
Pubblicato mercoledì, 04 settembre 2019 da Corriere.it. Non è stato il veleno né le radiazioni, come si era ipotizzato, ma una grave malattia a uccidere Imane Fadil, una delle testimoni chiave delle inchieste sul caso Ruby. La modella tunisina, di 34 anni, come accertato dall’autopsia è morta per una aplasia midollare della quale, comunque, sono ancora in corso di accertamento le cause esatte. È quanto è stato spiegato in Procura a Milano dagli inquirenti che mercoledì, dopo più di sei mesi dal decesso, hanno dato il nullaosta alla sepoltura. L’inchiesta, da quanto si è saputo, va verso l’archiviazione, perché oltre all’ipotesi di morte per un avvelenamento doloso sono state escluse anche responsabilità mediche. Come è stato spiegato, infatti, nell’inchiesta aperta per omicidio volontario sulla morte di Fadil, deceduta lo scorso 1 marzo all’Humanitas di Rozzano dopo una lunga agonia di oltre un mese, sono stati eseguiti in questi mesi dai medici legali, nominati dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e dai pm Luca Gaglio e Antonia Pavan, «tutti gli accertamenti possibili». Sono stati anche crioconservati i campioni di tessuti e organi raccolti, nel caso siano necessarie ulteriori analisi, e dunque oggi la Procura ha deciso di firmare il nulla osta per restituire la salma della modella marocchina ai familiari per il funerale. Nel frattempo, la relazione del pool degli esperti, guidato dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo, non è stata ancora depositata agli inquirenti, ma è emerso con certezza dalle complesse analisi andate avanti per mesi che la giovane è morta perché il midollo non riusciva più a produrre globuli rossi, ossia per un’aplasia midollare. I medici legali stanno ancora lavorando per capire, se sarà possibile, cosa abbia determinato questa aplasia e gli inquirenti hanno chiesto anche alcune integrazioni su questo punto. Il deposito della relazione è previsto per i prossimi giorni. Ciò che è certo, come era già emerso nelle scorse settimane, è che Fadil è morta per cause naturali, che non si è trattato di un avvelenamento doloso (inizialmente vennero anche rinvenute tracce di radiazioni nel sangue e nelle urine) e, da quanto è stato spiegato, non risultano nemmeno responsabilità mediche. Dunque, dopo il deposito della relazione finale sugli accertamenti autoptici i pm potrebbero decidere di chiedere l’archiviazione dell’indagine. «Vogliamo una risposta chiara, vogliamo capire bene come è morta, questa non è una risposta, non è possibile che in poco tempo se ne sia andata via così», è il commento di Tarek, fratello di Imane. «Col nullaosta alla sepoltura - ha aggiunto - faremo il nostro funerale, devo parlare ancora con la mia famiglia per capire come e dove, se qua in Italia o in Marocco». I familiari sono assistiti dai legali Mirko Mazzali e Nicola Quatrano.
Da Il Fatto Quotidiano il 4 settembre 2019. Imane Fadil, una delle testimoni chiave delle inchieste sul caso Ruby, è morta per una aplasia midollare della quale, comunque, sono ancora in corso di accertamento le cause esatte. È quanto è stato spiegato in Procura a Milano dagli inquirenti che proprio oggi, dopo più di sei mesi dal decesso, hanno dato il nullaosta alla sepoltura. L’inchiesta, da quanto si è saputo, va verso l’archiviazione perché oltre all’ipotesi di morte per un avvelenamento doloso sono state escluse anche responsabilità mediche. La malattia, stando alla scheda della Ail (Associazione italiana contro le leucemie), si distingue in due forme: acquisita (80%) e congenita (20%). Nel primo caso “si operano altre due distinzioni a seconda dell’origine della malattia: idiopatica quando le cause sono ignote (80% dei casi), secondaria quando invece queste sono note (20%). Per quanto riguarda la seconda origine “si origina a seguito di reazioni di ipersensibilità a farmaci o a seguito di esposizione ad agenti chimici, radiazioni ionizzanti ma anche, occasionalmente, a virus. Nel caso dei farmaci si è visto che le eventuali reazioni possono avvenire anche a distanza di diversi anni dall’esposizione primaria”. La modella era deceduta lo scorso 1 marzo all’ospedale Humanitas di Rozzano. La procura di Milano, lo scoros aprile, aveva concesso una proroga di tre mesi ai consulenti, guidati dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo, incaricata col suo pool dal procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e dai pm Luca Gaglio e Antonia Pavan di chiarire perché è morta. Tra le ipotesi al vaglio c’erano l’avvelenamento per intossicazione da metalli o la morte naturale per una malattia fulminante. A fine marzo erano o iniziati gli accertamenti degli esperti sul cadavere della giovane dopo che esami più approfonditi avevano escluso la presenza di radioattività negli organi della modella, radiazioni che erano state, invece, rilevate in analisi sulle urine e sul sangue. Il quesito, a cui gli esperti nominati dalla procura dovevano rispondere nell’inchiesta che era stata aperta per omicidio volontario, prendeva in considerazione ogni aspetto: perché era stata trovata una massiccia concentrazione di cadmio, antimonio e cromo). Si era ipotizzata anche una forma rarissima di aplasia midollare) come confermato oggi. Come è stato spiegato sono stati eseguiti in questi mesi dai medici legali, “tutti gli accertamenti possibili”. Sono stati anche crioconservati i campioni di tessuti e organi raccolti, nel caso siano necessarie ulteriori analisi, e dunque la Procura ha deciso di firmare il via libera per restituire la salma della modella marocchina ai familiari per il funerale. Nel frattempo, la relazione del pool degli esperti, guidato dall’anatomopatologa Cristina Cattaneo, non è stata ancora depositata agli inquirenti, ma è emerso con certezza dalle complesse analisi andate avanti per mesi che la giovane è morta perché il midollo non riusciva più a produrre globuli rossi. I medici legali stanno ancora lavorando per capire, se sarà possibile, cosa abbia determinato questa aplasia e gli inquirenti hanno chiesto anche alcune integrazioni su questo punto. Il deposito della relazione è previsto per i prossimi giorni.
Marina Berlusconi: «Il caso Imane Fadil e quella cultura dell’allusione che ci avvelena». Pubblicato giovedì, 05 settembre 2019 da Marina Berlusconi su Corriere.it. Non c’è alcun elemento che faccia sospettare che Imane Fadil sia stata uccisa volontariamente da qualcuno. La marocchina testimone nei processi Ruby è morta a 34 anni dopo un mese di sofferenze per aplasia midollare, una malattia che blocca la produzione di piastrine, globuli rossi e globuli bianchi. A sei mesi dal decesso, i risultati ufficiali dell’autopsia non sono stati ancora consegnati alla Procura di Milano, che ha aperto un’indagine per omicidio ipotizzando che Fadil potesse essere stata avvelenata, come lei aveva detto di sospettare in ospedale, dove i medici hanno fatto di tutto per salvarla. Certi della causa della morte, i periti non sono in grado di stabilire cosa abbia scatenato la malattia. «Sono stati fatti tutti gli accertamenti possibili», spiegano in Procura, dove i pm guidati dall’aggiunto Tiziana Siciliano stanno per chiedere l’archiviazione del caso. Ieri hanno firmato il nullaosta alla restituzione della salma alla famiglia che, però, chiede una «risposta chiara». Quella che segue è una lettera di Marina Berlusconi, presidente di Fininvest e di Mondadori. (Giuseppe Guastella)
Caro Direttore, ora che l’evidenza dei fatti impone a tutti di tornare alla razionalità, una riflessione relativa al modo in cui la terribile vicenda della morte di Imane Fadil è stata gestita credo sia giusto farla. Non solo su ruolo e obiettività dell’informazione, ma anche, più in generale, sulla cultura dell’allusione e della calunnia e su quanto tutto questo intossichi la vita democratica del nostro Paese. Flagello non nuovo, purtroppo, la cui gravità mi pare troppo spesso sottovalutata. Così come non è una novità il fatto che da 25 anni una delle vittime principali, se non la principale, di questi meccanismi avvelenati sia proprio mio padre. Ma quello cui abbiamo assistito per lunghi mesi credo sia andato ben oltre. Stavolta c’era di mezzo la morte di un essere umano, di una ragazza dalla vita complicata che ha fatto una fine atroce. Di fronte alla quale non si sarebbe dovuto provare altro che rispetto e umana pietà. E invece il suo dramma è stato vergognosamente usato con una spregiudicatezza e un disprezzo della verità dei fatti che fanno rabbrividire. Provo a riepilogare lo svolgimento di un copione che sembra scritto con diabolica abilità. Sullo sfondo il processo Ruby, storia più attenta alle morbosità da voyeur che alla realtà giudiziaria. Un processo costruito sul nulla, finito infatti con un’assoluzione piena per mio padre. Ma intanto questa farsa ha condizionato pesantemente la vita politica del Paese e da dieci anni si tenta di moltiplicarla, in una costante ricerca di nuovi filoni che prolunghino all’infinito la gogna. In tutto questo irrompe, era lo scorso marzo, la morte «misteriosa» di Imane Fadil: una «teste chiave» la quale peraltro aveva già detto tutto quello che riteneva di dover dire (e sulle sue dichiarazioni proprio per rispetto sorvolo). Il sospetto autorevolmente avanzato è che sia stata avvelenata, e addirittura con sostanze radioattive. Chi è stato, se c’è stato, il regista di questo copione? In ogni caso, una volta messo a punto, una parte dell’informazione — per riflesso pavloviano certuni, per precisa scelta di strumentalizzazione altri — si attiva con grande zelo per additare il protagonista occulto: mio padre, ovviamente. Perché è vero che non c’è un reato ma solo un’ipotesi. È vero che non c’è un movente. È vero dunque che non può esserci un sospettato. E poi, l’ideologia acceca sì, ma qualunque persona sana di mente farebbe fatica a immaginare un killer assoldato ad Arcore che gira per Milano con nella valigetta sostanze capaci di annientare mezza città e tutto questo per eliminare una ragazza indifesa. È tutto vero. Però... E qui scatta il consueto, perverso meccanismo, l’escamotage infallibile che consente di lanciare, nascondendo la mano, le calunnie più inverosimili: il «ragionamento politico», l’analisi del «contesto», la riflessione sullo «scenario». Tradotto: se di delitto si tratta, è chiaro che Silvio Berlusconi non c’entra, figurarsi. Però... una superteste a suo carico muore in quel modo ufficialmente sospetto... Però... magari qualcuno potrebbe avergli voluto fare un favore, oppure tendergli una trappola... Del resto, con le sue frequentazioni... E via a tutto l’indecente campionario di fango che ci sentiamo sciorinare da decenni, con il pretesto di una sorta di responsabilità morale tanto assurda che neppure i tribunali staliniani credo avrebbero mai avuto il coraggio di sostenere. Con assoluto sprezzo dell’intelligenza altrui, non ci si è vergognati neppure di fare un parallelo con il delitto Matteotti (il delitto Matteotti... Ma ci rendiamo conto della grottesca enormità?). Ora, dopo un’attesa che pareva infinita, le agenzie informano che secondo gli esami clinici Imane Fadil è morta per cause naturali. Fine del caso. Fine del mistero. Qualche sbrigativo articolo, e avanti il prossimo. Eh no, troppo facile. Certo, mio padre ha le spalle più che larghe, e di fronte a tutte le infamie con cui da 25 anni cercano di sommergerlo ha sempre reagito con un coraggio, una lucidità, una tenacia che non finiscono di sorprendere. Ma chi lo ripagherà di quel che in questa storia di consapevole follia gli è stato gettato addosso? Delle paginate sui giornali, anche stranieri, dei servizi su tg, radio, web, di quei talk show che con accanimento morboso per mesi hanno vivisezionato il caso? Qualcuno mai farà mea culpa per questi metodi da sciacalli? Faccio fatica ad essere ottimista, e ne faccio ancora di più se guardo a quel che il Paese si appresta a vivere. Non mi pare di cogliere grandi sintomi di guarigione, anzi tutt’altro, da questa cultura dell’insinuare, del calunniare nascondendosi dietro un condizionale, dello sporcare in nome dei sacri principi. È una cultura malata che certa politica, certa ideologia istigano e cavalcano, senza preoccuparsi del fatto che sempre più spesso il Grande Inquisitore può in un attimo vedersi trasformato nel Grande Inquisito. Ma — quel che è ancora più grave — è una cultura che mina alle fondamenta valori come garantismo, giustizia, verità, valori su cui poggia ogni vera democrazia.
Gianni Barbacetto e Maddalena Oliva per “il Fatto quotidiano” il 18 ottobre 2019. La famiglia non accetta di chiudere per sempre la vicenda della morte di Imane Fadil. E fa opposizione alla Procura di Milano che il 18 settembre ha chiesto l'archiviazione dell'inchiesta aperta dopo che la ragazza si era spenta, per motivi non chiari, il 1 marzo 2019 all' ospedale Humanitas di Rozzano. L'indagine, per omicidio, aveva ipotizzato anche un avvelenamento, ma dopo una perizia tecnica medico-legale aveva concluso che la morte fosse sopraggiunta per una malattia rara, l'aplasia midollare, di cui restano però sconosciute le cause. Alla Procura che sostiene che non c'è stato il tempo affinché "le cure appropriate potessero funzionare", gli avvocati della famiglia, Mirko Mazzali e Nicola Quatrano, con il loro consulente medico Michelangelo Casati, chiedono perché la diagnosi sia arrivata così tardi: una terapia immunosoppressiva, infatti, se fatta per tempo, avrebbe potuto salvare Imane, come salva l'80 per cento dei malati giovani di aplasia midollare. La richiesta di archiviazione della Procura esclude l'avvelenamento, ma anche la "colpa medica" da parte dei sanitari che hanno avuto in cura Imane: "La morte è dovuta a cause naturali", per un male "la cui causa non risulta in alcun modo riferibile a comportamenti dolosi o colposi altrui", né del "personale medico e paramedico dell' Humanitas" per cure sbagliate o insufficienti. La famiglia ritiene invece che ci siano tante domande rimaste senza risposta. La morte è arrivata relativamente improvvisa e inaspettata. Alla 4 di notte del 1 marzo, l'infermiera di turno, Francesca Napoleone, è stata chiamata da Imane, che ha poi detto di sentirsi meglio. Ma dopo circa un'ora e mezzo, la stessa infermiera è tornata dalla paziente per prelievi di routine e ne ha constatato la morte. Imane era completamente girata nel letto, come se avesse avuto una crisi convulsiva, e si era morsa la lingua, con un abbondante sanguinamento. La morte improvvisa e non prevista potrebbe essere segno di scarsa diligenza e perizia da parte dei medici. La "emorragia gastroesofagea in aplasia midollare" avrebbe potuto forse essere prevista ed evitata. Negli organi, nel sangue e nell'urina della ragazza sono state trovare tracce di piridina, una sostanza altamente tossica. I pm la spiegano come residuo di un farmaco. Ma non hanno verificato se potesse essere invece l'effetto di un farmaco degradato. I periti della Procura hanno esaminato la presenza di metalli pesanti nel corpo della ragazza: tramadolo, nichel, cromo e altri. Hanno concluso che nessuno di essi, da solo, avrebbe potuto provocare l'avvelenamento mortale. Ma non hanno valutato gli effetti della presenza contemporanea di tante sostanze anomale, comunque in quantità non proprio irrilevanti. E che fine hanno fatto i raggi alpha e gamma trovati nei campioni di sangue e urina il 12 febbraio 2019 dal dipartimento di Fisica dell' Università di Milano? Solo molto più tardi - il 15 marzo 2019 - sono state effettuate altre rilevazioni nell' abitazione e sugli effetti personali di Imane, che hanno escluso la presenza di radioattività. I periti della Procura hanno affermato che esistono "decine di migliaia" di elementi tossici che possono portare alla morte: ma poi ne hanno esaminato solo una piccolissima parte. E non hanno neppure posto il problema di una possibile colpa professionale dei medici che hanno visitato Imane a casa sua il 24 gennaio 2019, senza ordinare il ricovero. Per questo la famiglia chiede l' accertamento dell' effettiva presenza di piridina in uno dei farmaci somministrato a Imane; la verifica dell' ipotesi che quella sostanza sia stata rilasciata per degradazione del farmaco; la valutazione del perché tanti elementi tossici, e in dosi così elevate, fossero presenti nella ragazza; l' allargamento della ricerca ad altre possibili cause di avvelenamento, anche in centri esteri specializzati; l' accertamento se fosse prevedibile ed evitabile l' emorragia che ha determinato la morte. E domanda: perché la diagnosi non è arrivata prima, quando le cure avrebbero potuto salvare Imane?
Il giudice: giusto insultare Ruby. Insultare Ruby non è reato. Neppure se le frasi sono «scurrili» e «volgari». Lo ha stabilito il Tribunale di Genova, che ha prosciolto 178 persone dall’accusa di aver diffamato Karima El Marough con pesanti post pubblicati sui social, scrive Errico Novi il 20 Marzo 2019 su Il Dubbio. Non si vuol dubitare, per carità, che dietro il profluvio di articoli su Imane Fadil ci fosse anche la pietà per la tragedia. Non si vuole insinuare il sospetto di una cinica ed esclusiva ossessione antiberlusconiana, nel mirabile impegno che i media dedicano in queste ore ai dettagli dell’indagine sulla morte della donna. Non si vuol mettere in discussione questo. O un po’ forse sì. Perché se davvero nel sistema dell’informazione ci fossero solo anime pie pronte a commuoversi per la sciagura di un’ex modella morta dopo un mese di agonia, forse forse si dovrebbe anche scrivere qualcosa sul fatto che a Genova un giudice ha deciso di archiviare il procedimento aperto nei confronti di centinaia di persone indagate per aver offeso sui social Karima El Marough, conosciuta come Ruby, e che dunque, secondo il magistrato, riempire una donna di umilianti volgarità non è reato. E sì, perché la notizia sui giornali di ieri era introvabile. Eppure, magari solo per associazione di idee, per una mera forza d’inerzia nella costruzione dell’agenda setting, si poteva anche dare peso a un fatto di cronaca giudiziaria riferito invece solo dall’edizione genovese di Repubblica. Con l’ordinanza depositata due giorni fa il gup del Tribunale di Genova Riccardo Ghio ha respinto l’atto con cui Karima si era opposta all’archiviazione dell’indagine aperta già da due anni, dopo i suoi esposti, nei confronti di 178 persone, che a partire dal 2011 l’hanno tempestata di commenti social definiti «scurrili» e «volgari» dallo stesso magistrato. In alcuni casi si trattava di risposte ignobili ai tentativi di Karima di difendere, con i suoi post, la propria dignità. I più violenti arrivavano quando la ragazza osava scrivere su Facebook di non essere una prostituta. Oscenità da suburbio postate anche da professionisti, che però il gup ha considerato espressione di un pubblico dibattito, e anzi della «profonda indignazione per la manipolazione e la negazione di condotte giudizialmente accertate». Non doveva osare difendersi, Karima. Un’ordinanza molto discutibile contro cui, nel merito, non è possibile alcuna ulteriore impugnazione. Interpellato dal Dubbio, il difensore della donna, Salvatore Bottiglieri, si limita a dire: «Valuteremo azioni civili contro questi signori che hanno pubblicato frasi pesanti e offensive. Nessuno può permettersi di offendere la dignità di una persona». In effetti sembrava un principio difficile da negare. «Non è accettabile», aggiunge l’avvocato, «che quelle frasi siano ricondotte al diritto di critica». Perché secondo il gup di Genova siamo appunto di fronte al semplice esercizio del «diritto di critica». Tra l’altro, la sentenza a cui fa riferimento il giudice di Genova è stata riformata dalla Cassazione, che ha assolto Silvio Berlusconi. Secondo la Suprema corte, nel rapporto tra l’ex premier e Karima non può esserci un’attività di prostituzione in senso proprio, dal momento che all’epoca dei fatti non era nota la minore età della ragazza ed è per questo caduta l’accusa di prostituzione minorile. Ma anche al di là di un simile dettaglio, andrebbe ricordato il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui anche dinanzi a fatti veri non si possono divulgare altri aspetti inerenti quelle vicende che possano assumere una residua valenza offensiva, perché altrimenti la diffamazione sussiste comunque. È in altre parole quell’obbligo di continenza a cui gli stessi giornalisti dovrebbero attenersi, ma che a questo punto sui social appare sdoganato, quanto meno se si tratta di donne che hanno avuto a che fare con Berlusconi. Nello specifico l’uragano di oscenità scaraventate addosso a Ruby ha avuto proporzioni pazzesche considerato che a postare offese sono state diverse migliaia di haters: gli indagati appena prosciolti erano “solo” 178 perché i loro sono gli unici profili dall’identità accertata. Ancora, a proposito del «diritto di critica» viene, tra l’altro, da chiedersi: prostituirsi è cosa criticabile? E chi lo ha stabilito? E quale norma sancisce la licenza di biasimare, con parole «scurrili», chi si prostituisce? Con questa decisione del Tribunale di Genova sembra riproporsi un caso del tutto analogo a quelli che hanno riempito le pagine dei giornali nelle ultime settimane, relativi alle sentenze su violenze di genere “attenuate” da «tempeste emotive» o «discontrollo di impulsi». Ma non è questo il punto. Il discorso è che se in base a un’ordinanza «offendere volgarmente Ruby non è reato», si è di fronte a una notizia. E forse gli organi di informazione in grado di seguire in modo capillare la cronaca giudiziaria potevano dedicare un po’ di spazio alla ragazza. Qualche rigo in più sarebbe stato lecito attendersi dalla stessa Repubblica, che ha dato più di tutti spazio alla tragedia di Imane Fadil e ai sospetti di un suo avvelenamento riconducibile a Berlusconi. Verrebbe da dire che queste ragazze, la povera Imane e la stessa Ruby, siano state “usate” innanzitutto dal sistema mediatico. Trattate appunto come oggetti, neppure a pagamento. Rappresentate nella tragedia o nello squallore della loro esistenza finché serve a distruggere l’immagine del solito Berlusconi. Ignorate se le ricoprono di insulti osceni e un giudice decide che è giusto. Che è diritto di critica.
Ruby "IO E IMANE ERAVAMO SIMILI: VOLEVAMO SOLO UN' ALTRA VITA", scrive Ferruccio Sansa per il “Fatto quotidiano” il 19 marzo 2019. "Povera Imane, provo pena per lei. Che fine terribile!". Ma voi due vi conoscevate? "No, non ricordo di averla conosciuta personalmente. Mi sembra una storia surreale, non voglio contribuire alla spettacolarizzazione della notizia. Spero che si faccia chiarezza su quello che è successo". Non chiamatela più Ruby, ormai è soltanto Karima El Mahroug. La ragazza cui sono state appese le sorti del governo Berlusconi e dell' Italia oggi giura di avere soprattutto un desiderio: "Lasciarsi tutto alle spalle, vivere con il mio compagno e mia figlia". Forse per questo, come ha confidato al compagno Daniele Leo, la morte di Imane Fadil l' ha colpita. Non si erano incontrate, la modella morta l' aveva confermato, ma c' era un filo che legava le due donne: non soltanto l' origine marocchina, e l' abbaglio delle luci di Arcore, ma il desiderio di voltare pagina. Di non essere per sempre associate a Silvio Berlusconi e a quella parola che Karima non vuole sentire: Bunga Bunga. Oggi la vita di questa donna di 27 anni pare agli antipodi di quella della ragazzina piombata alla corte dell' uomo più potente d' Italia. Basta guardare la sua nuova casa: un appartamento defilato ad Albaro, il quartiere più borghese di Genova. Dall' altra parte della strada vivono armatori dai cognomi illustri, mentre a pochi passi abita Maurizio Crozza. Un silenzioso viale di platani, in una città che ha fatto della riservatezza un simbolo. Un' altra donna, giura lei, un' altra Karima. Dopo che il suo soprannome era diventato famoso in tutto il mondo. Dopo che lei si era sposata con Luca Risso, il gestore di locali che nelle sere roventi del 2010 la ospitava quando era impegnata con gli avvocati a ricostruire ciò che accadeva alle "cene eleganti". Poi anni di irrequietezza, Karima che cercava di scacciare Ruby, ma la giovane con le labbra rosse non ne voleva sapere di scomparire. Genova, poi il Messico e le voci (sempre smentite) di chi parlava di un accordo con Berlusconi. Quindi di nuovo la Liguria. Infine l' incontro con Daniele - che divide il suo lavoro tra locali e palestre liguri - e la promessa di una nuova vita. L' opposto di quella che l' aveva portata sulle prime pagine di tutti i giornali. "Ma quella non è?", si chiedono oggi gli inquilini del palazzo di fronte alla stazione Brignole, quando ogni mattina incontrano Karima che va a prendere il caffè dalla nonna del compagno. Sì, è proprio lei, dalla villa di Arcore a questo appartamento affacciato sulla stazione: "Nonna - si lascia andare l' ex Ruby - qui mi sento a casa. Io ho sempre avuto bisogno di una famiglia". Poi eccola che accompagna la bambina a scuola. Ma no, non è così facile voltare pagina. Ci sono i processi che ti seguono. Non solo quelli che portano l' antico nome: l' ultimo è il Ruby Ter. Proprio ieri a Genova si discuteva la querela presentata da Karima e dal suo avvocato Salvatore Bottiglieri contro 178 persone accusate di diffamazione. "Avevano scritto dei commenti irripetibili sui social", spiega Daniele. Aggiunge: "Insulti, minacce di morte. Voi non potete capire cosa si prova quando dicono queste cose alle persone che ami". Ma il giudice ieri ha deciso per l' archiviazione. Intanto ogni mattina la puoi incontrare: il parrucchiere, poi sempre lo stesso bar nel centro di Genova. Come una ragazza qualunque. Ma dura poco: "Voi giornalisti mi cercate soltanto per parlare di Berlusconi. Non vi interessa niente che io vi racconti la mia nuova vita, le attività che sto cercando di mettere in piedi. Io sono diventata una persona diversa, ho il diritto di non essere cercata solo per parlare del passato", si è sempre sfogata con il cronista che la avvicinava. Niente trucco, vestiti scuri, mentre con la mano sfoglia un' agendina. Voltare pagina, però, non è così facile. Spunta sempre qualcuno che sussurra: "Ma quella non è?".
Morte Imane Fadil, Silvio Berlusconi rompe il silenzio: "Mi spiace, ma...". Parole pesantissime, scrive il 16 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Dopo la morte misteriosa di Imane Fadil e dopo il diluvio di articoli e servizi in cui è stato fatto il suo nome, Silvio Berlusconi rompe il silenzio: "Spiace che muoiasempre qualcuno di giovane. Non ho mai conosciuto questa persona e non le ho mai parlato". Così il leader di Forza Italia a chi lo ha interpellato sulla questione a Melfi, provincia di Potenza, dove si trova per la campagna elettorale in vista delle elezioni regionali. Poche parole, ma chiare, quelle rivolte da Berlusconi sul caso Fadil, testimone nel processo Ruby Ter sulle cene di Arcore. La ragazza è morta lo scorso primo marzo per avvelenamento dovuto a quello che è stato individuato come un mix di sostanze radioattive: la procura di Milano, che chiede il massimo riserbo, indaga per omicidio colposo. Le parole di Berlusconi, però, cozzano con quanto detto da Emilio Fede in un'intervista al Fatto Quotidiano: "La conoscevo, le volevo bene. Era una brava ragazza con dei problemi economici, la sua famiglia era povera. Un paio di volte le ho pagato il taxi da piazzale Loreto a casa, mi auguro con tutto il cuore che si chiarisca la vicenda". Anche Lele Mora ha affermato di averla portata ad Arcore, pur aggiungendo che la Fadil "non è mai rimasta sola un minuto con Berlusconi".
Silvio Berlusconi: «Non ho mai conosciuto Imane Fadil». Il leader di Forza Italia dice di non aver mai neppure «parlato» con la ragazza marocchina morta a Milano, scriv eil 16 Marzo 2019 il dubbio. «Non ho mai conosciuto questa persona e non le ho mai parlato». Silvio Berlusconi risponde così a chi gli chiede un commento sulla scomparsa di Imane Fadil, 34enne modella marocchina, testimone chiave del processo Ruby. «Spiace sempre che muoia qualcuno di giovane», aggiunge il leader di Forza Italia. «Quello che ho letto delle sue dichiarazioni mi ha sempre fatto pensare che possano essere tutte cose inventate e assurde», chiosa Berlusconi. Chi però ricorda benissimo la ragazza è Emilio Fede, spesso presente alle cene organizzate ad Arcore. «La conoscevo, le volevo bene. Era una brava ragazza con dei problemi economici, la sua famiglia era povera», racconta al Fatto quotidiano l’ex direttore del Tg4. «Un paio di volte le ho pagato il taxi da piazzale Loreto a casa, mi auguro con tutto il cuore che si chiarisca la vicenda». Su quanto riferito dalla modella in merito alle famose «cene eleganti», Emilio Fede taglia corto: «Ma le pare possibile quello che ha raccontato? Recentemente ha pure detto che alle cene si faceva magia nera, ma lasciamo perdere». Quanto all’ipotesi di avvelenamento, secondo il giornalista «se fosse vero sarebbe un orrore, un fatto enorme. Francamente, le dico, non ci credo. Non penso che fosse depositaria di tali segreti da spingere qualcuno a ucciderla. Chi ha frequentato di più Arcore è un signore ancora vivo che si chiama Emilio Fede. Io sono stato allontanato da Mediaset in quattro e quattro otto, senza neppure la liquidazione. Se avessero avuto problemi il testimone potevo essere io. E lo sono…», conclude.
Imane Fadil, Silvio Berlusconi e lo sfogo disperato: "Vi giuro, non la ricordo". L'ombra del complotto, scrive il 19 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Sulla morte di Imane Fadil grava l'ombra della strumentalizzazione politica contro Silvio Berlusconi. È lo stesso Cavaliere, a cena con l'amico Denis Verdini, a sfogarsi secondo quanto riporta Augusto Minzolini in un doloroso retroscena sul Giornale. "Sono dispiaciuto per la morte di quella ragazza. Anche se davvero tra le tante persone che sono venute ad Arcore non la ricordo. E mi amareggiano anche le strumentalizzazioni che stanno facendo di questa tragedia". I misteri sulla tragedia della modella marocchina morta forse per avvelenamento sono fitti, ma non per certa stampa che sta creando il clima culturale e politico necessario alla più grande macchina del fango mai pensata per colpire il Cav, che pure ne ha viste di ogni colore: addebitargli il conto del presunto omicidio. "Vogliono riportarci indietro - spiega Sestino Giacomoni, consigliere del Cav -. Ora che il governo mostra i suoi limiti e che con un Pd, orientato a sinistra, l'unica risposta siamo noi. Quel grido di allarme del Presidente a quella parte del Paese rincoglionito, si sta facendo largo. Il primo a capirlo dovrebbe essere Salvini che senza di noi non rappresenterà mai l'Italia moderata, sempre che voglia smettere di giocare e puntare a Palazzo Chigi".
Imane Fadil, Lele Mora choc: "Triste e insignificante. Credo che quella ragazza...", scrive il 16 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Dopo la morte di Imane Fadil, le pesantissime parole di Lele Mora, che all'epoca delle cene ad Arcore a casa di Silvio Berlusconi aveva conosciuto la ragazza. E l'ex talent scout, alla Fadil, riserva commenti da brividi, pesantissimi: "Ricordo una ragazza triste, che deve avere avuto un sacco di problemi, cercava una strada per il successo, ma era davvero insignificante e non ebbe nessuna fortuna", afferma in relazione alla testimone scomparsa del processo Ruby. E ancora: "Fui io a portarla ad una delle cene di Arcore. Una sera che il presidente mi chiamò e mi invitò, non volevo andare da solo e contattai quella povera ragazza che avevo conosciuto poco tempo prima tramite un dj marocchino - rivela Mora -, credo che ci tornò solo un'altra volta ed escludo sia rimasta mai sola anche per un secondo con Berlusconi". Lele Mora aggiunge poi di non aver più visto la ragazza dai giorni del processo: "Non posso che essere molto dispiaciuto e rammaricato per la sua fine - ha premesso - ma non potrei dare nessuna spiegazione su quel che le è accaduto, non ne ho più sentito parlare". Infine, l'ex agente esclude in modo categorico che la Fadil potesse essere in possesso di foto o documenti compromettenti: "Lei è stata ad Arcore solo due volte - ha ripetuto - e io, che sono stato ospite del presidente dal 1985 al 2011, posso ribadire che in tanti anni non ho mai visto foto o altro di compromettente relativo a quelle serate", ha concluso Mora.
«Favoreggiamento della prostituzione»: Fede e Minetti condannati in Cassazione. Pubblicato giovedì, 11 aprile 2019 da Giuseppe Guastella su Corriere.it. Condanne confermate in via definitiva per Emilio Fede e Nicole Minetti nel processo «Ruby bis». La quarta sezione penale della Cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi dei due imputati contro la sentenza d’appello bis pronunciata dai giudici milanesi il 7 maggio dello scorso anno. Per l’ex direttore del Tg4, accusato di tentata induzione e favoreggiamento della prostituzione, la condanna definitiva è pari a 4 anni e 7 mesi di reclusione. Per l’ex consigliera regionale della Lombardia, Minetti, sotto processo per favoreggiamento della prostituzione, la pena definitiva è di 2 anni e 10 mesi. Anche il sostituto pg Pina Casella, nella sua requisitoria, aveva sollecitato la conferma delle condanne. «La mantenuta non fornisce prestazioni sessuali dietro compenso, ma lo fa nell’ambito di un rapporto consolidato e correttamente la Corte d’appello, nel processo bis, ha qualificato come attività prostitutiva quella che si svolgeva ad Arcore e tanto basta per escludere che le ragazze fossero delle mantenute, dato che al massimo si può parlare di “favorite di turno”». Questo uno dei passaggi della requisitoria del pg Casella, che ha così ha respinto la tesi difensiva di Fede accusato di favoreggiamento della prostituzione e tentativo di induzione. Secondo il magistrato, in maniera «congrua» Fede è stato ritenuto «il garante delle serate di Arcore e il punto di riferimento per tutto quanto ruotava attorno al format di queste serate» e la Minetti era la «indispensabile cerniera tra Berlusconi e le ragazze a lui destinate». «Le dichiarazioni di Imane Fadil sono pienamente attendibili e la veridicità delle sue dichiarazioni sulle serate di Arcore sono ampiamente confermate dai riscontri di Chiara Danese e Ambra Battilama e da intercettazioni telefoniche». Lo ha detto il pg, parlando della ex modella marocchina di 34 anni, morta recentemente in circostanze misteriose. «Fede le aveva prospettato le serate di Arcore conoscendo le difficoltà economiche della ragazza e le aveva fatto pressioni per farle passare la notte con Berlusconi».
Condannati Fede e Minetti: «Favorirono la prostituzione». La Cassazione dichiara inammissibili i ricorsi: 4 anni e 7 mesi per l’ex direttore del tg4 e 2 anni e 10 mesi per l’ex consigliera regionale, scrive Simona Musco il 12 Aprile 2019 su Il Dubbio. Confermata la condanna a 4 anni e 7 mesi per Emilio Fede e quella a 2 anni e 10 mesi per Nicole Minetti per favoreggiamento della prostituzione. La Cassazione ha dichiarato inammissibili i ricorsi dei due imputati al processo Ruby bis, accogliendo la richiesta del sostituto procuratore generale Giuseppina Casella, secondo cui quella che si svolgeva ad Arcore era «attività di prostituzione». Secondo Casella, «correttamente la Corte di merito ha qualificato come attività di prostituzione quella che si svolgeva ad Arcore» e «tanto basta per escludere che si trattasse di mantenute, ma al massimo di “favorite di turno”». Il pg ha inoltre definito «manifestamente infondata» la questione di legittimità che la difesa di Fede ha riproposto nel suo ricorso in Cassazione relativamente alla legge Merlin ( di recente sottoposta all’esame della Consulta che ne ha ribadito la legittimità) e i reati di induzione e favoreggiamento della prostituzione. «Ampiamente riscontrata», inoltre, la «veridicità di Imane Fadil», la testimone- chiave del caso Ruby, sulla cui morte, avvenuta a inizio marzo, la cui morte, è stato aperto un fascicolo dalla procura di Milano. Le sue dichiarazioni, ha affermato Casella, «trovano riscontro in quelle delle altre ragazze e nelle intercettazioni telefoniche». In primo grado, nel luglio 2013, il tribunale di Milano aveva condannato a 7 anni Fede e Lele Mora, mentre alla Minetti erano stati inflitti 5 anni. Condanne ridotte in appello il 13 novembre 2014, quando a Mora vennero inflitti sei anni e un mese di carcere. L’ex agente dello spettacolo non impugnò la sentenza di condanna, passata dunque in giudicato. Fede e Minetti, invece, nel 2015 presentarono ricorso in Cassazione e la Suprema Corte, rilevando alcune lacune motivazionali, annullò la sentenza d’appello disponendo un nuovo processo. La Corte d’appello di Milano, in sede di rinvio, assolvendo i due imputati da alcuni episodi di reato che erano stati loro contestati, abbassò le pene. SI. MU.
Ruby bis, Cassazione conferma condanna per Fede e Minetti. Per il giornalista ipotesi domiciliari. Sentenza definitiva sulle cene eleganti di Arcore. La procura generale: "Riscontrata veridicità affermazioni di Imane Fadil". Fede: "Chi può credere che io abbia fatto prostituire ragazze con Berlusconi?". Minetti potrà chiedere subito l'affidamento in prova, scrive l'11 aprile 2019 La Repubblica. La Cassazione ha confermato la condanna a 4 anni e 7 mesi di reclusione per l'ex direttore del Tg4 Emilio Fede e a 2 anni e 10 mesi per l'ex consigliera lombarda Nicole Minetti nel processo Ruby Bis, dichiarando inammissibili i ricorsi delle difese. La sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Milano il 7 maggio 2018 per il reati di favoreggiamento della prostituzione (e per Fede anche di tentativo di induzione) per le serate nella villa di Silvio Berlusconi ad Arcore diventa, così, definitiva. Fede, che ha 86 anni, dovrebbe scontare la prima parte della pena, alcuni mesi, in detenzione domiciliare, e non in carcere, per poi poter chiedere l'affidamento in prova ai servizi sociali, mentre Nicole Minetti, condannata ad una pena inferiore ai 4 anni, potrà da subito chiedere l'affidamento in prova. Per legge, infatti, per l'ex direttore del Tg4, dovrebbe scattare l'ordine di carcerazione, visto che la pena supera i 4 anni. Ordine che, tuttavia, può essere sospeso dagli stessi magistrati, dando 30 giorni di tempo alla difesa di Fede per chiedere la detenzione domiciliare come ultrasettantenne (ha 87 anni). Il favoreggiamento della prostituzione non è un reato ostativo per questo genere di istanza, anche se la stessa sospensione non è automatica e decide la Procura generale. Quando la pena rimanente sarà di 4 anni Fede potrà chiedere l'affidamento. "Io sono stato condannato perché ho indotto sei ragazze alle prostituzione. Perfetto. Punto e basta. Se qualcuno ci crede va bene. Non commento minimamente. Mi viene da ridere. Intanto devo scegliere dove fare gli arresti domiciliari, se a Roma, a Napoli, a Capri o a Milano". Emilio Fede risponde così all'Adnkronos commentando la sentenza. "Chi può credere che io abbia potuto far prostituire delle ragazze con Berlusconi? Alcune di queste ragazze io non le conoscevo neanche. Le due ragazze di Torino le ho viste una volta nella vita. Mah. Davvero non voglio aggiungere altro", ha concluso. "E' amareggiato, perchè assolutamente convinto della propria innocenza e ribadisce la sua assoluta onestà intellettuale in ciò che ha fatto pur nella convinzione che in uno Stato democratico le regole e le sentenze vanno rispettate, anche se non sono condivise - ha spiegato il suo legale Maurizio Paniz -. Sconterà la pena ai domiciliari, come è normale per una persona che ha 86 anni". "Ho parlato con Nicole Minetti. Lei, come tutto il collegio di difesa, non si aspettava la conferma della condanna da parte della Cassazione. E adesso faremo domanda per l'affidamento in a prova ai servizi sociali, come consentito dalla legge", ha spiegato l'avvocato Paolo Righi, legale dell'ex consigliera lombarda, che annuncia un ricorso alla Corte Europea. La condanna è stata stabilita in secondo grado per il processo Ruby Bis, anche grazie alle testimonianze di Imane Fadil, morta lo scorso primo marzo, che ha reso "dichiarazioni pienamente attendibili", ha detto durante la requisitoria il sostituto procuratore generale della Cassazione, Pina Casella. Per la procura generale, infatti, il verdetto d'appello "è ineccepibile". "Le dichiarazioni di Imane Fadil sono pienamente attendibili e la veridicità delle sue dichiarazioni sulle serate di Arcore sono ampiamente confermate dai riscontri di Chiara Danese e Ambra Battilama e da intercettazioni telefoniche": a dirlo, durante la sua requisitoria, il pg Pina Casella. Che ha aggiunto, a proposito di Imane Fadil, la modella sulla cui morte è aperta un'inchiesta: ""Fede le aveva prospettato le serate di Arcore conoscendo le difficoltà economiche della ragazza e le aveva fatto pressioni per farle passare la notte con Berlusconi". Una requisitoria molto dura: "La mantenuta non fornisce prestazioni sessuali dietro compenso, ma lo fa nell'ambito di un rapporto consolidato e correttamente la Corte d'appello di Milano, nel processo bis, ha qualificato come attività prostitutiva quella che si svolgeva ad Arcore e tanto basta per escludere che le ragazze fossero delle mantenute, dato che al massimo si può parlare di 'favorite di turno'". Così il pg ha respinto la tesi difensiva di Emilio Fede accusato di favoreggiamento della prostituzione e tentativo di induzione. Ad avviso del pg, in maniera "congrua" Fede è stato ritenuto "il garante delle serate di Arcore e il punto di riferimento per tutto quanto ruotava attorno al format di queste serate" e la Minetti era la "indispensabile cerniera tra Berlusconi e le ragazze a lui destinate".
“MI VIENE DA RIDERE”. Cos.Cav. per “Libero quotidiano” il 12 aprile 2019. Le condanne per Emilio Fede e Nicole Minetti sono state confermate in via definitiva: per l' ex direttore del Tg4, accusato di tentata induzione e favoreggiamento della prostituzione per le serate nella villa di Silvio Berlusconi ad Arcore, la pena è di quattro anni e sette mesi, mentre per l' ex consigliera regionale della regione Lombardia, rea di favoreggiamento della prostituzione, la pena è di due anni e dieci mesi. Per il processo "Ruby bis", la quarta sezione penale della Cassazione ha quindi dichiarato inammissibili i ricorsi dei due imputati contro la sentenza d' appello bis pronunciata dai giudici milanesi il 7 maggio scorso. Mentre Nicole Minetti, condannata a una pena inferiore a quattro anni, potrà chiedere l' affidamento in prova, Emilio Fede dovrebbe scontare la prima parte della pena, alcuni mesi, ai domiciliari e non in carcere; poi potrà chiedere l' affidamento ai servizi sociali. Il problema, però, è che la pena supera i quattro anni e, dunque, la Procura generale deve emettere un ordine di carcerazione. I magistrati possono però sospendere l' ordine dando trenta giorni di tempo alla difesa per chiedere la detenzione domiciliare in quanto ultrasettantenne: Emilio Fede ha 87 anni. Il favoreggiamento della prostituzione, infatti, non è un reato incompatibile per questo genere di istanza, anche se la stessa sospensione non è automatica e bisognerà aspettare la decisione della Procura generale. Secondo il magistrato Pina Casella, in maniera «congrua» Fede è stato ritenuto «il garante delle serate di Arcore»; e Minetti era la «indispensabile cerniera tra Berlusconi e le ragazze a lui destinate». Mentre, lo stesso Fede, contattato dall' agenzia Adnkronos, ha commentato così la sentenza della Cassazione: «Io sono stato condannato perché ho indotto sei ragazze alle prostituzione. Mi viene da ridere. Intanto devo scegliere dove fare gli arresti domiciliari, se a Roma, a Napoli, a Capri o a Milano». Anche il suo avvocato difensore, Maurizio Paniz, ha dichiarato che il suo assistito «andrà ai domiciliari, come è normale per una persona di quell'età». Quando si parla di nomi così altisonanti non si può non pensare all' ex governatore lombardo Roberto Formigoni, condannato lo scorso febbraio a cinque anni e dieci mesi con l' accusa di corruzione: anche lui ultrasettantenne, ma impantantanato nel decreto "spazzacorrotti", che vieta la concessione di qualunque beneficio penitenziario ai colpevoli di corruzione, equiparati a mafiosi e terroristi. Una legge, questa, che ha già sollevato dubbi molti di incostituzionalità: non prevede, infatti, disposizioni in riferimento agli ordini di carcerazione emessi nei confronti di coloro che hanno commesso i fatti per i quali sono stati giudicati prima dell' entrata in vigore della normativa.
Da Affari italiani il 12 aprile 2019. "Alla mia età è una prova che credo di non meritare anche perchè non ho fatto nulla". Così l'ex direttore del Tg4 Emilio Fede ha commentato la decisione con cui la Cassazione ha reso definitiva ieri la sua condanna a 4 anni e 7 mesi di carcere per il caso Ruby bis. Fede ha attualmente 87 anni e ha aggiunto: "E' una sentenza che fa riflettere. E ad alta voce lo ripeto: si può mai pensare che io, Emilio Fede, abbia indotto a prostituirsi ad Arcore cinque o sei ragazze che avevo appena visto e quasi non conoscevo? Questa è una prova importante per me, per la mia famiglia e per la gente che mi vuol bene. Spero che il giudice che ha deciso la mia condanna abbia ben riflettuto. Io accetto e vado avanti con la mia famiglia". Anche Nicole Minetti, condannata in via definitiva a 2 anni e 10 mesi, commenta amaramente: "E' una ingiustizia, non me l'aspettavo. Ho sempre avuto fiducia nei giudici però questa volta è andata così. Le sentenze vanno rispettate anche se questa mi pare davvero ingiusta". La sua difesa proverà a fare ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo.
L’EMILIO FURIOSO. Marco Lillo per il “Fatto quotidiano” il 13 aprile 2019. Emilio Fede il primo giorno da condannato lo ha passato a Napoli.
È deluso, non si aspettava una condanna così pesante.
«Il mio reato sarebbe avere tentato di indurre alla prostituzione ragazze non minorenni che frequentavano Arcore. Bene, e allora io faccio una domanda: queste ragazze andavano ad Arcore forse per studiare Dante Alighieri o Chagall? Secondo voi quelle ragazze avevano il problema di essere indotte da me? Io sono stupito e mortificato».
Però ora c' è una sentenza definitiva.
«E io mantengo il rispetto verso la giustizia che non è rappresentata solo da questa sentenza. Chiedo a voi del Fatto di farvi delle domande su questa condanna a un uomo di 88 anni. La giudice è una donna. Vorrei si chiedesse: è stato giusto condannare Emilio Fede a 4 anni e 7 mesi? Con questi parametri quanto dovrebbe avere uno come Totò Riina?»
Silvio Berlusconi è stato condannato a 4 anni (tre dei quali condonati dall' indulto) per una frode fiscale da 7,3 milioni di euro e tu sette mesi in più per le serate di Arcore. Come mai?
«Io posso dire con simpatia per il suo giornale che me lo domando anche io! Come mai io ho avuto una condanna così pesante per il reato di avere tentato di far prostituire le ragazze ad Arcore? Le ragazze andavano ad Arcore indipendentemente da me. Perché ci andavano?»
Ottaviano Del Turco per corruzione ha avuto 8 mesi meno di lei: solo 3 anni e 11 mesi. Previti un anno e 6 mesi per la corruzione dei giudici sul lodo Mondadori, in continuazione rispetto a quella di Imi Sir, altri 6 anni.
«Tutti hanno avuto una pena minore della mia, non solo Del Turco e Previti».
Be' qualcuno ha avuto di più. Per esempio Marcello Dell' Utri ha avuto 7 anni, però lui per i rapporti con la mafia. Formigoni 5 anni e 10 mesi, però per corruzione.
«Mi fa amaramente sorridere con questi confronti. A me 4 anni e 7 mesi! Io sono deluso dalla categoria dei miei colleghi. Dovreste fare voi queste domande, ma darvi anche le risposte. Perché tutti meno di me? Perché così tanti anni a Emilio Fede per avere tentato di favorire la prostituzione? Sarà che io sono peggio di Formigoni e di Del Turco».
Se potesse tornare indietro cosa non farebbe?
«Certamente non ho pentimenti. Io vengo dalla Rai che è stata per me una madre e ho fatto di tutto nella mia professione».
Io parlo delle cene…
«Non è mai successo niente. Rifarei tutto. Chiedete a Marysthell Polanco cosa pensa di Emilio Fede. L'ho trattata come una figlia, l' ho invitata a cena e non le ho mai mancato di rispetto».
Purtroppo non possiamo chiederlo più a Imane Fadil.
«Imane Fadil io l'ho vista poco. Le ho solo detto: cerca un lavoro serio e fai una vita seria perché tu sei una bravissima ragazza».
Che idea si è fatto della sua morte?
«Io ho fiducia nella giustizia perché c'è un procuratore serio come Francesco Greco che arriverà alla verità. Questa è una vicenda enorme e io voglio sapere come sono andate le cose. Una cosa seria, non come la mia».
Ha chiamato qualcuno?
«Tanti amici, sono a Napoli dove ho deciso di scontare la pena, a casa di mia moglie. E mi sta vicino il direttore del Roma, Alfredo Sasso. Tanto affetto e tante testimonianze. C'è già l' Emilio fan club».
La compagna di Berlusconi, Francesca Pascale, è di Napoli: l' ha sentita?
«Non la sento da tre anni».
Ha chiamato Berlusconi?
«No, né lui né nessuno vicino a lui. Ma io sono indagato e in tutto questo tempo ci siamo potuti vedere solo una volta. Penso che sia imbarazzante per lui chiamarmi dopo questa condanna per un fatto così imbarazzante. Io non ho fatto niente! Io non ho portato Ruby. Io andavo via sempre all' una e mezzo, andavo in piazzale Loreto e compravo i giornali. Sono alla fine della vita (la voce si incrina), la prego di scriverlo: su questa storia si gioca la mia vita».
Cosa direbbe a Berlusconi?
«Mio caro presidente, bisognava pensarci prima a chi frequentava Arcore. Avresti dovuto essere meno generoso».
Il sollievo di Fede: né “prostituto” né corrotto e nemmeno mafioso, scrive Tiziana Maiolo il 14 Aprile 2019 su Il Dubbio. Può tirare un sospiro di sollievo Emilio Fede, condannato in via definitiva a quattro anni e sette mesi di carcere per i reati di favoreggiamento e tentata induzione alla prostituzione. Se potrà respirare a casa propria lo deve alla sua età ( in giugno saranno 88), a qualche patologia legata all’anagrafe, alla saggezza della procura generale di Milano, ma soprattutto al fatto di non essere mafioso né terrorista e in particolare di non esser stato condannato per reati contro la Pubblica Amministrazione. In questo caso avrebbe fatto la fine di Roberto Formigoni, che viene “rieducato” da qualche mese nel carcere di Bollate mentre il ministro Di Maio e i suoi colleghi gridano “bye bye corrotti”. Per il nuovo corso del “governo del cambiamento” infatti, i reati “politici” ( corruzione, piuttosto che peculato ) sono equiparati, in una visione moralistica di vendetta sociale, a quelli di criminalità organizzata. E hanno carattere “ostativo” rispetto alla possibilità di sospendere l’esecuzione della pena, per esempio per l’età del condannato. Carcere a ogni costo, quindi. Dalla certezza del diritto alla certezza della galera. Dunque Emilio Fede potrà andare agli arresti domiciliari. Che non è galera, ma pur sempre privazione della libertà. Finalizzata alla rieducazione, si suppone. O, come diceva Foucault, “la singolare pretesa di rinchiudere per correggere”. Potrà meditare l’ex direttore del Tg4, e promettere a se stesso e alla società che mai più andrà a cena a casa di Silvio Berlusconi e mai più cercherà di indurre qualche ragazza ad andare a letto con l’ex presidente del Consiglio. Il che è abbastanza singolare, e immaginiamo Fede che ridacchia tra sé mentre fa il suo fioretto. Perché non c’è bisogno di andare a cena a Arcore per sapere che un uomo di potere è sempre accerchiato di belle ragazze, specie se queste vogliono far carriera in tv e se lui è proprietario di un grande gruppo nelle telecomunicazioni. Qualcuno può credere che ci fosse bisogno dell’” induzione” di Fede per trovare qualche fidanzata a Berlusconi? Questo processo, nelle sue versioni uno, bis e ter non avrebbe mai dovuto esser celebrato in una società liberale dove i rapporti tra adulti consenzienti sarebbero solo fatti privati. Certo, a qualche cena ha anche partecipato una ragazza cui mancavano pochi mesi per raggiungere la maggiore età. Ma una sentenza definitiva ha sancito che Silvio Berlusconi non conosceva la vera età di Ruby, poiché la ragazza dimostrava qualche anno di più. E allora? Che cosa è che oggi impedisce a un rispettabile signore quasi novantenne di uscire di casa, andare al bar preferito, fermarsi all’edicola e poi passeggiare? Oppure partecipare a qualche talk cui viene costantemente invitato, o anche viaggiare?
Emilio Fede: «Chiederò la grazia a Mattarella, non ho fatto niente». Pubblicato lunedì, 15 aprile 2019 da Paola Di Caro su Corriere.it.
«Sono appena stato dal mio avvocato».
A far cosa, direttore Emilio Fede?
«A consegnare tutte le carte, i documenti medici da presentare perbloccare l’ordine di arresto immediato».
Quello che scatterebbe per la condanna in via definitiva, di 4 anni e 7 mesi, per aver procurato ragazze per le cene in casa di Berlusconi, nelle inchieste sul caso Ruby? «Quello, sì. Rischiavo di finire a Poggioreale. Il che è assurdo, non perché sono Emilio Fede, ma perchè ho 88 anni, e perchè non ho fatto niente».
Le sentenze dicono altro...
«E lo dicono proprio adesso che Berlusconi si ricandida, ancora una volta torna il fantasma del ‘Bunga Bunga’, come sempre... Ma io ho rispetto dei giudici eh, sia chiaro. Però...».
Però?
«Sono stato condannato, addirittura a 4 anni e 7 mesi quando con due mesi in meno non sarebbe scattato il carcere, per “tentata induzione alla prostituzione” di ragazze peraltro tutte maggiorenni. Ruby? E’ stato Lele Mora a contattarla, lo ha detto lui. Ma che reato è poi? Non esiste da nessuna parte nel mondo. Ma come avrei fatto a indurre chicchessìa a fare qualcosa? Primo, lì non succedeva niente di male, che mi risulti: altro che orge o porcherie, non c’era niente di terribile. Secondo, le ragazze andavano liberamente. Terzo, non avevo alcun motivo di mettermi in bella luce con Berlusconi: per 25 anni ho passato i miei Natali e capodanni con lui, le notti con lui, andavo a comprare i giornali in edicola e li leggevamo insieme prima di andare a dormire. Non avevo bisogno di farmi bello».
Le dovrebbero essere concessi i domiciliari. Non è abbastanza?
«Sì, e potrei indicare Napoli, dove ho tanti amici, o Milano dove ho a lungo lavorato. Ma stamattina, mentre dalla mia casa romana raggiungevo lo studio del mio avvocato, mi sono fermato in una Chiesa vicino via Teulada, vicino la Rai, dove ogni tanto andavo quando ne mi sentivo solo, quando volevo trovare me stesso».
E?
«E ho deciso quello che voglio fare. Voglio chiedere la grazia».
Ma in che modo? Con quali motivazioni?
«Voglio scrivere una lettera al presidente Mattarella, molto semplice, con le mie parole. Sciverò che non ho commesso alcun reato. Che quando la condanna si estinguerà avrò quasi 93 anni, e non è giusto che per quel che mi resta da vivere debba tenermi questo peso dentro, che resti questo dei miei ultimi giorni. Scriverò che non ho mai fatto male a nessuno. Che nessuna donna mi ha mai accusato di averle dato fastidio. Per questo chiederò la grazia».
Pensa che Mattarella la accoglierà?
«Io me lo auguro, perché nella mia vita ho fatto tanto, tutto, e non merito che finisca così».
Berlusconi l’ha sentito?
«No, ma nemmeno potrei. Lui ha ancora procedimenti aperti anche sul caso Ruby, per presunta corruzione di testimoni, non avrebbe senso che ci sentissimo, gli potrebbe causare problemi. Ma tante persone - amici, colleghi, anche semplici cittadini che mi incontrano per strada - mi mostrano affetto».
Ma se tornasse indietro, cosa non rifarebbe?
«Rifarei tutto, perché non ho mai fatto niente di male».
Rifarebbe gli stessi errori?
«Il nostro errore è essere stati troppo generosi. Io, come Berlusconi. E si paga sempre, alla fine. Ma lo rifarei. Non ho nulla di cui pentirmi».
Se Emilio Fede dovrà andare agli arresti domiciliari, se è stato condannato, è perché la residenza di Arcore è stata considerata da una magistratura più in tonaca che in toga una sorta di bordello a luci rosse. I rapporti consensuali tra adulti sono diventati prestazioni professionali tra prostitute e clienti. Anzi, il cliente, quell’imprudente Silvio Berlusconi, presidente del Consiglio, che riteneva, sbagliando, di essere un uomo libero anche di fare le stesse sciocchezze di tutti gli altri uomini. C’è un fattore culturale dietro tutto ciò. La confusione, prima di tutto tra la mantenuta, cioè la ragazza cui l’uomo elargisce regali, anche in denaro, perché gli fa piacere farlo e perché se lo può permettere, e la prostituta, che è una libera professionista con una tariffa per le sue prestazioni, e che pagherebbe anche le tasse se il Parlamento si decidesse a regolamentare il settore. Se tutto è prostituzione, se le ragazze che hanno frequentato Arcore sperando di averne qualche vantaggio di carriera sono tutte puttane, allora lo è anche chi fa un matrimonio di interesse, chi sposa il miliardario o si fa comunque da lui mantenere. Dovrebbero comunque essere tutti fatti privati e non è mai un bel momento quando lo Stato si intrufola tra le lenzuola dei cittadini. E soprattutto non è un bel momento quando il diritto penale, invece di indirizzarsi verso l’accertamento delle responsabilità individuali nella commissione dei reati, si arroga il compito di lottare contro i fenomeni sociali, siano essi la mafia o il terrorismo. O la corruzione, equiparata da una recente ( in gran parte incostituzionale ) legge detta appunto “spazzacorrotti”. O infine, addirittura, la prostituzione. Ma sì, togliamo la libertà a Emilio Fede, così nessuna donna venderà più il suo corpo e nessun uomo sarà più disponibile a comprarlo.
Emilio Fede sfigurato, l'impressionante fotografia dopo la caduta nel suo condominio. Libero Quotidiano il 7 Dicembre 2019. A distanza di qualche giorno dalla rovinosa caduta avvenuta nel suo condominio e per la quale è stato ricoverato al San Raffaele, Oggi pubblica la foto del volto di Emilio Fede. Una fotografia impressionante che dimostra quanto la disavventura sia stata drammatica: Fede, ha rivelato, ha rischiato anche di perdere un occhio. Vedendo il suo volto segnato e tumefatto, si capisce come all'ex direttore del Tg4, ora agli arresti domiciliari nella sua casa di Segrate, sia in definitiva andata bene, anche in considerazione della sua età, ha infatti 88 anni. Parlando della caduta al rotocalco, Emilio Fede ha affermato: "Ho quasi perso un occhio, ho dolori ovunque, per fortuna sono ancora capace di intendere e di volere. Ho battuto la testa forte, mi hanno operato al naso… Sono rimasto circa mezz’ora a terra - ha ricordato quei tragici momenti -, non avevo né la forza di alzarmi né di gridare. Per fortuna un custode mi ha visto e ha chiamato i soccorsi. La notte mi sveglio con l’incubo di quella caduta e a volte ho paura persino ad addormentarmi perché temo di non svegliarmi più", ha concluso.
Emilio Fede, la moglie Diana scatenata contro Silvio Berlusconi: "Un ingrato...", l'atroce accusa. Libero Quotidiano il 4 Dicembre 2019. Sul settimanale Oggi, in edicola da domani, il giornalista di Telelombardia e conduttore di «Iceberg» Marco Oliva intervista Emilio Fede dopo la rovinosa caduta che lo ha costretto a un temporaneo ricovero in ospedale. "Ho quasi perso un occhio, ho dolori ovunque, per fortuna sono ancora capace di intendere e di volere. Ho battuto la testa forte, mi hanno operato al naso ... Sono rimasto circa mezz’ora a terra, non avevo né la forza di alzarmi né di gridare. Per fortuna un custode mi ha visto e ha chiamato i soccorsi… La notte mi sveglio con l’incubo di quella caduta e a volte ho paura persino ad addormentarmi perché temo di non svegliarmi più". Fede sta scontando nella sua casa di Segrate la condanna a 4 anni e 7 mesi per il caso Ruby bis ed è caduto durante gli orari di uscita che gli sono concessi. "Temo di morire ai domiciliari, ma non me lo merito. Come passo le mie serate? Da solo, al massimo mi cucino gli spaghetti", dice. E aggiunge: "Mia moglie è a Napoli, ha problemi di salute e non è in grado di venire a Milano. Io non posso vederla, non mi danno il permesso. Avevo chiesto la possibilità di andare a Napoli solo 48 ore per abbracciarla e me l’hanno negata, ma vi rendete conto? È una crudeltà… Mi auguro solo che chi mi ha messo in questa condizione non abbia da rispondere alla sua coscienza". Il settimanale diretto da Umberto Brindani ha intervistato anche la moglie dell’ex direttore del Tg4, Diana De Feo. Che dice: "Perso un occhio? Ma no, non mi pare. Rotto il naso? Rotto no, certo la botta… Ero a Parigi. Ora sono a Roma ma sto per partire per Napoli, devo organizzare un concerto di musica e poesia. Andrò a trovarlo appena posso".
Silvio Berlusconi, il mistero dell'avvocato di Ruby: il memoriale contro il Cav poi va a morire in Svizzera, scrive il 30 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Un memoriale contro Silvio Berlusconi, poi la scelta estrema: eutanasia in Svizzera. Egidio Verzini, avvocato di Karima El Mahroug in arte Ruby Rubacuori, lo scorso dicembre ha deciso di fornire all'agenzia Ansa una versione dei fatti decisamente compromettente per l'ex premier sul processo Bunga bunga, e proprio in quelle ore, si scopre oggi come riporta la Stampa, il legale era a Zurigo alla clinica Dignitas, dove ha scelto di morire perché afflitto da un male incurabile. Quelle accuse sono state dunque l'ultima uscita pubblica di Verzini. Poche righe, pesantissime: Ruby avrebbe ricevuto, spiegava l'avvocato, "un pagamento di 5 milioni di euro eseguito tramite la banca Commercial Bank di Antigua su un conto presso una banca in Messico", di cui due milioni "sono stati dati a Luca Risso", ex compagno della ragazza, e tre "sono stati fatti transitare dal Messico a Dubai e sono esclusivamente di Ruby". Un'operazione, ha sostenuto Verzini, "interamente diretta dall'avvocato Ghedini". L'avvocato di Berlusconi aveva annunciato querele, smentite e procedimenti disciplinari, smentendo categoricamente la versione data da Verzini, che aveva motivato la scelta di uscire allo scoperto a 7 anni dai fatti "per dovere etico e morale". Secondo la Stampa i pm milanesi potrebbero ora indagare tra i documenti inediti del legale per dimostrare la loro tesi: corruzione di testimoni nel corso del processo. Al posto di Verzini parleranno, forse, le sue carte.
«Ruby Ter», l’ex avvocato di Karima El Mahroug: «Da Silvio Berlusconi 5 milioni di euro da Antigua nel 2011. Pagò per il silenzio di Ruby». Le dichiarazioni all’Ansa dell’avvocato Egidio Verzini, che 7 anni fa fu legale della giovane. L’avvocato Ghedini, storico difensore di Berlusconi: «Falsità, quereliamo», scrive il 4 dicembre 2018
la Redazione Milano online del Corriere della Sera. Ruby nel 2011 ha ricevuto da Silvio Berlusconi «un pagamento di 5 milioni di euro eseguito tramite la banca Antigua Commercial Bank di Antigua su un conto presso una banca in Messico» e, in particolare, 3 milioni «sono stati fatti transitare dal Messico a Dubai e sono esclusivamente di Ruby» e 2 milioni «sono stati dati a Luca Risso», l’ex compagno. Lo ha dichiarato all’Ansa l’avvocato Egidio Verzini (e lo aveva detto anche nel 2014 a L’Espresso, smentendo poco dopo), che 7 anni fa fu legale della giovane e che ha deciso «di rinunciare all’obbligo del segreto professionale» sul caso per un «dovere etico e morale».
Mancato «il rapporto di fiducia». Il legale Verzini è stato avvocato di Ruby tra giugno e luglio 2011 (il processo a Berlusconi, finito con un’assoluzione definitiva, era iniziato in aprile). Poi comunicò che era «venuto meno il rapporto di fiducia» con Karima El Mahroug e lasciò l’incarico. E un paio di anni dopo raccontò che Ruby voleva «costituirsi parte civile» ma che c’erano «stati degli interventi esterni». In altre occasioni rilasciò dichiarazioni alla stampa e venne sentito dai pm nel caso Ruby ter per il quale Berlusconi è a processo, assieme ad altri 27 imputati, per corruzione in atti giudiziari. «Dopo lunga ed attenta valutazione - scrive in una nota l’avvocato - reputo mio dovere etico e morale rendere pubblico ciò che si è realmente verificato nella vicenda Ruby, perciò ho deciso autonomamente di rinunciare all’obbligo del segreto professionale assumendomi ogni responsabilità».
La «sua» linea difensiva. La «operazione Ruby», sostiene, «interamente diretta dall’Avv. Ghedini con la collaborazione di Luca Risso (messo al fianco di Ruby per controllarla), prevedeva in origine il pagamento» di «7 milioni di euro, di cui 1 milione per me ed 1 milione per la persona incaricata da Ghedini di accompagnarmi nell’operazione». Dopo aver «analizzato la situazione», aggiunge, «ho proposto una linea difensiva diversa (legale e non illegale) che prevedeva la costituzione di parte civile nei confronti di Emilio Fede e, al momento del pagamento, conseguente rinuncia, proposta che Ruby aveva condiviso ed accettato. La mia proposta - spiega ancora - è stata rigettata da Ghedini-Risso, pertanto non ho proseguito nell’operazione come da loro prospettata, in quanto il rischio professionale e personale per me era altissimo». Verzini afferma che Ruby, poi, «ha ricevuto un pagamento di 5 milioni di euro eseguito tramite la banca Antigua Commercial Bank di Antigua su un conto presso una banca in Messico nella località di Playa del Carmen, di cui però non conosco il nome».
Le somme. I soldi arrivati in Messico, secondo il legale, sono stati suddivisi: «2 milioni di euro sono stati dati a Luca Risso, il quale ha acquistato il ristorante Sofia a Playa del Carmen, una villa a Playa del Carmen e un terreno edificabile sull’isola di Cozumel (tutto ciò è di proprietà esclusiva di Risso, Ruby non c’entra nulla); 3 milioni di euro sono stati fatti transitare dal Messico a Dubai e sono esclusivamente di Ruby». Berlusconi, conclude il legale, «era a conoscenza sin dall’inizio della minore età di Ruby, motivo per cui ha elargito il denaro».
Ghedini: «Falsità, quereliamo». «Le dichiarazioni rese martedì 4 dicembre a distanza di oltre sette anni dall’avv. Verzini che per circa un mese ha assistito Karima el Mahroug detta Ruby sono totalmente destituite di qualsiasi fondamento e saranno perseguite in ogni sede». Lo spiega in una nota l’avvocato Niccolò Ghedini, storico difensore di Silvio Berlusconi. «Mai vi sono stati contatti diretti o indiretti - aggiunge - né con l’Avv. Verzini né con Luca Risso per far ottenere denaro a Karima el Mahroug».
Caso Ruby, l’ex legale della ragazza: “Ha ricevuto 5 milioni da Berlusconi su una banca di Antigua”. Egidio Verzini ha deciso «di rinunciare all’obbligo del segreto professionale» sul caso per un «dovere etico e morale». Karima El Mahroug: «Falsità, sono sbalordita», scrive La Stampa il 04/12/2018. Ruby nel 2011 ha ricevuto da Silvio Berlusconi «un pagamento di 5 milioni di euro eseguito tramite la banca Antigua Commercial Bank di Antigua su un conto presso una banca in Messico» e in particolare 2 milioni «sono stati dati a Luca Risso», ex compagno, e 3 «sono stati fatti transitare dal Messico a Dubai e sono esclusivamente di Ruby». Lo dichiara all’Ansa l’avvocato Egidio Verzini, che 7 anni fa fu legale della giovane e che ha deciso «di rinunciare all’obbligo del segreto professionale» sul caso per un «dovere etico e morale».
Avvocato di parte fino al 2011. L’avvocato Verzini è stato legale di Ruby tra giugno e luglio del 2011 (il processo a Berlusconi, finito con un’assoluzione definitiva, era iniziato in aprile). Dopo questa data comunicò che era «venuto meno il rapporto di fiducia» con Karima El Mahroug e lasciò l’incarico. Un paio d’anni dopo raccontò che Ruby voleva «costituirsi parte civile» ma che c’erano «stati degli interventi esterni». In altre occasioni rilasciò poi dichiarazioni alla stampa e venne sentito dai pm nel caso Ruby-ter per il quale Berlusconi è a processo, insieme ad altri 27 imputati, per corruzione in atti giudiziari.
La decisione di parlare. «Dopo lunga ed attenta valutazione - scrive in una nota l’avvocato - reputo mio dovere etico e morale rendere pubblico ciò che si è realmente verificato nella vicenda Ruby, perciò ho deciso autonomamente di rinunciare all’obbligo del segreto professionale assumendomi ogni responsabilità». La «operazione Ruby», sostiene, «interamente diretta dall’avvocato Ghedini con la collaborazione di Luca Risso (messo al fianco di Ruby per controllarla), prevedeva in origine il pagamento» di «7 milioni di euro, di cui 1 milione per me ed 1 milione per la persona incaricata da Ghedini di accompagnarmi nell’operazione». Dopo aver «analizzato la situazione», aggiunge, «ho proposto una linea difensiva diversa (legale e non illegale) che prevedeva la costituzione di parte civile nei confronti di Emilio Fede e, al momento del pagamento, conseguente rinuncia, proposta che Ruby aveva condiviso ed accettato. La mia proposta - spiega ancora - è stata rigettata da Ghedini-Risso, pertanto non ho proseguito nell’operazione come da loro prospettata, in quanto il rischio professionale e personale per me era altissimo».
Il versamento. Verzini afferma che Ruby, poi, «ha ricevuto un pagamento di 5 milioni di euro eseguito tramite la banca Antigua Commercial Bank di Antigua su un conto presso una banca in Messico nella località di Playa del Carmen, di cui però non conosco il nome». I soldi arrivati in Messico, secondo il legale, sono stati suddivisi: «2 milioni di euro sono stati dati a Luca Risso, il quale ha acquistato il ristorante Sofia a Playa del Carmen, una villa a Playa del Carmen e un terreno edificabile sull’isola di Cozumel (tutto ciò è di proprietà esclusiva di Risso, Ruby non c’entra nulla); 3 milioni di euro sono stati fatti transitare dal Messico a Dubai e sono esclusivamente di Ruby». Berlusconi, conclude il legale, «era a conoscenza sin dall’inizio della minore età di Ruby, motivo per cui ha elargito il denaro».
La smentita di Ruby. «La nostra assistita, lette le dichiarazioni rese dall’avvocato Verzini, rimane attonita e sbalordita», spiegano in una nota gli avvocati Paola Boccardi e Jacopo Pensa, legali di Karima El Mahroug, in relazione alle dichiarazioni dell’ex legale della giovane, che ha parlato di un presunto pagamento di 5 milioni di euro da Berlusconi. Per i legali, che si riservano «di agire» in sede giudiziaria e disciplinare, si tratta di una «fantasiosa ricostruzione».
I documenti depositati dalla procura al processo “Ruby Ter” in corso a Milano. Per i pm così è stato pagato il silenzio della ragazza. Sandro De Riccardis il 2 maggio 2019 su La Repubblica. Arriva dalla Svizzera la conferma della riconducibilità a Luca Risso, ex fidanzato di Karima El Mahroug, detta Ruby Rubacuori, dei conti su cui sono confluiti quasi 400mila euro, trasferiti dalla Svizzera a Playa del Carmen in Messico. E considerati dai magistrati di Milano, il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Luca Gaglio, il prezzo pagato da Silvio Berlusconi per garantirsi il silenzio di Ruby sulle “cene eleganti” di Arcore. I documenti, depositati dalla procura nel processo “Ruby Ter” in corso a Milano, proverebbero che il denaro è partito da Berlusconi, imputato per corruzione in atti giudiziari, per arrivare – tramite la banca svizzera PKB Bank di Lugano – fino al conto di Risso presso la Monex di Playa del Carmen, in Messico. La rogatoria svela che i versamenti sono due: uno da 300mila euro, l’altro da 60mila euro. Nelle carte, inviate dal procuratore elvetico Fiorenza Bergomi, anche le sollecitazioni di Risso, anche lui a processo per corruzione in atti giudiziari, per velocizzare il trasferimento di denaro da parte della banca. "La pregherei di farmi il bonifico di 50mila euro entro giovedì – scrive Risso al funzionario della Pkb - perchè in data successiva sarei costretto a pagare una penale per il mancato inizio dei lavori della mia proprietà, qui a Playa".
TU RUBY, IO VERSO MILIONI. Gianni Barbacetto per il “Fatto quotidiano” il 3 maggio 2019. Si sa che l' idillio, se c' è mai stato, è finito da tempo. I rapporti tra Karima El Mahroug, detta Ruby Rubacuori, e l' ex compagno Luca Risso, padre di sua figlia Sofia Aida, è pessimo. Lo dimostrano anche le chat tra i due, finite nelle mani dei pm della Procura di Milano: "Ha pagato per far tacere te, non me", scrive Risso in risposta a Ruby che lo incalza con una raffica di richieste e accuse. È la prova che chiude il cerchio: "Ha pagato". E "per fare tacere te". I due parlano di Silvio Berlusconi, che è sotto processo per corruzione in atti giudiziari con l' accusa di aver pagato Ruby e ad altri 27 testimoni, per farli mentire davanti ai giudici, per addomesticare i loro racconti sulle "cene eleganti" del 2010 ad Arcore, nell' estate del bunga-bunga. I soldi. Sono tanti quelli usciti dalle tasche di Berlusconi e finiti a Ruby, alle altre ragazze e agli ospiti che partecipavano alle feste di Villa San Martino. Almeno una decina di milioni, secondo i pm della Procura di Milano Tiziana Siciliano e Luca Gaglio, oltre ad auto, case, regali. Ora una rogatoria arrivata dalla Svizzera fornisce la prova definitiva che è proprio di Risso il conto dove arrivavano i soldi partiti dalla Svizzera e approdati in Messico, dove Risso si è trasferito da Genova dopo lo scoppio dello scandalo, insieme a Karima, che però è poi tornata in Italia. La rogatoria riguarda tre versamenti per un totale di circa 400 mila euro. Sono inviati dalla Pkb Privatbank sa di Lugano, in Canton Ticino, dove il 2 marzo 2011 viene aperto un conto denominato 1.0.26007-Fashion di cui è "titolare e avente diritto economico" "Risso Luca, nato il 20 aprile 1969 e abitante a Genova". Nelle carte mandate a Milano dal procuratore pubblico di Lugano, Fiorenza Bergomi, c' è anche un biglietto scritto a mano da Risso e inviato al direttore della Pkb Privatbank, Oberto della Torre di Lavagna: "Gentilissimo dottore Della Torre", scrive l' ex compagno di Ruby, "la prego cortesemente di voler bonificare, con cortese urgenza, sul mio conto presso la Monex di Playa del Carmen, numero 018273801 la somma di euro 60.000 (sessantamila). Il conto è lo stesso utilizzato per il bonifico precedente".
Risso ha fretta: "La pregherei di farmi il bonifico entro giovedì perché in data successiva sarei costretto a pagare una penale per il mancato inizio dei lavori nella mia proprietà, qui a Playa. In allegato le invio tutti i dati richiestomi nel precedente. Ringraziandola, le porgo i migliori saluti". Dunque i soldi viaggiano dalla Pkb Privatbank di Lugano fino alla Monex di Playa del Carmen, dove Risso ritira i contanti. I documenti arrivati per rogatoria sono stati depositati da Siciliano e Gaglio nel procedimento detto Ruby 3, in cui Berlusconi è imputato di corruzione in atti giudiziari con l' accusa di aver dato soldi a Ruby e ad altri 27 testimoni, per farli mentire davanti ai giudici. Alcuni degli imputati sono accusati di falsa testimonianza e di corruzione in atti giudiziari, in concorso con Berlusconi.
Altri solo di falsa testimonianza. Il dibattimento è stato sospeso, su richiesta dell' avvocato di Berlusconi, Federico Cecconi, per permettere all' ex presidente del Consiglio di partecipare alla campagna elettorale per le europee. Riprenderà a Milano il 10 giugno. In quella data, i pm riprenderanno il filo per dimostrare che i pagamenti ci sono stati. Alcuni sono stati ammessi da Berlusconi, che ha spiegato lo stipendio mensile che per un periodo ha passato alle ragazze come un contributo offerto generosamente a chi, per aver partecipato alle sue feste, aveva perso il lavoro e "aveva avuto la reputazione macchiata e la vita rovinata da magistrati e giornalisti". Luca Risso, però, che secondo l' accusa avrebbe dovuto controllare l' imprevedibile Ruby, nella sua chat segreta le dice chiaramente che i soldi sono stati dati "per far tacere te". In questa storia non ci sono solo movimenti bancari, ma anche giri di contante. Nelle carte che Siciliano e Gaglio mostreranno in aula dopo il 10 giugno c' è anche il racconto di un incontro quasi magico. Genova, esterno giorno. Un' auto blu di grossa cilindrata arriva e si ferma davanti al padre di Luca Risso. Ne scende un uomo vestito di un completo scuro che infila una busta nel taschino di Risso senior. A casa, sarà Ruby ad aprirla, estrarre un pacco di banconote ed esclamare: "Sono 80 mila euro".
"RUBY AVEVA VIDEO E FOTO CHE AVREBBERO INGUAIATO BERLUSCONI", scrivono Gianni Barbacetto e Maddalena Oliva per il “Fatto quotidiano” il 19 marzo 2019. Riprendiamo la pubblicazione del verbale di Imane Fadil del 15 giugno 2012. Davanti ai giudici di Milano, la testimone chiave raccontò anche della prima volta in cui incontrò B. e della sua prima "cena elegante".
Pm Sangermano: È stata mai a casa dell' Onorevole Berlusconi a Lesa?
Teste Fadil: Sì, una volta.
Pm Sangermano: Lì ebbe un colloquio con la signora Faggioli?
Teste Fadil: Sì.
Pm Sangermano: La Faggioli le parlò di Ruby in quell' occasione?
Teste Fadil: Era fine agosto-inizio settembre. È stata la penultima serata a cui ho assistito. Ero insieme a Barbara Faggioli, Lisa Barizonte, Nicole Minetti, Danilo il pianista, Giorgio Puricelli ed Emilio Fede.
Pm Sangermano: Le aveva parlato anche di un inconveniente che era capitato a una ragazza slava, c' era questa ragazza?
Teste Fadil: Sì, c' era. Stavano cantando, ballando, tirando su i vestiti, però c' erano le finestre senza tende, al chè lei mi dice: "È successo un problema, c' è stato un paparazzo che ha paparazzato tutto da fuori e per quello che stiamo attenti". E da lì inizia a parlarmi di questa ragazza montenegrina e mi disse: "Ci mancava solo questa pazza.
Perchè è successo già un grandissimo problema con la tunisina". Lei mi disse che era tunisina, non marocchina (Ruby, ndr). Mi fece: "È successo un casino, questa addirittura ha dei video che raffigurano anche noi in situazioni un po' così e potrebbe metterci nei casini, compreso Berlusconi".
Pm Sangermano: Le fece il nome di Ruby?
Teste Fadil: Sì, mi disse che questa ragazza la fermarono, gli trovarono dei soldi, mi disse che quei soldi li prese da Berlusconi e che era diventata un problema perchè si era scoperto che era minorenne. Solo che lei dice che a vederla di persona non avrebbe mai pensato che fosse minorenne, che dimostrava, tipo, 25 anni.
Pm Sangermano: Le disse se Berlusconi questo lo sapesse o men?
Teste Fadil: No, non mi disse questo, mi disse che il giorno che la fermarono si scoprì che era minorenne e lui non la invitò più alle cene.
Pm Sangermano: Torniamo ai video. Cosa le disse la Faggioli? Chi li avrebbe avuti?
Teste Fadil: Ruby.
Pm Sangermano: In seguito ha avuto modo di sapere se questi video esistano veramente? Erano fotografie che avrebbero potuto avere un contenuto sessuale?
Teste Fadil: Sì, era un contenuto sessuale, quello mi è stato detto.
Pm Sangermano: Ma erano in grado di inficiare l' immagine pubblica di Berlusconi, cioè avrebbero potuto riguardare lui?
Teste Fadil: Sì.
Pm Sangermano: Ritorniamo al febbraio 2010. A bordo di questa lussuosa macchina, messa a disposizione da Lele Mora, coi vetri oscurati vi recate ad Arcore. Chi eravate ?
Teste Fadil: Io, Lisandra, un' altra ragazza brasiliana, le due gemelle. Poi Lele. Noi arriviamo e sento dal microfono le voci della Faggioli e della Minetti. [] Urla di divertimento e di chiasso, canti. Arriviamo all' ingresso della villa, c' è una scala a L, con una moquette rossa, c' è questa sala con poltrone, l' unica cosa particolare era il palo della lap dance.
Pm Sangermano: C' era Berlusconi?
Teste Fadil: Quando stavamo scendendo le scale, lui ci è venuto incontro.
Pm Sangermano: Chi ve l' ha presentato Berlusconi?
Teste Fadil: Mora. In realtà mi presentai io, perchè lui venne direttamente cioè proprio a presentarsi. [] Pm Sangermano: Come si è evoluta la serata?
Teste Fadil: Inizialmente niente di particolare. Dopo neanche dieci minuti Minetti e Faggioli spariscono dalla circolazione. Tornano travestite con questa tunica da suora e hanno iniziato la performance.
Pm Sangermano: Che perfomance?
Teste Fadil: Ballare.
Pm Sangermano: Vestite o nude?
Teste Fadil: Inizialmente vestite. Poi tirava sù il vestito, poi lo tirava giù, cioè è come se facesse un po' la Lolita della situazione.
Pm Sangermano: Lei, sentita dai pm aveva dichiarato: "Ricordo che c' era la musica e che ad un certo punto Minetti e Faggioli si spogliarono svolgendo dei balletti sexy, ovvero dimenandosi intorno al palo vestite soltanto con la biancheria intima", è corretto?
Teste Fadil: Sì.
Pm Sangermano: Cosa fece Berlusconi?
Teste Fadil: Seduto, guardava questa performance, io rimasi un po' perplessa, basita più che altro. [] Andai da Mora e gli dissi: "Lele, io fra poco vado, prendo un taxi".
Pm Sangermano: Lei era imbarazzata da questa cosa?
Teste Fadil: Si, perchè non conoscendo l' Onorevole, non conoscendo nessuna delle ragazze tranne la Faggioli Mi sentivo fuori luogo.
Pm Sangermano: Berlusconi colse il suo disagio?
Teste Fadil: Sì. Chiese alla Minetti e alla Faggioli di fermarsi, di andare a cambiarsi e venne da me mettendomi a mio agio. Mi ha portato a fare un giro per casa. Lui quando si è accorto che io ho detto a Lele che volevo andarmene, chiese informazioni, chi fossi, cosa volessi fare e poi mi portò in giro per la casa.
Pm Sangermano: Ha ricevuto regali o soldi quella sera da Berlusconi?
Teste Fadil: Sì, ho ricevuto un orologio con lo stemma del Milan. Poi qualche anellino di bigiotteria.
Pm Sangermano: Soldi?
Teste Fadil: Sì, una busta con 2 mila euro.
Pm Sangermano: Come la giustificò Berlusconi?
Teste Fadil: Mi disse: "Non vorrei mai che ti offendessi, però voi donne avete sempre bisogno di qualcosa, quindi ti prego di non prenderla come un' offesa ma come un dono". Ho accettato. In seguito, una sera il Presidente mi chiese di fermarmi.
Pm Sangermano: A dormire? Teste Fadil: Sì, mi disse: "Ti fermi stasera?". Ho detto: "No, lavoro domattina".
m Sangermano: Lei sa se alcune di queste ragazze si fermavano a dormire, a casa di Berlusconi per trattenersi in intimità con lo stesso?
Teste Fadil: Sì, qualcuna me l' ha detto.
Pm Sangermano: Sa se queste ragazze venivano pagate per questo quid pluris di disponibilità? Teste Fadil: Chi passava la serata lì e poi andava via poteva, non lo so, ricevere un minimo di 2 mila euro, chi si fermava arrivava anche a 10 mila.
Pm Sangermano: Quindi "fermarsi" significava fare sesso con Berlusconi?
Teste Fadil: Eh sì.
Pm Sangermano: Quindi questo sistema prevedeva due passaggi, mi pare di capire: le ragazze che non si fermavano a dormire prendevano un regalo inferiore rispetto a quelle che poi eventualmente si intrattenevano con Berlusconi, è corretto?
Teste Fadil: Esatto.
Pm Sangermano: Ha avuto rapporti intimi con Berlusconi?
Teste Fadil: No, nè quella sera, nè in un' altra volta, nè mai. Scherziamo?
Pm Sangermano: Però questi soldi li prese?
Teste Fadil: Certo che li ho presi, sì, sì. Li ho presi semplicemente perché lui, dicendomi così, era stato fin troppo gentile a dirmi così e non accettare sarebbe stato forse anche un po' maleducato nei miei confronti.
Le spese pazze di Karima: «50mila euro per vacanza alle Maldive». Pubblicato lunedì, 11 novembre 2019 da Corriere.it. «È stata sicuramente una situazione unica per me, ha pagato tutto in contanti, era un viaggio che costava molto, oltre 50mila euro, mi pare». Così la titolare di un’agenzia viaggi, testimoniando nel processo milanese sul caso «Ruby ter», ha parlato di una vacanza alle Maldive di Ruby «cinque anni fa», in una delle deposizioni previste per lunedì sulle spese «faraoniche» di Karima El Mahroug che, secondo i pm, sarebbero state finanziate da Silvio Berlusconi, tra gli imputati per corruzione in atti giudiziari, per comprare il suo silenzio sulle serate ad Arcore. Già a verbale nelle indagini nel 2015 la testimone aveva raccontato di quella vacanza organizzata per Ruby, sua figlia, la baby sitter e il compagno dell’epoca Luca Risso e pagata «tra i 55mila e i 60mila euro». La testimone ha aggiunto anche: «Volevano avere tutti i comfort». Un’altra teste, titolare di un ristorante a Milano, ha raccontato che la giovane marocchina pagò «6 mila euro in contanti» per la sua festa di compleanno nel locale.
Ruby ter, le spese di Karima: "Pagò 50 mila euro in contanti per una vacanza alle Maldive". Le deposizioni sulle spese faraoniche di Karima El Mahroug che, secondo i pm, sarebbero state finanziate da Silvio Berlusconi, tra gli imputati per corruzione in atti giudiziari, per comprare il suo silenzio sulle serate ad Arcore. La Repubblica l'11 novembre 2019. "E' stata sicuramente una situazione unica per me, ha pagato tutto in contanti, era un viaggio che costava molto, oltre 50 mila euro, mi pare". Così la titolare di un'agenzia viaggi, testimoniando nel processo milanese 'Ruby ter', ha parlato di una vacanza alle Maldive di Ruby cinque anni fa, in una delle deposizioni sulle spese 'faraoniche' di Karima El Mahroug che, secondo i pm, sarebbero state finanziate da Silvio Berlusconi, tra gli imputati per corruzione in atti giudiziari, per comprare il suo silenzio sulle serate ad Arcore. Già a verbale nelle indagini nel 2015 la testimone aveva raccontato di quella vacanza organizzata per Ruby, sua figlia, la baby sitter e il compagno dell'epoca Luca Risso e pagata "tra i 55mila e i 60mila euro". "Voleva una bella struttura alle Maldive - ha spiegato la prima teste - le ho proposte soluzioni decisamente costose, lei mi ha chiesto di viaggiare in business assieme al compagno e l'economy per la tata e la bimba". Di certo, ha proseguito, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano in aula col collega Luca Gaglio, non era una "modalità normale pagare in contanti, io ho portato la busta coi soldi al tour operator". Un'altra teste, titolare di un ristorante a Milano, ha raccontato che la giovane pagò "6 mila euro in contanti" per la sua festa di compleanno nel locale. La ristoratrice, poi, ha raccontato di essere diventata all'epoca "amica" di Ruby che frequentava spesso il suo locale in centro. Ai pm che le hanno chiesto se le risultasse che Karima "facesse qualche lavoro", la teste ha risposto: "No, mai saputo. Si occupava della bimba. Diceva che le sarebbe piaciuto aprire un ristorante". Ruby, secondo le indagini dei pm, avrebbe incassato tra i 5 e i 7 milioni di euro da Berlusconi, parte dei quali sarebbero serviti anche per l'acquisto di un ristorante con annesso pastificio e due edifici con mini-alloggi per operatori del settore turistico a Playa del Carmen, in Messico. La testimone ha raccontato anche della festa di compleanno nel suo locale con un "preventivo" di "75 coperti, una torta da 750 euro" per un totale di 8.800 euro, ma poi Ruby alla fine versò in tutto "6 mila euro in contanti". Dalle indagini, sempre sul capitolo 'spese', erano emersi già diversi dettagli, tra cui i casi delle "banconote da 500 euro" tirate fuori in discoteca da Ruby e date ad un dj "per fargli mettere una canzone a fine serata", degli "abiti su misura" per Daniele Leo, altro suo compagno, fino al "personale di servizio" per sbrigare le faccende domestiche in casa e al "noleggio auto con conducente".
Da corriere.it l'11 novembre 2019. «È stata sicuramente una situazione unica per me, ha pagato tutto in contanti, era un viaggio che costava molto, oltre 50mila euro, mi pare». Così la titolare di un’agenzia viaggi, testimoniando nel processo milanese sul caso «Ruby ter», ha parlato di una vacanza alle Maldive di Ruby «cinque anni fa», in una delle deposizioni previste per lunedì sulle spese «faraoniche» di Karima El Mahroug che, secondo i pm, sarebbero state finanziate da Silvio Berlusconi, tra gli imputati per corruzione in atti giudiziari, per comprare il suo silenzio sulle serate ad Arcore.
«Volevano tutti i comfort». Già a verbale nelle indagini nel 2015 la testimone aveva raccontato di quella vacanza organizzata per Ruby, sua figlia, la baby sitter e il compagno dell’epoca Luca Risso e pagata «tra i 55mila e i 60mila euro». La testimone ha aggiunto anche: «Volevano avere tutti i comfort». Un’altra teste, titolare di un ristorante a Milano, ha raccontato che la giovane marocchina pagò «6 mila euro in contanti» per la sua festa di compleanno nel locale.
Imane Fadil, Vittorio Sgarbi smonta la sua versione: "Ma quale testimone. Cosa so su lei, Berlusconi e Ruby", scrive il 18 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Sapeva troppo? No, Imane Fadil non sapeva niente". Vittorio Sgarbi non va per il sottile e svela cosa sa sulla modella marocchina, testimone del processo Ruby contro Silvio Berlusconi, morta misteriosamente per "avvelenamento" e su cui la Procura di Milano indaga per sospetto omicidio. "Di una cosa sono sicuro - spiega il professore al Giornale -. Io ad Arcore l'ho incontrata in occasione delle famose cene del bunga bunga. Può benissimo essere che Berlusconi non abbia memoria. Lei a queste cene è venuta qualche volta, ho letto otto volte, ma era una comparsa, una presenza laterale. Sfocata. Defilata, rispetto a Iris Berardi, Marysthell Polanco e le altre al centro della scena. Non avendo osservato nulla di strano, nulla di anomalo, nulla ma proprio nulla di piccante, Fadil si è inventata questa storia del Diavolo. È difficile parlare di chi non c'è più, ma la verità è che questa modella si era fatta un film da sola, in assenza di fatti concreti".
Vittorio Sgarbi a Dagospia il 31 maggio 2019. Come Marysthell Polanco deve dire la sua verità, io posso dire la mia. E la mia verità è che non ho visto nessuna prostituta, nessuna che non fosse contenta, nessuna che fosse pagata a marchetta. La prostituta la dà per poco a tanti, la mantenuta la dà per molto a uno. Questo dato rende la fattispecie diversa. La Polanco era tra le più allegre, in prima fila a giocare con le altre. Il gioco era ascoltare Berlusconi che raccontava barzellette e cantava, e magari fare coretto con lui. All’una di notte si andava nella sala sotterranea dove c’era il cinema e io e lui parlavamo di tutto mentre le ragazze ballonzolavano. In un clima come quello di una festa di compleanno o di laurea. Tutto questo l’ho visto per almeno trenta volte, dormendo lì. E non ho mai visto niente che avesse a che fare con la prostituzione. E’ impossibile che lei possa raccontare da Giletti qualcosa di diverso da quello che ho visto. Le ragazze sono vittime dell’azione giudiziaria. Quando fai intervenire la magistratura dopo un po’ ti incarti. Se non fosse intervenuta la magistratura, queste ragazze sarebbero come tutte quelle donne che sono state con degli uomini per un periodo e poi è finita…quando c’è la recrudescenza giudiziaria - ho prima una versione, poi un’altra - è perché senti la minaccia, non di Berlusconi, ma della magistratura che rende criminali atti banali. Berlusconi pagava quelle ragazze perché erano mantenute, non erano prostitute. Avevano uno stipendio, come qualunque cameriere, e avevano anche una casa. Erano talmente soddisfatte di questa situazione che arrivavano, alla spicciolata, dalle 20,30 alle 22, con l’aria allegra e festosa di chi va da un parente. Nel loro "contratto" c’era di essere allegre, e lo erano. Non erano pagate per dire falsa testimonianza: erano pagate per essere a cena quando voleva Berlusconi. E io ho visto tutto. Se lei dice di avere una nuova versione da dare, io posso dire di averla vista venti volte e non è mai capitato nulla che non fosse la sua volontà. E non ho mai visto atti sessuali. Se poi voleva fare un pompino non vedo chi potesse forzarla. E’ impossibile che una ragazza abbia fatto qualcosa contro la sua volontà. E se oggi dice di avere una seconda versione è perché la minaccia, per lei, è la magistratura che tiene aperta un’inchiesta ridicola. Se una festa la criminalizzo, inizio a interrogare la gente, ognuno fa il suo distinguo. E’ un’azione persecutoria. Cosa può dire la Polanco che non sia quello che io ho visto? Nessuna di loro me l’ha mai data, tra l’altro. Erano amiche di Berlusconi, inclini alla sua disponibilità di essere utile. Dava soldi a chi voleva rifarsi il naso o il seno, cose così. Le cene da Berlusconi erano come le serate delle attrici che andavano a casa del produttore o del regista. Non erano portate a casa del mostro. Erano a casa dell’editore per cui lavoravano. Visto che la Polanco ha partecipato a “La pupa & il secchione”. O la Cipriani, che dava del lei a Berlusconi. La minaccia giudiziaria è diventata un’alterazione della verità. Per paura dell’inchiesta tu cambi versione. Era solo vedere della bella figa a una festa. Fine. Cara Polanco, io ti ho visto sempre uguale, sorridere, sempre allegra e festosa. Poi se ti davano 2500 euro al mese, non era prostituzione era uno stipendio! Quindi eri “mantenuta”. E questo non presuppone un processo per prostituzione. Tanto è vero che a me non l’ha mai data.
Da “la Zanzara - Radio24” il 5 giugno 2019. "Sono andata da Giletti perché si parlava di una cosa molto seria. Si parlava cioè di una morte di cui nessuno parla, quella di Imane Fadil. Invece dopo quello che è successo si parla solo di pompini e puttane". A La Zanzara su Radio 24 Marysthelle Polanco, showgirl domenicana protagonista delle serate del bunga bunga, attacca Vittorio Sgarbi. “Sgarbi – dice - prende in giro gli italiani, non sa manco cosa dice. Dare della puttana a una donna vuol dire che ha problemi sessuali come un adolescente. Un adolescente quando ha sedici anni può dire mi sono fatto questa, mi sono fatta una puttana, ma lui alla sua età...Rocco Siffredi che si è fatto non so quante donne, non ha mai dato della puttana a una donna. Né tanto meno ha parlato male di una donna. Perché Sgarbi ha fatto così? Perché lui non fa sesso, non fa l’amore, non trova una donna. E’ da tanto che non fa queste cose. Non scopa, assolutamente no…”. Come fai a saperlo?: “Io so che non lo fa. Io lo conosco bene. E lui lo sa benissimo. Lui non ha niente, non ha potenza, e dice un sacco di bugie…Dice che non ha bisogno di nessuno, che lui non chiede favori…figuriamoci se non ha chiesto favori a Berlusconi…lui si è arrabbiato perché ho detto queste cose… Chiedeva favori come fanno tutti quelli che lavorano in televisione e lo chiamano. Berlusconi metteva in viva voce in sala e tu senti questi che chiedono di tutto…e lui chiedeva di tutto…Mediaset, programmi, quando faceva il sindaco…”. “Quello che mi fa tristezza – aggiunge - è che tu vai in una trasmissione dove si mette da parte questa ragazza, la Fadil, per parlare di Sgarbi. Lui viene lì, urla, non sa neanche cosa dice. Perché lui dice e si contraddice. Prima sei brava, allegra, poi sei una puttana. Ma io non sono mai stata incriminata. Io non ho mai avuto problemi con la giustizia. Invece lui quanti reati ha commesso? Quante volte lo hanno condannato? Anche adesso io non sono ancora incriminata. E lui fa la predica a me? Essere una puttana pentita è un mio diritto, tutti hanno diritto di sbagliare”. L’hai fatta la puttana sì o no?: “La mia vita è privata. E’ più puttana chi chiede favori e poi dice di no, o io che dico mi pento di aver detto bugie?”. Allora dici di aver raccontato bugie sul bunga bunga e le notti di Arcore?: “Prima ho mentito. Ma saranno i magistrati a decidere se mi sono prostituita o no. Io sono cambiata, mi sono pentita di tante cose, ed è giusto così. Sgarbi può dire quello che vuole, ma non mi interessa quello che dice lui. A lui non piace perché sa che io sto dicendo le cose come stanno. Non gli sta bene. Perché lui è vivo grazie a Berlusconi. Per quello è arrabbiato con me. Nessuno chiama puttana una donna per niente. Ci sarà un motivo, perché gli ha dato fastidio ciò che ho detto”. Che vuol dire vivo grazie a Berlusconi?: “Non ho detto economicamente, le persone di grande business, di grande potere, non si aiutano con i soldi. Si aiutano con i favori”. Come campi?: “Io sono tranquilla. Sono sposata, ho una famiglia, sono in Svizzera, tranquilla. Faccio una vita normale, non una vita di lusso. Io prima lavoravo, dopo lo scandalo non lavoro più. All’epoca, ma questo è documentato, ho chiesto a Berlusconi se mi poteva aiutare con un contratto, perché non lavoro più. Non me l’ha fatto questo favore”. Ma alla fine sei stata a letto con Berlusconi o no?: “Lo diranno i magistrati, lo valuteranno loro quando sarò interrogata”.
(ANSA 10 giugno 2019) – "Non voglio soldi, non voglio case, voglio patteggiare e pulirmi". Così diceva già nel 2014 Marysthell Polanco, una delle ospiti alle serate di Arcore di Silvio Berlusconi e tra gli imputati per corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza nel 'Ruby ter' assieme all'ex premier. Emerge da un audio depositato nei sei faldoni di atti del processo. Audio in cui l'ex showgirl, che ha già detto che ora dirà la "verità" in aula, parlava con il suo legale dell'epoca chiedendo, senza successo, di poter patteggiare. L'ex showgirl, dopo aver reso nei processi sul caso Ruby, così come le altre “olgettine”, la versione delle "cene eleganti" e dopo essere finita prima indagata e poi imputata anche lei nel 'Ruby ter' - processo con al centro i versamenti dell'ex premier in cambio, secondo l'accusa, del silenzio delle ragazze - già nel 2015, quando si era trasferita in Svizzera col marito e un figlio piccolo, aveva raccontato di aver scritto nel 2014 una lettera a Ilda Boccassini per "parlare". Lettera anche questa agli atti del processo. Già a margine della scorsa udienza Polanco, ora difesa dal legale Paolo Cassamagnaghi, ha rivelato di essere pronta a "dire la verità" su quanto accadeva a Villa San Martino e, dunque, a cambiare la versione sulle "cene eleganti". E il suo legale ha chiarito che, a prescindere dalle interviste già rese in questi giorni, nel merito "non dirà nulla fino al dibattimento". Sempre il legale ha chiarito di aver preso la difesa della dominicana solo l'anno scorso "e lei avrebbe potuto patteggiare solo entro l'udienza preliminare, termine che era già scaduto". Nell'audio, registrato dalla stessa Polanco mentre parla con il legale dell'epoca e acquisito dall'aggiunto Tiziana Siciliano e dal pm Luca Gaglio con una rogatoria in Svizzera, l'ex soubrette diceva appunto di voler patteggiare per "pulirmi", ma l'avvocato non era dello stesso avviso. Poi la donna cambiò difensore, prima di essere assistita infine dall'avvocato Cassamagnaghi. "Un audio questo - ha chiarito l'avvocato - che dimostra che la sua volontà è sempre stata quella di patteggiare. Chiederemo la trascrizione di questo audio. Lei - ha aggiunto - è rimasta coerente, voleva patteggiare". Nel frattempo, oggi dopo lunghi rinvii si è aperto finalmente il dibattimento del 'Ruby ter' (la prima udienza milanese risale a oltre 2 anni fa) e i giudici hanno concesso alle difese un altro lungo stop (prossima udienza l'1 luglio) per dare loro tempo di fare copia in cancelleria e studiare i sei faldoni (con atti del Ruby, del Ruby 2 e del Ruby ter) depositati dai pm e presentare eventuali eccezioni. I pm hanno provato a chiedere che il processo si svolgesse "di venerdì, perché l'attività dell'Europarlamento (Berlusconi è eurodeputato, ndr) va da lunedì a giovedì", temendo quindi legittimi impedimenti, ma i giudici hanno spiegato che le udienze tendenzialmente saranno di lunedì.
"MACCHÉ SUPERTESTE, NON HA VISTO NULLA" di Stefano Zurlo per ''il Giornale'' il 18 marzo 2019. Repubblica l'ha ribattezzata «La donna che sapeva troppo». Come fosse la protagonista di un film di Hitchcock. Ma Vittorio Sgarbi vede una pellicola molto più modesta: «Imane Fadil è la donna che non sapeva nulla». Sgarbi, la modella marocchina è morta, a quanto pare, per avvelenamento. Un fine terribile che i giornali hanno fatalmente legato alle cene eleganti di Arcore. «Io non so nulla di questa tragedia ma di una cosa sono sicuro. Io ad Arcore l'ho incontrata in occasione delle famose cene del bunga bunga».
Un attimo, Berlusconi dice di non ricordarsi di Fadil. Lei lo smentisce?
«Può benissimo essere che Silvio non abbia memoria. Lei a queste cene è venuta qualche volta, ho letto otto volte, ma era una comparsa, una presenza laterale. Sfocata. Defilata, rispetto a Iris Berardi, Marysthell Polanco e le altre al centro della scena. Non avendo osservato nulla di strano, nulla di anomalo, nulla ma proprio nulla di piccante, Fadil si è inventata questa storia del Diavolo. È difficile parlare di chi non c'è più, ma la verità è che questa modella si era fatta un film da sola, in assenza di fatti concreti».
Scusi, ma come fa ad essere così certo di quello che dice?
«Perché io c'ero, ho partecipato a tutte le cene».
Le cene eleganti?
«Non saranno state cene eleganti, ma di cene si trattava. Io e lui eravamo gli unici maschi. Sempre e solo io e lui. Sempre».
Le ragazze?
«Io ne portavo dieci, le sue erano una ventina».
A tavola cosa succedeva?
«Niente di quello che hanno scritto i giornali, ricamando di fantasia. E guardi che parlo non da amico di Silvio, ma perché così è andata. Prendevamo posto in un grande salone, lui al centro del tavolo, io di fronte».
Sgarbi, ci sono quintali di articoli, libri e sentenze sull'argomento.
«Sì, ma è curioso che io non sia mai stato chiamato a testimoniare».
Che cosa avrebbe riferito ai magistrati se l'avessero interrogata?
«Quello che sto raccontando a lei: io e Silvio parlavamo per un quarto d'ora di politica, poi la conversazione si faceva più allegra».
Allegra?
«Non equivochi. Berlusconi iniziava a raccontare le sue barzellette, con grande impegno e sfoggio di recitazione».
Tutto qua?
«Un attimo. Il rito si ripeteva sempre uguale: verso mezzanotte lui intonava le sue canzoni preferite e le fanciulle formavano un coretto».
Quindi si scendeva nella saletta sotterranea?
«Esatto».
E lì chissà cosa accadeva...
«Ancora nulla. Io e lui parlavamo dei fatti nostri, le ragazze ballonzolavano la lap dance. Grossomodo dall'una, una e mezzo fino alle due, due e mezzo. Poi tutti a dormire: se qualcuna è andata a letto con lui, sono fatti loro. Non mi riguarda, ma tutta la costruzione sul bunga bunga, i balli discinti, i toccamenti, le avance, le allusioni anche pesanti, è tutta fantasia».
E perché alcune giovani avrebbero descritto questo clima da fine Impero?
«Bisogna chiederlo a loro. Si capiva benissimo che lui era il loro punto di riferimento. Per me, erano mantenute. Mantenute, non prostitute che è tutta un'altra cosa. Avevano un rapporto stabile con lui ed erano assolutamente indisponibili con me, anche se io sono un grande seduttore. Qualcuna mi osservava con occhi ammiccanti, ma non ne ho mai conquistata nemmeno una. Invece, un paio di mie amiche dopo qualche serata sono passate dalla sua parte del tavolo».
Ma Fadil aveva confidato il suo turbamento a destra e sinistra.
«Lo stesso meccanismo che si è ripetuto con Francesca Lancini».
Una delle invitate?
«L'ho portata io, in vista del mio programma tv. Volevo un parere da Silvio prima di inserirla nella trasmissione».
Vada avanti.
«È una serata come tutte le altre. La politica. Le barzellette. I canti e i balli. L'indomani Francesca mi chiama e mi lascia allibito: Io non posso più accettare un ruolo nel tuo programma. Siamo stati da Silvio, mi sento turbata, contaminata da Berlusconi. Incredibile, mi sono messo a urlare per la rabbia. Credo che Fadil abbia seguito la stessa onda. Fino a vedere il Diavolo e a disegnare una trama che non c'è mai stata».
L'UNICA CERTEZZA SU IMANE FADIL: NON SAPEVA NULLA di Maurizio Belpietro per ''la Verità'' 18 marzo 2019. «La donna che sapeva troppo», titolava ieri in prima pagina a caratteri doppi La Repubblica. La donna di cui parlava il quotidiano romano, ovviamente, era Imane Fadil, la modella di origini marocchine morta all' ospedale Humanitas di Rozzano e per il cui decesso la Procura di Milano ha aperto un fascicolo con l' ipotesi di omicidio. Ma che cosa sapeva questa donna? Davvero era a conoscenza di troppi misteri, come lascia intendere il giornale della famiglia De Benedetti? A leggere le carte che l' hanno portata alla ribalta ai tempi del processo Ruby si direbbe di no. Imane Fadil partecipò ad alcune delle cosiddette cene eleganti e per questo fu ascoltata dai pm, ai quali raccontò di aver visto ragazze che ballavano in abiti che non lasciavano nulla all' immaginazione. La testimonianza fu ripetuta in aula, durante la serie di udienze dei processi che seguirono. Imane Fadil, insomma, svelò all' autorità giudiziaria il «troppo» che sapeva. Fu lei stessa a dire di non aver voluto nascondere nulla. A più riprese, fuori dalle aule del tribunale, si fece intervistare da stampa e tv per dire che, a differenza di altre giovani presenti alle cene, non aveva voluto tacere. Io non mi sono fatta corrompere, era il senso delle dichiarazioni. Mi hanno offerto soldi per ritirare la mia costituzione di parte civile, ma io ho rifiutato, preferendo seguire la via maestra della giustizia. In un' occasione parlò di 250.000 euro offerti dal legale di una delle parti in causa (non Silvio Berlusconi). In un' altra disse che un misterioso personaggio le aveva passato un telefono non rintracciabile per mettersi in comunicazione con il Cavaliere, ma lei aveva rifiutato, così come aveva detto no ad altri inviti a recarsi ad Arcore. Neppure nel libro che si dice stesse scrivendo, titolo provvisorio Ho incontrato il diavolo, pare ci sia molto di più. Sembra che la Procura abbia sequestrato il manoscritto, ma in quelle carte ci sarebbero al massimo alcuni aneddoti e qualche «visione» avuta fin da bambina. Imane diceva infatti che da ragazzina aveva incontrato il diavolo, nascosto dietro la tenda, vicino alla finestra. Due metri di altezza, un' ombra inquietante, che poi aveva rincontrato in altre occasioni, Arcore compresa, ma della quale non aveva paura, perché lei era la discendente di un santo cristiano. Imane voleva giustizia per essere stata invitata alle cene eleganti e per essere stata accostata alle altre ragazze, le cosiddette Olgettine, quelle che lei schifava. Per questo, ritenendosi parte lesa, si era costituita parte civile e da anni attendeva che fossero riconosciuti i suoi diritti e, di conseguenza, i danni patiti. Peccato che, a parte una causa per diffamazione intentata a Torino, la giustizia le avesse dato torto. Anzi, a un certo punto, aveva respinto anche la sua costituzione di parte civile nell' ultimo dei cosiddetti processi Ruby (siamo al terzo). Imane non era evidentemente stata ritenuta parte offesa in quel giudizio. Lei non era considerata una vittima, ma ormai solo una testimone, per di più già sentita. Quello che sapeva, troppo o troppo poco, lo aveva detto e dunque, per la giustizia, quella a cui lei stessa diceva di essersi affidata, poteva uscire di scena. Insomma, la donna che sapeva troppo apparentemente non aveva nemici che la volessero zittire. Di certo, non poteva essere considerata un pericolo per il Cavaliere o il suo entourage. La sua testimonianza, ormai, era agli atti, e lei aveva rifiutato i soldi, preferendo vuotare il sacco. Dunque, ammesso e non concesso che qualcuno avesse avuto anche in passato l' intenzione di farla tacere per evitare di farle raccontare ciò che sapeva, ora non c' era alcuna ragione apparente per ridurla al silenzio. No, nessun nemico ad Arcore e dintorni, come lasciano trasparire titoli e cronache. Forse, l' unico nemico negli ultimi tempi era la delusione. Imane era schiacciata dalle ambizioni e dalle frustrazioni. Le ultime notizie la descrivono come una donna costretta a vivere in una cascina semi abbandonata, senza vetri e piena di topi. Nel suo sangue, a quanto pare, non sono state trovate tracce di metalli o di veleni, e anche i presunti ritardi nella segnalazione del decesso all' autorità giudiziaria sembrano svanire insieme ai misteri. Qualcuno ha buttato lì l' idea della leptospirosi, una malattia mortale trasmessa dai topi. Ma anche questa ipotesi sarebbe smentita. Rimane l' ipotesi dell' intrigo, dei killer venuti dall' Est, con materiale radioattivo. Un' ipotesi che però non riesce a spiegare chi e perché avesse interesse a farla tacere. Resta un' ultima possibilità. Che Imane si morta per una malattia che al momento nessuno ha saputo diagnosticare. Una tesi che però non si sposa con il racconto della spy story, e che per questo finora è rimasta remota.
Ruby ter, la difesa di Berlusconi: «La morte di Imane Fadil ci danneggia». Il legale dell’ex premier, Federico Cecconi, esprime «dolore» per la scomparsa della 34enne ma osserva: «Ci nuoce, perché le sue dichiarazioni entrano direttamente nel processo e non possiamo fare il controesame», scrive il 19 marzo 2019 Il Corriere dell aSera. «Fadil non c’è». Così il giudice Giuseppe Fazio, presidente della quarta sezione penale, ha preso atto dell’assenza di Imane Fadil, deceduta il 1° marzo, facendo l’appello delle parti all’inizio dell’udienza del filone Ruby ter a carico di Silvio Berlusconi e di Roberta Bonasia, una delle ospiti alle serate di Arcore. Il giudice, senza fare alcun cenno al decesso della teste chiave della Procura, ha domandato: «C’è qualcuno che rappresenta questa posizione?». In aula, però, per Fadil non c’era il suo legale, l’avvocato Paolo Sevesi. La questione delle parti civili verrà affrontata davanti alla settima corte penale dove sono già a processo l’ex premier e altri 27 imputati a cui si aggiungerà anche Bonasia (udienza fissata per il 15 aprile). In quell’occasione si prenderà atto che le ragazze che chiedono ancora di essere parti civili sono rimaste due, Chiara Danese e Ambra Battilana.
«Ci danneggia». «Dal punto di vista tecnico-processuale la morte» di Imane Fadil «nuoce alla difesa di Berlusconi perché le sue dichiarazioni entrano nel processo direttamente e così noi non possiamo procedere con il controesame». Lo ha detto il legale di Berlusconi, Federico Cecconi, al termine dell’udienza di un filone del caso Ruby ter, quello riguardante l’ex Miss Torino Roberta Bonasia. «Quando muore una persona - ha aggiunto - la massima forma di dolore non è un’espressione retorica». Sulla misteriosa morte «non voglio esprimere opinioni», ha concluso.
Niente controesame. Con la morte di Imane Fadil, una delle testimoni chiave delle inchieste sul caso Ruby, le dichiarazioni della giovane, deceduta il primo marzo scorso per un sospetto avvelenamento, rese anche nelle corso delle indagini sul caso Ruby ter, che vede Berlusconi imputato per corruzione in atti giudiziari assieme a molte «Olgettine», entreranno direttamente negli atti del dibattimento. Per questo, il legale Cecconi ha spiegato che tecnicamente e dal punto di vista processuale la morte «nuoce» alla difesa di Berlusconi e «determina una conseguenza negativa», perché i difensori non potranno più contro-esaminare la testimone in aula nel processo. Il difensore, a chi gli ha chiesto cosa ne pensasse sulla misteriosa morte della modella marocchina, ha risposto che non intendeva «esprimere opinioni» e che di fronte alla morte di una persona «c’è la massima forma di dolore».
L’appartamento nella Torre Velasca. Il fascicolo che vede indagati l’ex premier Silvio Berlusconi e l’ex finalista di Miss Italia Roberta Bonasia – per corruzione in atti giudiziari in concorso - era stato spedito in procura a Torino nel 2016, poi è tornato a Milano perché luogo in cui è stato consumato l’ultimo presunto reato non è Settimo Torinese, ma appunto il capoluogo lombardo. Roberta Bonasia, infermiera di professione, risultava aver incassato un assegno circolare da 25 mila euro in una filiale bancaria di Settimo Torinese. Secondo l’accusa, fu un compenso in cambio di bugie su quanto avveniva ad Arcore, da lei descritto come «cene eleganti». La donna sarebbe stata corrotta anche con un assegno circolare da 55 mila euro e con il comodato d’uso gratuito di un appartamento sulla Torre Velasca, al 22esimo piano. Questo fino ai primi mesi del 2016, mentre l’ultimo assegno risulta incassato nel 2015. Perciò il fascicolo è tornato a Milano. Nell’udienza di martedì, il Tribunale si è espresso a favore della riunificazione tra i due filoni rinviando gli atti alla settimana sezione penale per un’udienza fissata al 15 aprile.
Ambra e Chiara. Nella scorsa udienza, i legali delle parti civili Ambra Battilana, Chiara Danese ed Imane Fadil avevano chiesto di nuovo di essere ammesse e i giudici avevano demandato la decisione ai colleghi che si occuperanno del processo «unico». Il processo principale, iniziato nel gennaio del 2017, intanto va avanti molto a rilento e, nella prossima udienza, è molto probabile un nuovo rinvio, su richiesta della difesa, per consentire a Silvio Berlusconi di partecipare alla campagna elettorale in vista delle elezioni europee.
Ruby ter, Chiara Danese in lacrime al processo: «Violenze nella villa di Berlusconi». Pubblicato lunedì, 28 ottobre 2019 da Corriere.it. In quella serata «ad Arcore» nel 2010 «ho visto e subìto una violenza psicologica e fisica», poi dopo «ho sofferto tanto, anche ora sono in cura e prendo dei farmaci». Così Chiara Danese, una delle testimoni «chiave» del caso Ruby ha confermato ciò che aveva già raccontato anni fa sul «bunga-bunga» nella villa di Silvio Berlusconi, deponendo nel processo «Ruby ter» per corruzione in atti giudiziari a carico del leader di Forza Italia e di altri 28 imputati, tra cui molte «Olgettine». La giovane è scoppiata a piangere in aula quando il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano le ha chiesto come viva adesso: «Questa situazione mi ha rovinato la vita, anche perché la gente si è fatta un’idea di me basandosi sui titoli dei giornali — ha detto Chiara Danese — . Nel mio paesino sono stata etichettata come escort, sono stata vittima di bullismo, non potevo uscire di casa. Sono andata in depressione, ho sofferto di anoressia». Parole pronunciate con commozione, a tal punto che i giudici le domandano se desideri prendere fiato, ma lei ha proseguito: «Ho sofferto tanto, sono in cura e prendo farmaci per affrontare questa situazione. Per me cercare un lavoro normale è difficile perché, vivendo in una piccola realtà, la gente non dimentica, si è fatta un’idea, un’ etichetta che è difficile da togliere». E ancora: «Ho ripreso a studiare per cercare di avere un mestiere, la mia famiglia mi aiuta molto, anche economicamente, e ora vedo un po’ di luce». Chiara Danese, parte civile nei primi due processi Ruby, in questo non è stata ammessa perché i giudici della settima sezione penale del Tribunale di Milano hanno ritenuto che il reato di corruzione in atti giudiziari, contestato all’ex premier e agli altri imputati, non l’abbia (potenzialmente) danneggiata.
(ANSA il 28 ottobre 2019) "In passato sono stata minacciata da persone che conoscevano quello che era successo, ho avuto tanta paura, le ho ricevute da personaggi che fanno parte di questo processo, mi dicevano "stai attenta, guardati le spalle'". Lo ha detto ai cronisti, in una pausa dell'udienza, Chiara Danese, una delle testi "chiave" del caso Ruby e che sta deponendo nel processo '"uby ter" a carico di Silvio Berlusconi e altri. In aula ha parlato di "minacce" da un ex collaboratore di Lele Mora. In quella serata "ad Arcore" nel 2010 "ho visto e subito una violenza psicologica e fisica" e poi dopo "ho sofferto tanto, anche ora sono in cura e prendo dei farmaci". Così Chiara Danese, una delle testimoni 'chiave' del caso Ruby, anche scoppiando a piangere in aula, ha confermato ciò che aveva già raccontato anni fa sul "bunga-bunga" nella villa di Silvio Berlusconi, deponendo nel processo "Ruby ter" per corruzione in atti giudiziari a carico del leader di FI e di altri 28 imputati, tra cui molte "olgettine". Nel dibattimento, che è entrato nel vivo oggi con la testimonianza della 27enne, che aveva 18 anni, come ha spiegato, quando ha partecipato a quella serata, la testimone 'chiave' dell'accusa (assieme ad Ambra Battilana che deporrà in un'altra udienza) ha fornito, rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano, molti dettagli che aveva già reso nelle testimonianze nei processi a carico di Berlusconi e di Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti. E poi è scoppiata a piangere, tanto che i giudici hanno optato per una pausa, quando ha raccontato: "Questa situazione mi ha rovinato la vita, sono stata vittima di bullismo, non potevo più uscire di casa dopo che il mio nome era finito su tutti i giornali, ho sofferto di depressione, di anoressia, e ancora oggi sono in cura, vivo in una realtà piccola e mi hanno affibbiato un'etichetta". E ancora: "Ho ricominciato a studiare per trovarmi un lavoro e la mia famiglia mi sta aiutando". Prima l'ex concorrente di Miss Italia aveva ricostruito come era finita ad Arcore nove anni fa, portata da Emilio Fede, che le aveva promesso che avrebbe fatto "la 'meteorina' a 5mila euro a settimana". Tra l'altro, ha detto, "a 18 anni purtroppo non conoscevo Berlusconi, ero un po' ignorante, a me all'inizio Arcore sembrava solo un locale esclusivo di Milano". Ha parlato delle "barzellette sconce" che l'allora premier avrebbe raccontato a cena e poi ancora della famosa "statuetta di Priapo" con la quale le altre ragazze "simulavano rapporti orali", con Berlusconi che poi diceva: "siete pronte per il bunga-bunga?". E ancora: "Lo baciavano in bocca, le ragazze lo chiamavano "papi", lui mentre ci accompagnava ci toccava dietro, a me e ad Ambra, io avevo paura". Poi, la descrizione di ciò che accadde nella sala del 'bunga-bunga': "C'erano balletti erotici davanti al palo, per le altre ragazze sembrava la normalità, arrivò la Minetti, ballò attorno al palo e si spogliò tutta e poi si fece baciare i seni da Berlusconi". Dunque, Danese decise di chiedere a Fede di andare via, "perché mi sentivo male, mi sentivo a disagio". E se ne andò assieme ad Ambra, mentre Fede "era infastidito".
Ruby ter, parla Chiara Danese: "Ad Arcore violenze fisiche e psicologiche, quelle cene mi hanno rovinato la vita". Chiara Danese e Karima El Marough "Ruby". Una delle testimoni chiave depone in aula per il Ruby Ter e scoppia a piangere: "Sono andata in depressione e ho sofferto di anoressia, io etichettata come escort". La Repubblica il 28 ottobre 2019. In quella serata "ad Arcore" nel 2010 "ho visto e subito una violenza psicologica e fisica" e poi dopo "ho sofferto tanto, anche ora sono in cura e prendo dei farmaci". Così Chiara Danese, una delle testimoni 'chiavè del caso Ruby. E scoppia a piangere quando il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano le chiede come viva adesso: "Questa situazione mi ha rovinato la vita, anche perché la gente si è fatta un'idea di me basandosi sui titoli dei giornali. Nel mio paesino sono stata etichettata come escort, sono stata vittima di bullismo, non potevo uscire di casa. Sono andata in depressione, ho sofferto di anoressia - è questo il passaggio in cui si commuove al punto che i giudici le domandano se desideri prendere fiato (lei prosegue) - Ho sofferto tanto, sono in cura e prendo farmaci per affrontare questa situazione. Parole pronunciate in aula a Milano, deponendo nel processo "Ruby ter" per corruzione in atti giudiziari a carico del leader di FI Silvio Berlusconi e di altri 28 imputati, tra cui molte "olgettine". "Dopo aver visto la statuetta di Priapo" con il quale alcune ragazze mimavano atti sessuali "e dopo aver sentito le barzellette" raccontate a tavola da Silvio Berlusconi davanti a diverse giovani ospiti "pensavo che il bunga bunga fosse una pratica sessuale e mi spaventai" ha raccontato Chiara Danese. La giovane ha ricostruito la "cena elegante" alla quale ha preso parte, durante la quale Berlusconi aveva raccontato barzellette e aveva invitato le sue ospiti a partecipare al bunga bunga. "In passato sono stata minacciata da persone che conoscevano quello che era successo, ho avuto tanta paura, le ho ricevute da personaggi che fanno parte di questo processo, mi dicevano 'stai attenta, guardati le spalle'", ha raccontato ai cronisti, in una pausa dell'udienza, Chiara Danese. In aula ha parlato di "minacce" da un ex collaboratore di Lele Mora. Rispondendo alle domande del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e del pm Luca Gaglio, la 27enne ha raccontato che l'ex collaboratore di Mora, Daniele Salemi, dopo la serata ad Arcore, "voleva farmi prostituire, voleva farmi diventare una escort, mi minacciava anche". Sempre davanti ai giudici della settima penale (presidente del collegio Marco Tremolada), Danese sulla serata a villa San Martino del 2010, dalla quale se ne andò, ha aggiunto: "Io ero destinata a Emilio Fede e Ambra Battilana a Berlusconi, così avevo capito". Il pm Gaglio ha mostrato alla giovane un album fotografico e lei ha riconosciuto tra le partecipanti alla serata Roberta Bonasia ("lei mi disse di non dire ad altri ciò che avevo visto, che non mi dovevo azzardare"), le gemelle De Vivo e Marysthell Polanco. Danese ha parlato, come aveva già fatto in passato, di "toccamenti" tra Berlusconi e le altre ragazze, di "baci sui seni", e di ragazze che "toccavano le parti intime di Berlusconi, come per gioco". Minetti, poi, "si strusciava su Fede e Berlusconi" e le "altre ragazze ci provavano a coinvolgermi, a far spogliare me e Ambra". E quando decise di andarsene con Ambra, Fede "mi disse 'decidi tu di andartene, ma sappi che non lavorerai nel mondo dello spettacolo'". Quando "uscì il primo articolo, chiamai Fede e lui mi rispose chiedendomi se volevo dei 'soldini' da lui, ossia da Berlusconi". Ha parlato anche del "memoriale" che con Ambra depositò in Procura nell'aprile 2011, mentre il difensore di Berlusconi, l'avvocato Federico Cecconi, nel controesame, ancora in corso, sta provando ad evidenziare incongruenze nei racconti della testimone. E' la terza volta, a distanza di anni, che Chiara Danese torna a parlare delle serate ad Arcore nell'ultimo capitolo della saga giudiziaria nata dalle rivelazioni della giovane marocchina, ribadendo "le violenze fisiche e psicologiche subite" nel 2010 a casa di Silvio Berlusconi. "Per me cercare un lavoro normale è difficile perchè, vivendo in una piccola realtà, la gente non dimentica, si è fatta un'idea, un'etichetta che è difficile da togliere". "Ho ripreso a studiare per cercare di avere un mestiere - continua - la mia famiglia mi aiuta molto, anche economicamente, e ora vedo un po' di luce". "Lei è giovanissima - la sprona Siciliano - avrà una vita meravigliosa". Danese, parte civile nei primi due processi Ruby, in questo non è stata ammessa perché i giudici della settima sezione penale del Tribunale di Milano hanno ritenuto che il reato di corruzione in atti giudiziari, contestato a Silvio Berlusconi e agli altri imputati, non l'abbia (potenzialmente) danneggiata.
Ruby ter, il teste: «Due ville in comodato da Berlusconi a Barbara Guerra e Alessandra Sorcinelli». Pubblicato lunedì, 09 dicembre 2019 da Corriere.it. Barbara Guerra e Alessandra Sorcinelli, due delle giovani ospiti alle serate a luci rosse nella villa di Arcore di Silvio Berlusconi, anni fa andarono a vivere «in comodato d’uso» e senza nemmeno «pagare le utenze» in due ville realizzate dall’archistar Mario Botta a Bernareggio, nel Monzese, comprate dal leader di FI «per circa 800mila euro l’una, per un totale di 1,6 milioni». Lo ha raccontato, testimoniando nel processo milanese sul caso «Ruby ter», l’architetto Ivo Redaelli, che ha spiegato di essere «amico» dell’ex premier. Redaelli ha spiegato che Berlusconi nel 2010 gli chiese «di selezionare degli immobili, perché voleva fare un investimento immobiliare» e «io gli proposi quelle due ville di Botta». Dopo che lui le acquistò, «seppi che in una era andata ad abitare Guerra e nell’altra Sorcinelli». Barbara Guerra, a quanto riferito dall’architetto Redaelli, «dava in escandescenze» in quel periodo, e gli disse che se l’ex Cavaliere «non le dava i soldi che chiedeva lo minacciava di andare dai giornalisti con dei video». Berlusconi, sempre stando alla testimonianza di Redaelli (il caso delle ville era emerso in indagini), in quel periodo «si sentiva molto triste, è una persona sensibile, aiuterebbe chiunque, le vedeva in mezzo alla strada, senza lavoro dopo lo scandalo, sperava si rifacessero una vita. Quando poi le telefonate diventavano insistenti, era infastidito e minacciava di buttarle per strada, ma io tranquillizzavo le ragazze dicendo che non l’avrebbe mai fatto». «A volte, Guerra mi chiamava e dava in escandescenze - è il racconto del testimone, incalzato dalle domande del procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e del pm Luca Gaglio - per me era una fatica, perché era successo questo scandalo (delle serate ad Arcore, ndr) che l’aveva innervosita, dava in escandescenze anche per la rottura di una lampadina. Mi diceva che non aveva più né lavoro, né soldi a causa della serate ad Arcore». E ancora: «Da un parte c’era una persona che stimo, Berlusconi, dall’altra queste persone che facevano scene da pazze per qualsiasi cosa, forse perché non avevano più un lavoro, avevano sbalzi d’umore». Ha aggiunto, poi, che fu lui a proporre per loro la formula del comodato d’uso «per regolarizzare e dare forma giuridica» alla presenza delle ragazze nelle ville. Ha detto ancora che lui pagava le utenze e poi si faceva rimborsare dal ragioniere di fiducia di Berlusconi, Giuseppe Spinelli. Sul contenuto dei video che la giovane minacciava di rendere pubblici, Redaelli precisa: «Magari potevano essere immagini in cui lui appariva in maglioncino o in canottiera. Berlusconi è un esteta e gli avrebbe dato fastidio». Nel processo sono imputate 28 persone, tra cui l’ex premier che è accusato di corruzione giudiziaria per avere «comprato» il silenzio o le bugie delle ragazze che partecipavano alla serate a Villa San Martino nei procedimenti giudiziari scaturiti dalla rivelazioni di Ruby. Stando al racconto del teste, oltre a Barbara Guerra anche Alessandra Sorcinelli andò a vivere in una delle ville progettate da Redaelli a Bernareggio, in Brianza, «in comodato d’uso che non aveva una scadenza e senza mai pagare le utenze di luce e gas». Le residenze avevano un valore di 800mila euro a testa. Guerra vive ancora lì: «Non la sento più, dopo avere risolto i problemi di gas e lampadine - ha chiarito l’architetto - so che qualche mese fa c’era stata una perdita, ma se n’è occupata un’altra persona». Redaelli ha affermato di non avere «mai sentito che questa casa doveva essere regalata a Barbara Guerra».
Processo Ruby ter, il racconto della modella: "Spogliarelli e palpeggiamenti alle cene di Arcore". La deposizione di Ambra Battilana che ha parlato delle serate a Villa San Martino. “Emilio Fede mi minacciò e Berlusconi annuiva”. La Repubblica il 16 dicembre 2019. La conferma, dettaglio per dettaglio, della serata "a luci rosse" che vide ad Arcore, nel 2010, nel corso della quale Silvio Berlusconi "era sempre con le mani addosso alle ragazze", "baciava i loro seni" e si faceva "mettere il sedere in faccia", ma anche il racconto delle "molestie" da lei subite nel 2015 dal produttore cinematografico statunitense Harvey Weinstein. Ha parlato di tutto questo, rispondendo prima alle domande del pm Luca Gaglio e poi a quelle del suo difensore, la modella Ambra Battilana, una delle testimoni 'chiave' delle inchieste sul caso Ruby, deponendo nel processo "Ruby ter" a carico dell’ex premier e fondatore di Forza Italia e di altri 28 imputati, tra cui molte "olgettine". La modella, che ora vive a New York ("me ne sono dovuta andare dall'Italia, perché il mio nome era "macchiato" come una escort"), ha parlato, come aveva già fatto negli altri processi, del "bunga-bunga" a villa San Martino ("Berlusconi mi toccò il sedere") e poi anche del "procedimento" a carico di Weinstein, che "mi palpò", che inizierà "il 6 gennaio". Ex Miss Piemonte e autrice nell'aprile 2011, assieme a Chiara Danese, di una memoria che fece avere ai pm di Milano, diventando una delle testimoni 'chiave' delle serate hard di Arcore, Battilana ha ripercorso, passo passo, come aveva già fatto nelle deposizioni dei due altri processi sul caso Ruby, come arrivò a Villa San Martino quell'agosto del 2010 e cosa vide. Ha raccontato di nuovo, ad esempio, che Nicole Minetti nella stanza del "bunga-bunga", dopo la cena con la presenza dell'ormai famosa "statuetta di Priapo", "ballava nuda a un metro da me, si faceva toccare da Berlusconi, Berlusconi la baciava sulla bocca, sul seno e le toccava il sedere". Lei e Chiara decisero di andarsene ed Emilio Fede "ci minacciò dicendoci che se andavamo via, per Miss Italia non avevamo possibilità e mi ricordo che Berlusconi annuiva". Ha raccontato delle barzellette "sconce" dell'ex premier, che lei all'inizio aveva scambiato "per un sosia, un imitatore", e poi ancora di Fede che diceva a Chiara "sdraiati da qualche parte e ti faccio compagnia", del leader di Forza Italia che "ci fece prendere delle statuette colorate da una scatola, ero confusa e mi chiedevo 'perché il presidente dell'Italia ha una collezione di giocattoli?'". Già durante la cena, poi, ha spiegato ancora la modella 27enne, le ragazze "baciavano in bocca Berlusconi, lo toccavano sotto il tavolo nelle parti intime, si facevano toccare i seni e lui le palpava". Ha detto anche di aver subito, dopo la serata ad Arcore, "minacce" e "aggressioni psicologiche" da Daniele Salemi, che all'epoca era suo agente e che aveva portato lei e Chiara a un provino da Fede per fare le "meteorine". Infine, ha parlato anche del caso Weinstein, chiarendo di averlo denunciato per molestie, di aver di recente "sciolto l'accordo di riservatezza" che aveva firmato in precedenza e di aver "collaborato con la polizia", già all'epoca, per raccogliere prove contro di lui. "Io, poi, non volevo firmare l'accordo - ha spiegato - ma ai tempi avevo 22 anni, non conoscevo bene la lingua, era difficile andare avanti nella battaglia". Ora, però, il procedimento partirà, ha concluso Battilana, "il 6 gennaio".
Da corriere.it il 16 dicembre 2019. La conferma, dettaglio per dettaglio, della serata «a luci rosse» che vide ad Arcore, nel 2010, nel corso della quale Silvio Berlusconi «era sempre con le mani addosso alle ragazze», «baciava i loro seni» e si faceva «mettere il sedere in faccia», ma anche il racconto delle «molestie» da lei subite nel 2015 dal produttore cinematografico statunitense Harvey Weinstein. Ha parlato di tutto questo, rispondendo prima alle domande del pm Luca Gaglio e poi a quelle del suo difensore, la modella Ambra Battilana, una delle testimoni «chiave» delle inchieste sul caso Ruby, deponendo nel processo «Ruby ter» a carico del leader di FI e di altre 28 imputati, tra cui molte «olgettine». La modella, che ora vive a New York («me ne sono dovuta andare dall’Italia, perché il mio nome era “macchiato” come una escort»), ha parlato, come aveva già fatto negli altri processi, del «bunga-bunga» a villa San Martino («Berlusconi mi toccò il sedere») e poi anche del «procedimento» a carico di Weinstein, che «mi palpò», che inizierà «il 6 gennaio».
Autrice di una «memoria» con Chiara Danese. L’ex Miss Piemonte, e autrice nell’aprile 2011 assieme a Chiara Danese di una memoria che fece avere ai pm di Milano sulle serate hard di Arcore, ha ripercorso passo passo come arrivò a Villa San Martino quell’agosto del 2010 e cosa vide. Ha raccontato: «Scopro di essere a casa di Berlusconi quando entro in un salottino e vedo questa persona con due vassoi di anelli e dice “voi chi siete?”. Io penso che sia un imitatore di Berlusconi, dopo ho capito di no, era proprio Silvio Berlusconi. Io ho una fissa guardo molto i denti, mancavano dei denti e questa cosa mi stranì, anche l’accento era diverso meno marcato rispetto alla televisione, forse anche il fatto di non avere il trucco...». Ricorda Nicole Minetti nella stanza del «bunga-bunga», dopo la cena con la presenza dell’ormai famosa «statuetta di Priapo», «ballava nuda a un metro da me, si faceva toccare da Berlusconi, Berlusconi la baciava sulla bocca, sul seno e le toccava il sedere». Lei e Chiara decisero di andarsene ed Emilio Fede «ci minacciò dicendoci che se andavamo via, per Miss Italia non avevamo possibilità e mi ricordo che Berlusconi annuiva». Ha raccontato delle barzellette «sconce» dell’ex premier, che lei all’inizio aveva scambiato «per un sosia, un imitatore», e poi ancora di Fede che diceva a Chiara «sdraiati da qualche parte e ti faccio compagnia», del leader di Forza Italia che «ci fece prendere delle statuette colorate da una scatola, ero confusa e mi chiedevo “perché il presidente dell’Italia ha una collezione di giocattoli?”».
Il provino da «meteorina». Già durante la cena, poi, ha spiegato ancora la modella 27enne, le ragazze «baciavano in bocca Berlusconi, lo toccavano sotto il tavolo nelle parti intime, si facevano toccare i seni e lui le palpava». Ha detto anche di aver subito, dopo la serata ad Arcore, «minacce» e «aggressioni psicologiche» da Daniele Salemi, che all’epoca era suo agente e che aveva portato lei e Chiara ad un provino da Fede per fare le «meteorine» a Mediaset. «Salemi faceva di tutto per stare nella mia vita. Lavorava con Lele Mora». Il 20 agosto 2010 proprio Salemi aveva procurato a Ambra e Chiara un invito a una cena ad Arcore alla presenza di Silvio Berlusconi. «Dopo che è uscito il mio nome sui giornali - ha spiegato la modella nell’aula - non ho più voluto vedere Salemi perché mi aveva rovinato la vita». Salemi voleva fare l’agente della modella di origine italofilippina e dell’amica Chiara Danese, entrambe concorrenti a Miss Italia. Dopo la cena, Ambra e Chiara hanno deciso si denunciare l’accaduto e di costituirsi parti civili. «A Salemi ho detto che ci aveva lasciato in un casino e lui si è stupito - ha riferito Ambra - . Non ritenevo che Salemi fosse una persona si cui fidarmi, l’avevo conosciuto 10 mesi prima e mi aveva procurato qualche servizio fotografico. Avevo 17 anni e abitavo a Torino e stavo ancora studiando, non era cosi facile trovare un altro agente. Conoscevo la situazione familiare di Chiara (che aveva il padre malato, ndr.) e Salemi sapeva sempre tutto e ne approfittava». Aveva anche aiutato il fratello di Ambra a trovare lavoro come cameriere. Dopo il rifiuto delle ragazze a partecipare al «bunga bunga», Daniele Salemi aveva iniziato a minacciare entrambe. «Anche Chiara Danese odiava Salemi», ha detto Ambra.
Il produttore denunciato per molestie. Infine, ha parlato anche del caso Weinstein, chiarendo di averlo denunciato per molestie, di aver di recente «sciolto l’accordo di riservatezza» che aveva firmato in precedenza e di aver «collaborato con la polizia», già all’epoca, per raccogliere prove contro di lui. «Io, poi, non volevo firmare l’accordo - ha spiegato - ma ai tempi avevo 22 anni, non conoscevo bene la lingua, era difficile andare avanti nella battaglia». Ora, però, il procedimento partirà, ha concluso Battilana, «il 6 gennaio».
In aula anche Barbara Guerra e Alessandra Sorcinelli. Si sono presentate in aula anche Barbara Guerra e Alessandra Sorcinelli, due delle giovani ospiti alle serate «a luci rosse» ad Arcore e imputate per falsa testimonianza e corruzione in atti giudiziari nel caso Ruby ter. Di Guerra e Sorcinelli aveva parlato un testimone, l’architetto Ivo Redaelli, nella scorsa udienza, raccontando che erano andate a vivere in due ville, realizzate dall’archistar Botta e comprate dall’ex premier per un totale di circa 1,6 milioni di euro. «Vogliamo affermare con forza - avevano scritto le due giovani in una nota, diffusa dall’avvocato Nicola Giannantoni - che il rapporto che ha contraddistinto la nostra amicizia con il presidente Berlusconi è sempre stato caratterizzato da stima e affetto reciproci». Mai «nessuna minaccia e nessun atto prevaricatorio si è mai concretizzato nei suoi confronti», avevano aggiunto le due, a proposito sempre di alcune affermazioni del testimone nella deposizione.
Imane Fadil, l'avvocato di Silvio Berlusconi: perché per il Cav la morte della modella è un grosso guaio, scrive il 19 Marzo 2019 Libero Quotidiano. C'è chi, neppur troppo velatamente, accosta la morte di Imane Fadil a Silvio Berlusconi: operazione vergognosa e pericolosa, basata sul fatto che la modella scomparsa lo scorso primo marzo era testimone nel processo Ruby. E ora, a mettere qualche proverbiale puntino sulle "i", ci pensa Federico Cecconi, legale di Silvio Berlusconi: "A livello tecnico-processuale la morte di Imane Fadil ci danneggia perché le sue dichiarazioni entrano direttamente nel processo e non possiamo fare il controesame". E ancora: "Quando una persona muore la massima forma di dolore non è un'espressione retorica". Sulla misteriosa morte "non voglio esprimere opinioni", ha concluso. Oggi, martedì 19 marzo, era in programma l'udienza che vede imputati Berlusconi e Roberta Bonasia, accusata di aver ricevuto 80mila euro per scagionare il leader di Forza Italia sulle cene ad Arcore. La Fadil nel processo si era costituita parte civile e il presidente della quarta sezione penale, Giuseppe Fazio, prendendo atto dell'assenza della marocchina ha affermato: "Fadil non c'è". Clima pesante in tribunale, in attesa dell'autopsia che inizierà mercoledì per terminare giovedì. "L'ipotesi della morte naturale ha pari dignità rispetto a quella dell'avvelenamento", hanno riferito stamattina fonti giudiziarie in relazione alla morte di Imane Fadil. La procura sta indagando sull'ipotesi del reato di omicidio volontario.
(ANSA il 19 marzo 2019) - Le ipotesi che la morte di Imane Fadil, una delle testimoni chiave del processo Ruby, sia dovuta a una malattia rara o ad avvelenamento sono sullo stesso piano e "hanno pari dignità". E' quanto hanno spiegato il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e il pm Luca Gaglio che coordinano le indagini sul caso della modella marocchina, aggiungendo che ancora non si sa la data dell'autopsia, che sarà decisiva. L'esame inizierà con alcuni prelievi di organi per accertare l'eventuale presenza di radioattività.
(ANSA il 19 marzo 2019) - "Dal punto di vista tecnico-processuale la morte" di Imane Fadil "nuoce alla difesa di Berlusconi perché le sue dichiarazioni entrano nel processo direttamente e così noi non possiamo procedere con il controesame". Lo ha detto il legale di Berlusconi, Federico Cecconi, al termine dell'udienza di un filone del caso Ruby ter. "Quando muore una persona - ha aggiunto - la massima forma di dolore non è un'espressione retorica". Sulla misteriosa morte "non voglio esprimere opinioni", ha concluso. Con la morte di Imane Fadil, una delle testimoni chiave delle inchieste sul caso Ruby, le dichiarazioni della giovane, deceduta il primo marzo scorso per un sospetto avvelenamento, rese anche nelle corso delle indagini sul caso Ruby ter, che vede Berlusconi imputato per corruzione in atti giudiziari assieme a molte 'olgettine', entreranno direttamente negli atti del dibattimento. Per questo, il legale Cecconi ha spiegato che tecnicamente e dal punto di vista processuale la morte "nuoce" alla difesa di Berlusconi e "determina una conseguenza negativa", perché i difensori non potranno più contro-esaminare la testimone in aula nel processo. Il difensore, a chi gli ha chiesto cosa ne pensasse sulla misteriosa morte della modella marocchina, ha risposto che non intendeva "esprimere opinioni" e che di fronte alla morte di una persona "c'è la massima forma di dolore".
(ANSA il 19 marzo 2019) - E' stata comunque citata dai giudici della quarta sezione penale di Milano, come parte del procedimento, Imane Fadil, una delle testimoni più importanti delle inchieste sul caso Ruby, morta per un sospetto avvelenamento lo scorso 1 marzo. Il presidente del collegio Giuseppe Fazio, prima di rinviare la tranche 'Ruby ter', che vede Silvio Berlusconi imputato assieme a Roberta Bonasia, alla settima penale per la riunione col processo principale, ha nominato anche la modella marocchina, che aveva chiesto di entrare come parte civile, e ha domandato: "C'è qualcuno che rappresenta questa posizione?". In aula, però, per Fadil non c'era il suo legale, l'avvocato Paolo Sevesi. La questione delle parti civili verrà affrontata davanti alla settima penale dove sono già a processo l'ex premier e altri 27 imputati a cui si aggiungerà anche Bonasia (udienza fissata per il 15 aprile). In quell'occasione si prenderà atto che le ragazze che chiedono ancora di essere parti civili sono rimaste due, Chiara Danese e Ambra Battilana. Lo stesso legale di Berlusconi, l'avvocato Federico Cecconi, ha spiegato che la questione delle parti civili verrà affrontata davanti alla settima penale, dove i giudici nella prossima udienza dovranno formalizzare la riunificazione della tranche Berlusconi-Bonasia con quella principale già a carico di 28 imputati e con al centro i reati di corruzione in atti giudiziari e falsa testimonianza. Battilana, Danese e la stessa Fadil con un'ordinanza letta dai giudici della settima penale a metà gennaio erano già state estromesse da parti civili nel processo principale, mentre è rimasta la posizione dell'Avvocatura dello Stato per la presidenza del Consiglio. Sulle due richieste rimanenti delle parti civili (rappresentate dal legale Mauro Rufini, oggi non presente in aula), presentate nel filone Berlusconi-Bonasia, si dovrà esprimere di nuovo il collegio della settima, presieduto da Marco Tremolada. Il dibattimento principale di fatto non è ancora iniziato (è ancora nella fase delle questioni preliminari), malgrado la prima udienza risalga al gennaio 2017. Quando ripartirà, poi, il 15 aprile i giudici potrebbero trovarsi a decidere sulla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi per la campagna elettorale per Europee.
Imane Fadil, i punti dell'inchiesta: chi è, quando è stata ricoverata e cosa è successo. La modella marocchina morta il primo marzo per cause sospette. Era parte civile nei processi contro Berlusconi, Fede e Minetti di Corriere Tv del 18 marzo 2019. Imane Fadil è una modella, con comparsate in tv e il sogno di diventare giornalista sportiva. Dopo lo scandalo Ruby sulle cene e i «dopo cena» ad Arcore in casa dell’allora premier Silvio Berlusconi si costituisce parte civile nei processi contro Berlusconi, Emilio Fede e Nicole Minetti. Imane viene ricoverata nella clinica Humanitas di Rozzano il 29 gennaio dopo essersi sentita male a casa di un amico. La giovane dice di avere vissuto in una casa infestata da topi: si sospetta anche la leptospirosi. Muore il primo marzo. Il midollo osseo non è più in grado di produrre globuli bianchi. Reni e fegato sono distrutti. A metà febbraio la ragazza marocchina confida all’avvocato Paolo Sevesi e al fratello di temere di essere stata avvelenata. A spingerla a pensare ciò — secondo la Procura — potrebbero essere stati i medici stessi. Le date dell’inchiesta non tornano: secondo l’Humanitas, la Polizia giudiziaria viene allertata, con procedure standard, appena si fanno strada i timori di un possibile avvelenamento. Il procuratore della Repubblica Greco dichiara: «Abbiamo saputo della morte dal difensore di Imane Fadil, una settimana dopo il decesso». I presunti ritardi nelle comunicazioni alla Procura fanno sì che la donna non abbia potuto essere interrogata L’inchiesta è affidata ai pm Siciliano e Gaglio, gli stessi che rappresentano l’accusa a Silvio Berlusconi nel processo Ruby ter.
Giuseppe Guastella e Simona Ravizza per il ''Corriere della Sera'' il 18 marzo 2019.
Chi è Imane Fadil?
Quando scoppia il caso Ruby sulle cene e i «dopo cena» ad Arcore in casa dell' allora premier Silvio Berlusconi, Imane Fadil è una modella, con comparsate in tv in programmi di seconda fascia e il sogno di diventare giornalista sportiva. Dopo lo scandalo, la giovane, che smette di lavorare, si ritiene danneggiata dal clamore della vicenda. Così si costituisce parte civile nei vari processi contro Berlusconi, Emilio Fede e Nicole Minetti.
Quando viene ricoverata?
Imane viene ricoverata nella clinica Humanitas di Rozzano, alle porte di Milano, il 29 gennaio dove arriva in ambulanza dopo essersi sentita male a casa di un amico. I sintomi sono: spossatezza, forti mal di pancia, gonfiore del ventre, dimagrimento rapido. I medici pensano a un tumore del sangue o che sia affetta da una grave malattia autoimmune come il lupus. Il racconto della giovane, che dice di avere vissuto in una casa infestata da topi, fa sospettare anche la leptospirosi.
Quando muore?
Il primo marzo. Il midollo osseo non è più in grado di produrre globuli bianchi. Reni e fegato sono distrutti.
Che cosa confessa Imane all' avvocato prima di morire?
A metà febbraio la marocchina confida all' avvocato Paolo Sevesi e al fratello di temere di essere stata avvelenata: a spingerla a pensare ciò - secondo fonti della Procura - potrebbero essere stati i medici stessi.
Quando scatta l' inchiesta per omicidio?
Le date non tornano. Secondo un comunicato stampa dell' Humanitas, la Polizia giudiziaria viene allertata, eseguendo procedure standard, appena si fanno strada i timori di un possibile avvelenamento. Il procuratore della Repubblica Francesco Greco, invece, dichiara: «Abbiamo saputo della morte dal difensore di Imane Fadil, una settimana dopo il decesso».
Perché le date sono importanti?
I presunti ritardi nelle comunicazioni alla Procura fanno sì che la donna non abbia potuto essere interrogata.
L' inchiesta è affidata ai pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio, gli stessi che rappresentano l' accusa a Silvio Berlusconi nel processo Ruby ter, il filone in cui il Cavaliere è accusato di corruzione in atti giudiziari dei testimoni. Fadil avrebbe potuto testimoniare.
Quando vengono richiesti gli esami sui metalli pesanti?
Dopo che le analisi di routine non danno riscontri, il 27 febbraio l' Humanitas chiede una consulenza al Centro Antiveleni dell' Istituto Maugeri di Pavia per eseguire esami sulla presenza nel sangue di 50 metalli. I risultati arrivano per telefono il primo marzo e via fax il 6 marzo.
Qual è l' esito delle analisi?
Dal referto, letto al Corriere , emergono i seguenti valori: «Cobalto 0,7 microgrammi al litro («Il livello di tossicità è considerato 40 - spiegano i medici - e sotto i 10 non è mai trattato con cure mediche»); Cromo 2,6 («Il livello di tossicità è considerato 800»); Molibdeno plasmatico 2,6 («Non ci sono livelli di guardia fissi perché non ci sono casi di tossicità acuta noti»); Nichel 2,8 («Il livello di tossicità è almeno 100 volte superiore»); Antimonio plasmatico 3 («Non ci sono livelli di guardia fissi perché non ci sono casi di tossicità acuta noti»); Cadmio 1,2 («Fino a 1,5 è nella norma»), come dentro la soglia risultano tutti gli altri valori rimanenti». Per il Centro Antiveleni di Pavia non sono presenti - in sintesi - livelli tossici.
Perché la Procura ipotizza agenti radioattivi?
«Un conto è la presenza nel sangue di metalli pesanti - spiega Roberto Moccaldi, responsabile di Medicina del lavoro e Radioprotezione del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) -, un altro la possibilità che essi siano radioattivi. A parte alcune eccezioni (come il polonio), un dosaggio pericoloso di radiazioni necessita solitamente di una quantità rilevante di metalli radioattivi nel corpo». Da un test eseguito sulla salma su ordine della Procura in un altro laboratorio (il Centro Antiveleni di Pavia non effettua misure di radioattività) emergono, dice un investigatore, «livelli di radioattività pari a quelli di chi ha lavorato per 30 anni in una fonderia».
Come si può diventare radioattivi?
«Introducendo nell' organismo radionuclidi, ossia materiali che emettono radiazioni ionizzanti in grado di attraversare il corpo umano ed uscire - dice Moccaldi -. Si chiamano radiazioni gamma. Oppure introducendo altri radionuclidi che emettono radiazioni alfa, come il polonio 210, che provocano un danno maggiore. Quest' ultimo è utilizzato nel 2006 per uccidere Litvinenko, l' ex spia russa morta in ospedale dopo aver sorseggiato un tè».
Quali precauzioni vanno prese per evitare contagi?
«In caso di radiazioni gamma si deve evitare l' esposizione non sostando vicino a chi è contagiato - sottolinea Moccaldi -. Con le alfa il problema non c' è per la loro scarsa capacità di uscire dal corpo».
L' autopsia sarà eseguita tra mercoledì e giovedì, a 20 giorni dalla morte. Col passare del tempo le tracce di radioattività rischiano di diminuire?
«No. Negli organi-bersaglio come reni e fegato le sostanze radioattive vengono smaltite in tempi non brevi - chiarisce Moccaldi -. Un mese non basta».
La tesi dell' avvelenamento è l' unica in campo?
No. La Procura non esclude nulla: «È tutto da accertare.
Potrebbe trattarsi anche di una tremenda malattia».
Imane Fadil, il giallo sulla morte della modella del caso Berlusconi: le domande che tutti si pongono. Il decesso sospetto della 34enne e i dubbi della Procura su un possibile avvelenamento. I sintomi, i risultati degli esami clinici, le date che non tornan, scrivono Giuseppe Guastella e Simona Ravizza il 18 marzo 2019 su Il Corriere della Sera. La fine precoce e inattesa, a 34 anni, e l’ipotesi di un possibile avvelenamento hanno portato in primo piano la figura della modella Imane Fadil, coinvolta nel caso Ruby. Ecco le domande che tutti si stanno ponendo.
Chi era Imane Fadil?
Fino a ottobre 2010, quando è scoppiato il caso Ruby sulle cene e i «dopo cena» ad Arcore in casa dell’allora premier Silvio Berlusconi, Imane Fadil è una modella, con comparsate in tv in programmi di seconda fascia e il sogno di diventare giornalista sportiva. Con gli sviluppi del processo Ruby, in cui viene coinvolta come testimone per la sua presenza a Villa San Martino, la marocchina smette di lavorare e per un paio di anni si dedica al fidanzato di allora. La giovane, che si è sempre ritenuta danneggiata dal clamore del caso Ruby e assicura di non avere mai partecipato ai bunga bunga, si costituisce parte civile nei vari processi contro Berlusconi, Emilio Fede e Nicole Minetti.
Quando viene ricoverata e perché?
Imane viene ricoverata nella clinica Humanitas di Rozzano, alle porte di Milano, il 29 gennaio: non è ancora chiaro né perché la donna scelga di farsi ricoverare proprio all’Humanitas (l’ospedale fondato da Gianfelice Rocca di Techint) né chi l’abbia accompagnata al Pronto soccorso. I sintomi che presenta sono: spossatezza, forti mal di pancia, gonfiore del ventre, dimagrimento rapido. Questo fa pensare ai medici che abbia un tumore del sangue, oppure sia affetta da una grave malattia autoimmune come il lupus. Il racconto della giovane ai sanitari, ai quali spiega di avere vissuto in una casa infestata da topi, fa sospettare anche la leptospirosi.
Quando muore?
Il decesso è datato 1° marzo. La causa che porta il cuore a fermarsi non è ancora accertata. Di certo, il fisico di Imane è gravemente compromesso: il midollo osseo non è più in grado di produrre globuli bianchi, reni e fegato sono distrutti.
Che cosa confessa Imane all’avvocato prima di morire?
Nella seconda metà di febbraio la marocchina confida ai sanitari, all’avvocato Paolo Sevesi e al fratello di temere di essere stata avvelenata.
Quando scatta l’inchiesta della Procura?
Secondo fonti interne all’Humanitas, la Polizia giudiziaria viene allertata, eseguendo la procedura standard di casi simili, immediatamente dopo la confessione di Fadil sui timori di avvelenamento. Stesso iter sarebbe stato seguito anche il giorno della morte, tanto che i carabinieri avrebbero acquisito la cartella clinica alle dieci del mattino del 1° marzo, a ridosso del decesso. Il procuratore della Repubblica Francesco Greco, invece, dichiara: «Abbiamo saputo della morte dal difensore di Imane Fadil, una settimana dopo il decesso».
Perché le date sono importanti?
I presunti ritardi nelle comunicazioni alla Procura hanno fatto sì che la donna non abbia potuto essere interrogata. Il 15 marzo è Greco stesso a comunicare in una conferenza stampa l’apertura di un’inchiesta per omicidio, affidata ai pm Tiziana Siciliano e Luca Gaglio, gli stessi che rappresentano l’accusa a Silvio Berlusconi nel processo Ruby ter, il filone in cui il Cavaliere è accusato di corruzione in atti giudiziari dei testimoni. Fadil era stata estromessa come parte civile, ma avrebbe dovuto testimoniare sui presunti tentativi di corruzione. Con la sua morte, i verbali delle sue dichiarazione ai pm entrano direttamente nel dibattimento. Su tutti questi passaggi sono già stati interrogati in Procura alcuni medici della clinica Humanitas, altri lo saranno nei prossimi giorni.
Quando vengono richiesti gli esami sui metalli pesanti?
Dopo che le analisi di routine non danno riscontri, il 27 febbraio i medici dell’Humanitas chiedono una consulenza al Centro Antiveleni dell’Istituto Maugeri di Pavia per eseguire esami ad ampio spettro sulla presenza di 50 metalli. I risultati arrivano per telefono il 1° marzo (per coincidenza, proprio il giorno della morte di Imane) e con una comunicazione via fax il 6 marzo.
Qual è l’esito delle analisi?
Dal referto, letto al Corriere, emergono i seguenti valori: «Cobalto 0,7 microgrammi al litro («Il livello di tossicità è considerato 40 — spiegano i medici — e sotto i 10 non è mai trattato con cure mediche»); Cromo 2,6 («Il livello di tossicità è considerato 800»); Molibdeno plasmatico 2,6 («Non ci sono livelli di guardia fissi perché non ci sono casi di tossicità acuta noti»); Nichel ematico 2,8 («Il livello di tossicità è almeno 100 volte superiore»); Antimonio plasmatico 3 («Non ci sono livelli di guardia fissi perché non ci sono casi di tossicità acuta noti»); Cadmio 1,2 («Fino a 1,5 è nella norma»), come dentro la soglia risultano tutti gli altri valori rimanenti». Per il Centro Antiveleni di Pavia non sono presenti — in sintesi — livelli tossici.
Perché la Procura ipotizza agenti radioattivi?
Fonti della Procura sostengono che «i livelli dei cinque metalli pesanti con i valori alterati non sono da sottovalutare perché pari a quelli di chi ha lavorato per trent’anni in una fonderia». Le loro radiazioni, che non sono state però ancora misurate, possono essere letali. È un’ipotesi che gli investigatori formulano dopo che gli altri accertamenti clinici non sono arrivati a nulla. La possibilità al vaglio della Procura è che i metalli pesanti potessero essere presenti nel corpo di Imane Fadil in maniera massiccia già prima del ricovero, assunti direttamente o per l’esposizione di una fonte radioattiva.
La tesi dell’avvelenamento è l’unica in campo?
No. La Procura non esclude nulla: «È tutto ancora da accertare. Potrebbe trattarsi anche di una tremenda malattia — dice il procuratore Francesco Greco —. Spero che la scienza riesca a risolvere il problema».
Antonio Castaldo per il “Corriere della Sera” il 19 marzo 2019. «Un'anima tormentata. La storia di Berlusconi, le udienze, gli interrogatori, non ce la faceva più con questa storia. Era in cerca di pace. Forse per questo motivo era così interessata al cristianesimo, aveva bisogno di Dio». Gaetano Lombardi, pensionato settantenne di Sesto Ulteriano, frazione di San Giuliano Milanese, quasi ogni pomeriggio inforca la bici e va all' abbazia di Chiaravalle. È lì che ha conosciuto Imane Fadil, che aveva preso in affitto un appartamento in una cascina poco distante.
Lei, marocchina, aveva spiegato di essere cristiana. Frequentava la chiesa?
«Ci veniva spesso, molte volte assisteva alle funzioni. Diceva che Gesù è buono con tutti».
Come l' ha conosciuta?
«Per caso, era a spasso nel parco. Aveva un cagnolino, l'ho accarezzato. Lei mi ha chiesto se poteva sedersi accanto a me. Per due anni, quasi ogni giorno, ci incontravamo nel ristoro dell' abbazia. Prendevamo un caffè, chiacchieravamo. Per lei ero come un padre, me lo scrisse anche in un messaggio. E anch'io, sebbene fosse la ragazza più bella che abbia mai conosciuto, l'ho sempre considerata solo così, una figlia».
Cosa le raccontava delle sue disavventure?
«Mi ha sempre confidato poco o nulla dei processi e delle sue preoccupazioni. Mi diceva che aveva delle udienze da fare, che voleva un risarcimento piuttosto cospicuo. E basta, non scendeva nei particolari. Solo una volta mi ha spiegato come funzionavano le cene eleganti. Si mangiava al piano di sopra, poi si scendeva giù, per il famoso bunga bunga. Al quale lei non ha mai partecipato. Quella sera lì è scappata e non è più tornata».
Le paure, le minacce?
«Non me ne ha mai parlato».
Le sembrava serena?
«Serena proprio no, economicamente stava male. Aveva bisogno di soldi, poverina. Viveva con niente. Una volta l' ho anche aiutata, le ho dato 100 euro. Poi basta, non mi ha mai chiesto niente. Era proprio una brava ragazza».
L'ultima volta che l' ha vista?
«È stato a gennaio, poi il 29 è stata ricoverata».
Come stava?
«La vedevo strana, ma non avrei mai potuto immaginare quello che poi è successo. In ospedale sono andato a trovarla 3 o 4 volte».
E cosa le diceva?
«Mi ripeteva che voleva guarire, sperava di riuscire a farcela. Aveva lividi dappertutto, era impressionante».
Sospettava di essere stata avvelenata?
«A me non l' ha mai detto, penso che neppure lei immaginasse una cosa del genere».
Paolo Colonnello per “la Stampa” il 19 marzo 2019. Imane Fadil ogni volta che varcava la soglia del palazzo di giustizia di Milano per raccontare delle sue serate ad Arcore, tra balli sfrenati e spogliarelli equivoci, appariva nervosa, tesa, per nulla assimilabile alla sfrontatezza di alcune "Olgettine" che vivevano l' assalto di fotografi e telecamere come una nuova opportunità di ribalta. Imane era arrabbiata, disperata: «Da questa vicenda ho avuto solo guai», ripeteva. «Ho respinto tantissimi tentativi di corruzione da parte di Silvio Berlusconi e dal suo entourage. Ma ora sto scrivendo un libro vedrete». Il file del libro adesso è nelle mani della Procura che finora, a quanto pare, non ha trovato nulla di particolarmente sconvolgente nei racconti un po' confusi di questa ragazza. Il cui omicidio, dovuto a un mix di sostanze radioattive difficilmente reperibili in commercio, assomiglia più a un' esecuzione di quelle messe in atto da qualche potente servizio segreto che a una vicenda legata alla semplice prostituzione o a qualche ricatto sessuale. Che senso aveva uccidere Imane Fadil adesso? Dopo che aveva testimoniato innumerevoli volte, dopo che aveva raccontato in video e nelle interviste le cose più assurde e stravaganti sulle sue esperienze nella villa di Arcore? In una delle ultime interviste, rilasciate al Fatto Quotidiano esattamente l' aprile di un anno fa, Imane raccontò persino di essere convinta che nella magione di Berlusconi si fosse insediata una setta satanica composta quasi solo da donne diaboliche e che nei sotterranei vicini alla piscina vi fossero magazzini con lunghe tuniche servite più per delle messe nere che per i "bunga bunga" e una stanza tutta buia dove svolgere chissà quali orgiastici riti. Non che qualcuno in Procura l' avesse presa sul serio. Eppure, tra i tanti racconti di perizomi e balletti saffici («Ricordo Minetti vestita da uomo, altre da poliziotte, Iris Berardi da Ronaldinho, una da Boccassini»), uno venne preso molto sul serio anche se approdò a poco, se non all' accertamento dell' esistenza di un mondo ambiguo e pericoloso che girava intorno a Imane. Fu quando lei, durante una testimonianza a uno dei processi che vedevano imputati Lele Mora, Emilio Fede e Nicole Minetti, raccontò di essere stata avvicinata nella primavera del 2011, da un presunto intermediario siriano, tale Saed Ghanaymi. Quest' ultimo, spiegò in aula Fadil, «diceva di essere amico di Berlusconi e mi disse di andare ad un incontro ad Arcore per avere dei soldi. Io nel marzo aprile del 2011 mi recai dall' avvocato Asa Peronace per chiedere una consulenza. Solo dopo venni a sapere che quello era l' avvocato delle gemelle De Vivo (finite anche loro nel giro delle "olgettine", ndr). Fu l' avvocato a farmi incontrare quest' uomo straniero che si presentò come Marco. Lo incontrai due giorni dopo a Linate e là mi diede un telefono e una scheda per potermi chiamare e non essere intercettato. Mi ha chiamato tante volte e ogni volta mi diceva di prendere un taxi e andare ad Arcore per avere dei soldi. Credo fosse dei servizi». Ma, continuò Imane, il siriano, dopo aver capito che lei non avrebbe accettato l' offerta, la minacciò: «Mi disse: fossi in te, io non mi scontrerei con certe persone, stai zitta». Fadil aggiunse anche di aver saputo dell' esistenza di foto compromettenti che ritraevano Ruby con Berlusconi in atteggiamenti «di natura sessuale». Il siriano, rintracciato e interrogato dalla Procura, ovviamente smentì e quando gli chiesero se apparteneva a dei servizi segreti rispose di "non ricordare". Incredibile. Foto a luci rosse, ricatti, emissari siriani. La trama di un libro di fantasia, se non fosse che adesso il cadavere c' è per davvero è la morte è stata atroce: disfacimento delle viscere per avvelenamento. La bellezza di questa giovane di origini marocchine, vissuta a Torino in una famiglia modesta con un fratello e una sorella gemella, e arrivata a Milano in cerca di successi effimeri, sembrava sfiorire a ogni nuova testimonianza. Infanzia difficile, gioventù tra discoteche e personaggi equivoci. Ora Lele Mora, che la presentò a Silvio Berlusconi quando Imane aveva 25 anni, la ricorda come una «ragazza insignificante, triste e infelice», ma è una cattiveria. Perché quando la giovane varcò i cancelli di Villa San Martino, e lo fece per ben otto volte («Ho visto di tutto, ragazze nude o a terra che mi guardavano disperate») era in realtà di una bellezza esotica, capace di tener testa a Ruby Rubacuori, la regina di quelle "cene eleganti" in cui l' unica eleganza concessa era quella di rifiutare buste con migliaia di euro in contanti in cambio di sesso. «L' ultima volta mi dissero che se non avessi fatto qualcosa in più era inutile che stessi lì. Non tornai più».
Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 17 marzo 2019. Quando il 29 gennaio scorso Imane Fadil entrò già debolissima nella clinica Humanitas di Rozzano, una delle prime ipotesi dei medici sul male che le stava mangiando gli organi vitali fu la leptospirosi, quella che si prende a contatto con l' urina dei ratti. Perché la testimone del processo Ruby ter, la ex modella ed aspirante giornalista tv ospite delle cene di Arcore, era ridotta così male economicamente da essere stata costretta a vivere in una casa infestata dai topi. L' ha detto lei stessa ai sanitari quando è stata ricoverata. Forse si riferiva alla cascina nelle campagne di Chiaravalle dove, dicono i pochi vicini che la vedevano andare e tornare, a qualche finestra mancavano perfino i vetri. Spesso Imane Fadil si recava in Svizzera dove vivono una sorella e un fratello, mentre un altro sta in Italia e un altro ancora è rimasto in Marocco con la loro madre. I familiari la aiutavano come potevano. Quando si presentava in palazzo di giustizia a Milano, Imane vestiva in modo impeccabile. È stata una modella, sapeva cosa indossare e come. Solo di recente, dopo che la malattia l' aveva già aggredita, il suo aspetto lasciava intuire minimi cedimenti. Aveva pochissimi amici, uno dei quali negli ultimi tempi la ospitava in casa permettendole di andare avanti in qualche modo. Passati i lontani tempi dei lustrini e delle brevi e rare partecipazioni in trasmissioni televisive di seconda fascia, oramai non lavorava da anni e, di conseguenza, non aveva introiti finanziari. Gli unici soldi sui quali aveva potuto contare erano i quaranta mila euro che aveva incassato per una querela per diffamazione che aveva presentato a Torino nel 2012. Eppure, dopo che la difesa della senatrice di Forza Italia Maria Rosaria Rossi, anche lei imputata (ma per falsa testimonianza) nel processo Ruby ter sulle corruzioni di testimoni addebitate dalla Procura di Milano a Silvio Berlusconi, le aveva offerto 250 mila euro in cambio della revoca della costituzione di parte civile, lei aveva rifiutato sdegnosamente. Quando a metà gennaio la sua costituzione fu rigettata dai giudici, per lei fu una delusione enorme, vissuta come il tradimento di chi come lei, diceva, aveva voluto testimoniare senza farsi corrompere. Negli anni precedenti, quelli dei processi Ruby e Ruby bis, aveva chiesto un risarcimento complessivo di 2,5 milioni di euro. Ultimamente viveva nel sospetto. Temeva di essere seguita, spiata, che volessero farle del male, anche se poi diceva che nessuno poteva farle niente perché discendeva da un santo cristiano del Marocco. Non è bastato a proteggerla da quello che i pm sospettano sia un omicidio.
Dal “Corriere della Sera” il 18 marzo 2019. La «casa infestata dai topi», ammesso che si riferisse proprio a quella, sarebbe la cascina di Chiaravalle, a sudest di Milano, dove Imane aveva vissuto in affitto. Sul citofono il campanello più in basso dice ancora «Fadil». La cascina, fra l’Abbazia e il cimitero, mostra i segni del tempo ma dall’esterno non appare certo così malmessa. Semmai di topi ce ne potrebbero essere appena fuori, fra le baracche davanti al vecchio cancello d’ingresso.
Ilaria Carra e Piero Colaprico per “la Repubblica” 17 marzo 2019. Tra quanto è noto e quanto è ignoto, intorno a Imane Fadil, e alla sua morte misteriosa e atroce, chiunque l' abbia conosciuta una certezza ce l' ha: era una "combattente". L' ex modella non stava bene da due anni, sempre più provata nel fisico e nella psiche. Durante i processi, aveva avuto due storie d' amore con due campioni dello sport, ma erano finite. Non aveva soldi, si percepiva come «una santa», ma al di là della mistica, quello che sinora ha raccontato nei processi è stato riscontrato. (…) Origini marocchine, emigrata con la famiglia a Torino (i suoi gestivano un piccolo albergo), Imane s' era trasferita a Milano nel 2007 ed era entrata in contatto con l' agenzia di Lele Mora. Dopo qualche videoclip, campagne pubblicitarie e in un programma tv, "la Grande notte", aveva conosciuto Emilio Fede. Ma per due anni s' era fidanzata («La mia vita sentimentale era più importante») e aveva mollato i fari degli studi. Finita la storia, era tornata in tv, il primo lavoro un videoclip musicale con Nina Senicar. Da lì, aveva ripreso i contatti con Mora e con Fede. E così, l' ingresso ad Arcore, nella casa del sovrano di Mediaset.
(…) I suoi racconti sono stati valutati dai giudici come «descrizione precisa e dettagliata». Esclusa dai casting, s' era rintanata al primo piano di un cascinale del parco Agricolo Sud, ultima casa prima del cartello con Milano barrato di rosso. Intorno, il nulla. A poche centinaia di metri l' Abbazia dei monaci. Ha vissuto qui per un periodo con il fratello Tarek, poi da sola, fino allo scorso ottobre. «Non abbiamo mai visto giri strani, mai sentito litigare. Una persona molto tranquilla ed educata - racconta un vicino di casa - . Solo una volta ci ha accennato delle sue questioni, ma noi le abbiamo detto che il suo passato non ci interessava». Appariva anche «molto sospettosa», stando ai racconti di coloro che le sono stati più vicini nell' ultimo anno. Temeva, l' aveva confidato ad alcuni conoscenti, di essere «controllata». Ma chissà.
Grazia Longo per “la Stampa” 17 marzo 2019. «Qui a New York sono quasi le 6 del mattino e io sono ancora sveglia. Non ho chiuso occhio, sono ancora sotto shock per quello che è successo a Imane». Ambra Battilana, modella Italo filippina, 27 anni, è una delle tre grandi accusatrici nel processo contro Silvio Berlusconi per il caso di Ruby Rubacuori e le serate hot del bunga bunga. Ma guai a chiamarla olgettina. «È una definizione che non mi appartiene. È stata usata contro di me anche qui in America dopo che ho denunciato Weinstein per molestie sessuali. Per screditarmi mi chiamarono bunga bunga girl, ma io combatto solo e sempre in nome della verità. Come nel caso Berlusconi». Cosa ha pensato quando ha saputo della morte di Imane? Al di là del dispiacere per la sua drammatica fine, ha avuto paura? «Chi mi conosce un po' per via delle varie situazioni pubbliche che mi sono capitate, compresa la vicenda Weinstein, sa bene che non sono facile da intimidire».
Nessun timore quindi?
«Bisogna andare avanti, bisogna dare l' esempio».
Imane le ha mai confidato i suoi timori?
«Non eravamo amiche, ci vedevamo solo in tribunale. E pensavamo alle udienze. Ma siamo sempre state noi tre insieme (la terza ragazza è Chiara Danese, ndr) a raccontare quello che succedeva nelle notti di Arcore. Contro tutti e contro tutto, abbiamo detto la verità. Anche se è stato difficile, io infatti per rifarmi una vita sono dovuta scappare dall' Italia».
Lei è mai stata minacciata?
«No, non mi hanno mai minacciata, nessuno mi ha ostacolato nelle deposizioni. Non ho motivo di avere paura. Però...».
Però che cosa?
«Sono coinvolte delle persone potenti».
Come ha fatto e come pensa di fare per andare avanti sulla sua strada?
«Qui a New York ho faticato molto. Ho scelto la strada della moda perché è la più professionale. E sapevo che mettendocela tutta avrei potuto farcela senza compromessi. Nel mio lavoro ci vuole molta testa.
Imane ha scritto un libro, non ancora pubblicato, sulle serate ad Arcore. Lei un anno fa annunciò addirittura la sceneggiatura di un film. A che punto è?
«Ci sto ancora lavorando. E sarà più dirompente del film di Sorrentino».
Giuseppe Guastella per il “Corriere della Sera” il 16 marzo 2019. Se qualcuno si azzardava a chiamarla «Olgettina», Imane Fadil diventava una furia. «Io non sono come quelle, non c' entro niente con il bunga bunga» diceva, lei che al processo Ruby aveva dichiarato di aver dato consigli a Silvio Berlusconi su come ricevere Gheddafi in Italia quando il Cavaliere era presidente del Consiglio e su come gestire la squadra del Milan. Imane Fadil, la marocchina dallo sguardo dolce che nascondeva dietro una apparente corazza di aggressività, diceva sempre che ad Arcore c' era andata perché voleva dimostrare a Silvio Berlusconi di essere in grado di fare la giornalista sportiva televisiva, e non certo per ballare al palo della lap dance nei dopocena ai quali, invece, non mancavano quelle che in via Olgettina avevano la casa pagata da lui. Da quando era stata coinvolta mediaticamente nei vari processi Ruby, la 34 enne Imane non aveva più lavorato né come modella e men che meno come giornalista. «Per ciò che succedeva ad Arcore, noi abbiamo pagato più di tutte le altre, quelle che hanno deciso di farsi corrompere», disse in un intervista accomunando la sua condizione a quelle delle altre due ragazze, Chiara Danese e Ambra Battilana, che come lei si costituirono parti civili. Si vedeva il futuro bloccato, per questo voleva essere risarcita dagli imputati, a partire principalmente da Silvio Berlusconi. Quando venne in Aula nel 2012, raccontò ciò che aveva visto ad Arcore precisando di non essere stata mai toccata da nessuno. Testimoniò anche su un episodio inquietante della primavera 2011 quando, disse, uno sconosciuto le consegnò un telefonino «non intercettabile» dicendole che l' avrebbe chiamata per un viaggio in taxi «facendomi capire che dovevo andare ad Arcore». Si incontrarono altre due volte, ma lei quel viaggio non lo fece e per questo fu anche avvertita: «Se dici qualcosa sono fatti tuoi». Negli ultimi tempi la vita della donna aveva preso una piega diversa da quella dei lustrini delle ragazze immagine e dei sogni televisivi. Esauriti i primi soldi che aveva ricevuto come provvisionale dopo le sentenze, qualche decina di migliaia di euro, Imane Fadil attraversava un periodo molto difficile dal punto di vista economico. Era davvero in grosse difficoltà, ma non ha mai abbandonato la dignità e quella cocciuta determinazione per la quale spesso le dicevano: «Ma chi te lo fa fare? Prendi i soldi e molla tutto». Invece denunciava tentativi di corruzione. Neppure nei momenti più duri ha avuto a che fare con le droghe, come confermano gli esami tossicologici eseguiti nella clinica Humanitas prima che morisse avvelenata non si sa come in un letto della Rianimazione. Lei no, aveva deciso di andare fino in fondo ostinata in un qualcosa che per lei si era di più di una battaglia legale. Aveva in sé un alcunché di mistico che negli ultimi tempi le faceva dire che la sua famiglia, cristiana, discendeva da un santo marocchino, e che lei era intoccabile grazie alla sua fede, di essere in grado di vedere il male negli occhi degli altri e la presenza del demonio intono a sé e intorno alle persone che le capitava di incontrare. Perfino nelle fotografie diceva di poter individuare la presenza del maligno. Anche questo aveva scritto nella bozza di un libro di cui ogni tanto parlava e al quale, diceva, stava lavorando alacremente. «Prima o poi tutto lo vedranno, prima o poi sarà pubblicato. Ho fiducia nella giustizia italiana e ho fiducia nel fatto che le cose stiano cambiando», diceva. Ma in quelle pagine, come ha dichiarato il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Greco, gli investigatori non hanno «nulla di rilevante».
Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 16 marzo 2019.
Direttore, ha saputo della morte di Imane Fadil?
«Sì, certo, l' ho saputo come voi», risponde pronto Emilio Fede. Che aggiunge subito: «Non è che la notizia mi sia stata comunicata in via riservata...».
Che effetto le fa?
«Sono dispiaciuto, questa per me era una brava ragazza, l' avevo pure chiamata come mia testimone nel processo».
Testimone?
«Sì, perché raccontasse la verità: cioè che io non avevo assistito a nessuna scena orgiastica».
Come la ricorda?
«Non l' ho mai frequentata in privato, l' avrò incontrata due o tre volte ad Arcore, non so chi l' avesse introdotta».
Ha un aneddoto privato?
«Non sono mai uscito a bere un caffè con lei o fuori a pranzo. Ma l' avevo presa a ben volere».
Come mai?
«Una sera, eravamo ad Arcore, io stavo andando via verso l' una. C' è chi disse: "Il direttore va via, qualcuno vuole un passaggio?". E lo chiese lei. Venne sulla mia auto per un tratto di strada e poi la feci proseguire da sola, le pagai io il taxi».
Cosa vi diceste durante il tragitto?
«Era una brava ragazza, aveva problemi dal punto di vista economico, la famiglia di origine aveva difficoltà economiche. Nel breve tratto che abbiamo fatto insieme in auto mi raccomandai: "Cerca però di proteggerti, di non finire in cose strane". L' avevo presa a benvolere perché mi faceva tenerezza e pena».
Poi vi siete rivisti?
«Una volta a Mediaset, quando ero direttore del Tg4, mi capitò di intervenire sulle cose che aveva detto pubblicamente, ed esclusi di aver visto maghe che andavano e venivano ad Arcore, magie strane. Lei mi querelò e chiese un risarcimento di cinquantamila euro, che però proprio da poco il Tribunale ha respinto».
Sapeva chi frequentava?
«Quel che faceva in privato sono soltanto affari suoi, per me restava una brava ragazza che cercava di sopravvivere ai guai economici della famiglia».
La sua morte sarebbe stata causata da un «mix di sostanze radioattive». Lei stessa continuava a dire di essere stata avvelenata. È stata aperta una indagine.
«Ovvio, bisognerà capire cosa è stato, non è che il veleno sparisce... Se posso dare il mio contributo come testimonianza per capire chi l' ha avvelenata mi metto a disposizione».
Sono state trovate le bozze di un libro che stava scrivendo.
«Sarà interessante capire cosa c' era scritto. Speriamo che la giustizia faccia quello che deve fare».
Lei ci crede?
«Assolutamente sì, ho avuto pazienza finora, devo continuare ad averne».
Le dispiace essere sempre chiamato in causa quando succede qualcosa che riguarda le «olgettine»?
«Sì, provo una grande tristezza per la mia storia professionale che nasce sessantacinque anni fa, sono stato inviato di guerra, direttore, le pare che bruciavo la mia professionalità per correre dietro alle gonnelle?».
L' amarezza più grande?
«Mi dispiace per le mie figlie e per mia moglie Diana, figlia del critico letterario Italo De Feo, che ogni volta deve sentire queste cose. Il resto...
chi se ne frega...».
Luca Sommi per “il Fatto Quotidiano” il 16 marzo 2019. Sei aprile 2018. Una telefonata per invitarla a una trasmissione televisiva dedicata a Silvio Berlusconi, allo scandalo delle notti di Arcore. Ma Imane Fadil rispose perentoria: "Mi scusi, ma una trasmissione televisiva non basta, se vuole ci incontriamo e le dico il perché". Allora via, biglietto del treno per Milano, incontro in un caffè. Arrivò bella, bellissima, sguardo fiero di chi non ha paura di niente. Aveva voglia di parlare, non ci stava a essere ricordata come una "ragazza di Arcore". Iniziò a raccontare: aveva poco più di 25 anni quando venne invitata per la prima volta a casa di Berlusconi, allora presidente del Consiglio. Partecipò a ben otto "cene eleganti" e durante alcune di queste disse di aver visto di tutto: ragazze disponibili, spogliarelli, palpeggiamenti. Capì insomma in che cosa consisteva il Bunga Bunga.
Il suo racconto in quel caffè milanese arrivò a un risvolto incredibile anche se lucido, chiaro, tutti i dettagli al posto giusto. D' un tratto le parole che non ti aspetti: "In quella casa ho visto presenze strane, sinistre. Là dentro c' è il Male, io l' ho visto, c' è Lucifero". Poteva essere presa per pazza, ma lei no, non ne volle sapere di indietreggiare: "Non mi importa niente di cosa dirà la gente. E racconterò tutto, ma lo farò più avanti. Devo solo finire il mio libro". Già, il suo libro, dedicato alla vicenda Berlusconi e Arcore. Cercava un editore, qualcuno che avesse il coraggio di pubblicarlo. Il titolo era emblematico: Ho incontrato il diavolo. Un lungo racconto, rimasto ancora inedito - la bozza è stata sequestrata dai pm nell' ambito delle indagini sulla sua morte - che ripercorre la sua esperienza a contatto col mondo berlusconiano. Le chiedemmo di poterlo leggere, e lei acconsentì. "Ricordo bene l' ultima sera che sono andata là, ad Arcore", aveva raccontato a margine dell' intervista che facemmo (sul Fatto del 24 aprile 2018, ndr). "C' erano tutte queste ragazze nude che ballavano: una di queste, svaccata per terra, con solo il perizoma addosso, si agitava in modo disperato fissandomi. Uno sguardo pieno di disperazione, un ricordo terrificante". E poi, mesi dopo, quando scoppiò il caos, decise di costituirsi parte civile nei processi "Ruby bis" e "Ruby ter". Anni in cui Imane subì di tutto, biasimo sociale, difficoltà a trovare un lavoro e fango, tanto fango: "Non riuscivo neanche a uscire di casa, mi è stata fatta terra bruciata intorno. La gente pensava fossi una prostituta, ho perso gli amici e quei pochi lavoretti che avevo, come fare l' hostess. Ho vissuto un periodo di forte depressione, piangevo sempre, ho anche perso i capelli a causa del forte stress". Ma il suo ricordo, quello che sfogliando le pagine di quelle bozze in cerca di editore piano piano riaffiorava, partiva dalla prima volta che mise piede nella villa di Arcore. Fu accompagnata dall' agente titolare dell' agenzia "Lm management" - Lm come Lele Mora - della quale faceva parte in quegli anni. E appena scesa dall' auto - ha scritto Imane nel libro - sentì urla e versi di voci femminili che inneggiavano al nome del padrone di casa. E Mora che sdrammatizzava, le diceva che erano solo versi di ragazze in festa. Il suo racconto proseguiva, come un avvicendamento di sequenze cinematografiche. Scesero degli scalini che portavano due piani sotto terra, in un seminterrato arredato "ad arte", l' aria si faceva sempre più cupa e soffocante, mentre Imane si guardava attorno per osservare l' ambiente inusuale. Vide le ragazze che si esibivano, sottomettendosi e compiacendo il padrone. Berlusconi, scriveva Imane, notò il disagio e l' imbarazzo di alcune. Invitò due delle ragazze, travestite da suore, a rivestirsi. Mentre Lele Mora le si mise accanto, invitandola ad accomodarsi e a ordinare da bere. Imane scriveva di aver provato grande disagio. Chiese a Mora di andare via: lui rispose di calmarsi e pazientare. Raccontò di essere influenzata a tal punto da Mora da decidere di aspettare: voleva poter parlare con Berlusconi, magari per intraprendere la carriera televisiva, d' altronde si trovavano a casa del padrone assoluto della televisione. Berlusconi si avvicinò a Imane sorridendo, la portò a visitare la casa. La ragazza ricordava molto bene i dettagli della villa: il sotterraneo era composto da un salotto con poltrone, pianoforte, al centro del salotto un palo da lap dance o qualcosa del genere, un piano bar improvvisato, bandiere di stato, bandiere del partito di cui lui era leader; invece nella parte opposta al soggiorno, verso i famosi scalini, c' era un teatrino con poltroncine da cinema, e riattraversando il salotto c' erano altre scale. Berlusconi - proseguiva il libro - le chiese che cosa avesse voluto fare in tv. Quegli scalini riportavano a un piano a mezz' ala tra piano terra e sotterraneo, dove c' era una sorta di spa composta da uno stanzino per massaggi sulla sinistra, di fronte una piscina, a destra una sorta di zona soppalcata completamente buia, una zona relax o altro. Dopo quella sera, Imane non si recò più a casa dell' ex premier per quattro mesi. Ma l' invito a tornarci le arrivava sempre. Le capitò, tempo dopo, di incontrare Emilio Fede in un ristorante noto di Milano: il giornalista la notò e le rivolse la parola. Nel libro raccontava di come si fossero conosciuti nel 2008 in Rai, nel programma La Grande notte. Lei faceva la valletta, l' ex direttore del Tg4 spesso l' ospite. Fede la invitò di nuovo a incontrare il presidente: "È l' unico modo se vuoi lavorare in tv". Imane rispose che non voleva, ma lui insistette. E così Imane andò di nuovo ad Arcore, e anche questa volta le ragazze indossavano tonache lunghe. A metà degli scalini che portavano verso la spa a sinistra, era collocato una stanzino, ricordava lei. All' interno di questo stanzino, c' erano appese almeno 30 tonache e altri indumenti che indossavano le ragazze. Vide le ragazze in una sorta di cerchio, con Berlusconi al centro come perno: una specie d' adorazione, con alcune nude, altre mezze nude, altre travestite che vagavano per il soggiorno sotterraneo. Fu allora che Imane prese coraggio e andò da lui, per dirgli che avrebbe voluto ritornare a casa. Ma Silvio rispose di aspettare. Nel sotterraneo, Imane vide quello che definì una sorta di bordello, ragazze nude e mezze nude in piscina. Anche minorenni, che forse non si rendevano conto tanto della cosa. Arrivava "la vergine fanciulla", ripeteva Imane con orrore nel suo racconto. La giovanissima scelta per quella sera. Berlusconi le mandava alcune ragazze a riferirle proposte, per Imane, "indecenti". Erano richieste di natura sessuale, in cambio di una posizione nelle sue tv. Imane voleva chiamarsene fuori. "È una follia", rispose. Quando lo scandalo del Bunga Bunga scoppiò per lei fu un colpo, psicologico e morale. Chiamò Emilio Fede, gli disse che avrebbe denunciato tutti se non avessero smentito pubblicamente quelle che definiva le falsità nei suoi confronti. E poi i processi. Le televisioni. E tutte quelle pressioni. E persecuzioni. E i tentativi vari di corruzione da parte di soggetti, scriveva lei, riuniti al volere di Berlusconi. Da quel giorno, per Imane iniziò il calvario. Lo stesso calvario che ha portato alla sua fine tragica, in circostanze tutte da chiarire, a soli 34 anni.
Fulvio Abbate per Dagospia il 17 marzo 2019. Non riesco ad allontanare la mia amarezza, se non è poi esattamente dolore, perfino senso di lutto, dalla morte di una ragazza, Imane Fadil. Una ragazza, appunto. Cosa so di lei? Quasi nulla, soltanto che doveva testimoniare al processo sulle cosiddette “cene eleganti” di Silvio Berlusconi, e ancora che aveva rifiutato ogni possibile risarcimento; in un video di poche settimane fa, Imane è lì, galleggia davanti ai marmi di un corridoio del Palazzo di Giustizia di Milano, sempre ragazza, vestita da ragazza, meglio, da ragazza venuta dal suo Marocco a Milano per affacciarsi, forse, al successo, la borsa “Louis Vuitton” intorno al braccio, la montatura da sole che diventa occhi su occhi. Sempre di lei, di Imane, chi indaga sulla sua morte, aggiunge che potrebbe essere stata avvelenata, le parole che la accompagnano sono infatti “cobalto”, “lunga agonia”, durata un mese, raccontano di un supplizio ingiusto per una ragazza. I giornali, tutti, ondeggiano davanti alla sua data di nascita - chi scrive 32, chi 33, chi 34 - resta ora appena la certezza del giorno, il primo marzo, del “decesso”, così in cronaca nera chiamano la morte, almeno in certi casi. Non c’è stato nulla da fare, concludono i medici di un ospedale di Milano, il cui nome, la cui insegna suonano crudeli nell’ingiustizia dell’intera storia, “Humanitas”. Alla fine, nelle nostre pupille, della ragazza Imane, rimangono, da mettere in fila: il suo ovale, gli occhi scuri, i colori ambrati dell’incarnato, proprio delle fanciulle in fiore arabe, la sua bocca, così disegnata da assomigliare allo sticker della bellezza, meglio, del bacio, così come, rosso fuoco, contrassegna la pagina Instagram di molte ragazze come lei, forse anche di donne già adulte, grandi, ora che ci penso anche il profilo di Rita Rusic. Un “radical chic” come me, con Imane, avrebbe potuto, salvo temporali di fantasia, meglio, di simpatia improvvisi, simpatia da creature del Sud lì nel cosmo della casualità, viene in mente un frammento di Dino Buzzati: “Dinanzi a noi, che procediamo, si stendono e si agitano le mani interrogative del meridione con le dita congiunte e volte in su”, un “comunista” come me, dicevo, avrebbe potuto condividere assai poco con lei, o forse, sì, un racconto sul Marocco, di quando anni fa, viaggiando laggiù, a Rabat (o forse era Fes? No, Casablanca, no di sicuro, che delusione Casablanca…) passeggiando mi sono ritrovato nel “quartiere europeo”, dove gli arredi mostravano un fermoimmagine degli anni ‘40, e nelle vetrine delle gioiellerie brillavano i pochi carati della “Medaglia dell’amore”, la stessa del “Più di ieri e meno di domani”, anzi, del “plus qu'hier et bien moins que demain", versi di Rosemonde Rostand, moglie di Edmond, l’autore di Cyrano de Bergerac; forse che le avrei raccontato questo dettaglio insignificante, così, per mostrare prossimità con il tempo e i luoghi della sua infanzia. Ha conosciuto davvero amori, Imane, il cui significato del nome è Fede? Lele Mora, racconta ai cronisti di essere stato lui il tramite con Berlusconi, poi aggiunge: “Ricordo una ragazza triste, che deve avere avuto un sacco di problemi, cercava una strada per il successo, ma era davvero insignificante e non ebbe nessuna fortuna, fui io a portarla a una delle cene di Arcore. Una sera che il presidente mi chiamò e mi invitò, non volevo andare da solo e contattai quella povera ragazza che avevo conosciuto poco tempo prima tramite un dj marocchino, credo che ci tornò solo un'altra volta ed escludo sia rimasta mai sola anche per un secondo con Berlusconi”. A Mora, alla prima occasione, dovremo chiedere cosa esattamente sia la Significanza ai suoi occhi. Mi raccomando, chi lo incontri non dimentichi di domandarglielo, grazie preventivamente. Come a dire che Imane non aveva il “talento” per sfondare, dove? In fondo al corridoio, alle porte del Palazzo di Giustizia di Milano, alle venature dei marmi di sfondo, il mondo di Imane ora racconta l’epilogo del letto d’ospedale, la sua agonia, la quasi certezza che l’abbiano avvelenata. Con “sostanze radioattive”, leggiamo, almeno nelle prime battute d’agenzia. Berlusconi dice: “Spiace che muoia sempre qualcuno di giovane. Non ho mai conosciuto questa persona e non le ho mai parlato”. E se fosse stato invece un “atto di autolesionismo da parte della modella”? Quasi che il “materiale radioattivo sia stato ingerito dalla povera ragazza”? Si chiama correre ai ripari. C’è anche Fede, Emilio Fede: "La conoscevo, le volevo bene. Era una brava ragazza con dei problemi economici, la sua famiglia era povera. Un paio di volte le ho pagato il taxi da piazzale Loreto a casa, mi auguro con tutto il cuore che si chiarisca la vicenda". Io la conoscevo bene è quasi una metafora. Insieme a piazzale Loreto. Avvelenamento? Cose già accadute, metti, a un Litvinenko, agente segreto russo infine dissidente, e, pensandoci bene, anche a Ramón Mercader, l’assassino di Trotsky, prozio di Christian De Sica, mandante Stalin: Ramón, ormai pensonato, ebbe in dono di un orologio da polso, un modello di grande marca, premio per i servigi al Paese del socialismo, pare che quell’orologio fosse avvelenato, così almeno racconta il fratello in un libro. Nella storia Imane, accanto al cobalto, le tracce della sua bellezza, le labbra, le sue smorfie, il circonflesso mobile delle sopracciglia, il modo, tutto suo, di raccontare la sincerità davanti alle telecamere ai margini di un processo, tutto ciò la accosta ad altri misteri, addirittura politici: la ragazza “d’origine marocchina” e la grande storia. Ora che ci penso, anche sulla morte di Pietro Secchia, dirigente comunista italiano, comandante partigiano, “l’uomo che sognava la lotta armata”, così secondo la sua biografa Miriam Mafai, pesa il mistero di un avvelenamento, c’è un Secchia narrato verde in volto, una schiuma bianca a fuoriuscirgli dalla bocca…Non c’eravamo quando Imane è morta, non riusciamo a immaginarla nel letto d’ospedale, nell’ingiustizia della sua fine ancora ragazza, 32, 33 o 34? Pochi. Le smorfie da bambina intatte quando, con inflessione da milanese inurbata, dice al cronista di aspettare giustizia, giustizia, “per tutto quello che c’è stato”. Rimane il lume della sua bellezza, il piccolo seno sotto la camicia chiara, la mobilità delle espressioni sul viso, l’ombra sugli zigomi, una risposta di essenzialità somatica all’opulenza cinica delle colleghe afflitte dalle griffe; così da lei, Imane, da lei che ha invece scelto di sfilarsi, uscire dalla fila e mettersi in proprio, come chi si ribelli, meglio, ad affermare l’amor proprio, il suo: io non vi assomiglio, dice. Sembra di vederla ancora, adesso che la vita e il tempo hanno smesso di appartenerle, ora che se n’è andata, sembra di vederla lì, a dormire sull’ideale spiaggia dell’immutabilità criminale delle cose italiane, ad aspettare giustizia, parole proprio sue, il corpo di Imane accanto al cadavere infinito di Wilma Montesi; chi ha più memoria e Wilma nel come eravamo della memoria di una cronaca nera che vive di se stessa? Con la televisione che, di tanto in tanto, torna a scartabellare sulla sua morte? Povera ragazza, povera Imane, se davvero esistesse un paradiso, meglio, l’al di là del risarcimento, adesso dovrebbe essere interamente suo.
Lorenzo Vendemiale per “il Fatto Quotidiano” il 17 marzo 2019. Sono lontani i tempi di via Olgettina 65, quando le ragazze vivevano in un residence a Milano 2 e c' era il "papi" a pensare a tutto: soldi, regali, una carriera in tv o persino in politica. Nove anni dopo, tutte le "Olgettine" (se ne contavano decine) hanno dovuto rifarsi una vita. A partire da Karima el Mahroug, in arte Ruby, che ha dato il nome al processo. Dopo lo scandalo era fuggita in Messico, ma ha sentito presto il richiamo dell' Italia: pare si sia da poco ristabilita a Genova. Ha lasciato l' ex marito, convive con un altro compagno, ha due figli. Una vita tutto sommato "normale". In tante continuano invece a inseguire la celebrità, con più o meno successo: Nicole Minetti vive tra Ibizia e gli Usa e fa affari come dj. La prosperosa Francesca Cipriani è ormai un volto abbastanza noto della tv, dove continua a collezionare reality: si è appena ritirata dall' Isola dei famosi. Marysthell Polanco ha provato a darsi alla musica, Aris Espinosa si è inventata una rubrica di ricette su Instagram che ha potuto contare sull' affetto di un vecchio amico (i video sono sbarcati proprio su Mediaset, dove compare anche Elisa Toti). Per le altre è più dura: comparsate nei locali, calendari-hot, foto ammiccanti sui social. Molte si sono rassegnate all' anonimato, per riapparire di tanto in tanto in aula. La Minetti è stata condannata a 2 anni e 10 mesi nel Ruby-Bis. Iris Berardi, Elisa Barizonte, le gemelle De Vivo, Polanco e Guerra sono state rinviate a giudizio nel Ruby-ter. Qualcuna ha addirittura raddoppiato: Giovanna Rigato ha provato a "ricattare" Berlusconi, ed è stata denunciata per estorsione. La Guerra, invece, è stata condannata per diffamazione per gli insulti rivolti a Barbara D' Urso. Si stava meglio ai tempi del Bunga-Bunga.
Karima El Mahroug (Ruby). Dopo una parentesi in Messico, è tornata a Genova, dove fa una vita normale con i suoi due figli.
Manuela e Marianna Ferrera. Il 2019 è l' anno del grande ritorno di una delle due sorelle-meteorine: per Manuela calendario hot per For men.
Alessandra Sorcinelli. Continua a dare spettacolo su social e passerelle: ha vissuto tra Miami e Los Angeles, locali e servizi fotografici.
Elisa Toti. "Ho bisogno d' un mese per riprendermi", diceva: acqua passata, ora è tornata a Mediaset come opinionista di Mattino5.
Iris Berardi. Minorenne ai tempi di Arcore, autrice di un "diario segreto", è scomparsa dai radar: su Twitter non scrive dal 2014.
Barbara Faggioli. Era una delle preferite di B., con una buona carriera tv: ora di lei si ricorda solo un flirt con la star Nba Gallinari.
Giovanna Rigato. Un calendario nel 2014, non indimenticabile: allora ha provato a ricattare B. (è indagata per estorsione).
Marysthelle Polanco. Si è sposata con un giocatore di basket. E si è messa a cantare: nel 2017 la hit "Tu sei rifatta" Francesca Cipriani Volto tv tra trash e reality: prima il Grande Fratello, nel 2019 L' isola dei famosi (si è appena ritirata).
Barbara Guerra. Vive in una mega-villa in Brianza, che gli fu regalata. Condannata per insulti social a Barbara D' Urso.
Nicole Minetti. Addio Italia e politica:l' ex igienista dentale è richiestissima dj a Ibiza e regina del fitness.
Aris Espinoza. Si è inventata una rubrica di ricette su Instagram. La sua "Divina cocina" è finita proprio su Mediaset.
Imane Fadil, Marco Travaglio e il Fatto toccano il fondo: "Cos'aveva in mano Ruby contro Berlusconi", scrive il 19 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Ruby aveva video e foto che avrebbero inguaiato Silvio Berlusconi". Parola di Imane Fadil, datate 2012. Nulla di nuovo, insomma, se non fosse che ora la modella marocchina testimone nel processo Ruby è morta, forse in seguito ad avvelenamento, e al Fatto quotidiano non par vero di utilizzare la tragedia come una nuova, affilatissima arma contro il Cavaliere. L'edizione in edicola il 19 marzo è un compendio dell'arte di Marco Travaglio: editoriale aberrante che indica negli "ambienti criminali che da decenni circondano B." gli esecutori dell'omicidio della Fadil. Poi, tra pagina 8 e 9, ecco una "passante" violentissima e quasi imbarazzante per il tentativo di "costruire" l'ambiente ideale in cui inserire la tesi, Berlusconi mandante morale. Innanzitutto, come detto, riecco i verbali del 2012 della Fadil, una colata di fango che nell'ottima di Travaglio vale sempre la pena di ripubblicare, tra balletti piccanti, proposte sessuali e bustarelle piene di soldi. Poi, ecco il capolavoro: il "colloquio" con Karima El Mahroug, l'ex Ruby che oggi si è rifatta una vita a Genova. Non dice granché sul caso, visto che Imane non l'aveva mai conosciuta. "Avevamo una cosa in comune, volevamo solo un'altra vita", spiega la marocchina al cronista del Fatto che l'ha raggiunta. Stop. Per nuove scottanti rivelazioni sul coinvolgimento di Berlusconi nel mistero Imane Fadil appuntamento con l'archivio della Procura di Milano.
Da www.huffingtonpost.com il 19 marzo 2019. Come Benito Mussolini nell'omicidio di Giacomo Matteotti. Come Giulio Andreotti nell'assassinio di Mino Pecorelli. Così Silvio Berlusconi nell'avvelenamento mortale di Imane Fadil. Nel suo fondo sul Fatto Quotidiano dal titolo "I delitti eleganti", il direttore Marco Travaglio non accusa direttamente il leader di Forza Italia, ma avanza l'ipotesi sul fatto che "i vari ambienti criminali che lo circondano" gli abbiano voluto fare un favore, eliminando la giovane marocchina. Scrive Travaglio: "Probabilmente Benito Mussolini non ordinò l'assassinio di Giacomo Matteotti: lui o chi per lui si limitò a far sapere ai suoi che quel deputato socialista, con le sue denunce sulla fine della democrazia e sulle corruzioni di alcuni gerarchi del neonato regime fascista stava rompendo i coglioni" [...] "Probabilmente Giulio Andreotti non ordinò l'assassinio di Mino Pecorelli: lui o chi per lui si limitò a far sapere ai suoi che quel giornalista molto, troppo informato, con i suoi articoli sulla rivista OP e le sue allusioni agli affari e ai malaffari della cricca andreottiana, stava rompendo i coglioni" [...] "Sicuramente Silvio Berlusconi non ha ordinato il probabile avvelenamento di Imane Fadil, [...] i testimoni B. di solito li compra, non li ammazza. E tutto poteva augurarsi, fuorché la morte di una teste-chiave del processo Ruby e il ritorno del Bunga Bunga sulle prime pagine dei giornali. Infatti, negando le sentenze e persino l'evidenza ha provato a smentire di aver mai visto Fadil. Ma purtroppo nessuno può escludere che c'entrino i vari ambienti criminali che lo circondano da quasi mezzo secolo, da Cosa Nostra alla massoneria deviata, dal sottobosco dell'eterna Tangentopoli ai gigli di campo di Putin. Cioè che qualcuno abbia voluto fargli un favore non richiesto, o lanciargli un messaggio avvelenato per ricattarlo, o ricordargli qualche promessa non mantenuta".
Imane Fadil, la vignetta terrificante contro Silvio Berlusconi pubblicata da Marco Travaglio, scrive il 16 Marzo 2019 Libero Quotidiano. La controversa e inquietante morte per avvelenamento di Imane Fadil, testimone contro Silvio Berlusconi nel processo Ruby, ovviamente scatena Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio, il quale coltiva una vecchia e indomabile ossessione per tutto ciò che riguarda il Cavaliere. Non solo una prima pagina quasi interamente dedicata al caso ma anche, a pagina 3, una vignetta piuttosto scandalosa. Nel disegno firmato Natangelo si vede la morte nella sua più classica rappresentazione: vestito nero, teschio, falce. E la morte sarebbe Berlusconi. Anche se nel testo della vignetta si prova a salvare il salvabile scrivendo: "Eppure Silvio ha provato a salvarla...". Come? Così: "Pronto? / Sono Silvio Berlusconi / Dovreste rilasciare Imane Fadil / è la nipote di Mubarak". E "rilasciare" detto dalla morte assume un sapore sinistro. Mentre la vignetta nel suo complesso assume il sapore della peggiore schifezza.
Marco Travaglio, aberrante editoriale: "Chi c'è dietro la morte di Imane Fadil". Fa il nome: Silvio Berlusconi, scrive il 19 Marzo 2019 Libero Quotidiano. C'è Silvio Berlusconi dietro la morte di Imane Fadil. La tesi, aberrante, la suggerisce Marco Travaglio nel suo editoriale sul Fatto quotidiano, ammantandola di "inquietanti precedenti" e "strane coincidenze" e "indizi che sommati fanno una prova". Insomma, tutto il miglior repertorio dei manettari d'Italia, specie se anti-Cav. Come antipasto propone il parallelo sugli assassini di Giacomo Matteotti e di Mino Pecorelli, che "probabilmente" né Benito Mussolini né Giulio Andreotti ordinarono. E nonostante lo stesso Travaglio ammette che "sicuramente Silvio Berlusconi non ha ordinato il probabile avvelenamento di Imane Fadil" e che altresì "tutto poteva augurarsi, fuorché la morte di una teste-chiave del processo Ruby-ter", il direttore procede per la sua strada, pericolosissima. "Nessuno può escludere che c'entrino i vari ambienti criminali che lo circondano da quasi mezzo secolo, da Cosa Nostra alla massoneria deviata, dal sottobosco dell'eterna Tangentopoli ai gigli di campo di Putin. Cioè che qualcuno abbia voluto fargli un favore non richiesto, o lanciargli un messaggio avvelenato per ricattarlo, o sputtanarlo, o ricordargli qualche promessa non mantenuta". E per convincere lo sgomento lettore giù l'elenco delle "terrificanti coincidenze toccate a una ventina di personaggi che sapevano troppo o gli davano noia o nominavano il suo nome invano", a cominciare da Maurizio Costanzo sfuggito a un attentato nel 1993.
Marco Travaglio sulla morte di Imane Fadil, orrore contro Silvio Berlusconi: "Nei vari ambienti criminali...", scrive il 17 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Non è stato lui, ma... Questo, in estrema sintesi, l'editoriale domenicale di Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano. Un Travaglio che ritrova modo di accanirsi col nemico di sempre, Silvio Berlusconi, per la morte di Imane Fadil. Certo, Travaglio sottolinea che "il cui prodest, una volta tanto, allontana i sospetti da B., che tutto poteva augurarsi fuorché il ritorno dei bungabunga sui giornaloni, che li avevano rimossi per riabilitarlo come leader moderato e argine al populismo". E ancora, il direttore aggiunge che "da morta, i suoi verbali dinanzi al pm valgono come prova inconfutabile". Berlusconi insomma assolto? Ni. Perché Travaglio aggiunge a strettissimo giro: "Ma i vari ambienti criminali, italiani e internazionali, che circondano B. autorizzano i soliti sospetti di eccessi di zelo, favori non richiesti o messaggi ricattatori". Parole pesantissime, velate accuse da brividi. Finita? Non proprio. "Senza escludere la tragica coincidenza - aggiunge Travaglio -: l'ennesimo anello di un'impressionante catena di disgrazie occorse a persone che hanno incrociato la strada di B. e si sono messe di traverso".
Imane Fadil, il titolo da brividi di Repubblica: peggio di Marco Travaglio, chi accusano? Scrive il 17 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Non c'è solo Marco Travaglio con il suo Fatto Quotidiano a scatenarsi per la misteriosa morte di Imane Fadil. Già, perché anche Repubblica nella giornata di domenica 17 marzo ha consegnato ai posteri un titolo quantomeno discutibile. La nuova Repubblica di Carlo Verdelli dedica il titolone di apertura alla vicenda. Titolone da spy-story, come forse la morte della modella potrebbe essere (forse: già, sull'avvelenamento, c'è stata una discreta frenata). Dunque, largo alla scelta del quotidiano: "La donna che sapeva troppo". Mentre il catenaccio recita: "La morte di Imane Fadil, l'accusatrice delle notti di Arcore: la diagnosi, i ritardi, le analisi anomale, il mistero delle date. Silvio Berlusconi: Mai conosciuta". Insomma, la Fadil era "la donna che sapeva troppo". Dunque donna che come nelle migliori spy-story deve essere eliminata. Da chi? I riferimenti del catenaccio, ovviamente senza attribuire la responsabilità a nessuno, lavorano però per scatenare il sospetto, instillare il dubbio. Un titolo, come detto, davvero discutibile.
Imane Fadil, se Repubblica batte Travaglio…Marco Travaglio in persona ha riconosciuto l’insensatezza di coinvolgere Berlusconi nella tragica fine della giovane. Alla Repubblica hanno invece adottato una lettura tutta politica dell’avvelenamento della modella marocchina, scrive Francesco Damato il 19 Marzo 2019 su Il Dubbio. Persino al Fatto Quotidiano hanno resistito in qualche modo, pur con abbondanza di vignette, “cattiverie” di giornata, in prima pagina, sul “lettone” regalato da Putin, grande abbastanza da poter contenere ragazze anche sconosciute ad un assatanato Cavaliere; persino al Fatto Quotidiano, dicevo, hanno resistito alla tentazione di leggere in chiave politica, diciamo così, la misera e inquietante fine della modella marocchina Imane Fadil. Che, dopo avere dimorato per un po’ in un locale infestato di topi, è morta di avvelenamento radioattivo prima di poter testimoniare, o tornare a testimoniare, contro Silvio Berlusconi, imputato di corruzione in atti giudiziari – nonostante assolto in via definitiva dall’accusa di prostituzione minorile – per la vicenda delle olgettine. Ma così, a dire il vero, la povera Imane non voleva essere chiamata, non avendo mai usufruito dell’ospitalità offerta dal Cavaliere in un omonimo albergo, o residence, alle frequentatrici delle sue feste nella villa di Arcore. Marco Travaglio in persona, bontà sua, al netto di ogni sua urticante e abituale ironia, ha riconosciuto l’insensatezza di coinvolgere Berlusconi nella tragica fine della giovane, che lui ritiene di non avere mai conosciuto ma che amici certamente suoi, come Emilio Fede e Lele Mora, hanno dichiarato di avere visto o addirittura portato ad Arcore, o ospitata in taxi per allontanarsene ad una certa ora. A far mettere in sicurezza Berlusconi da un avversario così dichiarato come Travaglio è stata “la logica del cui prodest” (a chi giova). E in effetti l’ex presidente del Consiglio non aveva nessun interesse a fare uscire così drammaticamente e ambiguamente dalle sue perduranti vicende giudiziarie sulle cene ad Arcore la povera Imane, espostasi peraltro prima di morire con dichiarazioni su presunte offerte e/ o minacce di misteriosi personaggi perché ritirasse il contributo dato all’impianto accusatorio della Procura di Milano contro Berlusconi. Alla Repubblica – quella di carta che di antiberlusconismo ha vissuto a lungo, sotto diverse direzioni, anche a dispetto del suo fondatore Eugenio Scalfari quando gli scappò di dire in un salotto televisivo di preferire Berlusconi al capo del movimento delle 5 stelle Luigi Di Maio – hanno invece adottato una lettura tutta politica dell’avvelenamento della modella marocchina. Il cui assassino non sapeva, né poteva immaginare forse di liberare una delle firme più famose e autorevoli di quel giornale, Massimo Giannini, dall’ossessione – direi, a questo punto – di un Berlusconi ancora capace di condizionare la politica italiana. E chissà se basta parlare della politica italiana, e non anche di quella europea e persino mondiale, specie ora che il Cavaliere corre per l’elezione al Parlamento europeo, non certo allo scopo di andarvi a fare il turista. “Morto e sepolto con la povera Fadil, verrebbe da dire”, ha scritto testualmente Massimo Giannini in un commento domenicale dedicato formalmente, nel titolo, alla “Opa di Salvini sul centrodestra”. “Il veleno che l’ha uccisa – ha rivelato Giannini scrivendo della povera Imane – uccide anche le residue speranze del Cavaliere di resistere all’Opa salviniana sul suo partito e sul suo elettorato”. Di questa “Opa di Salvini sul centrodestra” il commentatore di Repubblica ha una visione addirittura carnivora, avendone scritto come di una “cannibalizzazione “che,“già cominciata col voto di un anno fa, è andata avanti in questi mesi, rafforzata dalle regionali in Abruzzo e Sardegna e fotografata dai sondaggi che danno la Lega al 34% e Forza Italia all’ 8% per cento”. Ma non è finita qui. “Ora – ha scritto ancora Giannini – l’offerta pubblica di acquisto dei consensi si completa. Salvini riflette lo Zeitgeist, Berlusconi non più”. Che cosa sia questo benedetto o maledetto, secondo i gusti, Zeitgeist che “Salvini riflette e Berlusconi non più”, ve lo dico subito. E’ “lo spirito culturale spiega un dizionario telematico – che informa una determinata epoca, come si riflette nella letteratura, nella filosofia, nelle arti”. Qui insomma si vola alto, altissimo, mica come il Cavaliere precipitato in fondo al pozzo dantesco dell’Inferno, senza accorgersi che nella “condizione di patente minorità etico- politica” in cui si trova dopo la morte della modella marocchina “accampare pretese col Carroccio sulle alleanze future è puro velleitarismo”. Senza accorgersi, più in particolare, che “Salvini, semplicemente, non è più gestibile”, per cui quello di Arcore è diventato “il suo Cavalier Servente”. “E questo è tutto”, ha sanzionato la voce di Repubblica esortando gli sprovveduti seguaci di Berlusconi a togliersi dalla testa di poter scavalcare Salvini a destra o al centro, parlando bene di Mussolini fino agli sciagurati errori delle leggi razziali e dell’alleanza con Hitler, o precedendo il leader leghista nella contestazione della “Via della Seta” fatta percorrere velocemente al governo da Di Maio fra la sorprese, le proteste e anche qualche ritorsione degli alleati d’oltre Atlantico. “Salvini – ha ricordato Giannini – si è già riposizionato nel ruolo fasullo di garante dell’atlantismo filo- americano: proprio lui, che ha esordito al governo come maggiordomo di Putin”. Che poi è lo stesso, non un omonimo, del lettone regalato a Berlusconi e ricordato dalla “cattiveria” del Fatto Quotidiano ispirata alla povera Imane Fadil. Quella di Giannini, di Repubblica e di tutto l’universo antiberlusconiano per “la morte e la sepoltura” del Cavaliere con la modella marocchina, peraltro ancora in attesa di sepoltura, è tuttavia una festa anch’essa tragica, come la fine della povera Imane. L’ossimoro nasce dal fatto, denunciato dallo stesso Giannini, che “con questa destra” ormai fatta a immagine e somiglianza di Salvini – e di un Salvini che va smarcandosi sempre di più dagli attuali alleati di governo proponendo, per esempio, le ricette economiche e fiscali liquidate come berlusconiane dai pentastellati – “prima e dopo le elezioni europee dovranno fare i conti Di Maio, ridotto a gregario in una coalizione asimmetrica, e Zingaretti, eletto segretario in un Pd convalescente”. Così ha scritto appunto Giannini, che ha confessato di trovarsi nella scomoda posizione di “piangere per le nefandezze” di Salvini “senza poter rimpiangere”, chissà poi perché, “le scelleratezze” di Berlusconi. Che evidentemente non è quel morto e sepolto di qualche capoverso precedente. Ah, se si riflettesse un po’ di più prima di farsi scambiare per un necroforo, peraltro intempestivo.
Travaglio “risupera” Repubblica. Caso Imane, all’inizio il Fatto Quotidiano si è fatto sfuggire l’occasione per riattualizzare il sentimento dell’antiberlusconismo. Ma ha presto recuperato, scrive Francesco Damato il 20 Marzo 2019 su Il Dubbio. Come in tutte le gare, bisogna mettere nel conto sconfitte e rivincite, sorpassi e recuperi. Non può pertanto stupire più di tanto il recupero di Marco Travaglio, e del suo Fatto Quotidiano, su Massimo Giannini, e la sua Repubblica, nella lettura politica della tragedia della povera Imane Fadil. Pentito, forse, di avere in qualche modo graziato il Cavaliere riconoscendogli nei giorni scorsi che non aveva certo interesse a riaccendere i riflettori sulle sue traversie penali, Travaglio ha scritto che altri potrebbero avere ucciso o fatto uccidere la giovane per fargli un piacere. Come i fanatici o i servi di Mussolini fecero uccidendo Giacomo Matteotti. Imane e i complottisti, il controsorpasso di Travaglio su Repubblica. Come in tutte le gare, per carità, bisogna mettere nel conto sconfitte e rivincite, sorpassi e recuperi. Non può pertanto stupire più di tanto il recupero di Marco Travaglio, e del suo Fatto Quotidiano, su Massimo Giannini, e la sua Repubblica, nella lettura politica della tragedia della povera Imane Fadil: l’ex modella di origine marocchina morta avvelenata, salvo clamorose sorprese dalle indagini in corso alla Procura di Milano, prima che tornasse a testimoniare contro Silvio Berlusconi per corruzione in atti giudiziari sulla vicenda delle olgettine. Pentito, forse, di avere in qualche modo graziato il Cavaliere riconoscendogli nei giorni scorsi che non aveva certo interesse a riaccendere i riflettori, se mai erano stati spenti, sulle sue traversie penali invischiandosi nella morte di una sua accusatrice, o sostenitrice comunque dell’accusa di avere corrotto testimoni, Travaglio ha scritto che altri potrebbero avere ucciso o fatto uccidere la giovane per fargli un piacere. Come i fanatici o i servi di Mussolini fecero uccidendo Giacomo Matteotti. O la mafia uccidendo il giornalista Mino Pecorelli, che aveva la brutta abitudine di occuparsi criticamente, diciamo così, di Giulio Andreotti. O la stessa mafia cercando di uccidere Maurizio Costanzo quando si mise in testa di dissuadere l’amico editore Silvio Berlusconi dal progetto, evidentemente caro ai criminali di Cosa Nostra, di mettersi in politica. O di scendervi, come il Cavaliere preferiva dire adottando il linguaggio sportivo della squadra e del giocatore che scende, appunto, in campo.
Tutto questo, ed altro ancora, compreso l’interesse sanitario di Marcello Dell’Utri, naturalmente “pregiudicato”, per la clinica dove è morta Imane, e dove lui voleva essere trasferito dal carcere dove scontava la condanna per mafia, il direttore delFatto Quotidiano lo ha scritto in un editoriale dal titolo “I delitti eleganti”. Eleganti, naturalmente, come le famose e controverse cene di Arcore, “forse per qualcuno un filino indigeste”, secondo un’allusiva vignetta pubblicata qualche giorno fa sulla prima pagina sempre del Fatto. «Ci è voluta la morte terribile di quella povera ragazza per riportare l’attenzione sul versante criminale del berlusconismo», ha scritto Travaglio per deplorare «la gran moda di rimpiangere il berlusconismo», appunto, «e rifargli la verginità in funzione anti-“populista”, descrivendo l’attuale governo – il primo deberlusconizzato della storia repubblicana – come il peggiore mai visto». E qui, puntuali e sonori, gli schiaffi di carta a Eugenio Scalfari, a Carlo De Benedetti, allo scrittore Sandro Veronesi e infine a Corrado Augias. Che «ancora l’altro giorno, su Repubblica, definiva il governo Conte ha protestato Travaglio riferendone in corsivo le parole – il peggiore della storia repubblicana, perché, sì, B. è amorale ( sic), ma non ha scardinato le strutture dello Stato: cosa che invece stanno facendo questi homines novi». Per cui «se la sola scelta possibile fosse tra un bandito consapevole e un fanatico ignaro di tutto sceglierei, tremando, il bandito», ha rinfacciato Travaglio ad Augias. Per fortuna dev’essere sfuggita al direttore del Fatto Quotidiano, o ai suoi brogliacci, una breve intervista della giornalista di origine marocchina ed ex deputata del Pd Souad Sbai, oggi presidente dell’associazione donne marocchine in Italia: un’intervista forse aggravata dalla circostanza di essere stata pubblicata lunedì 18 marzo dal giornale di Augias, e di Scalfari, oltre che di Massimo Giannini. Memore, fra l’altro, di un «tentativo di avvelenamento con cristalli di acido» subìto nel 2010 «passando l’inferno», l’ex parlamentare parlando proprio della morte di Imane Fedil ha raccontato che «purtroppo da noi non è una novità, succede spesso. Ti fanno fuori con molto poco. Ti fanno bere una cosa che contiene una sostanza particolare, una specie di mercurio, cristallo di acido, inodore, che ti avvelena. Sembra una malattia che ti distrugge gli organi e ti uccide» . Sempre a proposito della morte di Imane, l’ex deputata del Pd, non di Forza Italia, anche se fra questi due partiti spesso al Fatto Quotidiano si immaginano legami e tentazioni, ha chiesto «alla magistratura italiana e anche al re del Marocco di fare chiarezza». Incalzata dall’intervistatrice Alessandra Ziniti, la signora Souad Sbai ha detto: «Ci sono delle responsabilità che vanno ricercate nell’ambiente dell’alta diplomazia marocchina con cui Imane lavorava. Io seguo queste storie dal 2010. Di ragazze marocchine bellissime, come Ruby, come lei, in questi anni in Italia ne sono arrivate tante ed è facile immaginare a fare cosa. Incontri, filmini, ricatti. Non è successo solo a Berlusconi. Lui è conosciuto e la sua storia è venuta fuori, ma di persone di alto livello ne sono state ricattate e minacciate tante. Probabilmente Imane si era tirata indietro, era diventata un problema e l’hanno eliminata. Ma non c’è solo lei». Non vorrei, francamente, che prima o dopo anche Souad Sbai, con queste idee che ha maturato sulla fine della povera Fadil, e con tutte le iniziative che ha raccontato di avere preso a livello giudiziario e diplomatico per vicende evidentemente analoghe a quella della povera Imane, finisse mediaticamente nel pentolone di quello che Travaglio ha definito «il versante criminale del berlusconismo». Nel nostro Paese, ormai ad alta orologeria e dietrologia, può accadere davvero di tutto.
Morte di Imane Fadil, il procuratore: «evitare suggestive congetture». Dai pm di Milano conferme all’ipotesi che la modella sia morta avvelenata: «ma si è creata qualche leggenda». La più gettonata: l’hanno uccisa per impedirle di testimoniare contro Berlusconi al processo Ruby, scrive Errico Novi il 19 Marzo 2019 su Il Dubbio. Dopo tre giorni di cronaca giudiziaria degradata a romanzo spionistico d’appendice, il procuratore di Milano Francesco Greco è “costretto” a convocare una conferenza stampa. «C’è un’opzione avvelenamento», nelle indagini sulla morte di Imane Fadil, «ma è meglio evitare suggestive congetture». Sembra un richiamo anche un po’ desolato a tenere a freno la fantasia. Che sulla stampa italiana non è certo mancata, da quando venerdì scorso lo stesso capo dei pm milanesi ha reso pubblica l’inchiesta per omicidio sul decesso della 34enne ex modella. Le “suggestioni” ruotano attorno a un fantasma: quello di Silvio Berlusconi. La povera Imane è stata teste al processo Ruby – il primo, da cui l’ex premier è uscito assolto – e avrebbe deposto anche al nuovo dibattimento, quello che vede Berlusconi accusato di aver corrotto i testimoni delle cene di Arcore. Immediata la corsa all’allusione, la sfrenata rappresentazione mediatica che rimanda a un non detto: Imane sarebbe stata avvelenata proprio per impedirle di testimoniare – di nuovo – contro il Cavaliere. Scenografia macabra che trasforma il leader di Forza Italia se non proprio nel mandante, quanto meno in beneficiario del possibile omicidio della donna. Una corsa alla suggestione horror che di fatto è anche un atto di sfrenato e collettivo scempio del cadavere della vittima. Il solito quadro degenerato dell’informazione giudiziaria. Di fronte al quale il procuratore Greco tenta di mettere ordine con un velo di bonaria sopportazione, ma anche con nettezza. Conferma che «l’opzione avvelenamento» esiste, che i metalli usati potrebbero essere radioattivi e che, per verificarlo, nelle prossime ore saranno prima prelevati campioni di materiale organico dalla salma e poi condotta l’autopsia, prevista per giovedì o venerdì. Intanto già dagli esami sul sangue e le urine di Imane risulta la presenza di diversi metalli. «Una ricerca di 50 elementi ha dato esiti pesantemente positivi per alcuni», come «il cromo, rintracciato a 2,6». A precisarlo è Tiziana Siciliano, procuratore aggiunto nel capoluogo lombardo, che affianca Greco nell’incontro con la stampa e che, con il sostituto Luca Gaglio, conduce materialmente l’inchiesta. I due magistrati dell’ufficio diretto da Greco sono anche i titolari dell’accusa al nuovo processo Ruby. Ed è insieme con loro due che il procuratore di Milano individua un possibile imminente obiettivo dell’indagine: i sanitari della clinica Humanitas di Rozzano, dove Fadil è stata ricoverata lo scorso 29 gennaio ed è morta il 1° marzo. L’ex modella confessa già il 12 febbraio i timori di avvelenamento a suo fratello e al suo avvocato Paolo Sevesi. Eppure, spiega Greco, la struttura sanitaria «non ha comunicato né alla Procura né ala polizia» il ricovero sospetto. La prima fase degli accertamenti medici risente di una certa inspiegabile flemma: Fadil attende la bellezza di dieci giorni prima che l’Humanitas verifichi l’assenza di arsenico nel suo sangue. «L’analisi viene chiesta il 12 febbraio», ricorda la procuratrice aggiunta Siciliano, ma «l’esito negativo» arriva solo «il giorno 22». Solo a quel punto è iniziata «una serie di analisi più approfondite». E oltretutto, nel giorno del decesso, i magistrati vengono a sapere della vicenda non dai medici, ma dal difensore di Imane. Tanto è vero, incalza Greco con apparente levità, che «la Procura ha anticipato la comunicazione della clinica». Cioè sono Siciliano e Gaglio a chiedere conferma ai vertici della struttura su una donna appena deceduta, con sospetti di avvelenamento, prima ancora che agli inquirenti arrivi l’informazione ufficiale. «Non c’è stata nessuna comunicazione alla Procura o alla polizia prima della morte di Imane: la conferma ufficiale arriva dallo stesso direttore sanitario», sentito ieri dai pm. «Chi dice il contrario diffonde una fake news», chiude la storia il procuratore di Milano.
C’è un altro passaggio significativo, nella conferenza tenuta ieri dagli inquirenti. Oltre al possibile avvelenamento da metalli pesanti e radioattivi «nessuno si sente di escludere una possibile causa naturale della morte». Anzi, «nessuno si sente di escludere nulla», chiarisce Greco un attimo prima di spiegare che l’esame autoptico avverrà col supporto dei vigili del fuoco e con tutte le «cautele» rese necessarie dall’ipotesi sostanze radioattive. È un passaggio importante perché quell’idea di non dover escludere nulla era filtrata sui giornali già nel fine settimana. Ma sotto una luce del tutto diversa dalla laica pluralità di ipotesi avanzate dal magistrato: nelle ricostruzioni proposte finora, il “tutto è possibile” è stato allusivamente riferito a un qualche ruolo di persone vicine a Berlusconi. A un avvelenamento “alla russa”, magari sbrigato dagli amici dell’amico Putin, in modo che la teste scomoda della saga Ruby tacesse per sempre. E invece andrebbero evitate «suggestive congetture», dice il procuratore di Milano. Ci sono indizi che rimandano all’uso di metalli radioattivi, non certo alle eventuali ragioni di un atto così feroce. «Quello che emerge è che all’Humanitas hanno tentato tutto il possibile, anche l’ipotesi di una malattia rara che non è stata trovata». Ma ora, anziché dare la caccia a eventuali indagati, «è più importante capire la causa della morte di Imane», aggiunge il capo dei pm milanesi. Tenere a freno la fantasia sarebbe necessario anche in altri dettagli delle romanzesche ricostruzioni apparse nelle ultime ore, come quelle che hanno evocato una possibile “quarantena” della clinica. «Dopo la morte ci sono stati dei controlli in ospedale con il contatore Geiger, di esito negativo, ma forse su questo si è creata una leggenda». Forse non solo su questo. La tragedia di Fadil è un caso giornalistico, non ancora un caso politico. Mostra inevitabile prudenza Matteo Salvini, che d’altra parte sarebbe chiamato istituzionalmente in causa solo qualora emergesse davvero un ruolo di agenti dei Servizi di qualche Paese straniero, ruolo già ampiamente avvalorato da alcuni giornali. Tra le tante “suggestioni”, anche quella di un possibile ricorso a sostanze radioattive come il polonio, ritenute tipiche degli agenti russi. «Non mi accontento di ipotesi giornalistiche, non mi permetto di sostituirmi agli inquirenti, aspetto che mi dicano qualcosa di certo», risponde il ministro dell’Interno. «Se ci fosse qualcosa di certo, al Viminale ne trarremmo le conseguenze». Anche perché se una donna fosse stata avvelenata in Italia da spie di Putin per fare un favore a Berlusconi, sarebbe roba da far venir giù ogni rapporto tra Roma e Mosca. Chissà se le fantasie ne tengono conto.
Imane Fadil, Renato Farina e il terribile sospetto: una vergogna contro Silvio Berlusconi, scrive il 18 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Non usate una povera ragazza morta, di cui nulla v'importa, come cadavere da gettare tra i piedi del vostro nemico politico, antropologico, esistenziale senza del quale neppure esistereste, ma il cui imperdonabile torto è di non decidersi a finire anche lui stecchito per il giubilo di tutti. Due sono le notizie certe. Il resto sono punti interrogativi miscelati come acido da spalmare in faccia al vecchio arnese di Arcore. Le cose sicure sono: il decesso tra atroci dolori di Imane Fadil; lo sciacallaggio mediatico che morde il corpo della ragazza e lo sputa sulla reputazione di Berlusconi. Ovvio: tutti capiscono che sarebbe assurdo sospettarlo di omicidio, proprio per il banale principio dell' a-chi-giova. Poi però lo si incastra con l' esagerato numero di coincidenze. Scrive ad esempio Marco Travaglio: «Il cui prodest, una volta tanto, allontana i sospetti da B., che tutto poteva augurarsi fuorché il ritorno dei bunga bunga sui giornaloni, che li avevano rimossi per riabilitarlo... Ma i vari ambienti criminali, italiani e internazionali, che circondano B. autorizzano i soliti sospetti di eccessi di zelo, favori non richiesti o messaggi ricattatori». Repubblica idem, Massimo Giannini non sta nella pelle per la gioia: ovviamente cita Karl Marx, e «il morto che afferra il vivo... (Imane Fadil) fatalmente risucchia» Silvio Berlusconi. Avete letto bene: l' azzimato e elegante Giannini sulla prima pagina, accanto al nume Eugenio Scalfari, scrive di una ragazza morta che «risucchia» un signore di 83 anni che le ha rovinato la vita. Trattasi di linciaggio insieme allegro e macabro. Rancore che usa le tenaglie verbali al riparo dalle querele, perché l' ambiguità aiuta a nascondere la mano e a ferire lo stesso.
LA FORCA. Libero non ha risparmiato severe critiche politiche a Berlusconi, il quale ha ricambiato con manifesta antipatia e boicottaggi trasversali il nostro quotidiano. Amen, abbiamo retto e reggiamo il colpo. Ma qui si costruisce la forca e si appende sul niente il fu Sua Emittenza oggi pitturato come Sua Delinquenza. Elenchiamo con la durezza che impone la cronaca gli elementi emersi e quelli creati. Per prima cosa però oso esprimere la speranza che finalmente la sventurata ragazza abbia ricevuto quella "carezza del Nazareno" dopo tutte quelle fasulle o interessate che ha ricevuto nella sua breve vita. Imane Fadil, 34 anni, marocchina, è morta a Rozzano (Milano) il 1° marzo, in circostanze tali da indurre la procura a indagare per omicidio volontario. I dolori tremendi cominciarono a manifestarsi a metà gennaio. Viveva in miseria, dentro una casa infestata dai topi. Le diagnosi incerte propendevano per un tumore che avesse aggredito il midollo o per una malattia autoimmune. Due ipotesi smentite dal decorso del male: non era né cancro né lupus. La ragazza aveva enunciato la certezza di essere stata avvelenata. La Procura si è limitata ad affermare che i sintomi sono «compatibili con un avvelenamento». La «compatibilità» della versione ufficiale si è tramutata - grazie a fonti formalmente anonime di un cronista del Corriere della Sera assai stimato nelle stanze alte e basse del Palazzo di Giustizia ambrosiano - in certezza di omicidio, che si assicura causato da potenti e misteriose sostanze radioattive, presenti solo negli armamentari di potenze nucleari. Ma non esiste alcun riscontro. Il centro anti-veleni di Pavia (Maugeri) non ha strumenti per identificare tossicità di questo tipo. Del resto una diagnosi di questo genere richiede, anche in istituti attrezzati, molto tempo. E allora perché questa asserzione? È magia? Intuizione investigativa? Imane Fadil era testimone d' accusa nel processo dedicato a Ruby, alle Olgettine, a Berlusconi e al suo entourage. In numerose interviste aveva raccontato le oscenità delle notte di Arcore dove sosteneva di essere stata otto volte. Il bunga-bunga non era sesso ma un raduno diabolico dove - lo scriviamo senza voler insolentire con l' ironia una signora morta - sarebbe intervenuto Lucifero in persona. I più importanti siti internazionali hanno identificato subito il nesso. Ad esempio quello della BBC: «"Bunga bunga" model Imane Fadil death investigated». Bunga bunga: si investiga sulla morte della modella... Assolutamente asettico, ma un macigno suggestivo sul petto di Berlusconi. La notizia ha un rilievo mondiale (ne parlano non solo il New York Post, ma anche l' agenzia russa Sputnik) per il legame che evoca scenari da omicidio di mafia. La ragazza stava scrivendo un libro sulle sue vicende. Non c' è nulla - secondo coloro che ne hanno letto le bozze - che vada al di là dei racconti da lei già ampiamente resi noti. La sua testimonianza non era ritenuta dai magistrati così decisiva né la sua posizione a rischio. Tant' è che non era stata protetta.
COSA NON TORNA. In conclusione. C' è una sproporzione visibile a occhio nudo tra il peso processuale ma anche mediatico di Imane Fadil e il suo (ipotetico e forse probabile) assassinio. Insomma: farla tacere non valeva l' orrenda fatica di un omicidio. E allora - se davvero si è trattato di una esecuzione e per di più con armi di potenza inaudita - perché? Occorre smetterla di tessere tele con bava di ragno velenoso. In fin dei conti stiamo tutti giocando con supposizioni. (Tra parentesi, molto tra parentesi, assai sommessamente qualche spunto di riflessione. Magari anche per puntare i riflettori su colpe che nessuno osa accennare davanti alla maestà infallibile delle toghe. Il bunga-bunga ormai si era perso nelle nebbie di una assoluzione piena - anche se tutti lo dimenticano - e questo nuovo processo sulla corruzione di testimoni avanza scricchiolando nel generale disinteresse ed è interpretato dai più come una stentata rivincita della Procura di Milano dopo la sconfitta in Appello e in Cassazione. Adesso riprende corpo, fascino perverso, curiosità internazionale, definitivo seppellimento politico ma anche umano di B. Se è omicidio, ed è ciò che la Procura suppone, com' è possibile che il medesimo soggetto giudiziario non abbia percepito il rischio reale che Imane correva e che lei stessa aveva denunciato a piena voce? Eppure per queste inchieste dette bunga-bunga sin dagli inizi non ci si è posti limiti di intercettazioni, pedinamenti, ipotesi di reato poi smentite in sede di giudizio. Trascuratezza? Culpa in vigilando? Qui chiudo la parentesi). Renato Farina
Fadil, storia di complotti e contro-complotti: dagli, dagli al Cavaliere nero…, scrive Tiziana Maiolo il 19 Marzo 2019 su Il Dubbio. Era stato sospettato persino di aver organizzato stragi mafiose Silvio Berlusconi, ma mai di aver tramato con servizi segreti russi manovrati dal suo amico Putin per far fuori sul territorio italiano e proprio a Milano, a due passi da casa sua, una testimone dell’accusa contro di lui, la modella Imane Fadil. Il leader di Forza Italia, temendo le deposizioni della ragazza, l’avrebbe trattata come si conviene a una spia e con la punizione che si meritava, il lento avvelenamento con sostanze radioattive. Proprio come capitato in Inghilterra alla spia russa Litvinenko e come abbiamo letto tante volte nei romanzi di spionaggio. Sta capitando anche questo. Una giovane donna di origine marocchina, ex modella disoccupata e testimone nei vari “processi Ruby”, viene ricoverata in condizioni gravissime alla fine di gennaio alla clinica Humanitas di Milano e muore dopo un mese senza che i medici siano riusciti a formulare una diagnosi. Midollo osseo che non produce più globuli né piastrine, fegato e reni ridotti al minimo di funzionalità. E lei che dice di esser stata avvelenata, ma aggiunge anche di essere una santa e di aver visto il demonio. Ad Arcore, ovviamente. I medici fanno eseguire analisi del sangue nel centro specializzato della clinica Maugeri di Pavia, ma l’arsenico non c’è e la presenza di metalli velenosi è sotto ogni soglia di pericolosità. Così dice la relazione dei tecnici. Il caso sarebbe stato archiviato come un semplice fallimento delle capacità diagnostiche della nostra medicina, se non fosse intervenuto a ingarbugliare le cose un più che mai agguerrito circo mediatico- giudiziario con le sue paginate di sospetti il cui Oscar questa volta va attribuito più a Repubblica ( complimenti al nuovo direttore Carlo Verdelli) che al consueto Fatto quotidiano. Si sospetta che qualcuno abbia assassinato la ragazza per non farla parlare, per non farla deporre contro Berlusconi. Ma c’è qualcosa che non quadra. Il punto più oscuro è quello delle date. Imane Fadil muore il primo marzo, alle sei del mattino. La notizia esce sui giornali sabato 16 marzo. Sono passate due settimane. La procura della repubblica di Milano fa subito sapere di esser stata tenuta all’oscuro da parte dell’Humanitas sia della malattia che della morte di un’importante testimone processuale fino a quando la notizia non è stata data dall’avvocato della ragazza giovedi 14. Il che appare piuttosto strano: per quale motivo i medici dell’istituto milanese avrebbero tenuto per due settimane in cella frigorifera dell’obitorio il corpo della giovane donna se non per una disposizione dell’autorità giudiziaria? E’ chiaro quindi che qualche disfunzione si è verificata all’interno del palazzo di giustizia di Milano, dove la notizia della morte di Imane Fadil è sicuramente arrivata il giorno della sua morte, ma forse anche prima. Distrazione o calcolo? E forse questa testimonianza da parte dell’accusa non era poi ritenuta così importante, visto che all’ex modella era anche stata rifiutata la costituzione di parte civile. E del resto che cosa avrebbe potuto aggiungere che già non avesse detto (persino il fatto che un cittadino siriano volesse portarla ad Arcore per farla ritrattare, cosa che però non accadde e che l’uomo nega), che già non si sapesse? Il processo Ruby si è risolto con l’assoluzione definitiva di Berlusconi rispetto all’unico reato di cui era accusato, la prostituzione minorile. Per il resto, anche qualora la testimone fosse venuta a conoscenza di rapporti sessuali tra adulti consenzienti, quale sarebbe stata la rilevanza penale? E’ chiaro quindi che, se complotto c’è stato, è sicuramente diretto nei confronti di Silvio Berlusconi. Non solo perché la bomba Imane Fadil è stata fatta esplodere nella pancia della candidatura alle elezioni europee, ma anche e soprattutto perché la morte di una teste chiave dell’accusa nei vari processi Ruby impedisce definitivamente alla difesa quei controinterrogatori indispensabili per verificare l’attendibilità della persona chiamata a deporre. Soprattutto nel processo “Ruby ter”, sulla presunta corruzione di testimoni, sarebbe stato interessante contrapporre la parola di Fadil a quella del cittadino siriano. Ma sarebbe tutto troppo semplice, se la procura, addirittura con la voce del suo capo Francesco Greco, non avesse alzato il tiro con una conferenza stampa davvero inconsueta per la abituale riservatezza del personaggio. Pare proprio una excusatio non petita. Si insiste sulla questione delle date: è nato prima l’uovo o la gallina? Cioè quel famoso primo marzo chi ha telefonato per primo in procura, il direttore sanitario dell’Humanitas o l’avvocato Paolo Sevesi? E siamo proprio sicuri che l’antimonio o altre sostanze che avvelenano il sangue fossero presenti nella vene di Imane Fadil in dosi sotto la soglia di pericolo? O invece erano in dosi superiori? E poi: qualcuno sa quale sia questa soglia? Ecco che la parola “radioattività” esplode come una bomba, si diffonde addirittura la voce di un pericolo per chi dovrà effettuare l’autopsia ( dopo quasi venti giorni dalla morte) sul corpo della ragazza. Si coinvolgono i pompieri. Mentre il procuratore, visibilmente provato, sussurra che la causa della morte di Imane Fadil potrebbe anche essere dovuta a qualche forma di malattia rara. Cosa che del resto avevano già sospettato anche i medici. Che cosa c’entra Silvio Berlusconi in tutto ciò? Niente, è solo la solita vittima di un circo equestre ormai stantio persino per i più appassionati della lotta contro il “cavaliere nero”.
UN LIBRO MAI FINITO. La misteriosa morte di Imane Fadil, scrive Giuseppe Capano su internationalwebpost.org il 17 marzo 2019. “Credo di essere stata avvelenata”. Sono le ultime parole pronunciate da Imane Fdil, la modella marocchina che nel processo Ruby era diventata una teste fondamentale, con le sue presunte rivelazioni inerenti alle famose cene di Arcore. Si è spenta all’Humanitas di Rozzano (Milano), dopo oltre trenta giorni di agonia. Stando ai primi accertamenti, pare che le cause della morte siano riconducibili a un mix di sostanze radioattive. La procura di Milano non perde tempo ed apre un fascicolo per omicidio volontario, ascoltando i primi testimoni, tra cui il fratello della vittima e il suo legale. Lo stesso procuratore Greco ha rassicurato tutti, affermando che il tutto sarà portato alla luce in tempi brevi. La giovane modella in questi mesi stava lavorando all’uscita del suo libro, in cui avrebbe raccontato tutto quello che sapeva sulle vicende che coinvolgono Silvio Berlusconi. Lei stessa ricordava che nel 2011 aveva partecipato a otto cene nella villa di Arcore, diventando una delle cosiddette “pentite del Bunga-Bunga”. Inoltre, si era costituita parte civile nei vari processi a Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti. Già a partire dal 2012, si definiva in pericolo per ciò che aveva visto e detto. Indubbiamente, tutti i riflettori sono puntati su Berlusconi (all’epoca presidente del consiglio). Lui stesso, a varie testate giornalistiche, specifica: “Non l’ho mai conosciuta, ad ogni modo mi dispiace per la sua morte”. Qualcosa però non torna: i magistrati, nel curare la fase istruttoria, hanno certificato che la giovane modella era stata ad Arcore più volte. “Ho detto la verità e ho subito respinto tentativi di corruzione”. Queste le ultime parole alla stampa pronunciate dalla Fadil. Si arriverà mai a risolvere questo mistero oppure cadrà nel dimenticatoio come molti altri? Giuseppe Capano
Claudia Guasco per ''Il Messaggero'' il 19 marzo 2019. Imane Fadil comincia a sentirsi male attorno al 20 gennaio. E dalla sua ultima uscita pubblica non è trascorsa nemmeno una settimana: il 14 gennaio si presenta al processo Ruby ter e la sua costituzione di parte civile viene respinta. Lei è arrabbiata: «Tutti sanno, nessuno parla. Aspettano che gli altri lo facciano. Ebbene io l' ho fatto, che cosa succede adesso?». Purtroppo non lo scoprirà mai, perché il 29 gennaio viene ricoverata all' Humanitas e all' alba del primo marzo muore. Ad accompagnarla all' ospedale di Rozzano è un amico di vecchia data, una persona alla quale era molto affezionata e a cui si rivolgeva nei momenti di difficoltà. Come è avvenuto nei suoi ultimi mesi di vita. La modella marocchina viveva in una cascina piuttosto malandata a Chiaravalle e il suo sogno era ristrutturarla, tuttavia non solo non disponeva dei fondi necessari ma non aveva nemmeno i soldi per pagare l' affitto. Così lo scorso luglio viene sfrattata e chiede ospitalità all' amico. Lui la accoglie, festeggiano Capodanno insieme, poi la situazione precipita. Imane accusa forti dolori al ventre, è sempre più magra, così lui la porta all' Humanitas e le sta vicino, assistendola nelle necessità pratiche. Le porta la camicia da notte di ricambio e lo spazzolino da denti, le fa compagna e la rassicura. I magistrati lo hanno già ascoltato due volte. «Nelle settimane precedenti al ricovero Imane era tranquilla, non era per nulla depressa o afflitta - ha riferito l' uomo - Anzi, era particolarmente combattiva e dopo l' esclusione come parte civile non aveva intenzione di gettare la spugna». I processi Ruby, per la modella trentaquattrenne, erano diventati quasi un' ossessione. Si presentava regolarmente in procura, dove la ricordano per le décolleté di Louboutin che erano la sua passione, e bussava alla porta dei magistrati: «Voglio giustizia. Sulle aule scrivono che la legge è uguale per tutti, ma non è così, perché sono otto anni che siamo qui», si indignava di fronte ai continui rinvii delle udienze. La senatrice Maria Rosaria Rossi le offre 250 mila euro affinché rinunci alla costituzione parte civile, lei respinge la proposta indignata: «Ho rifiutato lavori e tentativi di corruzione per anni, non mi piego proprio ora». Quei soldi le farebbero comodo, dato che la sua carriera in televisione e nel giornalismo sportivo non è mai decollata. Nel 2009, dopo aver tagliato i ponti con quel mondo per due anni per stare accanto al fidanzato, torna single e riallaccia i contatti. Va a cena con Emilio Fede, incontra Lele Mora e varca i cancelli di Arcore. Partecipa a otto cene e nel primo processo, come testimone racconta tutto quello che ha visto. Ma nell' ultimo periodo ripete che ha ancora molto da dire su quelle serate a Villa San Martino e anche per questo non accetta l' accordo stragiudiziale con la Rossi: la obbligherebbe alla clausola del silenzio e invece lei vuole aggiungere nuovi particolari. Promette che scriverà tutto in un libro, sequestrato dai pm dopo la sua morte. Chi si aspettava notizie sensazionali però resterà deluso. Sono 150 pagine di riflessioni filosofiche e religiose sulla sua vita, in cui l' esperienza di Arcore occupa una parte importante ma senza particolari inediti. Il suo grande cruccio è restare inascoltata: «Noi parti civili siamo state lineari con la giustizia, perché crediamo nella giustizia, ma non possiamo dire lo stesso della giustizia. Sembra quasi che ci debbano un favore quando è propriamente il contrario». Oltre che indignata, poco alla volta si fa anche sospettosa e sempre più preoccupata. Tanto che è lei a mettere i medici dell' Humanitas sulla drammatica pista del veleno: il 12 febbraio viene fatto il test per l' arsenico, che dà risultato negativo, poi con il deteriorarsi progressivo dei suoi organi l' indagine si allarga ai metalli pesanti. La modella insiste: «Mi hanno avvelenato». E forse, prima di morire, ha fatto anche il nome di chi voleva farle del male. Ma su questo punto il capo della procura di Milano Francesco Greco non fornisce spiragli: «No comment», taglia corto.
Prostituzione, la Corte costituzionale salva la legge Merlin. Ed inguaia Berlusconi...., scrive il 7 Marzo 2019 Il Corriere del Giorno. I giudici della Consulta hanno rigettato come non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate sulla legge che dal 1958 vieta reclutamento e favoreggiamento della prostituzione. Le questioni di legittimità costituzionale riguardanti il reclutamento e il favoreggiamento della prostituzione, puniti dalla legge Merlin, sono state dichiarate non fondate. In attesa del deposito della sentenza, l’Ufficio stampa della Corte Costituzionale, riunita in camera di consiglio, ha reso nota la decisione negativa sulle questioni sollevate dalla Corte d’appello di Bari e discusse nell’udienza pubblica del 5 febbraio 2019. Le questioni erano state sollevate con specifico riferimento all’attività di prostituzione liberamente e consapevolmente esercitata dalle cosiddette escort, nel corso del processo penale sulla vicenda delle cosiddette “escort” presentate nel 2008-2009 all’allora premier Silvio Berlusconi dall’imprenditore Gianpaolo Tarantini. I giudici baresi sostenevano con una teoria alquanto singolare, che la prostituzione è un’espressione della libertà sessuale tutelata dalla Costituzione e che, pertanto, punire chi svolge un’attività di intermediazione tra prostituta e cliente o di favoreggiamento della prostituzione equivarebbe a compromettere l’esercizio tanto della libertà sessuale quanto della libertà di iniziativa economica della prostituta, colpendo condotte di terzi non lesive di alcun bene giuridico. La Corte costituzionale ha ritenuto che non è in contrasto con la Costituzione la scelta di politica criminale operata con la legge Merlin, quella cioè di configurare la prostituzione come un’attività in sé lecita ma al tempo stesso di punire tutte le condotte di terzi che la agevolino o la sfruttino. Il relatore della causa è stato il giudice costituzionale Franco Modugno. Contro tale ipotesi si sono costituite in giudizio la Presidenza del Consiglio e alcune Associazioni di difesa dei diritti delle donne. In riferimento a queste ultime, tuttavia, in apertura dell’udienza la Corte ha respinto la richiesta. Nelle loro arringhe il collegio della difesa composto dagli avvocati Nicola Quaranta (che difende Tarantini), Ascanio Amenduni e Gioacchino Ghiro (legali di Massimiliano Verdoscia, anch’egli imputato nel processo di Bari) hanno sostenuto una linea di ragionamento a tratti comune, in base alla quale la legge 75 del 1958 (che porta il nome della senatrice socialista Lina Merlin, che la propose sessantuno anni fa) sarebbe “ormai disancorata dalla realtà” del mondo attuale, “una legge arretrata che fa di tutta l’erba un fascio, che considera tutte le forme di prostituzione uguali”, senza tener conto dei cosiddetti “sex workers” che decidono “per scelta libera e consapevole di prostituirsi“. La nostra difesa, ha argomentato l’avvocato Quaranta, “non è insensibile al dramma della prostituzione coatta, degli schiavi del sesso dove l’intervento repressivo penale è doveroso”. A suo dire, però, “nel processo di Bari è emersa la realtà completamente diversa delle escort” e assimilare tali casi alle vicende nelle quali c’è sfruttamento e coercizione “sarebbe un vulnus alla libertà sessuale”. Ancora, l’avvocato Amenduni ha citato il caso di “Eurostat, che chiede di considerare nel calcolo del Pil di un Paese anche i redditi da prostituzione” e “la commissione tributaria di Trento, che ha assoggettato la prostituzione al calcolo e al pagamento di Iva e Irap”. A suo parere, lo Stato non può essere “schizofrenico, né scotomizzare (ossia rimuovere dalla propria coscienza, ndr) ciò che non vuole vedere”. Amenduni ha concluso chiedendo di ritenere fondata la questione di legittimità costituzionale o, in subordine, di rinviare al Parlamento auspicando “una rivisitazione” della legge Merlin, se possibile partendo dalle 12 proposte di legge sulla legalizzazione della prostituzione già depositate alle Camere. Nel corso degli interventi della difesa i tre legali degli imputati Tarantini e Verdoscia hanno richiamato in più passaggi la recente decisione della Consulta sulla vicenda Cappato-dj Fabo, in materia di suicidio assistito, invitando la Consulta a tener conto della libertà dell’individuo di autodeterminarsi e della necessità di valutare la specificità del singolo caso. Di parere opposto l’ Avv. Gabriella Palmieri dell’ Avvocatura dello Stato , la quale in rappresentanza della Presidenza del Consiglio ha chiesto l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale: “Il caso di dj Fabo ha ben pochi punti di sovrapponibilità con quello in discussione“, ha argomentato l’ Avv. Palmieri, ritenendo che sia piuttosto da valutare “il profilo fondamentale della dignità della persona, e parlo volutamente di persone e non di donne” – ha precisato – perché lo sfruttamento non è questione di genere. “Non una questione di buoncostume quanto piuttosto del rischio che un vuoto normativo produca un vuoto di tutela” a danno di soggetti più deboli. L’Avvocato dello Stato ha anche messo l’accento su un altro punto: è difficile, ha spiegato, “individuare il confine labile della volontarietà” di chi è coinvolto nel mercato del sesso a pagamento. A suo parere, i giudici del processo di specie avrebbero potuto dirimere la questione, senza adire la Consulta. Tuttavia, ha concluso, potrebbe essere auspicabile “un’interpretazione evolutiva della legge Merlin che permetta al giudice di valutare il caso specifico e di ipotizzare l’insussistenza del reato”. La Corte ha respinto tutte le eccezioni ed ha ritenuto che il reato di favoreggiamento della prostituzione non contrasta con il principio di determinatezza e tassatività della fattispecie penale.
Da “Belve” - Canale Nove il 31 maggio 2019. “Le intercettazioni hard tra me e Berlusconi non sono mai esistite: lo ha detto anche un tribunale che ha condannato per diffamazione Sabina Guzzanti che ha utilizzato quelle presunte telefonate per un attacco estremamente pesante”. La vice presidente della Camera Mara Carfagna, prima ospite di “Belve”, il ciclo di interviste condotte da Francesca Fagnani, in onda su Nove venerdì 31 maggio alle 22.45, torna con la memoria al 2012, quando il tribunale civile di Roma condannò l'autrice satirica a pagare 40mila euro all'allora ministra alle Pari opportunità per alcune frasi dette durante il “No Cav Day” del 2008. “Lei è stata veramente massacrata, tartassata in quel periodo storico – spiega la giornalista - A un certo punto uscirono pure delle intercettazioni assolutamente false divulgate da un giornale argentino (il Clarin, ndr) che non esistevano. Probabilmente la cabina di regia era qui in Italia”. La deputata di Forza Italia non vuole fare nomi anche se afferma di “sapere di persone che hanno amici, parenti o conoscenze in Argentina, ma poi nella vita ogni cosa va al suo posto, ci vuole magari un po' di tempo”. Quello che la rasserena è che “c'è stato un tribunale che ha condannato, in quel caso la Guzzanti e quelle intercettazioni non sono mai esistite, mai, anche perché se fossero esistite sarebbero uscite in tre secondi e mezzo, no? Sarebbero andate dovunque”. “Però presumibilmente, c'era una cabina di regia di qualcuno che voleva danneggiarla personalmente”, insiste Fagnani. “Nessuno mi ha danneggiato, ma insomma... - risponde la madrina della legge contro lo stalking - All'epoca io avevo un compagno (Marco Mezzaroma, ndr) che giustamente mi chiese spiegazioni. Noi siamo persone normalissime”. “Ho il desiderio di avere un figlio. La fine del mio precedente matrimonio è stato un dolore enorme. Adesso controllo il cellulare... Avrei dovuto farlo anche prima”. La vice presidente della Camera Mara Carfagna, prima ospite di “Belve”, il ciclo di interviste condotte da Francesca Fagnani, in onda su Nove venerdì 31 maggio alle 22.45, parla della sua vita privata. “Lei ha spesso espresso il desiderio di avere un figlio: ce l'ha ancora questo desiderio?”, chiede la giornalista. “Sì, sì, ce l'ho ancora e naturalmente non mettiamo limiti alla Provvidenza”, risponde l'ex ministra alle Pari opportunità”. Ma quando vi sposate (con l'attuale compagno Alessandro Ruben, ndr)?”, insiste Fagnani. “Vediamo, lui ha chiuso il suo matrimonio legalmente da poco e ci sono state anche delle vicende burocratiche da sistemare”, ribatte la deputata forzista. “Ma formalmente gliel'ha chiesto di sposarlo?”, domanda ancora la conduttrice. Carfagna ride: “Ne parliamo”. Si discute poi del precedente matrimonio con il costruttore romano, Marco Mezzaroma, che è durato solo un anno, dal 2011 al 2012. “Lei ha parlato proprio di “dolore enorme” come è normale che sia. Un fallimento amoroso è sempre un dolore. Posso chiederle se ha subito la fine di quel rapporto o ha scelto?”, chiede la giornalista. “Entrambe. E' una pagina chiusa, è stata una pagina dolorosa, come insomma per ogni donna, che vede finire un matrimonio su cui aveva riversato speranze, aspettative. Naturalmente è una battuta d'arresto dolorosa”, chiosa la madrina della legge contro lo stalking. Infine il capitolo gelosia e tradimenti. “Mi scusi e poi cambiamo argomento, ma solo perché prima lei ha detto: 'Dopo la fine del mio precedente matrimonio, adesso controllo il cellulare', quindi la fine del suo matrimonio era legato a quel tema lì?”, domanda Fagnani. “Avrei dovuto farlo anche prima, sì, non avrei fatto male”, ammette Carfagna. “Oggi non esiste un partito, esiste un'organizzazione territoriale. Non esiste un'organizzazione a livello nazionale, quindi un coordinamento in grado di affiancare il presidente Berlusconi nell'elaborazione della linea politica, nella gestione delle alleanze, nella scelta, anche, per esempio, dei candidati”. A pochi giorni dai risultati delle elezioni europee, la vice presidente della Camera Mara Carfagna analizza la situazione di Forza Italia che alle Europee ha preso l'8,8% dei voti, superata dalla Lega al 34,3%, ma davanti al 6,4% di Fratelli d'Italia. “Ma chi decide? Per esempio: 'La Carfagna è fuori dalle europee e non la candidiamo'. Chi l'ha deciso?”, domanda la giornalista. L'ex ministra delle Pari opportunità dichiara di non saperlo perché “non ho mai partecipato a riunioni operative in cui si è decisa la linea da tenere soprattutto sulla composizione delle liste. E' stato convocato un ufficio di presidenza soltanto per ratificare scelte già fatte”. Poi spiega: “Io credo che sia necessario affiancare il presidente Berlusconi e costruire un organismo di partito come in tutti i partiti che possa affiancarlo per aiutarlo a prendere le giuste decisioni”. La conduttrice ipotizza: “Se dicesse: 'Basta, mi sono stufato di tutti voi'. Io lo dico per assurdo, non succede, però chi ci sarebbe al posto suo?”. “Non è questo un tema all'ordine del giorno”, risponde la madrina della legge contro lo stalking. “Lei è una donna molto in vista all'interno di Forza Italia. Se la sentirebbe di raccogliere l'eredità, la leadership di Berlusconi?”, chiede Fagnani. “Io sarò anche belva, ma non sono matta – ironizza la deputata forzista - Non esiste l'erede di Berlusconi. Sentirsi eredi o delfini di Berlusconi significa essere mitomani”.
Mara Carfagna: "Meglio la Camera di Sanremo". Studentessa modello, determinata, voleva fare il magistrato, è finita in politica. Mara Carfagna si racconta a Panorama, scrive Luca Telese il 7 marzo 2019 su Panorama. Onorevole Carfagna, lei è diventata virale, in rete, per un video in cui strapazza Matteo Salvini.
«Era un richiamo giusto, per la funzione di vicepresidente della Camera che esercitavo, poi le spiego perché».
Lei è nemica giurata dell’autonomia.
«Sbaglia. Sono favorevole all’autonomia prevista dalla Costituzione, contraria a quella di Salvini che divide l’Italia».
È vero che sta lavorando alla proposta di una mega no Tax area al Sud?
«Questa gliela spiego subito: zero Ires al Meridione, abbattimento per chi assume in tutto il Mezzogiorno».
Costerebbe una follia.
«No, meno di 4 miliardi di euro. Metà del reddito di cittadinanza. Ma al contrario del reddito sarebbe un incredibile volano di sviluppo».
Si sta candidando a diventare leader di Forza Borbonia?
«Ma sta scherzando? Chi pensa che andrà a investire nel Meridione se diventa vantaggioso? Chi ne trarrebbe beneficio? Tutta l’Italia, a partire dal Nord produttivo».
Lei sta esprimendo una vocazione meridionalista. E per me non è un insulto.
«Sbaglia ancora. Noi siamo un partito a vocazione nazionale. Se tu non colmi il divario tra le due Italie anche il Nord è frenato nella crescita. Non lo faccio per il Sud lo faccio per tutto il Paese».
Ma è vero che sta pensando anche uno sgravio fiscale per le donne adulte al Sud?
«L’idea è che chi assume una donna in più tra le sue dipendenti paga zero Irpef».
E così non rischia di discriminare le donne del Nord?
«Affatto: al Nord il tasso di occupazione è nella media europea. Così creiamo un circolo virtuoso: le donne portano soldi nell’economia e fanno crescere la natalità. Che non a caso è più bassa proprio al Sud!»
Mara Carfagna è la donna più in vista di Forza Italia. Da anni si parla di lei come possibile portavoce del partito, e oggi è l’interprete della linea più lontana da Matteo Salvini. In questa intervista rivela per la prima volta qualcosa del suo privato (su cui si solito è abbottonatissima) e spiega perché Forza Italia secondo lei resterà centrale nella politica italiana malgrado la temibile concorrenza leghista.
È vero che lei ha iniziato a studiare scuola di danza fin dall’asilo?
«Per 15 anni della mia vita ho ballato sulle punte».
Addirittura?
«Più otto anni di nuoto, otto di pianoforte, poi il conservatorio, il liceo».
Mi dica una cosa che ha imparato dalla danza.
«L’autodisciplina. Ricordo ancora la piccola grande gioia di imparare il «fouté», il passo sospeso intorno a cui deve girare tutto il corpo».
E il segreto quale è?
«(Sorriso solare). La leggerezza. Una metafora utile per la vita».
I suoi volevano che lei diventasse l’erede di Carla Fracci?
«Ha toccato un tasto delicato. Mio padre Salvatore era preside, mia madre Angela insegnava: sono stati entrambi sempre esigenti con me. Ero abituata a incastrare tutto, ogni minuto della giornata».
Difficile.
«Quando non ci riuscivo smaltivo i compiti arretrati nel weekend».
Ferocia doveristica?
«Aria di famiglia. Mio padre è rimasto orfano a otto anni. È cresciuto da solo, senza padre. E ha raggiunto quello che voleva con grandi sacrifici».
Per esempio?
«È diventato il preside più giovane d’Italia a 39 anni, in seguito a un concorso che allora era considerato durissimo».
Lo era davvero.
«Ho vissuto questa aspirazione con lui, l’ho visto coltivarla».
In che senso?
«Per prepararsi studiava nella nostra piccolissima casa, a Salerno in via Settembrini».
Se lo ricorda ancora?
«Eccome: nell’appartamento avevamo un’unica scrivania, di quelle con le spondine di legno. Lui ci lasciava i suoi libri la notte, dopo aver studiato fino a tardi. E io il pomeriggio, tornata da scuola, li spostavo per metterci i miei…»
Lo dice con emozione.
«Mi sentivo orgogliosa e solidale, attraversata da un desiderio di emulazione che non veniva da nessuna richiesta, ma solo dall’esempio».
È vero che non parla volentieri della sua esperienza televisiva?
«Non è vero. Non la rinnego e non la rimpiango: ho imparato tante cose ma non era la mia strada».
Lei ha lavorato con tutti i nostri sacri: Frizzi, Magalli, Bonolis...
«E non dimentichi Mengacci».
Chissà quante avances.
«Sta scherzando? Da questi mostri sacri nemmeno una. Erano professionisti in un mondo di eccellenza. Bonolis ai Cervelloni credo non mi avesse nemmeno notata».
Te saluto core...
«Davvero: ero una tra sei, timidissima, e le altre erano più femmine e più belle di me».
Non ci credo. E Magalli?
«Lui è tre cose insieme: spirito popolare, ironia e cultura. Che miscela!»
E Frizzi?
«Aveva il talento di portare in scena lo spirito di un bambino senza età».
Avrebbe dato un occhio per condurre Sanremo o per condurre una seduta Camera?
«(Sorride). Le dico la verità: lo spettacolo in Aula non manca... e per questo tra quei banchi nel bene o nel male passa la storia. Non farei cambio per nulla al mondo».
Il primo fidanzato portato a casa?
«A sedici anni, si chiamava Luca».
E ha superato il terzo grado dei suoi genitori?
«(Risata). Poverino. Già prima che mettesse piede in sala sapevano già tutto di lui fino a tre generazioni. Lei conosce le famiglie del Sud».
I suoi erano democristiani. Molto conservatori?
«No. Mi hanno indicato sempre come meta l’emancipazione».
Sentendo questa storia sembra che il vero episodio causale della sua vita sia stata la carriera tv, e non il ministero.
«Mio padre ne è convinto».
Adesso è soddisfatto di lei?
«(Sospiro). Non lo conosce. Non lo è mai».
È vero che non le piace rivedere i video di quando era in scena?
«No, detesto rivedermi sempre. Anche un comizio politico: quando parlo in pubblico seguo la passione. Quando mi rivedo noto solo gli errori».
Ma cosa le è mancato come ballerina e come pianista?
«(Risata sonora). Tutto!»
Perché gioca a fare la modesta? Per sedurre il lettore?
«Macché! Non ho orecchio, non suono senza spartito… Riuscivo solo perché sono una tosta e studiavo moltissimo».
Voleva fare la concertista?
«Avrei voluto tanto: ma non avevo talento».
Cosa le manca per essere un leader?
«(Ride). Questo me lo deve dire lei. Forse un portavoce come lei?»
Salvini è un leader.
«No, non lo è: è uno straordinario animale elettorale».
Bene, sta dando a Salvini dell’animale.
«Guardi che è un complimento, che però tiene conto del limite.
Cioè?
«Un animale elettorale è abile ad accumulare consenso. Sono in pochi ad avere questo dono e Salvini lo ha».
E cosa gli manca?
«Visione e lungimiranza. Un leader - per dire - non assume una posizione sul Venezuela come quella che ha preso lui».
Ha fatto dichiarazioni di solidarietà con Guaidó!
«Telese, non mi deluda. Ha votato una mozione da Ponzio Pilato. Per spiegarla ho coniato il termine «neutralità pavida»».
Ce l’ha con la Lega.
«Osservo che ci sono due governi. Uno che dichiara e uno che fa. Giudico quello che fa perché non fa bene».
Eravamo partiti dalla domanda su di lei. Si sente pronta per la leadership o no?
«Il leader non si costruisce a tavolino. Deve avere una visione. Forza di condurre il Paese. E avere consenso. Se mi svegliassi una mattina con tutti questi requisiti nello zaino potrei pensarci».
Che prudenza! Bisogna strapparle le parole con le tenaglie.
«(Sorriso). Facciamo così: accetterei solo se lei venisse a farmi da portavoce. Così si mette un po’ in gioco».
Litigheremmo tutti i giorni.
«Meglio. Senza chiarezza in politica non ci sono risultati».
Prima della politica c’ è la sua laurea in legge da secchiona: 110 e lode in diritto amministrativo con tifo di famiglia sugli spalti dell’aula.
«E questo chi glielo ha raccontato? Speravo che rimanesse un segreto».
Voleva fare davvero il magistrato? Se lo scopre Berlusconi la caccia.
«(Apre le braccia). Però è la verità, se ne farebbe una ragione».
Cosa le piace della politica?
«Le difficoltà che ti mette davanti ogni giorno».
Non mi risponda con queste battute, perfette per un film americano.
«Ho la sensazione di potermi battere per ciò in cui credo. Quando ieri, a distanza di dieci anni, mi ferma per l’ennesima volta una signora che mi dice: «Non la penso come lei ma la ringrazio per la legge sullo stalking», provo una soddisfazione celestiale».
È sincera?
«A casa di mio padre ho trovato un libricino di Max Weber che spiegava la differenza tra la politica fatta come professione o come vocazione. Rientro nella seconda categoria. E mi ritrovo nelle parole bellissime parole dette da Mattarella, pochi giorni fa».
Ma le piacerà anche prendere voti e gestire potere!
«Ovvio. Ma politica è approfondire, studiare e conoscere. Con una battuta, con un tweet, con un post su Facebook prendi solo voti».
Cosa ha imparato nel decennio in tv?
«A improvvisare. Andavano in onda tutte le domeniche mattina, alla Domenica del villaggio, e spesso dovevi tenere la scena senza nulla in mano».
È vero che si trovata in mezzo a un Gay pride?
«Mi ci sono trovata in mezzo a Londra. Anche a Cape Cod».
Due volte? Coincidenza sospetta.
«Non ho problemi di sorta. Sono fiera delle mie battaglie per i diritti delle minoranze e degli omosessuali».
Così perde voti a destra?
«Intanto non è vero. E poi non serve il consenso cercato a ogni costo».
Per anni si è detto che il suo meraviglioso taglio sopracciliare fosse l’effetto di un’ottima blefaroplastica…
«(Sospira). E non era vero. Sono miope e tengo gli occhi molto aperti per questo».
Ma proprio dieci anni fa lei disse: non sono contraria alla chirurgia plastica, ma «se fra dieci anni ne avessi bisogno il chirurgo ce l’ho a casa».
«Esatto: si tratta di mio fratello. Quando sarà necessario lo chiamo».
Forse lo ha già fatto.
«(Sorriso). Se mi guarda da vicino con attenzione scoprirà che non ho fatto ricorso, ma l’effetto non è ancora malvagio. Ma a patto di non eccedere, non sono contraria in linea di principio».
Forza Italia è moribonda?
«Ah ah ah».
Si fa beffe di me?
«Da quando Berlusconi ha detto che torna in campo - e ha visto come lo sta facendo - dormo sonni tranquilli».
Battuta apologetica sul capo.
«Macché. Lo conosco. Io tornavo morta dalla campagna elettorale: accendevo la tv all’una e lo trovavo lì. È una macchina da guerra».
A chi ha dato il suo primo voto?
«Croce sulla Fiamma del Msi. Poi sempre Forza Italia».
Nel 2011 fecero pressioni enormi perché andasse con Alfano.
«Mai pensato di andare nel Ncd, manco morta».
Aneddoto su Berlusconi.
«Il più drammatico, e forse se ci legge sarà doloroso per lui».
Di che si tratta?
«Marzo 2011, guerra alla Libia. Lui era contrario alla guerra, come è noto, ma le pressioni sono enormi, e deve cedere».
E lei quando lo scopre?
«Il giorno del Consiglio dei ministri. Berlusconi non è nella sua sedia, ma in un angolo. Alcuni di noi gli vanno incontro. È distrutto, prostrato».
Addirittura?
«Lo riteneva un errore drammatico. Ci dice che sta subendo pressioni da parte della presidenza della Repubblica: «Sono costretto a farlo. La sinistra, l’opinione pubblica e il Quirinale vogliono i bombardamenti»».
E quel giorno vi dice anche perché era contrario?
«Senza nessun filtro, elenca tre motivi. Il primo: «L’Italia pagherà carissimo». Poi il modo. E alla fine per la promessa fatta a Gheddafi: «Non ho mai mancato alla parola data! Mai!»».
Lui si dispiacerà?
«Andò così. E lui è così. Pochi giorni fa vado con Alessandro, mio marito, a Palazzo Grazioli. C’era una coda di persone, ma Berlusconi era su un divano che parlava fitto, da ore. Ironia della sorte, con chi?»
Non ne ho idea.
«Con Bossi. Finiscono. Bossi era stanco. Lui lo accompagna fin sotto casa, lo infila in macchina, lo saluta con baci e abbracci».
E poi?
«Si gira verso di me e mi fa: «Mara, io voglio bene a tutte le persone con cui ho condiviso qualcosa di importante!». So che è sincero quando lo dice».
Bossi nel 1995 gli aveva dato del «fascista» e lo chiamava «Berluscatz»!
«Vero. Ma poi hanno ritrovato un legame e questo per Berlusconi è più importante. Io sono rimasta colpita, non solo dal gesto, ma dalla tenerezza che c’era».
Ha fatto bene o male la Prestigiacomo ad andare con Fratoianni sulla SeaWatch?
«Lei ha esercitato la sua prerogativa».
Lo dice perché è sua amica?
«Perché ne sono convinta. Unico errore, solo nella comunicazione, farlo con chi è a favore dell’accoglienza indiscriminata».
Salvini ha detto che hanno commesso un reato.
«(Sarcastica). Non esiste ancora una legge che trasformi in reato ciò che non è gradito al governo».
Ma non eravate contro l’immigrazione?
«Noi siamo per il rigore, la severità e l’umanità. Se si perde uno solo di questi tre vincoli siamo perduti. Si deve essere severi, ma restando umani».
Facciamo un esempio.
«I Cara sono un errore, si devono smantellare. Ma uno Stato civile non carica queste persone su treni e pullman, donne e bimbi, senza dirgli nemmeno dove vanno».
Dicendo questo perde qualche voto...
«Lei insiste, ma io non posso cercare il consenso passando sopra i miei principi».
Parliamo di quando ha bacchettato Salvini in aula dicendogli: «Le sembrerà strano ma qui le regole valgono anche per lei». Era furibondo.
«Ho avvertito il bisogno di esprimere un concetto semplice. Non puoi venire a fare propaganda durante il question time».
Un giudizio politico?
«Tutt’altro. Stava attaccando i parlamentari per l’assenza in aula - fra cui anche i suoi - senza sapere che non erano lì perché c’erano le commissioni».
Cosa pensa oggi di Sabina Guzzanti che l’attaccò su pubblica piazza dicendo che aveva rapporti intimi con il Cavaliere?
«Nulla. L’ho querelata, ha perso, perché si era inventata tutto, ho ottenuto 40 mila euro di risarcimento. Con la metà ho fatto un viaggio, con l’altra beneficienza. Un uso sicuramente migliore di quello che ne avrebbe fatto lei».
È ricca?
«No».
È avara?
«Macché! Sono abbastanza generosa».
È vero che devolve la sua indennità di presidenza a un centro di assistenza ai minori?
«Se glielo confermo è solo per rispondere a quelli che si fanno belli con gli assegni».
Quanto problemi le creò la famosa frase in cui Berlusconi diceva che avrebbe voluto sposarla?
«Una valanga. Io l’avevo presa come una battuta galante, addirittura banale e nulla più. Ma all’epoca la stampa aveva un atteggiamento morboso intorno a Berlusconi e anche intorno a me».
Dove conserva il numero di Bild che titola: «Carfagna, la ministra più bella del mondo?».
«Non ce l’ho!»
E l’uomo più fortunato del mondo come l’ha conquistata?
«Alessandro? Perché me lo chiede?»
Beh, non è un propriamente un adone.
«Io lo trovo bellissimo. Andiamo molto d’accordo. Ci divertiamo moltissimo insieme. Ha un carattere molto forte, sicuro di sé. Non entra mai in competizione».
Ma come è entrato nel suo cuore?
«(Ride di gusto). Non ci crederebbe mai».
Mi metta alla prova.
«La sera decisiva è passato a prendermi in motorino e mi ha detto: «Ti porto in un posto pazzesco a Trastevere a mangiare pizza scarola e olive»».
Era folle di lei?
«All’inizio non mi filava proprio».
Ma chi ci crede?
«Giuro, ha confessato. È stato vittima del classico pregiudizio: «Questa è una ex soubrette».
Galeotto fu Montecitorio?
«Ci siamo conosciuti in Parlamento, ovviamente, ma ci siamo messi insieme solo a fine legislatura perché lui mi snobbava. E anche io non me lo filavo».
E cosa le piace di lui?
«Non mi da mai per scontata. Ancora oggi si presenta con mazzi di fiori, cioccolatini».
Che lei non mangia per la linea?
«Che io divoro».
Si candida alle Europee?
«No, per fortuna c’è Silvio. Ma andrò in battaglia. Dobbiamo riprenderci i voti».
Da dove?
«Ovunque siano andati».
È convinta?
«Con questo governo e con questa politica il Paese va a sbattere. Ci spiace che la Lega si renda responsabile dello sfascio dei conti pubblici».
E dagli: vuole fare l’anti-Salvini?
«Voglio il bene del Paese. La proposta del referendum propositivo svende la nostra democrazia alle lobby e alla minoranze organizzate».
Addirittura?
«Chiunque con i soldi può raccogliere 500 mila firme. E poi c’è un dettaglio ancora più inquietante».
Quale?
«Avevamo chiesto di escludere la raccolta per via telematica senza cancellieri o firme. Hanno bocciato gli emendamenti».
E perché la preoccupa così tanto?
«Che facciamo? I referendum con i giochini della piattaforma Rousseau, che passano sopra il Parlamento? Dobbiamo denunciarlo come un rischio democratico».
Forza Italia deve andare a destra o al centro?
«Bisogna restare dove siamo».
E dove siete?
«Siamo il partito del benesse e del buongoverno. Oggi che il Paese è in recessione, c’è bisogno di noi più che mai.
Sotto la leadership di Salvini.
«Lei è ossessionato da Salvini: ma lui non è il mio leader».
È il leader della sua coalizione, si ricorda?
«Ma poi ne ha scelta un’altra. Lo sarebbe se ci presentassimo insieme e prendesse più voti di noi, diventando il candidato alla Presidenza del consiglio. Ora il mio leader si chiama Berlusconi».
La vostra collocazione però è difficile, lo ammetta?
«Dice? Stiamo dove siamo sempre stati. Dalla parte della libertà, della primazia dell’uomo sullo Stato. E difendiamo beni, lavoro e case che con questo governo ogni giorno valgono meno».
Arriviamo all’autonomia.
«Fatta così è il colpo di grazia all’unità del Paese e alla sopravvivenza del Sud».
Le ricordo che vi siete presentati come alleati solo tre giorni fa.
«In Sardegna. Ma non può accadere che - esempio - a Reggio Emilia si paghi la gita scolastica a Parigi, e a Reggio Calabria non ci siano i soldi per pagare la mensa».
E come si risolve?
«La ricchezza al Nord è maggiore. Una volta stabiliti i costi dei servizi essenziali che devono essere garantiti si redistribuisce. Non prima».
Altrimenti?
«Si spacca il Paese! Creeremmo cinque regioni autonome e tre stati-regione e sarebbe finita l’Italia.
Cosa non le piace della riforma Stefani?
«Ma io posso dare al Veneto, o a chiunque, la competenza su grandi reti, energia e addirittura politica internazionale? È folle».
Così perde voti al Nord...
«Io non penso che i cittadini del Nord vogliano staccarsi dal resto d’Italia. Già ora sul fondo sanitario il Nord è avvantaggiato sul Sud, perché si calcola la dotazione anche con aspettativa di vita».
E poi?
«Anche sugli asili nido. I criteri di riparto avvengono sulla spesa storica: quindi se hai meno asili avrai meno soldi per gli asili!»
E lei in futuro si immagina portavoce di Forza Italia o governatrice della Campania sfidando De Luca?
«(Pausa, sorriso). Mi immagino impegnata in politica».
· Scarantino: "Mio fratello vendeva droga a Berlusconi".
Scarantino: "Mio fratello vendeva droga a Berlusconi". Processo sul depistaggio delle indagini sulla strage di via D'Amelio. Scarantino: "Dicevo di essere disperato ma nessuno mi credeva. Volevo ritrattare". Affari Italiani Giovedì, 16 maggio 2019. "Sono rimasto in carcere per 16 anni e ho sempre proclamato la mia innocenza. Fino a che ho ritrattato ero una persona libera poi mi hanno chiuso in caserma a me e alla mia famiglia. Per me era impossibile che si cercasse la verità. Era impossibile". Lo ha detto questa mattina il falso collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino deponendo a Caltanissetta nell'ambito del processo sul depistaggio che vede imputati tre poliziotti, Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, ex appartenenti del gruppo Falcone-Borsellino. Presente in aula anche Fiammetta Borsellino, la figlia minore del giudice Paolo Borsellino, parte civile nel processo. Scarantino con le sue dichiarazioni provocò il depistaggio sulle indagini di via d'Amelio. "Dicevo di essere disperato - ha aggiunto - ma nessuno mi credeva. Volevo ritrattare ma venivo preso per pazzo". Scarantino ha anche detto che "Andreotta scriveva tutto quello che dicevo. Io mi sfogavo. L'unica colpa che ho avuto è stata che non ho messo la museruola. C'erano detenuti che stavano nella sezione di mio cognato Salvatore Profeta che mi dicevano che non parlava con nessuno. Era proprio il suo carattere". Il falso pentito ha parlato anche del suo arresto, risalente al 26 settembre 1992, "assieme a Salvatore Profeta, mio cognato, ma a Profeta lo hanno subito liberato e a me no. L'imputazione era per strage. Mi accusavano Salvatore Candura e Valenti, ma anche il dottor La Barbera, il dottor Bo e il dottor Ricciardi". “Mi hanno fatto mangiare tante porcherie. Mi orinavano nella minestra - ha aggiunto Scarantino - mettevano nella pasta le mosche e i vermi che si usano per pescare. Quando mi sono accorto di tutto questo ho smesso di mangiare. All'inizio pesavo più di 100 chili poi mi sono ridotti a circa 53 chili”. Scarantino trascorse i suoi anni più bui al carcere di Pianosa. “Andavo a colloquio – ha aggiunto – e mi facevano spogliare nudo e con una paletta mi davano dei colpi nelle parti intime. Dopo mi dicevano di guardare a terra e mi davano schiaffi in bocca perché guardassi a terra. Poi mi davano calci con gli anfibi. Sembrava il carcere di 'fuga da mezzanotte'. Avevo paura, stavo tutta la notte sveglio. Spesso entravano nella mia cella per fare perquisizioni. Ero disperato, soffrivo e non mi lamentavo“. E ancora: ”Arnaldo La Barbera mi chiamava Buscetta junior perché diceva che io ero come Buscetta. Mi davano lezioni di grammatica facendomi guardare i video di Buscetta, ma io non volevo un capello di Buscetta“, ha detto Scarantino rispondendo alle domande dei Pm. Poi l’ex picciotto della Guadagna, ha tenuto a precisare che si dedicava soprattutto ai furti e alla vendita di sigarette di contrabbando. “Mio fratello - ha concluso - mi disse che aveva venduto la droga a Berlusconi. Parlai anche con Pipino, il ladro gentiluomo, della possibilità di accusare Berlusconi. Il capo della squadra Mobile, La Barbera non voleva che facessi tali dichiarazioni, ma io le feci lo stesso, non ricordo per quale motivo”.
· Corruzione sulle sentenze del Consiglio di Stato.
Consiglio di Stato, gli interrogatori segreti. Tra gli indagati spuntano Zingaretti e Berlusconi. Il neosegretario del Pd, iscritto per finanziamento illecito, è tirato in ballo dall'avvocato Calafiore. Accuse anche a Berlusconi: «Ha promesso 230 mila euro al giudice Giovagnoli per la sentenza su Mediolanum». Amara: «Così i legali formano "squadre" per condizionare i giudici. Anche all’Antitrust e all’Anac», scrive Emiliano Fittipaldi il 19 marzo 2019 su L’Espresso. Ci sono due avvocati siciliani, Piero Amara e Giuseppe Calafiore, che da mesi stanno facendo tremare magistrati, politici e giudici del Consiglio di Stato. Arrestati nel febbraio del 2018 per corruzione in atti giudiziari, un mese fa hanno patteggiato 3 e 2,9 anni a testa. Ma le loro dichiarazioni continuano a fare da carburante alle indagini delle procure di Roma e di Messina, tanto che sono stati iscritti nel registro degli indagati anche Silvio Berlusconi e – scopre ora l'Espresso – il neo segretario del Pd Nicola Zingaretti. Gli interrogatori depositati in sede di patteggiamento, riscontrati poi da magistrati e Guardia di Finanza con intercettazioni telefoniche e analisi dei flussi finanziari, hanno fatto scattare nelle ultime settimane le manette per pezzi da novanta del mondo imprenditoriale (qualche giorno fa il re del facility management Ezio Bigotti è finito ai domiciliari, e in un altro filone d'indagine – quello sull'Eni, di cui Amara è stato legale per anni - è stato arrestato l'ex tecnico petrolifero Massimo Gaboardi) e della magistratura ordinaria e amministrativa. Il pm Giancarlo Longo ha patteggiato 5 anni di carcere e si è dimesso dalla magistratura. Il consigliere di Stato Nicola Russo è ancora agli arresti, insieme all'ex presidente del Consiglio di giustizia amministrativa per la Sicilia Raffaele Maria De Lipsis. Mentre il presidente di sezione del Cds Riccardo Virgilio è indagato a piede libero, anche lui sospettato di corruzione in atti giudiziari. L'Espresso ha letto gli interrogatori inediti di Amara e Calafiore, in cui i due descrivono ai pm il loro modus operandi, facendo nomi e circostanze di altri big della magistratura e della politica. Un sistema, il loro, basato sulla costruzione di reti relazionali poderose, in modo da poter influire sull'esito di sentenze su affari da milioni di euro, o conoscere per prima informazioni sensibili sulle cause dei loro clienti. «Il presidente Virgilio» spiega in un verbale Amara «mi anticipava in taluni casi che io avrei avuto ragione, e anche quando perdevo lo sapevo in anticipo. Comunque, noi cercavamo di comporre anche dei collegi difensivi, tra virgolette delle “squadre”, che avevano una forza lobbistica per conto loro... Per comprendere alcune delle specificità dell'attività che svolgevamo, un'attività invero non limitata al gruppo di Ezio Bigotti, si costruivano squadre di avvocati in ragione della loro ritenuta capacità di influenzare gli organi decisori».
Amara parla non solo del Consiglio di Stato, grado inappellabile di ogni contenzioso amministrativo, ma anche delle liti di fronte all'Antitrust o nelle vicende dell’Anac, l'Autorità anticorruzione guidata da Raffaele Cantone. «Questo accadeva per il Consiglio di Stato (per esempio si attribuiva tale capacità all'avvocato Esposito, presso il quale lavorava Valeria Ciervo, compagna di un giudice del Consiglio di Stato, De Felice); per l'Autorità Antitrust (verso il quale si ritiene una capacità d'influenza all'avvocato Claudio Vinci, in ragione della sua pregressa appartenenza allo studio del presidente Pitruzzella); per l'Anac, dove si attribuisce una capacità d'influenza all'avvocato Sticchi Damiani, che ha buone relazioni con uno dei componenti dell'autorità, il consigliere Michele Corradino». Se Amara aggiunge di non sapere affatto se i tentativi lobbistici siano mai andati a buon fine e di «non avere prove di quello che sto dicendo» («io so che se lei ha un problema di Antitrust va da un avvocato che si chiama Claudio Vinti, ma non è che so che Pitruzzella intervenga», aggiunge), il legale di Siracusa spiega pure che la realizzazione di squadre di questo tipo, specializzate anche nell'influenzare i decisori non è affatto un unicum del suo studio, ma un servizio che a Roma fanno molti studi legali: «I vari gruppi, Romeo, CNS, eccetera individuavano gli avvocati, non posso dare una prova di questo...si costituisce una squadra di tre, quattro avvocati perché magari c'era Tizio che conisceva Sempronio, Caio...».
IL CASO ZINGARETTI. Nelle more dell’istruttoria, che ha vari filoni d’indagine, Zingaretti è stato iscritto per un presunto finanziamento illecito. L'inchiesta sul neo segretario del Pd è portata avanti dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e dal pm Stefano Fava, e prende spunto dalla dichiarazioni dell'avvocato Calafiore. Il governatore è stato citato dal socio di Amara in un interrogatorio dello scorso luglio, in merito ad alcune domande dei pm su Fabrizio Centofanti, ex capo delle relazioni istituzionali di Francesco Bellavista Caltagirone che, diventato imprenditore, era in affari con lo stesso Amara e in buoni rapporti con il presidente della Regione Lazio. «Centofanti (anche lui arrestato a febbraio 2018, ora è libero in attesa di processo, ndr) è un lobbista che a Roma è dotato di un circuito relazionale di estrema importanza: magistrati, politici, appartenenti al Consiglio superiore della magistratura» spiega Calafiore a verbale. «Peraltro lui era sicuro di non essere arrestato perché riteneva di essere al sicuro in ragione di erogazioni che lui aveva fatto per favorire l'attività politica di Zingaretti». Quando i pm chiedono se si tratta di erogazioni lecite, il legale siracusano risponde così: «Assolutamente no, per quanto egli mi diceva. Non so con chi trattava tali erogazioni. Lui mi parlava solo di erogazioni verso Zingaretti. Mi disse che non aveva problemi sulla Regione Lazio perché Zingaretti era a sua disposizione. Me lo ha detto più volte, prima della perquisizione». Prove delle presunte «erogazioni», però, non sono state finora trovate.
MEDIOLANUM PER SEMPRE. Anche Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, è stato indagato a causa delle dichiarazioni dei due legali siciliani. L'ex premier, come hanno segnalato i giornali qualche giorno fa, è indagato per corruzione in atti giudiziari, in relazione a una sentenza dei giudici del Consiglio di Stato che gli consentì di non cedere parte del pacchetto azionario di Medialanum, come aveva invece stabilito la Banca d'Italia. Ora, leggendo gli atti delle procure, si scopre che l’iscrizione nel registro degli indagati di Berlusconi e del giudice Roberto Giovagnoli è legata anche ad ad alcune dichiarazioni di Amara, confermate poi dallo stesso Calafiore. Il primo, nell'aprile del 2018, riferì – come sintetizza un altro verbale d'interrogatorio - «di una promessa al consigliere Giovagnoli di una somma di 230 mila euro, per la funzione dal medesimo svolta quale componente il collegio che ha deciso su una vicenda (la sentenza di Palazzo Spada su Mediolanum, ndr) in cui era coinvolta una società riconducibile al gruppo facente capo a Silvio Berlusconi». Secondo Amara la promessa fatta al giudice estensore della sentenza che ribaltò il verdetto sfavorevole del Tar non fu però onorata, perché la Guardia di Finanza – durante una perquisizione in merito a un'altra indagine – sequestrò a casa dell'ex funzionario di Palazzo Chigi Renato Mazzocchi ben 247 mila euro in contanti e alcune copie di sentenze del Consiglio di Stato, tra cui la bozza del verdetto finale su Mediolanum. «Amara» sintetizzano i pm a Calafiore «riferisce altresì di una richiesta di intervento da parte del consigliere Nicola Russo (anche lui arrestato nell'ambito della compravendita di sentenze al Consiglio di Stato) per fare pervenire un messaggio a Berlusconi attraverso Denis Verdini che occorreva onorare tale promessa». Non sappiamo se Amara racconti la verità. È certo, però, che Calafiore, ascoltata la ricostruzione, non solo ha confermato che Amara aveva raccontato a lui le storia «esattamente nei termini rappresentati» dai magistrati, ma che pure Russo «mi confermò in un colloquio la circostanza che Giovagnoli, nella sua qualità di componente del Collegio, aveva un interesse specifico nella vicenda e si era mosso in modo specifico per la definizione della vicenda in senso favorevole alla società» dell'ex presidente del Consiglio. «Russo tuttavia» specifica l'avvocato «non mi parlò di promesse di denaro né di soldi». Non sappiamo ancora se la posizione di Berlusconi, come quella di Zingaretti, in mancanza di evidenze certe e nuove prove che certifichino la veridicità dei “de relato” dei due “pentiti”, possa essere archiviata.
«NESSUN FAVORE A VENAFRO». Ma durante lo stesso interrogatorio Calafiore ha parlato ai magistrati anche dell'ex capo di gabinetto di Zingaretti, Maurizio Venafro, che oggi insegna alla Link University. È noto che il fedelissimo del governatore, dopo essersi dimesso dal gabinetto della Regione Lazio per alcune vicende di Mafia Capitale da cui è stato assolto nel luglio 2016, aveva ottenuto una consulenza da circa 70 mila euro proprio da Centofanti (fatto per cui i due sono tuttora indagati per corruzione). L'Espresso scopre adesso che Calafiore accusa Centofanti di aver “comprato” i servigi di Venafro per ottenere una autorizzazione dalla Regione Lazio per due centrali idroelettriche a Tarquinia, controllate da Centofanti e Amara attraverso la società Energie Nuove. «Centofanti mi spiegò che le fatturazioni con Venafro erano state un modo per remunerarlo per un'attività che egli aveva svolto quando era funzionario della Regione Lazio, in ordine a un'autorizzazione che non sarebbe stata concessa senza un suo intervento», dice Calafiore. Centofanti, però, in un altro interrogatorio chiarisce ai pm come abbia assunto Venafro, suo «amico personale», come suo consulente solo dopo le dimissioni dalla Regione, e che le autorizzazioni regionali sono sì arrivate, ma solo dopo la fuoriuscita di Venafro dalla Regione Lazio. Compito del nuovo docente della Link, aggiunge l’ex lobbista, sarebbe stato esclusivamente quello di rappresentare le aziende di Centofanti e alcuni «progetti di crescita» di Energie Nuove ad altri soggetti istituzionali. «In Umbria, in Toscana, in Abruzzo e in Basilicata, ma mai nel Lazio», si difende l’imprenditore. E quando i pm gli contestano come la Regione di Zingaretti finanzi una delle società di Centofanti, la Cosmec, per promuovere l'immagine della Regione Lazio in un convegno sulla giustizia con una cifra simile (85 mila euro) a quanto girato dall'imprenditore all'ex capo di gabinetto dimissionario, Centofanti ribatte così: «Il workshop fu finanziato anche da Banca Intesa...Io non nascondo la mia amicizia con Venafro, non nascondo neanche l'amicizia con il presidente Zingaretti. Ma voglio ricordare che nel 2014, primo anno di regno di Zingaretti alla Regione, io avevo diritto per un impianto fotovoltaico a un contributo PSR di circa 500 mila euro. Questo contributo regnante Zingaretti, regnante Venafro, mi viene negato. Faccio istanza alla Regione e mi viene ri-negato. A quel punto il potentissimo Centofanti che fa? Fa ricorso al Tar e chiede la sospensiva su questo provvedimento e il Tar me la nega...questo avviene nel 2014». Sottolineando che lui, di favori da Zingaretti e Venafro, non ne ha mai avuti.
Corruzione sulle sentenze del Consiglio di Stato, Silvio Berlusconi indagato a Roma. L'indagine è su alcune sentenze pilotate dell'organo della giustizia amministrativa, scrive il 7 marzo 2019 La Repubblica. Silvio Berlusconi è indagato dalla procura di Roma per corruzione in atti giudiziari e in relazione alla sentenza del Consiglio di Stato che il 3 marzo 2016 annullò l'obbligo per lui di cedere la quota eccedente il 9,99% detenuto in Banca Mediolanum stabilito da Bankitalia. L'inchiesta è quella relativa alle presunte sentenze pilotate al Consiglio di Stato. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo e i pm Stefano Rocco Fava e Fabrizio Tucci sospettano che quella sentenza su Mediolanum sia stata aggiustata. Prima di Berlusconi erano stati iscritti sul registro degli indagati tre nomi, quello del giudice relatore del provvedimento, di un avvocato e di un ex funzionario di Palazzo Chigi a casa del quale un paio di anni fa, nel corso di una perquisizione, furono trovati circa 250mila euro in contanti più le copie di alcune sentenze del Consiglio di Stato, compresa la bozza del verdetto su Mediolanum. L'ipotesi della procura di Roma è che alcuni giudici abbiano accettato la promessa di denaro per annullare la decisione del Tar che aveva imposto a Berlusconi di cedere le quote della banca, che valevano circa un miliardo di euro. Obbligo che il Consiglio di Stato fece venire meno nel marzo di 3 anni fa accogliendo il ricorso del Cavaliere contro i giudici amministrativi di primo grado. "Si tratta di una vicenda dalla quale il Presidente Silvio Berlusconi era stato già archiviato, e siamo certi che accadrà di nuovo"; ha affermato l'avvocato difensore del leader di Forza Italia, Niccolò Ghedini.
Silvio Berlusconi indagato, altra bomba dei magistrati: "Sentenze pilotate", attacco clamoroso, scrive il 7 Marzo 2019 Libero Quotidiano. No, la guerra dei Vent'anni non è mai finita. Silvio Berlusconi, infatti, è nuovamente indagato. I magistrati della procura di Roma mettono nel mirino il leader di Forza Italia per corruzione in atti giudiziari, in relazione alla Consiglio di Stato che il 3 marzo 2016 annullò l'obbligo per il Cavaliere di cedere la quota eccedente il 9,99% che deteneva in Banca Mediolanum, obbligo che fu stabilito da Bankitalia. L'indagine, si apprende, è relativa alle presunte sentenze pilotateal Consiglio di Stato. La vicenda è iniziata con una perquisizione effettuata nel 2016 a casa di un ex funzionario di Palazzo Chigi dal Nucleo Valutario della Guardia di Finanza. La perquisizione era stata effettuata in relazione a un'altra indagine. Gli investigatori trovarono 247 mila euro nascosti in confezioni di spumante e copie di alcune sentenze del Consiglio di Stato segnate con alcuni post-it, tra cui quella su Mediolanum. Da lì l'indagine che, ora, ha portato Berlusconi ad essere nuovamente indagato.
Silvio Berlusconi indagato a Roma nell' inchiesta per la corruzione nelle sentenze del Consiglio di Stato, scrive l'8 marzo 2019 Il Corriere del Giorno. La sentenza sospetta del Consiglio di Stato del 3 marzo 2016 finita sotto la lente dei pm è quella del 2015 che ha restituito al leader di Forza Italia le azioni di Mediolanum, che Bankitalia ed Ivass, oltre il 9,9%, ovvero il 20%, che valevano circa un miliardo di euro in virtù della condanna del 2013, sia il Tar avevano imposto a Fininvest di cedere. “Corruzione in atti giudiziari”. Questa l’ipotesi di reato per la quale la procura di Roma ha iscritto l’ex-premier Silvio Berlusconi sul registro degli indagati. La sentenza sospetta del Consiglio di Stato del 3 marzo 2016 finita sotto la lente dei pm è quella del 2015 che ha restituito al leader di Forza Italia le azioni di Mediolanum, che Bankitalia ed Ivass, oltre il 9,9%, ovvero il 20%, che valevano circa un miliardo di euro, in virtù della condanna del 2013, sia il Tar avevano imposto a Fininvest di cedere. Insieme a Berlusconi è stato iscritto nel registro degli indagati anche Roberto Giovagnoli che fu il relatore di quel “verdetto”. L’indagine venne condotta dalla Guardia di Finanza, coordinata dal procuratore aggiunto di Roma Paolo Ielo e dai pm Stefano Rocco Fava. Fra gli indicati compare anche l’avvocato romano Francesco Marascio e Renato Mazzocchi ex funzionario di Palazzo Chigi a casa del quale un paio di anni fa, nel corso di una perquisizione, furono trovati 237mila euro in contanti più le copie di alcune sentenze del Consiglio di Stato, compresa la “bozza” del verdetto su Mediolanum la n. 00882/2016, sulla quale era appuntato “gli avvocati di B. (Berlusconi, ndr) hanno incontrato» soggetti «al Consiglio di Stato». Stando alle indagini, infatti, il «manoscritto» sarebbe precedente alla decisione dei giudici di Palazzo Spada e presenterebbe diverse connessioni con il testo della sentenza stessa. Un aspetto che sta portando gli inquirenti a ritenere che quel provvedimento sia stato «manipolato». Marascio è accusato come si legge nel capo di imputazione, perchè “quale intermediario, prometteva denaro a giudici del Consiglio di Stato che deliberavano la sentenza numero 6516/2015 depositata il 3 marzo 2016, avente a oggetto il ricorso proposto da Silvio Berlusconi nei confronti di Banca d’Italia e altri per la riforma della sentenza del Tar concernente la sospensione del diritto di voto e degli altri diritti di influire su Mediolanum Spa nonché l’alienazione delle partecipazioni disposta da Banca d’Italia con provvedimento del 7 ottobre 2014”. L’ipotesi dell’indagine della Procura di Roma è che alcuni giudici abbiano accettato la promessa di denaro per annullare la decisione del Tar che aveva imposto a Berlusconi di cedere le quote della banca, Obbligo che il Consiglio di Stato fece venire meno nel marzo di 3 anni fa accogliendo il ricorso del Cavaliere contro i giudici amministrativi di primo grado. “Si tratta di una vicenda dalla quale il Presidente Silvio Berlusconi era stato già archiviato, e siamo certi che accadrà di nuovo, Io e l’avvocato Coppi siamo tranquillissimi su questo. Non c’è alcuna possibilità di reperire elementi idonei per sostenere un accusa in giudizio. Ci auguriamo solo che l’archiviazione avvenga in tempi brevi e siamo fiduciosi visto che le indagini sono affidate a un ottimo magistrato come il dott. Ielo”” ha affermato l’avvocato-parlamentare Niccolò Ghedini difensore del leader di Forza Italia. Della vicenda Mediolanum-Bankitalia aveva riferito ai magistrati romani riferendo fatti “de relato” cioè di cui non vi era conoscenza diretta, l’avvocato Piero Amara, ex legale di Eni, riferendo di presunti accordirelativi alla sentenza Mediolanum. La maxi-inchiesta nella quale è stato indagato l’ex presidente del Consiglio nelle scorse settimane ha portato ad una serie di arresti che avevano coinvolti anche magistrati. Ai domiciliari erano finti il giudice Nicola Russo, già coinvolto in altre vicende giudiziarie, l’ex presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Sicilia Raffaele Maria De Lipsis, l’ex giudice della Corte dei Conti Luigi Pietro Maria Caruso. Destinatario dell’ordinanza anche il deputato dell’assemblea regionale siciliana Giuseppe Gennuso. In totale sono cinque gli episodi contestati dai magistrati di piazzale Clodio. In base agli accertamenti le mazzette messe a disposizioni dei presunti giudici corrotti erano di 150mila euro. Il fascicolo conta 31 indagati. Risultano, tra gli altri, il presidente di sezione del Consiglio di Stato Sergio Santoro, l’ex ministro Francesco Saverio Romano del governo Berlusconi III, Raffaele Lombardo, ex governatore della Regione Sicilia, e Filippo Paradiso, funzionario del ministero dell’Interno, attuale collaboratore della segreteria di Matteo Salvini. La posizione di Santoro risulta tra le più delicate, trattandosi di un giudice attualmente in servizio. A settembre scorso era stata data per certa la sua nomina a presidente del Consiglio di Stato, incarico finito in extremis al giudice Filippo Patroni Griffi. Santoro attualmente è presidente di sezione del Consiglio di Stato, inoltre ha ricoperto l’incarico di presidente dell’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici ed è stato anche presidente dell’Associazione nazionale magistrati della giustizia amministrativa.
Roma, «niente corruzione»: la Procura chiede l’archiviazione per Berlusconi. Pubblicato venerdì, 05 aprile 2019 da Corriere.it. La procura di Roma ha chiesto l’archiviazione per Silvio Berlusconi, che era indagato per corruzione in atti giudiziari in relazione alla sentenza del Consiglio di Stato che nel marzo del 2016 gli consentì di mantenere una quota azionaria in Mediolanum più alta di quanto volesse Bankitalia. Sull’inchiesta Mediolanum l’ipotesi formulata in un primo momento dalla procura di Roma era che la sentenza del Consiglio di Stato per favorire Berlusconi fosse stata «aggiustata» in cambio di soldi. Non era emerso però alcun elemento sulla consapevolezza dell’ex Cavaliere e questo ha convinto i pubblici ministeri, dopo indagini più approfondite, che non ci fossero elementi sufficienti a chiedere il processo. Per questo i magistrati Rocco Fava, Fabrizio Tucci e Paolo Ielo chiedono al gip di archiviare le accuse di corruzione in atti giudiziari formulata nei confronti del leader di Forza Italia. A questo punto la parola passa al giudice che potrebbe decidere di accogliere la richiesta dei pm oppure opporsi con nuove motivazioni. Restano gli altri indagati, vale a dire Roberto Giovagnoli il giudice estensore di quella sentenza, l’ex funzionario della presidenza del consiglio Renato Mazzocchi e l’avvocato romano Francesco Marascio (quest’ultimo, secondo l’ipotesi, avrebbe fatto da intermediario fra Berlusconi e i togati) nei loro confronti gli approfondimenti stanno andando avanti. Quel verdetto ribaltò quanto deciso nel 2014 dal Tar che imponeva al Cavaliere l’obbligo di cedere «la propria quota in Mediolanum oltre il 9,9 per cento, ovvero il 20 per cento circa, che valeva circa 1 miliardo di euro». La procura, però, ha chiesto al gip di archiviare la posizione del Cavaliere e quella di altri indagati, quali il giudice relatore Roberto Giovagnoli, l’avvocato Francesco Marascio e l’ex funzionario di Palazzo Chigi, Renato Mazzocchi a casa del quale, due anni fa, nell’ambito dell’operazione «Labirinto» concernente una indagine più ampia su appalti e affari gestiti e confezionati da esponenti della politica e dell’imprenditoria, furono trovati, in due armadi diversi, 250mila euro in contanti e copie di sentenze emesse al Consiglio di Stato, tra cui la bozza del verdetto Mediolanum. I magistrati di piazzale Clodio ritengono che non ci sia la prova che quei soldi fossero destinati a pilotare la sentenza del Consiglio di Stato. La Procura di Roma ha chiesto l’archiviazione della posizione di Silvio Berlusconi, indagato per corruzione in atti giudiziari nell’ambito dell’inchiesta sulle sentenze pilotate al Consiglio di Stato.
· Giacomo Properzj. Storia di Canale 5 che costò a Berlusconi solo una lira.
Storia di Canale 5 che costò a Berlusconi solo una lira, scrive l'8 marzo 2015 L'Inkiesta. Giacomo Properzj è un elegante signore di 75 anni. È stato molte cose nella vita. Storico esponente del Partito Repubblicano, sindaco di Segrate, presidente dell’Atm e di Aem. Ha perso la vista durante una battuta di caccia. Al suo fianco ha sempre bellissimi cani labrador. Gli piace ascoltare l’opera, legge molto e ha scritto diversi romanzi, racconti, libri di storia, l’ultimo è Breve storia della grande guerra. Gli piace sentire l’odore del fumo di sigarette. Ultimamente usa un bracciale tecnologico che gli calcola quanti passi ha fatto durante la giornata. Vive a Milano, in zona Porta Venezia e conosce un segreto che Silvio Berlusconi ha spesso tenuto nascosto. O meglio, che l’ex Cavaliere non ha mai così sviscerato, ma che di fatto ha contribuito a creare il suo impero mediatico e imprenditoriale. «Io questa storia l’ho raccontata tante di quelle volte – spiega di fronte a un caffè a casa sua - ma spesso nelle ricostruzioni giornalistiche sui giornali non se ne fa cenno». È un frammento di storia della televisione italiana, di storia del nostro Paese, di come la casualità degli eventi abbia cambiato il corso delle cose. È la nascita di Canale 5, del primo canale televisivo che lanciò Berlusconi nel 1976. Ebbene, l’idea di in tv non venne subito a Silvio, ma proprio a Properzj insieme con suo amico e compagno di partito Alceo Moretti. Correva l’anno 1974. «In quel periodo erano nate le prime televisioni via cavo - ricorda - e la costituzione impediva la trasmissione via etere, c’era il monopolio della Rai. Allo stesso tempo però non poteva impedirla via cavo. Per questo motivo nascevano queste televisioni molto artigianali, domestiche, Tele Biella era la più importante perché sostenuta da Enzo Tortora. Sorgevano un po’ in tutta Italia, la gente aveva una fame spaventosa di tutte queste immagini». In questo contesto nasce l’idea di buttarsi e di provare. «Io e Moretti, che era vicesegretario regionale del Partito Repubblicano, abbiamo costituito questa società che si chiamava Telemilanocavo. Avevamo un capitale sociale molto basso ma ci volevamo provare». E sulla strada incontrano per la prima volta quello che all’epoca era il numero uno di Edilnord, fresco della costruzione di Milano2. «Io conoscevo bene Vittorio Moccagatta» aggiunge Properzj «che era l’agente delle pubbliche relazioni di Berlusconi. Avevano gli uffici in via Paleocapa. Dopo diverse riunioni ci spiegò che c’era la possibilità, a Milano2, di avere una televisione via cavo, ovvero un’antenna per tutto il quartiere palazzo per palazzo. Il segnale sarebbe arrivato fino ai confini di Segrate. Non era ancora prevista una copertura televisiva. Allora ci siamo buttati noi. Abbiamo affittato un negozio, ci siamo arrangiati con qualche telecamera e con alcuni operatori che erano sempre drogati, abbiamo iniziato a fare trasmissioni con riunioni di condominio. Poi c’era la Mondadori che ci dava delle cassette». Programmi come Uomini e donne o Masterchef non li si poteva nemmeno immaginare a quell’epoca. «Ma di fronte alle telecamere si sfogavano tutti gli abitanti del quartiere per i problemi condominiali». Si parte, ma le cose non vanno bene. «Il problema è che ci volevano molti soldi. Il cavo è costoso ma noi pensavamo comunque di andare avanti. Io lavoravo in banca in centro e arrivavo a Segrate in un quarto d’ora, verso sera dove cercavo di attrezzarmi per fare qualcosa». Un giorno cambia tutto. «Una sera, mentre stavo al telefono con Paolo Pillitteri, che all’epoca era assessore di Milano, mi vedo arrivare in un negozio questo ometto piccolo e sorridente. Si presenta, mi dice di essere Berlusconi. Io non stacco l’orecchio dalla cornetta. Lo lascio girare per lo studio. Purtroppo stavo provando ad avere qualche aiuto anche da Pillitteri, invece avrei dovuto seguire Berlusconi e parlarci». La visita dura qualche minuto, poi l’ex Cavaliere se ne va: «È un mio grande rimpianto non avergli parlato, ho sempre pensato che sarebbe stata l’occasione della mia vita seguirlo. All’epoca poi Berlusconi era un omettino non repellente, ma simpatico».
Silvio non si fa più vedere e nel 1975 arriva un po’ di benzina. «Ci sono le elezioni amministrative e regionali. I candidati ci pagavano qualcosa per poter andare in televisione. La cosa divertente è che non sapevano che il segnale arrivava fino a Segrate, si fermava molto prima di Milano». Non solo. «Ci arrivava qualche soldo anche dalla pubblicità, ma nel 1976 avevamo debiti per 18 milioni di vecchie lire, io ne guadagnavo 2 al mese, non potevamo farcela». In più Moretti era scappato in Sud America. «La situazione era preoccupante così venni contattato da Berlusconi tramite Moccagatta, si offrì di comprare tutto per una lira e rilevare tutti i debiti». Properzj conclude: «Lui non compò per fare una tv via cavo. Penso avesse saputo tramite i suoi giri che la Corte Costituzionale avrebbe liberalizzato la tv via etere, la Rai non avrebbe più avuto il monopolio. Così comprò Telemilano, la ricapitalizzò per 200 milioni, gli consigliarono di chiamarla Canale5, io rimasi per un anno nel consiglio di amministrazione e poi fui liquidato con 370mila lire». All’ex Cavaliere non rimase in mano molto di quegli studi molto condominiali. «Avevano un paio di telecamere e poco più. La verità è che lui a quell’epoca aveva molta liquidità, fino a 10 miliardi di vecchie lire. Ricordo che in Paleocapa c’era un grande plastico di Beirut 2, perchè voleva costruire in Libano dove andava spesso a cantare, ma poi la guerra civile glielo impedì». E Berlusconi? «Non l’ho più rivisto». Il resto è storia.
Giacomo Properzj. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Giacomo Properzj Incisa Beccaria di Santo Stefano (Milano, 13 marzo 1939) è un politico, imprenditore e giornalista italiano. Giacomo Properzj, laureato in giurisprudenza, è stato esponente e segretario cittadino del Partito Repubblicano Italiano a Milano. Ha ricoperto vari incarichi pubblici tra cui quello di sindaco di Segrate, presidente della Provincia di Milano, e presidente delle municipalizzate milanese Aem (che opera nel settore energetico) e ATM - Azienda Trasporti Milanesi (l'azienda dei trasporti municipali). È stato anche dirigente di gruppi bancari e finanziari francesi (Banca Indosuez) e fu inoltre il fondatore di Telemilanocavo, tv via cavo del quartiere di Milano 2 che, dopo essere stata acquisita ad un prezzo definito "simbolico" da Silvio Berlusconi, diede origine al network Canale 5. È stato sindaco di Segrate dal 1980 al 1983 e ha rivestito la carica di Presidente della provincia di Milano dal 1990 al 1992. Nel 1979 in seguito a un incidente di caccia perse la vista. Il 20 maggio 1992 viene arrestato nell'ambito dell'inchiesta Mani pulite. Properzj è coinvolto nel giro di tangenti legate all'Aem, all'ATM e alla Metropolitana milanese MM. Al processo Aem ammette di aver preso 500 milioni di lire per il PRI, che in seguito restituirà con soldi suoi all'azienda[10]. In primo grado al processo sulle tangenti MM patteggia una pena di 11 mesi. Al processo per le forniture autobus ATM, in appello il reato viene dichiarato estinto per prescrizione. Tuttora attivo politicamente a Milano, attualmente alterna collaborazioni alla pagina milanese del quotidiano Il Riformista ad attività di pubblicista. Nel 1998 ha pubblicato con Sellerio Padania o cara. Cronache della prima guerra di secessione padana. Nel 2006 ha vinto il premio letterario Cesare Pavese per un inedito Favola Araba e il premio letterario Maremma Mistery nel 2008 per la novella Amaro Milano.
Vendetti io la prima tv al Cav. Il prezzo fu di una sola lira perché volevo disfarmene, scrive Goffredo Pistelli su Italia Oggi. ITALIAOGGI - NUMERO 241 PAG. 7 DEL 11/10/2013. Giacomo Properzj gli cedette infatti Telemilano, la tv via cavo di Milano 2, che perdeva. Giacomo Properzj ha un cognome particolare che, peraltro, tutto intero farebbe Beccaria Incisa di Santo Stefano. Un cognome che trasuda milanesità. Infatti Properzj, classe 1939, ha attraversato la storia meneghina recente, quella che precede il ventennio berlusconiano, come l'ha chiamato Enrico Letta. Ma è l'uomo che quel ventennio inconsapevolmente innescò, nel 1976, vendendo Telemilano, la piccola tv via cavo che serviva Milano2, a Silvio Berlusconi. «Per una lira, perché eravamo pieni di debiti», ricorda oggi. Un innesco doppio, visto che quindici anni dopo, Properzj faceva parte di quella classe politica cittadina falcidiata da Tangentopoli, lo shock giudiziario che fece da brodo di coltura per Forza Italia.
Domanda. Cominciamo dal Cavaliere. Quando l'ha conosciuto?
Risposta. Più che conosciuto, l'ho sfiorato. Un giorno si presentò negli uffici della tv, al secondo piano dei locali che occupavamo a Milano2, il quartiere che aveva costruito.
Domanda. Cosa le disse?
Risposta. Niente perché fu una situazione comica: ero al telefono con Paolo Pillitteri, allora assessore alla cultura, al quale chiedevo un sostegno per questa impresa un po' pazza della tv via cavo in cui c'eravamo imbarcati. Vidi arrivare questo signore, piccolino, sorridente, con l'aria simpatica. Lo riconobbi e mi alzai in piedi, dandogli la mano, ma non interruppi la conversazione.
D. Pillitteri era più importante...
R. All'epoca sì. Infatti continuai, ma lui non se ne fece problema, scese al piano inferiore dove avevamo gli studi, visitandoli, per tornare alcuni minuti mentre ero ancora al telefono. Mi rialzai, lo salutai e continuai a parlare. Lui uscì, sorridente come era venuto.
D. Poi però gli vendette tutto.
R. Sì. La nostra idea della tv via cavo non sfondava. O meglio era troppo avanzata: avremmo dovuto avere la fibra ottica come oggi. Allora servivamo i 3-4mila residenti di Milano2 e ben presto finimmo pieni di debiti. Avevo cercato invano di entrare in contatto con la Mondadori che poi, anni dopo, si sarebbe messa a fare la tv in chiaro.
D. Fine dei giochi?
R. Per la verità durò qualche mese, sei per l'esattezza, in cui Berlusconi mi tenne nel consiglio di amministrazione.
Ma il cda non fu mai riunito e pertanto non mi fu corrisposto neppure un gettone di presenza.
D.Con Telemilano, B. partirà all'attacco dell'etere...
R. Sì da lì cominciò tutto. Ma bisogna ammettere che fu l'unico che seppe vedere lontano ma bene: nello stesso periodo, Mondadori, Rizzoli, Rusconi buttarono soldi e tanti nelle tv. Lui, Berlusconi, sfondò con le pubblicità vendute in cambio merce: intuizione pazzesca.
D. Anche l'intuizione di fare una tv nazionale, fu notevole.
R. Aveva saputo che la Consulta avrebbe dichiarato incostituzionale il monopolio delle frequenze televisive, come avvenne nel 1976.
D. Un uomo molto introdotto...
R. Certo, un uomo dai molti rapporti politici anche allora.
D. Anche con un suo compagno di partito, come l'allora ministro Oscar Mammì.
R. Ah, se è per questo, Berlusconi poteva vantare un ottimo e solido rapporto anche con Giovanni Spadolini.
D. Erano gli anni in cui lo storico fiorentino era il vostro leader, dopo essere stato a Palazzo Chigi, nel 1982, portò i repubblicani al 5 per cento l'anno successivo. Vertici mai raggiunti dopo.
R. Spadolini l'ho conosciuto bene. Uomo colto, vanitoso, collocato bene. Da premier, aveva convinto l'opinione pubblica moderata che ci potesse essere una ledearship diversa da quella Dc, un'alternativa che appariva più moderna e i più raffinata. Ma fu una fiammata che durò poco e fu un grande consenso sprecato. Come anche Bruno Visentini del resto, erano personaggi di grande levatura ma dal carattere impossibile, pensavano molto a se stessi.
D. Anche del grande Ugo La Malfa, si dice che fosse un uomo difficile.
R. Cinquant'anni fa entrai nel Pri con un gruppo di amici della Università Statale di Milano, dove avevo fatto parte della goliardia. Lo feci per lui. Sì, era personaggio difficile, iroso, nevrastenico, anche affascinante e con una forza di trascinamento. Anche se non riuscì mai a superare il 3 per cento.
D. Una tradizione, quella repubblicana, perduta fra beghe di eredità politica. A un certo punto c'erano i repubblicani di sinistra di Luciana Sbarbati e poi gli altri, divisi fra Giorgio La Malfa e Francesco Nucara.
R. Eh, ma questi sono personaggi molto minori. E poi, fatto fuori Giorgio, che comunque aveva la responsabilità del tracollo politico, s'è reciso il cordone ombelicale con una certa storia. Ho avuto una speranza di risorgimento di questo partito ma è stata tagliata fuori dalla logica delle cose politiche: era una forza cerniera fra destra e sinistra, un certo bipolarismo l'ha ucciso.
D. Addio a quelli che alcuni suoi compagni di partito chiamavano gli ideali mazziniani in politica?
R. Erano ideali ottocenteschi, post-illuministi. Mazzini diceva cose anche sempre nuove, anche adattabili, ma sono passati due secoli fa. Il nostro è un altro mondo, la distinzione fra laici e cattolici, anche di 30 anni fa, non tiene più: la stessa Chiesa si è molto trasformata. E c'è una debolezza culturale su cui l'Italia si è atterrata: manca la classe dirigente e ci vorranno anni prima di ricostruirla.
D. Ma ora torna la Dc. L'ha scritto anche lei, sul suo blog per Linkiesta.it
R. E, tutto sommato, non un male se si considera il disastro che è arrivato dopo la fine della Dc. Oggi ci sono segnali di recupero e, non posso non notare, che premier e vice vengono entrambi dal movimento giovanile della Dc. Se ritorna un partito di mediazione permanente, qual era lo Scudo crociato, qualcosa di meglio forse è possibile.
D. Quindi di B. politico non ha una grande opinione...
R. È un uomo di grande valore e di grande capacità ma è un uomo di potere, il che non significa che sia un uomo di Stato, o politico. Ha presa sull'opinione pubblica, è capace di rivoltarla come un guanto ma non è un politico vero. Non ha un filone ideologico: è genericamente liberale, certamente moderato ma non è un politico nel senso etimologico.
D. Non è che ce l'ha con lui perché B. era quello che, con le sue televisioni, aizzava la pubblica opinione di Mani pulite? Anche contro di lei, che finì invischiato in una storia di finanziamento illecito ai partiti.
R. Allora era funzionale a un certo disegno politico che si sarebbe rivelato quello di Forza Italia. Tuttavia non ho alcun rancore. Anzi, mi auguro per il Paese che il suo declino politico sia graduale e non di schianto: non sappiamo cosa possa venir fuori da un consenso di milioni di voti che non trovi una sua rappresentanza politica. Quanto a Tangentopoli...
D. Quanto a Tangentopoli?
R. C'era allora l'idea che la politica si finanziasse così, che la magistratura tollerasse entro certi termini, mentre le campagna elettorali diventavano sempre più costose. Anche quelle del Pci-Pds, ben inteso. E noi avevamo a Milano, 3mila iscritti, non avremmo potuto far niente. Comunque ho restituito coi miei risparmi quello che avevo preso per il partito e che, nel frattempo, non c'era più.
D. Che cosa ricorda del momento del suo arresto, 21 anni fa?
R. Ricordo i carabinieri che vennero all'alba a casa e che furono molto cortesi. Sentivo molta gente intorno a me. Sentivo perché, dal '79, avevo perso la vista in un incidente. In caserma, mi accolse un generale, che avevo conosciuto quando ero presidente della Provincia, anche lui gentilissimo. Ma la trafila delle impronte digitali, delle foto fu durissima. Piansi come mi era successo solo per l'incidente.
D. Marco Travaglio scrisse che lei, essendo cieco, riconosceva l'entità delle mazzette dal frusciare delle banconote...
R. Infatti. Una falsità abnorme, per la quale l'ho querelato.
D. Ma il clima di quegli anni, verso la politica, era peggiore di quello attuale?
R. No. È peggio, oggi. C'è un odio per la casta che allora non c'era, forse perché il perimetro castale, se così si può dire, allora era più vasto.
Giacomo Properzj esce poco di casa. Se lo fa, si lascia guidare da Luna, un magnifico labrador femmina. Passa le sue giornate dedicandosi alla storia, sua grande passione: ha pubblicato libri apprezzati sul Futurismo e su D'Annunzio. A breve, per Mursia, uscirà con una storia della Grande Guerra. Detta a una giovane che lo assiste i pensieri che pubblica sul blog.
ARRESTATO IL REPUBBLICANO PROPERZJ, scrivono Piero Colaprico e Luca Fazzo il 21 maggio 1992 su La Repubblica. Le banche svizzere fanno trincea intorno ai conti delle tangenti, ma i segugi dell'operazione "Mani pulite" riescono a farsi largo anche tra le cortine fumogene alzate in riva al lago di Lugano. Così, nel giorno più duro per il Partito repubblicano che si ritrova per la prima volta con un suo dirigente, Giacomo Properzj, agli arresti, finiscono all' attivo dell'indagine altri squarci di luce sui meccanismi che governavano il passaggio di miliardi di lire dai conti degli impenditori a quelli dei signori di Tangentopoli. La prima risposta, sul conto bancario di Mario Chiesa e di alcuni altri politici è pronta dal 13 maggio al ministero di Grazia e Giustizia e - informa un comunicato del ministero - si aspetta solo che la Procura di Milano mandi a ritirare i documenti. E' merito anche di questi passi avanti, forse, se in tribunale si dà per imminente l'ingresso di altri tre o quattro nomi (insieme a Tognoli, Pillitteri, Citaristi e Del Pennino) nell' elenco dei parlamentari per i quali è imminente la richiesta di autorizzazione a procedere. I giudici Di Pietro e Colombo scoprono le tracce di un flusso di decine di milioni di franchi che non dovevano neppure attraversare la frontiera, passando direttamente dai conti svizzeri delle imprese ai conti svizzeri dei partiti, delle correnti, della nomenklatura socialista e democristiana. Altre risposte le dà, in un interrogatorio di sette ore, Sergio Radaelli, l'eminenza grigia delle finanze socialiste lombarde, "pentito" subito dopo l'arresto, che conferma di essere l'intestatario di un conto a Lugano. E al termine il suo difensore dice: "Siamo in una fase nevralgica dell'inchiesta, in un momento pericoloso". Ieri torna sotto il torchio dei giudici un altro cassiere di lusso, il democristiano Maurizio Prada, anche lui arrestato e scarcerato, anche lui indicato come titolare di un conto cifrato oltreconfine. Il suo interrogatorio è durato sino alle 21. E' sul terreno oscuro e delicato degli accertamenti bancari che la Procura scava e spera in aiuti maggiori. Ma la notizia che arriva come un pugno nello stomaco a molti milanesi è quella dell'arresto del repubblicano Properzj, ex presidente della Giunta provinciale, dell'Azienda energetica e dell'Azienda tranviaria, protagonista di una serie di battaglie della società civile tra cui quella per la chiusura al traffico del centro cittadino. Properzj è stato prelevato a casa sua dai carabinieri alle otto, portato in caserma dove gli è stato notificato l'ordine di custodia con l'accusa di ricettazione, la stessa già contestata al capogruppo del Pri alla Camera Antonio Del Pennino. Il rito delle fotografie e delle impronte, poi, anzichè a San Vittore, Properzj è stato riaccompagnato nel suo appartamento vicino al Conservatorio: un riguardo dovuto alle sue condizioni fisiche, perchè ha perso la vista anni fa in un incidente di caccia. Properzj si è immediatamente autosospeso dal Pri con un comunicato, rivendica la propria estraneità alle accuse e conferma fiducia nella magistratura. Alla base delle accuse contro di lui ci sono le confessioni del democristiano Maurizio Prada, suo successore alla presidenza Atm. Nei primi momenti del verbale, Prada aveva evitato di coinvolgerlo nella distribuzione delle tangenti. "C' è una persona - aveva ammesso alla fine - che per le sue condizioni non vorrei mai sapere a San Vittore...". Solo dopo le assicurazioni dei giudici, Prada aveva indicato in Giacomo Properzj e Antonio Del Pennino i due repubblicani cui aveva passato nell' arco di due anni (in occasione di campagne elettorali e referendarie) circa un miliardo, incassato con le bustarelle per la costruzione del passante ferroviario: "E entrambi ne conoscevano la provenienza". Anzi, secondo altri interrogatori, i repubblicani pretendevano una percentuale proprio perchè facevano parte della giunta. Properzj verrà interrogato oggi o domani. Nel frattempo, è già stato interrogato, confessando quasi tutto, Walter Armanini, il consigliere comunale socialista catturato martedì mattina. Ancora sotto shock per l'arresto ("sono rovinato", aveva reagito) l'ex assessore, commercialista di fiducia dell'ex sindaco Pillitteri, tuttora responsabile dell'edilizia mortuaria e cimiteriale, ha ammesso di avere ricevuto quasi 400 milioni dalla Ifg Tettamanti, l'azienda che aveva ottenuto l' appalto per la ristrutturazione dell' obitorio, e altri milioni dalla Fratelli Gaslini snc, incaricata dell' ampliamento del cimitero Maggiore. Notevole la spiegazione messa a verbale dall' esponente psi: "Erano contributi delle imprese per la mia campagna elettorale del ' 90. Adesso tutti parlano di concussione. Ma prima gli imprenditori non facevano che ripeterci: assessore, se ha bisogno non si faccia problemi. E io non me ne sono fatti. Sono un libero professionista, e la politica costa". Lo hanno lasciato in carcere. E L' Osservatore romano commenta: "Si è arrivati a offendere i morti, questa è l'ultima infamia". Dietro le sbarre resta anche Roberto Cappellini, segretario cittadino del Pds, dopo il drammatico confronto con il suo ex compagno Luigi Carnevale, il manager che il Pci aveva messo alla vicepresidenza della Metropolitana. Cappellini ha ammesso di aver ricevuto solo 150 milioni. Soldi consegnatigli da Carnevale e finiti (per aggirare la legge sul finanziamento ai partiti) nel calderone delle Feste dell'Unità, insieme all' incasso dei ristoranti e delle lotterie. Resta a San Vittore, non più in isolamento, anche Enzo Papi, l'amministratore delegato della Cogefar Impresit, gruppo Fiat: ieri i giudici gli hanno contestato le nuove accuse di corruzione e finanziamento clandestino dei partiti, in relazione ai due miliardi che avrebbe passato al dc Maurizio Prada. Anche stavolta Papi si è rifiutato di rispondere, e l'interrogatorio si è risolto in una nuova schermaglia tra il suo legale Chiusano e i magistrati. Si aspetta per oggi la sentenza del Tribunale della libertà. Stessa schermaglia, oltre confine, tra banchieri e giudici svizzeri. Le rivelazioni dei giornali italiani sui risultati della riunione segreta del comitato allargato dell'Abt, l'associazione banche ticinesi hanno sconvolto i funzionari del Canton Ticino. Ammettono che per ora le notizie sui conti delle tangenti resteranno in cassaforte, dato che le banche hanno già proposto ricorso contro le richieste dei magistrati milanesi e ticinesi. Ma "questa procedura - spiegano i banchieri in un comunicato diffuso, finalmente, ieri - non intende assolutamente mettere in discussione il rapporto di reciproco rispetto da tempo instauratosi tra le banche ticinesi e la magistratura penale". E allora? Mentre in Italia salgono le prime proteste i banchieri elvetici tentano un'autodifesa dai toni inconsueti. La decisione dei ricorsi è stata presa perchè, dice l'Abt, "gli avvenimenti relativi all' indagine in corso in Italia sul cosiddetto ' scandalo delle tangenti' e i decreti della magistratura penale ticinese che sono seguiti, hanno generato sconcerto in questi ultimi giorni nel mondo bancario ticinese, dando luogo ad una ridda di voci e di notizie incontrollate che hanno incrinato l'immagine della piazza finanziaria ticinese".
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Fascismo di sinistra.
Fascismo di sinistra. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La sinistra autoritaria, meglio detta fascismo di sinistra o sinistra fascista, sono termini usati da alcuni sociologi per descrivere le tendenze politiche di sinistra che contraddicono gli ideali di egualitarismo e libertà sostenuti storicamente dalla sinistra per avvicinarsi a ideali più autoritari e appunto simili al fascismo. In ambito storico e politologico viene anche così definita la corrente più spiccatamente anticapitalista del fascismo che vedeva nella socializzazione dell'economia il concreto realizzarsi del socialismo.
Utilizzo e denominazioni. La locuzione «fascismo di sinistra» è stata per la prima volta utilizzata da Jürgen Habermas, un sociologo e filosofo influenzato dalla Scuola di Francoforte neo-marxista. Ha usato il termine nel 1960 per la distanza della scuola di Francoforte, dalla violenza e autoritarismo dei terroristi comunisti. Habermas, il cui lavoro sottolinea l'importanza del discorso razionale, di istituzioni democratiche e di opposizione alla violenza, ha dato contributi importanti alla teoria del conflitto che spesso è associata con la sinistra radicale.
La sinistra fascista. Durante il fascismo in Italia un gruppo di intellettuali come Berto Ricci, Mino Maccari, Marcello Gallian, Elio Vittorini, Romano Bilenchi e Vasco Pratolini venivano definiti all'interno del regime la «sinistra fascista». Già nell'immediato dopoguerra in Italia si parlò di fascismo di sinistra tra gli esponenti del neonato Movimento Sociale Italiano, un gruppo riunito intorno a Giorgio Pini ed Ernesto Massi[3] nel Raggruppamento Sociale Repubblicano. Secondo un'altra interpretazione (Pietro Neglie) la sinistra fascista è da intendersi con il sindacalismo rossoniano, il quale come frazione ideologica trascende lo stesso Rossoni e alla fine si schiera con l'Ordine del Giorno Grandi nel luglio 1943, oltre che con il progetto di Stato o comunità del lavoro,[4] la «mistica del lavoro» che campeggia anche come essenza ideale e prassi dello Stato del lavoro nella Repubblica Sociale Italiana e Genesi e struttura dell società, testo che costituisce il testamento filosofico di Giovanni Gentile come sintesi politico-ideologica della sinistra fascista di contro al meccanicismo mercificatore tecnicistico marxista e capitalista.
L'interpretazione di Irving Louis Horowitz. Il sociologo Irving Louis Horowitz nel suo libro Winners and Losers (Vincitori e vinti) del 1984, basato sul lavoro di Vladimir Lenin L'estremismo, malattia infantile del comunismo,[5] scrive che Lenin descrive i nemici della classe operaia come opportunisti e borghesi rivoluzionari, che collega all'anarchismo. Horowitz sostiene che c'era un simile sforzo politico negli Stati Uniti d'America negli anni ottanta che si caratterizza come fascismo di sinistra. Horowitz sostiene che è pericoloso assumere chiare distinzioni tra destra, centro e sinistra e che sono possibili varie combinazioni. Il carattere totalitario e antidemocratico delle Brigate Rosse italiane portò ad additarle come fasciste di sinistra nei successivi anni di piombo europei, che vedevano opposti gruppi terroristici neri e rossi, come il tedesco Rote Armee Fraktion (RAF). Horowitz sostiene che il fascismo di sinistra negli Stati Uniti come in Europa è in grado di coniugare ceppi ideologici molto diversi in una formula politica che ha il potenziale per un appello di massa. Questa sintesi politica porterebbe quindi una somiglianza ideologica tra terrorismo rosso e nero, poiché entrambi ispirati alla lotta di classe, populismo, totalitarismo e talvolta antisemitismo in chiave anticapitalista. Horowitz afferma che un principio di fascismo di sinistra negli Stati Uniti è un rifiuto dei suoi ideali prevalenti e al sistema democratico e un'asserzione del socialismo come un'astrazione idealizzata. Egli sostiene che i fascisti di sinistra esaminano in modo univoco il socialismo senza commento sulle attività in Unione Sovietica. Sostiene inoltre che la forza potenziale del fascismo di sinistra, come praticato da Lyndon LaRouche e dalla sua Commissione nazionale dei comitati dei lavoratori(NCIC), sia nella combinazione di principi motivante per lo sviluppo di un nuovo ordine sociale fascista. L'efficacia del NCIC è visto il successo nella costruzione di alleanze monotematiche con l'estrema destra antisemita Liberty Hall, con certi movimenti neri islamici e funzionari conservatori della Fratellanza Internazionale degli Autotrasportatori.
Interpretazione di Richard Wolin. Nel tardo XX e XXI secolo il termine fascismo di sinistra è stato usato per descrivere le alleanze politiche ibride insolite.[6] Lo storico Richard Wolin ha utilizzato il termine fascismo di sinistra sostenendo che alcuni intellettuali europei sono stati infatuati da teorie post-moderniste o anti-illuministe, aprendo la strada a movimenti e associazioni di dubbia razionalità che coniugano fascismo e altre dottrine di sinistra.
Una nauseante retorica: così la sinistra vede fascismo ovunque. Edoardo Santelli su Ilprimatonazionale.it il 18 Maggio 2019. La presenza al Salone del Libro di Torino della casa editrice Altaforte ha suscitato le ire dei cosiddetti antifascisti, che non hanno mancato di far sentire la loro voce: Altaforte, vicina agli ambienti di Casapound, è stata immediatamente accusata di fascismo e la sua presenza al Salone è stata subito contestata. Molti intellettuali hanno manifestato il loro disappunto e l’aria si è fatta ancora più elettrica quando il sindaco di Torino Chiara Appendino e il presidente della regione Piemonte Sergio Chiamparino hanno presentato alla Procura di Torino un esposto per apologia di fascismo. L’accusa di fascismo è stata usata non soltanto per attaccare la casa editrice ma anche il ministro dell’Interno Matteo Salvini, quando si è scoperto che il libro-intervista scritto Chiara Giannini è stato pubblicato con la casa editrice Altaforte. Arrivati a questo punto, tutta la retorica antifascista ha dato il meglio di sé (si fa per dire). Si è assistito a scene insulse: gente che cantava “Bella ciao”, intellettuali che gridavano al ritorno del fascismo, giornalisti che intervistando il Ministro lo accusavano implicitamente di avere posizioni filo-fasciste, ecc. Queste manifestazioni spingono ad una riflessione rispetto alla retorica antifascista e al meccanismo che sta alla base dell’accusa di fascismo. Bisogna porsi due domande: che cosa significa, realmente, l’accusa di fascismo? E, in secondo luogo, perché oggi tale accusa è tornata in auge, manco fossimo nell’immediato dopoguerra? Per rispondere alla prima domanda bisogna considerare il meccanismo semantico che riguarda la parola “fascismo”. Questa parola denota un preciso movimento politico italiano, nato il 23 marzo del 1919 a Milano con la fondazione dei Fasci di Combattimento e conclusosi formalmente il 25 luglio 1943 con il voto di sfiducia a Benito Mussolini da parte del Gran Consiglio del Fascismo. Data questa accezione, non è chiaro che senso abbia dichiararsi antifascista, a meno che con “antifascismo” non si intenda fare riferimento ad un giudizio storico: essere antifascista significa giudicare in modo negativo (qualsiasi cosa ciò significhi) il periodo storico del fascismo, così come essere anticarolingiano significa (o significherebbe, se tale parola fosse usata) giudicare negativamente il periodo dell’Impero di Carlo Magno. Allo stesso tempo, per contro, dichiararsi fascista non significherebbe altro che dare un giudizio positivo (qualsiasi cosa ciò significhi) del fascismo, mentre non significherebbe necessariamente auspicare un ritorno del fascismo, così come dichiararsi carolingiano significherebbe dare un giudizio positivo dell’Impero di Carlo Magno e non promuovere, invece, un ritorno di tale impero. Ci si potrebbe domandare, allora, per quale ragione se uno va in giro a dichiararsi “carolingiano” non rischia niente (o al più rischia di essere deriso), mentre se uno si dichiara pubblicamente fascista rischia l’accusa di apologia di fascismo. Non si può certo rispondere dicendo che chi si dichiara fascista favorisce, seppur indirettamente, il ritorno del Fascismo. Questa proposta è tanto assurda quanto sostenere che uno che si dichiara carolingiano favorisce il ritorno dell’Impero di Carlo Magno. Eppure, proprio tale proposta sembra essere presupposta nell’accusa di apologia di fascismo: sembra insomma che tale accusa e il corrispondente reato presuppongano la possibilità di un ritorno del Fascismo. Ma è, oggi, una possibilità effettiva? Non pare. Non a caso, la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione e la Legge Scelba del 1952 parlano del “disciolto partito fascista”, a ricordare che si fa riferimento, anche quando si ipotizza il reato di apologia di fascismo, del Fascismo del Ventennio e dei suoi specifici principi e valori. Ora, al di là degli innumerevoli dubbi sollevati rispetto alla legittimità costituzionale della Legge Scelba (essa violerebbe i principi costituzionali di libertà associativa e di libertà di manifestazione del pensiero), bisogna ricordare che il legislatore è stato acuto nel sottolineare che si parla del disciolto partito fascista, onde evitare generalizzazioni che renderebbero sfumati i confini fra l’apologia del fascismo e la manifestazione di un pensiero di destra (nemmeno la Legge Mancino del 1992 è riuscita a eludere tale precisazione: cfr. la sentenza della Corte di Cassazione 8108/2018): fare il saluto romano, esprimere una posizione “revisionista” rispetto al Fascismo, apprezzare la figura di Benito Mussolini, ecc. non costituisce reato, a meno che tali comportamenti non siano accompagnati da un’effettiva volontà e azione preposte alla ricostituzione del partito del Ventennio. In altre parole, la libertà di pensiero e opinione è garantita. Questo spiega perché in passato partiti come il Movimento Sociale Italiano, poi tramutato in Alleanza Nazionale, che seguiva il principio enunciato da Augusto De Marsanich «non rinnegare, non restaurare» non fu perseguito legalmente e poté entrare in parlamento. Gli antifascisti che hanno sempre pronta in bocca l’accusa di fascismo dovrebbero studiare prima di parlare e avere almeno un’idea di ciò che prevede la legge. Se oggi in Italia esiste un atteggiamento censorio è il loro: escludere Altaforte dal Salone e accusare pubblicamente Salvini di fascismo rappresentano niente di meno che abusi, violenze e prepotenze nei confronti di chi manifesta liberamente e legalmente il suo pensiero. La parola “fascista” è oggi usata in un senso generale, per attaccare chiunque manifesti idee contrarie alla logica del politicamente corretto. Questo non sarebbe grave se non fosse che le accuse di apologia di fascismo campate per aria hanno un peso anche nel comportamento delle istituzioni, come dimostra l’esposto di cui si è detto all’inizio. Questo comportamento non soltanto presuppone un atteggiamento tutt’altro che tollerante nei confronti del libero pensiero (in barba ai principi di libertà di opinione e parola sanciti dalla Costituzione) ma dimostra anche quanto le generalizzazioni siano facili persino per chi rappresenta le istituzioni. Edoardo Santelli
Il fascismo? Una storia tutta di sinistra (La Voce di Romagna Rimini). Da La Voce di Romagna Rimini del 04/10/2013. Intervistare Nicholas Farrell è un'avventura. Non si fa trovare mai, ti dice che prende un caffè e non lo senti per ore. Farà parte del personaggio. Comunque: Farrell è celebre perché ha insegnato agli italiani chi era Benito Mussolini. Questa volta, poi, cavalca la mostra su Il giovane Mussolini, inaugurata domenica a Predappio fino al 31 maggio 2014 per sfornare un libro, Il compagno Mussolini, pubblicato da Rubbettino, controfirmato da un giornalista di calibro come Giancarlo Mazzuca, «che da lunedì è a Predappio, ma nel resto d'Italia a novembre: cosa ne parliamo a fare?». Ecco, Farrell vuole fare sempre il furbo. Senti, la tesi è quella che il fascismo è un affare di sinistra, una deviazione socialista. «Se guardi quello che ha scritto e detto Mussolini a Forlì, quando era direttore di Lotta di classe, ricorrono le stesse idee del fascismo: odia la democrazia, perché è il trucco della borghesia, allo stesso tempo disprezza il Parlamento. Ritiene necessaria una rivoluzione extraparlamentare. Dice che la qualità è più importante della quantità, uno dei temi fondamentali del fascismo, che esalta i produttori rispetto ai parassiti. E tutto questo Mussolini lo dice nel 1910-11, da socialista, e i socialisti, si sa, erano i primi comunisti». Ma poi c'è lo strappo della Prima guerra mondiale, Mussolini mette l'elmo da interventista, con il partito è guerra aperta. «Mussolini capisce che la difesa della patria contro il nemico è più importante dell'internazionale e della lotta di classe. E la sua posizione è la stessa del partito socialista tedesco e francese». Rompere le scatole agli storici nostrani. Farrell non dice niente di nuovo, ma documenta per bene ciò che dà fastidio agli storici del Belpaese. Intanto «l'affinità, la continuità del socialismo con il fascismo. Niente di nuovo, hai ragione: basta guardare la prossimità tra tutte le rivoluzioni di sinistra del Novecento e quella fascista. Se pensi a Cuba, che cos'è? Fascismo, socialismo nazionalista. Anche il comunismo sovietico era nazionalista». E poi, la faccenda ebraica. Farrell ricostruisce l'amore di Mussolini con Margherita Sarfatti, sorprendente dama ebrea, dall'intelligenza inusuale. Mussolini «non aveva nulla contro gli ebrei, essendo lontano anni luce da qualsiasi sentimento razzista»: questo lo scrive Vittorio Feltri nell'introduzione al libro. «Già, proprio così», mugugna Farrell, «e poi hai visto che mi descrive "brillante giornalista inglese"?». Supremo vanitoso. Torniamo al tema. Di nuovo, al di là del pescare testi di grandi inglesi in qualche modo affini al Duce (Kipling, Chesterton, H.G. Wells), tiri fuori dagli archivi dell'Università di Cambridge dei documenti in cui si capisce che i servizi segreti britannici finanziavano il Dux e il suo giornale, «non perché fascista, ma perché socialista che odiava i tedeschi». Farrell mi manda a quel paese, «questo è uno scoop, non svelarlo ancora». Fatto. «Dì piuttosto che inizio parlando di Predappio». Cioè? «Predappio è la Betlemme fascista. Comincio il libro con un dialogo con il Sindaco Frassineti, mio amico- nemico: lui urla "vogliamo essere un paese normale, persone normali". Ma normale Predappio non lo sarà mai». E bravo Nik, il Pindaro del Dux.
GIUSEPPE PARLATO, La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato, Bologna, Il Mulino Ricerca, 2000, p. 404, L. 45.000. Questo volume porta alla luce la più inquieta fra le diverse e non di rado conflittuali anime del fascismo: la cosiddetta sinistra fascista. Parlato identifica i tratti salienti del mosaico di idee, valori e umori che ne costituisce l'identità, seguendo il "fiume carsico" della sinistra fascista oltre la fine del Ventennio, fin dentro gli anni Settanta. Un forte spirito antiborghese e anticapitalistico, un'idea della politica come rivoluzione, l'obiettivo di una democrazia popolare totalitaria di radice rousseauiana caratterizzano questo fascismo che ha le sue origini nel sindacalismo rivoluzionario d'anteguerra, e il suo habitat nelle strutture sindacali e nelle organizzazioni giovanili universitarie. Con la seconda guerra mondiale i fascisti di sinistra scelsero spesso sponde opposte: alcuni rimasero fedeli al proprio essere fascisti, altri al proprio essere rivoluzionari ed entrarono nel partito comunista, dove occuparono anche posti di prestigio.
Recensione di Tania Tomassetti su cultureducazione.it. L’autore in La sinistra fascista. Storia di un progetto mancato traccia una sintesi rigorosa e ben articolata della tematica del sindacalismo nella storia del fascismo italiano, analizza le differenti fasi che interessano la genesi, il decollo ed infine il tracollo di un fenomeno così importante come quello qui trattato. L’influenza politica del fenomeno del sindacalismo con tutte le sue determinazioni e le sue conseguenze è l’obiettivo che intende raggiungere Parlato nel libro. Di certo, le prime righe dell’Introduzione si rivelano chiarificatorie per cogliere la linea argomentativa scelta dall’autore nell’esposizione della sua ricerca. Egli, procede mediante un’analisi storica, o, se vogliamo ideologica che si indirizza su quattro fronti: americano, sovietico, inglese e italiano. Si tratta di una scelta metodologica, a mio avviso molto congeniale perché non si limita ad una descrizione unidirezionale ma tenta di spiegare l’evolversi del fenomeno della sinistra fascista attraverso uno studio pluridirezionale, dove entrano in gioco non solo le caratteristiche peculiari dell’oggetto da analizzare, altresì le affinità, e soprattutto le differenze con i tre colossi della storia mondiale. Parlato riprende il testo di un articolo pubblicato nella rubrica Cantiere, a firma l’Impresa (n. 23 della rivista, 17 giugno, 1944), e riedito nel 1971 da Barna Occhini, in Antologia di «Italia e Civiltà», dove si esordisce: «Roosevelt, Churchill, Stalin. Il gran discorrere di Roosevelt e Churchill e la forma e la sostanza dei loro discorsi hanno invariabilmente l’effetto di accrescere in noi, al confronto, la stima verso Stalin. Rispettiamo al confronto la serietà di Stalin, la sua semplicità di parole e di gesto, il suo andare allo scopo con energica, silenziosa durezza. […] E sappiano finalmente Roosevelt e Churchill, e tutti i loro compari, che i fascisti più consapevoli, i quali hanno sempre riconosciuto nel comunismo la sola forza viva contraria alla propria, non tanto nella Russia, quanto nella plutocratica Inghilterra e nella plutocratica America hanno individuato il vero nemico. Sempre essi hanno sentito di discordare, sì, dai comunisti su molti punti, ma anche di concordare con essi su molti altri, e precisamente e soprattutto di concordare su ciò che non vogliono. Vale a dire, noi e i comunisti concordiamo nel non volere più, né gli uni né gli altri, la vecchia società liberale, borghese capitalistica. E sappiano anche, i Roosevelt, i Churchill e i loro compari, che quando la vittoria non toccasse al Tripartito, i più dei fascisti veri che scampassero al flagello passerebbero al comunismo, con esso farebbero blocco. Sarebbe allora varcato il fosso che oggi separa le due rivoluzioni. Avverrebbe tra esse uno scambio e un’influenza reciproca, fino alla fatale, armonica fusione». «Si coglie, – spiega Parlato – in questo breve passo della rivista fiorentina, un significativo anche se estremo – concentrato di quella mentalità e di quei propositi che connotarono la “sinistra fascista”, quell’insieme, a volte discorde e contraddittorio, di sentimenti, di posizioni, di prospettive e di progetti che si fondavano sulla persuasione di vivere nel fascismo e attraverso il fascismo una sorta di palingenesi rivoluzionaria, la prima – essi sottolineavano – vera rivoluzione italiana dall’unità. Ormai la storiografia contemporanea, soprattutto dopo la lezione defeliciana, non ha particolari difficoltà a riconoscere l’esistenza, nel fascismo, di anime diverse, di componenti culturali e ideologiche che, provenendo da un humus letterario, artistico, filosofico precedente al fascismo, portarono nel movimento di Mussolini una notevole complessità di suggestioni e di tendenze». Il fascismo non è più dunque un “blocco granitico” come si è ipotizzato per anni, adesso la storiografia sul fascismo ha ripensato alla monolicità finora attribuita al Partito di Mussolini. Si è parlato di cinque anime del fascismo (Cfr. Volt, Le cinque anime del fascismo, in “Critica Fascista”, 15 febbraio 1925), di distinzione tra “fascismo-regime” e “fascismo-movimento” (Cfr.R. De Felice, Intervista sul fascismo, a cura di M. A. Ledeen, Roma-Bari, Laterza, 1975, pp. 29-30, e R. De Felice, Autobiografia del fascismo, Bergamo, Minerva Italica, 1978, pp. 159-163), e dell’influenza che hanno avuto sull’ideologia fascista l’eredità dei movimenti culturali dell’ottocento e del primo novecento, il sindacalismo rivoluzionario e il nazionalismo (Cfr. E. Gentile, Le origini dell’ideologia fascista, Roma-Bari, Laterza, 1975; F. Perfetti, Il dibattito sul fascismo, Roma, Bonacci, 1984, pp. 23-24). Le caratteristiche riferite sono solo alcuni degli esempi riportati nel libro, ma, numerosi sono i riferimenti bibliografici citati in nota per spiegare le svariate componenti della sinistra fascista. L’autore ha portato avanti la sua ricerca con molta diligenza e pazienza. Non dev’essere stato facile raccogliere, e selezionare l’enorme mole di materiale bibliografico presentato nel volume, e soprattutto, scegliere quello più fecondo per illustrare un profilo preciso e obiettivo su una particolare e complessa corrente del movimento fascista. «L’incertezza maggiore nel seguire il percorso, – spiega – tortuoso e spesso sotteraneo, della sinistra fascista dopo la stabilizzazione del 1925 deriva essenzialmente dalla difficoltà di definirla, di coglierne i confini e, contemporaneamente, le sfumature, di individuarne il rapporto col regime e col potere nel corso del ventennio. Lo scopo della presente ricerca è essenzialmente quello di delineare le caratteristiche e i progetti, le velleità e i compromessi di una delle tante tessere che compongono il mosaico fascista, non certamente quello di offrire un’interpretazione complessiva del fenomeno. Un’analisi, la presente, che parte da una precisazione di fondo, necessaria, alla luce di quanto è stato finora detto: la sinistra fascista non è un partito nel partito, non è una corrente strutturata nell’ambito del fascismo. Come già si è detto, è piuttosto un insieme, a volte contraddittorio, di sensazioni e di atteggiamenti, è la manifestazione di una volontà, spesso confusa, di rinnovamento, che partecipa, a sua volta, di diversi contributi culturali: dal sindacalismo rivoluzionario al futurismo, dal repubblicanesimo mazziniano al socialismo risorgimentale, dall’anticlericalismo radicale al populismo antiborghese, dallo squadrismo alla mistica del lavoro e della tecnica, intesa, quest’ultima, come futura classe dirigente del regime»[3]. A questo punto, è importante elencare gli argomenti sviluppati nei sette capitoli di cui l’opera si compone: 1) Il mito del Risorgimento nella sinistra fascista, 2) La cultura del sindacato: alla ricerca di una nuova élite, 3) Il nuovo fascismo. Dall’impero alla guerra rivoluzionaria, 4) Il lavoro come mito e come ideologia, 5) Il lungo progetto di Tullio Cianetti, 6) Oltre il fascismo: dal 25 luglio al 25 aprile, 7) L’ultimo atto: la sinistra nazionale. Si tratta, dunque, di uno studio che inizia negli anni Venti per concludersi negli anni Novanta. In questo arco di tempo si sono verificati dei fatti storici che hanno determinato dei cambiamenti radicali nella società italiana, e che l’autore, sebbene impegnato ad illustrarne solo uno fra i tanti, non ha tralasciato di metterli in luce, e di scoprirne i punti di raccordo, così come quelli discordanti. L’intenzione di Parlato consiste nel tentare di precisare la natura e le peculiarità del sindacalismo fascista, e, per raggiungere il suo fine utilizza piani di ricerca differenti, ma legati da un filone comune: quello ideologico. Accanto all’aspetto politico-sociale, si impone quello pedagogico, che permette di operare una sorta di continuità tra il mondo della politica e quello della cultura. Si riaccende così un dibattito sul rapporto tra la scuola e il lavoro, e tra la scuola e la società, che ha impegnato molti intellettuali italiani a partire dagli anni Trenta fino agli anni Settanta e oltre. L’esigenza di diffondere tra le masse la cultura, si presentava come una prerogativa necessaria e determinante per giungere alla realizzazione di un progetto politico, come quello auspicato dalla sinistra fascista. La trasmissione del sindacalismo non poteva prendere avvio, se non si operava prima una trasformazione della “cultura del lavoratore” attraverso l’introduzione di scuole sindacali, che avrebbero dovuto compierla. Indubbiamente, come osserva P. Neglie in Il sindacalismo fascista fra “classe” e “nazione”. Origini ideali, aspirazioni e velleità della sinistra fascista nel ventennio (in R. De Felice, Il lavoro dello storico fra ricerca e didattica, pp. 120-121): «Il sindacato fascista svolse durante il regime una funzione assai particolare, non limitata soltanto alla rappresentanza dei lavoratori o all’elaborazione, in gran parte disattesa, di nuove normative in ordine allo stato sociale. Esso, fin dalle origini e ininterrottamente fino al 1943, svolse una funzione politica di rilievo come laboratorio organizzativo della sinistra fascista»[4]. Nondimeno, non ci meraviglia il fatto che: «La maggior parte degli esponenti del fascismo “rivoluzionario” e “sociale” vide nell’organizzazione sindacale un punto di riferimento insostituibile per condurre la propria battaglia. Il sindacato, grazie alla sua struttura territoriale e di categoria, alla disponibilità finanziaria, alla presenza di uffici-studi di carattere legislativo e normativo, alla discreta rete di riviste e di organi di stampa, riuscì a rappresentare per molti intellettuali una garanzia di visibilità, un approdo sicuro anche dal punto di vista economico, un luogo protetto e sostanzialmente autonomo nel quale sviluppare teorie e proposte le quali, sebbene raramente recepite dal regime, costituirono quel bagaglio politico del quale si giovò la sinistra fascista. […] Non è un caso che personaggi di diversa caratura intellettuale e politica (da Malaparte a Panunzio, da Del Giudice a Landi, da Dinale a Chilanti, da Volpicelli a Zangara, da Olivetti a Manunta, da Spampanato a Fontanelli) siano passati, in un certo momento della loro attività politica – in genere, agli inizi – attraverso le strutture sindacali o la stampa delle organizzazioni dei lavoratori. […] In questa ottica, il rapporto fra cultura e sindacato diventa indispensabile per comprendere la natura e le dimensioni della sinistra fascista, una componente che, senza il sindacato, si sarebbe caratterizzata tutt’al più per semplici dichiarazioni d’intenti, talvolta geniali, più spesso ingenue, idealistiche e recriminatorie»[5]. La scuola assume una funzione quasi decisiva nella materializzazione della formazione del sindacato fascista. Ad essa veniva attribuito lo scopo di eliminare quel divario che da sempre si consumava tra l’istruzione scolastica destinata alla classe dirigente e quella diretta alle masse. «Un divario – scrive Parlato – che “la rivoluzione fascista” riteneva in qualche modo di dovere colmare, pena la perpetua sudditanza dei lavoratori rispetto ai datori di lavoro. Il problema di fondo delle scuole sindacali era quello della inevitabile caratteristica elitaria degli studenti. Soprattutto all’inizio, i partecipanti furono in maggioranza tecnici, amministratori, impiegati che intendevano accrescere le possibilità di inserimento nella politica o nel sindacato. La presenza dell’operaio di fabbrica costituì un fenomeno significativo dopo la metà degli anni Trenta e soltanto nelle grandi città industriali»[6]. Il tema pedagogico-culturale è preponderante, e la sua presenza può essere rintracciata in tutto il volume, e soprattutto nei capitoli: II, III e IV in cui vengono da un lato delineate le molteplici e mutevoli aspirazioni politiche e sociali della borghesia e delle masse, nonchè il nuovo ruolo del sindacato; mentre, dall’altro è esemplificata la nuova funzione dell’attività lavorativa, intesa come “storia” e come “pedagogia rivoluzionaria”. Da non dimenticare, che questi aspetti tematici elaborati da Parlato non possono essere analizzati come fatti a se stanti, ma devono continuamente fare i conti prima con il ripristino della stabilità politica del primo dopoguerra, e poi con lo scoppio della seconda guerra mondiale, che non può che influenzare il loro cammino evolutivo. Infatti, è proprio ad essa che deve essere fatta risalire la diffusione di una nuova figura dell’intellettuale, vale a dire: “l’intellettuale militante”, che finisce per trasformare l’approccio verso la storia e la cultura in generale. «Se con la Carta del 1927 – rileva l’autore – il lavoro era diventato uno dei punti di riferimento del messaggio sociale fascista e se dalla grande crisi dei primi anni Trenta, almeno propagandisticamente, in nome del lavoro si era cercato di salvaguardare gli interessi delle classi più deboli della società, è con la conclusione della guerra d’Etiopia che il lavoro diventò, nell’immaginario collettivo del fascismo rivoluzionario, il nuovo mito di riferimento, il criterio attraverso cui elaborare una nuova classe dirigente: dall’ex combattente della prima guerra mondiale si passava al lavoratore, nelle sue varie sfumature (il colonizzatore, il soldato che torna al lavoro, l’operaio, il rurale, l’ex bracciante). […] Tuttavia, non di solo mito si trattò, bensì di una evoluzione importante e, per certi versi sorprendente, dell’ideologia del fascismo. […] Mussolini consentì la più ampia discussione all’interno della cultura fascista, la quale tuttavia, incanalata negli strumenti istituzionali del regime – primo fra tutti l’Istituto nazionale di cultura fascista – finiva col condizionare solo marginalmente il regime. Nel frattempo, nel paese, l’affermarsi della società di massa determinava il progressivo perfezionamento degli strumenti propagandistici del regime per meglio “andare verso il popolo” e incrementare quel consenso che diventava sempre più essenziale per sorreggere uno stato che si definiva totalitario. Il passaggio da una società agricolo-sacrale ad una industriale e secolarizzata comportò una maggiore attenzione verso il problema sociale, sia dal punto di vista sociologico, sia da quello politico: oltre che dai ceti medi, che avevano notevolmente contribuito alla nascita del fascismo, la domanda politica veniva, ormai, anche dal proletariato e dai rurali: diventava imprescindibile per il fascismo rappresentare globalmente, “totalitariamente”, la società italiana, ivi compresi i ceti un tempo esclusi dallo stato»[7]. In aggiunta al valore assunto dalla cultura e dal lavoro, scrive: «Fu il pedagogista Luigi Volpicelli, braccio destro di Bottai all’epoca della Carta della Scuola, a contestare la scissione fra lavoro e cultura operata dalla società borghese. Ogni volta che il lavoratore si avvicinava alla cultura (anche a quella professionale), doveva necessariamente uscire dai canoni della propria attività ed entrare in un mondo a lui estraneo; ciò, per Volpicelli, dipendeva dalla radicata immagine di una cultura intesa esclusivamente come cultura umanistica, di fronte alla quale la preparazione tecnica del lavoratore veniva considerata come approssimazione velleitaria. […] La cultura è strettamente legata alla realtà, raggiunge l’unità dell’esperienza culturale, non la parcellizzazione del sapere attraverso la nozione accademica, è, in altri termini, una “unitaria concezione del reale”, nell’ambito della quale il lavoro occupa lo spazio principale, essendo sintesi di vita e civiltà. Per Volpicelli, la tecnica è il punto centrale verso cui indirizzare la sintesi di lavoro e vita; la tecnica – “genio che presiede alla civiltà moderna” – assume un carattere mistico, nel quale le vecchie caratteristiche di lavoro come pena o come fatica sono completamente assenti (Cfr. L. Volpicelli, Premessa per una cultura operaia, in “Civiltà fascista”, maggio 1942, pp. 432 e sgg.)»[8]. Negli ultimi tre capitoli il discorso è prevalentemente politico, infatti emerge un ritratto molto particolareggiato sui differenti periodi che hanno interessato la formazione del sindacalismo fascista. Se scorriamo i titoli dei paragrafi è possibile cogliere come l’autore abbia tentato, per altro riuscendoci, di delineare nei dettagli i contenuti ideologici portati avanti dalla sinistra fascista in base agli andirivieni politici del Partito. Dall’attività sindacale svolta da Cianetti, Del Giudice, Biagi, Rossoni, Razza e Scorza, si passa all’ipotesi di un “sindacalismo nazionale” durante la Repubblica di Salò, fino ad arrivare all’ultimo atto della sinistra fascista che si protrae all’incirca intorno agli anni Settanta del ’900. Parlato, ha saputo offrire al lettore l’occasione di afferrare attraverso una descrizione lineare e schematica un quadro completo delle diverse sfumatore che hanno colorato l’iterdel sindacato fascista, e soprattutto, ha fornito gli strumenti per approfondire i poliedrici fatti che lo hanno ostacolato, sostenuto, e che hanno permesso la sua ascesa e la sua fine. Tania Tomassetti su cultureducazione.it
Fascisti di sinistra da "Fascisti immaginari" - Luciano Lanna e Filippo Rossi. «La destra è censura, reazione, bigotteria. E se ho un'appartenenza culturale è più al fascismo che alla destra, che mi fa schifo [...] Il fascismo che ho conosciuto in famiglia è quello libertario, gaudente, generoso. Penso al fascismo rivoluzionario dell'inizio e della fine, quello che non conserva ma cambia, quello socialista e socialisteggiante...» Idee chiare e sentite quelle del ventottenne Nicolo Accame, giornalista del "Secolo d'Italia" intervistato, insieme a suo padre Giano, nel marzo 1996, da Stefano Di Michele: due fascisti, un padre e un figlio. Idee chiare e sentite che affondano in un diffuso e radicato retroterra esistenziale e culturale. Quello dei cosiddetti «fascisti di sinistra». Anche quando Alberto Giovannini, giornalista di lungo corso, classe 1912, è stato costretto a definirsi ha dovuto per forza di cose ricorrere a quell'apparente ossimoro: «Io sono stato fascista a modo mio. Era, il nostro, un fascismo di sinistra». E aggiungeva: «Non potevo non avere una certa fedeltà e riconoscenza verso quel regime attraverso il quale io, che ero nessuno, figlio di povera gente, di operai, cominciando col fare il fattorino, ero arrivato a dirigere un quotidiano. Il fascismo mi aveva dato la possibilità di avanzare socialmente. Non lo avevo dimenticato ...». E quando, a metà degli anni '80, durante la presentazione di una riedizione dello "Scrittore italiano" di Berto Ricci, i dirigenti missini Pinuccio Tatarella e Beppe Niccolai, furono anche loro costretti a definirsi, le due risposte risultarono antitetiche. Più che "di destra", di "centro-destra" si definì Tatarella, ricollegandosi alla tradizione politica che negli anni '50 avevo visto molte città del Mezzogiorno amministrate da coalizioni composte da MSI, destre liberali e monarchiche e DC. Sicuramente "non di destra", anzi "di sinistra", si dichiarò invece Niccolai, riagganciandosi a tutt'altra tradizione. Una tradizione che affondava le sue radici nel Mussolini giacobino, nel socialismo risorgimentale di Pisacane, nel sindacalismo rivoluzionario di Sorel e Corridoni, nelle avanguardie artistiche d'inizio Novecento, nel fascismo sansepolcrista del 1919, nell'interpretazione gentiliana del marxismo...Se infatti storicamente il fascismo nasce con Mussolini e "Il Popolo d'Italia" tra il 1914 e il 1919 da una scissione del partito socialista, il filosofo cattolico Augusto Del Noce ne ha retrodatato la genesi filosofica al 1899 con la pubblicazione del saggio di Giovanni Gentile su "La filosofia di Marx", che venne considerato da Lenin -nel "Dizionario Enciclopedico russo Granat" del 1915- uno degli studi più interessanti e profondi sull'essenza teoretica del pensatore di Treviri. Del marxismo, Gentile respingeva il materialismo ottocentesco ma ne abbracciava con entusiasmo l'ultramoderna dimensione di «filosofia della prassi», tesa non solo a interpretare il mondo ma a cambiarlo. Stando almeno all'interpretazione delnociana, quindi, il fascismo non sarebbe affatto una negazione del marxismo, ma piuttosto una sua "revisione" che reinterpreta la prassi come spiritualità. Il fascismo si prospetta, insomma, come una rivoluzione "ulteriore" rispetto a quella marx-leninista. D'altro canto, divenuto filosofo ufficiale del fascismo, Gentile ripubblicò il suo libro su Marx nel 1937, nel pieno degli "anni del consenso". E quando, il 24 giugno 1943, pronunciò in Campidoglio il Discorso agli italiani per esortarli a resistere agli anglo-americani, si rivolse espressamente agli ambienti di sinistra presentando il fascismo come «un ordine di giustizia fondato sul principio che l'unico valore è il lavoro». E precisò: «Chi parla oggi di comunismo in Italia è un corporativista impaziente». Lo stesso Lenin, del resto, rivolgendosi nel 1922 al comunista Nicola Bombacci aveva potuto dire: «In Italia c'era un solo socialista capace di fare la rivoluzione: Benito Mussolini». Nel fascismo di sinistra ci sono davvero tante cose: il percorso politico dello stesso Bombacci, il comunista finito a Salò e appeso con Mussolini a Piazzale Loreto; la covata ribelle dei giovani intellettuali aggregati attorno all'ex anarchico fiorentino Berto Ricci e alla sua rivista "L'Universale"; il "lungo viaggio" dal fascismo al comunismo di tanti intellettuali, da Davide Lajolo a Fidia Gambetti, da Felice Chilanti a Ruggero Zangrandi, da Elio Vittorini a Vasco Pratolini, da Ottone Rosai a Mino Maccari. Fermenti e contraddizioni che hanno indotto lo storico Giuseppe Parlato a dedicare un intero libro alla cosiddetta "sinistra fascista": «Quell'insieme, a volte discorde e contraddittorio, di sentimenti, di posizioni, di prospettive e di progetti che si fondavano sulla persuasione di vivere nel fascismo e attraverso il fascismo una sorta di palingenesi rivoluzionaria, la prima vera rivoluzione italiana dall'unità». E delle varie anime del fascismo, la "sinistra" fu sicuramente la più vivace. Ancorata al Risorgimento mazziniano e garibaldino, la sinistra fascista cercò di incarnare un progetto che era nato prima del fascismo e che mirava ad oltrepassare la stessa esperienza mussoliniana. E se nei primi tempi essa si tradusse essenzialmente nello squadrismo e nel sindacalismo, verso la metà degli anni '30 -aggregando soprattutto i giovani universitari, gli intellettuali e i sindacalisti - si fece portatrice di un "secondo fascismo" teso a superare la società borghese. Non è un caso che i vari Bilenchi, Pratolini e tutti i giovani intellettuali del cosiddetto "fascismo di sinistra", oltre che in Berto Ricci, trovassero un punto di riferimento nel fascista anarchico Marcello Gallian. «I libri di Gallian -scriveva Romano Bilenchi su "Il Popolo d'Italia" del 20 agosto 1935- sono documenti... E un documento su di un periodo rivoluzionario non creduto compiuto non avrà fine finché tutta la rivoluzione non sia realizzata». Quest'anima di sinistra conviverà nei vent'anni del regime con altre componenti. E nonostante il suo essere per molti versi un "progetto mancato", marcherà sempre il Ventennio, influendo decisamente sull'identità culturale sia del fascismo che del postfascismo. Confesserà Bilenchi, diventato comunista dopo la guerra: «Rimasi molto legato a queste idee diciamo così, socialiste... Del fascismo mi colpì il programma, più a sinistra, almeno a parole e almeno agli inizi, di quello degli altri... Poi ho conosciuto Berto Ricci, una persona seria, onesta e simpatica. Era un anarchico, filosovietico, ed era entrato nel partito fascista convinto di partecipare a una rivoluzione proletaria». Del resto, già nel 1920, Marinetti aveva scritto: «Sono lieto di apprendere che i futuristi russi sono tutti bolscevichi... Le città russe, per l'ultima festa di maggio, furono decorate da pittori futuristi. I treni di Lenin furono dipinti all'esterno con dinamiche forme colorate molto simili a quelle di Boccioni, di Balla e di Russolo. Questo onora Lenin e ci rallegra come una vittoria nostra». E resta agli atti che il 16 novembre 1922, proprio con un intervento alla Camera di Mussolini presidente del Consiglio, l'Italia fu il primo dei paesi occidentali a dichiararsi disponibile al riconoscimento internazionale dell'Unione Sovietica. Un'apertura che, almeno fino alla guerra di Spagna, non verrà mai meno. Nel giugno 1929, Italo Balbo, in una delle sue celebri trasvolate dall'Italia approdò a Odessa nell'URSS, e lì venne accolto con un picchetto d'onore. E il 4 dicembre 1933, Mussolini ricevette ufficialmente a Palazzo Venezia il ministro degli esteri russo Maxim Litvinov: da tre mesi i due paesi avevano sottoscritto un patto d'amicizia e l'occasione rafforzò ulteriormente le buone relazioni. Erano gli anni in cui il filosofo Ugo Spirito arrivava a teorizzare -nel convegno di Studi corporativi di Ferrara del 1932- la «corporazione proprietaria» che prevedeva di fatto l'abolizione della proprietà privata, e in cui pullulavano le pubblicazioni addirittura filosovietiche, tra le quali un libro di Renzo Bertoni, che, reduce da una permanenza nell'Unione Sovietica, pubblicava nel 1934 un libro intitolato addirittura "Il trionfo del fascismo nell'URSS", sulla cui copertina si vedeva uno Stalin con la mano aperta e in una didascalia si leggeva: «Stalin saluta romanamente la folla». Poi, la guerra di Spagna, la seconda guerra mondiale e la repubblica di Salò. E proprio quest'ultima scatena vivaci discussioni tra Mussolini e Hitler. Per il dittatore tedesco quell'esperienza doveva chiamarsi «Repubblica fascista italiana». Mussolini, invece, senza più obblighi compromissori con la monarchia e gli ambienti conservatori, avrebbe preferito «Repubblica socialista italiana», tornando in qualche modo alle suggestioni sansepolcriste. Ma di quell'aggettivo che puzzava di sovversione e di marxismo Hitler non volle sentirne parlare. E alla fine si accordarono su Repubblica Sociale Italiana. E sia pure ridotto a "sociale", la parola socialista tornava nel lessico dei fascisti. Tanto da emozionare il socialista della prima ora ed ex comunista Nicola Bombacci -colui che aveva fatto adottare il simbolo della falce e martello ai comunisti italiani- e a farlo riappacificare con Mussolini: «Duce -gli scrive l'11 ottobre 1943- sono oggi più di ieri totalmente con Voi. Il lurido tradimento re-Badoglio che ha trascinato purtroppo nella rovina e nel disonore l'Italia, Vi ha però liberato di tutti i componenti pluto-monarchici del '22. Oggi la strada è libera e a mio giudizio si può percorrere sino al traguardo socialista». In uno degli articoli scritti poco prima di essere ucciso dai partigiani, il giornalista Enzo Pezzato -redattore capo a Salò di "Repubblica fascista"- scrisse: «Il Duce ha chiamato la Repubblica "sociale" non per gioco: i nostri programmi sono decisamente rivoluzionari, le nostre idee appartengono a quelle che in regime democratico si chiamerebbero "di sinistra"». E nei giorni del crepuscolo di Salò, Mussolini confiderà al giornalista socialista Carlo Silvestri: «Il più grande dramma della mia vita si produsse quando non ebbi più la forza di fare appello alla collaborazione dei socialisti e di respingere l'assalto dei falsi corporativi. I quali agivano in verità come procuratori del capitalismo... Tutto quello che accadde poi fu la conseguenza del cadavere di Matteotti che il 10 giugno 1924 fu gettato fra me e i socialisti per impedire che avvenisse quell'incontro che avrebbe dato tutt'altro indirizzo alla politica nazionale». Sull'esperienza della RSI, Enrico Landolfi ha scritto che non fu un unicum: «Fu, viceversa, una sfaccettatissimo prisma, un fenomeno pluralistico. Tanto vero che fu in essa presente quasi tutto lo spettro dottrinario e politico». Landolfi sottolinea la presenza al suo interno di esponenti della stessa sinistra antifascista disposti a collaborare per l'attuazione del cosiddetto "Manifesto di Verona": oltre a Bombacci e a Carlo Silvestri, Edmondo Cione, Germinale Concordia, Pulvio Zocchi, Walter Mocchi e Sigfrido Barghini. Accanto a loro, c'era soprattutto a Salò una vasta «aggregazione più coerentemente e conseguentemente rivoluzionaria, socializzatrice, popolare-nazionale, libertaria. Disponibile, inoltre, quest'ultima, e anzi fautrice, del dialogo con l'antifascismo, proclive alla più ampia democratizzazione della Repubblica, decisa a resistere alle interferenze e alle rapine naziste, inequivocabilmente antiborghese e anticapitalista». E anche per questo, Landolfi ha titolato un suo libro sulla RSI: "Ciao, rossa Salò". Quella "rossa repubblica" che Bombacci salutò per l'ultima volta, prima che i partigiani lo fucilassero, con le parole: «Viva Mussolini! Viva il socialismo!». Nell'immediato dopoguerra il tema del recupero politico, o almeno elettorale, di chi era stato fascista nel Ventennio ma anche nella RSI, interesserà, più o meno scopertamente, anche il PSI e il PCI, i partiti dove troveranno accoglienza molti fascisti di sinistra. Così, nell'agosto 1947, Palmiro Togliatti, che l'anno prima in qualità di ministro di Grazia e Giustizia aveva concesso l'amnistia ai fascisti, sul quotidiano comunista "La Repubblica d'Italia" scriveva: «Non nascondiamo le nostre simpatie per quegli ex fascisti, giovani o adulti, che sotto il passato regime appartenevano a quella corrente in cui si sentiva l'ansia per la scoperta di nuovi orizzonti sociali... Noi riconosciamo agli ex fascisti di sinistra il diritto di riunirsi e di esprimersi liberamente conservando la propria autonomia». E anche il leader socialista Pietro Nenni, intervistato da "Paese Sera" il primo gennaio 1955, legittimava i fascisti di sinistra: «Da noi la destra esprime soltanto istinti antisociali, di conservazione e di reazione. Tipico il caso dei fascisti che, per inserirsi nella politica reazionaria americana, non hanno esitato a pugnalare ancora una volta il loro capo e a rinnegare l'unico elemento rispettabile della loro tradizione, vale a dire l'opposizione al dominio delle cosiddette plutocrazie». E lo stesso Nenni, se alla vigilia delle elezioni del 1953, aveva aperto le pagine de "l'Avanti!" all'ex direttore fascista de "La Stampa" di Torino, Concetto Pettinato, già nell'immediato dopoguerra aveva favorito la nascita di una rivista -"Rosso e Nero"- con la quale il fascista di sinistra Alberto Giovannini tentava di conciliare le attese fasciste della "rivoluzione incompiuta" con quelle socialiste della "rivoluzione mancata". In questo clima, un gruppo di fascisti di sinistra si raccoglierà attorno alla rivista quindicinale "Il Pensiero Nazionale" diretto dallo scrittore e giornalista già repubblichino Stanis Ruinas. Verranno definiti «fascisti-comunisti», «comun-fascisti», «camicie nere di Togliatti» e «fascisti rossi», definizione quest'ultima che dopo qualche esitazione finiranno anche per accettare. Ma il "rosso" di questi fascisti non fu necessariamente quello del PCI, ma un rosso più articolato, più complesso, più variegato. Tanto che, persino nella sua componente più incline alla linea di Botteghe Oscure, vi fu una divisione tra il gruppetto che volle entrare -ed entrò- nel PCI e gli altri che preferirono restare indipendenti. Dopo il '53, il gruppo de "Il Pensiero Nazionale" si avvicinerà ai socialisti, ai socialdemocratici e alla sinistra cattolica, finendo per gravitare nell'orbita del presidente dell'Eni Enrico Mattei e del suo nazionalismo democratico e mediterraneo. Ma non mancheranno rapporti e scambi con gli esponenti della sinistra fascista interni al MSI. Leader riconosciuto della sinistra missina delle origini fu indiscutibilmente Giorgio Pini: giornalista vicino a Mussolini prima e durante la RSI, sarà assiduo collaboratore de "Il Pensiero Nazionale" a partire dal 1954, dopo che, nell'aprile del '52, abbandona il MSI e, nel '53, si interrompe il legame da lui non gradito tra la rivista e il partito comunista. Ma in realtà tutti gli anni '50 hanno registrato contatti e confronti, anche pubblici, tra i giovani comunisti e i giovani dirigenti missini, soprattutto negli anni del dibattito sull'ingresso dell'Italia nella NATO. E nel 1958, lo stesso Palmiro Togliatti arrivò a difendere la cosiddetta «operazione Milazzo» che, in Sicilia, realizzò l'alleanza amministrativa tra il MSI e il PCI. In un intervento alla Camera, il 9 dicembre, il leader comunista disse: «Le convergenze che si sono determinate hanno dato luogo, anche qui, alle solite inette arguzie sul comunista e sul missino che si stringono la mano, si abbracciano e così via. Si tratta di un problema di fondo che deve essere riconosciuto e apprezzato in tutto il suo valore, daremo il contributo attivo a che passi in avanti vengano compiuti». D'altra parte, anche dopo la fuoriuscita di Giorgio Pini dal MSI -ancora lontano dal diventare il partito della "destra nazionale"- al suo interno rimase e fu sempre attiva una vasta e articolata presenza di "fascisti di sinistra": Ernesto Massi, Bruno Spampanato, Diano Brocchi, Giorgio Bacchi, Roberto Mieville, Domenico Leccisi, Giuseppe Landi, Ugo Clavenzani e Beppe Niccolai... E lo stesso Giorgio Almirante, prima di diventare segretario del partito e di lanciare la "grande destra", fu per molti anni un esponente di punta della sinistra interna. Ernesto Massi, grande studioso di geopolitica, professore all'Università Cattolica di Milano e vicesegretario nazionale del MSI dal 1948 al 1952, esce dal partito nel 1957 per tentare esperimenti politici autonomi. Fino al 1965 anima con Giorgio Pini un «Comitato di iniziativa per la sinistra nazionale». E solo dopo il fallimento del "Partito Nazionale del Lavoro" -che pure nel 1958 si presenta alle elezioni politiche in cinque circoscrizioni- e l'esaurirsi, nel 1963, della sua rivista "Nazione Sociale", tornerà nel 1972 a riavvicinarsi al MSI attraverso l'Istituto di studi corporativi. Nel 1963, comunque, mentre si chiudeva l'esperienza di "Nazione Sociale", nasceva a Roma "L'Orologio" diretto da Luciano Lucci Chiarissi, una rivista e un laboratorio che riproponeva la tradizione del "fascismo di sinistra" in termini nuovi e molto più attenti all'evoluzione degli scenari italiani ed internazionali. Lucci Chiarissi, nato ad Ancona nel 1924, era stato volontario a Salò, aveva militato nell'immediato dopoguerra nel movimento clandestino dei FAR (Fasci di azione rivoluzionaria), e si era sempre sentito appartenente a una "sinistra nazionale". "L'Orologio" tentava di uscire dalla strada del "rancore eterno" e del nostalgismo fine a se stesso, contestando non solo il MSI micheliniano, ma anche i gruppi extraparlamentari come "Ordine nuovo" e "Avanguardia nazionale". Spiegava Lucci Chiarissi: «Annibale non è alle porte e comunque non lo è a causa del centro-sinistra». E "L'Orologio", che aveva lanciato il tema della riappropriazione delle "chiavi di casa", sostenne De Gaulle contro il Patto Atlantico e nella guerra dei "sei giorni" si schierò dalla parte dei paesi arabi contro l'imperialismo israeliano. «"L'Orologio" -ha scritto Giuseppe Parlato- individuò nel capitalismo e nell'imperialismo americano un pericolo maggiore di quello sovietico per la cultura e la politica italiana... E a differenza di tutti gli altri fogli neofascisti, "L'Orologio" assunse immediatamente una posizione nettamente a favore dei vietnamiti e della loro lotta per l'indipendenza». Sono gli anni in cui accanto -e spesso a fianco- di tanti gruppi extraparlamentari di destra, sorgono anche gruppi extraparlamentari ispirati al "fascismo di sinistra". Così, la sezione italiana della Giovane Europa di Jean Thiriart titolava «Per un socialismo europeo» un documento fiorentino del 1968. E così, nel 1967, nasceva la "Costituente nazionale rivoluzionaria", fondata da Giacomo De Sario: classe 1927, ex segretario della federazione giovanile socialdemocratica ed ex dirigente della Giovane Italia. Con un simbolo rosso e nero, «rosso per la socialità, nero per la nazione», quel movimento -tra i cui esponenti di spicco c'erano i giovani Massimo Brutti e Massimo Magliaro, l'uno futuro dirigente del PCI e poi dei DS, l'altro diventerà capo ufficio stampa di Almirante e poi giornalista RAI- si faceva conoscere attraverso un periodico: "Forza Uomo", settimanale di lotta con redazioni a Roma, Milano, Varese e Brindisi. Il primo numero andò in edicola il 10 agosto 1969. Tra i riferimenti culturali c'erano Mazzini e Pisacane, Corridoni e Gentile, Mussolini e i futuristi. Nel solco della stessa tradizione si collocava la "Federazione Nazionale Combattenti della RSI", di cui nel '70 divenne presidente Giorgio Pini. Nel discorso di insediamento, Pini condannava l'atteggiamento dei fascisti che «sbandano verso la destra conservatrice e autoritaria, totalitaria, in ibrido connubio coi monarchici e coi più retrivi gruppi confessionali», invitando inoltre a respingere «il fanatico occidentalismo di destra pervenuto fino alla servile esaltazione di Nixon, il bombardatore del Vietnam», e condannando «ogni collusione coi regimi militari e liberticidi dei colonnelli greci, del generale Franco, sacrificatore della nobile Falange di José Antonio Primo de Rivera, del regime ottusamente conservatore, classista e colonialista di Lisbona, di quelli razzisti del Sud Africa e della Rhodesia». In quegli anni la Federazione faceva uscire a Roma una serie di pubblicazioni -il quindicinale "Fnc-RSI notizie", il mensile "Corrispondenza repubblicana", il trimestrale "Azimut" e il foglio giovanile "Controcorrente"- di cui erano animatori Romolo Giuliana e P. F. Altomonte (sigla quasi pseudonima con la quale si firmava l'artista futurista Principio Federico Altomonte). Scoppiato il '68, sia la "Fnc-RSI" sia "Forza Uomo" sia "L'Orologio" si schierano naturalmente con la contestazione. "L'Orologio", anzi, appoggiò la protesta giovanile anche sul piano organizzativo, dando vita ai "Gruppi dell'Orologio" e fornendo sostanza culturale alla trasformazione in senso "rivoluzionario" di alcuni ambienti di matrice neofascista. E dopo la fine e la diaspora di quell'esperienza, il loro animatore, Luciano Lucci Chiarissi, fonderà l'associazione politico-culturale "Italia e Civiltà" che, nei primi anni '80, si farà promotrice di una serie di incontri pubblici sul nuovo "socialismo tricolore" attivato dalla svolta craxiana. Dentro o fuori il MSI, quindi, una certa tradizione non è mai morta. E quella che potremmo chiamare l'ultima incarnazione di un "sinistra" scaturita dall'universo neofascista, si esprimerà a metà degli anni '70 con presupposti e riferimenti inediti. Questa volta si trattava di un fenomeno più generazionale ed esistenziale che ideologico in senso stretto. A prenderne atto, nel gennaio 1979, fu Giorgio Galli su "Repubblica" parlando di «fascisti in camicia rossa». Figli degli anni '70, questi nipotini inconsapevoli di Berto Ricci e Nicolino Bombacci, rivelavano un percorso parallelo a quello che, sull'altro versante, andavano conducendo i coetanei della "nuova sinistra". E Galli ne metteva in luce alcuni «elementi diversi da quelli consueti» e, in particolare, l'aspirazione a sintonizzare ed aggregare «la protesta antisistema dei giovani, dei disoccupati, del sottoproletariato». Si trattava di un vasto fermento giovanile emerso in quegli anni e che si poteva cogliere attraverso pubblicazioni come "La Voce della Fogna" e "Linea", in cui comparivano argomenti e toni inediti per la precedente pubblicistica neofascista. Si introducevano temi nuovi, come l'attenzione ai diritti civili e alle tematiche ambientaliste. "Nucleare? Dieci volte no", si leggeva sul secondo numero di "Linea". E sempre sulle pagine di quella rivista apparivano la prima vera inchiesta sui "Verdi" tedeschi, l'apertura di un dibattito sulla liberalizzazione della droga, e pagine e pagine sui nuovi bisogni e sulla condizione giovanile. Emergeva, soprattutto, il quadro di un ambiente caratterizzato da una linea libertaria, garantista, antistatalista, ambientalista, antioccidentalista e, addirittura, con venature regionaliste e antiproibizioniste. «Sfondare a sinistra», era il titolo di un articolo di Marco Tarchi che, sul terzo numero di "Linea", lanciava in grande stile un'espressione destinata ad avere successo. Già nel '76, del resto, lo stesso Tarchi era stato autore di un documento del "Fronte della gioventù" toscano in cui, esaminando le cause della sconfitta elettorale, si invitava a «sfondare a sinistra»: molti elettori -era la tesi di Tarchi- avevano votato per il PCI non perché comunisti, «ma perché spinti da un'ansia di cambiamento, e disgustati dal modo di gestire la cosa pubblica instaurato dalla DC e dai suoi alleati». Questa componente giovanile troverà la sua identità soprattutto nell'esperienza dei Campi Hobbit. E paradossalmente, tra il 1976 e il 1982, individuerà il proprio referente all'interno del MSI in quel Pino Rauti che pure, nei decenni precedenti, era stato il campione dell'ala tradizionalista e di matrice evoliana del neofascismo. Come ha scritto lo storico Pasquale Serra, «nella seconda metà degli anni '70 Rauti rovescia lo schema del suo precedente ragionamento: da un lato, infatti, egli individua come fonte privilegiata il fascismo italiano (il fascismo della sintesi) e non più il nazismo o i fascismi "minori", come era invece avvenuto nei decenni precedenti, e dall'altro riporta il fascismo alle sue origini di sinistra». E questi orientamenti, sino agli anni '80, si esprimeranno anche in alcune esperienze di amministrazione locale, dove il MSI governerà insieme al PCI e al PSI. Così nel 1987, durante una tribuna politica, Giorgio Almirante fu messo in imbarazzo da un giornalista che gli chiedeva lumi su quanto avveniva a Furci Siculo, un centro del messinese dove il missino Carmelo Briguglio era il vicesindaco di una giunta rosso-nera. La sintesi e la summa di tutta questa tradizione -da "L'Universale" al "socialismo tricolore", dall'adunata di piazza San Sepolcro ai Campi Hobbit- potrebbe essere rappresentata dalla figura politica e umana di Beppe Niccolai: fascista di sinistra da sempre, deputato missino per tre legislature, intellettuale, giornalista, uomo politico e, soprattutto, "uomo di carattere" per dirla col suo maestro Berto Ricci. Nato a Pisa il 26 novembre 1920, combattente sul fronte africano, prigioniero di guerra nel "Fascists' Criminal Camp" di Hereford nel Texas. Appena tornato in Italia, il 27 settembre 1948, scrive una lettera-documento sulla lacerazione della sua generazione al suo vecchio amico Romano Bilenchi che in quegli anni, seguendo la strategia dell'attenzione togliattiana, si occupava sul "Nuovo Corriere" del dialogo con i fascisti. E l'amicizia tra Niccolai e Bilenchi durerà per tutta la vita. Da deputato missino, Niccolai non ebbe poi remore a elogiare il Vietnam vittorioso sull'imperialismo americano. Per molti anni stretto collaboratore di Giorgio Almirante, ne divenne il principale antagonista nei primi anni '80 quando ebbe il coraggio di «farsi del male» e di avviare una coraggiosa autocritica, che pretendeva da tutto il partito una riflessione altrettanto sincera. Niccolai sollecitava una rilettura degli errori compiuti nei confronti della contestazione giovanile, verso i nuovi fermenti culturali e, soprattutto, in tema di politica estera. «Beppe -ha ricordato Altero Matteoli- "scavava" nei personaggi che incontrava nella sua quotidiana lettura. E per ognuno esaltava la parte che lo aveva particolarmente colpito. Carlo Pisacane: lo affascinava la sua vicenda, la sua morte, il suo sacrificio. Nicolino Bombacci: Beppe era convinto che il fascismo, per il rivoluzionario romagnolo, fosse una rivoluzione da compiere. Berto Ricci: il carattere, il coraggio civile. E infine Italo Balbo: la morte ha colpito Beppe mentre "scavava" nella vita, nell'azione e nel pensiero del grande ferrarese». All'inizio degli anni '80, Niccolai trasforma Berto Ricci in una vera e propria "bandiera": e lo fa nel momento stesso in cui il MSI comincia a stargli sempre più stretto e l'esigenza di un rinnovamento lo porta a cercare, nel passato, un riferimento dalla grande capacità fascinatrice. E in questo percorso non può che incontrarsi, naturalmente, con alcuni giovani della generazione dei "fascisti in camicia rossa". Nel 1984 -e quella fu l'unica opposizione alla leadership almirantiana al quattordicesimo Congresso missino svoltosi a Roma- presenterà il documento "Segnali di vita", che verrà sottoscritto entusiasticamente dalle componenti giovanili e creative del partito. Nel 1985, in occasione della crisi di Sigonella, Niccolai fece approvare dal Comitato centrale del MSI un ordine del giorno di sostegno a Craxi, in nome dello "scatto" di orgoglio nazionale. D'altra parte, come spiegò dopo la sua morte lo stesso Tatarella in una riunione del Comitato centrale missino, Niccolai voleva fare del MSI una sorta di «laburismo nazionale»: era, insomma, un autentico uomo di sinistra e, in prospettiva, sognava una convergenza strategica tra il MSI e la sinistra italiana. Una posizione minoritaria, quella di Niccolai: quasi eretica, fortemente combattuta, ma in grado di pensare una politica capace di cogliere le onde lunghe della storia italiana. Nel 1987, resta memorabile il suo discorso al Congresso di Sorrento. Con cui, in nome di Nicolino Bombacci, invitava alla ricomposizione delle "scissioni socialiste". In quegli anni con la sua rivista "L'Eco della Versilia", sarà il punto di riferimento più forte per il dissenso interno e i tentativi di dialogo con l'esterno. E quando morirà a Pisa, il 31 ottobre del 1989, lascerà il testimone al suo collaboratore viareggino Antonio Carli. "L'Eco" cambierà nome trasformandosi in "Tabula Rasa". E intorno alla rivista si raccolgono Gianni Benvenuti e Pietrangelo Buttafuoco, Umberto Croppi e Beniamino Donnici, Vito Errico e Fabio Granata, Luciano Lanna e Peppe Nanni... Sono l'ultima covata di una vecchia tradizione. Che a tratti si profila con la forza di mito. E a tratti, invece, con l'instabilità di un'illusione ottica. Ma che ha avuto il pregio di non rimanere mai ristretta all'interno di un partito, e men che meno di una corrente. Sprigionando energie e intuizioni che hanno comunque influito sui percorsi politici e culturali di tutto il postfascismo. Luciano Lanna e Filippo Rossi da "Fascisti immaginari" Vallecchi, 2003
· Gli antifascisti radicali al tempo dell'accordo nazi-comunista del 23 agosto del 1939.
VITE E AMORI DEGLI ANTIFASCISTI RADICALI. Marcello Sorgi per la Stampa il 3 settembre 2019. Oltre a cogliere di sorpresa mezzo mondo, il 23 agosto del 1939, il Patto Molotov-Ribbentrop, dal nome dei due ministri degli Esteri russo e tedesco (rimasto più famoso il primo, anche per l' intitolazione a suo nome delle bottiglie incendiarie che molta fortuna ebbero, come armi improprie, dagli Anni Trenta della Guerra di Spagna al '68), lasciò annichiliti un gruppo di esuli antifascisti italiani, increduli di fronte all' accordo tra le due grandi dittature novecentesche che il primo settembre, otto giorni dopo, doveva accendere la miccia della Seconda guerra mondiale. Erano un gruppo di irriducibili, come li definisce, fin dal titolo, il libro della storica Mirella Serri (Gli irriducibili, in uscita giovedì per Longanesi, pp. 240, 19), che fin dall' avvento del fascismo, quando ancora molti che poi si sarebbero ribellati tardivamente indugiavano, avevano colto l' aspetto autoritario e violento del regime di Mussolini e si erano impegnati a contrastarlo con tutti i mezzi, una resistenza prima della Resistenza che pose fine all' occupazione nazista e all' avventura del Duce. Nati a cavallo tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento, educati quasi tutti in famiglie colte e borghesi, intellettuali, pensatori, filosofi, amanti della scrittura e dei giornali, i loro nomi, anche se con diversa evidenza, sono entrati nella storia, per conoscere successivamente un oblìo a cui il libro della Serri vuole rimediare: ricostruendone le vite romanzesche, lo sprezzo del pericolo, i sentimenti, l' amicizia, gli amori, le morti tragiche. Erano Giorgio Amendola (figlio del ministro liberale Giovanni, assassinato dai fascisti), leader per tutta la sua vita della «destra» comunista e maestro di Giorgio Napolitano, due volte Presidente della Repubblica. I fratelli Emilio, Enzo e Enrico Sereni, ebrei, ministro del governo De Gasperi nel dopoguerra il primo, morto a Dachau in campo di concentramento il secondo, mancato ancor giovane, forse suicida, il terzo. E poi Nadia Gallico, moglie di Velio Spano, tra le prime donne elette all' Assemblea Costituente, Ada Ascarelli, vedova di Enzo Sereni e grande organizzatrice della partenza verso Israele di oltre 25 mila ebrei a rischio di finire deportati, Giuseppe Di Vittorio, che sarà leader della Cgil, Ferruccio Besanson e Maurizio Valenzi, che diventerà sindaco di Napoli negli Anni Settanta, dopo un lungo periodo di emarginazione seguito all' esilio a Tunisi e al ritorno in patria grazie all' aiuto dei servizi segreti inglesi, Carlo e Nello Roselli, assassinati in Francia su mandato del regime fascista dopo la rocambolesca fuga del primo dal confino a Lipari. Erano militanti della sinistra clandestina, in maggior parte comunisti nel Pcd' I non ancora Pci, socialisti, repubblicani o di Giustizia e libertà. Gli anni duri dello stalinismo, con le accuse settarie di «socialfascismo» a chiunque non fosse sottomesso a Mosca, verranno a segnare dolorose divisioni tra loro, compreso il diffuso antisemitismo che finirà col separare anche Emilio Sereni dal fratello Enzo e dalla cognata Ada. Perché anche questo accadde, ci fu un tempo in cui i comunisti, per effetto della «guerra fredda» che gelò la pace in Europa, consideravano Churchill più o meno alla stregua di Hitler e diffidavano di chiunque tra i loro militanti avesse avuto a che fare con gli inglesi. Ma fermiamoci un momento a riflettere su cosa rappresentò, soprattutto per gli esuli a Parigi, ma non solo, l'avvento del patto nazi-sovietico e dell' inizio di una guerra che in quel momento sembrava orientata a concludersi con una spartizione dell' Europa tra le due dittature di Mosca e Berlino e con la cancellazione delle «vecchie» democrazie occidentali di Francia e Inghilterra. Il ritrovarsi, da un giorno all' altro, nemici nel paese che li aveva accolti, consentendogli piena libertà politica e di iniziativa nelle loro attività clandestine. La forzata obbedienza al diktat staliniano della diffidenza verso tutte le altre forme di antifascismo che non fossero quella della fede comunista. La rottura dell' unità nella lotta contro il regime fascista che per loro affondava le radici in un' educazione e una cultura comuni, maturate negli anni dell' adolescenza. La fine di tante amicizie. Su tutte, spicca la figura di Giorgio Amendola, «Giorgione», data la sua mole enorme (un gigante da 120 chili), il carattere gioviale, la passione per il buon cibo e gli abiti eleganti, le capacità di grande oratore, dirigente e organizzatore. Un uomo che anche nei momenti difficili, sapeva prendersi tempo per apprezzare, a Parigi, l' arte, la cultura, gli spettacoli, e forse lo faceva consapevole di rischiare la vita e ignorando se il giorno dopo avrebbe potuto farlo ancora. Eretico e insieme ortodosso con Mosca, implacabile nel confronto personale con chi era in disaccordo con lui (memorabili le discussioni con Di Vittorio nella redazione del giornale per gli emigrati in Francia La voce degli italiani), tenero nell' amore per la moglie Germaine, ma disponibile, per una notte, «con una cameriera che gli era entrata nel letto». Questo era Amendola. Serri ricostruisce le storie, descrive la vita quotidiana degli esuli con il passo di un romanzo e si addentra con fini indagini psicologiche nel carattere dei personaggi. Come ad esempio la coppia Enzo Sereni-Ada Ascarelli, riparati in un kibbutz ebreo in Palestina, esperienza pratica di una sorta di socialismo a lungo sognata e in realtà deludente, per l' esasperante privazione di qualsiasi bene personale e la messa in comune di tutto, perfino le scarpe! Tal che Enzo, senza che Ada riesca a trattenerlo, sentendosi soffocato dalle regole di vita della comunità e richiamato dal suo istinto rivoluzionario, decide di partire, farsi paracadutare nella campagna toscana e finisce prigioniero dei tedeschi e poi in campo di concentramento a Dachau, dove verrà torturato e condannato a morte. Come tutti gli esuli, gli irriducibili sopravvissuti, alla fine della guerra, torneranno a casa. Ma l' accoglienza, da parte del partito «nuovo» togliattiano che si è già affidato a una nuova generazione, non sarà quella che si aspettano. Un' amarezza in più, che si aggiunge alle molte della, come la chiamavano, «generazione delle vite difficili».
Dagospia il 22 ottobre 2019. Estratto dal libro di Mirella Serri, “Gli irriducibili. I giovani ribelli che sfidarono Mussolini”, edito da Longanesi, che sarà presentato lunedì 28 ottobre al Museo Ebraico di Roma (Via Catalana/Largo XVI ottobre). Amendola, dopo aver perso di vista il velenoso corteo dei reduci di guerra e di membri delle SA che sventolava bandiere rosse e nere con croci e aquile, decise che per qualche ora avrebbe messo da parte ogni preoccupazione. La sua prima meta a Berlino fu il Romanisches Cafè, dove due fanciulle dagli occhi pesantemente bistrati e in smoking di lame´ rosso lo scortarono a un tavolo. Un giovanotto, con indosso un logoro abito da sera, batteva malinconico sui tasti di un pianoforte, due poliziotti sostavano fuori dalla porta. Si temevano risse e incursioni dei nazisti. Il locale di recente era stato al centro del pubblico dibattito: era stato messo sotto accusa da Joseph Goebbels, futuro ministro della Propaganda nazista, che lo aveva definito un luogo infrequentabile e malsano, affollato da « ebrei e comunisti », dove avvenenti ragazze dalle spalle scoperte e l’intellighenzia radicale ascoltavano la musica dei « negri ». Giorgio, dopo aver consumato uno schnaps e una bistecca, trasloco` in un altro « fumoso cabaret, regno dei travestiti dal volto di gesso ». Avevano un « trucco violento », « occhi pesti e ciglia blu, guance vermiglie e bocche in tinta spalancate e sguardi ammiccanti». Era attirato dalla prospettiva di una compagnia femminile. Assomigliava a suo padre, Giovanni Amendola che quando faceva campagna nel suo collegio elettorale nel salernitano, collezionava un bel numero di cuori infranti. Stanco per il viaggio e per la giornata che gli aveva riservato molte sorprese, Giorgio si convinse però che era bene non violare alcuna norma cospirativa e ritirarsi da solo nell’hotel. E si ficcò subito sotto le coperte. Non si aspettava di sentir bussare alla porta. Si presentò «una giovanissima e bella cameriera che, senza essere stata invitata, si tolse la vestaglia ed entrò tutta nuda nel letto. Non seppi opporre un rifiuto alla focosa e intraprendente ragazza che la mattina seguente accolse con gratitudine i pochi marchi che nemmeno mi aveva chiesto ». Amendola dopo averla salutata si pentì di avere infranto le regole della clandestinità. Era più forte di lui, non riusciva a essere rispettoso della disciplina di partito. E per questo era stato pesantemente criticato e rimbrottato. Rientrando a Parigi dopo una missione in Italia, non molto tempo prima del viaggio a Berlino, aveva trovato ad attenderlo oltre all’amministratore del Partito, pure Togliatti che, indispettito, sorseggiava un caffè senza zucchero. Altrettanto amari furono i rimproveri per il fatto che sul treno Como-Zurigo « avevo preso un biglietto di seconda classe » e non « uno di terza classe ». « Il passaporto ti indica come studente », commentò acidamente il compagno Ercoli, « un universitario viaggia abitualmente in terza classe. ». Togliatti continuò anche in altre riunioni a rimbrottarlo per le abitudini spendaccione. Non era comunque l’unico attivista a trasgredire: nelle note spese dei compagni in trasferta non mancavano le parti comiche: «L’uomo non é di legno, scrisse un compagno per giustificare la visita in un bordello», racconta Giorgio, « e fu aspramente criticato per l’evidente errore cospirativo, dal momento che i casini erano molto sorvegliati ». Ripensando all’avventura della sera precedente, comunque Amendola alla fine decise di fidarsi del suo intuito. La ragazzina che si era infilata sotto le coperte non era una spia”.
· Il Fascismo in Italia era l’equivalente del Comunismo in Russia.
Giampiero Mughini per Dagospia il 25 novembre 2019. Caro Dago, succede che stamane poco prima di uscire per andare a comprare i giornali mi arrivi un pacchetto dalla raffinatissima De Piante Editore con dentro un librino – che avevo appena ordinato – di lettere (dal 1925 al 1927) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa al suo amico genovese Massimo Erede dal titolo “Ah! Mussolini!”. Lettere sino a questo momento inedite in italiano. Sono andato a comprare i giornali, sono tornato a casa, ho deposto i giornali e ho subito afferrato il librino di Tomasi di Lampedusa nella convinzione – in me fortissima – che persino uno sbadiglio del grande scrittore siciliano sia mille volte più interessante di quel che si sono detti o si diranno Beppe Grillo e Nicola Zingaretti. E poi quel titolo, di cui non era difficile afferrare da subito la valenza. E’ una riga che sta in una lettera all’amico del 25 luglio 1925, quando lo scrittore siciliano ha 29 anni. E’ un tempo di suoi grandi viaggi in giro per l’Europa. Nel maggio di quel 1925 è appena stato a Londra. Da Parigi ecco cosa scrive all’amico: “Parigi delizioso. Ma in istato di bolscevismo latente. Sembra l’Italia del ’19. Stamane un corteo comunista è sfilato nel quartiere delle banche, mentre esigevo un modesto ‘cheque’. Con grida di abbasso, minacce e pietre. Ah! Mussolini!”. Poche righe che valgono più di un intero libro. A leggerle ne sarebbe stato confortato l’ex comunista Angelo Tasca, autore nel secondo dopoguerra del mirabile “Nascita e avvento del fascismo”, cioè del migliore studio sui perché della vittoria del fascismo. Diciamocelo francamente tra noi, che siamo persone per bene. Chi di noi a leggere oggi quelle righe si trova più attiguo al corteo con grida e minacce che non all’esclamazione datata 1925 di un borghese medio a favore dell’uomo che prometteva di assicurare l’Ordine? Nel 1925 chi aveva più ragioni nl campo della politica – ossia non del Meglio in Assoluto, bensì in quello del Possibile –, il corteo con le minacce e le pietre o l’Uomo che voleva placare una tempesta sociale? Badate bene, nessun equivoco possibile. In una nota allo squisito librino di cui sto dicendo Gioacchino Lanza Tomasi, il figlio adottivo di Tomasi di Lampedusa, scrive e documenta che già a metà degli anni Trenta l’autore del “Gattopardo” aveva radicalmente cambiato opinione sul fascismo e sulla sua dittatura. E comunque esattamente come avevo previsto, il librino è delizioso dalla prima riga all’ultima. E quando penso alle lettere che Tomasi scrisse e ricevette penso a quell’ultima lettera rimasta sul comodino della clinica romana in cui stava morendo. La lettera in cui Elio Vittorini gli scrisse che no, che loro “Il Gattopardo” non lo volevano pubblicare. Quel libro di cui in Italia sono poi state fatte poco meno di 200 edizioni.
PER L'ITALIA IL FASCISMO ERA L'EQUIVALENTE DEL COMUNISMO PER LA RUSSIA. Giuseppe Scaraffia per “il Venerdì - la Repubblica” il 24 giugno 2019. “Ti porterò a cena in un posto curioso, dove ognuno si serve da sé. Cucina internazionale. Forse ci troverai anche lo ci, anche se immagino che tu dei cavoli ne abbia fin sopra i capelli!», aveva annunciato Elsa Triolet a Vladimir Majakovskij nel giugno 1925. Il locale era un ristorante costoso, Voisin, al 261, rue du Faubourg Saint-Honoré, celebre per avere servito la sera di Natale 1870, durante la carestia della Comune di Parigi, un menu con il lupo, l' elefante, l' antilope e il cammello provenienti dal giardino zoologico. Era stata Elsa, 29 anni, a riconoscere Filippo Tommaso Marinetti, 49, mentre stava firmando autografi agli ammiratori, seduto vicino al pittore futurista Fillia a una delle tante manifestazioni dell' Exposition Internationale des Arts décoratifs et industriels modernes. I due poeti non si vedevano dal 1914, quando l' italiano era andato in tournée in Russia per mettere in collegamento i futuristi delle due nazioni. Ma, ipotizza Gino Agnese nel suo penetrante libro Marinetti-Majakovskij. 1925. I segreti di un incontro (Rubbettino), forse non si trattava solo di una rimpatriata tra avanguardisti ormai affermati. Forse il russo sperava di recuperare l' italiano, deluso dal fascismo quanto lui dal comunismo. Forse l' incontro era stato caldeggiato dai potenti servizi segreti sovietici. Non era stato facile trovare una data per quella cena. Il russo infatti era finalmente riuscito a ottenere un visto per l' America. I grattacieli e la modernità degli Stati Uniti lo attraevano irresistibilmente, anche se l' assenza di rapporti tra gli States e l' Urss l' avrebbe costretto a passare per il Messico. Marinetti era alto, ma sembrava piccolo vicino al gigantesco Vladimir Majakovskij. I grandi occhi chiari della minuta, graziosissima Elsa nascondevano la determinazione con cui avrebbe scalato la vita culturale francese. In quei giorni però era solo un' esule dall' Urss e soprattutto la sorella dell' amante in carica di Majakovskij, Lili Brik. Estremamente realista, Elsa aveva saputo dimenticare che Lili le aveva rubato Vladimir, con cui aveva mantenuto un' amorosa amicizia. Era lei che lo accompagnava in uno dei più lussuosi negozi di Parigi, "Old England", dove il rivoluzionario comprava valigie speciali per i suoi giri di conferenze, nonché camicie, cravatte, calzini e persino una doccia da viaggio. Majakovskij, trentadue anni, aveva l' ossessione della pulizia. Nei caffè beveva da una cannuccia per non toccare il bicchiere con le labbra, e aveva con sé un portasapone per lavarsi dopo avere stretto la mano di qualcuno. Entrambi erano calvi, l' italiano da sempre, il russo per libera scelta. Visti da lontano, in quella cornice lussuosa, potevano facilmente essere scambiati per dei normali borghesi. Marinetti non esibiva più con fierezza patriottica un calzino verde e uno rosso, preferendo ormai la sobrietà che consigliava ai futuristi: «Vestire un abito anonimo, possibilmente di sera uno smoking. Niente fiori all' occhiello, niente guanti». Majakovskij non era più il dandy in cilindro e camicia gialla di dieci anni prima. Gli scarponi chiodati da mugik, che l' avevano fatto soprannominare da Marina Cvetaeva l'«arcangelo dal passo pesante», erano stati sostituiti da morbide calzature. Un dandy francese, ex-marito di Elsa, gli aveva consigliato un sarto a cui Vladimir mandava disegni per abiti che avrebbero dovuto correggere i suoi difetti. Voisin offriva vini pregiati e non erano più i tempi in cui, a Mosca, Marinetti aveva dovuto dimostrare ai futuristi russi che anche nel bere gli avanguardisti italiani potevano primeggiare, vuotando quattro bottiglie una dopo l' altra. Sicuramente non si sarebbe abbandonato a "gioie futuriste", distruggendo i piatti come al matrimonio di Gino Severini. Ma anche i dialoghi sembravano avere smarrito la loro spontaneità. Il russo aveva con sé un questionario in francese, per fronteggiare l' eloquenza torrenziale dell' italiano. Erano nove punti destinati a mettere in luce le contraddizioni tra il passato eversivo del futurismo e il suo crescente inserimento nei meccanismi di potere del nuovo regime. Ma il tono burocratico del testo non poteva piacere a Majakovskij, anche se probabilmente ne condivideva la sostanza. Tra gli atti d' accusa della "velina" c' era una nota di speranza. «È vero che nel presentare la vostra esposizione alla "Scuola di cultura proletaria" di Milano avete dichiarato che i proletari comprendono il futurismo meglio dei borghesi d' Italia?». Per poi stringere: «Non vi pare che da questa frase si dovrebbe concludere: l' organizzazione borghese è un ostacolo allo sviluppo della civiltà?». Baffi elettrici, voce rauca, occhi mobilissimi, "Effetì", come si faceva chiamare, cercò di persuadere il riluttante Majakovskij che per l' Italia il fascismo era l' equivalente del comunismo per la Russia, senza riuscirci. Prima di separarsi, Marinetti scrisse sul taccuino di Vladimir: «Al caro Majakovskij e alla grande Russia - energica e ottimista- i miei auguri futuristi». Per poi aggiungere sulla pagina seguente: «Al grande spirito innovatore che anima la Russia: non si esaurirà! La nostra anima futurista italiana non si fermerà». Quando, anni dopo, Vittorio Strada rievocò quella cena con Lili Brik, azzardando che doveva esserci un motivo se i due futuristi avevano aderito al totalitarismo, lei si limitò a rispondergli: «Erano due rivoluzionari».
· Il Cinema e la dittatura.
Da Mussolini a Stalin. Quando la dittatura è un "bellissimo" film...Uno studio sul rapporto tra controllo delle masse e storia del cinema nei regimi del Novecento. Claudio Siniscalchi, Martedì 16/07/2019, su Il Giornale. Lo scrittore russo Maksim Gor'kij è uno dei primi spettatori a raccontare, nel 1896, cosa si prova in una sala buia davanti allo scorrimento delle immagini: «sono stato ieri nel regno delle ombre». Resta però scettico sul valore artistico del cinematografo. La nuova invenzione conduce lo spettatore per mano «nel regno delle ombre», lo rende dipendente dalle immagini, gli «logora i nervi», ottunde la sua sensibilità. Quando Lenin prende il potere l'unico sostegno autentico al nuovo corso arriva dal frastagliato universo avanguardista. Fra gli scrittori famosi il solo Gor'kij collabora con i bolscevichi, spesso però con toni assai critici, che Lenin preferisce ignorare. Sul cinema Lenin e Gor'kij hanno idee abbastanza simili. Ma Lenin è un tattico. Piega il pensiero alle esigenze storiche. Infatti, il fido collaboratore Anatolij Lunacharskij che a differenza del capo credeva senza riserve nel potere educativo e artistico del cinema riporta un suo giudizio che è diventato celebre: il cinema è «la più importante forma d'arte dell'epoca contemporanea». La «settima arte» dunque, per il leader bolscevico, rappresenta uno strumento decisivo ai fini della comunicazione nella moderna società, oltreché un'arma efficace da utilizzare nella contesa ideologica. Alle proiezioni ufficiali Lenin come ricorda la moglie Nadeda Krupskaja era piuttosto impaziente e non vedeva l'ora di tornare a casa per immergersi nella lettura. Invece Lev Trockij è di altro avviso: ritiene il cinema «il miglior strumento della propaganda», in grado di contrastare efficacemente il monopolio anestetico della vodka sulla popolazione. Lo scrive in un articolo apparso sulla Pravda il 12 luglio 1924. Il cinema per Trockij «compete non soltanto con la taverna ma anche con la chiesa. E questa competizione può rivelarsi fatale per la chiesa se noi realizzeremo la separazione della chiesa dallo Stato socialista fondendo lo Stato socialista con il cinema». Anche Stalin, grande appassionato di cinema, sempre nel 1924 assegna al film la funzione di importante «strumento di agitazione delle masse». Quando prenderà il potere, senza più avversari, si servirà delle immagini di finzione per rendere popolare il suo «mito». Ricorrerà ad un sosia: Mikheil Gelovani. Gli piaceva molto la sua recitazione, soprattutto per l'interpretazione nell'eroico La caduta di Berlino (1949) di Michail Ciaureli. Alla fine della proiezione privata al Cremlino c'è chi lo vide con il fazzoletto in mano asciugarsi una lacrima. Sapeva anche come adulare o ammansire i registi indisciplinati. Al grande Sergej Ejzentejn dopo la visione di Alexandr Nevskij (1938), battendogli la mano sulla spalla gli disse: «dopo tutto, sei un buon bolscevico!». Lo fece sudare freddo quando nel 1946 lo convocò di notte al Cremlino per discutere dei difetti della seconda parte di Ivan il Terribile.
Questa e tante altre informazioni si trovano nel bel libro di Peter Demetz Diktatoren im Kino. Lenin - Mussolini - Hitler - Goebbels - Stalin (Paul Zsolnay Verlag, pagg. 254, euro 24). Demetz, nato a Praga nel 1922, è un germanista che ha insegnato a Yale, ha scritto di Kafka e D'Annunzio. In questo suo essenziale ma acuto ritratto del rapporto fra i dittatori e il cinema, evidenzia soprattutto un elemento: senza le immagini le dittature novecentesche avrebbero avuto un altro volto.
Adolf Hitler era un grande appassionato di cinema. Prima della guerra tutte le sere dopo cena, salvo impegni istituzionali, assiste ad una proiezione presso il Palazzo della Cancelleria a Berlino, o, quando è in vacanza, nella sala del ricevimento al Berghof. Il cinema per Hitler è una vera e propria «ossessione». Vede volentieri le comiche con Stan Laurel e Oliver Hardy. Il suo film preferito è Viva Villa! (1934), biografia di produzione americana dedicata al rivoluzionario messicano Pancho Villa, diretta da Jack Conway e Howard Hawks. Il Führer indica quali film vuole vedere. Appena si spengono le luci smette di parlare. L'universo cinematografico per Hitler si divide in tre categorie: i buoni film, i brutti film, i film la cui visione va interrotta in corso d'opera, anche dopo pochi minuti. Nella finzione delle immagini, ricorda il suo stretto collaboratore Otto Dietrich, «trovava quel contatto con il mondo umano che gli mancava completamente nella vita». Joseph Goebbels il cinema lo ha amato durante gli anni di Weimar, e condotto con mano ferma durante il Terzo Reich. Si è guadagnato sul campo il titolo di «stallone di Babelsberg». Quando si tratta di assegnare il ruolo di una protagonista, l'ultima parola spetta a lui. Fatto incontestabile, che ha alimentato senza sosta una «vulgata» non rispecchiante la portata del suo operato. Rischia di mandare in frantumi la sua carriera per amore di un'attrice, la cecoslovacca Lída Baarová. Il ministro ha conosciuto la ragazza, ventunenne, nel 1936. I due non fanno nulla per nascondersi. Goebbels vorrebbe addirittura divorziare dalla moglie Magda. Hitler, loro testimone di nozze, da sempre venera Magda. Il Führer non approva il divorzio. L'attrice di fatto viene esiliata. I gusti cinematografici di Goebbels sono diversi da quelli di Hitler. Il suo film preferito è Via col vento (1939) di Victor Fleming. Il cinema che realizzava, spesso finanziandolo senza riserve, doveva essere di ottima qualità, necessaria a celare la propaganda, che doveva rimanere impercettibile. Anche durante la guerra il suo modello di riferimento è un film statunitense: La signora Miniver (1942) di William Wyler. Annota nel diario: «gli americani hanno un modo magistrale nel trasformare dettagli marginali in autentici ornamenti artistici. Mai una sola volta i personaggi manifestano la loro collera contro la Germania. Mostrerò questo film ai nostri produttori».
Il cinema è la modernità. L'avanguardia futurista idolatra il cinema, innalzandolo ad arte nuova, modernissima. E il totalitarismo è il frutto avvelenato della modernità. Mussolini, nella costruzione dell'uomo nuovo fascista, assegna al cinema la funzione di «arma più forte». A due uomini fidati viene dato il compito di organizzare il settore: Luciano De Feo per ciò che riguarda la documentaristica e Luigi Freddi per l'industria del divertimento. Il Duce si riconosce nel documentario nei panni dell'eclettico sportivo che cavalca, nuota, scia e tira calci al pallone. Si riconosce un po' meno in Annibale Ninchi di Scipione l'Africano (1937) di Carmine Gallone, kolossal fascista che fa rivivere gli antichi fasti romani. Insomma, per concludere, i dittatori al cinema hanno chiesto e dato molto. Hanno capito che più della radio, del teatro e della letteratura, le immagini sarebbero state il vero perno per mantenere vivo il consenso popolare.
Quando Truffaut era di destra e stroncava i film ideologici. Vicino agli Ussari, il futuro regista firmò recensioni di fuoco. Ora in un volume. Claudio Siniscalchi, Domenica 18/08/2019 su Il Giornale. Nel novembre del 1955 un giovane e furioso critico cinematografico di successo, François Truffaut, decide di incontrare un vecchio collega (così si autodefinisce), Lucien Rebatet. Truffaut ha 23 anni e sale le scale di corsa. Rebatet ne ha 52, ed è infiacchito, nel corpo come nel morale. I due pranzano lungo la Senna, a bordo di un bateau-mouche. Rebatet, più conosciuto per lo pseudonimo di François Vinneuil, dal 1930 ha scritto di cinema per L'action française (sino al 1939) e, a partire dal 1935, per il settimanale Je suis partout. Nel 1941 ha pubblicato un odioso pamphlet, nel quale denuncia la «grande invasione» degli ebrei nel cinema e nel teatro francesi. L'anno successivo è diventato una celebrità con un voluminoso atto di accusa della Francia del Fronte popolare e di Vichy, Les décombres. Convinto sostenitore dell'alleanza franco-germanica, oltreché aggressivo antisemita, Rebatet per questi motivi viene condannato a morte nel 1946 (pena mutata nel 1947 con il carcere a vita). Dal 1952 vive in libertà. Ma è un reietto. Le patrie lettere lo hanno rifiutato, nonostante Les deux étendards, uscito in due volumi da Gallimard nel 1951. François Mitterrand, parlando di questo sterminato romanzo d'amore e metafisica, ha affermato che il mondo si divide in due: chi lo ha letto e chi non lo ha letto. Truffaut, il «giovane amatore», ha deciso di incontrare il «vecchio critico», sfidando le convenzioni. L'idea di provocare, di scandalizzare, è un tratto essenziale della personalità di Truffaut. Ma c'è qualcosa di più profondo a suggellare l'incontro. Rebatet, piaccia o meno, appartiene ad una delle maggiori tradizioni anticonformiste della cultura francese, che parte con Charles Maurras e arriva agli Hussards. E, a tutti gli effetti, Truffaut è il capofila della critica cinematografica Hussards. Si è da poco imposto nel palcoscenico francese con uno scritto esplosivo, dal titolo Une certaine tendance du cinéma français, uscito nel primo fascicolo del 1954 sulla rivista mensile Cahiers du cinéma. È «un attacco alla baionetta», nel quale Truffaut riscrive la storia del cinema francese. Se il prodotto nazionale è diventato così scadente e ripetitivo, la colpa è di registi per nulla coraggiosi e sceneggiatori impegnati a «inventare senza tradire», che privilegiano la parola sull'elemento visivo. Il regista alla fine si riduce ad una presenza insignificante: un prestatore d'opera, pagato per realizzare soltanto belle inquadrature. Truffaut ha l'idea geniale di riadattare, alla metà degli anni Cinquanta, la querelle già proposta dagli scrittori romantici del XIX secolo, tra «antichi» e «moderni». Per il «Rimbaud della critica» la polemica rappresenta quasi una «esigenza morale». Ma ha bisogno di una tribuna adatta per diventare lo «stroncatore del cinema francese», l'uomo più odiato di Parigi, una sorta di terrorista in perenne movimento. La tribuna adatta per far esplodere il talento di Truffaut è Arts, la vetrina settimanale degli Hussards, fondata nel 1952. Nel 1954 il nuovo direttore è Jacques Laurent, a caccia di giovani talenti anticonformisti da gettare nella mischia. Se Breton è il papa del surrealismo e Sartre dell'esistenzialismo, Laurent lo è degli Hussards. Apre le porte della rivista agli scrittori emarginati dopo la Liberazione: Jacques Chardonne, Paul Morand, Marcel Jouhandeau, Marcel Aymé, Henry de Montherlant. E allo stesso tempo promuove i nuovi scrittori ostili all'impegno politico a sinistra: Roger Nimier, Michel Déon, Antoine Blondin. Il termine Hussard (ussaro, militare) è mutuato dal romanzo di Roger Nimier Le hussard bleu (1950). Sul piano letterario gli Hussards si oppongono alla «dittatura sartriana». La letteratura, come la intende il filosofo diventato intellettuale mediatico, viene mescolata all'impegno politico (marxista) e metafisico (esistenzialista). Ad aprire il fuoco contro gli Hussards è Les temps modernes. La testata di Sartre analizza in un ampio saggio del 1952 il risveglio intellettuale fascista. Il seguito degli Hussards, turbolenti reazionari, è un segno preoccupante: «Come tutti i fascisti scrive Bernard Frank detestano discussione, lungaggini, idee». Truffaut collabora con il settimanale dal febbraio 1954 al dicembre 1958, scrivendo 460 articoli, raccolti da Gallimard in Chroniques d'Arts-Spectacle 1954-1958 (528 pagine, 24 euro). Per chi vuole comprendere la cultura francese, non solo cinematografica, degli anni Cinquanta del XX secolo, ritenuta erroneamente dominata da Sartre e dai suoi imitatori, un vuoto viene riempito. Di Truffaut sono stati celebrati soprattutto gli scritti apparsi sui Cahiers du cinéma. Su quelli di Arts si è preferito sorvolare, altrimenti l'icona dell'artista di sinistra che nel 1968 fa chiudere il Festival di Cannes e nel 1960 firma il Manifeste des 121 in favore dei soldati disertori in Algeria ne esce sporcata. La collaborazione con Arts iscrive di diritto il giovane critico nel panorama della destra letteraria. Gli avversari etichettano Truffaut come fascista, disimpegnato, provocatore di destra. Il suo stile nervoso e aggressivo esalta il cinema francese degli amati Jean Renoir, Sacha Guitry, Max Ophuls, Robert Bresson. Detesta senza mezzi termini Jean Delannoy e Claude Autant-Lara. Difende Roberto Rossellini. Refrattario ad ogni messaggio ideologico, alle produzioni sovietiche preferisce i film americani, anche di serie B. Sostiene i giovani registi Alain Resnais, Agnès Varda e soprattutto Roger Vadim. Quando nel dicembre 1956 esce Et Dieu créa la femme è fra i pochi a difenderlo. Brigitte Bardot gli appare magnifica, in un film tipico «della nostra generazione perché è amorale (in quanto rifiuta la morale corrente e non ne propone nessuna altra) e puritano (in quanto è cosciente di questa amoralità e se ne inquieta)». Unico neo di questa splendida pubblicazione è la nota introduttiva di Barnard Bastide, un lungo esercizio di equilibrismo per non affrontare il vero nodo della raccolta. François Truffaut dalle colonne di Arts edificò, mattone dopo mattone, una critica di destra estrema o meno poco importa della cinematografia corrente, di grande qualità stilistica, lontana dalle mode imperanti. Ma da un libro non si può avere tutto.
· Geni in Fuga.
GENI IN FUGA. Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica” il 14 maggio 2019. Thomas Mann lo chiamava "l' asma del cuore". È il dolore dell' esilio, il destino che colpì innumerevoli ebrei e oppositori del regime costretti dai nazisti a scappare, ad abbandonare i loro Paesi d' origine. Secondo alcune stime, si trattò di mezzo milione di persone - 360mila tedeschi, 140mila austriaci. C' è ormai un' ampia letteratura su Marlene Dietrich e Billy Wilder e la Hollywood dei tedeschi e degli austriaci. O sulla colonia dei Brecht, dei Mann, dei Feuchtwanger e degli Adorno che trascorsero il dodicennio più buio della storia tedesca sulla costa californiana, tra Pacific Palisades e Santa Monica. E tra quelle centinaia di migliaia di esuli, fuggiti non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo, ci sono ovviamente geni come Walter Gropius, Hannah Arendt, Hedy Lamarr, Albert Einstein o Siegmund Freud. In Germania, Paese attentissimo alla memoria storica e soprattutto alla ricostruzione dei crimini del nazismo, mancava finora un museo dedicato all'"asma del cuore", alle sofferenze e alle vite gli esuli - come dimenticare Stefan Zweig che si tolse la vita all' estero o Willy Brandt che fu meschinamente accusato di aver trascorso gli anni del nazismo in Norvegia. E così la capitale che più di ogni altra è abituata a mostrare al mondo le cicatrici del Novecento, Berlino, ha deciso di dedicare finalmente un museo a questo importante pezzo di storia tedesca e austriaca. La scintilla è una lettera del 2011 di un' illustre esule, il Nobel della letteratura Herta Mueller, ad Angela Merkel. Allora la scrittrice scappata a Berlino trent' anni fa dalla Romania di Ceaucescu, scrisse alla cancelliera che «in nessun luogo di questo Paese esiste un posto che possa spiegare il significato dell' esilio attraverso il racconto di singoli destini. I pericoli della fuga, la vita sofferta nell' esilio, l' estraneità, la paura e la nostalgia di casa». Secondo la grande scrittrice cresciuta nella minoranza tedesca in Romania, «un Museo dell' Esilio potrebbe aiutare i giovani a capirne il significato. Sarebbe un esercizio di educazione alla partecipazione». Entro il 2025 i terreni intorno all' Anhalter Bahnhof, la vecchia stazione sud di Berlino da cui partivano i treni per l' estero ma anche quelli per Auschwitz, ospiterà 4.000 metri quadri di video e documenti, comprese interviste che gli organizzatori stanno svolgendo in questi mesi agli esuli ancora vivi. Finora al progetto per un Museo dell' Esilio si sono messi a lavorare a testa bassa soprattutto i privati. Il fondatore della casa d' aste Villa Grisebach, Bernd Schultz, che lo ritiene «un progetto del cuore» e ha già investito sei milioni di euro per avviare la fondazione. E la squadra che si è buttata a capofitto nel progetto, e che, a parte Schultz, conta altri cervelli illustri. C'è l' ex direttore del meraviglioso museo della Storia tedesca ed ex assessore alla Cultura della capitale, Christoph Stoelzl e le note curatrici Meike-Marie Thiele e Cornelia Vossen. Schultz ha raccontato al quotidiano Tagesspiegel che dal 1965 colleziona arte e che «in centinaia di viaggi a New York, in California, a Londra e ovunque nel mondo ho incontrato esuli, le loro collezioni, le loro perdite, i loro destini - e il debito che abbiamo nei loro confronti. L' esilio fa parte della memoria collettiva di questo Paese. Chi può ricordare al giorno d' oggi, ad esempio, che Lucian Freud era nato a Berlino?».
· 1919, cent'anni fa nasceva il Nazismo.
1919, cent'anni fa nasceva il Nazismo. In una Germania prostrata dalla sconfitta nella prima Guerra Mondiale nasceva il partito che predicava la riscossa nazionalista. Lorenzo Del Boca il 25 luglio 2019. Nel marasma provocato dalla fine del Primo confitto mondiale che aveva lasciato sul campo decine di milioni di morti e almeno cento di milioni di affamati, in una Monaco di Baviera devastata dalla miseria nacque il «partito tedesco dei lavoratori» (Deutsche Arbeiterpartei). Era il gennaio 1919 anche se quella è la data di registrazione burocratica. Per presentare il nuovo raggruppamento furono necessari altri sei mesi: 12 luglio. I soci fondatori fecero leva sul sentimento nazionalista: se la Germania era accerchiata da politiche che miravano a strangolarla, occorreva reagire, facendo leva sull’orgoglio dei cittadini per costruire le occasioni di rivincita. Progetto ambizioso e, a quel momento, velleitario. A distanze di un secolo, il Partito dei lavoratori sarebbe inghiottito in una piega della storia se, fra gli aderenti, non fosse spuntato Adolf Hitler che, di quelle istanze, s’impadronì, le trasformò e, con le opportune modifiche, le catapultò nel Secondo conflitto mondiale. Ad avviare quel movimento provvide Anton Drexler, metalmeccanico, a Berlino, in una fabbrica di locomotive e poi fabbro, a Monaco, nell’azienda statale delle ferrovie tedesche. Alla vigilia della Prima guerra mondiale fu esonerato dal servizio militare ma partecipò alla «costruzione della coscienza bellica» sostenendo i movimenti interventisti. Gli orrori della guerra non gli fecero cambiare idea. Continuò a ritenere che la Germania dovesse riprendersi il posto perduto. E, poiché le sconfitte vanno sempre attribuite a qualcun altro, individuò nei banchieri, negli ebrei e nei comunisti i responsabili del complotto che aveva fatto sprofondare il suo Paese. Con lui il giornalista Karl Harren e gli attivisti di ispirazione socialista Gottfried Feder e Dietrich Eckart. Le forze armate tedesche, alle prese con la difficile transizione dopo la sconfitta nella recente guerra, temettero che quel piccolo partito potesse diventare un pericolo. Le tesi oltranziste sollecitavano i sentimenti più autentici della gente e li spingevano a desiderare la rivincita. Pericoloso per uno Stato ancora troppo traballante cui serviva un periodo di tranquillità per rimettersi in piedi. Gli ufficiali incaricarono un loro caporale - Adolf Hitler - di infiltrarsi fra gli iscritti, indagare segretamente e riferire. Esito scoraggiante (per lo Stato maggiore). Perché Hitler, altro che sorvegliare, rimase affascinato dalle idee di quel nuovo partito, intervenne nel corso dell’assemblea e gli iscritti rimasero, a loro volta, sedotti dalla capacità oratorie di quel piccolo uomo. Il feeling portò Hitler a iscriversi con tessera «numero 55». Drexler lo inserì subito nel comitato direttivo del partito assegnandogli le deleghe per la propaganda. Gli bastarono pochi mesi per impadronirsi dell’intero movimento diventandone il punto di riferimento. Modificò il nome in «Nationalsozialische Deutsche Areitpartei», partito tedesco nazionalsocialista dei lavoratori. E, quando si accorse che era troppo lungo, abbreviò in «nazionalsocialismo». Drexler fu emarginato e finì per accontentarsi della carica di presidente «onorario», senza poteri reali e nessun incarico di rappresentanza. Periodicamente lo esibirono, ma solo come strumento di propaganda. Nel 1934 gli conferirono una medaglia d’oro, ma già nel 1937 era del tutto dimenticato (fino al 1942, anno della morte, quando il nazionalsocialismo sembrava ancora padrone del mondo). Per Hitler, invece, quel partito (al momento minuscolo) rappresentò un trampolino di lancio per dare l’assalto alla Cancelleria della Germania. Le idee originarie del partito e le sue si trovavano sulla stessa lunghezza d’onda. Occorreva boicottare il trattato di pace firmato a Versailles che rappresentava un autentico accanimento contro la Germania. I redditi andavano redistribuiti e gli operai avrebbero dovuto partecipare agli utili delle grandi aziende. Bisognava nazionalizzare quelle strategiche, aumentare le pensioni, assicurare dei privilegi ai tedeschi e negarli agli altri. Agli ebrei doveva essere negata la cittadinanza. Stupisce che questo programma si scontrasse con la stessa biografia del suo leader. Questo campione della leadership tedesca era, in realtà, austriaco. Nacque il sabato di Pasqua del 1889, a Braunau, in un palazzotto di tre piani che ospitava la Locanda del Pomerano, gli uffici della dogana e qualche stanzetta per abitazioni civili. A dispetto del suo antisemitismo esasperato e del culto della razza pura, qualcuno sostenne che le sue origini furono ebraiche o, nella migliore delle ipotesi, slave. Per questo, Hitler vivente, vennero accuratamente nascosti i dettagli della sua infanzia. Che non dovette essere facile. Il padre si chiamava Alois ed era un impiegato dello Stato, anche se le sue preferenze, più che al lavoro, andarono al vino e alle ragazze della città. Si sposò tre volte. Ebbe un figlio e una figlia dal secondo matrimonio. Adolf gli nacque dalla terza moglie. In casa, effetto di troppi bicchieri tracannati all’osteria, furono calci nel sedere, a ripetizione, per un minimo ritardo nell’ubbidire ai suoi ordini. Il giovane Hitler studiò a Linz dove la famiglia si trasferì. Tentò di entrare nell’Accademia delle belle arti di Vienna, ma la sua prova di ammissione fu considerata insufficiente. Campò di espedienti. I suoi coetanei raccontarono che dormì negli ostelli pubblici, ottenne qualche spicciolo disegnando cartelloni pubblicitari e si adattò a eseguire consegne da fattorino. Anche qui, corsi e ricorsi storici, per contrappasso, gli unici che lo aiutarono a non morire di fame furono due famiglie di ebrei e Reinhold Hanisch che era ceco d’origine. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, lui, austriaco, chiese di essere arruolato volontario nell’esercito tedesco dove la guerra la fece per davvero e con un’abnegazione non abituale. Non ritirò le sigarette e la razione di vino, non chiese licenze, non si lamentò dei pidocchi e accettò le sofferenze della prima linea, affondato nel fango della trincea. Proprio la sconfitta della Germania e le condizioni di pace vessatorie che vennero imposte provocarono una crisi economica di proporzioni bibliche e, per conseguenza, montò un’incontrollabile voglia di rivincita. All’orgoglio ferito della sua gente, Hitler offrì una cornice ideologica, capace di rispondere alle esigenze nazionaliste. Non semplicissima la sua scalata al potere. Con un manipolo di congiurati, tentò un putsch nel 1923 che fallì e lui finì in carcere a scontare una condanna di otto mesi. Ma poi, nel 1933, conquistò la cancelleria e lo fece rispettando le regole della democrazia, prendendo più voti degli avversari. Già i contemporanei si meravigliarono del successo politico di Adolf Hitler e, per la verità, nemmeno gli studi successivi riuscirono a spiegare il suo fascino trascinante. Piccolo, minuto, nervoso, vittima di potenti mal di testa e di proverbiali arrabbiature. Non esibiva il fisico del dittatore e, a guardarlo con qualche attenzione, non lo si sarebbe detto in grado di dirigere alcunché. Solo il timbro della voce e la sua capacità di arringare la folla apparvero fuori dall’ordinario. Le sue parole risultarono, contemporaneamente, suadenti e risolute, affascinanti e ultimative. Davanti a una piazza gremita, non incontrò rivali. Riusciva ad assecondare i desideri della folla, la agitava, trascinandola per costruzioni retoriche fantastiche. Talora si mostrò accondiscendente ma, a seconda delle condizioni, fu in grado di provocare indignazione, eccitare, convincere, entusiasmare. Come nemmeno un incantatore di serpenti. Ma, alla fine, si trovò da solo, nel bunker della Cancelleria: lui, Eva Braun e il cane pastore tedesco Blondie che gli rimase fedele. Gli altri si limitarono ad assecondare le sue ultime volontà cioè bruciarne il cadavere perché, al nemico, non volle concedere nemmeno le spoglie.
Quando Keynes "corresse" il Trattato di Versailles. E vide il futuro dell'Europa. Francesco Perfetti, Lunedì 19/08/2019, su Il Giornale. Nel 1919 John Maynard Keynes - il cui nome sarebbe diventato celebre come «padre» della macroeconomia e come sostenitore di una politica fondata sull'intervento pubblico in particolare nelle fasi di gravi crisi dei cicli economici - venne inviato a Parigi alla Conferenza della Pace come rappresentante del ministero del Tesoro inglese. A quell'epoca Keynes era ancora un giovanotto, a detta di chi lo conobbe, non particolarmente affascinante né di buon carattere, ma di belle speranze. Aveva da poco superato i trent'anni, essendo nato nel 1883, ma si era fatto apprezzare e conoscere come promettente economista tanto che nel 1912 gli era stata affidata la direzione di una rivista prestigiosa, l'Economic Journal. La sua formazione culturale - come ha osservato l'economista danese Jesper Jespersen in un rapido saggio introduttivo al suo pensiero dal titolo John Maynard Keynes. Un manifesto per la «buona vita» e la «buona società» (Castelvecchi) - era vasta ed eclettica, collocandosi «all'incrocio tra la filosofia (in particolare l'epistemologia), la politica e l'economia». Aveva fatto parte degli «apostoli» che ruotavano attorno al filosofo George Edward Moore e a Bertrand Russell e che costituivano il nucleo di quel gruppo informale di intellettuali noto come Circolo di Bloomsbury che, in spirito di contestazione dei principi ispiratori dell'epoca vittoriana, vivevano una esistenza quasi bohémienne, provocatoria, sessualmente trasversale, guardata con orrore e ripugnanza dalla borghesia benestante del tempo. Di questo sodalizio esclusivo fecero parte personalità destinate a lasciare il segno, da Virginia Woolf a Edward M. Forster, da Giles Lytton Strachey a Clive Bell, da Roger Fry ad Adrian Stephen e via dicendo. La frequentazione di questo ambiente da parte di Keynes ne spiega sia, durante il conflitto, i tormenti di pacifista costretto a lavorare per lo sforzo bellico, sia, nell'immediato dopoguerra, lo spirito con cui prese parte alla Conferenza per la pace di Parigi. È sintomatico quanto scrisse a uno dei suoi amici del Circolo di Bloomsbury, il pittore Duncan Grant: «Lavoro per un governo che disprezzo e il cui obiettivo è criminale». Ed è sintomatico, ancora, il fatto che egli decidesse, sia pure in preda a un profondo travaglio interiore, di rassegnare le dimissioni dal Tesoro e di abbandonare i lavori nel giugno 1919 prima ancora della firma del Trattato con queste motivazioni espresse in una lettera a Lloyd George: «Qui non posso più fare nulla di buono. Anche in queste angosciose ultime settimane, ho continuato a sperare che trovaste il modo di fare del trattato un documento giusto e conveniente. Ma ora è troppo tardi, evidentemente. La battaglia è perduta». Per Lloyd George non nutriva nessuna simpatia, anche se in seguito sarebbe stato chiamato a collaborare con lui e avrebbe attenuato il suo giudizio negativo: lo considerava quasi una creatura mostruosa, per metà umana e per metà caprina, uscita dalle nebbiose montagne gallesi, attorno alla quale si avvertiva un «profumo di assoluta amoralità, di irresponsabilità interiore, di esistenza estranea o distaccata dal bene e dal male, un misto di astuzia, mancanza di rimorsi, sete di potere». Pochi mesi dopo le dimissioni, Keynes, sempre nel 1919, pubblicò il saggio Le conseguenze economiche della pace, che fece registrare un clamoroso successo di vendite e che, soprattutto - lo si riconosca o meno poco importa - ebbe parte notevole nella progressiva delegittimazione del Trattato di Versailles. La tesi centrale del saggio era che la pace imposta dal Trattato avrebbe completato la distruzione economica dell'Europa già operata dalla guerra. Il Trattato non conteneva disposizioni utili per risollevare economicamente l'Europa: non c'era nulla in esso che giovasse a «mutare in buoni vicini gli Imperi centrali sconfitti; né a recuperare la Russia» e neppure a «promuovere in alcun modo un patto di solidarietà fra gli stessi Alleati». Esso era deprecabile anche dal punto di vista morale, essendo «odiosa e ripugnante» la politica volta a «ridurre la Germania in servitù per una generazione» e a «degradare la vita di milioni di esseri umani privando un'intera nazione della felicità». La critica di Keynes non si esaurì con il volume Le conseguenze economiche della pace - che, per inciso, provocò in Francia una immediata «risposta» da parte dello storico ufficiale dell'Action Française, Jacques Bainville, con il libro intitolato Les conséquences politiques de la paix (1920) - ma proseguì con una analisi serrata. Alla fine del 1921, infatti, egli dette alle stampe un nuovo saggio dal titolo La revisione del Trattato che riprendeva e sviluppava i temi del libro precedente e le proposte di revisione del Trattato che vi aveva anticipato. Questo nuovo volume, subito tradotto in Italia con una prefazione di Claudio Treves, è stato ora riproposto dall'editore Aragno (pagg. XVI-228, euro 20) sulla base di quella edizione con l'aggiunta di una nota di Vittorio Lancieri. Per quanto sia meno conosciuto di Le conseguenze economiche della pace, questo saggio è altrettanto importante perché, tenendo presenti i successivi incontri diplomatici e analizzando in maniera critica le soluzioni adottate o prospettate in tema di riparazioni economiche e debiti interalleati, svela gli errori progettuali di un trattato che, nato sulla base di una ideologia soltanto punitiva, era «pazzesco, ineseguibile e pericoloso per la vita europea». Pur riconoscendo che il Trattato, il quale «oltraggiava la Giustizia, la Pietà e la Saggezza», rappresentava comunque «la volontà del momento dei paesi vittoriosi», Keynes avanzava previsioni fosche per il futuro dell'Europa in mancanza di una revisione sostanziale dei termini del Trattato stesso in tema di abolizione o riduzione delle riparazioni economiche e dei debiti interalleati. Egli faceva notare come, in fondo, nel biennio precedente la pubblicazione del volume, «nessun punto dei Trattati di Parigi» era «stato realmente eseguito, tranne quelli relativi alle frontiere e al disarmo» e aggiungeva che proprio questa situazione aveva consentito che non si fossero materializzati «molti dei mali» da lui previsti «quali conseguenze dell'esecuzione del capitolo delle Riparazioni». In altre parole, lasciava intendere che, insistendo su quella che i francesi definivano «politica di esecuzione», non sarebbe stata possibile una ripresa economica, e non solo economica, della Germania e della stessa Europa. L'impossibilità di pagare ai vincitori le riparazioni avrebbe, anzi, potuto innescare reazioni imprevedibili. L'analisi di Keynes si è rivelata profetica. Ma la sua critica non era l'unica. Un altro economista, questa volta italiano, Francesco Saverio Nitti, nel 1921 pubblicò il libro L'Europa senza pace che definiva il Trattato come «modo di continuare la guerra» e ne denunciò lo spirito volto a «soffocare la Germania» e a «smembrarla», minandone l'unità economica e l'unità politica. E val la pena di rammentarlo, Keynes, proprio insieme a Nitti, nell'anno del centenario della Conferenza della pace.
Paura, intrighi, minacce. L’estate che portò alla II guerra mondiale. Paolo Delgado il 9 Agosto 2019 su Il Dubbio. Dal patto Molotov- Ribbentrop che sanciva l’accordo tra Russia e Germania per la spartizione della Polonia e dei paesi del baltico all’annuncio di Hitler che «avrebbe distrutto la razza ebraica in Europa». Al mattino del 25 agosto 1939 il cortile della Casa Bruna, a Berlino, era pieno di distintivi del partito nazista gettati lì da militanti delusi. Il giorno prima era stato reso noto il Patto Molotov- Ribbentrop, l’accordo sino a pochi giorni prima considerato impensabile tra la Germania nazista e l’Unione sovietica di Stalin. I nazisti la presero peggio dei rossi, che erano ormai abituati all’idea che la difesa dell’Urss, patria del socialismo, venisse sempre e comunque al primo posto. Per i nazisti, abituati non solo a considerare i rossi il nemico ma anche a guardare alle terre dell’est come preda naturale di una Germania bisognosa di lebensraum, di “spazio vitale”, la pillola fu più indigesta. Lo stesso Hitler a quel patto ci aveva creduto pochissimo, e forse aveva esitato per gli stessi motivi che avevano così profondamente deluso tanti dei suoi militanti. In privato continuava ad assicurare che lo scontro con l’Unione sovietica era comunque inevitabile. Ma al momento il trattato permetteva di invadere la Polonia, come Hitler era deciso a fare sin da marzo, non solo senza dover temere la guerra su due fronti, incubo dei generali tedeschi, ma anche con buone speranze di evitare il coinvolgimento di Gran Bretagna e Francia, che in marzo si erano fatte “garanti” dell’indipendenza della Polonia. Il patto era stato perseguito e realizzato dal più scarso e più disprezzato, anche dallo stesso Fuhrer, tra i gerarchi nazisti, il commerciante di vini von Ribbentrop.
Non era neppure uno dei “vecchi camerati”, quelli che avevano militato nella Ndsap già dagli anni Venti ed era universalmente considerato un pallone gonfiato. Tuttavia fu proprio quel politico e diplomatico di terz’ordine, nel 1939 ministro degli Esteri a immaginare, cercare e realizzare l’alleanza impossibile che apriva all’esercito di Hitler le porte della Polonia. Il Patto comportava infatti una clausola, rimasta segreta sino alla fine della guerra, in base al quale le due potenze spartivano sia la Polonia che i Paesi del Baltico. Le potenze occidentali non furono colte del tutto alla sprovvista dalla firma dell’accordo. Erano al corrente di quel che stava per succedere già da un paio di giorni. La mazzata era arrivata allora. Tuttavia, contro le previsioni di Berlino, sia la Francia che il Regno unito decisero di confermare la garanzia di intervento in caso di attacco alla Polonia. Quell’attacco, del resto, ci sarebbe stato in ogni caso, anche senza il Patto russo- tedesco. Il ritorno alla Germana del "corridoio di Danzica", la striscia di terra che metteva in comunicazione la città a maggioranza tedesca con la Prussia orientale era solo una scusa, come lo era stata l’anno prima, quando il mondo aveva rischiato la guerra per la Cecoslovacchia, la questione dei Sudeti. Hitler voleva la guerra e anzi avrebbe preferito che nessuno si mettesse per offrirgli tutto quello che voleva già nel 1938, quando la conferenza di Monaco aveva evitato all’ultimo secondo, in settembre, lo scoppio di una guerra mondiale. «Spero che stavolta nessun porco arrivi a offrire soluzioni diverse dalla guerra», disse franco e brutale ai gerarchi: il Fuhrer voleva una schiacciante vittoria militare, anche «per una questione di prestigio» come spiegò all’amico e alleato italiano Mussolini. Ma non considerava affatto improbabile una ennesima resa senza combattere delle potenze occidentali. Non fu per paura dell’intervento anglo- francese che l’attacco fu rinviato all’ultimissimo momento, quando le truppe erano già in marcia, la notte del 25 agosto. Fu perché, a sorpresa, l’ambasciatore italiano Attolico annunciò al dittatore alleato che l’Italia fascista non era in grado di onorare il "Patto d’acciaio" firmato il 22 maggio tra Italia e Germania. L’Italia sarebbe dovuta entrare in guerra subito, a fianco dei tedeschi. Non era militarmente pronta, spiegò Attolico per conto del Duce. Hitler la prese malissimo. «Gli italiani fanno come nel 1914», si lasciò sfuggire nel corso di una delle abituali sfuriate. Ma non se la prese mai con Mussolini. Addossò la colpa del voltafaccia ai Savoia, che detestava, e rinviò di una settimana l’attacco. Non perché sperasse in una soluzione pacifica. Piuttosto per verificare se fosse possibile offrire all’Italia gli aiuti necessari per entrare subito in guerra. Erano le ultime frenetiche e concitate giornate di pace. Il 1939 era stato sino a quel momento solo la lunga discesa verso una guerra inevitabile. Il 30 gennaio, sesto anniversario della presa del potere, Hitler aveva pronunciato uno dei suoi discorsi più sinistri e importante. «Se la finanza ebraica riuscirà a provocare una guerra contro la Germania il risultato sarà la distruzione della razza ebraica in Europa». Poi il Fuhrer aveva ricordato che altre volte le sue parole non erano state prese sul serio, erano state accolte con risate ma chi rideva allora aveva dovuto presto smettere. Negli anni successivi avrebbe ricordato più volte quel discorso che costituisce l’annuncio e la promessa della Shoah. Il 15 marzo la Germania aveva occupato l’ultimo lembo di Cecoslovacchia ancora libero. La Cecoslovacchia, venduta dai suoi stessi alleati a Monaco, non esisteva più. Il primo aprile si era conclusa con la vittoria del generale Franco la guerra di Spagna, “prova generale” della guerra mondiale. Una settimana dopo l’Italia occupava l’Albania. In maggio i due dittatori fascisti avevano firmato il patto d’acciaio ma già da marzo Hitler aveva annunciato ai suoi generali la decisione di occupare la Polonia. Senza incontrare più alcuna resistenza. L’anno precedente l’esercito aveva ancora criticato, senza scoprirsi troppo, la scelta di rischiare il conflitto per la Cecoslovacchia. A Monaco, se la conferenza non fosse finita con la resa travestita da pace voluta dell’inglese Chamberlain e dal francese Daladier, era già pronto il piano per un possibile colpo di Stato. Pochi mesi dopo tutto era cambiato. L’esercito si era definitivamente consegnato, per convinzione o per rassegnazione, a Hitler. La stessa popolazione tedesca era molto più ostile ai polacchi di quanto non fosse stata un anno prima ai cecoslovacchi. Ma quando all’alba del primo settembre la guerra contro la Polonia cominciò davvero e quando, due giorni dopo, Francia e Gran Bretagna entrarono in guerra, la reazione del polo tedesco fu ben diversa da quella del 1914, quando tutti avevano festeggiato la guerra riempiendo piazze e strade per salutare i soldati in marcia. Stavolta, al contrario, le strade restarono vuote, una plumbea preoccupazione salutò i militari che andavano al fronte. Hitler doveva la sua popolarità all’aver sempre vinto senza mai combattere, dalla rioccupazione delle Renania sino alla distruzione della Cecoslovacchia. I tedeschi avevano creduto che sarebbe andata allo stesso modo. Rimasero smarriti di fronte alla scoperta che la guerra cominciava per davvero. Sarebbe potuta finire meno di due mesi dopo. L’ 8 novembre, anniversario del fallito pusch nazista del 1923, un attentato nella birreria di Monaco dalla quale era partito il putsch andò a un pelo dall’uccidere il Fuhrer. A sorpresa Hitler aveva lasciato la sala in anticipo. Ci furono 8 mori e 63 feriti, ma la vittima designata si salvò. La Polonia era già stata battuta. La guerra reale con le sue decine di milioni di vittime sarebbe arrivata presto.
· Le cavie del Nazismo.
LE CAVIE DEL NAZISMO. Paolo Valentino per il “Corriere della sera” il 14 maggio 2019. Liane Berkowitz aveva appena 19 anni quando venne impiccata dai nazisti. L' avevano arrestata nel 1942 mentre attaccava dei manifesti di protesta contro una mostra della propaganda di regime. Liane era incinta al momento dell' arresto, ma questo servì solo a far rinviare l' esecuzione a dopo il parto. Nata nel 1913, Libertas Schulze-Boysen aveva aderito neanche ventenne al partito nazista nel 1933. Ma ne era uscita inorridita nel 1937 per entrare attivamente nella resistenza insieme al marito Harro. La Gestapo la prese nel 1942, nel suo appartamento trovò un archivio di fotografie che documentava le violenze dei nazionalsocialisti. Fu assassinata poco dopo. La tragica storia di Liane e Libertas non finì con la loro morte: i loro corpi furono tra quelli di 184 persone, quasi tutte donne, che vennero consegnati al celebre ginecologo e docente di anatomia all' Università di Berlino Hermann Stieve, per essere sezionati e usati per esperimenti. Trecento pezzetti di tessuto appartenenti alle vittime di Stieve hanno trovato finalmente la pace eterna ieri pomeriggio, con una commovente cerimonia di sepoltura interreligiosa (ebraica, cattolica e protestante) al Dorotheenstädtische Friedhof, il cimitero nel cuore della capitale tedesca dove riposano anche Friedrich Hegel, Bertolt Brecht e Herbert Marcuse. Alcune centinaia di persone hanno partecipato alle esequie. I resti, lunghi pochi millimetri, erano stati trovati nel 2016 da eredi del medico in una proprietà di famiglia. Erano custoditi in piccole scatole nere, molte delle quali etichettate con il nome della persona cui appartenevano. Consegnati al policlinico della Charité, quello dove lavorava Stieve, sono stati affidati al Centro per la memoria della Resistenza tedesca che ha ricostruito le storie personali di una ventina di vittime. Su richiesta delle famiglie i resti non sono stati identificati pubblicamente al momento della sepoltura. Arrivato alla cattedra negli anni dell' avvento del nazismo, Stieve era subito entrato in sintonia con il regime. Alla Charité conduceva ricerche sull' influenza della paura e degli stress psicologici sul ciclo mestruale e sugli apparati genitali maschili. Oggetto dei suoi esperimenti erano infatti ghiandole germinali, ovaie e testicoli, che lui chiamava «Werkstoff», il materiale, e che si faceva arrivare direttamente dalla prigione di Plötzensee, un sobborgo berlinese, o dal campo di concentramento di Ravensbrück, dove migliaia di ebrei e oppositori del nazismo vennero uccisi. La ricerca, guidata dal direttore del centro Johannes Tuchel, ha dimostrato che i corpi venivano prelevati da un autista pochi minuti dopo le esecuzioni. Una volta in ospedale, Stieve li sezionava esportando gli organi necessari ai suoi esperimenti e poi li mandava al forno crematorio di Wilmersdorf per farli incenerire. L'acribìa criminale di Stieve ha paradossalmente aiutato nel restituire un volto almeno a una parte delle sue vittime. Se infatti negli anni del nazismo aiutò sistematicamente il ministero della Giustizia del Reich a cancellare le tracce dei loro atti criminali, subito dopo la guerra non ne ebbe più bisogno. Non essendo mai stato membro del partito, egli non venne processato come criminale nazista. Anzi, assunse una posizione di prestigio nell' élite medica della Ddr. Mantenne la sua cattedra alla Humboldt e fu socio onorario della Società Tedesca di Ginecologia fino alla morte nel 1952. Tale era la sua sicurezza di impunità, che nel 1946 Stieve mise a punto una lista di donne e uomini i cui corpi gli erano stati consegnati ed erano serviti ai suoi immondi esprimenti. «La Stieve' s list ci ha permesso di identificare le sue vittime e raccontare le loro storie», spiega Sabine Hildebrandt, studiosa di anatomia alla Michigan University, che ha lavorato all' inchiesta. Fra loro, Midlred Harnack, nata negli Stati Uniti, in Wisconsin, e sposata a un tedesco, leader del gruppo resistente Orchestra Rossa. Arrestata nel 1943, fu l' unica donna americana impiccata per ordine personale di Hitler.
· Le madri dei cattivissimi? Buone, semplici e devote.
Le madri dei cattivissimi? Buone, semplici e devote. Klara Hitler e Katerina Stalin persero tre figli poi nacque quello sbagliato. E le altre? Casa e chiesa. Massimo M. Veronese, Domenica 12/05/2019 su Il Giornale. John era il nono figlio di Mary Ann e oltre che il penultimo era il suo preferito, l'amore degli amori. Il padre Junius, attore drammatico di qualche talento e molte dissolutezze era già sposato in Inghilterra quando fuggì in America con Mary Ann e mai raccontò allo sposa abbandonata di quella ragazzina di diciotto anni che faceva la fioraia a Londra con cui era fuggito. Quando il suo John, John Wilkes Booth, assassinò Abramo Lincoln con un colpo alla testa il suo unico pensiero fu gridare «Ditelo alla mamma che sono morto per il mio Paese...». Anche per Teresa il piccolo Alfonso, il quarto della cucciolata era il preferito. Soprattutto dopo che il figlio fu costretto dalla morte del padre barbiere Gabriele, a diventare il capofamiglia. Era lei, che di mestiere faceva la cucitrice, ad averlo educato all'eleganza. Quando andava a trovarlo in galera diceva sempre: «Il mio Alfonso è un bravissimo ragazzo». Nessuno ha mai avuto il coraggio di contraddire la mamma di Alfonso Capone, detto Al. Se è vero che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli qualche dubbio che quelle dei figli possano ricadere sulle madri ti viene, soprattutto oggi che è la festa della mamma. Sono le uniche ad aver amato senza se e senza ma gli uomini più odiati della Storia, perché ogni scarafone è bello a mamma sua, nonostante i milioni di madri in lacrime che il loro passaggio sulla terra ha lasciato. Trovare un comune denominatore tra queste mamme per cercare una genesi del male, è impossibile semplicemente perché non c'è. Klara Polzl, madre di Adolf Hitler, slavata e fragilina, era una ragazzetta bavarese semplice e senza istruzione. Rosa Maltoni invece, mamma di Benito Mussolini, era energica, cattolica devota e maestra in una scuola elementare. Non potevano essere più diverse. Klara aveva avuto quattro figli tutti morti in culla: gli sopravvisse solo quello sbagliato, Adolfo appunto, lei visse sempre terrorizzata che morisse anche lui. Si salvò in extremis Saddam Hussein: la mamma Subha Tulhaf al-Mussallat voleva abortire dopo la morte del marito ma una levatrice la convinse a ripensarci. Nonostante l'indifferenza nell'allevarlo quando morì, nel 1982, Saddam fece costruire un santuario a Tikrit per onorare «la Madre dei militanti». Lo stesso fece Hitler con Klara: il 12 agosto, data del suo compleanno, proclamò la «Giornata della Madre tedesca». L'adorava più di se stesso. Schiave entrambe furono le madri di Stalin e Bin Laden. Ekaterina Ghelaze Dzugasvili aveva i capelli rossi, veniva da una famiglia di servi della gleba di un paesino caucasico e il marito alcolizzato la picchiava ogni due per tre. Manteneva tutti con il suo lavoro di lavandaia e cucitrice, non imparò mai a parlare il russo nemmeno quando il suo Giuseppone divenne lo zar rosso dell'Unione Sovietica. Anche a lei, come alla mamma di Hitler, morirono i primi due figli, il terzo, purtroppo, sopravvisse, sconfiggendo pure il vaiolo e un'infezione al sangue. Alia Ghanem, figlia di un commerciante siriano, fu chiamata con disprezzo «la schiava» dalla famiglia Bin Laden dove non si integrò mai. Qualche attenuante ce l'hanno: Ekaterina Stalin per tutta la vita cercò di far diventare Giuseppe un prete, Alia Bin Laden ha potuto vivere con Osama solo qualche mese, quando lui aveva 10 anni, perché la famiglia non voleva che fosse lei ad educarlo. Tutto il contrario di Agrippina che pur di vedere Nerone imperatore avvelenò il secondo e il terzo marito prima che Nerone eliminasse lei, ma è un caso perché le mamme dei cattivissimi erano tutte buonissime. Marie Elenore Maille de Carman, dama di compagnia della famiglia reale, e madre del marchese De Sade si ritirò fino alla morte in un convento carmelitano di Parigi. De Sade evase quando seppe che stava morendo ma non riuscì ad arrivare in tempo: fu arrestato per una spiata della suocera. Vannozza dei Cattanei, amante di Papa Alessandro VI, e madre di Cesare Borgia lasciò tanto di quel denaro alla chiesa dove fu sepolta che i monaci agostiniani celebrarono per duecento anni messe per la sua anima. Zerelda Cole James portava sempre in chiesa il figlio, Jesse il bandito. Si sposò tre volte, l'ultima con un medico, e un giornalista che la intervistò la descrisse come «aggraziata nel portamento e nei gesti, di contegno caldo e tranquillo con un'increspatura di fuoco che ogni tanto emerge sulla placida superficie». La mamma, spiega la saggezza popolare, dovrebbe essere come una trapunta tenere i figli al caldo, senza soffocarli. Qualche eccezione però sarebbe stata gradita...
· Più socialista che nazionalista. Ecco il "compagno" Hitler...
Così Hitler ha distrutto il mondo portando Clausewitz all'estremo. La guerra totale perseguita dal Führer ha radici antiche e i suoi generali non erano affatto innocenti. Matteo Sacchi, Mercoledì 18/12/2019, su Il Giornale. L'immagine finale che tutti abbiamo in mente è quella di lui, Adolf Hitler, chiuso nel bunker, intento a spostare armate che non esistono più, a urlare in faccia a generali, che lo guardano basiti e terrorizzati. E della sua condotta durante la Seconda guerra mondiale si ricordano facilmente decisioni che paiono insensate, come la richiesta al Feldmaresciallo Friedrich Paulus di una difesa ad oltranza della sacca di Stalingrado, o la scelta di mandare a morire per le strade di Berlino vecchi e bambini travestiti da soldati. Eppure quest'analisi che potremmo, in soldoni, e con qualche forzatura, ricondurre alla formula «Hitler il pazzo che condusse alla distruzione la perfetta macchina bellica edificata dai generali tedeschi» è assai parziale, non tiene conto di numerosi fattori. Il primo è che la ricostruzione delle forze armate tedesche dopo il disastro della Prima guerra mondiale è stata portata avanti proprio sotto Hitler. La «perfetta macchina bellica» - che in realtà limiti ne aveva - quindi è stata generata proprio sotto le direttive di quello che risulterebbe, poi, essere un leader militare farneticante. Senza contare che, per anni, i contrasti tra i generali tedeschi e il loro Führer sono stati relativi e non hanno inficiato le numerosissime e tragiche - per il mondo libero - vittorie dell'Asse. Insomma, c'è una pesante ipoteca epistemologica sulla valutazione che gli storici militari hanno dato sull'operato di Hitler. Essendo il suo piano di annichilimento di ogni resistenza alla potenza tedesca moralmente e umanamente riprovevole, in molti hanno pensato bene di caricarlo anche dello stigma della completa irrazionalità. Ma questo poco aiuta a studiarlo e comprenderlo. A questo scopo risulta invece molto utile il nuovo saggio di Stephen G. Fritz, pubblicato dalla Leg: Hitler il primo soldato (pagg. 560, euro 26). Fritz, che è professore di Storia alla East Tennessee State University, ricostruisce il pensiero militare di Hitler a partire dalla sua esperienza sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale sino alla caduta del Terzo Reich. Ne esce una descrizione del Feldherr della Germania nazista molto diversa da quella abituale. Innanzitutto non esiste una divaricazione così netta tra la strategia del Führer e quella dei suoi generali, generali che dopo il conflitto (almeno quelli superstiti) hanno cercato di scaricare sul dittatore tutte le responsabilità, comprese le loro. Hitler giunse a sviluppare idee deliranti ma partendo da una serie di assunti che apparivano all'inizio logici e che erano fondamentalmente un'estensione delle riflessioni del più grande teorico della guerra tedesco: Carl von Clausewitz (1780-1831). Clausewitz aveva assistito alla nascita degli eserciti nazionali e di un nuovo tipo di guerra, una guerra totale, di popolo. Di conseguenza il generale prussiano aveva intuito che ormai i conflitti erano conflitti totali in cui era fondamentale il morale della popolazione e il suo coinvolgimento. Estremizzando queste idee Hitler ridusse qualunque conflitto bellico ad una mera questione di sopravvivenza. Ogni idea di conflitto limitato, o regolato, gli appariva come utopistica. Come spiega Fritz, partendo da considerazioni come questa accettare e metabolizzare la sconfitta nel Primo conflitto mondiale per Hitler era sostanzialmente impossibile. Tanto più per il fatto che era avvenuta mentre le forze tedesche non erano state ancora costrette a combattere sul suolo nazionale. Idee che Hitler aveva sin dalla fine del conflitto e che rafforzò nella prigione di Landsberg am Lech, che lui definì «la mia istruzione universitaria pagata dallo Stato». Ogni suo ragionamento a partire da allora fu improntato all'idea di spazio vitale, ogni operazione bellica andava portata avanti a partire da quanto Clausewitz scriveva nel suo Della guerra: «Anche dopo una sconfitta esiste la possibilità di andare incontro ad un ribaltamento di sorte grazie allo sviluppo di rinnovata forza interna... la legge del mondo morale impone che una nazione sull'orlo dell'abisso cerchi di sopravvivere a ogni costo». Questa idea scaraventò Hitler, fondamentalista del darwinismo sociale, nella Seconda guerra mondiale e gli impedì di uscirne. Colpa di Clausewitz allora? No, nei suoi studi il concetto è solo uno dei tanti sviluppati e nemmeno in modo univoco. In compenso molte delle ossessioni di Hitler erano le stesse dei generali, da Moltke il vecchio (1800-1891) in poi, che avevano dovuto convivere con il sogno di espansione della Prussia/Germania conculcato dal fatto che la Germania era circondata a Ovest e a Est da potenze concorrenti. Come documenta in dettaglio Fritz, Hitler come stratega e tattico copiava molto e inventava poco. Spesso i comandi si sentivano dire dal Führer quello che volevano sentirsi dire. Almeno sino a che la guerra fu una guerra vincente. Solo dopo è iniziata la vera critica dei militari, che però non avevano soluzioni migliori di Hitler per ribaltare il conflitto. Avevano portato Clausewitz all'estremo della guerra totale e non sapevano più uscire da questo paradosso. Hitler credeva che l'unico modo di uscire dalla trappola fosse la morte come segno della inflessibile volontà tedesca. E in questo senso era più coerente di loro, per quanto questa coerenza fosse un gigantesco errore tattico. Ah e il Blitzkrieg, dove la campagna a terra è strettamente dipendente dal dominio del cielo? Era un'idea teorizzata dagli italiani (a partire da Giulio Douhet) che, come spesso capita, hanno folgoranti intuizioni neglette in patria. Hitler come al solito aveva copiato, solo con più mezzi.
Più socialista che nazionalista. Ecco il "compagno" Hitler...Nel libro di Brendan Simms le idee del Führer appaiono molto diverse (a volte opposte) da quelle date per scontate. Marco Gervasoni, Giovedì 24/10/2019, su Il Giornale. Niente di più facile oggi che sentirsi apostrofare «fascista»: basta uscire dal seminato mainstream. E persino «nazista», tanto ormai la differenza tra l'uno e l'altro sembra sparita agli occhi dei più. Ecco, questa novella reductio ad Hitlerum, come la chiamava negli anni Cinquanta il grande filosofo conservatore Leo Strauss, è segnata, più che le passate, dall'ignoranza degli eventi storici: che non sono più ricordati, perché i contemporanei di quella stagione tendono a passare a miglior vita, ma non sono neppure studiati. Tutt'al più si è rimasti a qualche vecchio testo di storia, elaborato in altre stagioni e superato, mentre dei nuovi sono a conoscenza solo gli specialisti. Proprio sul nazismo, anzi nazional-socialismo, circolano infatti una serie di leggende che la storiografia più aggiornata ha lasciato da un canto. Si sente per esempio spesso dire che Hitler era «nazionalista». E che il nazional-socialismo era un movimento politico di «destra». E infine che il progetto europeista sarebbe tutto l'opposto di quello nazional-socialista. Queste leggende sono sfatate da molti studi e buona ultima spicca la biografia di Hitler dello storico Brendan Simms (Hitler: Only the World Was Enough, Allen Lane editore). Egli non è solo un illustre cattedratico di Cambridge. Nel dibattito che ha diviso gli uomini di cultura tra remainers e leavers, Simms, per quanto irlandese, è stato uno dei più rilevanti nel secondo campo, tanto da scrivere una rigorosa storia del rapporto dell'Inghilterra con l'Europa che fa comprendere come l'isola non avrebbe mai potuto fare parte della Ue. La biografia di Hitler è probabilmente destinata a provocare altrettanto rumore, dato il suo forte impatto revisionistico e la sua intenzione di rimettere in discussione i luoghi comuni sulla figura del Fuhrer. Il primo luogo comune è quello dell'ossessione di Hitler per gli ebrei e gli slavi. Certo, Simms non può negare la costanza dell'antisemitismo hitleriano ma, a mio avviso correttamente, lo colloca nella prospettiva giusta: quella dell'antisemitismo come anticapitalismo. L'Hitler di Simms era un sostenitore dell'antisemitismo biologico in quanto sociale; come attori del capitalismo, Hitler odia gli ebrei. Perché in realtà, ecco il secondo luogo comune sfatato, Hitler detesta i capitalisti e il capitale, si definisce e si sente «socialista», certo un socialista tedesco che combatte contro quello ebraico e internazionalista dei bolscevichi. Anche qui, l'ideologia anticapitalista di Hitler è più pragmatica rispetto a quella degli esponenti della «sinistra» nazional-socialista, che egli stroncò senza pietà. Ma solo perché, con un cinismo e un realismo non molto diverso da quello di Lenin e di Stalin, Hitler aveva capito che privandosi dell'alleanza con i capitalisti non sarebbe mai andato al potere. Assieme agli ebrei e al capitalismo, Hitler odia anche il mondo anglosassone, l'Inghilterra e gli Stati Uniti. Si tratta in questo caso di un odio misto a fascinazione. Hitler è disgustato dalla civiltà mercantile inglese e da quella consumistica americana, ma al tempo stesso ne è attratto: perché, come il fascismo italiano, anche il nazional-socialismo tedesco possedeva una doppia anima, nostalgica nei confronti dell'ordine pre-borghese e al tempo stesso modernista e modernizzatrice, affascinata dal macchinismo e dalla tecnica. Il progetto geopolitico di Hitler consisteva non nel controllo del mondo, ma nel voler diventare padrone dell'Europa come spazio vitale esteso fino alla Russia. Questo gigante economico e geografico avrebbe dovuto competere con l'egemonia anglo-americana nel mondo, alleandosi con il player asiatico, cioè il Giappone. Saremo maliziosi, ma Simms continua a costellare le sue pagine, soprattutto quelle dedicate alla guerra, di citazioni in cui Hitler sembra chiedere più Europa: del resto, sono noti i progetti nazional-socialisti di creare una moneta unica, un Euro-Marco, e di eliminare ogni tipo di barriera doganale e persino di frontiera tra i vari Stati che avrebbero costituito il nuovo Impero, il quarto Reich. Ecco perché è sbagliato definire Hitler un nazionalista: egli non ragionava infatti per partizioni statuali costituite da una o più etnie, ma si muoveva su uno spazio imperiale, un nuovo impero definito dal dominio etnico della razza ariana, con centro Berlino, e una precisa gerarchia di razze e di sotto-razze. Ed ecco infine perché non è giusto definire Hitler di «destra» e ancor meno conservatore. Certo, i conservatori e la destra tedesca lo appoggiarono nella sua ascesa al potere, ma poi cercarono senza successo di frenarne l'influenza, fino al tentativo di assassinarlo, visto che il complotto della Rosa bianca scaturì da ambienti del militarismo e del nazionalismo tedesco. Facciano attenzione perciò gli odiatori di sinistra a spandere in lungo e in largo l'accusa di essere nazisti: leggendo l'Hitler di Brendan Simms, potrebbero trovarlo molto somigliante a loro stessi.
· Hitler: la faccio finita oggi…
Mirella Serri per “la Stampa” l'8 luglio 2019. «Nient' altro che uscite, spese e debiti»: è preoccupato alla fine di novembre del 1932 Josef Goebbels, responsabile delle casse (vuote) della sezione regionale del Partito nazionalsocialista. «Come se non bastasse, dopo la recente batosta alle urne sarà impossibile procurarsi grosse somme». Proprio così: la stangata elettorale era stata del tutto inaspettata. Dopo la straordinaria ascesa dei nazisti, il consenso dei tedeschi verso Hitler e i suoi uomini nell' autunno aveva fatto un bel capitombolo. Gli industriali avevano ritirato i finanziamenti e Goebbels aveva sguinzagliato nelle strade delle principali città del Reich i suoi militanti per elemosinare sovvenzioni. Eppure, nonostante la crisi del partito nazionalsocialista, a distanza di alcune settimane, il 30 gennaio 1933, Hitler prestò giuramento come Cancelliere. Cosa accadde dunque in quella manciata di fatali giorni? In quali gravi abbagli incorsero gli uomini della Repubblica che favorirono il passaggio alla dittatura? E questi errori si possono riproporre ancora oggi? A rispondere a queste domande e a ricostruire nel dettaglio le ultime dieci settimane della Repubblica di Weimar sono due giornalisti e ricercatori, Rüdiger Barth e Hauke Friederichs, nel libro I becchini. L'ultimo inverno della Repubblica di Weimar (in uscita per Bompiani, pp. 536, 24). Attraverso archivi e diari inediti, i due autori si propongono di dimostrare che l' ascesa al potere del Fürher non era inevitabile. Dopo la débâcle di novembre, se Hitler non fosse divenuto Cancelliere, nei mesi seguenti sarebbe continuato il calo di voti che lo Nsdap aveva già registrato. I tre protagonisti di quei drammatici giorni durante i quali Hitler mosse le pedine della sua partita - Paul von Hindenburg, feldmaresciallo dal viso granitico nonché presidente del Reich, Franz von Papen, che poi divenne vice cancelliere di Hitler, e il generale Kurt von Schleicher, capo del governo solo dal dicembre 1932 al 28 gennaio 1933 - ebbero molte possibilità per capovolgere la situazione. Ma non fecero nulla. Come mai? I due autori dimostrano che questi personaggi chiave rimasero scottati giocando col fuoco (ovvero Hitler) che credevano di poter controllare. Raccontano in particolare l' intricata vicenda di von Schleicher che per primo avviò le trattative con i nazisti. Molte scelte di Schleicher, misterioso militare il quale per decenni agì dietro le quinte, sono rimaste fino a oggi nell'ombra. «Non sarà facile scendere a patti con Schleicher. Ha lo sguardo di uomo intelligente ma insidioso», osservò Hitler quando incontrò il generale per la prima volta. Ma chi era veramente Schleicher? Precocemente calvo, rotondetto ma dotato di un grande appeal, si godeva la vita da scapolo e in politica non amava farsi notare. Prediligeva l'intrigo: fu lui a riarmare all'inizio degli anni Venti i Freikorps, i gruppi di ex combattenti che assassinavano comunisti e socialdemocratici, e a potenziare l'organizzazione militare illegale «Reichswehr nera». Quando il partito di Hitler perse due milioni di suffragi, invece di rafforzare il fragile istituto democratico, von Schleicher si avvicinò a coloro che volevano affossare il sistema. Strinse un forte legame con il numero due dei nazisti, Gregor Strasser, per dividere e indebolire il partito. Potente oratore, instancabile attivista, Strasser godeva di un notevole seguito e contendeva a Hitler il ruolo di capo assoluto. Ma nemmeno con il sostegno di Strasser, il generale Schleicher riuscì a ottenere una maggioranza stabile in parlamento. Hitler fu designato Cancelliere e questa nomina segnò il destino della Germania e del mondo. Il generale fu felice di ritirarsi a vita privata: aveva scoperto l'amor coniugale con Elisabeth von Hennigs. Voleva starsene tranquillo e dimenticare. Ma Hitler non dimenticava. Il 30 giugno 1934, Strasser fu arrestato come traditore e assassinato. Contemporaneamente un gruppetto di giovani suonava alla porta di Kurt ed Elisabeth. Spararono a entrambi e si portarono via tutti i documenti. Era la vendetta compiuta nella Notte dei lunghi coltelli. I becchini della Repubblica, come Schleicher, avevano creduto di poter gestire le forze antisistema ma ne divennero le vittime. La Repubblica di Weimar ha molto da insegnarci proprio oggi, osservano gli autori, in un momento in cui si fanno sentire forti voci dei movimenti antisistema di dissenso nei confronti degli istituti democratici e sono numerose le ambizioni di chi vuole modificare a proprio uso e consumo le regole della democrazia.
COME HA FATTO HITLER A CONQUISTARE L’OBBEDIENZA DI UNA DELLE NAZIONI PIÙ COLTE D'EUROPA? Sergio Romano per “la Lettura - Corriere della sera” il 20 maggio 2019. Dopo avere scritto l'ultima delle 936 pagine (con note e bibliografia) di Hitler. L' ascesa 1899-1939 (Mondadori), Volker Ullrich, storico e giornalista della «Zeit», ha deciso di aggiungere una introduzione in cui ha spiegato perché il suo lavoro è diverso da quello dei suoi principali predecessori. Nelle biblioteche tedesche le opere su Hitler sono 120 mila, ma i maggiori biografi del Führer, prima di Ullrich, sono stati almeno quattro, di cui due (Konrad Heiden e Joachim Fest) tedeschi e due (Alan Bullock e Ian Kershaw) inglesi. Bullock lavorò principalmente sulla documentazione prodotta dal processo di Norimberga, pubblicò la sua biografia ( Hitler. Studio sulla tirannide ) nel 1952, e disegnò il ritratto di uno spregiudicato opportunista, affamato di potere. Heiden, corrispondente da Monaco per la «Frankfurter Zeitung» dal 1923 al 1930, descrisse principalmente il primo atto dell'ascesa politica di Hitler. Fest, condirettore della «Frankfurter Allgemeine Zeitung», si servì largamente della testimonianza di Albert Speer, con cui aveva stretto un rapporto amichevole quando l'architetto del Führer stava scrivendo le sue memorie nella prigione berlinese di Spandau, dove trascorse i venti anni della sentenza inflittagli nel 1946 dal tribunale di Norimberga. Il grande libro di Kershaw (due volumi apparsi nel 1998 e nel 2000) ha largamente approfittato di nuovi documenti, fra cui i diari del ministro della Propaganda del Reich Joseph Goebbels. Ed è fra le biografie di Hitler quella che ha prestato maggiore attenzione al contesto internazionale e al clima sociale della Germania negli anni del suo potere. Tutti i biografi di Hitler si sono posti le stesse domande. Tutti hanno cercato di capire perché un uomo così orribile abbia conquistato la cieca obbedienza di una delle nazioni più colte d' Europa. Conosciamo il suo fascino oratorio, sappiamo con quale abilità sapesse fingere, mentire e sfruttare le umilianti condizioni che i vincitori di Versailles avevano imposto ai suoi connazionali. Sappiamo anche che le vittorie fanno sempre proseliti e che quelle delle forze armate tedesche nella prima metà della Seconda guerra mondiale furono effettivamente sbalorditive. Ma nessuna giustificazione è convincente e nessuna tesi ha completamente soddisfatto la nostra curiosità. In uno dei migliori capitoli del suo libro Ullrich cerca di spiegare l'impenetrabilità e il successo di Hitler descrivendo lungamente la sua continua doppiezza. Poteva sembrare capace di nobili sentimenti, ma in altre occasioni dava prova di una spietata ferocia. Poteva discutere e argomentare con finezza, ma parlare in altre circostanze con una primitiva banalità. Poteva essere un «demagogo urlante» e, in altri momenti, mostrarsi cortese, persuasivo, ammaliante. I suoi baffi sembravano a prima vista ridicoli, ma le persone, quando lo incontravano, erano affascinate dall' azzurro dei suoi occhi e dalla bellezza delle sue mani. Era certamente un grande attore, pronto a indossare la maschera che meglio si adattava alle esigenze del momento. Ma una natura così abilmente camaleontica rende il caso Hitler ancora più misterioso. Possiamo comprendere che queste doti lo rendessero tatticamente imbattibile. Ma è difficile comprendere come questo manipolatore di idee e sentimenti fosse anche oggetto di culto e devozione. Per dare una spiegazione a queste contraddizioni Ullrich, in un altro capitolo, ricorre alla religione. Gli incontri annuali di Norimberga non erano tradizionali congressi di partito. Approfittando dell' abilità scenografica di Albert Speer e di una grande sacerdotessa (la regista cinematografica Leni Riefenstahl), Hitler trasformò Norimberga in una specie di Lourdes marziale visitata da legioni di pellegrini armati, dove il redentore della patria appariva ai fedeli con i tratti di un nuovo Messia. Il rapporto dei tedeschi con il loro Führer ha tutte le caratteristiche dei rapporti di culto e devozione. I suoi connazionali parlano di lui come di uno «strumento nelle mani di Dio», sommergono la cancelleria del Reich con lettere che gli chiedono di essere il padrino dei loro figli. Nel Paese dove il saluto abituale, in alcune regioni, invoca il nome di Dio ( Grüss Gott , Dio ti saluti), quello universalmente adottato durante il Terzo Reich ( Heil Hitler ) sostituisce il nome di Dio con quello del Führer. I suoi busti di gesso troneggiavano in tutti i luoghi pubblici: bar, scuole, ristoranti, uffici. Gli archivi dell' anagrafe registrano casi grotteschi come quello dell' uomo che voleva dare a sua figlia il nome di Hitlerine (l'ufficiale di stato civile gli consigliò di chiamarla Adolfine). Hitler se ne compiace e osserva che soltanto Martin Lutero, nella storia tedesca, è stato oggetto di tanta venerazione. Conviene ricordare, tuttavia, che il fenomeno non è soltanto tedesco. Quando cominciarono a promettere salvezza e felicità, le ideologie politiche divennero religioni civili e i loro leader altrettanti profeti. Mussolini, Lenin, Stalin, Mao e i loro imitatori hanno riempito le piazze, incantato le folle, dato il loro nome a migliaia di bambini e, quando parlavano al popolo, erano circondati da «sacerdoti» dei rispettivi partiti che assicuravano la solenne esecuzione delle liturgie con cui erano accolti. Ma il culto di Hitler in Germania ha toccato vette più alte e ha avuto una più spiccata connotazione religiosa. Nel suo libro Ullrich racconta il caso di un uomo che, durante una visita di Hitler ad Amburgo, era riuscito a scavalcare il cordone della polizia e aveva toccato la mano del Führer. Subito dopo «prese a ballare qua e là come impazzito continuando a gridare "Gli ho stretto la mano! Gli ho stretto la mano"». Un diplomatico tedesco che fu aiutante personale di Hitler, Fritz Wiedemann, commentò la scena scrivendo: «Se quell' uomo avesse dichiarato che prima era paralitico e che ora riusciva di nuovo a camminare non mi sarei meravigliato, e la folla gli avrebbe certamente creduto».
“IO LA FACCIO FINITA OGGI”. DAGONEWS 4 aprile 2019. Le "ultime parole" di Adolf Hitler sarebbero state rivelate grazie al diario personale del pilota del leader nazista: il libro "I was Hitler's Pilot" ripercorre il rapporto tra Hitler e Hans Baur, una delle persone di cui si fidava di più e che gli è rimasto accanto fino alla fine. Il pilota, morto nel 1993 all'età di 96 anni, racconta: «Hitler si avvicinò e mi prese entrambe le mani. "Baur, voglio salutarti, è giunto il momento, i miei generali mi hanno tradito, i miei soldati non vogliono andare avanti e io non posso andare avanti". A quel punto io ho cercato di convincerlo che c'erano ancora degli aerei disponibili e che avrei potuto portarlo via in Giappone o in Argentina. Ma lui rispose: "La guerra finirà con la caduta di Berlino. E io sto in piedi o cado con Berlino"». Poco dopo il Führer avrebbe aggiunto: «Un uomo deve raccogliere abbastanza coraggio per affrontare le conseguenze. E quindi io la faccio finita. So che domani milioni di persone mi malediranno - questo è il destino. I russi sanno perfettamente che sono qui in questo bunker, e temo che useranno bombe a gas. Qui ci sono compartimenti stagni, ma resisteranno? A ogni modo, io la faccio finita oggi». Hitler poi offrì a Baur un prezioso dipinto come regalo per i suoi 12 anni di servizio prima di uccidersi qualche istante dopo insieme a sua moglie Eva Braun. In seguito al suo ultimo scambio di parole con Hitler, Baur è stato ferito nel tentativo di fuggire e ha perso una gamba. Trascorse quindi dieci anni in una prigione sovietica dove fu torturato per avere informazioni su Hitler. Nonostante il suo ruolo chiave nella cerchia ristretta del Führer, Baur sostenne di non essere coinvolto nella politica del Terzo Reich, affermando che era solo «un pilota, non un politico». Sopravvissuto alla prima guerra mondiale, Baur divenne uno dei primi piloti della compagnia aerea tedesca Luft Hansa, trasportò alcuni dei più alti ministri del Terzo Reich, oltre a vari capi di stato e Mussolini. La sua amicizia con Hitler iniziò negli anni '30 quando il pilota fu ingaggiato per aiutare la campagna di Hitler in Germania. Solo tre anni dopo, Hitler era il testimone di Baur al suo matrimonio. Non c'era dubbio che Hitler condividesse un legame speciale con Baur, visto che, tra l’altro, il leader nazista acquistò al pilota una macchina nuova per il suo quarantesimo compleanno. «La completa fiducia che Hitler riponeva in me ha portato a un rapporto più intimo e amichevole - ha detto Baur – Dopotutto, la sua vita dipendeva dalle mie capacità, e si rese conto che ho sempre fatto del mio meglio per lui».
HITLER, L’IMBIANCHINO CHE SFUGGIVA DALLA SUA DEPRESSIONE COL PENNELLO IN MANO. Paolo Pera per PangeaNews l'8 aprile 2019. In questo saggio temo di poter sbagliare, ma spero di non riuscirci. Spesso di Adolf Hitler si ricorda che fu un “imbianchino” prima di scalare le vette del partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi portandolo così (e con mille manipolazioni politiche) al governo, ma Hitler non fu un imbianchino nel senso stretto del termine, lo fu per esigenze, per guadagnarsi una pagnotta di pane durante il suo soggiorno a Vienna, prima della Prima Guerra Mondiale. Prima di questa egli tentò due volte di essere accettato come studente all’Accademia delle Belle Arti di Vienna rimanendo entrambe le volte bocciato. Pare che esibendo i suoi acquerelli un insegnante gli avesse consigliato di ridimensionare i propri obiettivi e tentare con l’architettura in quanto, e ora lo vedremo, egli si dimostrò un ritrattista insulso ma un “disegnatore di edifici” con potenzialità sulle quali costruire un ipotetico percorso. In questa cartolina possiamo notare ciò che ho appena scritto. Cartoline come queste venivano eseguite da Hitler dopo la bocciatura in Accademia, sono semplici paesaggi urbani che il futuro dittatore vendeva ai turisti della capitale asburgica. Fare l’imbianchino, il colorista e creare queste cartoline erano i precari impieghi di un Hitler disoccupato prima di unirsi all’esercito del Kaiser tedesco lasciando così l’Austria-Ungheria. Da questa cartolina, e da altre che seguiranno, è possibile notare due qualità fondamentali di Hitler e due invasive carenze. Hitler aveva una buonissima capacità di dosare il colore sulla carta sapendo perciò tirare fuori tutte le luci necessarie, un ulteriore pregio è ravvisabile nella sua prospettiva: la sua sembra essere una prospettiva appresa con molta fatica ma appresa, ed è la stessa prospettiva ad accompagnarci a un suo problema, ovvero (sempre lo stesso) la riproduzione degli omini che desolatamente camminano per Vienna, in lontananza sembra provenire una sorta di folla compatta che nel lungo campo si dimostra essenzialmente corretta nelle forme, ma i personaggi in prima fila? Questi sembrano eseguiti con una rigidità impressionante e con una imprecisa statura, ma certamente più slanciata del dovuto. Se devo essere sincero guardando queste cartoline trovo una certa analogia con le piazze d’Italia di de Chirico, ciò dal momento in cui anche in queste i personaggi erano tratti in momento di atarassica estasi, con l’animo slegato al luogo nel quale si trovavano, in queste cartoline ritrovo ciò. Logicamente Giorgio de Chirico arrivava da tutt’altra educazione e il suo posizionare lontani uomini dalle ombre più lunghe del loro corpo era parte del suo tentativo di creare una metafisica artistica; in queste cartoline le intenzioni sembrano invece quella di annullare l’importanza degli individui rispetto all’imperiale città di residenza, ovvero tutto ciò che de Chirico non avrebbe mai ipotizzato. Mi sembra facile perdersi a guardare quei cinque personaggi in questa seconda cartolina: sembrano parte di un gioco che chieda di unire i puntini per ricavare un trapezio, quasi una piazza nella piazza. Il loro essere lì non sembra avere alcun senso, sembrano riempire un vuoto che potrebbe anche rimanere tale, fermi a guardare ognuno in una direzione diversa, sembrano quasi d’accordo a farlo: ciò è molto disturbante, e già da queste cartoline può esteriorizzarsi la profonda malinconia di Hitler e una certa dose di estraneità umana. In quest’altra piazza tutto disturba con un’intensità maggiore. I palazzi sembrano creati con un rigore degnissimo ma tutti tendono a inclinarsi, quasi a crollare l’uno sull’altro, pure le persone sono inclinare e sembra che stiano per cadere riverse per terra ubriache. Ciò ricorda incredibilmente la grafia di una persona depressa che pessimisticamente su un foglio bianco tenderà di dirigere inconsapevolmente la propria scrittura più a fondo possibile, fino al limite della carta. Ciò può essere comunque compreso nella precarietà nella quale Hitler viveva, ma oltre a ciò è percepibile qualcosa di insano. Questo particolare d’acquerello è uno dei pochi autoritratto del futuro cancelliere tedesco, dove egli kafkianamente si presenta seduto e malinconico sul un ponticello. Egli non ha identità e inoltre contrassegna sé stesso con una X quasi a ricordare a sé stesso di esistere, quasi a presumere di dover essere identificato un giorno, augurandosi quell’incredibile fama postera che nel 1910 poteva solo immaginare senza molta ragione di farlo. Che però egli non si sia dato un’identità ci dimostra ancora quanto la sua desolazione umana fosse grande e dolorosa, oppure ci dimostra semplicemente che non avesse ancora scelto il paio di baffi a lui più congeniali, ma quest’ultima affermazione è scherzosa. Questo Cucciolo (ovvero il più piccolo de “I sette nani”) realizzato molto lontano dai suoi paesaggi urbani giovanili venne probabilmente disegnato per uno dei figli dei suoi ministri di governo, ma in ciò appare comunque qualcosa di interessante, almeno nella scelta del nano da rappresentare. Cucciolo nel film Disney è il nano più bietolone, quasi un minorato mentale che per la politica razziale del Führer avrebbe dovuto morire o almeno essere castrato chimicamente, eppure egli con esso rappresenta una caricatura di uno dei nemici della germanicità e lo fa con una simpatia notevole. Ciò mi spinge a pensare che in fondo, seppur ormai ai vertici della sua nazione adottiva, egli si potesse pensare a volte parte di quei nemici, simile a Cucciolo, anch’egli tristemente ebete come lui, o comunque un po’ fanciullo, ciò sempre contrapponendosi alla cattiva infanzia che dovette subire. Direi con ciò che la fuga nell’arte e il desiderio d’essere artista che Hitler ebbe tutta la vita avrebbe dovuto essere una fuga dalla sua infelicità e instabilità emotiva. Egli affermò, durante l’incontro che portò la Germania ad acquisire de Sudeti boemi, che la sua aspirazione più profonda sarebbe stata di concludere la sua vita come pittore, a essere sincero ciò mi impietosisce molto, è quasi ipotizzabile che tutto ciò che fece politicamente parlando fosse in funzione di una sua possibile posizione artistica all’interno di una restaurata Pangea tedesca. Oggi a ricordarlo e a ricordare le atrocità umane che il suo regime commise, non riusciamo a guardare i suoi lavori senza trovare qualcosa di marcio, senza vedere i germi del suo odio e del dolore che provocò. Non potremo mai riuscire a vedere quei suoi omini in lontananza come semplici passeggiatori, bensì penseremo che la loro staticità non sia solo il risultato di una mediocrità pittorica ma anche la rappresentazione di quanto Hitler minimizzasse la vita umana fino a renderla simile a dei manichini lasciati in mezzo alla città per creare ambientazione, ma ciò non credo possa essere la realtà di un pittore frustrato che vedeva nell’atto di dipingere la sua gioia e lo scopo della sua vita, anche se evidentemente la fortuna di essere raccolto ed educato all’arte non gli arrise. E questo è molto simbolico ricordando quanto lui odiò (forse proprio a causa dei propri insuccessi) i pittori migliori di lui, e che gli sembrarono sbeffeggianti (evidentemente) votando il loro talento alla rivoluzione delle avanguardie. Probabilmente, se allora i criteri artistici fossero stati più comprensivi certamente Hitler sarebbe stato preso all’Accademia e sarebbe diventato uno dei qualunque pittori di serie B che nella classicità avrebbero portato avanti una lotta passiva contro le avanguardie del Novecento, ma l’ironia della sorte volle che a ridimensionare l’idea stessa di comprensibilità e accettabilità dell’arte furono proprio quelle avanguardie che lui dichiarò “degenerate”, e che probabilmente e democraticamente per quei suoi acquerelli un po’ naif avrebbero affermato che anche lui meritava l’arte come missione esistenziale. Le rigidità morali delle Accademie lo costrinsero a cambiare prospettive. Per quanto il pensiero di chi fu Adolf Hitler ci faccia disprezzare i suoi lavori a priori, riesco comunque (e inaspettatamente) a trovare qualcosa da salvare, anche semplicemente nel gioco delle luci e nel suo desiderare la pace delle stesse piazze, il suo metaforico posto di manichino in queste, anziché quello di secondo Anticristo riconosciuto nella storia. Perciò non credo occorra che i collezionisti che abbiano un suo olio o una sua natura morta di fiori lo prestino richiedendo l’anonimato, questo in quanto penso innocentemente che l’Hitler dittatore e l’Hitler artista siano entità distinte tra loro. Ciò può averlo raccontato Maurizio Cattelan nell’opera HIM, dove un Hitler penitente guarda alla luce di un ipotetico Dio o di una ipotetica storia degli uomini, chiedendo perdono, ma non certo un perdono per le colpe di aver trucidato milioni di persone, ciò non l’avrebbe chiesto mai. Piuttosto, quello che Cattelan crea sembra la richiesta, in ginocchio, che l’arte dell’uomo Hitler sia guardata con l’innocenza di chi ha mancato d’insegnamento all’arte e non come l’hobby di un assassino.
Stauffenberg attentò alla vita di Hitler Ma oggi è un eroe controverso. Pubblicato martedì, 23 aprile 2019 da Paolo Valentino su Corriere.it. Poche figure uniscono e rendono orgogliosi i tedeschi come quella di Claus Schenk Graf von Stauffenberg, l’eroe dell’Operazione Valchiria, il fallito attentato a Hitler del 20 luglio 1944. Nella complessità della Vergangenheitsbewältigung, il superamento del passato nazista che assilla la Germania, Stauffenberg e i suoi congiurati sono quelli che con il loro sacrificio hanno riscattato l’onore nazionale, liberando almeno parzialmente i tedeschi dalla colpa collettiva. Il libro dello storico tedesco Thomas Karlauf «Stauffenberg. Porträt eines Attentäters» è pubblicato dall’editore Blessing (pagine 368, euro 24)La resistenza nazional-conservatrice contro il nazionalsocialismo diventa così la tragica testimonianza di un’altra e migliore Germania. «Il loro sangue — disse Theodor Heuss, il primo presidente della Repubblica federale tedesca — ha lavato la vergogna in cui Hitler aveva costretto noi tedeschi». Anche la letteratura ha celebrato il mito liberatorio e fondativo del 20 luglio: nel romanzo L’amico ritrovato di Fred Uhlman, il protagonista, l’ebreo Hans Schwarz, si riconcilia idealmente con Konradin von Hohenfels, l’amico d’infanzia tedesco diventato nazista, quando dopo la guerra apprende che è stato giustiziato per aver preso parte all’attentato di Rastenburg. Sono passati 75 anni dalla bomba nella Tana del Lupo. Ma alla vigilia del giubileo, che la Germania si prepara a celebrare in grande stile, una nuova biografia di von Stauffenberg ne rivede criticamente la figura, contestando la sua opposizione al nazismo come ideologia e negando che abbia agito per ragioni di coscienza. Appena uscito in Germania per i tipi di Blessing, il libro di Thomas Karlauf ha scatenato reazioni molto polemiche, non ultima quella di Sophie von Bechtolsheim, storica ma anche nipote di Stauffenberg. Il locale devastato dall’esplosione della bomba collocata da StauffenbergNon ci fu alcuna motivazione morale, secondo Karlauf, nel tentativo di colpo di Stato di cui Stauffenberg divenne la figura più rappresentativa insieme ai generali Henning von Tresckow e Ludwig Beck. Egli agì unicamente «sulla base di considerazioni politiche e militari». Convinti, dopo la sconfitta di Stalingrado che la guerra fosse ormai perduta, i congiurati volevano «preservare il popolo tedesco dalla barbarie satanica del bolscevismo», instaurando una dittatura militare e cercando di negoziare velocemente una «pace separata con le potenze occidentali». L’eliminazione di Hitler era la condizione imprescindibile per il successo del loro piano. Ma nulla, secondo l’autore, Stauffenberg ha che fare con l’immagine di eroe della democrazia e difensore dei diritti umani, costruita dopo la guerra per «soddisfare il bisogno di legittimazione morale della giovane Repubblica federale». A sostegno della sua tesi, Karlauf cita un documento autografo di sei pagine, nel quale Stauffenberg spiega le ragioni dell’attentato, che l’ufficiale aveva addosso al momento del suo arresto e del quale esiste una sintesi (fin qui inedita) fatta dalla Gestapo: «Di tutti i possibili motivi, non c’è alcuna menzione dello sterminio degli ebrei, in quel momento in pieno svolgimento». Stauffenberg, così scrive lo storico, «non aveva alcuna idea della democrazia. La Repubblica di Weimar era per lui un luogo di discussioni inutili, inefficiente e lacerata dai partiti e dagli interessi particolari». Ecco perché, sin dall’inizio, egli fu un sostenitore entusiasta del nazionalsocialismo: i suoi diari raccontano di un’adesione piena al regime e alle sue imprese di guerra, a cominciare dall’invasione della Polonia, «una terra triste e primitiva», nel 1939, a cui egli prese parte con la X armata. Ancora nel 1941, quando molti dei suoi colleghi dello Stato maggiore espressero seri dubbi sulla saggezza dell’attacco all’Unione Sovietica, Stauffenberg lodava il genio di Hitler, una «personalità superiore e dotata di grande forza di volontà». «Il padre di quest’uomo — scrisse in quei giorni a proposito del Führer — non era un piccolo cittadino. Il padre di quest’uomo è la guerra». La conclusione di Karlauf, il quale riconosce comunque a Stauffenberg «un coraggio e una determinazione che meritano rispetto», è che egli, prima di imbarcarsi nella congiura del 20 luglio, «condivise in gran parte le idee e gli obiettivi del nazismo». E se è vero che già nell’estate del 1942 iniziò il suo percorso di straniamento dal regime, che lo avrebbe condotto alla determinazione di dover eliminare Hitler, la sua non divenne mai una «rivolta delle coscienze». Contro questa nuova lettura insorge però Sophie Freifrau von Bechtolsheim, studiosa di storia e nipote di Stauffenberg, che in un lungo articolo su «Die Zeit» contesta a Karlauf metodologia, interpretazione delle fonti e un uso spregiudicato e selettivo delle citazioni. E soprattutto attacca la tesi di fondo dell’autore: «Uccidere un tiranno non può essere altro che un atto di coscienza». Von Bechtolsheim concede che le idee del suo avo non coincidano con quelle di un democratico odierno, ma questo non autorizza Karlauf a negare che i congiurati del 20 luglio agissero mossi da impulso morale. Quello dell’operazione Valchiria, secondo la storica, è un processo individuale e solitario, che porta ognuno dei protagonisti, tutti con retroterra culturali e idee di società affatto diverse, a una decisione comune. E comunque, aggiunge con una legittima punta di veleno, «il primo a negare che i congiurati agissero per ragioni di coscienza fu niente di meno che Hitler in persona, quando dopo il 20 luglio parlò di una “piccola cricca di ufficiali ambiziosi e incoscienti”». Questa, conclude von Bechtolsheim, non è una questione di famiglia: «Se non contestassimo le tesi di Karlauf, mineremmo l’eredità che il 20 luglio 1944 ci ha lasciato».
FOLLIE PER I NAZI-CIMELI. LE MUTANDE DI EVA BRAUN. Da Corriere.it il 17 settembre 2019. Taglia 44, colore rosa pallido, con sei ricami e una cifra «EB» che attestano l’appartenenza a Eva Braun. Andranno all’asta giovedì in Inghilterra un paio di mutande appartenute alla moglie (per poche ore) di Adolf Hitler, insieme a «una corta camicia da notte a semplice forma di A». I reperti verranno battuti dalla casa d’aste Humbert & Ellis Ltd di Towcester in diretta internet con possibilità di rilanci online partendo da una base di 300 sterline (circa 340 euro).
Cimeli nazisti. L’asta si inserisce nel filone della vendita di cimeli nazisti, più o meno autentici. Nel 2016, infatti, un altro paio di mutande di Eva Braun era stato venduto all’asta per l’equivalente di 3.250 euro. A febbraio sono stati venduti alcuni quadri ritenuti dipinti dal dittatore nazista. La lingerie appartenuta a Eva Braun sarebbe stata trovata al Berghof, la casa di villeggiatura di Hitler presso Berchtesgaden sulle Alpi bavaresi alla fine della guerra.
Da il Gazzettino.it il 26 settembre 2017. Un paio di mutande di Adolf Hitler sono state battute all'asta negli Stati Uniti, e vendute per quasi 7mila dollari (precisamente 6700, circa 5.500 euro) . La biancheria era in «ottime condizioni», hanno tenuto a precisare i responsabili dell'Alexander Historical Auctions di Chesapeake City, in Maryland, dove sono state vendute ad un anonimo compratore. I cimeli del Fuhrer stanno vivendo una seconda giovinezza: sono molte le persone interessate ad accaparrarsi vestiti, manifesti, spille appartenute al dittatore nazista, o anche solo millantate come sue. È la prima volta però che a finire all'asta è un paio di biancheria intima. Le mutande, dove sono cucite le iniziali A.H., sarebbero state lasciate da Adolf Hitler al Parkhotel di Graz, in Austria, dove aveva alloggiato nell'aprile del 1938. Il Fuhrer stava compiendo un tour elettorale un mese dopo l'annessione del paese alla Germania, per pubblicizzare il plebiscito con cui venne ratificato il cosiddetto Anschluss. Secondo il battitore d'asta Bill Panagopulos, intervistato dal Sun, la biancheria fu inviata al servizio lavanderia dell'albergo, da dove sarebbe tornata dopo che Hitler e il suo staff se n'erano andati. Tant'è che sono rimaste di proprietà della famiglia dei proprietari del Parkhotel fino ad oggi, quando il nipote del titolare di allora ha deciso di venderle. «Le persone sono strane, vogliono comprare gadget che rappresentano Hitler come un tremendo dittatore, oppure cose che lo fanno sembrare un buffone. Per minimizzare un mostro, devi far sì che la gente si beffi di lui. Avevamo già venduto biancheria intima di Eva Braun, la moglie, ma mai cose che sono appartenute direttamente a Hitler». Il Parkhotel è un albergo molto prestigioso, e ha conservato le mutande di Hitler per almeno 80 anni. «Quando ce le hanno spedite, sembrava fossero appena uscite dalla lavanderia». La casa d'aste aveva escluso dalla vendita persone affiliate a gruppi di estrema destra: «È affascinante, è la cosa più vicina a Hitler che si possa avere, letteralmente».
EVA CONTRO EVA. Da Unione Sarda il 30 aprile 2019. È il 30 aprile 1945. Adolf Hitler si uccide a Berlino, nel suo bunker, con un colpo di pistola alla testa. Ma nella tragedia non è solo, con lui c'è anche Eva Braun, la donna che era la sua compagna, e che sceglie di morire ingerendo del cianuro. Così come lo stesso Führer aveva disposto, i corpi vengono cosparsi di benzina e bruciati e i resti verranno infine recuperati e le loro ceneri disperse. Per accertare l'identità di Hitler era stata usata l'impronta di un'arcata dentale. La coppia aveva vissuto insieme per poche ore dopo essersi sposata. Eva era di fianco a Hitler, e dalla tempia di quest'ultimo colava del sangue. Quello causato dal colpo esploso dalla Walther PPK 7.65, finita ai suoi piedi.
Gabriele Lippi per Lettera donna il 30 aprile 2019. «Femmina fra i 30 e i 40 anni, statura 1 metro e 60, morta per avvelenamento da cianuro». Così il rapporto delle truppe sovietiche descriveva ciò che restava di uno dei due corpi trovati nel bunker della cancelleria tedesca a Berlino il 30 aprile 1945. L'«attricetta» accanto a Hitler, carbonizzata come lui, era in realtà la donna che gli è stata accanto negli ultimi 14 anni, che ne ha condiviso l'ascesa e il declino, sempre in segreto, sempre in disparte, comprimaria della vita del Führer finita per ottenere un ruolo da co-protagonista nella sua morte. Eva Braun ha 33 anni quando ingoia la pasticca di cianuro che la uccide, 23 meno dell'uomo che le sta accanto e si spara un colpo di pistola alla tempia destra mentre l'Armata Rossa è a 500 metri dall'ingresso del bunker. Ne aveva soltanto 17 quando lo incontrò per la prima volta, era aiutante di Heinrich Hoffmann e fu proprio lui, il fotografo ufficiale del Führer a decidere di presentarli. Qualche uscita insieme a teatro, un paio di appuntamenti, poi più nulla per due anni. Hitler si è invaghito di un'altra donna giovanissima, Angelika Maria Raubal, figlia della sorellastra, tecnicamente sua nipote, non proprio la migliore delle relazioni da rendere pubbliche per un uomo che punta a una ambiziosa carriera politica, ma una vera passione, totalmente esclusiva, fino al 18 settembre 1931, giorno in cui Geli decide di suicidarsi, forse esasperata da quella vita di segreti e sotterfugi che inizialmente porterà allo stremo anche Eva Braun. Sconsigliata dal padre, un insegnante luterano, monarchico e conservatore, che non si fida per nulla di quel pittore austriaco che punta a prendersi la cancelleria tedesca, Eva avvia comunque una relazione faticosa con Hitler, costretta a vivere nell'ombra e aspettarlo. Dopo essere già stata abbandonata una volta, viene messa da parte ancora. Hitler la usa, la controlla, vuole che sia sempre pronta e disponibile alle sue visite improvvise, fa installare in casa sua una doppia linea telefonica. Lei non può seguirlo come sua compagna ufficiale durante la campagna per le elezioni e l'ascesa al potere. Così si spara un colpo di pistola, il primo novembre 1932. La reazione di Hitler, informato da Hoffman, è un autentico capolavoro di misoginia, un breve ma intenso trattato sulla presunta teatralità delle donne, convinte di vivere in un dramma mentre gli uomini fanno la storia, poi, al termine del suo sproloquio chiede: «Ma è morta?». No, Eva non è morta e diventerà parte fondamentale della vita di Hitler, si abituerà alla situazione e ci conviverà a lungo, arrivando persino a giustificarlo: «In questo periodo ha avuto la testa occupata da problemi politici, ma ora è un momento tranquillo, ha avuto molto da fare eppure ha sempre trovato tempo per me». Sono gli anni del Berghof, documentati dai filmati che la stessa Eva gira con la cinepresa regalatale da Hitler e che monta una pellicola agfa color 16 mm, la migliore in circolazione all'epoca. Momenti di quotidianità disarmanti che saranno resi pubblici solo nel 1958 dagli americani, rivelano la sconcertante normalità della vita di Hitler e dei gerarchi nazisti. Il Führer che chiacchiera in terrazzo con Göring e Göbbels, che gioca coi loro figli, che si lascia andare persino a qualche buffo balletto in un'ilarità che contrasta grottescamente con le svastiche cucite sulla sua divisa. Eva resta sullo sfondo di tutto questo, ufficialmente è una delle segretarie ma è l'unica a vestire costosi abiti alla moda, l'unica a fare spesso gli onori di casa, l'unica a guadagnare 1000 marchi, l'equivalente di 4000 euro di oggi. La sua stanza è comunicante con quella di Hitler ma deve aspettare che sia lui a chiamarla al telefono per poterlo incontrare, è una segretaria e viene trattata alla stregua delle persone che passano da lei per poter incontrare il Führer. Quando Hitler si reca in Italia, nel 1938, in visita ufficiale, lei lo accompagna segretamente, quando invece lo deve aspettare al Berghof inganna il tempo recitando come comparsa in qualche film nazista e riprendendo con la sua cinepresa il dietro le quinte delle giornate sul set. Mentre imperversa la guerra, Londra viene bombardata e gli ebrei rastrellati nei ghetti per essere condotti nei lager, Eva Braun prosegue la sua vita spensierata tra le Alpi austriache, ride e scherza con la sorella e le amiche, si occupa dei figli dei gerarchi nazisti che si sono trasferiti lì con le famiglie per scampare al pericolo dei bombardamenti, si dedica alla cura del proprio corpo, nuota in estate, scia e pattina durante l'inverno. Torna persino in Italia, in vacanza, in quell'Italia che solo di lì a poco entrerà in guerra trascinata dall'asse tra Roma e Berlino, tra Mussolini e Hitler, tra fascismo e nazismo. Intanto continua ad aspettare il suo Führer, ad attendere un matrimonio che lui non vuole, mentre persino la sorella Gretl si sposa, con Hermann Fegelein, generale delle SS autore di massacri di civili ebrei sul fronte russo. Un'attesa che sarà ripagata di lì a poco. Mentre la guerra ha ormai preso una direzione precisa, nel gennaio del 1945 Hitler si trasferisce nel bunker della cancelleria, a Berlino, assieme ai suoi gerarchi. Eva festeggia il suo 33esimo compleanno a Monaco di Baviera, saluta la famiglia e alla fine di marzo parte verso Berlino, in auto, per raggiungerlo. Entra nel bunker il 21 marzo. In superficie imperversa la guerra e i sovietici prendono Berlino. Eva non può più nascondersi da quell'orrore che i suoi occhi hanno visto per la prima volta durante il viaggio da Monaco alla capitale e che ora giunge quotidianamente alle sue orecchie coi resoconti sui milioni di donne tedesche stuprate dai soldati nemici. Hitler, abbandonato e tradito dai suoi gerarchi che tentano disperatamente di salvarsi, viene a sapere dalla radio svedese che Mussolini, il suo alleato fedele, è stato giustiziato il 28 aprile e che il suo corpo è stato esposto a testa in giù in piazzale Loreto, a Milano, accanto a quello dell'amante Claretta Petacci. Il 29 aprile sposa Eva, l'unica che gli è stata vicino fino all'ultimo, e decide che a loro due non toccherà la stessa fine. «Al termine di questa vita terrena, ho deciso di prendere come moglie quella ragazza che dopo anni di fidata amicizia ha deciso volontariamente di condividere il suo destino con il mio», fa scrivere nel suo testamento. «Secondo il suo desiderio, mia moglie verrà con me, verso la morte». Coerente fino all'ultimo, accanto a lui nella vita e nella morte, nell'ascesa e nella caduta. Ha chiuso gli occhi davanti agli orrori compiuti dall'uomo che amava e ora esce di scena con lui, senza pentirsi né fare ammenda con nessuno. Nemmeno con se stessa per tutti quegli anni vissuti nell'ombra, al fianco di un uomo troppo narcisista per poter affermare pubblicamente il suo amore per lei.
· Hitler. Quella bomba sotto il culo.
Carlo Nordio per “il Messaggero” il 22 luglio 2019. Oggi è il settantacinquesimo anniversario di un gesto nobile e sfortunato, che avrebbe potuto dare alla Storia un corso diverso e risparmiare molte vite. Il 20 luglio 1944, infatti, Claus von Stauffenberg, colonnello dello stato maggiore tedesco, piazzò sotto il sedere di Hitler una bomba al plastico. L'ordigno esplose, ma il dittatore si salvò. L'attentato era stato preceduto da altri tentativi andati a vuoto. Ma dopo lo sbarco in Normandia, molti ufficiali avevano capito che la guerra era perduta, e affrettarono i tempi per eliminare il dittatore e negoziare una pace onorevole. Avrebbero costituito un governo di salute pubblica di politici e di militari, come il maresciallo Von Witzleben, il generale Ludwig Beck e altri eroi di guerra. Alla congiura avevano aderito anche il comandante del fronte occidentale, Von Kluge, e il governatore della Francia von Stulpnagel. È incerto se Rommel vi partecipasse, anche se ne era a conoscenza: comunque fu ferito qualche giorno prima dell'attentato, e non vi ebbe alcun ruolo. Stauffenberg, di famiglia nobile e fervente cattolico, era privo di un occhio, di un braccio e di tre dita della mano sinistra, a causa delle ferite riportate in Africa. Era uno dei pochi ad avere accesso alla Tana del Lupo, il sorvegliatissimo recinto nella Prussia orientale dove Hitler si era relegato. Per questo suo privilegio, oltre che per il suo coraggio, fu scelto come esecutore materiale del piano, anche se questo lo avrebbe allontanato da Berlino nel momento cruciale. Quando arrivò alla Wolfsschanze, recava una borsa contenente due pani di plastico di mezzo chilo l'uno, e un detonatore a tempo di costruzione inglese, costituito da un percussore agganciato a una molla trattenuta da un filo. Rompendo una fiala di acido, in dieci minuti il filo si sarebbe corroso e avrebbe liberato la molla determinando l'esplosione. Nessuno, all'interno del bunker si sarebbe salvato. Purtroppo tre cose andarono storte. Quel giorno faceva molto caldo, e la riunione era stata spostata in una baracca all'esterno, con le finestre aperte, e questo avrebbe ridotto di molto l'effetto dell'esplosione. Poi Stauffenberg fu interrotto nel bel mezzo dell'innesco, e invece dei due pani, potè utilizzarne solo uno. Infine, dopo aver deposto la borsa accanto a Hitler, si allontanò con un pretesto, ma pochi attimi dopo un generale urtò la borsa e la spostò lontano dal Fuhrer. Appena uscito, Stauffenberg vide la baracca saltare in aria, e si convinse che non vi erano superstiti. Ripartì subito in aereo, ma quando arrivò a Berlino scoprì che l'operazione Valkiria non era neanche iniziata: si attendeva la conferma della morte del tiranno. Il colonnello rassicurò i colleghi, ma ormai il ritardo era incolmabile. Il maggiore Remer, comandante del battaglione Grossdeutschlande fervente nazista, sulle prime ubbidì agli ordini dei congiurati e disarmò le SS; poi, inviato ad arrestar Goebbels, fu da quest'ultimo messo in comunicazione con Hitler, che lo promosse colonnello e gli intimò di reprimere la rivolta. Nel frattempo il generale Fromm, comandate dell'esercito territoriale, che pur aveva aderito al complotto, visto il fallimento dell'attentato si disimpegnò, e fu messo agli arresti nel suo ufficio. Quando Remer ebbe circondato la caserma dei congiurati, ormai feriti e prigionieri, Fromm convocò una fantomatica corte marziale e fece fucilare Stauffenberg con i suoi compagni di sventura. Questo stratagemma non lo salvò, e pochi mesi dopo fu giustiziato anche lui. Dopo 75 anni gli storici si domandano ancora perché il complotto fallì. Si possono addurre tre ragioni: l'inettitudine dei congiurati, la tempestiva reazione dei nazisti e infine l'intervento del Caso. I cospiratori commisero errori tanto più inspiegabili quanto più elevata era la loro esperienza militare. Il primo, e più grave, fu di non verificare l'adesione al complotto del maggiore Remer, che comandava l'unica forza efficiente a Berlino e che si rivelò il loro più determinato avversario. Il secondo fu il loro scrupolo nel neutralizzare subito gli ufficiali ostili o esitanti, che furono educatamente messi agli arresti. Il terzo fu l'incredibile esitazione dei capi. Tranne Stauffenberg e il suo piccolo giro di fedeli, tutti gli altri sembrarono incapaci di gestire una situazione così grave: questo perché von Witzleben e Beck non avevano la tempra dei golpisti, e il loro coraggio, tante volte testato sul campo di battaglia, svanì davanti alle prime impreviste difficoltà. In Francia, dove l'esercito aveva arrestato tutti i vertici delle SS, Gestapo compresa, il comandante del fronte, Von Kluge, quando seppe che Hitler era vivo abbandonò ogni iniziativa, e consigliò a von Stulpnagel di scappare vestito da borghese. Il valoroso generale si sparò, riuscendo solo ad accecarsi, giusto per affrontare poi il patibolo. Kluge e Rommel si sarebbero suicidati poco dopo. Tutti morirono con dignità, ma si comportarono da dilettanti. I nazisti, al contrario, furono tanto abili quanto rapidi. Goebbels capì tutto al volo, e agì di conseguenza. Hitler, benché ferito, parlò subito per radio al popolo, rassicurandolo sulla sua salute ed eccitandolo alla vendetta. E Himmler , con tutto il suo imponente apparato poliziesco, arrivò a Berlino la sera stessa dell'attentato per organizzare la repressione. Entro poche settimane, alcune migliaia di congiurati erano già stati arrestati e la più parte giustiziati. Infine il Caso. Di recente un gruppo di ingegneri, di esperti balistici e di patologi hanno ricostruito la scena dell'attentato. Poi ne hanno simulato le conseguenze se le tre circostanze che ne determinarono il fallimento - la riunione nella baracca invece che nel bunker, il dimezzamento della carica esplosiva e lo spostamento della borsa - non fossero state concomitanti. Ne è risultato che se anche uno solo di questi imprevisti non si fosse verificato l'attentato avrebbe avuto successo. Quanto al dittatore, nessuno può dire cosa sarebbe accaduto se fosse morto, ma purtroppo sappiamo cosa accadde con lui vivo. Le perdite di vite umane dei nove mesi successivi furono superiori a quelle dei cinque anni precedenti: nel solo mese di Agosto quattrocentomila ebrei ungheresi furono portati ad Auschwitz e sterminati. Noi possiamo concepire la Storia in vari modi: come fenomenologia dello Spirito, come Provvidenza, o semplicemente come una favola vuota senza alcun significato. Ma una cosa è certa: che la Tuxe, ovvero il Caso, di cui parlava Tucidide, interviene spesso per scompigliare i nostri progetti. E chi crede nel Demonio può legittimamente pensare che mai come il 20 luglio intervenne con tanta abilità e ostinazione per salvare un suo simile.
· I Testicoli di Hitler.
Pasquale Chessa per “il Messaggero” il 21 luglio 2019. Nel suo diario segreto, racconta Eva Braun che il suo amante, Adolf Hitler, fosse afflitto dalla medesima malformazione che angustiava Luigi XVI: monorchidia. Ma bastava l'atrofia di un testicolo per giustificare l'intermittenza della libido del Führer? Che si manifestava invece prepotente quando costringeva Leni Riefensthal a ballare nuda mentre lui allungava le mani, eccitato, sulle ginocchia di Herman Hess! Polimorfo, perverso, omosessuale, sadomaso, pedofilo (avrebbe abusato del nipote di Wagner), forse sifilitico (contagiato da una prostituta ebrea) e perfino dedito alla coprofilia e all'ondinismo o addirittura alla zoorastia: sulla vita sessuale di Hitler sono molte le ipotesi senza nessuna prova certa. False le rivelazioni più clamorose, compresi i quaderni della Braun. Fantasiose le rivelazioni di autisti e guardie del corpo. Si può credere al suo cameriere che non ha mai trovato tracce di un rapporto carnale nel letto dove aveva passato la notte con Eva. «Né carne né pesce» diceva la sua segretaria personale. Un solo lampo: la cupa storia con la nipote Geli Raubal, figlia della sorellastra, vittima della possessività dello zio fino al misterioso suicidio. Con un titolo spregiudicato (I testicoli di Hitler) due ricercatori francesi hanno ricostruito la storia di questa grande mole di dicerie scoprendo nuove verità presunte: sulla scia di Hitler non ci furono solo donne di facciata ma anche uomini. The Pink Swastika, la Svastica rosa, emerge con la tragedia della Notte dei lunghi coltelli: il primo luglio del 1934 le SS trucidarono 200 militanti delle SA, la milizia concorrente di Ernst Rohm, adepto di una omosessualità virile, probabilmente per far scomparire le tracce del suo rapporto pederastico col Führer. Anche visto dal buco della serratura, l'evocazione di Hitler riverbera ancora il suo umore nero: «Mio zio è un mostro» confidava Geli. Come sia potuto succedere nel tempo della Repubblica di Weimar, che Hitler sia riuscito non solo a imporre le sue idee ma anche sé stesso fino a distruggere uno Stato democratico dotato della migliore costituzione dei tempi moderni, è argomento ancora vivo per la ricerca storica. Da ultimi, due giovani giornalisti-storici tedeschi hanno cercato una risposta ricostruendo la cronaca dell'«ultimo inverno della Repubblica» che si conclude con la vittoria del nazismo, il 30 gennaio 1933, quando Hitler esce con le guance rigate di lacrime dalla Cancelleria come capo del nuovo governo. La doppia strategia copiata da Mussolini, illegale nella piazza ma legalissima nelle istituzioni, ha funzionato: Hitler ha ucciso la Repubblica. I Becchini, è il titolo del libro, sono il mitico feldmaresciallo Paul von Hindenburg, cancelliere; il generale Kurt von Schleicher, primo ministro in carica pronto al golpe; Franz von Papen già primo ministro e ora vice, inane complice dei nazisti E insieme una schiera di oppositori, dai socialdemocratici ai comunisti, che hanno oggettivamente favorito l'avvento del nazismo. Barth e Friederichs, seguendo i fatti giorno per giorno, sono riusciti a costruire un affascinante racconto polifonico dando voce a osservatori d'eccezione come lo scrittore inglese Christopher Isherwood oppure il conte rosso Harry Kessler, straordinario memorialista, ma soprattutto rileggendo le vivide notazioni di Bella Fromm, sublime cronista mondana che si muoveva fra politica, cultura e costume con maestosa intelligenza. Nel confronto fra storia della cronaca e storia della diceria, sono i fatti storici che hanno la meglio.
· L’anestesista che catturò Eichmann (e non ne parlò mai).
L’anestesista che catturò Eichmann (e non ne parlò mai). Pubblicato venerdì, 19 luglio 2019 da Gabriele Genah su Corriere.it. La storia del dottor Yonah Elian è racchiusa in un ago. Non solo perché fu uno dei più grandi anestesisti israeliani, ma anche perché fu lui a sedare Adolf Eichmann durante la celebre operazione del Mossad che portò alla sua cattura. L’incredibile vicenda viene raccontata da Npr: nel 1960 i servizi segreti israeliani rintracciarono l’ex gerarca nazista nascosto in Argentina sotto falso nome e venne subito allestito un piano per prenderlo e portarlo in Israele. L’operazione prevedeva che Eichmann venisse sedato e caricato a bordo di un aereo di linea: una sfida complessa perché, per non destare sospetti, non doveva né del tutto perdere conoscenza né essere in grado di chiedere aiuto. Il compito venne affidato a Elian, considerato un mago dell’anestesia. La missione riuscì e Eichmann venne condannato e giustiziato per i suoi crimini. Gli agenti che parteciparono alla cattura del gerarca vennero incensati di tutti gli onori una volta tornati in patria, scrissero autobiografie, parteciparono a show televisivi. Tutti, tranne Elian, che si rifiutò addirittura di ricevere un riconoscimento ufficiale dal Parlamento e non parlò mai del suo coinvolgimento nella missione. Nemmeno in famiglia: suo figlio Danny scoprì la storia tramite un amico e per anni chiese al padre il perché del suo silenzio, senza successo. Un bel giorno però il dottore gli consegnò un pacco, custodito per anni in fondo a un cassetto: conteneva il famoso ago. Decise anche di offrire finalmente al figlio una spiegazione per la sua reticenza durata tutta una vita: aveva infranto il giuramento di Ippocrate, poco importa se nei confronti di un uomo responsabile della morte di milioni di innocenti. L’ago oggi è custodito gelosamente da Danny: «Un giorno lo darò ai miei figli e loro decideranno cosa farne». Nel 2011, 50 anni dopo il processo Eichmann, Elian si tolse la vita, senza biglietti d’addio. Quell’ago fu il suo unico lascito.
· Witold Pilecki: dentro l’orrore ed ucciso dai comunisti.
DENTRO L’ORRORE. Ferruccio Pinotti per corriere.it l'11 agosto 2019. Ci fu un eroe che si consegnò ai campi di sterminio nazisti per aiutare la resistenza interna e per documentare l’orrore. È la storia di Witold Pilecki, un coraggioso ufficiale dell’Esercito polacco, che si fece internare ad Auschwitz per testimoniare lo sterminio di massa, ma che fu poi condannato a morte dai sovietici nel 1948 in base alla falsa accusa di essere una spia. Un libro uscito recentemente, The Volunteer - The True Story of the Resistance Hero Who Infiltrated Auschwitz (Jack Fairweather, Penguin Books) ha finalmente reso onore a un uomo che ora è considerato un eroe in Polonia. Pilecki era un proprietario terriero dalle idee illuminate, che sacrificò la serenità familiare e il benessere economico per combattere i bolscevichi negli anni 1918-1921, i nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale e i comunisti occupanti nel dopoguerra. Pagando con la vita l’amore per il Suo paese e per la libertà.
Un aristocratico sempre in prima linea. Pilecki era nato il 13 maggio 1901 a Oloniec (oggi Olonets, nella Repubblica autonoma di Carelia della Federazione Russa) da una famiglia aristocratica polacca. Dal 1910 Pilecki visse a Wilno (oggi Vilnius, in Lituania) e lì si arruolò nel 1918, scoppiata la Prima guerra mondale, nelle unità di difesa territoriale. Il 5 agosto 1920 si distinse nei combattimenti di Varsavia e ottenne la Croce al Valore. Terminato il conflitto, si iscrisse all’università e si dedicò alle proprietà di famiglia; poi nel 1926, entrato in cavalleria come ufficiale, si sposò (nel 1931) con Maria Ostrowska (sopravvissutagli fino al 2002) che gli darà due figli. Nel frattempo era esplosa la Seconda guerra mondiale e Pilecki si impegna nella 19ma Divisione di fanteria contro i tedeschi. Riassegnato alla 41a Divisione, distrugge sette carri armati nemici, un aereo in volo e due a terra. Ma i sovietici attaccano alle spalle i polacchi, già impegnati con i nazisti. Le unità di Pilecki si arrendono. Rientrato a Varsavia, l’ufficiale fonda, il 9 novembre 1939, il Tajna Armia Polska, l’Esercito segreto polacco che si unisce poi all’Armia Krajova (AK), l’esercito patriottico clandestino, odiato e perseguitato da nazisti e sovietici. Nel 1940 concepisce l’idea di entrare nel campo di concentramento nazista di Auschwitz, nella polacca Oswiecim, per raccogliere informazioni e aiutare la resistenza interna.
Testimone dello sterminio di massa. I suoi superiori accolgono la proposta e così il 19 settembre Pilecki si fa catturare dai tedeschi per le strade della Varsavia occupata, sotto il falso nome di Tomasz Serafinski. Con lui vengono presi altri 1139 civili. Pilecki viene torturato per due giorni e poi è inviato ad Auschwitz. Sul braccio ha tatuato il numero 4859. Fra lavoro e malattie, nel campo crea l’Unione di Organizzazioni Militari allo scopo di aiutare gl’internati e preparare la liberazione del campo da parte dell’AK e del legittimo governo polacco in esilio in Gran Bretagna. Intanto raccoglie notizie sugli orrori del campo, che già nel marzo 1941 iniziano ad arrivare a Londra. Nel frattempo, la Gestapo intercetta e giustizia diversi suoi compagni. Per Pilecki è venuto il tempo della fuga, che avviene la notte tra il 26 e il 27 aprile 1943. Con sé il tenente porta documenti importanti: spera possano permettere all’esercito segreto polacco di liberare gl’internati in quel campo di morte con l’aiuto di Londra. Londra però dice che non è possibile, non crede al Rapporto stilato da Pilecki, temono che sia un falso. I sovietici non si comportano meglio: quando nel 1944 passano nei pressi del campo, marciano diritti senza fermarsi un attimo: puntano su Berlino, non Auschwitz. Il 23 febbraio 1944, promosso capitano, Pilecki s’inventa una nuova struttura segreta, stavolta anticomunista, “Indipendenza”. Quando Varsavia insorge, il 1° agosto 1944 , Pilecki combatte con l’AK. Lo catturano e la fine della guerra lo trova internato fra Lambinowice, in Polonia, e Murnau, in Baviera. Il 9 luglio 1945 è liberato.
In Italia a scrivere il resoconto dell’orrore. Infaticabile, si unisce all’Esercito polacco del generale Wladislav Anders. Soggiorna in Italia e qui scrive le proprie memorie su Auschwitz. Potrebbe rimanere nel Belpaese, ma moglie e figli sono in Polonia, dove patrioti e comunisti hanno rotto definitivamente. Ricercato dai sovietici, per tutta risposta dall’aprile 1947 il capitano si mette a raccogliere prove della crudeltà comunista nel Gulag. L’8 maggio viene alla fine catturato. E subito torturato. Il resistente antinazista viene considerato solo una sporca spia. Il processo è fissato al 3 marzo 1948. Il 15 maggio arriva la sentenza capitale, eseguita, il 25 seguente, con un proiettile sparato nella nuca. Il periodo italiano di Pilecki è stato ricordato già nel 2016 quando gli è stato intitolato un giardino pubblico a Vicoli, piccolo centro della provincia di Pescara. «L’Italia - ha scritto il figlio di Pilecki, Andrzej Pilecki in una lewtera di ringraziamento - si è impressa nella memoria di mio padre in maniera molto amichevole. Proprio qui, nel luglio del 1945, mio padre arrivò dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, arrivando dal campo di prigionia di Murnau per entrare nel 2/o Corpo d’Armata polacco, le cui truppe stazionavano in Italia. Si era stabilito in località San Giorgio e divideva il suo tempo tra la scrittura dei ricordi di Auschwitz e i colloqui con i comandanti delle forze armate polacche: in Italia è nato il “rapporto Pilecki”, il resoconto del crimine atroce di cui si erano macchiati i nazisti nel campo di concentramento di Auschwitz». La storia di Pilecki era stata raccontata per la prima volta dal giornalista e storico Marco Patricelli nel libro Il volontario (Laterza), uscito nel 2010.
Eroe nazionale. Il ruolo storico di Pilecki è ormai accertato. Il suo primo rapporto dai campi si stermino portava il titolo Rapporto “W” e fu scritto da Pilecki nel 1943, subito dopo la sua fuga da Auschwitz. Nel Rapporto “W” inoltre erano presenti altri due fascicoli separati denominati come Il rapporto “Terrain S”. La versione dettagliata e conclusiva della relazione fu redatta da Pilecki in Italia nel 1945], dopo aver lasciato il campo di prigionia nel quale si trovava in seguito alla rivolta di Varsavia, alla fine della seconda guerra mondiale. In questa ultima trascrizione del rapporto l’autore inserisce anche riflessioni personali e ricordi di quegli anni vissuti da internato ad Auschwitz. Il testo completo del rapporto Pilecki è stato pubblicato per la prima volta in Polonia solo nel 2000, 55 anni dopo la fine della guerra e 52 dalla morte dell’autore. Fino ad allora il testo rimase del tutto sconosciuto sia alla comunità scientifica polacca che ai cittadini dell’ex Repubblica Popolare Polacca. Prima del 1989 tutte le informazioni sulla vita e le azioni del capitano Witold Pilecki furono segretate e soggette a censura, a causa delle accuse di spionaggio che gli furono imputate e per la quali, una volta tornato a Varsavia nel maggio del 1948, fu condannato. Oggi la figura di Pilecki è stata completamente rivalutata e l’ufficiale è considerato un eroe nazionale.
· I Medici dei dittatori.
IRIAM ROMANO per Libero Quotidiano il 25 novembre 2019. Apre gli occhi Hitler. Il colore azzurro-grigio riprende vigore, insieme alle pupille di nuovo dilatate. Ecco quella famosa fissità dello sguardo ritornare sul volto del Führer. È la siringa appena staccata dal suo braccio ad avergli dato sollievo. Un'iniezione praticata dal suo dottore, Theo Morrel. Adolf Hitler schivava ogni contatto fisico, non si faceva sfiorare da nessuno, eccetto che da Morrel. E dire che giravano voci di tutti i tipi su quell' uomo, persino che fosse ebreo. Centodieci chili per un metro e sessanta di altezza, carnagione scura, di "ariano" non aveva un bel nulla. Ma questo non gli fu d'ostacolo per diventare il medico personale di Hitler. Dottore e confidente, ombra silenziosa del Führer. Accanto agli alloggi privati del capo del Terzo Reich, c' era sempre il suo ambulatorio. Morrel lo seguiva ovunque, nei nascondigli, nei bunker, divennero inseparabili. Hitler non poté più fare a meno di lui per un semplice motivo. Questo dottore anonimo e grassoccio, soprannominato il Rasputin di Hitler, ogni giorno gli somministrava ciò che voleva: anfetamine, sedativi, cocaina, derivati dalla morfina e un buon numero di misteriose pozioni degne di uno stregone.
FIGURE POCO NOTE. Sono figure poco note, che si muovono nelle stanze segrete dei palazzi. Voci sussurrate in un orecchio, compagni determinati e coraggiosi. I medici hanno fatto la storia insieme ai leader del Novecento. La medicina influenzò le loro azioni politiche, tirò su i fisici provati dallo stress del potere. Per la prima volta in un libro, Il potere tossico. I drogati che hanno fatto la storia, ne parla l'autrice, Tania Crasnianski (Mimesis, pagg 336, euro 18) Con aneddoti, appunti di diari del tempo, la scrittrice tesse il rapporto di interdipendenza tra dottori e otto pazienti importanti (Hitler, Mao, Mussolini, Pétain, Churchill, Franco, Kennedy, Stalin). Un legame coperto dal segreto di Stato che ci viene svelato solo oggi. A Vladimir Vinogradov, medico personale di Stalin, quella costrizione al silenzio lo portò fino in galera, per mano del suo stesso paziente. E gli andò meglio del suo predecessore, il dottor Pletnev, che fu ucciso. Sapeva troppe cose, aveva conosciuto troppe persone. Poco importa se per anni lui e il leader russo erano stati grandi amici. Stalin non conosceva mezze misure.
Di altra fatta, invece, il rapporto che si instaurò tra Mussolini e Georg Zachariae, medico tedesco inviato al dittatore italiano da Hitler. Il dottor Zachariae era affascinato dal carisma travolgente di Mussolini. Fu l' unico a rimanere al suo fianco anche nei giorni della disgrazia. Durante il loro primo incontro, Mussolini aveva un aspetto devastato. Stava perdendo la guerra, la sua psiche iniziava a vacillare insieme al suo corpo deperito, molto lontano dal vigore delle immagini di qualche anno prima che lo ritraevano come un forte imperatore romano. Zachariae fece di tutto per rimettere in sesto Mussolini. Ed ecco che iniziano le somministrazioni, quotidiane, di sostanze a base di ormoni maschili e droghe che consentiranno al dittatore di apparire in pubblico, per i suoi ultimi appassionati discorsi che incanteranno, ancora una volta, il popolo italiano.
Di altri problemi dovette occuparsi invece Li Zhisui, il medico personale di Mao Zedong. Il suo paziente aveva un vizio non trascurabile. Una passione avida per le donne. Migliaia di concubine si alternavano nel suo letto, più grande del normale, costruito su misura per ospitare più fanciulle alla volta.
IL VIZIETTO DI MAO. Orge, amplessi consumati sotto gli occhi del suo dottore che faceva parte del suo gruppo più ristretto di amicizie. Abitudini che Mao non voleva assolutamente perdere, nemmeno con la vecchiaia. Il compito di Li fu proprio questo: trovare una formula o una pozione che garantisse una libido e una prestanza eterna al suo capo. Mentre il medico Lord Moran assisteva alle immersioni nella vasca da bagno di Wiston Churchill, mezzo nudo come un bambinone. Paziente difficile e irascibile, si fidava solo di Moran che lo curò a colpi di sonniferi e ipnotici di moda a quel tempo. I più appassionati di storia politica americana, ricorderanno il famoso dibattito televisivo tra Kennedy e Richard Nixon. Il 26 settembre 1960. Un incontro decisivo per le elezioni. Non molti sanno, però, che poco prima di quel dibattito, Kennedy si recò dal suo medico personale, Max Jacobson. Era in pessime condizioni, parlava a malapena, aveva bisogno che il suo dottore gli somministrasse la sua dose di anfetamine direttamente nel collo. Ed ecco: luci accese in studio, settanta milioni di telespettatori, il giovane senatore è abbronzato, travolgente. Nixon è sottotono, reduce da un' influenza, pallido e smunto. Questo dibattito, qualcuno lo ricorderà, segnò una svolta fondamentale: Kennedy superò Nixon di qualche punto.
· Il "quadrato Monforte" di Pavolini, ultima difesa di Salò a Milano.
Il "quadrato Monforte" di Pavolini, ultima difesa di Salò a Milano. Il segretario del PRF progettò un ridotto per l'estrema resistenza della RSI e per proteggere Mussolini. Come quello più famoso della Valtellina. Scrive Edoardo Frittoli il 24 aprile 2019 su Panorama. Mussolini era giunto a Milano il 19 aprile 1945 da Gargnano per stabilirsi in corso Monforte presso il Palazzo della Prefettura. A pochi metri in linea d'aria si trovava il numero due della Repubblica Sociale, il segretario del Partito Fascista repubblicano Alessandro Pavolini. Siamo nel pieno centro di Milano, a poche centinaia di metri da Piazza San Babila. Quello che fu l'ultimo quartier generale del partito fascista di Salò si trovava negli eleganti ambienti della Villa Necchi-Campiglio (oggi uno dei fiori all'occhiello del Fondo per l'Ambiente Italiano-FAI) in via Mozart al numero 14. Fu tra le stanze disegnate dal celeberrimo architetto Piero Portaluppi e requisite alla proprietà che il segretario del PNF sognò l'estremo baluardo difensivo della RSI, un piano cresciuto contemporaneamente a quello più famoso e noto come il "Ridotto alpino repubblicano" in Valtellina. Il "quadrato fortificato Monforte", che sarà raccontato nelle pagine del diario di un'addetto del Comando Generale delle Brigate Nere (anch'esso in via Mozart) era il cuore di un sistema difensivo costituito da cinque settori in cui era stato diviso il territorio cittadino e che avrebbero dovuto resistere all'impatto dell'avanzata degli Alleati. Milano avrebbe dovuto essere protetta da un lungo campo trincerato (tra i 22 e i 25 km) e difesa dalla fantomatica forza di circa 100.000 uomini delle forze della Repubblica Sociale. Vicino all'elegante parco della villa, un altro giardino al civico 6 della stessa via Mozart nascondeva una delle "ville tristi" milanesi dove negli ultimi mesi di guerra il funzionario di un "reparto speciale di polizia repubblicana" Pasquale Isepi (detto il "dottor Rossi") torturava i prigionieri rispondendo agli ordini diretti delle SS di Theo Saewecke e Walter Rauff. Il quadrilatero in cui si trovava Mussolini durante gli ultimi giorni milanesi sarebbe anche stato difeso da armi leggere e pesantinonché da blindati e carri armati. Protetto il Duce nel bunker antiaereo di Palazzo Isimbardi (quello del rifugio a cono noto come la "torre delle sirene"), i cingoli e i cannoni dei carri armati avrebbero presidiato il quadrato disegnato da Corso Monforte, Via San Damiano, Via Vivaio e via Mozart. Diversi bunker in cemento armato avrebbero dovuto essere allestiti ai quattro angoli del ridotto, di fronte all'ingresso di Villa Necchi Campiglio e del Palazzo della Prefettura. Le adiacenze avrebbero dovuto essere illuminate a giorno da potentissimi riflettori, e gli accessi alle vie del quadrilatero protette da sbarramenti anticarro e cavalli di frisia. Il parco della villa quartier generale di Pavolini avrebbe dovuto essere completamente scavato e trincerato. Dalle finestre dei palazzi liberty della zona fortificata avrebbero dovuto sbucare le canne di centinaia di armi leggere. I lavori partirono comunque anche nel caos degli ultimi giorni di Salò. Era il 22 aprile quando iniziarono i primi e unici lavori di fortificazione, complicati dalla carenza cronica di materie prime e dall'azione speculativa dei costruttori che arrivarono a chiedere cifre astronomiche per le gettate di bunker e piazzole. Sotto lo sguardo dei giovanissimi militi della Compagnia Giovani Fascisti "Bir el Gobi", i lavori di trinceramento proseguirono solamente per una manciata di ore. Le centinaia di armi leggere e pesanti non giunsero mai, dal momento che gli unici ancora bene armati erano i Tedeschi che si ritiravano. Secondo una testimonianza presente nelle pagine del diario rilasciata da un "vecchio soldato" non meglio specificato, Pavolini arrivò addirittura ad ordinare l'acquisto delle armi alla borsa nera. Alle ore 17 del 25 aprile 1945 il segretario del PNF udiva un trambusto provenire dal cortile della Prefettura. Pavolini fece un balzo da una delle finestre del piano terreno di villa Necchi, appena in tempo per vedere Mussolini sparire a bordo di una Balilla con la bombola di metano sul tetto, accompagnato dal Sottosegretario Francesco Maria Barracu. Prima ancora di iniziare, per il "quadrato Monforte" era giunta la fine.
· Quando Badoglio dormiva.
“QUANDO BISOGNAVA DECIDERE SE OPPORSI ALL’OCCUPAZIONE NAZISTA BADOGLIO DORMIVA”. Da Ccaniene il 12 giugno 2019. Una serata speciale, densa di emozioni. Il libro di Enzo Bernardini ed Emanuele Stolfi, “Roma sotto il giogo nazista”, presentato nel Salone del Circolo, ha richiamato una nutrita platea, interessata alle vicende dei mesi terribili dell’occupazione tedesca della Capitale d’Italia. Gli autori hanno avuto un’idea geniale: intervistare i protagonisti. Le parole di questi non sono inventate: raccontano con estrema precisione quello che avvenne. Tra i presenti, con il presidente onorario dell’Aniene, Giovanni Malagò, che nel suo intervento ha ricordato come fosse Roma allora, l’avvocato Luca Montezemolo che non solo ha elogiato il libro che, a suo avviso, «ha tre grandi meriti, con Roma che ha mostrato una grande resistenza», ma che ha ricordato le gesta di suo zio, il colonnello Montezemolo che aveva assunto l’incarico di Capo di Stato Maggiore del Corpo d’armata. «Mio zio è morto da eroe – ha dichiarato Luca – e dopo la prigionia in via Tasso è stato ucciso alle Fosse Ardeatine». Pubblichiamo l’intervento di Gianni Letta che, impossibilitato ad essere presente, non ha fatto mancare il suo pensiero sul libro. «Comincio con il dar ragione ad Aldo Cazzullo che nella prefazione definisce il libro “Bellissimo” e ne augura la diffusione nelle scuole. Il libro ha per sottotitolo “Interviste immaginarie a protagonisti (veri) di un’epopea”, ma non sono interviste immaginose o fantasiose, sono un espediente narrativo che non sposta nel romanzesco le vicende ma le rende drammatiche, usando i modi di esprimersi e gli elementi fattuali rigorosamente attinti da libri e memorie verificate. Per questo ha ragione Cazzullo in entrambe le sue valutazioni. È bellissimo: lo è anche dal punto di vista letterario e della validità storica, perché non c’è una sola pagina di questo volume che non abbia solide fonti. È adatto alle scuole, sin dalle medie inferiori oso dire io, perché è insieme sintetico, ma non ha nulla dell’angustia espressiva di un riassunto o della prosaicità di un bigino. Introduce in un dramma. E quali sono le caratteristiche di questo dramma? Roma poteva essere salvata da quello che gli autori definiscono con precisione storica e pertinenza linguistica “il giogo nazista”? La risposta – credo – debba essere di due tipi. Una filosofica, l’altra storica, basata sugli elementi che con grande cura Bernardini e Stolfi espongono con la voce dei protagonisti. Dal punto di vista filosofico e morale la risposta deve essere per forza “sì”. Roma poteva e doveva essere preservata da questo giogo. Non esiste fatalità nella storia, non ci sono destini inesorabili come nelle tragedie greche. E l’evidenza morale di come gli occupanti nazisti avrebbero esercitato il loro dominio dice che era un dovere di chiunque avesse responsabilità evitare lo scempio della libertà e la razionalmente non solo prevedibile ma sicura deportazione degli ebrei. Da un punto di vista storico, la risposta è terribile ma inevitabile. Il disfacimento morale, la tempra furbastra della classe dirigente fascista, la inadeguatezza della monarchia e delle alte gerarchie militari non lascia adito a dubbi. Si ripetesse mille volte una situazione simile, sarebbe finita così. Il pressappochismo narcisistico e vile dei protagonisti viene fuori in pieno. Emerge anche un’altra evidenza: agli alleati non importava gran che di preservare Roma. Giustamente non si fidavano di coloro che fino a poco prima erano stati nemici poco inclini alle considerazioni umanitarie, e fornirono a Badoglio e ai generali indicazioni generiche della volontà di salvare Roma, più che altro – ritengo – per fornire un alibi morale a costoro, i quali nel momento della prova esibirono un istinto alla loro propria sopravvivenza più che onore patrio. Emerge una cosa importantissima da questo libro. La domanda è quella che pone Ernesto Galli della Loggia. L’8 settembre che ebbe come esito il “Tutti a casa” dell’indimenticato film – come scrivono gli Autori – di Luigi Comencini (1969) e il giogo nazista su Roma è la data definitiva della “morte della patria”? Su questo il dibattito non si è mai interrotto, e non intendo certo risolverlo io in due battute. Ma questo volume fornisce elementi per non confondere lo “Stato in frantumi” con la distruzione del tessuto umano e sociale che è quello che alla fine costituisce la patria. “Stato in frantumi” è la definizione fornita da Bernardini e Stolti. Non sono solo le istituzioni a liquefarsi, ma esse semmai si polverizzano per la decomposizione vergognosa, prima spirituale e subito dopo operativa, delle autorità statali. Dalla monarchia fino al governo. Emblematica è la frase che il libro riferisce. Nel momento decisivo, in cui bisognava decidere se opporsi all’occupazione manu militari da parte delle truppe naziste, «Badoglio dormiva» (pag. 43, testimonianza del generale Roatta, capo di stato maggiore dell’esercito) e aveva dato ordine di non essere svegliato prima delle cinque per poi darsi più comodamente alla fuga. Se si dorme in quelle ore, e i subordinati d’alto grado non osano svegliare il capo, vuol dire che si è morti. Ma il sentimento di appartenenza del popolo, l’ethos della nazione non è andato in frantumi, non morì in quei frangenti. Parlo proprio del popolo romano. Fu sommerso dalle rovine dello Stato, fu calpestato dai nazifascisti, non si manifestò in una insurrezione popolare come a Napoli e come nelle città del Nord, ma, pur nella reazione lenta che l’intorpidimento della coscienza di vent’anni di fascismo ahimè condiviso aveva infuso negli animi. Tuttavia dentro questa apparente indifferenza vibrava una fiammella di memoria, i romani esercitarono la loro virtù drammaticamente ironica di non credere mai che la storia sia finita, misero in campo la loro arte di preservarsi dall’assimilazione con il nemico occupante, resistettero e mai dettero modo che si sarebbero conformati alla maniera di essere e di intendere la vita degli occupanti e dei capi fascisti. E questa ironia spesso amara, mai superficiale, ha preservato e preserva questo popolo – almeno in quei frangenti – dal seppellire l’idea e la fede nella patria. C’è una frase molto illuminante che nel libro il feldmaresciallo Kesselring pronuncia: «Tutte le volte, che nel corso della guerra mi trovai a passare per Roma, feci sempre una medesima considerazione: la città, il ritmo di vita dei suoi abitanti, davano chiaramente a vedere che non era diffusa, tra la popolazione, l’idea che l’Italia fascista fosse, assieme ai suoi alleati, coinvolta in una “guerra totale”» (pag. 60). Questa è la forza dei romani. Conservano sempre una via di fuga interiore, una uscita di sicurezza, per usare un’espressione di Ignazio Silone, rispetto al totalitarismo di qualsiasi potere. Per dir questo carattere pigro dei romani che diventa capacità di resistenza alla seduzione gli autori fanno pronunciare a Sandro Pertini il giudizio di Giorgio Amendola: «La grande maggioranza della popolazione era attesista (scrive proprio così: attesista), decisa a lasciar passare le settimane e i mesi in attesa degli Alleati senza farsi trascinare in faccende rischiose. Perciò nessuno parlava e tutti, tranne qualche spregevole eccezione, si facevano i fatti propri. Se poi nasceva il problema di aiutare un italiano, un patriota, un soldato a nascondersi per sfuggire alla persecuzione e all’arresto, non si tiravano indietro, e molti cittadini romani furono trascinati così, senza averlo deciso deliberatamente, nel vortice della lotta clandestina» (pag. 82).
Lotta clandestina! Prima di entrare in questo capitolo non posso non constatare come sia dedicato nel libro, e andrebbe ricordato di più, il sacrificio dei carabinieri, disarmati e deportati nell’ottobre del 1943. C’è una parte dello Stato allora che resistette, e non proprio una parte marginale. Ed è su queste basi che si ricostituirà l’ossatura di una sicurezza fondata su valori democratici assai presto, e ancora a guerra in corso. A proposito di lotta clandestina, e delle due anime che ne costituivano il nerbo, gli autori affrontano la questione che divide ancora oggi: l’atto di guerra (come l’ha definito la Cassazione nel 2001) di via Rosella e la atroce rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Quell’atto di guerra voluto ed eseguito senza informare il comitato di liberazione nazionale e condotto dai comunisti in particolare del Gap, gruppi armati patriottici, resta controverso. Gli autori usano le parole del socialista prof. Giuliano Vassalli per contestare ai comunisti l’intenzione attraverso simili atti di prendersi l’egemonia della resistenza e quindi del futuro del paese. Cazzullo cita Giorgio Bocca, il quale giustifica e spiega: «In realtà, e i comunisti lo sanno bene, il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell’occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Esso è autolesionismo premeditato: cerca le ferite, le punizioni, le rappresaglia per scavare il fosso dell’odio. È una pedagogia impietosa, una lezione feroce» (pag. 12). Ma forse aveva ragione Vassalli. Non era un prezzo per la vittoria (infatti ormai gli alleati stavano per arrivare, anche se in quel momento “spiaggiati” ad Anzio) ma per la “loro” preminenza, loro dei comunisti. E poi questa idea di essere sopra quanto a coscienza e a moralità al popolo, che ha bisogno della pedagogia delle rappresaglie, non so quanto sia morale e giusta. Non pretendo di aprire un dibattito su questo, non ho le armi dello storico. Ma sono circostanze che fanno pensare. Un altro capitolo è da considerare per analizzare la capacità di resistenza del popolo romano. La presenza del papato a Roma come surrogato della presenza dell’autorità civile italiana. E non solo del papato genericamente inteso, ma proprio della persona di Pio XII, in quei frangenti sostenuto da monsignor Montini. Due volte nel libro è scritto a proposito di Papa Pacelli che fu davvero, secondo Roosevelt, “Difensor civitatis” (pag. 93). E credo che il tempo e la possibilità di attingere gli archivi vaticani come promesso da papa Francesco sempre più metterà in luce questo fatto, rischiarato proprio di recente in un convegno tenutosi alla casa generalizia dei gesuiti. I suoi sforzi per difendere Roma furono premiati, allorquando il 4 giugno 1944 le forze tedesche si allontanavano dalla città senza mettere in atto i propositi di distruzione che avevano manifestato. Nei giorni seguenti, il popolo romano, senza alcuna distinzione di ceto e di idea politica, si riversò, più volte, in massa in Piazza San Pietro per esprimere tutta la sua gratitudine per colui che acclamava come Padre e Defensor civitatis, Difensore della città».
La versione di Federzoni sulla caduta del fascismo. Le memorie del gerarca svelano i retroscena del 25 luglio 1943: "Fu Mussolini a tradire noi". Giancristiano Desiderio, Giovedì 13/06/2019, su Il Giornale. Nella seduta del 25 luglio 1943 chi tradì: i congiurati o Mussolini? Luigi Federzoni non aveva dubbi e lo scriveva nel suo Diario di un condannato a morte che scrisse tra il 19 settembre 1943 al 4 giugno 1944, quando era rifugiato presso l'ambasciata portoghese alla Santa Sede e che solo ora, dopo settant'anni, è pubblicato dall'editore Angelo Pontecorboli: «Se fra noi e lui ci fu un tradimento, fu il suo; fu quello con cui egli premeditò di imbottigliare anche noi, a nostra insaputa e a nostro malgrado, nella responsabilità della guerra». Mussolini unico responsabile della guerra e della dittatura? Sarebbe troppo comodo e, anche se in queste pagine Federzoni si autoassolve, il Diario di un condannato a morte è prezioso perché fornisce notizie su come e perché si svolse la seduta del Gran Consiglio e dà una cronaca dei dieci mesi in cui Mussolini è liberato dai tedeschi, nasce la Repubblica di Salò, cinque dei congiurati sono processati a Verona e uccisi come traditori, è assassinato Giovanni Gentile, è liberata Roma questa Città dell'Anima. Lo stesso Diario ha una sua storia particolare. Luigi Federzoni (1878-1967) - fondatore con Enrico Corradini dell'Associazione nazionalista italiana, ricoprì cariche politiche, istituzionali e culturali durante il regime fascista - affidò il suo Diario a Carlo Sommaruga affinché, in qualità di diplomatico, lo portasse a Lugano per farlo custodire dal vescovo Angelo Giuseppe Jelmini. Solo in anni recenti le carte sono state donate all'Archivio centrale dello Stato e ora il Diario è pubblicato in una edizione critica curata da Erminia Ciccozzi e con due saggi di Aldo A. Mola e Aldo G. Ricci. Federzoni morì nel 1967 e Mondadori pubblicò il volume postumo Italia di ieri per la storia di domani dove vi sono pagine che attingono alle memorie del gerarca, nel 1993 poi l'editore Passigli pubblicò 1927: diario di un ministro del fascismo e, infine, nel 2013 presso Le Lettere uscì Memorie di un condannato a morte. Tuttavia, il Diario è un testo inedito che, oltre a fornire notizie, conserva il fascino di un testo letterario e politico di «questo povero italiano - come dice Federzoni -, che dovrà inevitabilmente scontare, insieme con i suoi errori, la disgrazia di essere detestato dagli invasati dell'antifascismo settario non meno che dai malfattori del fascismo estremista: posizione mediana disagevole e pericolosa, ma che potrebbe forse legittimare la sterile illusione di essere stato sempre, sostanzialmente, abbastanza vicino al giusto e al vero». In fondo, il Diario di Federzoni è una sorta di ravvedimento che si fece luce in lui già prima della metà degli anni Trenta: staccare il destino nazionale dal regime fascista. Non è un caso che in queste pagine non compaia solo Mussolini ma anche Togliatti e Federzoni, recluso nelle stanze dell'ambasciata, capisce lucidamente cosa sta accadendo con la svolta di Salerno quando il leader comunista chiede il rinvio alla fine della guerra della soluzione della questione istituzionale - ossia se salvare o no la monarchia - per appellarsi ai partiti antifascisti e creare un governo di unità nazionale e sconfiggere definitivamente i tedeschi. In queste pagine Federzoni non risparmia critiche a Croce e, tuttavia, è singolare che mentre Federzoni scriveva nel suo diario il lucido giudizio sul compagno Ercoli, la stessa cosa faceva Croce e con un giudizio molto simile. «La presa di posizione di Togliatti - scriveva Federzoni - corrisponde esattamente al realistico e spregiudicato indirizzo generale della politica di Mosca» e «Togliatti stesso è un fiduciario di Stalin». Federzoni capisce che da lì viene un pericolo serio ma non se ne può fare altrimenti e l'Italia «dovrà correre il rischio di diventare, come la futura Jugoslavia, un pianeta un po' più grosso nel sistema di cui Mosca è il sole». Vale la pena di sottolineare che tutto ciò sarà confermato dalla storia e dai documenti sovietici, pubblicati venti anni fa da Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky. In questo pericolo che correva l'Italia di cadere da una dittatura in un sistema totalitario, il riferimento di Federzoni era la monarchia. Lo stesso riferimento che ci fu prima, durante e dopo la seduta del Gran Consiglio. L'ex presidente del Senato, nel ricostruire i fatti dice che la seduta si tenne proprio per dare a Vittorio Emanuele la possibilità di revocare il mandato a Mussolini. La monarchia fu informata tramite il ministro della Real Casa, Acquarone, e l'obiettivo era uno solo: «L'eliminazione di Mussolini». Il motivo era uno: l'Italia, che aveva già sul suo suolo i nemici, futuri alleati, non poteva più sostenere la guerra. Mussolini una settimana prima incontrò Hitler a Feltre e non riuscì a dirgli che l'Italia non ce la faceva più, ma Hitler capì che non poteva fidarsi neanche più di Mussolini che, come scriveva Federzoni, era ormai «un vecchio giocatore d'azzardo». E, infatti, in quelle lunghe dieci ore della drammatica seduta, in cui i membri del Gran Consiglio erano persino armati di pistole e bombe a mano, il «dittatore deposto» era stanco, fiacco, disilluso: «L'incanto era rotto». Federzoni chiude così: «Il Gran Consiglio per vent'anni era vissuto male, ma aveva saputo morire bene».
· La Liberazione degli Alleati.
25 aprile. Non era guerra di Liberazione (ci hanno pensato gli Alleati) ma una miserabile guerra civile per il Potere.
L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassibile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
LUTTWAK: “IL 25 APRILE È STATO CREATO PER ILLUDERE GLI ITALIANI CHE A LIBERARE IL PAESE SIANO STATI I PARTIGIANI. IN REALTÀ A SCONFIGGERLI FURONO GLI ALLEATI”. Da “la Zanzara – Radio24” il 25 aprile 2019.
E il 25 aprile?: “L’esercito tedesco, si sa, è stato distrutto dai partigiani italiani….C’è una mitologia sulla Resistenza. C’è stata una strumentalizzazione da tanto tempo. Il 25 aprile era importante nel Dopoguerra, si poteva dare l’illusione agli italiani che erano stati loro a liberare il Paese e non erano gli Alleati ad averla conquistata. E poi c’era un interesse a magnificare l’importanza della Resistenza. Per i tedeschi i partigiani erano un fastidio, ma a sconfiggerli furono gli Alleati. Quando i tedeschi si ritiravano allora i partigiani avanzavano, altrimenti si fermavano. Il resto è illusione. Mai i partigiani li hanno spinti fuori”.
Gli eroi dimenticati di Cassino. Vittorio Macioce, Sabato 18/05/2019, su Il Giornale. Le tracce della linea Gustav ci sono ancora, sulle montagne, lì dove finisce la tua valle. C'è sempre il fiume Rapido, che d'estate è un rivolo e d'inverno si gonfia e si arruffa, nervoso, ostile, cattivo, come un dio che spazza le ambizioni degli umani. Fu lui a frenare le truppe alleate del generale Clark, mentre le mitragliatrici tedesche facevano mattanza. Sono passati settantacinque anni dalla battaglia di Montecassino, le cicatrici (...)(...) segnano la città, come un corpo dilaniato e ricostruito da un chirurgo maldestro. Qui ci fu il fronte italiano della Seconda guerra mondiale, eppure Cassino è sempre un po' ai margini della mappa sacra della repubblica. Non è il Carso, non è il Piave, non è via Rasella o Piazzale Loreto, pochi raccontano il sangue di questi monti. Si ricorda con un certo fastidio anche quello che accadde dopo, nonostante Moravia e De Sica e il volto di Sophia Loren, gli stupri dei vincitori, le «marocchinate». Forse perché fu una guerra straniera sul suolo italiano e senza Resistenza, senza partigiani, senza rossi e neri. Cassino è il cimitero degli altri. Eccone uno. Lo vedi lungo la strada, dopo una curva, in un quartiere di Cassino non molto lontano dal casello dell'autostrada. Si chiama Folcara e ancora porta i segni di quella che un tempo era campagna. Poco più in là c'è l'università. Il cimitero del Commonwealth è qui e per trovarlo non basta un navigatore satellitare, devi chiedere e molti risponderanno: «Mai sentito». Oppure: «È qui da qualche parte». Quelli che lo conoscono non vivono qui. Vengono magari dalla periferia del Tamigi, dalla contea di Surrey, a sud di Londra o da Porirua, la città delle due maree, a venti chilometri da Wellington o da qualche sobborgo di Nuova Delhi. Le lapidi sono una fila bianca, come una brigata, divisa in quattro battaglioni. I morti sono 4.266, 284 non hanno più un nome, militi e ignoti: britannici, canadesi, australiani, neozelandesi, indiani, sudafricani, pachistani, nepalesi e un soldato dell'Armata Rossa. Tutti sono sepolti all'ombra lontana, lassù, dell'abbazia, sventrata, stuprata, dissacrata e poi ricostruita, come se la storia si potesse rammendare, perché quel monte racchiude qualcosa di più delle pietre e del marmo. È lì che Benedetto ha scritto la sua regola, il suo «ora et labora», segnando l'inizio del monachesimo, la fuga e il ritorno nel mondo, la rete globale che illumina la civiltà occidentale nell'incertezza dell'età di mezzo. Tutto questo però non consola i morti e forse non interessa neppure più di tanto ai vivi.
L'ULTIMO REPORTAGE Quello che resta è un cognome su una tomba, la terza a sinistra, in prima fila. C'è scritto C. Bewley e non è un soldato. C sta per Cirillo. È un giornalista, corrispondente sul fronte di Cassino per il Kemsley Newspapers, quotidiano che nel 1959 viene assorbito dal Times. È morto il 18 maggio del 1944. Era l'ultimo giorno della lunga battaglia. Aveva 39 anni. Poche ore dopo i superstiti delle divisioni polacche Karpatia e Kresova fissano la bandiera bianca e rossa a strisce orizzontali sui ruderi dei Montecassino. È toccato a loro pagare con il sangue il prezzo della guerra, la libertà della Polonia, lì dove tutto era cominciato nel settembre del '39, con i cingolati di Hitler a schiacciare Varsavia. Il cimitero polacco è proprio sotto l'abbazia. Su una lapide ci sono queste parole: «Abbiamo dato le nostre anime a Dio, i nostri corpi all'Italia e i nostri cuori alla Polonia». È la sintesi di quei giorni di maggio. Il 15 febbraio la casa madre benedettina era stata rasa al suolo. Quando i polacchi il 16 maggio vanno all'assalto del monte per tre volte vengono respinti. A mezzogiorno hanno già perso il 20 per cento delle truppe. Di fronte hanno i paracadutisti tedeschi, duri, resistenti, si battono con fede cieca, spazzano il terreno con le mitragliatrici e i mortai. Vivono sottoterra ed emergono a gruppi per respingere gli attaccanti o morire. I loro cecchini colpiscono i polacchi come uccelli appollaiati sui rami. Il 17 gli uomini del Wadysaw Anders, che dopo la guerra si rifiuterà di tornare nella Polonia comunista e morirà esule a Londra, ripartono all'attacco della montagna. Aggrediscono la Cresta del fante, scalano la Testa del serpente. Si fanno scudo con i cadaveri dei compagni, sparano contro qualsiasi forma che assomigli anche vagamente all'elmetto di un parà. Quota 593 cade all'alba del 18. Il primo a mettere piede sulle macerie è un plotone di ulani del Primo Lancieri Podolski. Trovano un gruppo di tedeschi morenti abbandonati dai compagni. Il terreno è tappezzato di papaveri e di cadaveri. Sulle rovine di Montecassino scende il silenzio. Nel cielo di mezzogiorno i lancieri issano al vento la bandiera. Dopo sei mesi la battaglia di Cassino è finita, la strada per Roma è aperta.
È LA MORTE, È LA VITA Sta in piedi, fermo, in mezzo a un silenzio lieve, con le braccia lungo i fianchi e i pugni chiusi. Sulla pelle ha tatuaggi che raccontano la storia di famiglia. Il suo nome è Thomas Tekanapu Rawakata, nel mondo lo conoscono con l'acronimo di TJ. Perenara. È il mediano di mischia degli All Black, la nazionale neozelandese di rugby, ed è lui adesso il leader dell'Haka. Non è solo una danza di guerra. È il corpo che parla e ti dice chi sei. È mani, piedi, gambe, corpo, voce, lingua, occhi. TJ la sente battere dentro, ma questa volta la tiene a bada. Suo zio è sepolto qui. È il 17 febbraio del 1944. Sono le nove e mezza della sera e ovunque si sente il canto del ventottesimo battaglione Maori. «Ka mate, ka ora» (è la morte, è la vita). È il debutto dell'Haka sul suolo italiano. Poi verrà la marcia, contro le mitragliatrici tedesche, con la missione di arrivare oltre la linea, laggiù dove c'è la stazione ferroviaria. Chi non viene falciato si aggrappa alla vita con un corpo a corpo contro il nemico, in una notte senza luna dove non si riconoscono i vivi e i morti. Su 200 ne resteranno in piedi meno di settanta. Qui, nel cimitero del Commonwealth, c'è un pezzo di patria, il sangue della Nuova Zelanda. È nella battaglia di Montecassino che si sono riconosciuti come nazione, sacrificando la loro gioventù. Chiunque abbia qui, un nonno, un padre, un marito, un fratello, uno zio viene di tanto in tanto ad incontrarlo, perché tutti i neozelandesi, e soprattutto per i maori, il rapporto con i loro morti non è puro spirito. È carnale. È un abbraccio. Ai morti si fa visita, sempre, anche se sono dall'altra parte del mondo.
THE WALL Il muro per Roger Waters è il silenzio che ha inghiottito il padre. C'è una fotografia del 18 febbraio 1944. Il tenente dei fucilieri Reali Erich Fletcher Waters sorride accanto alla moglie e tiene in braccio il figlio di cinque mesi. È Roger. È l'unica fotografia che ha con il padre. Per anni e anni lo ha cercato, per capire dove è caduto, dove è sepolto. Qui a Cassino c'è il suo corpo, anche se è morto ad Aprilia, dopo lo sbarco di Anzio. Nel cimitero del Commonwealth la leggenda dei Pink Floyd torna ogni tanto a parlare con il padre che non ha conosciuto: «Voglio essere nella trincea della vita. Io non voglio essere al quartier generale, io non voglio essere seduto in un albergo da qualche parte a guardare il mondo che cambia, voglio cambiarlo io. Voglio essere impegnato. Probabilmente, in un modo che mio padre forse approverebbe».
Marocchinate, scoperto il caso di Carmela V., stuprata e arsa viva. L’Anvm: “Sia fatta giustizia”. Il Secolo d'Italia martedì 17 dicembre 2019. Prima violentata e poi data alle fiamme. È il nuovo caso di violenza su una donna italiana da parte delle truppe coloniali francesi emerso grazie al lavoro dell’Associazione nazionale vittime delle marocchinate. Per la violenza, avvenuta a Cassino nel 1944, l’Anvm chiede ora l’intervento della magistratura per fare in modo che i colpevoli ancora in vita paghino per quell’abominio. ”Nella zona di Cassino non ci furono solo gesta eroiche legate alle famose battaglie. Abbiamo accertato che le truppe coloniali francesi si macchiarono di quattro stupri e in un caso la donna, dopo essere stata violentata, venne arsa viva dai suoi aguzzini”, ha spiegato Emiliano Ciotti, presidente nazionale dell’Anvm. A ricostruire questo nuovo caso sono stati ancora una volta i ricercatori storici dell’associazione, grazie a un particolare rinvenimento. Gli studiosi, infatti, hanno trovato nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma la lettera di un patronato, indirizzata all’Ambasciata francese e al ministero degli Esteri italiano. Nel documento si sollecita la concessione di un indennizzo a favore della figlia di tale Carmela V., fu Antonio, ”violentata e arsa viva dalle truppe marocchine di stanza a Monte Caira (Cassino)”. ”È un documento sconvolgente, che attesta una violenza terribile ai danni di una donna italiana, prima violentata e poi data alle fiamme. Durante le nostre ricerche abbiamo accertato numerosi casi di stupro, soprattutto in Sicilia, Campania, Lazio e Toscana. Ma questo è il caso più aberrante”, ha commentato Ciotti. “Credo che la magistratura debba avviare un’indagine. Gli autori – ha chiarito il presidente dell’Associazione nazionale vittime delle marocchinate – potrebbero essere ancora in vita e la legge italiana deve perseguirli”. “Serve la collaborazione delle autorità francesi, affinché aprano i loro archivi, se non agli studiosi italiani, almeno alla magistratura”, ha concluso Ciotti.
Marocchinate, stuprata e arsa viva dai liberatori: la terribile scoperta. La lettera ritrovata in un vecchio fascicolo dall'Associazione Vittime delle Marocchinate riporta a galla la storia di un'altra vittima innocente, stuprata e data alle fiamme nel 1944. Elena Barlozzari, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale. Stipato in uno degli scaffali più remoti dell’arichivo di Stato c’è un fascicolo logoro di anni. Lo strato di polvere che lo avvolge dimostra una triste verità: ciò che contiene non interessa a nessuno. Eppure lì dentro ci sono storie che aspettano solo di essere raccontate. Storie di esistenze interrotte, di crimini orrendi di cui si è persa memoria. Delitti brutali per cui nessuno ha pagato. Sul frontespizio si leggono tre parole che sono uno pugno nello stomaco al politicamente corretto: "Violenza delle truppe alleate". Qualcuno forse ha già sentito parlare dei goumier. Qualcuno probabilmente no. Si tratta delle truppe straniere, marocchine e algerine, inquadrate nell’esercito francese. Risalendo l’Italia per liberarla dal nazifascismo si lasciarono dietro sangue e orrore: 60mila stupri e più di mille omicidi. Ecco, nel fascicolo di cui parlavamo tutto questo è messo nero su bianco. Le centinaia di fogli dattiloscritti ricostruiscono i fatti e attribuiscono le responsabilità come solo i documenti ufficiali sanno fare. I maniera secca, diretta, inconfutabile. Emiliano Ciotti, presidente dell’Associazione Nazionale Vittime delle Marocchinate, ci si è imbattuto nel corso delle sue ricerche. È stato lui a riaprire il vecchio fascicolo dimenticato. Sono mesi ormai che legge e rilegge quei documenti. Studia. Ricostruisce. Archivia. E ogni giorno emerge qualcosa di nuovo e terribile. L’ultima storia riportata alla luce è quella di Carmela. Di lei si sa poco e nulla. Non cosciamo il suo volto nè quanti anni avesse o che lavoro facesse. Ma sappiamo con certezza che era di Cassino, nel Frusinate, e che l’avanzata dei libertori per lei ha significato l’annientamento. Nel 1944 venne stuprata e arsa viva dalle truppe coloniali francesi. Le prove di questa barbarie sono contenute in una lettera scritta da Giulio Pastore, deputato e segretario generale delle Acli, il 6 agosto del 1948. La missiva, indirizzata all’ambasciata francese di Roma e al ministero degli Affari esteri italiano, è un sollecito al pagamento di un indennizzo alla figlia della vittima, Giuseppina. I risarcimenti corrisposti da Parigi alle vittime delle “marocchinate” si aggiravano attorno alle 15mila lire: 5mila di acconto e 10mila di saldo. La figlia di Carmela, come risulta dal documento, non aveva ricevuto nulla, nonostante quest’ultima avesse “a suo tempo prodotto alla Commissione francese a ciò preposta (con sede in Roma Hotel Plaza), documentata domanda intesa a ottenere un indennizzo”. Quel risarcimento, si legge ancora nella missiva, le spettava “per essere stata la di lei madre V. Carmela fu Antonio violentata e arsa viva dalle truppe marocchine di stanza a Monte Caira (Cassino)”. “È un documento sconvolgente – commenta Ciotti – che attesta una violenza terribile ai danni di una donna italiana, prima violentata e poi data alle fiamme. Durante le nostre ricerche abbiamo accertato numerosi casi di stupro, soprattutto in Sicilia, Campania, Lazio e Toscana, ma questo è il caso più aberrante”. “Credo che la magistratura debba avviare un’indagine, gli autori – conclude – potrebbero essere ancora in vita e vanno perseguiti dalla legge italiana. Serve la collaborazione delle autorità francesi, affinché aprano i loro archivi, se non agli studiosi italiani almeno alla magistratura”.
Marocchinate, i documenti choc: "I soldati italiani torturati dai francesi". Scoperti "documenti vergognosi" sulle torture subite dai nostri soldati nei campi di concentramento africani. Giovanna Stella, Domenica 24/11/2019, su Il Giornale. Ritrovati i "dossier della vergogna". Una sintesi di oltre 1200 pagine della relazione che la presidenza del Consiglio dei Ministri italiano trasmise, nel 1945, alla commissione alleata di controllo. Pagine in cui si raccontano le atrocità commesse dalle truppe francesi contro i soldati italiani detenuti nei campi di prigionia africani. Oltre a numerosi fascicoli sulle atrocità commesse dalle truppe francesi contro la popolazione italiana, fascicoli che raccontano di stupri, violenze, omicidi che hanno interessato Campania, Lazio, Toscana, Sicilia, Sardegna, Molise e Puglia. Nei "dossier della vergogna" vengono svelate le torture ai danni dei prigionieri, "confermando ancor di più - sottolinea a il presidente nazionale dell'Anmv, l'Associazione Nazionale Vittime delle Marocchinate - come i francesi si siano accaniti contro il popolo italiano tutto, militari e civili inermi, per vendicare l'attacco alla Francia del giugno del 1940". Ciotti svela come l'Anmv abbia rinvenuto nell'Archivio Centrale dello Stato di Roma "dei voluminosi fascicoli che elencano una serie di innumerevoli atti criminali, compiuti contro i nostri soldati italiani prigionieri nei campi di concentramento francesi". "Stiamo preparando una ricca documentazione (l'Anvm dispone al momento di oltre 10mila pagine) da inviare alla Corte internazionale dei diritti dell'uomo", annuncia Ciotti. Una scoperta choc che arriva dopo un documento trovato solo qualche settimana fa. Nei documenti, infatti, si legge di come i prigionieri italiani venissero maltrattati e bastonati. Alcuni di loro venivano sepolti fino al collo e lasciati con la faccia al sole, senza acqua, per giornate intere. Altri, legati ad un palo, erano costretti a girarvi intorno per ore sotto il sole. Altri ancora, implotonati, dovevano restare immobili per ore con in spalla pesanti mattoni. Leggere queste parole mette i brividi. Ma non è finita. I malati dovevano farsi 12 chilometri sotto il sole cocente prima di andare in infermeria. Chi non sottostava a questi trattamenti veniva giustiziato con un colpo di pistola, altri bastonati fino alla morte. "I prigionieri - riporta l'Adnkronos - lasciati senza né cibo né acqua, venivano costretti ad arruolarsi nella legione straniera, ma anche quella era una forma diversa di prigionia e di maltrattamenti. Ecco da dove nasce il fenomeno della Marocchinate".
La verità sulle marocchinate: "Stupravano le donne perché odiavano l'Italia". Dall'archivio di Stato un documento rivela la ragione delle atrocità commesse dai soldati marocchini inquadrati nel Corpo di spedizione francese in Italia: "Stuprano e uccidono per risentimento verso la nazione che odiosamente tradì la Francia". Cristina Verdi, Venerdì 01/11/2019, su Il Giornale. Il documento trovato nell’Archivio di Stato dal presidente dell’Associazione Nazionale Vittime delle Marocchinate, Emiliano Ciotti, getta nuove ombre sull’azione del Corpo di spedizione francese durante la campagna d’Italia. Gli abusi consumati dai goumier, i soldati marocchini inquadrati nell’esercito d’Oltralpe, vengono certificati dal generale Alphonse Juin, comandante del Corpo, che il 24 maggio 1944 sottoscrive un memorandum che ha come oggetto il “maltrattamento di popolazione civile". L’informativa diretta al Comando Alleato, che chiedeva spiegazioni su stupri e uccisioni di migliaia di civili, parla di “atti di brigantaggio, di rapina armata e di ratto”. Le vittime sono gli italiani, in particolare le donne, colpiti dai soldati marocchini, a detta del generale, per via dei "sentimenti nei confronti di una Nazione che odiosamente tradì la Francia”. Rabbia e senso di rivalsa contro un Paese, il nostro, che nelle stesse carte viene definito “conquistato”. L’orrore delle "marocchinate" che si consumarono nei paesi della Ciociaria durante la battaglia della Valle del Liri, spiega Ciotti all’agenzia di stampa Adnkronos, era dunque motivato dal “risentimento nazionale per la dichiarazione di guerra dell'Italia”. “Per la prima volta – fa notare lo studioso - si spiega perché le truppe francesi stupravano e uccidevano le donne italiane”. Il generale Juin, nel documento, cerca di spiegare agli Alleati il comportamento dei suoi soldati, pur biasimandolo. “Comunque forti possano essere i nostri sentimenti nei confronti di una Nazione che odiosamente tradì la Francia - comunicava - noi dobbiamo mantenere un'attitudine dignitosa”. Altrimenti, avverte, la “considerazione” che “l'esercito francese si è guadagnato sul campo di battaglia italiano” verrebbe meno. “Sarebbe facile cementare questa reputazione adottando una scorretta abitudine in un paese conquistato, verso un popolo che sta attualmente sperimentando tutti gli orrori della guerra e la cui responsabilità della sua amministrazione”, continua il generale, che chiede al comandante della divisione di prendere provvedimenti per “por termine a tutti quegli atti che vanno a detrimento della morale e della dignità del vincitore”. Una verità, quella che emerge dai documenti ufficiali, che sembra sconosciuta al presidente francese Emmanuel Macron, che lo scorso agosto a Saint-Raphael, in occasione del 75esimo anniversario dello sbarco alleato in Provenza, chiese davanti ai presidenti di Guinea e Costa d’Avorio di intitolare strade e piazze ai militari africani. Il capo dell’Eliseo li ha definiti “eroi” che "hanno fatto l'onore e la grandezza della Francia”. Per Ciotti, invece, nipote di uno dei ragazzi brutalmente uccisi nel ’44, sono solo “stupratori” e “assassini”. “Molti di loro – aggiunge - si macchiarono di crimini inauditi e violenze di ogni genere contro la popolazione civile”. L’appello, quindi, è al ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e al premier Giuseppe Conte perché “intervengano nelle sedi istituzionali per riaffermare l'inopportunità dell'intitolazione di vie e piazze francesi a dei soldati che compirono delitti, razzie, stupri e omicidi e che ancora oggi sono ricordati con orrore dalle popolazioni che 75 anni fa subirono tali violenze”. “Invece di esaltare le gesta dei coloniali, il Presidente Macron chieda scusa all'Italia e alle vittime”, conclude Ciotti chiedendo rispetto per quell’Italia sfregiata che ancora aspetta verità e giustizia.
Uccise per aver detto no allo stupro: inchiesta sui «goumiers». Pubblicato sabato, 02 novembre 2019 da Corriere.it. Uccise davanti ai figli, mariti e familiari per essersi opposte allo stupro da parte di alcuni goumiers, i soldati coloniali (marocchini, tunisini, algerini e senegalesi) inquadrati nelle truppe francesi durante la Seconda guerra mondiale che combattevano con gli Alleati. E autori di centinaia, se non migliaia, di violenze nel periodo della Liberazione, dal 1943 sino al 1945. Sono due storie — uguali a quella narrata nel romanzo di Alberto Moravia «La ciociara» poi divenuto celeberrimo film con Sophia Loren) che emergono in questi giorni dagli Archivi di Stato e dalle aule giudiziarie. La prima viene da un documento del 30 maggio 1944 ritrovato dall’«Associazione nazionale vittime delle marocchinate». Si tratta del rapporto alla «Regia Pretura» in cui i carabinieri descrivono l’uccisione di una «ragazza nubile ventunenne» che viveva a Maenza, in provincia di Latina nel Basso Lazio. Pasqua Battisti — questo il nome della giovane, contenuto in un dossier trovato all’Archivio di Stato dell’Eur — si ribellò allo stupro da parte dei due marocchini. Che poile spararono due colpi di pistola, ammazzandola. Il rapporto dei carabinieri racconta che «noi militari avuta tale notizia ci siamo recati sul posto ed abbiamo potuto constatare veritiero quanto ci avevano riferito». Nel documento, perfettamente battuto a macchina, si legge che «i soldati suddetti si erano presentati nella località predetta con l’intenzione di portare con loro la giovane» che «essendosi rifiutata» veniva colpita da due colpi di pistola, esplosi davanti «ai genitori e altri familiari». Dopo averla uccisa i due goumiers si «allontanavano con le armi spianate minacciando coloro che si fossero avvicinati». Questa la conclusione: «Non si è potuto identificare i militari marocchini perché facenti parte delle truppe avanzanti verso Carpineto» e «anche perché il fatto si è saputo con tre giorni di ritardo». Del tutto analoga la storia di Ottavia Fabbrizzi, raccontata — nitidamente in ogni dettaglio — dalla figlia Giselda Anselmi, oggi novantunenne, che sarà ascoltata in incidente probatorio su decisione del Gip di Siena Alberto Lippini. Il giudice ha così voluto dare una seguito giudiziario alla vicenda avviata dopo una denuncia presentata ad aprile dai legali di Giselda Anselmi, avvocati Paola Pantalone e Luciano Randazzo. L’incidente probatorio servirà a cristallizzare la testimonianza - per preservarla a fini penali e se vogliamo anche storici — della figlia di Ottavia, in precarie condizioni di salute e che per questo vuole che i suoi ricordi non vadano perduti. Sia questa vicenda che quella di Maenza sono seguite dalla Procura militare. Non viene escluso — trapela da fonti giudiziarie — che venga chiesto all’«Associazione dei goumiers» francesi un elenco dei militari che combatterono in Italia. Raggelante, il racconto del femminicidio avvenuto a Radicofani, nel giugno 1944. «Camminavamo nella strada sottostante la villa sede del Comando quando alcuni soldati di colore, verosimilmente francesi, con le armi in pugno, ordinarono a mio padre di fermarsi e presero mia mamma di forza, ordinando a noi figli che cercavamo rifugio dietro nostro padre, di rimanere immobili dietro un ginestreto a lato della strada». «Mamma, che teneva in braccio la piccola Elisabetta — si legge ancora nella denuncia — nata un mese prima, si oppose e non volle lasciare» la piccola, ribellandosi al tentativo di violenza. I goumiers la «trascinarono dietro un cespuglio; e poiché lei continuava a opporsi poco dopo si udirono alcuni colpi di arma da fuoco, dei fendenti da arma da taglio e le urla disperate di nostro padre che invano aveva tentato di difenderla». I soldati a quel punto fuggirono. Nei giorni successivi «venimmo a sapere che in almeno tre occasioni sempre i medesimi soldati francesi avevano fatto diverse incursioni per sequestrare e violentare una giovane donna di circa 20 anni di Radicofani che si chiamava Gesuina». Il presidente dell’«Associazione azionale vittime delle marocchinate» è un vigile del fuoco di Latina di 47 anni. Un suo prozio, Anastasio Gigli, venne stuprato e ucciso dai goumiers, sempre a Maenza. Per questo Gigli, animato dalla passione per la storia, trascorre gran parte del suo tempo libero negli Archivi di Stato, cercando carte riguardanti le vittime dei coloniali francesi. Giorni fa ne ha trovato uno importantissimo, all’Eur: si tratta di un memorandum firmato da generale Alphonse Juin, comandante delle truppe coloniali francesi in Italia. Il documento è intitolato «Maltrattamento di popolazione civile». Juin mette nero su bianco l’arrivo di innumerevoli segnalazioni (trasmesse al Comando Alleato) di «atti di brigantaggio, di rapina armata e di ratto» ai danni degli italiani e ne individua la ragione in quelli che definisce i «nostri sentimenti nei confronti di una Nazione che odiosamente tradì la Francia», l’Italia appunto, «paese conquistato». In particolare Juin scrive di essere «stato colpito dalle lamentele indirizzate dall’Autorità giudiziaria militare relative alle condotte di alcuni elementi francesi nei riguardi delle popolazioni civili italiane durante la recente avanzata. Sono stati commessi atti di brigantaggio, di rapina armata e di ratto contro le popolazioni che vivono nelle zone avanzate e che si lamentano amaramente presso le Autorità Alleate. Vi è certamente la possibilità di esagerare i fatti; che comunque fanno correre il rischio di discreditare un esercito composto in massima parte di truppe coloniali». Juin prosegue: «L’esercito francese si è guadagnato sul campo di battaglia italiano la considerazione di tutti. Sarebbe facile cementare questa reputazione adottando una scorretta abitudine in un paese conquistato, verso un popolo che sta attualmente sperimentando tutti gli orrori della guerra e la cui responsabilità della sua amministrazione. Il Comandante Divisionale e il generale comandante dei Gaume — è l’esortazione dunque del generale — prendano pertanto i necessari provvedimenti indispensabili per por termine a tutti quegli atti che vanno a detrimento della morale e della dignità del vincitore». «La carta spiega per la prima volta — sostiene Ciotti — le ragioni degli stupri commessi dai goumiers: ovvero risentimento nazionale per la dichiarazione di guerra italiana». «Per il presidente Macron i goumiers hanno fatto — prosegue Ciotti — l’onore della Francia e per questo ha chiesto ai sindaci di intitolargli strade e piazze. Ma per gli italiani sono solo soldati colpevoli di crimini inauditi». Ciotti, nel corso delle sue ricerche ventennali, rivede all’insù le stime dei numeri sugli stupri: non le centinaia segnalati o denunciati nel 1944 nel Basso Lazio ma molti, molti di più, disseminati dalla Sicilia alla Toscana, le regioni in cui i goumiers si trovarono ad operare. Stupri che il più delle volte non venivano denunciati. «La donna che subiva violenze — spiega Ciotti che ha anche individuato almeno 20 femminicidi sconosciuti e rimasti senza colpevole — passava immediatamente dalla parte del torto, ripudiata dal marito, allontanata dalla famiglia, insultata da tutto il paese». Senza contare le conseguenze fisiche e psicologiche, destinate a segnare l’intera vita delle vittime: dopo le botte e gli stupri c’era anche il corollario della contrazione di gravi malattie veneree. E quegli aborti effettuati della «mammane» che spesso portavano alla morte. Quanto alle inchieste aperte dalle nostre procure, «il loro lavoro —conclude Ciotti — ha soprattutto un valore storico, un riconoscimento delle sofferenze patite per quelle atrocità. Ma non è escluso che molti degli autori di quegli stupri (ricordiamolo: crimini di guerra che non vanno in prescrizione, ndr) siano ancora vivi».
Furono gli Alleati a liberare l'Italia Ecco i documenti. Giampietro Berti, Giovedì 24/01/2019, su Il Giornale. Sulla liberazione dell'Italia dal nazifascismo da parte degli anglo-americani non esiste a tutt'oggi una adeguata produzione storiografica. Mentre sono state ampiamente ricostruite le vicende della Resistenza, sono rimaste in ombra quelle propriamente belliche, svoltesi per opera delle forze alleate. Si tratta di una lacuna sorprendente, per non dire clamorosa (ma si dovrebbe dire scandalosa), qualora si consideri che gli anglo-americani furono determinanti per riportare il nostro Paese alla libertà e alla democrazia. Senza la loro decisiva azione militare, l'Italia non sarebbe stata liberata e la lotta partigiana avrebbe conosciuto un esito ben diverso, fermo restando tutto il valore del suo contributo. Sono noti gli avvenimenti succedutisi a partire dallo sbarco anglo-americano in Sicilia (10 luglio 1943): caduta del fascismo, nuovo governo presieduto da Pietro Badoglio, armistizio dell'8 settembre, fuga del re a Brindisi, sbandamento dell'esercito italiano, occupazione tedesca dell'Italia centro settentrionale sotto il comando del maresciallo Albert Kesselring, varie vicissitudini militari (accaniti scontri a Cassino, sbarco ad Anzio), liberazione di Roma (4 giugno 1944), successiva avanzata in Toscana e nelle Marche. Una risalita della penisola accompagnata, ovunque, da aspri combattimenti costati migliaia e migliaia di morti e di feriti, non solo inglesi e americani, ma anche francesi e polacchi, e altri ancora. Porta ora un contributo importante e significativo alla conoscenza dell'ultima parte dello svolgimento militare alleato in Italia Gianni Donno, che ripercorre le battaglie per lo sfondamento della Linea Gotica nel settembre-ottobre 1944, battaglie riprese nell'aprile successivo con la liberazione della Val di Sambro, di Pianoro, di San Pietro in Cerro e di Bologna: Welcome to the Liberators. From the Gothic Line to the Po Valley (Lecce-Brescia, Pensa Multimedia, 4 volumi, 2016-2018). Contributo importante e significativo perché offre uno spaccato di questo svolgimento, che dà bene l'idea della complessiva e sanguinosa vicenda della liberazione dal nazifascismo. La ricostruzione di Donno è basata sui «Reports of Operations», cioè sui rapporti originali che Comandanti di Battaglione, Compagnia e a volte Pattuglia stilavano alla fine delle loro quotidiane operazioni, consegnandoli agli aiutanti di campo dei Comandanti dei diversi Reggimenti impegnati, che li riannodavano in relazioni mensili. Con un linguaggio scarno, essenziale, senza enfasi, questi «Reports» ci consegnano la storia «in presa diretta» - spesso tragica e cruenta - dei combattimenti, delle morti, delle distruzioni, che accompagnarono i soldati americani nell'ultima fase della guerra. Si tratta di una documentazione originale e preziosissima, che si trova ora conservata presso il National Archives and Records Administration, Washington D.C. Documenti che l'autore ha tradotto e integrato con una introduzione ad ogni volume e un apparato fotografico d'epoca di straordinario interesse. L'Italia fu definitivamente liberata quando i comandi tedeschi si accordarono con gli Alleati per la resa, entrata in vigore il 2 maggio: la Quinta Armata americana aveva raggiunto Torino, mentre l'Ottava Armata britannica era arrivata a Trieste. L'Italia era libera.
Non fu la resistenza a liberare l'Italia ma solo gli alleati. Gli elementi dominanti della Resistenza, quelli comunisti, lottavano per l'Unione sovietica. Ecco perché Churchill voleva puntare non sulla Francia, ma sull'Italia. Nicholas Farrell, Venerdì 06/06/2014, su Il Giornale. Quando guardo in streaming le facce nobili dei vecchi uomini inglesi e americani e del Commonwealth che hanno partecipato all'invasione della Francia nel 1944 e che ora sono tornati alle spiagge della Normandia per commemorare il 70° anniversario del «Longest Day», e poi, quando ascolto le loro parole piango - sorridendo. Sono da onorare perché sono uomini in perfetta sintonia con la regola antica della vita, cioè: per meritare l'onore, un uomo deve dimostrare prima l'umiltà e poi la virtù. E loro, questi uomini che ormai hanno compiuto i 90 anni - e tutti i loro compagni caduti in nome della libertà - ce l'hanno fatta. Poi, però, penso alla liberazione di Roma dagli stessi anglo-americani, accaduta due giorni prima del D-Day - il 4 giugno 1944 - e mi incazzo. Per parecchi motivi. In anzitutto, mi incazzo perché sono inglese ma in Italia si commemora la liberazione d'Italia ogni 25 aprile come se fosse un lavoro compiuto da partigiani e basta. E mi sento offeso che a Forlì in Romagna dove abito la strada che porta ad uno dei due cimiteri degli alleati nella città si chiama Via dei Partigiani. E mi sento offeso che quando si parla di alleati in discorsi o sui giornali, si fa riferimento solo agli «americani». In quei due cimiteri di Forlì giacciono i resti mortali di 1.234 soldati dell'Ottava Armata Britannica. Così tanti morti, solo a Forlì. Ma vi rendete conto? Non è ora - dopo 70 anni - di affrontare una semplice verità? Eccola: la Resistenza in Italia era completamente irrilevante dal punto di vista militare. In ogni caso, nell'estate del 1944 non esisteva una Resistenza in Italia. Dopo, invece - dall'autunno del 1944 in poi - che cosa di concreto ha portato questa Resistenza? Peggio. Secondo la storiografia la Resistenza lottava per la patria, la libertà e la democrazia. Non è vero. I suoi elementi comunisti (quelli dominanti) lottavano per l'Unione sovietica, la dittatura e il comunismo. Ecco perché Churchill voleva puntare non sulla Francia, ma sull'Italia. Voleva a tutti costi fermare le forze comuniste nei Balcani e in Austria. Roosevelt no, invece, e ha prevalso il Presidente americano. Perciò, gli alleati, che avevano invaso l'Italia nel 1943, non ebbero le forze necessarie in Italia per liberarla fino all'aprile 1945. Si dice: solo grazie alla Ue ci sono stati 70 anni di pace in Europa. Non è vero. C'è stata pace in Europa solo grazie agli anglo-americani e al piano Marshall. Oggi, la Ue e la sua moneta unica rappresentano la più grave minaccia alla pace in Europa.
4 giugno 1944: Roma liberata dagli Alleati. 3 giugno 2013 anpi-lissone. Roma, ultimi giorni di maggio, primi giorni di giugno. La città con il suo milione e mezzo di abitanti vive come trasognata, in apatica stanchezza, inerte sotto guai e angherie che pare non debbano mai avere fine. Improvvisamente, il pomeriggio del 3 giugno, le cose precipitano. Gli abitanti delle case lungo i viali Margherita, Liegi, Parioli, lungo il Corso e la via Flaminia, vedono passare in fila ininterrotta cannoni, carri armati, autocarri che si dirigono verso settentrione. La gente guarda, assiepata sui marciapiedi, non osa pensare che sia vero. Sfilano per tutto quel pomeriggio, per tutta la notte e il giorno seguente pezzi d'artiglieria d'ogni calibro; carri colmi di roba rubata, autocarri stipati di soldati sporchi laceri molti macchiati di sangue, la faccia annerita, gli occhi perduti. Sfilano con un rumoreggiare continuo, paracadutisti, carristi della Göring, SS, granatieri, artiglieri, soldati dei servizi con una disciplina meccanica e spasmodica, le armi puntate contro la strada, contro le finestre. Sanno che traversano una città nemica. Verso le due del pomeriggio del 4 il flusso si attenua, si arresta. Il rumore della battaglia, più chiaro ora nel silenzio delle strade, non pare avvicinarsi. Dalle terrazze si vedono i colli dei Castelli avvolti da una nebbia, da un fumo fermo. Qualche macchina tedesca qualche macchina di fascisti indugia con tracotanza, va su e giù; ma generali e gerarchi hanno cominciato a scappare da ieri sera, sono scappati i direttori dei giornali, scappa Zerbino alto commissario, scappa il questore Caruso (nella fretta della fuga l'automobile andrà a sbattere contro un albero presso Bagnoregio, Caruso si romperà una gamba, lo raccoglieranno, lo riconosceranno, sarà arrestato e giustiziato), scappa Koch, piantando in asso i minori scagnozzi, scappa Kappler con gli aguzzini di via Tasso, scappa il generale KurtMälzer comandante della piazza di Roma, ubriaco come al solito. Ma prima hanno avviato verso il nord i prigionieri più importanti, li han tirati fuori delle celle orribili, stivati nei carri. A un sergente affidano un autocarro con Bruno Buozzi, con il generale Dodi, con altri dodici preziosi ostaggi, non si possono lasciare indietro, bisogna portarli a Mussolini. Ma giunto alla Storta il sergente tedesco pensa che quei quattordici prendon troppo posto, si potrebbe caricare tanto buon bottino invece; e li fa scendere dal carro, li fa fucilare, tutti e quattordici, e riparte, con la coscienza leggera.
La sera scende limpida, fresca. Il crepuscolo si è fuso col chiarore della luna che sorge. Rientrano in casa i cittadini, disciplinati, all'ora del coprifuoco; ma indugiano sulle soglie, stanno alle finestre, tendono l'orecchio al grande silenzio. Ed ecco scoppi di combattimento vicinissimo, battere di mitragliatrici, latrati di bombe. E di nuovo il silenzio, limitato da un uguale lontano brontolio di motori. Sto anch'io al balcone, con gli amici che mi ospitano. Sentiamo d'un tratto venire da via Veneto un batter di mani, grida di evviva. Scappo fuori, scappiamo fuori, corriamo verso il clamore. Davanti all'Excelsior c'è un piccolo gruppo eccitato di persone, dicono che son passati tre o quattro carri armati inglesi o americani, non sanno bene: ringraziavano degli applausi, pregavano che non gli si facesse perdere tempo, chiedevano la via per Ponte Milvio, dovevano subito buttarsi dietro ai tedeschi. Corriamo verso piazza Barberini, verso un vicino ansimare di motori. La piazza è deserta, chiara nella luce della luna. Un enorme carro armato è fermo all'angolo delle Quattro Fontane; quando ci arriviamo, vediamo una fila di altri carri su per la salita, fermi. C'è attorno un brusio, d'una piccola folla curiosa, alacre, che non grida, che non acclama. Un soldato altissimo, magro, è in piedi a terra davanti al primo carro, mastica qualcosa. La gente lo guarda, non dice niente. Chiedo; «Where do you come from?» «From Texas», risponde. Ho l'improvvisa vertigine d'una vastità sconfinata, che accoglie e dissolve la pena, le angosce di nove mesi, ove lo stesso sollievo si smarrisce. Arrivano due ragazzette con una bandiera tricolore in mano, la danno al soldato. il soldato, serio, si volge in su verso i compagni seduti in cima al carro, le gambe penzoloni: «Here is a flag».
Uno stende una mano, afferra la bandiera, la issa sulla torretta.
L’Italia s’è desta ma non s’è liberata, l’hanno fatto gli Alleati. Anche in base ai conti di Bocca un partigiano su due partecipò alla Resistenza solo dal 15 al 25 aprile 1945. Maurizio Stefanini per Il Foglio il 25 Aprile 2019. [Questo articolo è stato pubblicato sul Foglio del 25 maggio 2004]. “Siamo comunque grati agli americani per averci liberato, col concorso dei partigiani”. Curiosamente in un centro sinistra che spara contro Bush per la sua visita del 4 giugno, è quasi Fausto Bertinotti quello che si mostra più pacato. Ma anche lui usa poi un giro di parole la cui implicazione sembra essere che il lavoro sia stato per lo meno fifty-fifty, se non che addirittura siano stati i partigiani a fare lo sforzo principale. Prima ancora di essere il mito fondante dei partiti della Prima Repubblica, e in particolare del Pci, questo assunto fu fatto proprio dallo stesso Stato italiano, proprio per ottenere condizioni di pace meno gravose. “Anche l’Italia ha vinto”, era il famoso titolo di un numero speciale del 1945 del Mercurio, rivista culturale allora di grande prestigio. Sui vantaggi che l’Italia aveva ottenuto nel “pagare il biglietto di ritorno nella democrazia” (frase di Edgardo Sogno), scrisse diffusamente Paolo Emilio Taviani, che aveva iniziato la sua carriera politica presiedendo a 32 anni il Comitato di Liberazione Nazionale (Cln) della Liguria, e che oltre a essere un noto pezzo grosso della Dc fu anche a lungo il presidente della Federazione Italiana Volontari della Libertà (Fivl): un’organizzazione di ex-partigiani cattolici, liberali, ex-badogliani, militari e moderati in genere, che in quella particolare “triplice resistenziale” modellatasi sull’esempio di quella sindacale era un po’ l’omologa della Cisl (con la “rossa” Anpi, Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, come la Cgil; e la Fiap, Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane, fondata da ex-azionisti, e corrispondente alla Uil). Taviani, dunque, parlava di vari documenti che avevano rivelato progetti degli Alleati per una vera e propria spartizione dell’Italia. Gli inglesi si sarebbero installati in pianta stabile nelle isole; i francesi avrebbero ingoiato la Val d’Aosta e tutto il Piemonte e la Liguria occidentale, oltre a mantenere una zona di occupazione fino al Ticino; Tito si sarebbe pappato l’intero Friuli almeno fino al Tagliamento; l’Alto Adige sarebbe stato riconsegnato all’Austria; addirittura c’erano i greci che volevano una zona d’occupazione in Puglia! La Resistenza e l’attività delle truppe del governo del Sud avrebbero appunto evitato questo disastro. Altri storici contestano che sia stato effettivamente il contributo militare italiano alla guerra anti-tedesca a pagare il “biglietto di ritorno”, e sostengono che piuttosto sia stata la nostra importanza strategica sul fronte della guerra fredda dopo la rottura tra Usa e Urss a favorirci.
Quale che si il vero motivo, che comunque l’Italia sia stata trattata meglio rispetto a Germania e Giappone dopo il 1945 non è un’illusione. Non solo infatti da noi l’occupazione militare durò solo fino al 1946, rispetto alla data del 1951 per il Giappone e del 1954 per la Germania. Non solo all’Italia fu possibile darsi una Costituzione da sola mentre gli Alleati imposero la nuova Costituzione giapponese e interferirono pesantemente nella genesi della Grundgesetz tedesca (anche se, visto il modo in cui queste costituzioni hanno funzionato, molti ritengono oggi che l’apparente fortuna italiana rispetto a Germania e Giappone sia stata in realtà una disgrazia...). Non solo all’Italia fu persino possibile ricevere indietro una delle ex- colonie, la Somalia, in amministrazione fiduciaria per dieci anni. Addirittura, fu proprio per il motivo esplicitato che l’Italia “si era schierata dalla parte giusta” che ci fu possibile partecipare alle Olimpiadi di Londra del 1948 e ai campionati di calcio in Brasile del 1950: eventi sportivi da cui invece i “vinti” Germania e Giappone furono esclusi come misura punitiva (è vero che, anche qui, c’è chi ritiene che se ci avessero impedito di andare in Brasile a fare figuracce ci avrebbero fatto solo un favore...).
Oggi, comunque, è proprio su questo mito fondante che si basa tutta la capacità del variegato fronte pacifista di coniugare il nuovo antiamericanismo con la fedeltà alla lotta antifascista originaria. “No alla guerra senza se né ma, ma la guerra antifascista era un’altra cosa”. “Che c’entrano gli americani? Noi italiani ci siamo liberati da soli coi partigiani, gli americani sono venuti dopo!”. “I popoli devono liberarsi da soli, come abbiamo fatto noi italiani coi partigiani”, eccetera. E’ un tipo di argomentazioni su cui in realtà rispondono poco i due grandi filoni revisionisti tornati alla ribalta con libri recenti. Il primo è quello relativo ai “crimini” dei partigiani, in particolare di quelli “rossi”, che è stato oggetto del best seller di Giampaolo Pansa “Il sangue dei vinti. Quello che accadde in Italia dopo il 25 aprile”. E’ un tema su cui, per la verità, si era dilungata da tempo tutta una pubblicistica non solo neo-fascista ma anche moderata, e di cui un punto di riferimento è tuttora nei tre tomi della “Storia della guerra civile in Italia” di Giorgio Pisanò. E si è detto che rispetto a questa polemica la grande novità del libro di Pansa è nell’essere una prima “ammissione” da parte di un uomo di sinistra. Ma la realtà è forse più sfumata. Questo tipo di pubblicistica “revisionista”, infatti, non si limita a dire che molti partigiani commisero crimini e atrocità, ma contesta anche drasticamente il ruolo e l’importanza militare della Resistenza. E ciò è contraddittorio: come possono aver commesso i partigiani tanti crimini se erano “quattro gatti” e la Resistenza “è stata inventata”? E’ un po’ la stessa contraddizione della storiografia revisionista sui campi di sterminio, le cui argomentazioni ridotte all’osso sono: “Gli ebrei non sono stati mai mandati nei campi di sterminio, e comunque se lo sono meritato!”. Pansa, invece, pur non essendo stato partigiano per ragioni anagrafiche, si è laureato con una tesi sulla Resistenza in provincia di Alessandria, che è poi stata trasformata in un libro che lo stesso Giorgio Bocca, oggi suo flagellatore, nel suo saggio del 1978 sulla storiografia della Resistenza definì una tappa fondamentale di quella “seconda generazione” di studi culminata nella sua “Storia dell’Italia partigiana”. Inoltre prima di diventare giornalista il giovane Pansa lavorò tre anni in un istituto di storia della Resistenza, ed è a quest’epoca che risale una massiccia “guida bibliografica” sulla Resistenza in Piemonte tra 1943 e 1963. Insomma, è proprio perché Pansa non dubita sulla “corposità” della Resistenza che ha potuto comprovarne gli eccessi.
C’è poi un secondo filone revisionista che contesta il primato “rosso” della Resistenza, rivalutando massicciamente il ruolo dei non comunisti. In questo campo il titolo recente è “La Resistenza cancellata” di Ugo Finetti. Ma in realtà i punti di riferimento effettivi li aveva già dati Giorgio Bocca nel 1966 proprio con la sua “Storia dell’Italia partigiana”, in cui si era messo a contare non solo il numero dei partigiani nei momenti cruciali del periodo settembre 1943-aprile 1945, ma anche la rispettiva filiazione ideologica. E tutta la storiografia moderata successiva, compresi i Montanelli e Cervi dell’“Italia della Guerra Civile”, ha poi utilizzato proprio quelle cifre. Che danno della Resistenza un quadro ben diverso da quello che ripete Giorgio Galli nei suoi libri sulla storia dei partiti politici italiani, secondo cui “tra i due terzi e i tre quarti dei partigiani erano comunisti”.
La Resistenza impegnò i fascisti distogliendoli dal fronte con gli Alleati, ma da sola non avrebbe mai potuto sconfiggere i nazisti. In base al conto di Bocca, infatti, il 18 settembre 1943 i partigiani erano in tutto 1.500, di cui un migliaio di “autonomi”: bande di militari nate dallo sfasciarsi del Regio esercito, che si collegheranno poi in gran parte con la Democrazia cristiana o il Partito liberale. Nel novembre del 1943 sono 3.800, di cui 1.900 autonomi. La sinistra diventa maggioritaria nel 1944: al 30 aprile ci sono 12.600 partigiani, di cui 5.800 delle Brigate Garibaldi, organizzate dal Pci; 3.500 autonomi; 2.600 delle Brigate Giustizia e Libertà del Partito d’Azione; 600 di gruppi più o meno esplicitamente cattolici. Per il luglio 1944 c’è la stima ufficiale di Ferruccio Parri che per conto del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai) stima 50.000 combattenti: 25.000 garibaldini, 15.000 giellisti e 10.000 autonomi e cattolici. Bocca vi aggiunge un 2.000 tra socialisti delle Brigate Matteotti e repubblicani delle Brigate Mazzini e Mameli. Nell’agosto del 1944 si arriva a 70.000 e nell’ottobre a 80.000, che però calano a 50.000 in dicembre. Giorgio Bocca poi conta 80.000 uomini ai primi del marzo 1945, cita una stima del comando generale partigiano su 130.000 uomini al 15 aprile, e calcola che “nei giorni dell’insurrezione saranno 250.000-300.000 a girare armati e incoccardati”. Anche di questa massa i garibaldini, ammette Bocca, “sono la metà o poco meno”. Ma al di là della polemica interna sul peso delle varie componenti, il dato interessante è che stando a questa stima appena un partigiano su 23 ha combattuto per almeno un anno; 5 su 6 hanno preso le armi negli ultimi 4 mesi; quasi 4 su 5 negli ultimi 2 mesi; e addirittura uno su due negli ultimi 10 giorni! Insomma, la tesi secondo cui in Italia nel 1945 ci fu una gran massa di eroi della sesta giornata, come si diceva a Milano dopo le cinque giornate del 1848, non è calunnia, ma verità storica acclarata. E che corrisponde d’altronde a una precisa logica militare: sono sempre i finali aggregarsi di masse alle élites guerrigliere a segnare il trionfo delle rivoluzioni.
Ma fu davvero questa “rivoluzione” a liberare l’Italia? Anche qui, piuttosto che sulle polemiche è opportuno basarsi sulle cifre. Oltre a quello dei partigiani alle dipendenze dei partiti del Cln, in Italia tra settembre 1943 e aprile 1945 furono arruolati altri due eserciti. Il secondo fu il complesso delle forze militari della Repubblica Sociale Italiana (Rsi), che secondo una stima redatta dal Comando Ss di Milano contavano al 9 aprile 1945 attorno ai 130.000 uomini: 72.000 della Guardia Nazionale Repubblicana, nata dalla fusione tra carabinieri, Milizia e Polizia Africa Italiana; tra i 30.000 e i 35.000 soldati delle quattro divisioni regolari (Littorio di granatieri, Italia di bersaglieri, Monterosa di alpini, San Marco di fanteria di marina); 22.000 delle Brigate Nere, organizzazione armata del Partito Fascista Repubblicano; 4.800 della X Mas di Junio Valerio Borghese; 1.050 della Legione Autonoma Ettore Muti. Da parte sua Rodolfo Graziani in un suo memorandum a Mussolini del 25 giugno 1944 aveva stimato in 400.000 gli uomini chiamati dalla Rsi “alle armi e al lavoro”. Il terzo esercito, infine, fu quello del Regno del Sud, che iniziò coi 6.000 uomini del Raggruppamento italiano motorizzato entrato in linea il 7 dicembre 1943, e mandato subito al macello sul fronte di Cassino, contro le posizioni di Monte Lungo e Monte Maggiore. Dal 18 marzo 1944 assunse il nome di Corpo Italiano di Liberazione (Cil), e nel luglio 1944 diede vita ai quattro Gruppi di Combattimento Friuli, Cremona, Legnano e Folgore, ognuno con un organico compreso tra i 9.500 e 12.000 uomini. Questi “Gruppi”, nucleo del futuro Esercito Italiano ricostituito, entrarono in linea nel gennaio del 1945 e parteciparono allo sfondamento sulla Linea Gotica sul fronte adriatico, assieme ai polacchi del generale Anders e a quella Brigata Ebraica embrione del futuro esercito di Israele (e i cui reduci nelle manifestazioni del 25 aprile si sono visti sventolare in faccia la bandiera palestinese). In particolare fu il Gruppo Friuli la prima unità alleata a entrare a Bologna. Come ammetteva invece Graziani nel già citato memorandum del 28 giugno 1944, malgrado i 400.000 richiamati la Rsi contro gli alleati non aveva “potuto inviare al fronte che quattro battaglioni di volontari, il Barbarigo, il Folgore, e due delle Ss”.
Un partigiano su 23 ha combattuto per un anno; 4 su 5 negli ultimi 2 mesi; e addirittura 1 su 2 negli ultimi 10 giorni. In particolare il comportamento di 1.400 paracadutisti che si fecero massacrare per cercare di fermare l’avanzata americana su Roma fu eroico. E va pure ricordato che la X Mas di Borghese, cui apparteneva il Battaglione Barbarigo, nel 1945 avrebbe combattuto sia contro i titini che contro la Friuli. Ma a parte questi casi numericamente marginali, resta il dato obiettivo che mentre il Regno del Sud riuscì a partecipare alla guerra vera e propria, la Rsi sostanzialmente no. E ciò perché i 130.000 uomini rimasti dopo la falcidia di diserzioni e imboscamenti erano stati distolti dalla guerriglia partigiana, che aveva trattenuto dal fronte anche almeno 70.000 soldati tedeschi. Insomma, la Resistenza è certo sopravvalutata, ma oggettivamente distrasse almeno 200.000 combattenti che agli Alleati avrebbero potuto dare più di un fastidio. Ma dato alla Resistenza quel che è della Resistenza, bisogna pure dare agli Alleati quel che è degli Alleati. E anche qui, le cifre e le date parlano da sole. La Resistenza, cresciuta tra settembre e dicembre del 1943 al momento dell’avanzata alleata, subisce i primi micidiali rovesci tra la fine del dicembre del 1943 e il febbraio 1944, quando l’inverno arresta le operazioni sul fronte di Cassino e i tedeschi fanno allora grossi rastrellamenti che distruggono gran parte delle prime bande. Ed è proprio di questo shock che i “rivoluzionari professionali” del Partito Comunista e di quello d’Azione approfittano per prendere il sopravvento sugli autonomi, riorganizzando gran parte degli sbandati e inquadrando le nuove reclute nel momento in cui la ripresa dell’offensiva Alleata costringe i tedeschi ad allentare la presa. E la successiva avanzata degli anglo-americani dalla Linea Gustav alla Linea Gotica consente dunque alle bande di moltiplicarsi e attaccare, fino a creare le famose “repubbliche partigiane”: da Alba all’Ossola, alla Carnia, a Montefiorino. Ma il nuovo arrestarsi del fronte con l’autunno coincide con una nuova crisi, e sebbene i vertici partigiani contestino quel “Proclama Alexander” con cui il comandante inglese ha chiesto loro di sbandarsi in attesa della bella stagione, di fatto tra ottobre e dicembre del 1944 la cifra dei combattenti quasi si dimezza, mentre le repubbliche partigiane sono riconquistate l’una dopo l’altra. Infine, la moltiplicazione finale degli effettivi e la presa delle città coincide con la finale offensiva Alleata. Insomma, i partigiani spadroneggiavano quando dovevano vedersela solo con le forze della Rsi, ma erano messi alla corda ogni volta che i tedeschi potevano distrarre dal fronte abbastanza forze da fare un repulisti. E un dato oggettivo è pure che sebbene dopo lo sbarco in Provenza del 15 agosto 1944 il confine delle Alpi fosse ridivenuto fronte tra tedeschi e Alleati, benché alle immediate retrovie di questo fronte il Piemonte fosse la regione con le bande partigiane più forti e agguerrite, i tedeschi riuscirono a reggere quella linea fino ad aprile inoltrato senza alcun problema. Conclusione: senza i partigiani, gli Alleati ci avrebbero messo un po’ di mesi in più a risolvere la guerra in Italia. Ma senza gli Alleati, la Resistenza non avrebbe potuto neanche cominciare.
Maurizio Stefanini. Romano, classe 1961, maturità classica, laurea in Scienze Politiche alla Luiss, giornalista dal 1988. Moglie, due figli. Free lance impenitente, collabora col Foglio dalla fondazione. Di formazione liberale classica, corretta da radici contadine e da un'intensa frequentazione del Terzo Mondo. Specialista in America Latina, Terzo Mondo, movimenti politici comparati, approfondimenti storici. Ha pubblicato vari libri, tra cui “I nomi del male”, ritratto dei leader dell’asse del Male, "Ultras - Identità, politica e violenza nel tifo sportivo da Pompei a Raciti e Sandri", "Da Omero al rock. Quando la letteratura incontra la canzone" e ultimo "Alce Nero un «beato» tra i Sioux". Parla cinque lingue; suona dieci strumenti (preferito, fisarmonica).
Guerra di liberazione italiana. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Campagna d'Italia 1943 - 1945. Perdite:
In Sicilia: 22.000 soldati alleati morti, feriti e dispersi/prigionieri.
Nel continente italiano:
313.000 soldati alleati morti, feriti e dispersi/prigionieri, circa 8.000 aerei;
20.000 soldati Esercito Cobelligerante Italiano;
circa 40.000 tra partigiani e militari italiani del Corpo Volontari della Libertà.
336.500 soldati tedeschi morti, feriti e dispersi/prigionieri;
circa 40.000 militari e paramilitari della RSI;
10.000 civili tra scontri, bombardamenti e rappresaglie.
La guerra di liberazione italiana fu il complesso di operazioni militari ed azioni di guerriglia condotte dall'Esercito Cobelligerante Italiano e dalle brigate partigiane operanti nell'ambito della resistenza italiana al fianco degli Alleati durante la campagna d'Italia, per liberare l'Italia dall'occupazione nazifascista durante la seconda guerra mondiale. Dal punto di vista formale, il Regno d'Italia (limitato alle regioni occupate dagli Alleati) dichiarò guerra alla Germania nazista il 13 ottobre 1943, ma già dalla sera dell'8 settembre, mentre il Regio Esercito senza ordini efficaci da parte del Comando supremo si disgregava e cedeva le armi sotto l'attacco tedesco - pur con alcuni rilevanti episodi di resistenza armata - esponenti dei partiti antifascisti avevano costituito le prime organizzazioni politico-militari per opporsi all'occupante, dando inizio alla Resistenza partigiana, animata - soprattutto nei primi mesi - in larga parte da militari italiani sfuggiti alla cattura da parte tedesca. Dopo quasi due anni di combattimenti sia sulla linea del fronte che nelle regioni occupate ed amministrate dai tedeschi, con la collaborazione del nuovo Stato fascista costituito da Mussolini dopo la liberazione dalla prigionia sul Gran Sasso, le ostilità cessarono formalmente il 29 aprile 1945 con la resa incondizionata dell'esercito tedesco. Successivamente a questa data, vi furono ancora alcuni combattimenti su territorio italiano e violenze e rappresaglie contro reparti fascisti ed esponenti politici o militari collaborazionisti. Le operazioni, che si svolsero a partire dal settembre 1943 dopo l'armistizio di Cassibile e sino alla fine della seconda guerra mondiale. Il 25 aprile 1945, anniversario della liberazione d'Italia, è celebrato in Italia come data simbolica della liberazione dell'intero territorio nazionale dalla dittatura e dall'occupazione.
La crisi del regime.
Il generale Giuseppe Castellano firma l'armistizio di Cassibile per conto di Badoglio. Alla fine del 1942 la situazione finanziaria, militare e sociale dell'Italia fascista era disastrosa. Al forte disavanzo dell'esercizio finanziario 1942-43 si aggiunse l'incremento dell'inflazione e l'aumento notevole del debito pubblico. Si assistette al peggioramento delle condizioni delle classi popolari: la contrazione dei salari e la penuria dei generi di prima necessità provocarono una diffusa denutrizione. A questo si aggiunse, dall'autunno '42, l'intensificazione dei bombardamenti alleati. Il 23 gennaio 1943, alle 5 del mattino, l'entrata a Tripoli della VIII Armata britannica al comando del generale Montgomery pose termine alla occupazione italiana della Libia. Il 2 febbraio il regime fascista capitolò anche sul Fronte orientale, con la disastrosa ritirata di Russia. L'ARMIR subì 84.830 perdite tra caduti e dispersi. Il 5 marzo lo sciopero di Torino (iniziato nella fabbrica di Mirafiori e caratterizzato dalla protesta politica antifascista) si estese a Milano ed in molte fabbriche del Nord, coinvolgendo circa 100.000 lavoratori; gli arresti nei due mesi successivi fiaccarono il movimento antifascista, che riprese a mobilitarsi solo ad agosto, dopo la destituzione di Mussolini. Il 13 maggio si arresero anche le truppe italiane impegnate nella campagna di Tunisia.
Organizzazione del fronte antifascista. Dal punto di vista politico, nonostante gli sforzi della repressione, dall'inizio del 1943 si intensificarono i contatti tra esponenti dell'antifascismo, in vista di una crisi del regime. Vi furono molte iniziative di elementi di vari partiti antifascisti e contatti vennero intrapresi dal re Vittorio Emanuele III di Savoia con aderenti alla vecchia "democrazia liberale" già verso la fine del 1942. Tra questi esponenti vi erano Vittorio Emanuele Orlando, Ivanoe Bonomi (entrambi ex presidenti del consiglio) e Carlo Sforza, ex ministro degli esteri. I primi esponenti dei partiti contattati furono i cattolici Alcide De Gasperi e il suo vice Spataro, cui si aggiunsero presto Luigi Einaudi, Soleri, Belotti e il maresciallo Enrico Caviglia, monarchico ed antifascista, che iniziarono a riunirsi a casa di Bonomi; a vigilare sulla tranquillità era il prefetto Carmine Senise, all'epoca capo della polizia, che su disposizione di Vittorio Emanuele III non informò le autorità fasciste degli incontri. Altri contatti con i comunisti, inizialmente designato secondo Bonomi nella persona del professor Concetto Marchesi, vennero avviati tramite Alessandro Casati, e con i capi di Giustizia e Libertà, Ugo La Malfa e Adolfo Tino, che avrebbero fondato il futuro Partito d'Azione ed erano i fautori dell'insurrezione armata contro il fascismo non appena possibile. Contatti segreti furono inoltre intrapresi da membri della Casa reale e dal Maresciallo Pietro Badoglio con rappresentanti britannici, per sondare la possibilità di una pace separata.
Dallo sbarco alleato all'armistizio.
Inizio della Campagna d'Italia. L'attacco all'Italia fu deciso durante la Conferenza di Casablanca del 14 gennaio 1943 sotto il comando del generale Dwight Eisenhower. La campagna d'Italia iniziò l'11 giugno 1943 con l'attacco degli Alleati all'isola di Pantelleria, noto agli Alleati col nome in codice di operazione Corkscrew. Il 10 luglio iniziò lo sbarco in Sicilia (operazione Husky) della VII armata americana comandata dal generale George Patton, nel golfo di Gela, e dell'VIII armata britannica di Bernard Law Montgomery, a Siracusa, per un totale di oltre 150.000 uomini, trasportati da circa 3000 mezzi da sbarco. La conquista della Sicilia costò agli Alleati circa 22.000 uomini. Il 19 luglio seguì il massiccio bombardamento di Roma, che provocò circa 2000 vittime.
La destituzione di Mussolini. Mussolini accettò di convocare il Gran Consiglio il 24 luglio 1943, ufficialmente per esaminare la conduzione militare del conflitto. Il Gran Consiglio approvò l'ordine del giorno Grandi, che restituiva il comando delle Forze armate al Re. Il giorno successivo Vittorio Emanuele III fece arrestare Mussolini, comunicandone la sostituzione con il Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio. Alle 22,45 dello stesso giorno la radio diffuse la notizia. Ufficialmente l'Italia restava nel campo dell'Asse e la guerra continuava al fianco dei tedeschi. Su ordine di Badoglio, avallato dal re, veniva proclamata la legge marziale e ogni assembramento di più di tre persone doveva essere sciolto con la forza; inoltre ai soldati era dato ordine di sparare direttamente ad altezza d'uomo, senza colpi di avvertimento in aria. Anche verso i partiti antifascisti dopo il 25 luglio non vi era stata alcuna apertura ufficiale, tanto che Badoglio dichiarò "Io non sarò Kerenskji, non mi farò prendere la mano dai partiti". Il 17 agosto gli anglo-americani completarono la conquista della Sicilia. Durante lo stesso mese si assistette ai bombardamenti di Terni, Roma, Torino, Milano. Nel frattempo, Hitler organizzava un massiccio invio di truppe tedesche, che si aggiunsero alle forze già dislocate in Italia nel mese precedente. Tra il 26 luglio e l'8 settembre entrarono complessivamente in Italia 18 divisioni tedesche. Ormai la fiducia di Hitler nell'alleato italiano si era ridotta al minimo, come testimoniarono i toni sempre più minacciosi dei rappresentanti tedeschi nelle riunioni militari fra gli alti gradi dei due eserciti, tenutesi a Roma (31 luglio), Tarvisio (6 agosto) e infine Bologna(15 agosto). Il comando militare sul territorio italiano venne assunto da Erwin Rommel.
L'annuncio dell'armistizio. Subito dopo il crollo del regime fascista, il governo italiano avviò trattative segrete con gli Alleati. Il 3 settembre venne firmato l'armistizio di Cassibile, che venne reso noto dalla radio l'8 settembre. L'esercito italiano venne lasciato senza ordini e sbandò, ma alcune unità dell'esercito e della marina contrastarono i tedeschi con le armi, come a Roma, Bari, al cantiere navale di Castellammare di Stabia, in Sardegna e a Cefalonia, riuscendo in pochi ma rilevanti casi a prevalere. Per l'esercito italiano l'annuncio dell'armistizio ebbe conseguenze disastrose: oltre 600.000 uomini vennero deportati nei campi di lavoro in Polonia e in Germania dalle truppe naziste; fra i superstiti, molti fuggirono verso casa, molti altri diedero vita a bande partigiane che animeranno poi la Resistenza. La stessa sera dell'8 settembre, dopo che Badoglio aveva annunciato l'armistizio, gli alleati terminavano i preparativi per lo sbarco di Salerno, che venne effettuato alle 3:30 del mattino successivo.
L'occupazione tedesca e l'inizio della Resistenza. Contemporaneamente agli sbarchi alleati sul continente, si concretizzò il piano di occupazione della penisola da parte della Wehrmacht (Operazione Achse) già predisposto in precedenza nel caso di una defezione dell'Italia dalla guerra. I militari italiani che si trovavano sotto il controllo tedesco furono disarmati e tradotti in Germania come Internati Militari Italiani, mentre i reparti che resistettero ai tentativi di disarmo, nonostante i tentativi di difesa delle posizioni a loro assegnate, vennero travolti. Solo le navi della Regia Marina, ad eccezione della nave da battaglia Roma affondata dai tedeschi, riuscirono a sottrarsi alle mire tedesche e a consegnarsi agli Alleati nell'isola di Malta. Durante la notte fra l'8 e il 9 settembre si combatté per il controllo di Roma (Mancata difesa di Roma). Il 10 l'azione tedesca si fece più violenta. Porta San Paolo divenne il centro dell'ultima resistenza accanita. Ai combattimenti parteciparono anche i civili ai quali i comandanti dei reparti avevano distribuito le armi. Ma alla fine della giornata i tedeschi ottennero la resa dei contingenti italiani posti a difesa di Roma e accettarono la capitolazione limitandosi al disarmo dei militari. La mattina del 9 settembre i grandi nodi stradali e ferroviari, nonché le zone di confine, erano ormai saldamente in mano tedesca. Le truppe tedesche, già infiltratesi in Italia in base alle direttive dell'Operazione Alarico, dilagarono nel paese occupando in pochi giorni tutta la penisola, dalle Alpi a Napoli, non ancora in mano alleata. Nei giorni successivi il territorio italiano occupato fu dichiarato «zona di guerra». Solo in Sardegna, Corsica, Calabria e nelle province di Bari, Taranto, Brindisi e Lecce le truppe italiane restarono in armi fino all'arrivo delle forze alleate e avrebbero successivamente operato durante la cobelligeranza; in particolare in Sardegna le forze italiane costrinsero i tedeschi ad imbarcarsi, dapprima per la Corsica e poi per l'Italia continentale, sotto le istruzioni che volevano comportamenti dissuasivi e non aggressivi; solo dopo l'imbarco, al generale comandante l'isola venne contestato di non aver attaccato a fondo i tedeschi. Nei giorni dell'armistizio avvenne un episodio di guerra fratricida, in cui il tenente colonnello Alberto Bechi Luserna venne ucciso da truppe della divisione paracadutisti Nembo che avevano deciso di non ottemperare all'armistizio e volevano combattere a fianco dei tedeschi. Nello specifico, il XII battaglione (comandato dal maggiore Mario Rizzatti), insieme ad una batteria del 184º Artiglieria, decise di unirsi ai tedeschi della 90ª Divisione Panzergrenadieren, che si stavano ritirando verso la Corsica. Il generale Ercole Ronco, comandante la Divisione, cercò di richiamare all'ordine il reparto, ma senza risultato; anzi, secondo la Relazione Ufficiale, fu temporaneamente sequestrato. In un estremo tentativo di indurre il battaglione, in ritirata sulla statale Carlo Felice, a recedere dalla scelta compiuta, il colonnello Bechi riuscì a raggiungerlo nella zona di Castigadu, alle porte di Macomer. Venne infine fermato da un posto di blocco stradale istituito dal reparto ammutinato al bivio di Borore. Nel tentativo di forzarlo, Bechi si scontrò in violento diverbio col capitano Corrado Alvino, il quale, conformemente agli ordini ricevuti, gli rifiutava il passaggio. Il drammatico alterco si concluse con una raffica del fucile mitragliatore a presidio del blocco, sparata dal paracadutista Cosimo, mentre Bechi si trovava ancora sulla Fiat 1100 di servizio. La stessa raffica uccise anche un carabiniere della scorta, mentre il secondo carabiniere rimase ferito, e successivamente si aggregò al XII Battaglione in qualità di scritturale. Solo un altro battaglione della divisione si schiererà con i tedeschi, in Calabria nei pressi di Soveria Mannelli, mentre elementi del III e XI Battaglione Nembo (del 183º reggimento) sempre dalle parti di Soveria Mannelli, si raccolsero attorno al capitano Carlo Francesco Gay e successivamente si unirono agli Alleati che risalivano la Calabria. L'unico caso di difesa vittoriosa di una posizione avvenne a Bari dove il generale Nicola Bellomo, alla testa di soli 60 soldati, marinai ed avieri, più un civile volontario, riuscì a sloggiare i 200 tedeschi che presidiavano il porto con un assalto all'arma bianca. Il 9 settembre 1943 a Bari, il generale Bellomo venne infatti fortuitamente a conoscenza della notizia che il generale tedesco Sikenius aveva mandato dei guastatori per distruggere le principali infrastrutture portuali della città pugliese. Bellomo raccolse alcuni nuclei di militari italiani presso la caserma della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale e della Guardia di Finanza. A questi si affiancarono dei genieri del 9º Reggimento guidati dal sottotenente Michele Chicchi. Con questi ridotti nuclei attaccò i guastatori tedeschi che avevano già preso posizione nei punti nevralgici della grande struttura. Costretti sulla difensiva, i tedeschi furono obbligati ad una ritirata da due attacchi condotti dal generale Nicola Bellomo e infine alla resa. Bellomo fu anche ferito durante questi scontri. Ritiratisi i tedeschi, gli inglesi poterono successivamente sbarcare a Bari in completa sicurezza, usufruendo di infrastrutture portuali pienamente efficienti. Nelle isole Ionie e in parte del Dodecaneso la resistenza contro i tedeschi si prolungò per alcune settimane ma alla fine l'esito fu comunque infausto; particolarmente cruento fu l'eccidio di Cefalonia. Il 9 settembre Pietro Badoglio, il re Vittorio Emanuele III e il figlio Umberto avevano abbandonato la Capitale. Il 10 settembre, per ordine del Führer, furono istituite due "zone di operazioni" che di fatto annettevano al Terzo Reich una parte dei territori di occupazione, togliendoli alla sovranità italiana: le provincie di Bolzano, Trento e Belluno andarono a formare la Zona d'operazioni delle Prealpi (in tedesco Operationszone Alpenvorland o OZAV), e quelle di Udine, Gorizia, Trieste, Pola, Fiume e Lubiana la Zona d'operazioni del Litorale adriatico (Operationszone Adriatisches Küstenland, OZAK). Il 12 settembre un reparto di paracadutisti tedeschi, comandato dal maggiore Harald-Otto Mors, con la partecipazione dell'ufficiale delle Waffen-SS Otto Skorzeny (a cui venne attribuito dalla propaganda tedesca tutto il merito dell'operazione), liberò Mussolini, che era stato confinato sul Gran Sasso, e lo condusse in Germania. Con l'occupazione tedesca venne organizzata anche in Italia la pianificazione dell'Olocausto, con l'arresto e la deportazione degli ebrei e l'istituzione di campi di concentramento. Vennero riconvertiti a tale scopo il campo di prigionia di Fossoli, alcuni edifici militari (Campo di concentramento di Borgo San Dalmazzo, Campo di transito di Bolzano) e civili (Risiera di San Sabba). A tale opera si dedicarono le truppe di occupazione tedesca ma in seguito anche le autorità di polizia e le milizie della nascitura Repubblica Sociale Italiana.
Il CLN e le prime formazioni partigiane. Solo poche ore dopo la comunicazione radiofonica dell'armistizio, a Roma, i rappresentanti di quel Comitato delle Opposizioni che si recarono al Viminale per cercare un colloquio con Badoglio in veste di capo del governo si sentirono rispondere che lo stesso sarebbe stato indisponibile a tempo indeterminato, visto che era fuggito insieme al re; nello stesso pomeriggio del 9, Ivanoe Bonomi, Alessandro Casati, Alcide De Gasperi, Mauro Scoccimarro, Pietro Nenni e Ugo La Malfa, esponenti dei partiti antifascisti usciti dalla clandestinità dopo il crollo del regime, si riunirono e costituirono il primo Comitato di Liberazione Nazionale. Nei giorni seguenti si moltiplicarono i CLN locali per organizzare la lotta armata nelle regioni occupate dai tedeschi: a Torino, a Genova, a Padova sotto la direzione di Concetto Marchesi, Silvio Trentin, ed Egidio Meneghetti, a Firenze con Piero Calamandrei, Giorgio La Pira e Adone Zoli. Entro l'11 settembre la struttura dei CLN era costituita e i comitati passarono rapidamente alla lotta armata, mentre il 15 settembre ad Arona i primi capi delle formazioni partigiane organizzate in montagna (Ettore Tibaldi, Vincenzo Moscatelli) e i rappresentanti di CLN (Mario e Corrado Bonfantini, Aldo Denini, l'avvocato Menotti) si incontrarono per discutere dettagli organizzativi e strutture di comando. I partigiani adottarono nomi di battaglia con i quali si garantivano un anonimato che proteggeva le loro famiglie dalle possibili rappresaglie dei fascisti e dei tedeschi, e questi nomi assumevano un carattere di ufficialità essendo noti più di quelli veri. Il movimento partigiano si organizzò principalmente nel Comitato di Liberazione Nazionale guidato da Bonomi, diviso in CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia), con sede nella Milano occupata, e il CLNC (Comitato di Liberazione Nazionale Centrale). Il CLNAI, presieduto dal 1943 al 1945 da Alfredo Pizzoni, coordinò la lotta armata nell'Italia occupata, condotta da formazioni denominate brigate e divisioni, quali le Brigate Garibaldi, costituite su iniziativa del partito comunista; le Brigate Matteotti, legate al partito socialista; le Brigate Giustizia e Libertà, legate al Partito d'Azione e le Brigate Autonome (definite anche come "badogliani" o azzurri dal colore dei loro fazzoletti) prive di rappresentanza politica e talvolta simpatizzanti per la monarchia, come quelle capeggiate da Enrico Martini ("Mauri") e Piero Balbo, il Gruppo "Cinque Giornate" del colonnello Carlo Croce o l'Organizzazione Franchi fondata da Edgardo Sogno. Al di fuori del CLN, ma in contatto con esso, operarono alcune formazioni partigiane anarchiche come le Brigate Bruzzi Malatesta, altre formazioni come la Bandiera Rossa, la più numerosa formazione partigiana della capitale, le formazioni libertarie che operavano nell'alta Toscana come il Battaglione Lucetti e la Elio Lunense e diverse formazioni autonome SAP di indirizzo libertario della Liguria. Completamente al di fuori del CLN operavano gli autonomi di Mauri del 1º Gruppo Divisioni Alpine, e la XI Zona Patrioti guidata dal Comandante Manrico Ducceschi "Pippo", dichiaratamente impostata in maniera apolitica con il solo denominatore comune della lotta ad oltranza contro i nazifascisti. I primi gruppi di ribelli furono tuttavia spontanei, con collegamenti minimi con le strutture clandestine politiche cittadine a causa della confusione generale seguita all'8 settembre, alla mancanza di collegamenti ed allo sbando del Regio Esercito. Alcuni reparti militari italiani avevano tuttavia conservato una certa compattezza, nonostante l'assenza di qualsiasi ordine coerente da parte del Comando supremo; in effetti era stata diramata la memoria op.44, una disposizione segreta della quale vennero messi a parte solo alcuni ufficiali di grado elevato (comandanti d'armata e delle grandi unità indipendenti), ma che di fatto non conteneva istruzioni puntuali e che i destinatari erano chiamati a distruggere col fuoco dopo averla letta. La "resistenza militare" si distinse tuttavia da quella propriamente detta poiché fu portata avanti da componenti delle Forze Armate, riconoscibili come personale in uniforme "sottoposto alla giurisdizione militare", mentre i partigiani furono impegnati nella guerra asimmetrica. Furono numerosi i militari del Regio Esercito, sfuggiti alla cattura da parte dei tedeschi, che parteciparono e guidarono le formazioni partigiane. I primi raggruppamenti si costituirono nelle Prealpi e nel Preappennino, e furono organizzati e comandati in un primo momento da giovani ufficiali inferiori e sottufficiali dell'esercito in dissoluzione. Questi primi gruppi, costituiti da poche decine di elementi, vennero presto rafforzati dai primi capi politici che salirono in montagna per prendere parte ed organizzare la lotta. Nel tempo peraltro si assisterà ad una progressiva politicizzazione di molti ufficiali inferiori dell'esercito ed a una militarizzazione dei capi politici comunisti e azionisti, sempre più concentrati sull'organizzazione tecnica e sull'efficienza della guerra partigiana contro i nazifascisti. Alla metà di settembre i nuclei più forti di partigiani erano nell'Italia settentrionale, circa 1.000 uomini, di cui 500 in Piemonte, mentre nell'Italia centrale erano presenti circa 500 combattenti, di cui 300 raggruppati nei settori montuosi di Marche e Abruzzo. In Piemonte le formazioni si costituirono nelle valli alpine: In Val Pesio sorsero le formazioni autonome del capitano Cosa; in val Casotto (Langhe e Monferrato) iniziarono ad organizzarsi le efficienti formazioni autonome guidate dal maggiore degli Alpini Enrico Martini "Mauri"; nelle colline di Boves salirono i giellisti di Duccio Galimberti, Dante Livio Bianco e Benedetto Dalmastro. Altre formazioni autonome si formarono in Val d'Ossola sotto la guida di Alfredo e Antonio Di Dio, fratelli e ufficiali effettivi, in val Strona con Filippo Beltrami, in val Toce con Eugenio Cefis e Giovanni Marcora e in val Chisone, guidati dal sergente alpino Maggiorino Marcellin"Bluter". Le formazioni gielliste e comuniste si organizzarono a Frise (unità gielliste con Luigi Ventre, Renzo Minetto, Giorgio Bocca, tutti ufficiali degli Alpini); a Centallo (autonomi e giellisti organizzati da altri tre ufficiali alpini tra cui Nuto Revelli), in val Po, dove, sotto la guida di Pompeo Colajanni "Barbato", ufficiale di cavalleria comunista, si organizzò una forte formazione garibaldina con Giancarlo Pajetta, Antonio Giolitti, Guastavo Comollo; in val Pellice (giellisti); nel Biellese (nuclei di comunisti con vecchi antifascisti come Guido Sola, Battista Santhià e Francesco Moranino "Gemisto"); soprattutto in Valsesia dove si costituirono le formazioni comuniste garibaldine guidate da combattenti prestigiosi come Vincenzo Moscatelli "Cino", Eraldo Gastone "Ciro" e Pietro Secchia, importante dirigente del PCI. L'azione della Resistenza italiana come guerra patriottica di liberazione dall'occupazione tedesca, implicò anche la lotta armata contro le forze italiane che sostenevano gli occupanti.
La RSI. La liberazione di Mussolini dalla prigionia sul Gran Sasso fu il preludio alla creazione, nell'Italia del nord, di uno Stato fantoccio controllato dal Reich tedesco: nacque così, il 23 settembre 1943, la Repubblica Sociale Italiana, per espressa volontà di Adolf Hitler. La Repubblica Sociale Italiana venne riconosciuta dal Terzo Reich, che eserciterà su di essa un protettorato de facto, dall'Impero giapponese e dalla maggioranza degli altri Stati componenti l'Asse: la Repubblica Slovacca, il Regno d'Ungheria, la Croazia, il Regno di Bulgaria e il Manciukuò. Invece non riconobbero il nuovo Stato fascista repubblicano né la Finlandia (in combattimento accanto alla Germania sul fronte orientale) né le nazioni formalmente neutrali, compresa la Spagna franchista. Le forze armate della RSI vennero principalmente impiegate contro la Resistenza in azioni di rastrellamento e controllo del territorio, e in vari casi con sanguinose rappresaglie verso la popolazione civile per l'aiuto dato ai partigiani stessi.
Il Regno del Sud. Nell'Italia Meridionale il governo guidato dal maresciallo Pietro Badoglio mantenne invece la struttura costituzionale del Regno d'Italia, la sede del governo fu prima a Brindisi e poi a Salerno. Organizzò anche la resistenza nella capitale attraverso ufficiali come Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, Filippo Caruso e Ugo Luca che guidarono il Fronte Militare Clandestino e il Fronte Clandestino di Resistenza dei Carabinieri. Nel caso dell'Insurrezione di Matera (21 settembre 1943) e delle Quattro giornate di Napoli(27-30 settembre 1943) i militari fedeli al cosiddetto Regno del Sud, insieme alla popolazione civile, riuscirono a liberare la città dei sassi e la città partenopea dall'occupazione delle forze armate tedesche, coadiuvate da gruppi di fascisti italiani. L'avvenimento, che valse alla città di Napoli il conferimento della medaglia d'oro al valor militare, consentì alle forze alleate di trovare al loro arrivo, il 1º ottobre 1943, una città già libera dall'occupazione nazista, grazie al coraggio e all'eroismo dei suoi abitanti ormai esasperati ed allo stremo per i lunghi anni di guerra. Napoli fu la prima, tra le grandi città europee, ad insorgere con successo contro l'occupazione nazista. Dichiarò guerra alla Germania il 13 ottobre 1943. Territorialmente controllava l'Italia meridionale liberata dagli Alleati, fino al 4 giugno 1944, data della liberazione di Roma, quando anche il governo fu spostato a Roma.
La cobelligeranza: riorganizzazione del Regio Esercito. I primi momenti di partecipazione alla lotta contro i tedeschi furono assai difficoltosi, con gli italiani divisi tra lo schierarsi con il Governo del Sud che rappresentava la continuità legale e l'affiancamento agli Alleati, e la continuazione della guerra a fianco dei tedeschi.
In guerra contro la Germania. Il 13 ottobre 1943 l'Italia dichiara ufficialmente guerra alla Germania nazista e diventa cobelligerante a fianco degli Alleati; la dichiarazione viene "recapitata" in modo alquanto irrituale; l'incarico venne inizialmente assegnato all'ambasciatore italiano a Madrid, Giacomo Paolucci di Calboli, che tentò di ottenere senza esito un incontro con l'ambasciatore tedesco; in mancanza, affidò ad un segretario d'ambasciata il compito di recapitare la missiva, e questi la consegnò nelle mani del primo membro della legazione tedesca che aprì la porta, scappando via; non appena realizzato il contenuto del foglio, il tedesco rincorse l'italiano per strada e lo costrinse a riprendersi la nota; a questo punto l'ambasciatore italiano concluse che se i tedeschi hanno ritenuto di dover respingere la nostra nota, vuol dire che l'hanno letta e secondo il diritto internazionale tanto basta perché la dichiarazione di guerra abbia da credersi avvenuta. Il problema della dichiarazione di guerra non era solo formale, in quanto a questa notifica era legato un sostanziale cambiamento dei membri delle forze armate italiane che si fossero in futuro opposti in armi ai tedeschi, che in precedenza venivano considerati franchi tiratori; altrettanto importante era per gli Internati Militari Italiani in Germania, che in numero di 600.000 a questo punto avrebbero dovuto diventare prigionieri di guerra. In realtà ai prigionieri questo status non venne riconosciuto; dopo avere effettuato la scelta se aderire alla Repubblica Sociale Italiana o meno, coloro che rifiutarono cambiarono status divenendo “internati militari” (per non riconoscere loro le garanzie della Convenzione di Ginevra), ed infine, dall'autunno del 1944 alla fine della guerra, “lavoratori civili”, in modo da essere sottoposti a lavori pesanti senza godere delle tutele della Croce Rossa loro spettanti. Gli Alleati non furono inizialmente favorevoli all'impiego di truppe italiane tanto che 21 settembre il generale Mac Farlane comunicava a Badoglio che "per ordine superiore le truppe italiane non avrebbero dovuto più partecipare a combattimenti fino a nuovo ordine". Le proteste del governo regio e le insistenze dei comandi italiani (in concomitanza con la creazione nel nord della RSI) fecero sì che gli Alleati rivedessero questa decisione. Viste le precarie condizioni dal punto di vista del materiale bellico disponibile, le forze armate schierate con gli Alleati ebbero sempre possibilità limitate. Non era certo il numero di militari che mancava, anzi i campi di raccolta nella zona controllata dagli Alleati ed amministrata burocraticamente dal Regno del Sud erano pieni di sbandati, ma autocarri, armi leggere e pesanti, buffetterie, munizioni, che per garantire l'operatività dei reparti costituiti vennero raccolti in ogni luogo possibile. Le forze armate regie, faticosamente ricostituite per prendere parte a fianco degli Alleati alla guerra regolare al Sud secondo alcuni furono afflitte da gravi difficoltà che ne resero difficile l'operatività. Le cause, secondo lo storiografo Claudio Pavone, sarebbero riconducibili alla depressione morale degli animi e alla scarsa combattività della gran parte dei giovani, demoralizzati dalla dissoluzione seguita all'8 settembre e poco interessati a partecipare la guerra: l'afflusso di volontari fu modesto, le diserzioni tra i reparti furono elevate, lo spirito combattivo non si dimostrò molto elevato, si diffuse la renitenza alla leva. La "ripresentazione alle armi dei militari aventi obbligo di servizio delle classi dal 1914 al 1924", disposta dal governo Bonomi con la circolare del 23 settembre 1944, diede risultati disastrosi: si diffuse un rifiuto di obbedienza di massa con sommosse in Sicilia e violente manifestazioni contro gli arruolamenti anche in Puglia, Sardegna, Calabria, Lazio, Campania e Umbria. Gli assenti e gli sbandati oscillarono tra gli 80.000 uomini del novembre 1944 ed i 200.000 del gennaio 1945. Secondo valutazioni fatte da altri come Carlo Vallauri e Raimondo Luraghi in Italia, da Richard Lamb in Gran Bretagna e Charles O'Reilly negli Stati Uniti e raccolte da Giovanni Di Capua, le forze del Regio Esercito furono più numerose e determinanti di quanto non riconosciuto da studi precedenti: al 25 aprile 1945 si avevano 99.000 militari facenti parte dei Gruppi di Combattimento e schierati sulla linea del fronte, 160.000 membri delle divisioni ausiliarie (inquadrati come lavoratori, ma anche salmerie, genieri impegnati al riattamento delle opere viarie e ferroviarie spesso al ridosso delle prime linee e quindi bersaglio delle artiglierie tedesche), 66.000 addetti al controllo del traffico e alla sicurezza di impianti portuali ed infrastrutture nelle retrovie. A questi si aggiungevano 100.000 avieri e marinai e 65.000 militari delle unità disciolte all'estero che si erano uniti ai partigiani locali (Balcani e Francia) per un totale di 490.000 effettivi. Anche Winston Churchill riconobbe preferibile l'impiego di forze italiane in tutte le operazioni di retrovia e anche nel controllo del territorio, visto che l'alternativa sarebbe stata impegnare forze Alleate in larga quantità, ed il suo giudizio sull'operato delle forze armate italiane fu espresso in questi termini: «Da allora [dopo l'armistizio] queste forze italiane cooperano con noi nel miglior modo possibile, e circa cento navi da guerra italiane stanno rendendo notevoli servizi nel Mediterraneo e nell'Atlantico. Truppe italiane antifasciste, sebbene abbiano subito dure perdite, combattono a fianco dei nostri. In maniera molto più consistente le truppe italiane assicurano servizi indispensabili alle truppe alleate nelle retrovie. Gli aviatori italiani stanno pure combattendo al nostro fianco. La battaglia in Italia sarà dura e lunga; del resto penso che non si potrebbe formare ora in Italia un qualsiasi governo capace di ottenere la stessa obbedienza dalle forze armate. Se vincessimo l'attuale battaglia ed entrassimo in Roma, come ho fiducia e ritengo che si farà, saremmo liberi di riconsiderare l'intera situazione politica italiana, e potremmo far ciò in migliori condizioni di oggi.» Churchill considerava anche la mancanza di autorità elettiva nei partiti politici riunitisi a Bari, sebbene va tenuto presente che era stato lo stesso Vittorio Emanuele III a cercare e favorire contatti con i loro rappresentanti subito dopo il 25 luglio 1943; in ogni caso egli riteneva ancora che "Non è affatto certo che essi avrebbero una qualche autorità sulle forze armate italiane attualmente combattenti insieme a noi" e queste considerazioni influivano anche sull'Italia in mano ai fascisti che lo rappresentavano su manifesti di propaganda ringhioso come un bulldog e con una pistola fumante in mano. Sul versante interno, la collaborazione fra le forze del ricostituendo Esercito Italiano e le formazioni partigiane non fu sempre facile. Come rileva Pavone, malgrado gli sforzi propagandistici delle autorità regie ed anche dei partiti antifascisti del CLN, non si verificò mai una vera "coesione morale" tra le formazioni partigiane combattenti al nord ed i nuovi reparti dell'esercito regolare in avanzata da sud accanto agli alleati, considerati dagli uomini della Resistenza modesti resti di una istituzione ormai screditata dai passati fallimenti. Tuttavia, azioni volte al coordinamento fra la guerriglia partigiana e le azioni militari dell'esercito regolare furono avviate almeno a partire dalla fine del 1943. Il 10 di dicembre Giovanni Messe, Capo di Stato Maggiore Generale del Regio Esercito, diramò la circolare nº 333/0P, diretta ai comandanti delle formazioni resistenziali, spesso guidate da ufficiali, nella quale si delineano gli obiettivi della organizzazione clandestina delle "bande", assimilabili a corpi dell'esercito che operano dietro le linee nemiche, e si definiscono i compiti e le tipologie di operazioni da attuare contro l'esercito occupante e contro i militari della RSI.
Le operazioni della Regia Marina. L'unica forza armata in grado di condurre in forze operazioni organiche era la Regia Marina che però venne impiegata solo nelle unità leggere in operazioni di scorta ai convogli ed antisommergibile (cacciatorpediniere, torpediniere e corvette), e degli incrociatori in missioni di bombardamento contro le coste dell'Italia occupata, oltre che di crociere di vigilanza nell'Atlantico come esercitazione. Molto attiva fu invece Mariassalto, che raccolse l'eredità della Xª Flottiglia MAS, effettuando varie azioni di sabotaggio, tra le quali gli affondamenti della portaerei Aquila (notte del 19 aprile 1945 da parte di un gruppo di incursori, tra cui il sottotenente di vascello Nicola Conte e il sottocapo Evelino Marcolini, nel porto di Genova e dell'incrociatore Bolzano (operazione denominata "QWZ", nella notte del 21 giugno 1944 nel porto di La Spezia) e numerosi sbarchi di sabotatori italiani, inglesi e statunitensi dietro le linee. Da notare che il primo reparto ad entrare a Venezia, impedendo alcuni atti di sabotaggio tedesco, fu proprio un reparto di Nuotatori Paracadutisti di Mariassalto. Inoltre gli uomini del reggimento "San Marco" entrarono a far parte del gruppo di combattimento "Folgore", e con questa unità parteciparono alle operazioni terrestri della campagna d'Italia nel corso del 1945. Varie unità vennero impegnate immediatamente dopo l'8 settembre per rimpatriare gli italiani da Dalmazia, Albania e Grecia. Nelle operazioni vennero rimpatriati 25.000 uomini (cifra comunque esigua rispetto al numero di internati) e vennero perse tre torpediniere (Sirtori, Cosenz e Stocco) impegnate nei servizi di scorta, insieme ai piroscafi Diocleziano e Probitas; anche sommergibili e motozattere vennero estesamente impegnati nello sbarco ed il recupero di sabotatori, informatori e sbandati (nei Balcani), oltre che per rilevamenti idrografici in vista di successivi sbarchi, come a Salerno, e per il rifornimento dei patrioti delle formazioni partigiane; il totale di operazioni effettuate fu di 21.359, per complessive 2.635.658 miglia percorse. Una notevole rete radiofonica clandestina venne messa in opera dalla marina nell'ambito della ricostituzione dei servizi di informazione, ed operò efficacemente fino alla fine della guerra fornendo un costante flusso di informazioni verso il Regno del Sud ed i comandi Alleati. Per quanto riguarda le navi da battaglia classe Littorio e classe Caio Duilio, furono internate nei Laghi amari, in Egitto, fino al 1947 e non diedero alcun contributo allo sforzo bellico. Sebbene per le prime ne fosse stato proposto l'impiego nella guerra in estremo oriente, l'idea venne scartata dall'ammiragliato inglese anche perché la ridotta autonomia delle navi da battaglia della classe Littorio costituiva una forte limitazione al loro impiego operativo in un teatro di quella vastità. Per la Regia Marina, le attività di scorta ai convogli non furono le uniche. Di quella che fino all'8 settembre era stata la formazione di incursori denominata Xª Flottiglia MAS, una parte, tra cui il capitano di vascello Ernesto Forza, rimase fedele al Regno d'Italia formando l'unità speciale denominata Mariassalto. A questi si unì Luigi Durand de la Penne una volta rimpatriato nel 1944, dopo la sua prigionia in India in seguito alla cattura avvenuta la notte dell'azione del dicembre del 1941 ad Alessandria. Questa unità partecipò ad azioni al fianco delle unità alleate corrispondenti, in particolare per mantenere aperto il porto della Spezia, insieme ad omologhe unità inglesi, contro il tentativo dei tedeschi di affondare delle navi alla sua entrata. In particolare vennero effettuate due operazioni di rilievo. La prima, denominata QWZ, nella notte del 21 giugno 1944 nel porto di La Spezia portò all'affondamento dell'incrociatore pesante Bolzano, ultimo superstite della sua classe ed all'ulteriore danneggiamento dell'incrociatore Gorizia, già in riparazione per i danni subiti in un bombardamento. L'incursione, partita dal cacciatorpediniere Grecale e dalla motosilurante 74 appoggiati da un M.T.S.M., venne diretta dal capitano di vascello Forza che con due operatori gamma, i guardiamarina Francesco Berlingieri ed Andrea De Angelis, un pilota di SLC, il sottocapo nocchiero Corrado Gianni ed il sottotenente di vascello della Royal Navy Causer, penetrò nel porto con i chariot, i corrispondenti inglesi degli SLC, attaccando i due incrociatori. Per questa azione verranno conferite tre medaglie d'argento al valor militare, tre di bronzo ed una croce di guerra al merito. La seconda, denominata Toast, venne svolta nella notte del 19 aprile 1945 da un gruppo di incursori, tra cui il sottotenente di vascello Nicola Conte e il sottocapo Evelino Marcolini, ed aveva come obiettivo l'affondamento nel porto di Genova di quella che sarebbe dovuta diventare la prima portaerei italiana, l'Aquila, per impedire che venisse affondata dai tedeschi bloccando così l'ingresso del porto. Per l'affondamento dell'Aquila il sottocapo Marcolini e il sottotenente Conte vennero decorati di Medaglia d'Oro al Valor Militare. Come menzionato nelle motivazioni del conferimento delle medaglie, gli incursori utilizzarono del materiale di dubbia efficacia, residuato delle operazioni precedenti, poiché non esisteva alcuna possibilità di rimpiazzo visto che i luoghi deputati alla ricerca, allo sviluppo e alla produzione erano tutti nelle mani dei tedeschi. Tra gli esponenti più rappresentativi di questa unità figura il sottotenente Angelo Garrone. Questo ufficiale guidò molte spedizioni dietro le linee tedesche, come ad esempio quella del 20 luglio 1944 quando, sbarcati dal MAS 61 presso Ortona, fecero saltare un tratto di strada per interrompere il traffico sulla statale 16 Adriatica; ancora il 18 novembre 1944 un altro sabotaggio partendo da un mezzo statunitense, conclusosi con la scoperta tedesca del gruppo e una rapida fuga; nel dicembre 1944 furono eseguite altre due missioni: la prima nella notte tra il 4 e il 5 dicembre con la Patrol Torpedo Boat statunitense Rebel, per rifornire i partigiani ed alcuni informatori, Montanino e Maletto; alla testa di 12 NP italiani era il capo di 3ª classe Vittorio Fanchin, subordinato agli ordini dell'ufficiale statunitense Crislow. Altra missione in novembre nei pressi di Ancona, quando un gruppo di 15 NP al comando del sottotenente Ambrosi, trasportato sul MAS 31, con l'obiettivo di far saltare dei ponti (due ponti stradali ed uno ferroviario) fallisce l'obiettivo.
Ricostituzione della Regia Aeronautica. Per quanto riguarda la situazione dell'aeronautica, la Regia Aeronautica venne sostituita dall'Aeronautica Cobelligerante Italiana (in inglese: Italian Co-Belligerent Air Force, ICBAF), che è la denominazione convenzionalmente utilizzata per identificare le forze aeree ricostituitesi nel Regno del Sud (territorio del sud Italia liberato dagli alleati dove si era rifugiato il re Vittorio Emanuele III) con equipaggi italiani e mezzi di provenienza sia alleata che di produzione nazionale e germanica, dopo il proclama Badoglio dell'8 settembre 1943 sull'armistizio di Cassibile. La maggior parte dei reparti rimasti nel nord e centro Italia (territorio controllato dai tedeschi e dai membri di quella che successivamente divenne la Repubblica Sociale Italiana), andarono invece a costituire il 27 ottobre 1943 l'Aeronautica Nazionale Repubblicana (ANR), che continuava ad operare accanto alla Luftwaffe eseguendo compiti di difesa aerea dei grossi centri industriali del nord Italia. Alla fine del 1943 le clausole dell'armistizio imponevano che ogni aereo italiano sotto il controllo della Regia Aeronautica venisse trasferito sulle basi alleate. Malgrado le difficoltà quali la mancanza di combustibile, la presenza delle truppe tedesche e la distanza delle basi nell'Egeo, in Albania o in Grecia unita alla limitata autonomia degli aeroplani italiani, 203 aerei italiani (39 caccia, 117 bombardieri o trasporto e 47 idrovolanti) atterrarono negli aeroporti alleati, ma la maggior parte di essi non fu in grado di continuare a combattere per molto tempo. Uniti ad un altro centinaio di apparecchi che si trovavano già in zona alleata costituirono una base di 250 aerei funzionanti. Molti di questi aerei però erano obsoleti per il 1943, la Regia Aeronautica aveva già in progetto di sostituirli. Inoltre tutte le fabbriche aeronautiche si trovavano al Nord, in mano tedesca. Gli appartenenti alla Regia Aeronautica continuavano però ad onorare il giuramento fatto al Re e rispettare gli accordi presi dal governo italiano con gli Alleati, partecipando attivamente alla Guerra di Liberazione. Agli inizi quindi i veri protagonisti della rinascita dell'Aeronautica italiana furono i meccanici che, grazie ad un paziente lavoro di reperimento e adattamento dei pezzi di ricambio cercarono di rimettere in condizione di volo la maggior quantità di aeroplani possibile. I loro equipaggi vennero addestrati anche a volare con aerei alleati ed impiegati in operazioni di trasporto, scorta, ricognizione, salvataggio in mare e operazioni tattiche limitate, per un numero complessivo di 11.000 missioni svolte tra il 1943 ed il 1945. La riorganizzazione della Regia Aeronautica iniziò immediatamente dopo l'8 settembre quando in 24 ore il 4º Stormo realizza il mutamento di fronte con le prime azioni a difesa dai tedeschi e quindi con le prime azioni offensive contro il nuovo nemico. Per circa un mese la Regia Aeronautica operò di propria iniziativa, su indicazioni del Comando supremo, senza controllo operativo degli Alleati e senza le limitazioni armistiziali, sino al riconoscimento ufficiale dello status di cobelligerante. Ciò fu possibile per l'autorevole presenza del Re e dei vertici delle Forze Armate subito insediatisi a Brindisi. Decisivo per la realizzazione dei nuovi obiettivi fu l'incontro del 15 settembre 1943 tra il capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica Militare, il generale di divisione Renato Sandalli, e l'Air Commodore Foster, capo della divisione aeronautica della Allied Control Commission. Il 21 settembre vennero cambiate le insegne della Regia Aeronautica nella coccarda tricolore posizionata nelle tipiche posizioni: in fusoliera, sulla coda e sulle ali. Le nuove disposizioni divennero operative il 15 ottobre del 1943, quando la Regia Aeronautica possedeva 281 apparecchi di cui 165 operativi. Il governo italiano aveva dichiarato guerra alla Germania il 13 ottobre. In quel primo periodo la Regia Aeronautica non operò mai sul territorio italiano: il suo teatro operativo era limitato ai Balcani (Jugoslavia ed Albania), inquadrata nella Balkan Air Force; questo anche per evitare scontri tra aerei con equipaggi italiani. Nell'intera storia della Regia Aeronautica, una tale situazione non si verificò mai. Mentre gli aerei da trasporto e bombardamento operarono al di fuori del territorio italiano, i ricostituiti reparti caccia invece verranno assegnati dapprima in parte alla Desert Air Force e poi alla Mediterranean Allied Air Force.
L'Esercito Cobelligerante Italiano: dal Primo Raggruppamento Motorizzato ai Gruppi di Combattimento. Tra le unità italiane che parteciparono alla Campagna d'Italia vi fu il Primo Raggruppamento Motorizzato creato a San Pietro Vernotico (LE) il 26 settembre 1943. Il Raggruppamento fu comandato inizialmente dal generale Vincenzo Dapino, a cui succedette il generale Umberto Utili sotto il quale venne ingrandito e trasformato nel Corpo Italiano di Liberazione. Fu la prima grande unità del Regio Esercito a prendere parte alle operazioni della Campagna d'Italia accanto alle forze alleate dopo i fatti seguiti all'armistizio proclamato l'8 settembre 1943, e venne impegnato per la prima volta a Mignano Monte Lungo nella Battaglia di Montelungo, dove il reparto ebbe il battesimo del fuoco, con perdite sanguinose e soprattutto un alto numero di dispersi. L'impegno delle forze armate italiane alla campagna di liberazione nazionale fu per forza di cose limitato dalle precarie condizioni nelle quali versavano i depositi di materiale nelle zone controllate dal Regno del Sud e dal fatto che tutte le principali fabbriche di materiale bellico si trovavano nella zona controllata dai tedeschi e dalla Repubblica Sociale Italiana. Il Primo Raggruppamento Motorizzato venne impiegato nella battaglia di Montelungo con un bilancio pesante in termini di perdite soprattutto in considerazione dei risultati ottenuti. L'episodio fu marginale dal punto di vista della Campagna d'Italia, ma fu la prima occasione per le truppe italiane di essere ammesse a combattere con unità organiche i tedeschi accanto alle forze alleate. All'inizio del 1944 il generale Utili assunse il comando, ed oltre ad impedire il frazionamento dell'unità e l'impiego nelle retrovie come uomini di fatica del personale combattente, riorganizzò il reparto; venne effettuato l'avvicendamento del 67º reggimento fanteria con il 68°, reinquadrati i due battaglioni del 4º Reggimento bersaglieri che erano stati aggregati ed inseriti un battaglione di paracadutisti (su tre compagnie) della divisione Nembo, un reparto di alpini e uno di incursori, che portarono la consistenza numerica del Raggruppamento a 9500 uomini. Il 5 febbraio il Raggruppamento viene aggregato al Corpo di Spedizione francese nella parte di Abruzzo vicina a monte Marrone, e il 4 marzo respinge un attacco tedesco. Il 26 marzo il corpo francese viene ritirato dalla linea del fronte e gli italiani posti alle dipendenze del II Corpo d'Armata polacco del generale Anders, ed il 31 marzo alcuni reparti, tra i quali il Battaglione alpini "Piemonte" e i paracadutisti, vengono impegnati nella battaglia di Monte Marrone senza però riuscire a scalzare i reparti tedeschi dalla vetta. Il 15 aprile anche i polacchi vengono sostituiti e il Raggruppamento passa alle dipendenze britanniche, proseguendo la tendenza che voleva evitare la costituzione di unità italiane troppo forti dal punto di vista organico, e sempre alle dipendenze di grandi unità alleate. A quel punto il Raggruppamento assorbì altri due battaglioni di paracadutisti ed altri reparti arrivando a contare circa 14.000 effettivi, e divenne il nucleo iniziale del Corpo Italiano di Liberazione (CIL), sempre comandato dal generale Utili, con il cambio ufficiale di denominazione comunicato il 17 aprile 1944 e con decorrenza ufficiale il 22 marzo. La formazione, ora forte di 22.000 uomini, anche grazie al continuo influsso di volontari rese necessaria la formazione di ulteriori unità. Il CIL venne quindi organizzato in due nuove divisioni: la "Nembo" e la "Utili". La "Nembo" era composta dall'omonima divisione paracadutisti del Regio Esercito. La "Utili" era formata da quello che inizialmente era il Primo Raggruppamento Motorizzato ed altri reparti e prese il nome dal suo comandante, il generale Umberto Utili. Il contributo italiano arrivò a contare circa 30.000 effettivi alla fine del 1944, anche se il CIL si era già riorganizzato nella nuova struttura dei Gruppi di Combattimento.
Questi, creati il 23 luglio 1944 su autorizzazione allo Stato Maggiore generale da parte delle forze armate alleate, erano costituiti per lo più da soldati provenienti da varie Divisioni dell'Esercito Regio (ma anche da partigiani e da volontari) equipaggiati, armati e addestrati dall'esercito britannico. Inizialmente formati dalle Divisioni "Cremona" e "Friuli" - ognuna delle quali era composta da circa 10.000 uomini ordinati su due reggimenti di fanteria, uno di artiglieria e unità minori - dopo poche settimane si aggiunsero i gruppi "Folgore", "Piceno", "Legnano" e "Mantova". La struttura di queste unità militari quindi era quella della divisione binaria (due reggimenti di fanteria e uno di artiglieria più comando), con struttura più snella alle precedenti divisioni del Regio Esercito con i suoi 13.500 uomini, in primo luogo per la mancanza della legione Camicie Nere che faceva parte della precedente tabella standard, e poi anche per il numero inferiore di uomini destinato ai servizi. Secondo alcune stime del 2003, le perdite dei militari italiani schierati con gli Alleati ammontarono a circa 20.000 morti, oltre 11.000 feriti e 19.000 dispersi Giorgio Rochat calcola invece a 3.000 i morti in azione tra i reparti italiani impegnati nella Campagna d'Italia; l'autore inoltre calcola a 20.000 i caduti nei combattimenti dopo l'8 settembre, 53.000 i deceduti tra i prigionieri dei tedeschi, 5.000-10.000 i morti nei campi alleati.
Spostamenti del fronte fino al "lungo inverno" del '44. La Linea Gustav. La battaglia per la conquista di Monte Lungo di Mignano, svoltasi nel mese di dicembre del 1943, fu il banco di prova per saggiare la partecipazione di unità militari italiane a fianco degli Alleati. Le forze tedesche furono costrette a ripiegare, ma guadagnarono tempo sufficiente per apprestare una difesa fortificata lungo una linea che tagliava trasversalmente l'Italia dall'Adriatico al Tirreno nel punto più stretto della penisola: la Linea Gustav. Il motivo di tale scelta fu determinato dalla posizione dominante di Montecassino, posto sull'unica agevole via di accesso dal sud al nord verso Roma: la statale Casilina. I tedeschi, ben appostati nelle loro fortificazioni sui monti, riuscirono a contrastare l'avanzata delle forze alleate. La tragedia del Cassinate iniziò il 10 settembre 1943, due giorni dopo la proclamazione dell'armistizio, con uno spaventoso bombardamento anglo-americano, che colse impreparata la popolazione della città di Cassino. Le prime avvisaglie della guerra si erano avute già a partire dal 19 luglio con ripetuti bombardamenti del vicino aeroporto di Aquino. Aspri combattimenti ci furono per la conquista delle posizioni da Mignano Monte Lungo a San Pietro Infine, a San Vittore, a Cervaro, che videro protagoniste le truppe del Primo Raggruppamento Motorizzato del ricostituito esercito italiano. Lo scontro decisivo dell'8 dicembre consentì alle forze alleate di occupare i primi avamposti della Linea Gustav lungo i fiumi Rapido e Gari. Sul versante Adriatico la linea passava lungo il corso del fiume Sangro, e lungo essa vennero combattute la sanguinosa battaglia di Ortona definita come "la Stalingrado d'Italia" e la battaglia di Orsogna.
L'avanzata da Montecassino alla Gotica. L'episodio che segnò lo sfondamento della linea fortificata fu la battaglia di Montecassino, in realtà una serie di quattro battaglie nelle quali non vennero impiegate truppe italiane, dispiegate sul versante adriatico, in quanto dopo la battaglia di Monte Marrone, il neo costituito CIL venne passato alle dipendenze del V corpo d'armata britannico, sul versante adriatico, nei dintorni di Lanciano, e precisamente fra Treglio, Arielli e Castelfrentano, riunendosi alle aliquote della divisione Nembo e al battaglione Bafile di fanti di marina del Reggimento San Marco. La linea Gustav cedette il 18 maggio 1944, e i tedeschi si dovettero attestare sulla linea Hitler, posta poco più a nord, dove resistettero fino al 24 maggio. Gli Alleati dovettero quindi affrontare una fortificatissima linea difensiva istituita dal feldmaresciallo tedesco Albert Kesselring, la Linea Gotica, che aveva lo scopo di proseguire la tattica della "ritirata combattuta", già attuata dai tedeschi fin dai primi sbarchi alleati in Sicilia, per infliggere al nemico il maggior numero di perdite, in modo tale da rallentare e addirittura fermare l'avanzata angloamericana verso nord, difendendo la Pianura Padana e quindi l'accesso all'Europa centrale attraverso il Brennero. Grande apporto all'offensiva Alleata fu dato dalle forze cobelligeranti italiane e dalle formazioni partigiane molto attive nel nord Italia, dopo l'8 settembre l'esercito andò a riorganizzarsi più o meno autonomamente, in parte dichiarandosi fedele al Governo del sud, in parte entrando nelle file della neonata Repubblica Sociale Italiana e in parte andando a rinforzare il movimento resistenziale nel nord Italia. L'VIII Armata britannica fu integrata dai combattenti del Primo Raggruppamento Motorizzato che poi divenne Corpo Italiano di Liberazione (CIL) (infine riorganizzato nei Gruppi di Combattimento), forte di 24.000 uomini, che combatterono duramente a fianco degli alleati sulla Gustav e poi sulla Gotica. Altri 20.000 uomini invece, compirono importanti incarichi ausiliari, come assicurare i rifornimenti nel pantano della Gotica appenninica nell'inverno 1944/1945, organizzati nei cosiddetti reparti BRITI (BRitish Italian Troops) ed "USITI" (United States Italian Troops), in effetti lavoratori militarizzati. Per le truppe italiane schierate dal 17 giugno con il II corpo polacco, iniziò l'avanzata verso il fiume Pescara raggiunto l'8 giugno, cui seguì la liberazione tra l'altro di Orsogna, Ari, Chieti, Bucchianico e Guardiagrele. Si stima poi che nell'estate del 1944 vi furono circa 70-80.000 partigiani attivi nei movimenti di resistenza sulle montagne della Toscana e dell'Emilia-Romagna, divisi in formazioni che parteciparono ai combattimenti sulla Gotica. Nel settore dell'8ª Armata la Brigata Maiella, la 5ª Divisione Pesaro, la 29ª Brigata GAP "Gastone Sozzi", l'8ª Brigata Garibaldi "Romagna", la 28ª Brigata Garibaldi "Mario Gordini" appoggiarono l'armata inglese, mentre la 5ª Armata fu aiutata dalla 36ª Brigata Garibaldi "Alessandro Bianconcini", dalla 62ª Brigata Garibaldi "Camicie Rosse-Pampurio", dalla Brigata Partigiana Stella Rossa, dalla Divisione Modena-Armando, dal battaglione Patrioti XI Zona e infine dalla Divisione Lunense, poi "Apuania". Il 24 settembre 1944, un battaglione partigiano della 36ª Brigata Garibaldi "Alessandro Bianconcini" forte di 250 uomini e diviso in 6 compagnie, che operava nell'Appennino imolese-faentino, iniziava un movimento di infiltrazione che lo portava ad occupare Monte Battaglia nella mattina del 27. Nella stessa mattina un gruppo di partigiani impegnava unità tedesche che difendono la cima del Monte Carnevale mentre dall'altro versante del monte, all'insaputa dei partigiani stavano operando i soldati del 350º reggimento della 88ª divisione fanteria statunitense (Blue Devils), impegnata nello sfondamento della Linea Gotica, seguendo da sud verso nord lo spartiacque tra il Senio e il Santerno. Dopo l'incontro, nel pomeriggio del 27 gli statunitensi vengono guidati su Monte Battaglia. Il Monte aveva già ospitato nell'inverno 1943 un nucleo di partigiani e renitenti alla leva, ma non era stato giudicato motivo di preoccupazione dai fascisti. Questa volta invece, vista anche la vicinanza alla linea del fronte, giunti sul monte, i partigiani dovettero sostenere sotto la pioggia un attacco del 290º Reggimento Grenadiertedeschi, facente parte della 98ª divisione e con elementi della 44ª e della 715ª divisione, che furono respinti anche col concorso delle tre compagnie dei Blue Devils che si erano attestate sul monte e sulle pendici inframezzandosi ai partigiani. Durante la notte le forze tedesche cannoneggiarono la cima e la mattina dopo sferrarono un nuovo attacco, giungendo fino a pochi metri dalla vetta, ma di nuovo dovettero ripiegare sotto il fuoco congiunto dell'esercito statunitense e dei partigiani. Per tutto il giorno, sotto la pioggia e tra le folate di nebbia, continuarono i combattimenti attorno e dentro la rocca, alternati al fuoco delle artiglierie e dei mortai. A sera, dopo ripetuti assalti tedeschi, la rocca era ancora in mano ai soldati statunitensi e ai partigiani. Questi ultimi furono tuttavia costretti a ritirarsi dietro le linee alleate. I combattimenti continuarono per altri cinque giorni, ma i tedeschi, nonostante i rinforzi richiamati dal fronte adriatico e l'aiuto ottenuto anche da forze della Repubblica di Salò furono ancora respinti con ingenti perdite.
Il proclama Alexander. Un episodio molto importante nella cronologia delle operazioni partigiane fu il cosiddetto proclama Alexander; nel tardo pomeriggio del 13 novembre 1944, dall'emittente "Italia combatte" (la stazione radio attraverso la quale il comando anglo-americano manteneva i contatti con le formazioni del C.L.N.), fu comunicato il seguente proclama, a nome del Comandante supremo dell'esercito alleato in Italia: «Patrioti! La campagna estiva, iniziata l’11 maggio e condotta senza interruzione fin dopo lo sfondamento della linea gotica, è finita: inizia ora la campagna invernale. In relazione all’avanzata alleata, nel periodo trascorso, era richiesta una concomitante azione dei patrioti: ora le piogge e il fango non possono non rallentare l’avanzata alleata, e i patrioti devono cessare la loro attività precedente per prepararsi alla nuova fase di lotta e fronteggiare un nuovo nemico, l’inverno. ...In considerazione di quanto sopra esposto, il generale Alexander ordina le istruzioni ai patrioti come segue:
1. cessare le operazioni organizzate su larga scala;
2. conservare le munizioni ed i materiali e tenersi pronti a nuovi ordini;
... 8. il generale Alexander prega i capi delle formazioni di portare ai propri uomini le sue congratulazioni e l’espressione della sua profonda stima per la collaborazione offerta alle truppe da lui comandate durante la scorsa campagna estiva.»
Questo documento venne interpretato da alcuni come un invito allo sbandamento delle formazioni partigiane, e favorì anche interpretazioni sulla volontà degli Alleati nell'aiutare il movimento partigiano. In ogni caso il comando del Corpo volontari della libertà evitò lo smantellamento inopinato del movimento partigiano che anzi, continuò, salvandosi dall'azione di violenta repressione che i tedeschi intensificarono parallelamente al periodo di inattività anglo-americane. Il CVL invitò tutti i comandi regionali a interpretare il proclama Alexander nel senso dell'apertura della campagna invernale, non smobilitare ma passare ad una nuova strategia in considerazione delle mutate condizioni belliche e climatiche. Il proclama diramato in uno dei momenti più cruciali della guerra di liberazione fu giudicato, dalla maggior parte delle forze della Resistenza, un duro colpo politico, organizzativo e militare diffuso senza valutarne l'impatto psicologico, che sarebbe stato molto forte. Il punto di vista americano prevalse e quello italiano divenne un "fronte dimenticato". I dirigenti della Resistenza appresero questa decisione dalla radio, così come l'appresero i nazifascisti la cui reazione non si fece attendere. I tedeschi contando sull'interruzione delle operazioni Alleate intensificarono le azioni di rastrellamento per garantirsi il controllo su tutto il territorio del nord. Sebbene colpiti duramente sulle montagne e sulle colline, anche a causa della superiorità di mezzi della Wehrmacht, i partigiani riuscirono tuttavia a superare il periodo repressivo disperdendosi nella pianura Padana a ridosso dei centri urbani. I mesi di novembre e dicembre furono molto drammatici per la Resistenza a Bologna - Forlì e Ravenna, anche se tardi, furono liberate perché il dispositivo insurrezionale non fu distrutto, ma molto indebolito dalle decisioni Alleate, causando un rallentamento nelle operazioni nella penisola e il protrarsi del conflitto in Italia. La sostituzione dell'inglese Alexander con lo statunitense Clark fu invece distensiva per i rapporti tra CLN ed Alleati, e vide una intensificazione degli aviolanci alleati con aiuti ai resistenti in armi, munizioni e viveri. A febbraio 1945 veniva schierato in linea il nuovo gruppo da combattimento Folgore costituito attraverso lo scioglimento della divisione paracadutisti Nembo, che iniziò le operazioni tra i fiumi Serio e Santerno; con una serie di attacchi iniziati il 1º aprile e proseguiti fino al 16 in concorso con il battaglione Grado di fanteria di marina veniva occupato Tossignano nella mattina del 13, respingendo poi i contrattacchi tedeschi e occupando infine il monte Bello. Il 19 aprile, sempre i paracadutisti della Nembo sloggiavano un battaglione di paracadutisti tedeschi del 4º reggimento della 1ª divisione "Gruene Teufels" (Diavoli verdi) nella battaglia di Case Grizzano con 33 caduti, di cui 3 ufficiali, e 52 feriti, di cui 6 ufficiali, e vennero concesse due MOVM e una Distinguished Service Cross britannica. Un'altra tappa importante fu la battaglia di Filottrano, che vide unità del II Corpo Polacco e il Gruppo di Combattimento Nembo contrapposti alla 71. e 278. infanterie-division tedesche facenti parte della 10. Armee, con il paese di Filottrano punto di cerniera tra le due divisioni tedesche ed ordine di "tenere Ancona quanto più a lungo possibile, senza farsi colpire in forma distruttiva...". Prologo alla battaglia fu la fucilazione da parte tedesca di dieci cittadini di Filottrano in risposta ad un non meglio precisato attacco a colpi d'arma da fuoco ad un autocarro tedesco il 30 giugno. Il giorno dopo il 15º reggimento Ulani di Poznan, avanguardia della 5ª divisione polacca Kresowa, attaccò l'abitato di S. Biagio costringendo alla reazione i tedeschi, ma il 2 luglio il loro attacco si arenò di fronte alle truppe alleate ed in seguito i carristi polacchi ed i paracadutisti italiani della Nembo appoggiati da guastatori proseguirono il tentativo di sfondamento in direzione di Ancona. Nei giorni successivi e fino al 7 luglio, il paese e le zone circostanti vennero aspramente contese dalle due parti con aspri contrattacchi di fanteria e forze corazzate, ma persi Castelfidardo ed Osimo i tedeschi dovettero ritirarsi dalla zona lasciando Filottrano in mano agli italiani, che entrarono in città col XIV battaglione paracadutisti; le perdite furono di 56 morti e 231 feriti, con 59 dispersi.
L'offensiva finale e la Liberazione. Nei primi giorni di aprile le forze alleate diedero vita all'offensiva finale per sfondare la Linea Gotica e dilagare successivamente dalla Pianura Padana verso tutta l'Italia del nord. Nella prima settimana manovre diversive sui lati del fronte distolsero le forze dello schieramento tedesco dall'imminente attacco principale. Nel quadro operativo rientrava l'operazione Roast, un assalto condotto dalla 2ª Brigata Commando britannica supportata dai partigiani della 28ª Brigata Garibaldi "Mario Gordini" per catturare l'istmo fra Comacchio e Porto Garibaldi e liberare il lato nord delle valli di Comacchio. Contemporaneamente l'operazione Bowler colpì le infrastrutture di trasporto fluviali e portuali veneziane, cui ormai le forze dell'asse erano costrette a ricorrere data l'inservibilità di ferrovie e strade. Il 6 aprile 1945 un pesante bombardamento d'artiglieria colpì le difese tedesche sul Senio. Il 9 aprile 825 bombardieri pesanti, seguiti dai cacciabombardieri, lanciarono bombe a frammentazione nelle retrovie del Senio. L'8ª Divisione indiana, la 2ª Divisione neozelandese e la 3ª Divisione dei Carpazi (sul fronte del II Corpo polacco lungo la Via Emilia) attaccarono all'imbrunire e raggiunsero l'11 aprile il fiume Santerno nelle prime ore del mattino. La 5ª e 6ª Compagnia dell'87° Friuli sferrarono l'attacco all'alba del 10 aprile, superando il Senio e raggiungendo le case di Cuffiano. I neozelandesi, tuttavia, avevano raggiunto il Santerno già la notte del 10 aprile attraversandolo all'alba dell'11. I polacchi giunsero sul Santerno la notte dell'11 aprile. Nella tarda mattinata del 12 aprile, dopo una notte di continui assalti, l'8ª Divisione indiana si stabilì sulla riva opposta del Santerno e la 78ª Divisione britannica cominciò a oltrepassarla per assaltare Argenta. Nel frattempo la 24ª Brigata Guardie britanniche, facenti parte della 56ª Divisione (Londra) di fanteria britannica aveva lanciato un attacco anfibio attraverso l'acqua e il fango delle lagune presso Argenta. Anche se riuscirono a raggiungere la riva opposta, la notte del 14 aprile rimasero bloccati sulle posizione della Fossa Marina. La 78ª Divisione britannica si fermò la stessa notte sul Reno presso Bastia. La V Armata americana iniziò il suo assalto il 14 aprile, dopo il bombardamento di 2000 bombardieri pesanti e di circa 2000 pezzi d'artiglieria, con gli attacchi del IV Corpo americano (Forza di spedizione brasiliana, 10ª Divisione da montagna e 1ª Divisione corazzata americana) sulla sinistra. A ciò seguì nella notte del 15 aprile l'offensiva del II Corpo che colpì con la 6ª Divisione corazzata sudafricana e la 88ª Divisione di fanteria. Esse avanzarono verso Bologna fra la SS 64 e la SS 65. I progressi contro la coriacea resistenza dei tedeschi furono lenti ma alla fine la superiorità di fuoco degli Alleati e la mancanza di riserve dei tedeschi fecero sì che per il 20 aprile entrambi i Corpi d'armata americani sfondassero le difese sugli Appennini e raggiungessero la Pianura Padana. La 10ª Divisione da montagna fu reindirizzata ad aggirare Bologna e lasciarsela sulla sua destra premendo verso nord. Il II Corpo americano sarebbe rimasto ad occuparsi di Bologna insieme con l'VIII Armata britannica che avanzava dalla loro destra. Per il 19 aprile il blocco presso Argenta fu forzato e la 6ª Divisione corazzata britannica sfilò attraverso l'ala sinistra dell'avanzante 78ª Divisione britannica per correre verso nord ovest lungo il Reno fino a Bondeno e lì riunirsi con la V Armata americana, in modo da completare l'accerchiamento di Bologna ed intrappolare i tedeschi che la difendevano. Nel pomeriggio del 20 aprile gli italiani della "Friuli" si attestarono sull'Idice, ultima difesa di Bologna. Su tutto il fronte la difesa dei tedeschi era disperata ma ancora determinata, ma nonostante ciò la mattina del 21 aprile il I Battaglione della 87ª "Friuli" entrò in Bologna avanzando lungo la via Emilia (SS 9), con in testa il Comandante di reggimento Arturo Scattini, insieme alla 3ª Divisione dei Carpazi (II Corpo polacco), seguita dopo un paio d'ore dal II Corpo americano che entrò da sud. Il IV Corpo americano continuò la sua avanzata verso nord e raggiunse il Po a San Benedetto Po il 22 aprile. Il fiume fu attraversato il giorno seguente e l'avanzata proseguì a nord verso Verona che fu liberata il 26 aprile. Alla destra della V Armata (sulla sinistra dell'VIII Armata britannica) il XIII Corpo britannico passò il Po presso Ficarolo il 22 aprile. Il V Corpo britannico attraversò il Po il 25 aprile dirigendosi speditamente verso l'ultima linea di resistenza tedesca (Linea Veneziana) costruita lungo l'Adige. Le truppe tedesche stavano ripiegando ovunque: appena le forze Alleate cominciarono a premere e ad attraversare il Po, il contingente brasiliano e la 34ª Divisione di fanteria con la 1ª Divisione corazzata del IV Corpo, posizionati sull'ala sinistra dello schieramento, si catapultarono verso ovest lungo la SS 9 (via Emilia); attraversarono Piacenza ed il Po per tagliare la via di fuga alle truppe naziste attraverso la pianura padana verso la Svizzera e l'Austria attraverso il Lago di Garda ed il Passo del Brennero. Il 27 aprile la 1ª Divisione corazzata entrò a Milano, liberata dai partigiani il 25 aprile. Il comandante del IV Corpo, Crittenberge, entrò nella città il 30 aprile. Il 28 aprile a sud di Milano il contingente brasiliano imbottigliò il 148º Grenadier(granatieri) tedesco e un'intera divisione di bersaglieri italiani, la 1ª Divisione Bersaglieri Italia, catturando un totale di 13.500 prigionieri. Sull'estrema destra dello schieramento alleato il V Corpo britannico, incontrando minori resistenze, attraversò la simbolica Linea Veneziana, e nelle prime ore del 29 aprile entrò a Padova dove i partigiani avevano già catturato una guarnigione tedesca di 5.000 militari. Con l'approssimarsi della fine delle ostilità, militari e partigiani si adoperarono per salvare quanto possibile delle fabbriche ed infrastrutture italiane dalla distruzione. Gli NP (Nuotatori - Paracadutisti, incursori della Marina) furono il primo reparto alleato ad entrare in Venezia il 30 aprile 1945, dove si trovavano alcuni reparti tedeschi che non avevano ottemperato all'ordine di resa. Alle ore 17 del 27 aprile, in seguito ad una offensiva di reparti partigiani iniziata il 22, gli NP sbarcavano sull'isola di Bacucco (oggi chiamata Isolaverde), che si trova alla foce del Po di Goro e divide la sacca dello stesso dal mare. Preso contatto con un gruppo di tedeschi, gli NP li impegnano in combattimento catturandone 14, dopodiché i tedeschi si diedero alla fuga. Lasciati i prigionieri sotto sorveglianza, il gruppo comandato dal sottotenente Garrone inseguì i fuggiaschi e ne catturò 12 unitamente ad un barcone a motore, armi, una tonnellata di viveri e 5 cavalli. Il giorno dopo agli avamposti degli incursori si presentarono degli ucraini arruolati dai tedeschi per trattare la resa del loro reparto nelle mani di una formazione regolare e non di partigiani. Accettata la resa, con la condizione che i prigionieri non sarebbero stati restituiti ai russi, alle ore 8:00 del 28 aprile gli incursori sbarcano a Chioggia acclamati dalla popolazione; il 30 il reparto arriva a Venezia. Una delle ultime operazioni compiute dalle forze italiane fu l'operazione Herring, un lancio di 226 paracadutisti italiani, appartenenti alle divisioni Folgore e Nembo, nata dal 183º Reggimento paracadutisti "Nembo". Le squadre erano composte da metà della squadrone "Frecce" (Frecce Squadron) e metà della Nembo e 1 sergente guastatore britannico in piccoli gruppi di 6-8 uomini, (eccezionalmente 12-16) in un'area compresa tra Ferrara, Mirandola, Poggio Rusco, Modena ed il fiume Po, allo scopo di infiltrarsi tra le linee tedesche, sabotare telefoni, ponti, depositi di munizioni ed altri obiettivi sensibili, per causare il caos assieme a reparti di partigiani. L'azione, che fu l'ultima operazione di aviolancio compiuta durante la seconda guerra mondiale, avrebbe dovuto durare 36 ore, a partire dalla notte del 19 aprile; invece nelle notti del 20-21-22 e 23 aprile 1945 vennero effettuate varie azioni di guerriglia e sabotaggio alle spalle dell'esercito tedesco fortificato nella linea Gotica. Quella che doveva essere guerriglia si trasformò invece in una dura battaglia che portò alla conquista di 3 ponti, alla distruzione di una polveriera, 44 automezzi blindati, corazzati o protetti, al taglio di 77 linee telefoniche, con in aggiunta (assieme ai partigiani) l'uccisione di 481 tedeschi ed alcuni elementi della milizia, e la cattura di almeno 1083 prigionieri, che vennero consegnati alla 6ª divisione corazzata britannica. Le perdite italiane (esclusi i partigiani) furono di 30 morti, e 12 feriti (più un morto britannico). Le truppe italiane furono quindi raggiunte da reparti alleati (e ulteriori formazioni partigiane) favorendo il forzamento del Po; a parte il supporto di poche decine di partigiani avevano dovuto combattere da soli fino alla tarda serata del 20 aprile in condizioni di nettissima inferiorità numerica. Tra gli italiani rimase vittima dello scontro il sottotenente Franco Bagna, il cui coraggio gli valse dopo la morte una medaglia d'oro al valor militare. Nell'ambito di questa guerra vi furono anche episodi di scontri tra italiani, che si protrassero anche dopo la resa di Caserta delle forze dell'Asse in Italia che entrò effettivamente in vigore il 2 maggio 1945. Tra questi, l'Eccidio di Porzûs, che evidenziò i contrasti (comunque limitati se paragonati al numero di uomini impegnati) tra le forze partigiane, riflesso delle diverse visioni politiche dei partiti facenti parte del CLN. Dopo questo fatto, i superstiti della Brigata Osoppo non consegnarono tutte le armi al momento della Liberazione, gettando le basi di una organizzazione segreta, detta Organizzazione O dal nome del suo comandante, il colonnello Luigi Olivieri, con finalità anticomuniste, che durerà fino al 1956 per confluire poi nella organizzazione Gladio.
Conseguenze. La liberazione del Paese ebbe un costo elevato di vittime militari e civili, quantificabili in oltre 200.000 morti italiani. Le stime maggiormente condivise dagli storici indicano un numero di caduti di circa 40.000 partigiani e circa 3000 militari dell'esercito cobelligerante impegnato nella Campagna d'Italia, a cui si aggiungono i caduti nei combattimenti che immediatamente seguirono l'armistizio, i militari italiani caduti come partigiani nei Balcani, i militari morti come prigionieri dei tedeschi, i civili uccisi nelle rappresaglie nazifasciste, i deportati nei lager, le vittime dei bombardamenti anglo-americani e gli aderenti alla RSI morti in azione o fucilati nell'aprile '45 (fra i 12 e i 15.000). A testimonianza del sacrificio vennero conferite molte onorificenze da diverse istituzioni: oltre alle numerose medaglie al valor militare conferite a soldati, partigiani e intere città (ad esempio Marzabotto) dalle autorità civili e militari italiane, anche gli Alleati crearono il Certificato al Patriota per i partigiani ed un Certificate of merit per i militari delle forze Armate Cobelligeranti; agli internati nei campi di prigionia venne dedicata una Medaglia d'onore dal governo italiano. Lo sforzo bellico in territorio italiano costò agli Alleati più di 120.000 caduti (fra morti in battaglia, dispersi e feriti in seguito deceduti) mentre i soldati tedeschi uccisi in Italia furono circa 260.000. Il 29 aprile del 1945 a piazzale Loreto a Milano, nel luogo di un precedente eccidio di partigiani, furono esposti i cadaveri di Benito Mussolini, Claretta Petacci e altri esponenti della Repubblica Sociale. L'episodio (insieme alla Resa di Caserta siglata lo stesso giorno) segnò, nella sua crudezza, la fine della guerra, dell'occupazione nazista e del ventennio di dittatura. L'Italia si avviò quindi a ricostituire la propria rappresentanza democratica, mettendo in discussione lo stesso assetto monarchico dello Stato. La luogotenenza di Umberto II di Savoia durò fino al 9 maggio 1946, fino alla abdicazione di Vittorio Emanuele III in favore del figlio; Umberto ricoprì tuttavia il titolo regale per poco più di un mese: il 2 giugno 1946 il referendum istituzionale (i cui risultati vennero resi noti sette giorni dopo) sancì la nascita della Repubblica Italiana, che verrà proclamata il 18 dello stesso mese. Nelle prime consultazioni politiche a suffragio universale sia maschile che femminile nella storia d'Italia, oltre al pronunciamento sulla scelta fra monarchia o repubblica vennero eletti i componenti dell'Assemblea costituente incaricata di scrivere la nuova Costituzione repubblicana che andò a sostituire lo Statuto albertino sino ad allora vigente.
· La guerra civile del 25 aprile.
25 aprile. Non era guerra di Liberazione (ci hanno pensato gli Alleati) ma una miserabile guerra civile per il Potere.
Pietro Senaldi, la verità sulla Liberazione: "Chi ha tradito davvero il 25 aprile (e le balle sui partigiani)", scrive il 25 Aprile 2019 su Libero Quotidiano. "E' una festa importante, è la festa della Liberazione ma da 25 anni il suo significato è stato stravolto". Venticinque anni fa, spiega il direttore di Libero Pietro Senaldi, "Silvio Berlusconi aveva appena vinto le elezioni e la sinistra trasformò il suo significato facendone una manifestazione politica contro il nemico di turno. Oggi l'uomo forte è Matteo Salvini e il 25 aprile è stato uno show contro di lui". Il leader leghista, continua Senaldi, "ha avuto il torto di cascarci" e "si è sfilato da una manifestazione alla quale doveva partecipare". "Un'altra falsità", conclude il direttore, "è che se non ci fossero stati i partigiani non avremmo avuto la democrazia". Gli esempi di Germania e Giappone dimostrano che "non è così".
Pisanò, fascista diventato giornalista nell’Italia divisa del dopoguerra. Pubblicato venerdì, 13 dicembre 2019 su Corriere.it da Giampaolo Pansa. Può sembrare strano, ma il primo narratore della guerra civile italiana fu un militare fascista, Giorgio Pisanò. Era nato a Ferrara il 30 gennaio 1924, il primo di cinque figli di Luigi, un funzionario dello Stato in servizio presso le Prefetture. L’armistizio dell’8 settembre 1943 sorprese la famiglia a Pistoia. Giorgio aveva diciannove anni ed era un fascista convinto. Quel giorno vide una città impazzita di gioia dove tutti erano convinti che la guerra fosse conclusa. Guardò civili sputare sul tricolore e, in preda all’angoscia, riparò dentro un portone e pianse per lo sfacelo che osservava: l’armistizio, il tradimento della monarchia, il mondo che gli crollava addosso. Un ragazzo della sua età lo scorse e gli propose: «Dobbiamo fare qualcosa contro questa vergogna». Con altri ragazzi corsero alla caserma Gavinana e riaprirono la sede del Fascio chiusa il 25 luglio. Di lì a poco arrivò alla Gavinana un reparto tedesco. Il comandante, di fronte a quei ragazzi con armi in pugno, disse: «Bene, vi affidiamo la città di Pistoia». E se ne andò. Pisanò si arruolò nei reparti della Repubblica sociale. Era nello stesso tempo un ufficiale della X Mas e un tenente delle Brigate nere, assegnato ai servizi speciali nel comando generale di quel corpo più politico che militare. Come tanti dei suoi camerati che si ritrovarono nel ridotto inesistente della Valtellina, anche lui venne catturato dai partigiani. Scampò alla fucilazione perché sembrava uno dei tanti prigionieri fascisti. Passò di carcere in carcere, alla fine fu rinchiuso in due campi di concentramento inglesi a Terni e a Rimini e lì rimase sino al 7 novembre 1946. Ecco quello che ho poi appreso io da Paolo Pisanò, fratello minore di Giorgio. Il primo passo nella carta stampata Giorgio lo fece nel Meridiano d’Italia, un settimanale di destra che usciva a Milano. Lo dirigeva Franco De Agazio, un giornalista battagliero e dotato di grande coraggio. La Milano del primo dopoguerra era un territorio proibito per i superstiti del Fascio. Il Pci considerava De Agazio un nemico per l’inchiesta sull’oro di Dongo. E perché era stato il primo a rivelare il nome del giustiziere di Mussolini: Walter Audisio, un comunista di Alessandria. Con quell’inchiesta sul tesoro di Dongo De Agazio firmò la sua condanna a morte. Mentre si stava recando al giornale, una banda comunista milanese che si definiva Volante rossa lo uccise per strada. Alla direzione del Meridiano gli successe il nipote Franco Maria Servello. Aveva ventisei anni e in seguito sarebbe diventato un dirigente nazionale del Msi e un parlamentare esperto. L’incontro tra Servello e Pisanò andò come meglio non poteva. Nel 1948 uscirono parecchi articoli di Giorgio che si occupavano anche dei misteri legati alla figura di chi aveva ucciso Mussolini. Lui scartava Audisio e persino Aldo Lampredi, un dirigente dell’apparato clandestino del Pci. E puntava su Luigi Longo, il leader delle Brigate Garibaldi nell’Italia occupata dai tedeschi. Poi successore di Togliatti al vertice delle Botteghe oscure. Aveva ragione? Nessuno lo saprà mai. L’unico fatto sicuro è che i comunisti decisero di ammazzarlo. All’inizio del 1952, a Como, una sera gli spararono mentre accompagnava a casa la sorella Francesca, centralinista ai telefoni della città. Giorgio rispose con la rivoltella che portava sempre con sé e i due fratelli riuscirono a tornare a casa incolumi. Neppure in quel caso si lasciò intimorire e continuò con le sue inchieste sui delitti del dopoguerra e sull’oro di Dongo. Pure i socialisti impararono a conoscerlo e a odiarlo. L’Avanti dipinse così il suo lavoro di giornalista investigativo: «L’inconcludente collezione di voci di un poliziotto dilettante fascista». La grande stagione di Pisanò giornalista iniziò nel 1954 quando, a trent’anni, venne assunto da Oggi, il settimanale fondato da Angelo Rizzoli e diretto da Edilio Rusconi. Nel luglio 1960, Rusconi lo incaricò di un’impresa mai tentata da nessun rotocalco: la ricerca di materiale fotografico e documentario sulla guerra tra italiani. La prima delle 18 puntate uscì nell’agosto di quello stesso anno. All’inizio del 1963 Pisanò ruppe con Rusconi e si mise in proprio. Fu una separazione fortunata perché spinse Giorgio ad affrontare la sua prova più importante: la Storia della guerra civile in Italia. Fu la prima ricerca storica preparata, scritta e illustrata come un rotocalco. Il primo fascicolo uscì il 20 febbraio 1965 e l’ultimo, la dispensa numero 93, apparve il 31 gennaio 1967. Le vendite furono strabilianti anche per le centinaia di fotografie inedite scovate dappertutto dal team di Pisanò. In seguito Giorgio scrisse «Gli ultimi in grigioverde. Storie delle forze armate della Rsi». Il suo ultimo azzardo fu di far rivivere Il Candido di Giovannino Guareschi. L’autore di Don Camillo e Peppone accettò di fondare con Pisanò la casa editrice Valpadana, ma nel luglio 1968 morì a Cervia. L’inizio della seconda vita del Candido portava la data del 17 luglio 1968 e Giorgio lo diresse per 24 anni. Si scontrò con un nuovo nemico: le Brigate rosse. Riuscì a salvarsi insieme ai colleghi della redazione perché era l’ultimo giorno di Carnevale e la sede del giornale era deserta. Un giorno il fratello Paolo mi spiegò che nel lungo lavoro di ricercatore storico in fondo Giorgio aveva reso onore al Pci. Può apparire un paradosso, ma era davvero così. L’artefice della guerra civile era stato il partito di Longo, Secchia e Togliatti. Senza i comunisti quel conflitto, con tutti i suoi orrori, in Italia non sarebbe neppure cominciato. Mi sembra un giudizio sul quale possiamo convenire.
La guerra civile del 25 aprile. Scrive il 25 aprile 2019 Andrea Indini su Il Giornale. È il solito stanco rito del 25 aprile, con la vagonata di retorica che questo Paese riesce sempre a propinarci in determinate situazioni. Niente di nuovo. Gli scontri (verbali) tra anti fascisti e neo fascisti, le liti sulle sfilate, gli insulti alla Brigata Ebraica, le provocazioni dei movimenti di estrema destra e così via. L’unico elemento di novità è che oggi l’antifascismo militante sogna la Liberazione dal “fascista” Matteo Salvini. Non gli va proprio giù che sieda al governo. Ministro dell’Interno, quindi capo di tutti gli “sbirri”. Già questo basterebbe a Anpi e compagni per riversargli addosso tutto l’odio possibile. Se poi ci aggiungiamo che è il leader di un partito sovranista (a detta loro xenofobo, islamofobo e omofobo), che ha chiuso i porti agli immigrati, che ha tagliato i fondi alle cooperative, che ha sgomberato i centri sociali dai palazzi occupati, che ha oltre il 30% dei consensi del Paese, ecco che la piazza del 25 aprile, l’Anpi e i soliti intellettuali rossi si sono trovati un nuovo “dittatore” da abbattere. Lo ha detto chiaramente il presidente dell’Anpi di Roma, Fabrizio De Sanctis, parlando dal palco di Porta San Paolo a Roma: “I geni del populismo sono nei dittatori del passato. Erano i progenitori dei populismi di oggi: i duci”. Da sempre il 25 aprile è una ricorrenza che appartiene unicamente alla sinistra. Nessuno può avvicinarsi, se non ha un certo dna. A stabilire chi è dentro e chi è fuori è l’Anpi, un’associazione che al suo interno non può più avere (per ragioni anagrafiche) molti partigiani ma che continua a tesserare antifascisti instillando odio ora contro questo, ora contro quello. E così, oggi come allora, ecco un Paese profondamente smembrato in fazioni contrapposte. C’è quella dei vari Roberto Saviano e Andrea Camilleri, che si permettono di insultare un ministro (“mediocre senza qualità” e “ignorante”) solo perché non la pensa come loro, o dei Luigi Di Maio e Roberto Fico, che si arrogano il diritto di stabilire come si deve passare la giornata del 25 aprile, o dei partigiani facinorosi che fischiano il sindaco Virginia Raggi e insultano la Brigata Ebraica, perché non li vogliono a sfilare insieme a loro. C’è, poi, quella dei blitz in piazzale Loreto per rendere “onore a Mussolini” o dei raid contro le le targhe dei partigiani per infangarne la memoria. E, infine, c’è il resto del Paese che vorrebbe guardare avanti, lasciandosi il passato alle spalle. Senza cancellarlo, per carità, ma iniziando a studiarlo con maggiore obbiettività e provando, dopo decenni, a sanare quella frattura che ha versato troppo sangue e sparso troppo odio. Oggi, come spiega giustamente Marcello Veneziani, l’antifascismo è tenuto in piedi unicamente con uno scopo politico: attaccare il nemico del momento. Prima era Silvio Berlusconi, oggi è Matteo Salvini. L’odio rosso si rinnova negli anni e per alcuni giorni riporta in vita la “guerra civile” che fu, trovando la sponda di chi, ancora oggi, non ha il coraggio di ammettere cosa è stato realmente il 25 aprile.
Boldrini contro l'Espresso per la foto della Raggi. Laura Boldrini critica la scelta della foto della Raggi per la copertina del settimanale. Ed è polemica. Scrive Angelo Scarano, Giovedì 25/04/2019, su Il Giornale. Laura Boldrini va all'attacco. Questa volta nel mirino dell'ex presidente della Camera è finita la copertina de l'Espresso con una foto della Raggi. Al centro dell'inchiesta del settimanale c'è l'audio del sindaco di Roma sul bilancio Ama che tante polemiche ha innescato tra M5s e Lega nelle ultime settimane. La Boldrini però contesta la scelta della foto della Raggi in copertina. Non tanto la presenza del sindaco di Roma nella cover del settimanale, ma critica in modo aspro la scelta di questa foto in cui a suo dire la Raggi appare invecchiata. E così al Fatto si sfoga: "Una giovane donna che viene invecchiata di trent'anni... Se si voleva criticare l'operato della sindaca di Roma c'erano altri modi: la sua gestione della città non soddisfa tanti romani. Ritrarla così - prosegue la fu presidenta col ditino perennemente alzato -, con un volto che tra l'altro è poco riconoscibile e non rispondente alle sue sembianze, mi è sembrato poco appropriato. Si poteva evitare". Parole dure quella dell'ex presidente della Camera che di fatto non risparmia critiche al settimanale che di solito è molto vicino e solidale con le posizioni politiche della stessa Boldrini. Intanto l'ex presidente di Montecitorio ha preso parte al corteo di Milano per festeggiare la Liberazione del 25 aprile. La Bodlrini ha sfilato in compagnia dei centri sociali, dei sindacati e del Pd per le strade del capolugo lombardo: "Gli eventi di ieri sono stati deprecabili e nefasti, ma siamo tutti qui insieme. Siamo qui a dire 'no pasaran'", ha affermato. Infine su Twitter ha commentato così le polemiche sul 25 aprile: "Oggi non c’è nessun derby. La finale l’abbiamo giocata 74 anni fa, ha vinto la democrazia e hanno perso i fascisti. Buon 25 Aprile a tutte e tutti".
IL 25 APRILE DI MUGHINI. Giampiero Mughini a Dagospia il 25 aprile 2019. Caro Dago, avevo vent’anni la prima volta che assieme ai miei coetanei catanesi demmo gran risalto alla celebrazione del 25 aprile e dunque all’apoteosi dei combattenti partigiani che avevano affrontato con le armi in pugno repubblichini e SS tedesche. In quel momento avevo al mio attivo la lettura di un tomone einaudiano a firma Luigi Salvatorelli, nonché delle “Lettere dal carcere” di Antonio Gramsci, che in una cella fascista c’era rimasto per poco più di sette anni, e di qualche saggio apparso su riviste diffuse fra la nostra generazione. Credevo di saperla lunga, molto lunga, e schiamazzai mica male lamentandomi che la Repubblica italiana del dopoguerra fosse stata non sufficientemente severa nei confronti dei fascisti, di quelli che nel ventennio e durante la guerra civile stavano dalla parte della dittatura. Nell’ardore della mia concione dimenticavo che uno di quei fascisti era stato mio padre, quello che a me ventenne pagava gli studi universitari e mi dava i soldi di che comprarmi il libro di Salvatorelli e quello di Gramsci. Non che mio padre non avesse pagato adeguatamente la “colpa” di essere stato fascista. Era un dirigente di medio livello di un’azienda della Fiat da cui si dimise, come a riconoscere il suo statuto di “vinto”. Ricominciò da zero, in uno scantinato dove teneva i conti di uno che era stato un suo subordinato. Un giorno che lui non stava bene e io lo stavo assistendo in casa sua, e lui aveva appena letto un mio articoletto contro le “squadracce fasciste”, mi disse a bassa voce se lo sapevo che lui ne aveva fatto parte. Risposi di sì, che lo sapevo, e ovviamente ero pronto alla pugna. Lui non aggiunse nemmeno una parola. Né mai mi disse una parola di disapprovazione, nei sette o otto anni che durò il mio antifascismo furibondo, né mai cessò di darmi i soldi con cui andavo arricchendo il comparto della mia biblioteca dedicato alla dittatura fascista, un comparto che oggi annovera 700 0 800 libri. La sagoma di mio padre fascista è stata una molla decisiva ad alimentare la necessità che per me s’è fatta spasmodica di capire, di capire quegli anni, di capire il come e il perché della guerra civile, altro che andare in corteo nella giornata del 25 aprile a ricordare che il fascismo “faceva schifo”, ciò che in tanti raccomandano, ad esempio il regista italiano che ha per nome di battaglia Pif e che sul “Fatto” di oggi scrive un mucchietto di ovvietà su Matteo Salvini, uno che con il fascismo non ha niente a che vedere né di “diritto” né “di rovescio”. Dall’antifascismo furibondo della mia generazione provenivano gli assassini delle Brigate Rosse e di Prima linea. Tutti. Volevano fare nell’Italia dei Settanta e degli Ottanta quello che i gappisti comunisti avevano fatto a Torino, Milano, Roma tra il 1944 e il 1945, e come se fossero minimamente paragonabili le circostanze dell’Italia squassata dalla guerra civile con quelle della democrazia italiana dei tempi in cui al governo c’era una coalizione di centro-sinistra. Di quelle azioni, di quei Gap, di quelle circostanze drammaticissime in cui gli italiani di una parte si avventarono contro gli italiani dell’altra, oggi so tutto. Conoscevo e volevo bene a Rosario Bentivegna, il gappista di via Rasella. Rimase un’ora in piedi, travestito da spazzino, ad aspettare che arrivasse il corteo di militi che indossavano la divisa dell’avversario. Per poi accendere la miccia. Alla sera, rincantucciato in casa di Carla Capponi (medaglia d’oro della Resistenza), per togliersi di dosso quella terribile tensione lui e Carla si misero a giocare a scacchi. Poche ore dopo i nazi cominciarono a selezionare le vittime destinate alla rappresaglia, dieci fucilati per ogni milite morto. Nel computo sbagliarono per eccesso, cinque fucilati in più, ed ecco perché Herbert Kappler venne condannato all’ergastolo, non per avere comandato una “rappresaglia”, che era legalmente consentita in tempo di guerra. Fra gli 800 libri di cui vi ho detto ce n’è uno pubblicato da Laterza una trentina d’anni fa dove sono le registrazioni delle telefonate che i cittadini romani si scambiarono all’indomani dell’attentato. Tutti, dico tutti, lo disapprovano. Eppure Roma è insignita di medaglia d’oro della Resistenza. Per avere fatto che cosa? Altri due gappisti a Roma divenuti poi uomini di grande levatura, sono stati Alfredo Reichlin e Luigi Pintor. Luigi mi raccontò che alla notizia della morte del fratello su una mina nazista, decise una sua personale vendetta, lui e Alfredo. Andarono da qualche parte e puntarono sulla prima divisa tedesca a portata di mano. “Non lo rifarei, o comunque non in quel modo”, mi disse Luigi. E’ meglio sapere queste cose o scorrazzare in giro a sventolare bandiere rosse nel giorno della Liberazione? A una puntata televisiva cui ho partecipato qualche giorno fa ecco che qualcuno raccomandava la necessità di ringraziare i “liberatori” del 1945. “E allora dobbiamo ringraziare i soldati americani ventenni che sbarcarono in Sicilia, sulla spiaggia di Omaha Beach in Normandia e poi ad Anzio”, ho subito replicato ben sapendo che chi avevo di fronte non sapeva bene di che cosa si stesse parlando. Leggo ancora sul “Fatto” di oggi che nelle case, nelle campagne e nelle città furono “gli italiani dei Gap” a “costringere il nemico alla resa". Ah sì, a Montecassino furono quelli dei Gap a vincere una resistenza nazi che durava da mesi? No, fu una brigata polacca, gente che arrivò in cima e scoppiò a piangere al pensiero di quello che aveva sopportato il loro Paese. Potrei continuare per ore. Non senza ricordare che quando Rosario Bentivegna è morto, il cimitero isreaelita s’è rifiutato di accogliere le spoglie sue e di Carla Capponi. Fuori dalla retorica, l’agguato di via Rasella non gode di grande prestigio. Me ne dispiacque immensamente per Rosario, un soldato che aveva obbedito a un ordine del comando Gap di Roma (Giorgio Amendola, e non solo) e il cui coraggio personale era stato immenso. Solo che Roma non è stata “liberata” dai Gap e bensì dalle armate angloamericane. Arrivarono una mattina di giugno e Maurizio Ferrara (il padre di Giuliano), che se ne stava rincantucciato in una casa di via Flaminia, lo avvertì dall’odore di sigarette che arrivava dalla strada. Ed era indubitabilmente un tabacco americano.
25 aprile, il ricordo di Liliana Segre: «arrivarono gli americani e capii che l’incubo era finito». Scrive il 25 Aprile 2019 Il Dubbio. La superstite del campo di concentramento di Auschwitz, oggi senatrice a vita: «il ricordo più doloroso? La separazione da mio padre e quella solitudine disperata. Oggi i valori sono stati sommersi e ancora non sono stati salvati». «Sono un po’ stanca», sussurra Liliana Segre. Sulla sua pelle il numero di matricola – 75190 non è mai andato via, eterno promemoria di una prigionia vissuta con gli occhi di una bambina strappata dalle braccia del padre. Un dolore mai addomesticato, tanto da far spegnere le parole. Ma il ricordo, ripete la senatrice a vita, è importante. Ed è per questo che onorare il 25 aprile non può non essere considerato un obbligo morale. «Chi fa politica – spiega – non può ignorare la storia. Ricordare è un dovere. Ma si vuol far dimenticare o si dimentica. Per età, tempo e anche per convenienza». Deportata da Milano al campo di concentramento nazista di Auschwitz-Birkenau il 30 gennaio 1944, Segre il 19 gennaio dello scorso anno è stata scelta dal presidente Sergio Mattarella come membro permanente del Senato. E nel suo primo discorso all’Aula ha messo in guardia tutti contro l’odio, contro la tentazione dell’indifferenza e l’hate speech. Un imbarbarimento della società contro il quale si è battuta fin dal suo ingresso in Senato, con un disegno di legge per istituire una commissione parlamentare d’indirizzo e controllo sui fenomeni dell’intolleranza, razzismo e istigazione all’odio social. Un dovere, visti i continui episodi di violenza e di intolleranza. «Perché la paura del diverso viene da molto lontano e non è mai passata».
Senatrice, che ricordo ha del 25 aprile del 1945?
«Io ero ancora una prigioniera, non sapevo nemmeno che ci fosse il 25 aprile. Erano gli ultimi giorni della prigionia, ma noi prigionieri non sapevamo niente di quello che succedeva fuori dal campo. Non avevamo un orologio già da tempo, né un giornale, né era possibile sentire una radio. Non sapevamo nulla. Alla mia liberazione mancava una settimana, ma non potevo saperlo. Quando sono tornata in Italia, dopo mesi, da sola e ho saputo come erano andate le cose, come era andata storicamente, ero una ragazzina molto giovane e molto sofferente per tutto quello che mi era successo».
Quando ha preso consapevolezza di quello che era accaduto?
«È cresciuta col tempo, con gli anni. Per questo dico che quello che oggi non si studia più, cioè la storia, è invece molto importante, proprio per sapere come si è arrivati a una data come questa e anche per capire per quale motivo, ora, non si deve o non si vuole o non si insegna più la storia. Non studiandola più, avendola declassata a materia poco importante, si impedisce alle giovani generazioni di capire cos’è stato come resurrezione, dopo il fascismo, dopo l’abiezione, dopo la guerra, dopo i morti, il 25 aprile».
Quale ricordo le è rimasto più impresso?
«C’è l’atto tragico, quello di essere sola, separata per sempre da mio padre a soli 13 anni. La solitudine con la quale ho affrontato la prigionia è stata una delle cose più tragiche. Infatti dico sempre che gli adolescenti, di cui oggi ci si preoccupa tanto, sono fortissimi. Perché io l’ho visto su di me quanto si può essere forti, quando è il momento. Mi ci sono voluti così tanti anni prima di lenire la ferita di quella solitudine disperata…»
E poi?
«E poi c’è il momento della liberazione, quando si sono aperti i cancelli e sulla strada nemica, una strada tedesca, sono venuti incontro gli americani, ai quali sarò per sempre grata, e abbiamo capito che era finita. Avevo 14 anni, li avevo compiuti nel campo ad Auschwitz».
Cosa ricorda di quel compleanno?
«Non sapevo neanche che giorno fosse, forse l’ho saputo da qualche nuova prigioniera che mi ha detto in che mese ci trovassimo. Sicuramente non abbiamo spento nessuna candelina, c’erano candele diverse… Il momento più doloroso?
Quando mi hanno separata da mio padre. È stato lo spartiacque tra la mia vita prima e la mia vita dopo, una pietra tombale sulla mia infanzia, che è finita in quel momento».
C’è stata molta polemica politica sul 25 aprile e sul suo significato. Cosa ne pensa?
«Siamo al punto in cui si vuol far dimenticare o si dimentica, per questione di età, di tempo e anche di convenienza, cosa significhi questa data. Ma penso che chi fa politica non possa ignorare la storia».
Lei incontra molti giovani nelle scuole: che impressione si è fatta?
«C’è una generazione di ragazzi che vive attaccata ai telefonini, che offrono il modo per anestetizzare le menti. Ed è difficile resuscitare sentimenti così importanti come lo erano quelli del 25 aprile. La parola libertà viene messa in palio solo quando si tratta di un premio da parte dei genitori per uscire la sera, per fare il proprio comodo. Ma la parola libertà significa altro quando si è stati prigionieri non solo di cancelli e di muri ma quando anche le menti sono state prigioniere di teorie che hanno portato alla disperazione, alle guerre, ai genocidi. Questo torpore delle menti, allora, fa sì che si possa far decidere qualunque cosa a livelli più alti. Poi il tempo che passa fa la sua parte».
È per questo che sono importanti la memoria e voci come la sua?
«Ormai la mia è una voce che si sta spegnendo e sono sempre meno le persone che ricordano. Le persone muoiono e oggi ci sono altri traguardi da raggiungere, che sono di popolarità, di guadagno, di falsi idoli, personaggi che scelgono il campo della moda, del calcio. Sono degli idoli diversi e oggi raggiungere quella popolarità, essere una donna fotografata, importa molto di più che essere, ad esempio, una donna colta. Pensare di diventare un’eroina fa sorridere. E se a una ragazzina, di questi tempi, chiedi cosa vuole diventare da grande ti risponderà che vuole fare televisione».
Non ci sono più valori?
«I valori sono stati sommersi, mettiamolo così. E, alla Primo Levi, ancora non sono stati salvati. Sono solo sommersi, appunto».
L'Anpi ora va all'attacco: "Ignoranti su 25 aprile Mussolini era criminale". Esplode ancora la polemica sul 25 aprile. L'Anpi adesso va all'attacco: "Diciamo no a chi continua a gettare fango e fuoco sulla memoria delle partigiane e dei partigiani". Scrive Franco Grilli, Martedì 23/04/2019, su Il Giornale. Anche il 25 aprile entra nello scontro tra i Cinque Stelle e la Lega. Il ministro Salvini e i ministri del Carroccio, come è noto, non parteciperanno alle celebrazioni per la Liberazione. Il ministro degli Interni su questo punto è stato molto chiaro: "Il 25 aprile, per celebrare il sacrificio di chi ha combattuto per la libertà dell'Italia, sarò in mezzo alle donne e agli uomini della Polizia di Stato di Corleone (Palermo), per ringraziarli del fatto che ogni giorno rischiano la loro vita per liberare la Sicilia e l'Italia dalla mafia". Il ministro del Lavoro, Luigi Di Maio ha risposto immediatamente al vicepremier della Lega: "Leggo che qualcuno oggi arriva persino a negare il 25 aprile, il giorno della Liberazione. Lo trovo grave. Non è alzando le spalle e sbuffando che questo Paese cresce. Al contrario, cresciamo se diamo forza a certi valori, alla nostra storia. Perchè col menefreghismo non si va da nessuna parte. E poi, concedetemelo, è curioso che coloro che oggi negano il 25 aprile siano gli stessi che però hanno aderito al congresso di Verona, passeggiando mano per la mano con gli antiabortisti". Fin qui lo scontro tra Lega e Movimento. Ma nella polemica irrompe anche l'Anpi, l'associazione nazionale dei partigiani. "Il 25 aprile è Festa nazionale. La Festa della Liberazione dell'Italia dal giogo nazi-fascista. Essa vedrà migliaia e migliaia di persone nelle piazze e nelle vie di tantissime città e paesi. Nessuno riuscirà a cancellarla", fa sapere l'Anpi con una nota. Poi le parole dell'Anpi si fanno più dure: "Ci riferiamo, in particolare, a chi cerca di negarla, paragonandola ad uno scontro tra 'fascisti e comunisti', mentre essa fu lotta vincitrice del popolo italiano contro il nazi-fascismo; a chi continua a gettare fango e fuoco sulla memoria delle partigiane e dei partigiani; a chi tenta con il solito argomentare razzista e ignorante di riportare l'orologio della storia al ventennio del criminale Benito Mussolini". Infine: "Viva la Resistenza, viva la Costituzione, viva l'Italia". Sarà una giornata piuttosto accesa quella del 25 aprile. Lo scontro tra Lega, 5 Stelle e Anpi potrebbe durare ancora a lungo.
«Fischia il vento» e la nascita dei canti partigiani: da Felice Cascione a Fabrizio De André, passando per Italo Calvino. Pubblicato giovedì, 25 aprile 2019 da Giulia Cavaliere su Corriere.it. Non si dice 'nome di battaglia' per caso, ma perché qualcuno, quel nome, l'ha usato davvero per combattere. Il nome di battaglia di Felice Cascione è U Megu, "il medico", visto che lui, ligure di Porto Maurizio, Imperia, è riuscito a laurearsi in Medicina all'Università di Bologna nel 1942 e pratica sempre, in ogni condizione, il lavoro di medico. Capitano della squadra del GUF di Imperia in quanto acclamato centrovasca di pallanuoto, sport che si era abituato a praticare nel porto, ben presto si affranca dal fascismo e si avvicina attivamente all'antifascismo attraverso incontri sempre più frequenti con esponenti del Partito Comunista d'Italia della sua città, naturalmente in via clandestina. Prende parte alle manifestazioni per la caduta del fascismo quando il 25 luglio del 1943 viene instaurato il Governo Badoglio, e viene arrestato (con la madre) per poi partire immediatamente per la Resistenza con la nascita della Repubblica Sociale Italiana dopo l'armistizio dell'8 settembre. I partigiani liguri, afferma Cascione, non hanno ancora una bandiera e quindi serve almeno che abbiano una canzone. Non esistono ancora, infatti, vere e proprie canzoni nate dalla nuova esperienza partigiana e i brani cantati sono perlopiù quelli comunisti, socialisti e tutt'al più anarchici; parliamo di canti come L'Internazionale, Bandiera rossa, Canzone del maggio, Addio Lugano Bella (per la quale viene utilizzata di volta in volta una variante legata all'area geografica ove si trovava la specifica Brigata che la sta cava cantando, nel caso di Cascione, naturalmente, Imperia). Nel casone nel comune di Stellanello dove si trova da partigiano e insieme a Giacomo Sibilla - che porta Ivan come nome di battaglia ed è un reduce dalla campagna di Russia - Cascione completa la stesura della sua poesia Fischia il vento, che aveva già iniziato a scrivere quando si trovava a frequentare l'Università a Bologna, e la trasforma in canzone. Ivan, infatti, nella regione del Don, aveva ascoltato la canzone russa Katjuša da ragazze e prigionieri. Proprio su quest'aria russa tornata con lui in patria, dunque, vengono adattati i versi scritti da Cascione. Felice Cascione, però, non è solo l'autore di quello che, ufficialmente, risulta essere il primo canto - tra i molti che nasceranno - della storia della nostra Resistenza, ma è anche colui che, fatti prigionieri due fascisti - il tenente Di Paola e il milite Dogliotti - esponenti entrambi della GNR (Guardia Nazionale Repubblicana) decide di non condannarli a morte ma di tentare di avvicinarli alla causa partigiana, pronunciando ripetutamente ai compagni, le seguenti parole: «Ho studiato vent'anni per salvare la vita di un uomo, come posso acconsentire a dare la morte a due persone che hanno errato perché non hanno avuto, come noi, la fortuna di essere educati alla libertà, alla bontà, alla giustizia? Non è certo colpa loro se le loro madri non li hanno saputi educare alla libertà. I due prigionieri hanno salva la vita». Naturalmente non finirà bene e, una volta riusciti a fuggire i due prigionieri, pur a seguito di uno spostamento geografico della Brigata, Cascione viene coinvolto in uno scontro con i nazifascisti e, ferito da loro o suicida di fronte alla fine imminente, muore da partigiano il 27 gennaio del '44. Se tra le ispirazioni dirette della canzone La guerra di Piero di Fabrizio De André (1964) ci sono certamente le storie di guerra dello zio materno e una citazione molto esplicita dalla canzone Dove vola l'avvoltoio scritta da Italo Calvino e musicata poi da Sergio Liberovici (1958), è abbastanza evidente come la storia appena raccontata e la scelta di risparmiare il nemico fatta da Cascione, sembrino ispiratori della vicenda di Piero, il protagonista del brano, che nello scontro risparmia un avversario che poi non gli "ricambia la cortesia". Chissà, forse la storia eroica e commovente di Felice Cascione, U Megu, il primo cantautore partigiano della storia, potrebbe essere arrivata alla penna di De André proprio attraverso le parole di Italo Calvino. La brigata di Felice Cascione, dopo la sua morte, prese il nome di Divisione Garibaldi "Felice Cascione" e Italo Calvino vi aderisce con il fratello Floriano; nei suoi scritti, lo scrittore ricorda Cascione così: «Il tuo nome è leggenda, molti furono quelli che infiammati dal tuo esempio s'arruolarono sotto la tua bandiera»: molti, anche lui.
· La Resistenza accusata di terrorismo e genocidio.
Anpi, ecco le 90 pastasciutte antifasciste organizzate in tutta Italia per ricordare il 25 luglio del '43. Si fece festa anche in casa Cervi quel giorno di 76 anni fa. Dopodomani iniziative in tutta Italia organizzate dall'associazione nazionale partigiani, dai sindacati e dai Comuni. Per celebrare la caduta del regime di Mussolini. La presidente Nespolo: "Il fascismo è e resterà un crimine". Giovanna Casadio il 23 luglio 2019 su La Repubblica. "Papà, offriamo una pastasciutta a tutto il paese intanto che il fascismo è caduto, poi si vedrà", disse Aldo. E allora, racconta papà Cervi, "andammo a prendere il formaggio dalla latteria in conto del burro che ci impegnammo a consegnare gratuitamente per un certo tempo. La farina l'avevamo a casa e altri contadini l'hanno pure data e sembrava che dicesse: mangiami ora che il fascismo e la tristezza erano andati a ramengo". Fu così che il 25 luglio del 1943 - anche se di lì a qualche mese molte altre cose sarebbero accadute, dall'armistizio ai rastrellamenti all'uccisione dei sette fratelli Cervi - si fece festa. Da casa Cervi partirono alla volta di Campegine i bidoni di latte che contenevano la pastasciutta con burro e formaggio. In piazza fu una notte di canti e balli sull'aia senza il timore che arrivassero le camicie nere. Almeno quella sera. E dopodomani, il 25 luglio, di "pastasciuttate" se ne faranno oltre novanta organizzate dai partigiani dell'Anpi, dai sindacati e dai Comuni in tutt'Italia per celebrare quant'è bella - e gustosa - la libertà. Non solo a Gattatico, a Reggio Emilia, nel casolare-museo dei Cervi - con Albertina Soliani ad organizzare - , ma anche pastasciutta antifascista nel milanese a Basiano come a Bassano del Grappa, a Bergamo e a Borgo Ticino a Novara. E pastasciuttate a Bolzano come ad Alessandria a Brindisi, a Varese e a Pisa, a Catanzaro e a Cosenza, a Gorizia e al Trullo a Roma. Carla Nespolo, la presidente dell'Anpi, ci tiene a ricordare che "il 25 luglio è festa grande per il nostro paese, perché si celebra la caduta del regime criminale di Benito Mussolini. L'Anpi sarà impegnate in decine di iniziative di memoria attiva. Ricordando la famosa "pastasciuttata" a Campegine offerta dai Cervi lanceremo un messaggio chiaro: il fascismo è e resterà un crimine. Sono intollerabili, oltreché illegali, tutte le manifestazioni apologetiche, cortei in orbace, saluti romani, ma soprattutto le violenze razzistiche. Diremo, inoltre, con forza che le tentazioni autoritaristiche, le barricate disumane contro i deboli in fuga dalle guerre e dalle torture sono fuori dalla Costituzione". Invita tutti, Nespolo, a festeggiare con la pastasciutta antifascista, perché, come rammentava Alcide Cervi, "le donne si mobilitano nelle case attorno alle caldaie e c'è un grande assaggiare la cottura e il bollore suonava come una sinfonia. Ho sentito tanti discorsi sulla fine del fascismo ma la più bella parlata è stata quella della pastasciutta in bollore". L'elenco dei luoghi delle pastasciutte antifasciste si trova sul sito dell'Anpi.
RAPPRESAGLIE PARTIGIANE. Ernest Armstrong su laltraverita.it. Rappresaglia. Nell’immaginario collettivo creato dal “mito resistenzialista”, all’udire questa parola appare l’immagine di un plotone di tedeschi che fucilano 10 innocenti civili italiani per ogni loro camerata morto. In realtà la rappresaglia fu attuata da tutti gli eserciti che combatterono nella seconda guerra mondiale, come ricorda anche Gianni Alasia, attuale esponente di Rifondazione Comunista : “Quando il mio amico Heinz Karl M., di Monaco, militare della Wehrmacht, fu fatto prigioniero in Francia, visse momenti tremendi. Vennero fatte decimazioni, e Carlo non capiva il perchè di una cosa così terribile mentre erano inermi prigionieri. “La rappresaglia era ammessa dal Diritto internazionale del tempo di guerra di Ginevra, a patto che ad eseguirla fosse un regolare esercito (in divisa) che fosse stato attaccato da terroristi (non in divisa). Essa poteva avvenire, qualora non si fossero presentati i colpevoli, su prigionieri o su civili, esclusi donne e bambini, colpevoli di aver protetto i terroristi. Sia i terroristi che chiunque avesse ucciso prigionieri, fuori dai casi previsti, alla fine del conflitto doveva essere processato per crimini di guerra. Questo in Italia non accadde. Chi ordinò uccisioni non giustificate dal Diritto Internazionale , se partigiano, fu ricompensato con l’inquadramento tra i graduati nell’Esercito e con titolo alla pensione.
8 agosto 1944, ore 9 del mattino, a Milano in Piazzale Loreto angolo viale Abruzzi esplode una bomba posta sul sedile di un camioncino tedesco che rifornisce di latte le famiglie. Muoiono nell’esplosione sei bimbi, una donna e due giovani padri. Tredici i feriti gravi, sei di loro moriranno il giorno dopo. Il bilancio finale sarà di 15 morti, 7 feriti gravi e una decina di feriti leggeri. Nessun tedesco muore nell’attentato ma l’efferatezza è tale che il Comando germanico chiede di procedere ad una rappresaglia in misura di uno per uno. Non tutti sono d’accordo. Il prefetto, Piero Barini, si dimette. Mussolini interviene e protesta con violenza. Anche il cardinal Schuster interviene. Malgrado ciò al mattino del 10 agosto in piazzale Loreto un plotone della Muti fucila quindici persone sospettate di aver rapporti con i partigiani e per questo da tempo incarcerate a S. Vittore. Ed ecco che scatta immediatamente la rappresaglia partigiana, infatti lo stesso giorno da parte della Delegazione per la Lombardia del Comando Generale delle Brigate Garibaldi viene impartito l’ordine alle formazioni partigiane di fucilare militari fascisti e tedeschi loro prigionieri nella misura di tre ad uno . "Per rispondere agli efferati delitti che i nazifascisti compiono a Milano.....1)Passare per le armi i prigionieri nazifascisti attualmente in vostro possesso; 2)Tali esecuzioni devono essere comunicate e popolarizzate segnalando che vengono eseguite come rappresaglia degli eccidi di Milano; 3) Se tali eccidi si ripetono le esecuzioni in massa di nazifascisti prigionieri dovranno essere immediatamente eseguite ”. Verranno fucilati 30 prigionieri fascisti e 15 tedeschi, probabilmente dalle Divisioni Ossolane di Cino Moscatelli, in quanto molti di loro erano stati catturati in massa, su alcuni treni , qualche tempo prima, dai partigiani dell’Ossola. Un risvolto drammatico è dato dal fatto che Mussolini ed i gerarchi uccisi a Dongo verranno esposti, il 29 aprile 1945, a Piazzale Loreto per “vendicare la fucilazione di 15 patrioti”.
Purtroppo la prassi di fucilare prigionieri a seguito dell’uccisione di partigiani fu costante in tutte le formazioni. Un elenco di controrappresaglie eseguite è contenuto in una lettera del 12 ottobre del 1944 della Delegazione Lombardia del Comando Generale delle Brigate Garibaldi. Un’altra lunga serie di rappresaglie partigiane viene effettuata nel Biellese, se ne trova traccia nel libro “La Resistenza nel Biellese” di Poma e Perona. L’ordine di “prendere fascisti” militi o civili da trattenere come ostaggi per scambi di prigionieri, piuttosto che per fucilarli per rappresaglia viene diramato dai vari Comandi. Così il Comando della 3a Divisione Liguria può permettersi di comunicare, il 25 agosto 1944 , che a seguito del " processo del Tribunale Speciale contro trentun italiani....per ogni fucilazione ordinata dal tribunale, verranno fucilati 2 ostaggi che si trovano in nostre mani”. Si trattava di funzionari e agenti di PS e ufficiali e militi della GNR. Per la fucilazione di due partigiani avvenuta a Varzi, il Comando della 3a divisione Lombardia “Aliotta” ordina che ciascuna delle brigate dipendenti proceda alla fucilazione di 2 prigionieri, mentre dopo la fucilazione di 5 partigiani sulla piazza di Ivestria, la brigata Baltera risponde fucilando 20 SS tenute come ostaggi. Anche la prassi di stampare ed affiggere manifesti minacciando le rappresaglie non fu prerogativa delle truppe dell’Asse, infatti si legge in un manifestino bilingue diffuso dalla divisione partigiana Serafino della Val Chisone: ”.Soldati tedeschi ....i vostri comandanti erano stati avvertiti che per ciascun nostro caduto avremmo ucciso tre di voi. Oggi informiamo voi stessi della decisione...”. Ma un manifesto del CLN del Piemonte, del 27 settembre 1944, alza la posta: "Alle persecuzioni risponderemo con le persecuzioni. Alle rappresaglie con le rappresaglie. Per ogni patriota ucciso cadranno cinque nazifascisti; per ogni villaggio incendiato cinquanta traditori verranno passati per le armi". E non erano minacce a vuoto. Infatti il 12 dicembre 1944, dopo l’uccisione di Duccio Galimberti, il Comando regionale Militare del Piemonte emana il seguente ordine: “Passare per le armi cinquanta banditi delle Brigate Nere per vendicare la morte del comandante Tancredi Galimberti”. La vita di Galimberti valeva dieci volte di più del minacciato. Ma c’e già chi passa all’escalation e si prepara ad uccidere anche i familiari di tedeschi e fascisti. Così scrivono, il 28-12-44, i “compagni responsabili” a Pietro, commissario politico della 5a zona Cuneese:". Se i nazifascisti uccidono per rappresaglia dei pacifici cittadini dovremo passare alla controrappresaglia sui fascisti, tedeschi e anche le loro famiglie." . Purtroppo anche stavolta alle intenzioni seguirono i fatti.
Nei libri resistenzialisti delle fucilazioni eseguite per controrappresaglia dai partigiani non si trova che qualche traccia, molto ben mascherata, nè la stampa o la pubblicistica di destra ha mai approfondito questo tema. Cosicchè ancora oggi ci sono ignoti non solo la maggior parte degli episodi, ma anche il numero ed il nome degli uccisi. Che martiri sono, almeno quanto quelli delle Fosse Ardeatine. A questo proposito è emblematico un episodio accaduto in Piemonte, nelle Valli di Lanzo. Nel gennaio 1994 mentre ristrutturava la sua casa alla periferia di Cantoira, in Alta Valle di Lanzo , Pierino Losero ritrova uno scheletro. Nasce un caso di cronaca di cui si occupano non solo i giornali locali , ma anche La Stampa di Torino. Si fanno vari esami e varie ipotesi : dai resti di un guerriero medioevale ad un caduto della Prima Guerra Mondiale. Finchè una lettera anonima ,spedita a La Stampa , e pubblicata il 18/1/1995 non svela il mistero. “Le ossa ritrovate un anno fa hanno un nome e cognome: Werner Teschendorff, ufficiale tedesco della Wehrmacht, nato a Dusseldorf nel 1922. La lettera anonima ha dato ragione a chi pensava ad una vittima della lotta di liberazione. " Nel marzo o aprile del 1944- comincia il primo foglio- mi trovavo distaccato come partigiano GL in una baita sopra Chialamberto, lì ci vennero affidati tre prigionieri tedeschi dal comando garibaldino di Pessinetto" In quei giorni venne catturato dalla milizia repubblicana Battista Gardoncini, che venne poi fucilato a Torino, in piazza Statuto. Di conseguenza al gruppo partigiano del mittente, che ora abita nell' Albese, arrivò l'ordine immediato di fucilazione per rappresaglia per i tre prigionieri. Il comandante Pedro Francina tentò più volte di far annullare l'ordine recandosi al comando di Pessinetto. Fu tutto inutile, i tre tedeschi dovevano essere passati per le armi. Due di loro, graduati e richiamati nell'esercito, furono fucilati in località "Alpe Crot", sopra Chialamberto. Poi il racconto si fa più intenso: "Erano dei bravi ragazzi con i quali avevo fraternizzato, ...con il cuore gonfio di tristezza e rimorso...lo guardavo mentre scriveva le sue ultime volontà...fu trasportato a Cantoira dove fu fucilato e seppellito in una vecchia casa. Aveva 22 anni, era laureato in botanica, doveva sposarsi di lì a poco, morì dignitosamente gridando "Viva la Germania". Quello che la lettera anonima non dice è che Werner Teschendorff fu uno dei centoventi prigionieri fucilati per vendicare la morte di “Battista”, ce ne dà conferma, in modo sibillino, Gianni Dolino capo partigiano delle Valli di Lanzo :” Battista, comandante delle Valli, e Pino suo commissario vennero catturati a Balme il 29 settembre e fucilati il 12 ottobre ‘44 con sette compagni, in via Cibrario a Torino, presso l’albergo Tre Re. Il comandante della Piazza di Torino, colonnello Schmidt, rifiutò l’offerta di 120 uomini (tra i quali ufficiali tedeschi) della delegazione Garibaldi, tramite la Curia, in cambio di Battista. ......Pietà l’è morta: pagheranno i 120 offerti in cambio! . Durante la guerra civile il CLN non risparmiò certo sulla pubblicità da dare alle rappresaglie eseguite. Tranne a farne sparire , a guerra finita, ogni traccia. In nessun libro ho sinora trovato una sola riproduzione dei tanti manifesti in cui si annunciavano le rappresaglie eseguite. Per certo, d’altronde, il 15 ottobre 1944 la Delegazione della Lombardia del Comando Generale delle Brigate Garibaldi, annuncia in un manifesto che ad un eccidio nel Pavese si è risposto con la fucilazione di 8 prigionieri, a quello di 15 patrioti in provincia di Varese con quella di 45 nazifascisti, mentre l'Unità del 8-ottobre-44 dà la notizia della fucilazione di 35 prigionieri in risposta all'uccisione di 7 partigiani. Pubblicità fu data, non sappiamo per certo con quale strumento, all’uccisione di un tenente fascista il 19-10-44, effettuata dalla Divisione autonoma De Vitis, per rappresaglia contro l'uccisione di un partigiano e alla fucilazione di Luigi Bevilacqua, Luigi Gallo Marchiando, Michele Pozzi e del capitano Aurelio Quattrini , tutti della G.N.R., catturati l’11 marzo mentre eseguivano un trasloco di mobili, ordinata, il 23 marzo 44 , dal capo partigiano Marcellin a seguito di una rappresaglia tedesca a Pomaretto.
Alcune rappresaglie portano inequivocabilmente la matrice della vendetta come quella eseguita dai partigiani a Collegno. In quella cittadina, alle porte di Torino, a “liberazione” avvenuta, il 1°maggio 1945 i tedeschi della divisione corrazzata del Generale Schlemmer, mentre si ritirano, vengono attaccati dai partigiani che sparando dai tetti uccidono due soldati. I tedeschi sospendono la ritirata, rastrellano le strade ed il mattino seguente , non essendosi presentati i responsabili, fucilano trenta tra civili e partigiani. Quando i tedeschi sono lontani ricompaiono i partigiani che si recano alla Brignione, una fabbrica nelle vicinanze; dentro vi sono trenta giovani della Divisione Littorio, nativi di Cremona e Mantova, nascosti lì ,dopo la resa, da un certo Ruchelli, impietositosi dalla loro sorte. Vengono massacrati tutti e trenta assieme agli studenti Tino Di Fullo e Remy Maccani, accusati di essere fascisti. Anche nella zona di Santhià, i tedeschi, che cercano di aprirsi un varco verso oriente,tra il 28 e 29 aprile, provocano morti, i partigiani per vendetta fucilano a Vercelli un egual numero di prigionieri fascisti. Sono i giorni di Caino, i giorni in cui il giornale Il ribelle , organo della IV divisione partigiana Pinan-Chichero, scrive: "Non basterà colpire l'idea, bisognerà colpire chi si è macchiato servendo l'idea fascista e chi si macchierà di fascismo. Occorre epurare: colpire gli individui renitenti, distruggerli, eliminarli integralmente, disinfettare l'aria infetta.... l'eliminazione dovrà colpire migliaia di fascisti ed i colpiti saranno sempre pochi.Non arrestiamoci per sentimantalismo o per stanchezza" la stessa “filosofia “viene ribadita con più autorità da Giorgio Amendola sull’Unità del 29 aprile,di Torino: " Torino è il centro di direzione e di organizzazione di tutto il Piemonte. Il CLNP esercita la sua funzione di governo e coordina e dirige tutta la guerra. I tedeschi e gli ultimi gruppi di banditi neri sono ormai fuorilegge.....Pietà l’è morta! ...E’ la parola d’ordine del momento. I nostri morti devono essere vendicati tutti. I criminali devono essere eliminati. La peste fascista deve essere annientata. Solo così potremo finalmente marciare avanti. Con risolutezza giacobina il coltello deve essere affondato nella piaga, tutto il marcio deve essere tagliato. Non è l'ora questa di abbandonarsi a indulgenze che sarebbero tradimento della causa per cui abbiamo lottato. Pietà l'è morta! “La strage è iniziata, gli ostaggi non servono più. Per essere certi che nessun fascista resti in vita, la 1a Divisione autonoma Val Chisone "A. Serafino", già citata ,emana le Disposizioni sul trattamento da usarsi contro il nemico :”...Trasmetto gli ordini ricevuti dal CVL...gli appartenenti a tutte le truppe volontarie (fasciste) sono considerati fuori legge e condannati a morte. Uguale trattamento sia usato anche per i feriti di tali reparti trovati sul campo...in caso si debba fare dei prigionieri per interrogatori ecc., il prigioniero non deve essere tenuto in vita oltre le tre ore. firmato: Il Comando di Divisione. “Si è alla strage autorizzata. Ma torniamo alle rappresaglie, in particolare a quelle eseguite dai tedeschi e fascisti. Già oggi qualche storico ipotizza, a seguito di ricerche svolte, che molte rappresaglie venissero provocate appositamente per indurre la gente ad odiare i tedeschi ed i fascisti, ed anche per liberarsi di alleati “scomodi”, così come una ricostruzione dell’attentato di Via Rasella può fare concretamente dedurre. “I comunisti sapevano che l'attentato era assolutamente nullo da un punto di vista militare. Sapevano con assoluta certezza che a quell'attentato, a quel tipo di azione sarebbe seguita una rappresaglia. E' altrettanto indubbio che sapevano che le vittime sarebbero state scelte fra i prigionieri antifascisti incarcerati a Roma. I dirigenti del PCI sapevano che circa centotrenta tra ufficiali del Centro Militare Clandestino e uomini di vari partiti non comunisti si trovavano nelle mani della polizia tedesca. L'attentato di via Rasella venne compiuto all'insaputa dei responsabili della lotta clandestina della capitale..........Nulla da stupirsi dunque che uno degli obiettivi, se non il vero obiettivo, fu quello di eliminare alleati che al disegno del PCI si opponevano: E' fuori discussione , infatti, che l'unico vero risultato raggiunto, con l'eccidio di via Rasella ,fu il totale massacro di scomodi alleati che vennero così trasformati in altrettanti comodi martiri al servizio del partito comunista italiano.[3] Lo stesso Indro Montanelli, nel 1983 ,così riassunse l'attentato:" L'attentato fu inutile, perchè a chiunque risultava chiaro che la liberazione di Roma era questione di settimane, poi perchè prese di mira un reparto di anziani territoriali alto-atesini e scatenò la rappresaglia"...da più parti fu sottolineato che "gli ostaggi fucilati erano in maggioranza antifascisti ma non comunisti” La stessa strategia sembra aver suggerito l’uccisione di Ather Capelli. Al mattino del 31 marzo ‘44, vengono arrestati nel Duomo di Torino e sulla piazzetta antistante i componenti del Comitato Piemontese del CLN, in maggioranza badogliano; alle ore 13 dello stesso giorno, due gappisti, Sergio Bravin e Giovanni Pesce, uccidono a revolverate, dentro l’androne di casa, il direttore della Gazzetta del Popolo, Ather Capelli. L’omicidio darà il via alle rappresaglie a Torino e contribuirà notevolmente alla richiesta “di condanna esemplare” che porterà, nonostante gli interventi del Federale Solaro e del prefetto Zerbino per evitarla, alla condanna a morte del generale Perotti e di altri sette membri del CLN Piemontese, catturati.
Ma non è solo il caso dell’attentato di Via Rasella o di Torino. Così Liano Fanti, autore del libro " Una storia di campagna. Vita e morte dei fratelli Cervi", in una intervista a La Stampa : "Il Pci ha fatto dei fratelli Cervi una bandiera, in realtà il partito reggiano li aveva emarginati con l'accusa, sostenuta fino alle soglie dello scontro violento, di essere "anarchici" che non avevano assimilato le linee del partito....Il partito rifiutò ai Cervi la copertura di una delle tante "case di latitanza" (nascondigli che ospitavano i compagni che erano in pericolo o stavano per essere scoperti dal nemico) proprio nel momento di massimo pericolo , per i Cervi il rifiuto fu fatale. Questi fatti si trovano anche nella Storia della Resistenza reggiana di Guerrino Franzini. Dopo la cattura dei Cervi era stato emanato l'ordine di non compiere attentati per non mettere in pericolo la vita degli arrestati. Ma qualcuno non rispettò l'ordine e il 17 dicembre '43 uccide il primo seniore della Milizia Giovanni Fagiani. I fascisti minacciano ritorsioni , ma non fanno nulla. Il 27 dicembre un gruppo partigiano uccide il segretario comunale di Bagnolo in Piano, Davide Onfiani. Non passano più di 12 ore e la rappresaglia colpisce i fratelli Cervi..Nel 1980 Osvaldo Poppi, che con il nome di "Davide" era membro del Comitato Militare, in una lettera inviata all' Anpi di Reggio Emilia ha scritto che non aveva potuto fare con i Cervi quello che nel '44 aveva fatto nel Modenese con Giovanni Rossi, un partigiano refrattario ad accettare la linea del partito. Testualmente: “..non avevo potuto eliminarli in virtù della loro "grande statura morale ". Come si può comprendere molte sono ancora le cose da portare alla luce di quello che fu definito il “secondo Risorgimento” , ma ciò a cui più teniamo è che tutti coloro che ebbero il torto di morire per essersi schierati con la parte perdente o più semplicemente per colpa dell’ odio, non cadano nell’oblìo voluto da una storiografia bugiarda. Anche il “nuovo revisionismo resistenzialista” dell’ultimo libro di Pansa - I nostri giorni proibiti-, non ci trova d’accordo laddove la morale di fondo è quella dei vecchi partigiani che , invitano Marco, figlio di un loro compagno misteriosamente ucciso, a smetterla di cercare la verità, ma soprattutto ad abituarsi a non sapere.
Giudicanti, ingiudicati. Il giudizio dei vincitori e la condanna all'oblio.
Sentenza Corte di Cassazione - Sezioni Unite Civili - 19 luglio 1957 n. 3053 - Attentato di via Rasella.
Sentenza 19 luglio 1957, n. 3053 Corte di Cassazione.
Organo giudicante: Corte di Cassazione
Normativa correlata:
D.L.L. 5 aprile 1945, n. 158
D.L.L. 12 aprile 1945, n. 194
D.L.L. 21 agosto 1945, n. 518
D.L.C.p.S. 6 settembre 1946, n. 226
Artt. 25, 26 e 27 R.D. 8 luglio 1938, n. 1415
Artt. 170, 171, 174 e 175 Codice penale militare di guerra
Artt. 2043 e 2049 Codice civile
Intestazione e massima di Foro Italiano. Omissis. — Svolgimento del processo: il 23 marzo 1944, in Roma, una formazione militare germanica che transitava per via Rasella fu investita dallo scoppio di un ordigno esplosivo, che causò la morte di trentadue soldati, oltre che di due cittadini, nonché il ferimento di altre due persone che si trovavano sul posto. Il successivo giorno 24 [i] tedeschi eseguirono, per rappresaglia, in località Cave ardeatine, il massacro di trecentotrentacinque persone, scelte tra i detenuti, condannati, o indiziati per attività antifascista, e tra gli appartenenti alla cosiddetta razza ebraica, oppure prelevate immediatamente dopo il fatto nei pressi di via Rasella. Trovarono così la morte, tra gli altri, Alfredo ed Adolfo Sansolini, Amedeo Lidonnici, Gino e [Duilio] Cibei.
Con atto di citazione 15-16 marzo 1949, Ercole Sansolini, Stefano Lidonnici e Vincenzo Cibei convennero in giudizio avanti al Tribunale di Roma gli esecutori materiali dell'attentato, in persona di Rosario Bentivegna, Franco Calamandrei e Carlo Salinari, nonché i presunti loro mandanti, in persona di Sandro Pertini, Giorgio Amendola e Riccardo Bauer, affinché fossero tutti condannati al risarcimento dei danni ad essi istanti derivati per la morte dei loro rispettivi figli. A sostegno della domanda dedussero: che all'epoca dell'attentato si trovava in Roma, quale comandante delle forze militari della Resistenza, il generale Quirino Armellini, regolarmente nominato dal Governo legittimo, mentre la rappresentanza politica era stata assunta dal Comitato di Liberazione Nazionale, presieduto da Ivanoe Bonomi; che, indipendentemente da questi due organi, esisteva ed operava in Roma una Giunta Militare, di cui facevano parte il Pertini, l'Amendola e il Bauer, dalla quale dipendevano alcune formazioni partigiane garibaldine; che gli ordini impartiti dal generale Armellini, nonché dal generale Bencivenga, il quale aveva assunto il comando della città di Roma con pieni poteri civili e militari, imponevano di non compiere attentati nell'interno di detta città; che la Giunta Militare, pur essendo a conoscenza delle rappresaglie preannunciate, minacciate ed eseguite dai tedeschi, aveva ordinato di compiere l'attentato di via Rasella, non ostante le contrarie disposizioni impartite dai detti generali; che, dopo l'arresto in massa degli abitanti di via Rasella e l'annuncio della rappresaglia collettiva, gli autori dell'attentato si erano mantenuti nell'ombra ed avevano lasciato che l'esecuzione collettiva avesse luogo.
Sostennero, poi, in diritto, gli istanti, che coloro i quali avevano ordinato, diretto, od eseguito l'attentato, erano incorsi in illecito penale e civile. L'illecito penale dipendeva dalla violazione delle norme relative agli usi e alle convenzioni di guerra, sanzionate dagli art. 174, 175 e 177 codice penale militare di guerra, nonché dagli art. 422 e 589 codice penale comune; l'illecito civile conseguiva alla violazione delle norme di comune prudenza e del fondamentale principio del neminem laedere, nonché alla inosservanza degli ordini del generale Armellini e alla mancanza di autorizzazione da parte di un qualsiasi organo responsabile e rappresentativo.
A dimostrazione dei fatti esposti dedussero prova per interrogatorio e per testimoni ed esibirono copie informi della sentenza pronunciata dal Tribunale Militare Territoriale di Roma nel processo contro Kappler e delle dichiarazioni rese in quel processo da alcuni testimoni, tra cui i convenuti. Produssero inoltre copie di taluni giornali, contenenti apprezzamenti ed informazioni varie.
Costituitosi il contraddittorio, il Cibei rinunciò all'istanza. Spiegarono intervento: Orfeo Ciambella, che aveva riportato ferite in occasione dell'attentato; Giorgio e Giorgina [Stafford], che avevano subito il saccheggio del loro appartamento e la seconda anche gravi danni alla persona per effetto dell'esplosione; Maria Benedetti ved. [Pula], madre di Italo e Spartaco [Pula], fucilati per rappresaglia; Alessandrina Tassinari, madre di Giorgio Ercolani, anch'esso fucilato per rappresaglia; Efrem [Giulianetti], ferito a seguito dell'attentato.
Fu chiamata in giudizio Carla Capponi, che aveva anche partecipato all'attentato.
I convenuti eccepirono l'improponibilità della domanda, sostenendo che l'attentato doveva qualificarsi azione di guerra compiuta da partigiani e, come tale, non era suscettibile di sindacato di merito da parte del giudice ordinario; che la sua eventuale illegittimità alla stregua del diritto internazionale non implicava una eguale illegittimità rispetto all'ordinamento giuridico interno; che il potere di comando dei generali Armellini e Bencivenga non si estendeva alla Giunta Militare e alle formazioni da questa dipendenti; che l'attentato doveva inquadrarsi nelle direttive impartite per radio dal capo del Governo legittimo maresciallo Badoglio; che, comunque, difettava qualsiasi rapporto di causalità tra il preteso fatto illecito e gli eventi dannosi, ponendosi il fatto del terzo (tedesco invasore) come causa della strage delle Cave ardeatine.
Successivamente intervennero in giudizio Adolfo Pisino, padre di Antonio Pisino, fucilato nella rappresaglia; nonché Egiziaca [Petrianni], vedova di Augusto Renzini, anch'egli fucilato, la quale dichiarò di agire, sia in proprio, sia quale esercente la patria potestà sulla figlia minore Anna Renzini.
Giorgio e Giorgina [Stafford] rinunciarono alla domanda.
Il tribunale, con sentenza 26 maggio-9 giugno 1950, dichiarò improponibile la domanda, sotto il profilo che l'attentato di via Rasella costituì un legittimo atto di guerra, come tale riferibile allo Stato ed insindacabile da parte dell'Autorità giudiziaria.
Proposero appello il Lidonnici, il Sansolini, il Ciambella e la [Petrianni], ma la Corte di Roma, con la sua pronuncia 14 gennaio-15 maggio 1954, lo rigettò.
Considerò, tra l'altro, la Corte, che l'attentato di via Rasella ebbe il carattere obiettivo di fatto di guerra, essendosi verificato durante l'occupazione militare della città di Roma ed essendosi risolto materialmente in un prevalente, se non esclusivo, danno per le forze armate germaniche, ed ebbe il carattere di atto di guerra sotto l'aspetto subiettivo, essendo stato ispirato alla finalità di recare offesa al nemico occupante. Da questa premessa la Corte trasse la conseguenza che la illiceità del fatto non poteva essere determinata con riferimento al principio generale del neminem laedere, né secondo i criteri della legge penale comune, né in relazione alle norme e agli usi di diritto internazionale.
L'attentato non poteva considerarsi illecito nemmeno rispetto alla legge italiana, la quale regola la materia, nell'esclusivo interesso dello Stato italiano, e non anche in suo danno. Ed è del resto conforme alla tradizione storica di tutti i paesi che l'atto di guerra, da chiunque attuato in favore della propria nazione, non è, di per sé e per il singolo, da considerarsi illecito, salvo che sia qualificato tale da una norma di diritto interno. Ora l'art. 35 del R. D. n. 1415 del 1938 e l'art. 175 del codice penale militare di guerra considerano lecito l'uso della violenza in guerra, purché sia contenuto nei limiti in cui è giustificato dalle necessità militari e non sia contrario all'onore militare, e proibiscono di usare violenza proditoria al nemico, o di usare mezzi, o modi di guerra vietati dalla legge, o dalle convenzioni internazionali, o comunque contrari all'onore militare. L'attentato in oggetto non poteva essere contrario a queste norme, perché gli autori furono riconosciuti meritevoli di decorazioni al valore militare. Ciò escludeva la possibilità di un sindacato giurisdizionale sulla necessità o utilità di esso e sulla conformità, o meno, agli ordini dei competenti comandi. Aggiunse la Corte che tutta la successiva legislazione ha qualificato come atti di guerra le operazioni compiute da patrioti per la necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti nel periodo dell'occupazione nemica ed ha autorizzato la concessione di ricompense al valor militare ai partigiani, agli appartenenti ai G.A.P. ed alle squadre cittadine indipendenti; ha, infine, attribuite le qualifiche di caduti di guerra, di mutilati ed invalidi di guerra, con i conseguenti benefici, a quelli di loro che fossero, rispettivamente, caduti o avessero riportato mutilazioni o infermità. In particolare la Corte rilevò che proprio ad alcuni degli appellati era stata riconosciuta la qualifica di partigiano combattente ed attribuita una decorazione al valor militare, con espresso riferimento all'episodio di via Rasella, o ad altre azioni compiute nel perimetro di Roma; mentre era stata concessa la pensione di guerra ai familiari delle vittime di Cave ardeatine. In tal modo lo Stato ha identificato le formazioni partigiane come propri organi, ha accettato gli atti di guerra da esse compiuti, ha assunto a suo carico le relative conseguenze.
In quanto atto di guerra, compiuto da assimilati ai militari, l'attentato deve riferirsi esclusivamente allo Stato, e quindi non può essere riferito a chi lo ordinò, lo diresse e lo eseguì.
Avverso questa sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, sulla base di tre mezzi di annullamento, il Sansolini, il Ciambella e la Benedetti, che hanno poi illustrato con memoria le loro censure.
Resistono gli intimati con controricorso e memoria.
Motivi della decisione: Con il primo mezzo di ricorso si censura la sentenza per violazione e falsa applicazione degli art. 170 e 171 codice penale militare di guerra, 66, 68 e 71 dell'allegato 2 al Servizio di guerra, approvato il 3 febbraio 1940, nonché per omessa motivazione sul punto decisivo che Roma era città aperta (art. 360, n. 5, codice di proc. civile). All'uopo si deduce che la Corte avrebbe dovuto risolvere la questione preliminare se Roma, all'epoca dell'attentato di via Rasella, fosse, o meno, città aperta. Dalla soluzione positiva di tale questione avrebbe dovuto trarre la conseguenza che in Roma era vietato qualsiasi atto di ostilità. Infatti si sarebbe dovuta applicare la sospensione d'armi o tregua, ovvero l'armistizio parziale, previsti dall'allegato 2 al Servizio di guerra sopra citato. Si soggiunge che l'art. 170 del codice penale militare di guerra punisce il comandante che commette atti di ostilità durante la sospensione d'armi o l'armistizio e l'art. 174 dello stesso codice punisce il comandante che ordina o autorizza l'uso di mezzi o modi di guerra vietati dalla legge o dalle convenzioni internazionali.
Con il secondo mezzo di ricorso si denuncia la violazione e la falsa applicazione degli art. 25, 26 e 27 del R. D. 8 luglio 1938 n. 1415, e 174 e 175 codice penale militare di guerra, per avere la Corte ritenuto che si trattasse di un atto legittimo di guerra senza considerare: a) che esso era stato vietato dalle autorità che rappresentavano in Roma il Governo legittimo; b) che fu compiuto da persone, le quali non avevano le caratteristiche necessarie per essere considerate legittimi belligeranti (uniforme o distintivo fisso comune a tutti e riconoscibile a distanza); c) che non rispondeva a necessità belliche; d) che fu compiuto, più che per arrecare danno al nemico, per sollevare la popolazione contro i tedeschi.
Infine, con il terzo mezzo di ricorso, si lamenta l'errata applicazione degli art. 2043 e 2049 codice civile, nonché l'insufficiente motivazione, ai sensi dell'art. 360, n. 5, codice di proc. civile, per avere la Corte escluso la sindacabilità dell'atto, in quanto riferibile alla pubblica Amministrazione. In contrario si deduce che, se è insindacabile la determinazione dell'Amministrazione di compiere un atto o un'opera, è sindacabile invece l'esecuzione dell'atto o dell'opera. Si aggiunge che la responsabilità degli autori materiali dell'atto sussiste, anche se questo sia riferibile alla pubblica Amministrazione.
Tale essendo l'oggetto delle censure, devono esaminarsi innanzi tutto le questioni prospettate con il secondo motivo, che hanno logicamente carattere preliminare.
Secondo la tesi degli attori, attuali ricorrenti, i convenuti, compiendo l'attentato alle forze tedesche in via Rasella, commisero un fatto illecito, e quindi sono obbligati a risarcire i danni che ne sono derivati direttamente alle persone che si trovavano sul luogo e che furono casualmente colpite dall'esplosione, e indirettamente ai congiunti delle vittime della feroce rappresaglia tedesca compiuta l'indomani alle Cave ardeatine. La tesi è stata disattesa per la considerazione che si trattò di un atto legittimo di guerra, come tale, riferibile allo Stato e non agli autori, e insindacabile dall'Autorità giudiziaria ordinaria. Il secondo mezzo di ricorso censura la detta qualificazione di atto legittimo di guerra, in sé e per sé considerato.
Il primo motivo di ricorso tende invece a dimostrare l'illegittimità dell'attentato come atto di guerra, in relazione alla situazione di città aperta di Roma. Esso prospetta quindi delle argomentazioni particolari rispetto a quelle di carattere generale sostenute con il secondo mezzo.
Procedendo all'esame di quest'ultimo mezzo, il Supremo collegio osserva che la qualificazione dell'attentato di via Rasella come atto legittimo di guerra non può essere compiuta alla stregua delle disposizioni degli art. 25 e 27 della legge di guerra (all. A al R. D. 8 luglio 1938, n. 1415), di cui si denuncia la violazione. Lo Stato italiano, nel definire con tali norme i legittimi belligeranti, ha inteso limitare i propri poteri nei confronti dei cittadini di altri Stati con i quali esso sia in guerra; ha stabilito cioè che le autorità italiane devono considerare legittimi belligeranti e trattare quindi come tali, secondo le norme internazionali di guerra, i sudditi nemici che si trovino nelle indicate condizioni. Tanto è vero che l'art. 29 della stessa legge considera come illegittimi belligeranti coloro che non si trovino nelle condizioni previste dagli art. 25 e 27 e li sottopone alle relative sanzioni per gli atti di ostilità da loro commessi.
Naturalmente, lo Stato italiano ha emanato queste disposizioni in esecuzione di accordi internazionali (Convenzione dell'Aja 18 ottobre 1907), al fine di ottenere che disposizioni analoghe venissero emanate da altri Stati, rivolte queste ai cittadini italiani, da considerare e da trattare come legittimi belligeranti. Ma ciò non importa che le dette norme della legge italiana possano essere applicate contro gli italiani. Poiché nella specie gli attentatori erano appunto tali e l'atto era diretto contro la Germania, in istato di guerra con l'Italia, la questione se gli autori dell'attentato fossero legittimi belligeranti si sarebbe potuta porre alla stregua delle leggi germaniche, nell'ipotesi in cui essi fossero stati catturati dalle forze nemiche, al fine di stabilire a quale trattamento avrebbero potuto essere sottoposti dalle autorità tedesche. E, se le leggi germaniche non fossero state conformi alle Convenzioni internazionali o non fossero state osservate, l'Italia avrebbe potuto lamentare la violazione degli obblighi internazionali e ricorrere alle relative sanzioni.
Trattandosi invece di qualificare l'atto nell'ambito dell'ordinamento italiano e nei confronti di altri cittadini italiani, che, pur non essendo le persone contro le quali l'attentato era diretto, hanno subito conseguenze pregiudizievoli da esso, l'indagine deve essere rivolta all'accertamento della natura obiettiva e subiettiva dell'atto, in relazione al sistema legislativo italiano.
Posto ciò e posto che l'attentato non fu ispirato da finalità personali, ma solo da quella di compiere un atto ostile verso le forze armate della Germania, che era in istato di guerra con l'Italia dal 13 ottobre 1943 e che aveva instaurato una vera e propria occupazione militare bellica di gran parte del territorio nazionale; posto che il governo legittimo italiano aveva incitato gli italiani delle zone soggette a quell'occupazione a ribellarsi all'occupante ed a compiere ogni possibile atto di sabotaggio e di ostilità, al fine di cooperare alla liberazione, per la quale combattevano, a fianco delle Nazioni Unite, le forze armate regolari, non sembra che possa seriamente dubitarsi che si trattasse di un atto di guerra.
Lo ha confermato nel modo più solenne la successiva legislazione, che — come hanno esattamente rilevato i giudici del merito — ha riconosciuto la qualità di patrioti combattenti ai componenti delle formazioni volontarie che avevano partecipato alle operazioni belliche (D. L. Lt. 5 aprile 1945, n. 158); ha qualificato azioni di guerra tutte le operazioni compiute da patrioti per le necessità di lotta contro i tedeschi e i fascisti nel periodo dell'occupazione nemica (D. L. Lt. 12 aprile 1945, n. 194); ha autorizzato la concessione di ricompense al valore militare ai partigiani, agli appartenenti al G.A.P. e alle squadre cittadine indipendenti, ed ha attribuito a quelli tra essi che caddero o riportarono mutilazioni o infermità, le qualifiche di caduti di guerra, di mutilati o invalidi di guerra, con tutti i benefici relativi (D. L. Lt. 21 agosto 1945, n. 518); ha considerato fatti di guerra, ai fini del risarcimento dei danni conseguenti, i fatti coordinati alla preparazione e alla esecuzione di operazioni belliche, oppure semplicemente occasionati da queste, con assoluta equiparazione delle formazioni volontarie alle forze regolari ([D. L. C.p.S.] 6 settembre 1946, n. 226).
Lo Stato quindi ha considerato i partigiani come legittimi belligeranti, al pari degli appartenenti alle forze armate regolari, previste dall'art. 26 della citata legge di guerra. Tale qualificazione avrebbe potuto essere negata dal nemico, per difetto dei requisiti formali atti ad identificare i combattenti stessi, ma non può essere posta in dubbio nell'ambito dell'ordinamento giuridico italiano, nei rapporti tra quei partigiani ed altri italiani.
Queste considerazioni dimostrano l'inconsistenza delle censure dei ricorrenti in ordine alla mancanza negli attentatori di segni distintivi di legittimi belligeranti.
Quanto alla dedotta non rispondenza dell'attentato alle necessità belliche e alla finalità di sollevare la popolazione, concomitante con quella di danneggiare il nemico, è sufficiente osservare — come hanno fatto i giudici del merito — che gli atti di guerra sono assolutamente discrezionali e perciò si sottraggono ad ogni valutazione da parte dell'Autorità giudiziaria.
Resta il rilievo che l'attentato sarebbe stato vietato dalle autorità che rappresentavano in Roma il governo legittimo: questa censura si collega con quella del primo motivo di ricorso attinente alla situazione di Roma come città aperta.
Non può disconoscersi che la Corte d'appello abbia omesso di considerare espressamente, come avevano fatto i giudici di primo grado, tale questione. Senonché l'omesso esame di questo punto non può importare l'annullamento della sentenza impugnata, data la mancanza di decisività del medesimo, data cioè l'impossibilità che l'indagine trascurata consentisse di addivenire ad una diversa decisione della causa.
Anche a questo proposito si deve preliminarmente osservare che l'eventuale illegittimità dell'attentato sotto il profilo internazionale non ne importerebbe necessariamente l'illegittimità secondo l'ordinamento interno. E nel sistema legislativo italiano quell'atto è stato considerato certamente legittimo, come risulta da tutta la legislazione citata, la quale si riferisce anche alla lotta per la liberazione di Roma, tanto che ha autorizzato la concessione di decorazioni al valor militare per azioni di partigiani eseguite nell'ambito della città, ed è confermata dalla recente L. 14 aprile 1957, n. 277, per la costituzione in Roma di un museo storico, a documentazione degli eventi nei quali si concretò e si svolse la lotta per la liberazione di Roma durante il periodo dall'8 settembre 1943, al 4 giugno 1944.
Deve aggiungersi poi che neanche dal punto di vista internazionale è contestabile la legittimità dell'attentato in oggetto.
In vero, la dichiarazione che Roma era città aperta fu fatta dal governo italiano prima dell'armistizio, e precisamente il 31 luglio 1943, agli anglo-americani e non fu mai accettata da costoro. Da questa mancata accettazione consegue che la dichiarazione suddetta non poteva far sorgere un obbligo internazionale del governo italiano verso gli anglo-americani.
Un'analoga dichiarazione non fu mai fatta invece nei riguardi della Germania, e non era neppure possibile per l'ovvia considerazione che la Germania aveva respinto la dichiarazione di guerra italiana, perché disconosceva al governo del Re la qualità di governo legittimo, considerando tale quello della Repubblica Sociale Italiana.
Codesto illegittimo governo, d'altro canto, non poteva rivolgere una richiesta di rispetto di Roma come città aperta se non agli anglo-americani, dato che considerava i tedeschi come propri alleati e che costoro esercitavano i poteri di occupazione su quella parte del territorio nazionale.
Senza dubbio, sia il governo legittimo, sia quello illegittimo, avevano interesse a risparmiare l'alma città da distruzioni e ad evitare quindi il pericolo di offese aeree da parte degli anglo-americani. Senonché nessuno dei due governi era in condizioni di assicurare che la città fosse effettivamente aperta, non quello legittimo, perché aveva perduto il controllo su di essa; non quello illegittimo, perché esercitava solo i limitati poteri consentitigli dalle Autorità tedesche.
In tale situazione, il rispetto di Roma era affidato, non già al vigore di un accordo, che non esisteva, ma alla saggezza delle potenze straniere belligeranti, di quella tedesca, perché non tenesse forze armate o apprestamenti militari nell'Urbe, in modo da escludere ogni giustificazione agli attacchi aerei nemici; di quelle anglo-americane, perché si astenessero dal compiere offese aeree, che non potevano in alcun modo essere considerate necessarie per la condotta della guerra e che comunque avrebbero cagionato un danno irreparabile al patrimonio spirituale di tutto il mondo civile.
Gli anglo-americani avevano indubbiamente interesse a che nella città di Roma non vi fossero forze ed obiettivi militari tedeschi, perché, altrimenti, sarebbero stati posti nella alternativa di rinunciare ad aggredirli, o di recare offesa all'Urbe. Ma essi non avevano interesse a che, trovandosi forze armate tedesche nella città, gli italiani le rispettassero. Al contrario, ogni atto di ostilità contro quelle forze costituiva partecipazione alla guerra a fianco delle Nazioni Unite, in attuazione della cobelligeranza italiana. Ogni attacco contro i tedeschi, in qualsiasi parte del territorio nazionale, rispondeva agli incitamenti impartiti dal governo legittimo e alle finalità politiche e militari da esso perseguite in unità d'intenti con le forze alleate e costituiva quindi un atto di guerra riferibile allo stesso governo. Quindi, se anche, per mera ipotesi di ragionamento, la dichiarazione del 31 luglio 1943 fosse stata accettata dalle Nazioni Unite, e fosse esistito così un accordo per considerare Roma come città aperta, l'atto in esame non sarebbe stato in contrasto con quell'accordo, perché la situazione politico-militare si era capovolta ed i tedeschi, contro i quali l'atto medesimo fu diretto, erano divenuti nemici nel contempo delle Nazioni unite e dell'Italia.
Nei riguardi della Germania, poi, si è già detto che non esisteva e non si sarebbe potuto neppure instaurare un accordo. Si sostiene dai ricorrenti che quella potenza aveva di fatto aderito a considerare Roma come città aperta, consentendo la nomina di un governatore di essa ed allontanando dall'Urbe le truppe stazionanti o in transito. Si soggiunge che il generale Chirieleyson ha deposto nel processo contro Kappler, celebratosi avanti al Tribunale Militare Territoriale di Roma, nella sua qualità di ex governatore della città, che in essa non si trovavano forze tedesche, eccetto quelle di polizia; che infine il generale Armellini, comandante delle forze militari clandestine di Roma, ed il generale Bencivenga, capo del Comitato di liberazione nazionale, hanno deposto nello stesso processo di aver ordinato di evitare gli attentati e la guerriglia.
È agevole replicare a tali deduzioni che il comportamento della Germania fu conseguente ad una sua unilaterale determinazione, ispirata a finalità di propaganda, e non ad accordi internazionali, tanto meno ad accordi con il governo legittimo italiano. La Germania voleva dimostrare agli italiani sottoposti alla sua occupazione che essa intendeva risparmiare Roma dalle offese aeree nemiche e che quindi faceva tutto il possibile per togliere ogni giustificazione a codeste eventuali offese. Agiva così d'intesa con il sedicente governo della Repubblica Sociale Italiana, verso il quale peraltro neppure si sentiva vincolata, tanto che deportò il generale Calvi di Bergolo, governatore di Roma, e mantenne delle forze armate nella città, sia pure in misura ridotta, come quelle di polizia militare, contro le quali fu compiuto l'attentato di via Rasella.
Che codesto comportamento, del tutto volontario e modificabile ad nutum, potesse vincolare il governo legittimo italiano, che dalla Germania non era neppure riconosciuto, non è davvero ipotizzabile.
La circostanza poi che i generali Armellini e Bencivenga avessero disposto di evitare attentati o atti di guerriglia nella città di Roma, dimostra solo che essi li ritenevano inopportuni, per i pericoli della reazione tedesca che avrebbero potuto provocare, non già che il governo legittimo si fosse impegnato verso la Germania ad impedire ogni atto di ostilità contro i tedeschi.
È da escludere quindi nel modo più assoluto che possa ravvisarsi una violazione di obblighi inerenti al rispetto di Roma come città aperta, data l'insussistenza degli obblighi stessi.
Ed è da escludere altresì con uguale certezza che le disposizioni date dai detti generali possano far considerare l'attentato come un atto illegittimo di guerra.
La eccezionalissima, dolorosa situazione in cui venne a trovarsi l'Italia dopo l'8 settembre 1943 non poteva consentire che l'attività militare delle forze partigiane si svolgesse sempre secondo piani organici e con una disciplina regolare. Essa era necessariamente rimessa anche all'iniziativa e al coraggio dei singoli gruppi, i quali, di volta in volta, secondo le circostanze, compivano quegli attacchi al nemico che ritenevano possibili ed opportuni. Trattavasi infatti di forze clandestine, operanti tra infinite difficoltà e con gravissimi rischi, stante l'enorme sproporzione di forze rispetto all'avversario. E la legge ha riconosciuto, non solo la lotta partigiana condotta da formazioni regolarmente organizzate, ma anche le azioni compiute da gruppi isolati.
In vero, l'art. 7 del ricordato D. L. Lt. 21 agosto 1945, n. 518, considera partigiani combattenti gli appartenenti, sia alle formazioni armate inquadrate dipendenti dal Comitato di Liberazione Nazionale, sia a quelle non inquadrate. Quindi, anche le squadre indipendenti sono state qualificate come organi combattenti dello Stato italiano. Nella specie, i giudici di merito hanno accertato che si trattava bensì di forze organizzate, ma non dipendenti dai detti generali, per modo che esse non erano tenute ad eseguire gli ordini da questi impartiti. E la sentenza 20 luglio 1948, resa dal Tribunale Militare Territoriale di Roma nel processo contro Kappler, invocata dai ricorrenti, ha qualificato come organo legittimo dello Stato italiano l'organizzazione militare della quale facevano parte gli attentatori. In conseguenza l'azione stessa non può non essere riferita allo Stato medesimo.
Dalle esposte considerazioni consegue l'infondatezza della censura di violazione degli art. 170 e 171 del codice penale militare di guerra e degli art. 66 e seguenti dell'allegato 2 al Servizio di guerra, i quali presuppongono la conclusione di una sospensione d'armi o tregua o armistizio. Consegue inoltre l'infondatezza della doglianza per la violazione degli art. 174 e 175 del detto codice, che vietano gli atti illeciti di guerra, e cioè compiuti con mezzi o modi di guerra vietati dalla legge e dalle Convenzioni internazionali o, comunque, contrari all'onore militare. In vero, le forze tedesche occupanti non potevano ignorare l'ostilità della maggioranza della popolazione italiana, date le direttive impartite dal governo legittimo, che era in istato di guerra con la Germania, e non potevano quindi non temere attacchi da parte delle formazioni partigiane, le quali dovevano necessariamente condurre la lotta con atti di sabotaggio e con attacchi improvvisi ed isolati, non esistendo un regolare fronte di guerra.
Del tutto inconsistente è infine il terzo mezzo di ricorso. Essendosi accertato che l'attentato in esame fu un atto legittimo di guerra, e, come tale riferibile allo Stato e non ai singoli autori di esso, nessun sindacato da parte dell'Autorità giudiziaria è ammissibile sull'atto medesimo. L'assoluta discrezionalità dell'attività bellica, ispirata a superiori ed inderogabili esigenze statuali, non consente alcun controllo da parte del giudice, all'infuori di quello che l'atto fosse effettivamente diretto a finalità belliche.
Il ricorso si rivela quindi sotto ogni aspetto infondato. La Corte non può neppure di sfuggita soffermarsi su valutazioni di ordine extragiuridico sul comportamento degli attentatori, a seguito della minaccia tedesca della rappresaglia, in effetti poi purtroppo eseguita, poiché tali valutazioni non rientrano nei compiti del giudice, in genere, e di quello di Cassazione, in ispecie.
Essa può e deve solo, ai fini della pronuncia sulle spese, tener conto dei motivi equitativi, che ne suggeriscono la compensazione. — Omissis.
La Resistenza accusata di genocidio. La Corte internazionale dell’Aia accoglie il ricorso del figlio di un milite della Repubblica sociale assassinato senza processo dai partigiani comunisti. Chiede giustizia per altri 400 caduti. Eugenio Di Rienzo, Venerdì 12/03/2010, su Il Giornale. La malinconica profezia espressa da Piero Buscaroli nel suo bel libro, Dalla parte dei vinti (Mondadori) secondo la quale la memoria degli sconfitti del 1945 sarebbe stata per sempre condannata all’oblio non si avvererà. Luis Moreno Ocampo, procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia ha accolto la domanda che chiede l’apertura di un’inchiesta per la morte di Lodovico Tiramani (milite scelto della Guardia nazionale repubblicana) e di altri quattrocento appartenenti alla Repubblica sociale, trucidati dalle bande partigiane. L’ipotesi di reato è genocidio. Il Tribunale dell’Aia ha risposto così al figlio di Tiramani, Giuseppe, che, attraverso la consulenza del suo legale Michele Morenghi, ha chiesto l’apertura del procedimento tramite una memoria dove si sostiene che: «Mio padre fu prelevato nei pressi di casa sua a Rustigazzo nel piacentino nel luglio del ’44 da un gruppo partigiano della brigata Stella Rossa, fu processato e condannato a morte senza un giudice, senza un comandante partigiano e senza una sentenza a verbale. Fu fucilato poche ore dopo nei pressi del Monte Moria. Mia madre lo trovò crivellato di colpi. Io non voglio vendette, ho già perdonato tutti coloro che uccisero mio padre, abitavano nel mio paese e li ho conosciuti personalmente dopo la guerra. Chiedo sia fatta giustizia per il suo caso e per tutti gli altri combattenti della Repubblica sociale uccisi in quegli anni nel piacentino». In questo modo, l’International Criminal Court, la cui competenza si estende a tutti crimini più gravi che riguardano la comunità internazionale, come il genocidio appunto, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra, potrebbe intervenire su una vicenda italiana che per tanti decenni è rimasta volutamente occultata dalla storiografia ufficiale ed è sopravvissuta solo grazie alla memoria dei sopravvissuti. Fino alla comparsa dei libri di Giampaolo Pansa (un grande giornalista che sa bene di storia), quanti italiani conoscevano le tristi vicende della caccia al repubblichino, che si aprì dopo il 25 aprile 1945 per protrarsi fino al 1946 e al 1947? Pochi, pochissimi. Soltanto i parenti delle vittime o quanti di noi avevano un amico, un conoscente che visse personalmente quella tragedia. A me capitò di avere questa triste «fortuna» e di apprendere dell’uccisione di un proprietario agricolo dell’Emilia, fucilato insieme al nipote dodicenne, con l’accusa di vaghe simpatie fasciste; della morte di un contadino del bellunese fatto fuori dopo aver rifiutato di vettovagliare una banda partigiana; e del linciaggio di alcuni giovanissimi «ragazzi di Salò» che ora giacciono interrati nel Campo X al cimitero di Musocco a Milano. Ma di tutto questo fino a pochissimo tempo fa neanche un rigo sui libri di storia e ancora oggi nessun accenno nei manuali di scuola che vanno in mano ai nostri giovani. Eppure autorevoli testimoni di quella guerra fratricida, che si trasformò in tiro al piccione, sapevano. Sapevano e tacquero. Benedetto Croce, ad esempio. Dalla lettura dei Taccuini di guerra del vecchio filosofo, editi solo nel 2004, emerge con forza il timore che la guerra partigiana possa trasformarsi in una rivoluzione «comunistico-socialista», che, in breve, avrebbe consegnato l’Italia a un altro totalitarismo, forse più spietato, come andava dimostrando con abbacinante chiarezza la «liberazione» di Polonia, Ungheria e degli altri paesi danubiani e balcanici, operata dalle truppe sovietiche, coadiuvate dalle formazioni partigiane comuniste. La rivelazione della strage di Katyn, avvenuta da parte dell’Armata Rossa, tra marzo e maggio del 1940, confermava in Croce questo timore, quando anche in Italia si era appreso dell’«eccidio fatto dai russi di migliaia di ufficiali polacchi, che erano loro prigionieri». La minaccia di una sovietizzazione imposta con la violenza, scriveva il filosofo, si avvicinava anche al nostro paese. Era già attiva nelle regioni orientali esposte alle violenze delle «bande di Tito». La si scorgeva serpeggiare nella gestione dell’epurazione antifascista delle strutture statali «maneggiata dai commissari comunisti» che tentavano di attuare «un’infiltrazione del comunismo», perpetrata «contro le garanzie statutarie, conto le disposizioni del codice, per modo che nessuno è più sicuro di non essere a capriccio fermato dalla polizia, messo in carcere, perquisito». Tutto questo avveniva, in ossequio alla «rivoluzione vagheggiata e sperata». E sempre in ossequio a quel progetto eversivo, le regioni settentrionali dell’Italia, controllate dagli elementi estremisti del Cnl, divenivano il teatro di stragi di massa contro fascisti, ma più spesso contro vittime del tutto innocenti. L’8 agosto 1945 la famiglia Croce riceveva la visita di un conoscente «che ci ha commossi col racconto del fratello incolpevole, non compromesso col fascismo, ucciso con molti altri a furia di popolo a Bologna». Nella stessa pagina del diario, si annotava: «In quella città gli uccisi sono stati due migliaia e mezzo, tra questi trecentocinquanta non identificati». Tra il vero antifascismo e resistenza si scavava, con questa testimonianza, un abisso profondo. Si alzava uno steccato, che soltanto la costruzione di una memoria contraffatta di quegli anni terribili ha potuto per molto tempo celare.
Ucciso dai partigiani, il figlio ricorre all’Aja. Lega: “Vicenda dimenticata, stop all’indottrinamento della sinistra”. Piacenza24.eu il 14 agosto 2019. “Stop all’indottrinamento culturale della sinistra. Piena solidarietà a Lodovico Tiramani e a tutte le vittime dimenticate dalla storiografia ufficiale». È l’input lanciato dalla segreteria provinciale della Lega Nord, che riprende un caso di qualche anno fa “occultato dai mezzi d’informazione, nonché emblema dell’attuale dittatura ideologica” relativo al ricorso alla Corte internazionale dell’Aja che il piacentino Giuseppe Tiramani, figlio di un milite della Repubblica sociale, ha presentato per l’assassinio senza processo compiuto dai partigiani comunisti contro suo padre. “Non se n’è parlato abbastanza, ma è giusto riportare l’attenzione su questo caso significativo – esordisce il Carroccio – tempo fa, Luis Moreno Ocampo, l’allora procuratore capo della Corte penale internazionale dell’Aia, accolse la domanda che chiedeva l’apertura di un’inchiesta per la morte di Lodovico Tiramani, milite scelto della Guardia nazionale repubblicana, e di altri quattrocento appartenenti alla Repubblica sociale, trucidati dalle bande partigiane. L’ipotesi di reato era genocidio. Secondo la ricostruzione di Giuseppe, il padre fu prelevato nei pressi di casa sua a Rustigazzo nel luglio del ’44 da un gruppo della brigata Stella Rossa, fu processato e condannato a morte senza un giudice, senza un comandante partigiano e senza una sentenza a verbale. Fu fucilato poche ore dopo nei pressi del Monte Moria e ritrovato crivellato di colpi. Oltre a testimoniare il nostro appoggio alla vittima di questo terribile avvenimento, chiediamo di riportare alla luce la questione nel nome della giustizia”. “Stiamo assistendo all’affermazione di una nuova forma di fascismo – prosegue la Lega Nord – che vuole omologare il dibattito, unificare le opinioni e nascondere le nefandezze di certe componenti politiche. Il comunismo, durante la Guerra di Liberazione, ha compiuto atti inammissibili che devono essere ricordati e puniti. Il primo passo per farlo, chiaramente, sarebbe quello di ammettere una visione più oggettiva – e non condizionata a priori – anche sui banchi scolastici, dando spazio a una serie di opere scritte. Per esempio, affrontando il saggio storico “Il sangue dei vinti” di Giampaolo Pansa, che racconta le falsità della Resistenza, gli orrori perpetrati dai partigiani, le esecuzioni commesse dopo il 25 aprile 1945 a Liberazione ormai compiuta, verso fascisti e presunti tali o antifascisti non comunisti”.
Esecuzioni, torture, stupri Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega. Giampaolo Pansa, Domenica 07/10/2012 su Il Giornale. C’è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro. Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l'altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile. Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo. A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d'ombra, eccessi, aberrazioni». Un'eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L'opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un'operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo. Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti. Ancora oggi, nel 2012, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti e stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c'erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della liberta. Ma si e trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano. Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell'Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica. Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell'opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l'obiettivo di ritornare a un'esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra. Ma le élite si chiedevano anche dell'altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell'Italia appena liberata. Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano? Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell'area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull'insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare. A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell'addestramento. Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic Trotsky, il capo bolscevico diventato nemico di Stalin. In realta era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti. L'operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell'Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica. Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrin, succube dei comunisti, dichiaro fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiuto di firmare l'accusa assurda che gli veniva rivolta: l'aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l'artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provoco una totale disillusione rispetto al comunismo e all'Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Poi infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie». Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile. C'è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell'introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull'esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un'altra, la loro.
FEMMINICIDI PARTIGIANI: ORRORI ROSSI IN TEMPO DI PACE. OCCULTATI E IMPUNITI STUPRI E MASSACRI. DOPO IL 25 APRILE ’45 E LA LIBERAZIONE D’ITALIA. ABUSI E MATTANZE DI DONNE E BAMBINE. NEL LIBRO ”IL SANGUE DEI VINTI” DI PANSA: MAMMA VIOLENTATA DAVANTI AI FIGLI E POI SEPOLTA VIVA IN GIARDINO. Fabio Giuseppe e Carlo Carisio il 24 aprile 2019 su Gospa News. Il femminicidio è una grave piaga della società contemporanea, epifenomeno di un retaggio culturale che nei secoli legittimò gli abusi maschilisti ma anche, o forse soprattutto, di una generale inaudita recrudescenza di belluina violenza sociale che miete vittime tra genitori anziani come tra bambini in culla. In Parlamento si sta cercando di dare una risposta legislativa al fenomeno con la nuova legge sul Codice Rosso in difesa delle donne che, però, come la precedente normativa sullo stalking, rischia di rivelarsi solo un vacuo tentativo di smorzare gli effetti, a volte davvero imprevedibili, più che una reale soluzione per affrontare le vere cause. Se diamo uno sguardo alla nostra storia, inoltre, scopriamo purtroppo che il femminicidio è antico quanto la libertà d’Italia.
VIOLENTATE ANCHE LE VERGINI COME AI TEMPI DI NERONE. Tutti oggi si scandalizzano per episodi che balzano sulle prime pagine, a volte senza nemmeno conoscere il vortice di tensioni e violenze psicofisiche reciproche che ha portato ad un aggressione o peggio ad un omicidio, ma pochi s’indignano per le stragi di donne civili compiute dopo il 25 aprile 1945 dai partigiani liberatori e rimaste quasi tutte senza giustizia ed occultate nell’oblio storico: una delle rarissime lapidi in memoria di una vittima, quella per la 13enne Giuseppina Ghersi di Savona, è stata vandalizzata di recente da un vindice odio mai sopito che nessuno persegue né punisce come meriterebbe. Ma di casi simili al suo ce ne sono decine, centinaia… Secondo lo storico e giornalista Gian Paolo Pansa furono 2.365 le vittime. Si tratta di uno dei femminicidi più vergognosi d’Italia: un ricordo che, certamente, crea un po’ d’imbarazzo tra le stesse femministe, nella maggior parte dei casi di vocazione comunista e quindi magari figlie, sorelle, nipoti di coloro che quei crimini li perpetrarono con efferatezza: aggiungendo alla sanguinaria violenza omicida anche la sevizia e l’onta eterna dello stupro. Come ai tempi di Nerone le vergini cristiane venivano deflorate dai gladiatori prima di essere uccise, come nella ignominiosa guerra di Bosnia le donne furono selvaggiamente violentate per giorni prima di essere sgozzate (o costrette a partorire il figlio dello stupro), anche nell’Italia liberata avvennero simili scempi. Con alcune sostanziali differenze: ai tempi di Roma vigeva una tirannide, in Bosnia c’era una cruenta guerra etnica, nel nostro paese, invece, si era in tempo di pace: il dittatore, il duce Benito Mussolini era infatti stato giustiziato il 28 aprile 1945, le forze militari fasciste si erano arrese, quelle tedesche si erano ritirate. L’Italia era stata liberata dall’occupazione il 25 aprile 1945. Ma proprio il mese di maggio fu uno sei più sanguinari e ferali tanto che il 7 maggio, ricorre l’anniversario della morte di ben quattro donne trucidate dagli orrori rossi in tempo di pace. La memoria ritorna alla provincia di Cuneo, seguendo la china dei racconti di un giornalista che da bambino andava ad assistere ai processi ai “neri” per vedere i “cattivi” puniti; uno storico che solo dopo aver scritto tanto sulla Resistenza e sui partigiani, ha narrato il suo viaggio nella Seconda Guerra mondiale attraverso il libro di alto valore storiografico “Il sangue dei Vinti” di Gian Paolo Pansa. Molteplici aneddoti, che giungono quindi da un ricercatore col cuore partigiano, raccontano di semplici civili, rapiti in casa all’improvviso da squadriglie di giustizieri improvvisati, a volte seviziati, poi uccisi; e donne con la sola colpa di presunti e mai provati collaborazionismi: bastava l’odore del sospetto a sancire la morte che giungeva persino benedetta quando era immediata. Ora alle vittime di questo immane femminicidio nascosto dalla storia vogliamo rendere un poco giustizia ricordando il loro martirio. A volte anche in nome di Gesù Cristo dinnanzi ai quei guerriglieri della Resistenza in larga parte atei e capaci di scegliersi Satana come nome di battaglia...
MICHELINA, 12 GIORNI DI VIOLENZE FEROCI. Non fu immediata per Francesca G., 42 anni, e sua figlia Michelina di 20, di Borgo San Dalmazzo, in quella provincia Granda di Cuneo dove la guerriglia tra partigiani e fascisti-tedeschi fu asperrima come in tutte le zone prealpine. Furono prelevate di casa il 29 aprile insieme al marito Giuseppe G. A difenderli non bastò nemmeno la circostanza che loro figlio Biagio morì fucilato dalle Brigate nere in quanto… partigiano! Michelina faceva la dattilografa saltuaria per guadagnare qualche soldo nei tempi duri della guerra, la sua colpa fu farlo per un capitano della Polizia militare della Littorio. Il 29 aprile i carnefici entrarono nella loro casa, portarono fuori il padre e la madre insieme a lei: il genitore fu subito giustiziato, le due donne furono rapate a zero e poi riportate in casa «per essere violentate a turno da una banda partigiana. Questa tortura andò avanti per qualche giorno» scrive Pansa. Il 7 maggio fu uccisa la mamma, l’11 toccò a Michelina. Solo Dio sa quante volte quella giovane invocò la morte in quei 12 giorni…Lo stesso giorno in cui moriva Francesca, a Vercelli si consumava una delle più cruente stragi rosse, di cui si trova notizia su numerosi giornali locali. I giustizieri entrarono in una casa del rione Isola e, per futili motivi, freddarono Luigi Bonzanini, insieme alle sue nipoti di 16 e 21 anni, Elsa e Laura Scalfi, inerme e innocenti sorelle inseguite e uccise sul ballatoio. La vicenda mi fu raccontata direttamente dalla superstite dell’eccidio (vedi pdf in fondo all’articolo). Per non lasciare testimoni gli assassini tornarono poi in casa per eliminare anche la suocera del Bonzanini, Luigia Meroni, paralizzata a letto. I corpi furono buttati nel fiume Sesia. Fu uno dei pochi massacri ad avere parziale giustizia perché l’efferatezza dei partigiani fu tale che i mattatori di quell’eccidio, Felice Starda ed un suo complice, furono misteriosamente uccisi giorni dopo, si sospetta da loro stessi compagni: ma il nome di Starda fu inspiegabilmente iscritto tra le vittime per la Liberazione nella lapide del cimitero di Billiemme e la moglie ricevette l’indennizzo riservato ai caduti per la patria…
IL CADAVERE DELL’ATTRICE MILANESE. Al fine di evidenziare gli assurdi femminicidi dei liberatori rimasti senza giustizia e persino dimenticati dalla storia, non racconterò volutamente di tutte quelle ausiliarie giustiziate, per non fare confusione tra le donne combattenti e quelle civili. Ed ovviamente tacerò dei crimini avvenuti in tempo di guerra, prima del 25 aprile, sebbene quelli fascisti siano stati ampiamente propagandati ad infamia eterna e quelli partigiani passati sotto silenzio. Tra le vittime ce ne fu anche una famosa: l’attrice milanese Luisa Ferida, 31 anni, fu assassinata insieme al collega Osvaldo Valenti di 39, all’alba del 30 aprile in via Poliziano, giustiziata per accuse mai provate. Per una donna, nell’Italia liberata, era esiziale anche solo aver fatto la segretaria di redazione in un giornale, se era quello sbagliato. Pia Scimonelli aveva 36 anni, e lavorava per Repubblica Fascista: «moglie di un ufficiale disperso in guerra nell’Africa orientale, era rimpatriata in Italia dall’Eritrea con la nave Vulcania, insieme ai suoi tre bambini. Aveva bisogno di lavorare per mantenerli ed era riuscita a trovare quel posto nel giornale…» precisa Pansa. Fuggì con due colleghi del giornale, trovò rifugio in un alloggio poi perquisito dai partigiani. Qualche giorno dopo di loro non si seppe più nulla: i loro tre cadaveri furono riconosciuti all’obitorio di via Ponzio.
GIUSTIZIATA SEBBENE INCINTA DI 5 MESI. Nessuna pietà nemmeno davanti ad una donna in gravidanza. Accadde il 27 aprile a Cigliano quando i partigiani fecero capitolare un gruppo di fascisti che, dopo aver tentato una breve resistenza, si arrese. Tra loro c’erano due giovani donne che si erano recate a trovare i mariti ufficiali. Una delle due, Carla Paolucci, era incinta di cinque mesi e lo disse ai suoi giustizieri improvvisati. Ma questo non bastò a salvarla. «Si poteva essere giustizia anche per colpe da poco o inesistenti – evidenzia Pansa – Cito un esempio solo: quello di un gruppo di donne che, per campare, lavorava alle mense tedesche di via Verdi (Torino), cuoche, cameriere, sguattere. I partigiani della Sap le raparono a zero e le rilasciarono. Il giorno successivo furono trovate uccise al Rondò della Forca». Inevitabile quindi la morte per le parenti dei presunti collaborazionisti. Forse per non lasciare testimoni in cerca di giustizia. E’ il caso di Luisa, figlia di un albergatore di Bra il cui hotel, il rinomato Gambero d’oro, fu requisito dai tedeschi, non si sa se con il consenso o meno del titolare (e se avesse espresso dissenso che fine avrebbe fatto?). Fatto sta che «il 26 aprile i partigiani lo arrestarono, insieme alla figlia adottiva, Luisa di 19 anni. Fonti fasciste sostengono che la ragazza fu violentata e poi uccisa con il padre e gli altri alla Zizzola».
GIUSEPPINA, VIOLENTATA E UCCISA A 13 ANNI. Ma c’è una storia che fa rabbrividire. «A Savona, la fine della guerra civile vide esplodere subito un’ottusa barbarie. La mattina del 25 aprile una ragazzina di 13 anni, Giuseppina Ghersi, venne sequestrata in viale Dante Alighieri e scomparve. Apparteneva a una famiglia agiata, commercianti in ortofrutticoli». Non erano nemmeno iscritti al Partito Fascista Repubblicano, ma aveva un parente iscritto cui avrebbe riferito “qualcosa che non doveva vedere”, secondo Pansa, secondo altre fonti in qualità di allieva delle magistrali Rossella era stata premiata per un concorso scolastico direttamente da Mussolini. «I rapitori di Giuseppina decisero subito che lei aveva fatto la spia per i fascisti o per i tedeschi. Le tagliarono i capelli a zero. Le cosparsero i capelli di vernice rossa» si narra nel libro. La condussero in una scuola media di Legino (Savona) adibita a campo di concentramento: «Qui la pestarono e la violentarono. Un parente che era riuscita a rintracciarla a Legino la trovò ridotta allo stremo». Aveva solo tredici anni, tredici! Era in un campo di prigionia dove, ammesso e non concesso che fosse una prigioniera di guerra, in qualche modo avrebbe dovuto essere difesa dalla Convenzione di Ginevra del 1929. Dopo essere stata picchiata e violentata non sfuggì all’uccisione che forse giunse a toglierle dal destino una vita nel ricordo degli orrori. Dei tanti parlamentari uomini e soprattutto donne che si agitano per i diritti dell’uomo a Guantamano non rammento nessuno che abbia mai riaperto la storia della piccola Giuseppina sebbene vi sia una denuncia depositata alla Questura di Savona dal 1949…
AD ALASSIO OCCULTAMENTO DI UNA STRAGE DI DONNE. Vicino ad Alassio i crimini senza senso si perpetrarono fino al 29 maggio. A Stella in località San Martino, furono giustiziate tre donne non più giovani: di loro si conoscono solo nomi ed età, nulla più. D’altronde molte vittime furono tumulate nelle fosse comuni addirittura camuffate. E’ il caso di altre liguri, Maria Naselli, 54 anni, della figlia Anna Maria di 22, e della domestica Elisa Merlo di 35. Furono arrestate a Legino con il capofamiglia Domingo Biamonti di 61 anni, capitano della Croce Rossa, reo di avere un figlio tenente nella San Marco. Furono giustiziati a colpi di mitra al cimitero di Zinola e tumulati in un’unica fossa con una finta lapide: “Qui riposa la salma di Luigi Toso, di anni 84. La famiglia pose”. Un occultamento che prova la consapevolezza dei carnefici di compiere un gesto violento ed illecito, scoperto 4 anni dopo per il senso di colpa dei becchini.
Sterminate anche la moglie e le tre figlie poco più che ventenni di un benestante agricoltore di Lavagnola (Savona). Giuseppina Turchi, la maggiore delle ragazze, pare che fosse legata ad un ufficiale della San Marco. «E come accadeva a molte donne, in quei giorni, la si accusava di aver fatto la spia» nota Pansa. Per questo era stata rapata a zero e poi rimandata a casa. Ma ciò non placò la sete di sangue e vendetta: nella notte tra il 13 ed il 14 maggio, una squadra di armati irruppe nella cascina della famiglia Turchi e uccise tutti (la più giovane morì dissanguata in un bosco), persino il cane.
NELL’ECCIDIO DI SCHIO PER… MOROSITA’. Nel mistero morì Clotilde Biestra, 45 anni, di Loano: imprigionata dai partigiani e scomparsa nel nulla in un giorno imprecisato del maggio 1945. Il motivo? Aveva una nipote ausiliaria che ebbe fortuna di scamparla, nei giorni successivi alla Liberazione, ma fu poi freddata da un killer il 15 gennaio 1946: forse avrebbe potuto testimoniare contro chi aveva deciso l’esecuzione della zia? Come si è potuto leggere si è trattato di donne inermi, civili, senza implicazioni dirette con una militanza di guerra: uccise perché madri, mogli, sorelle, zie. Nella sola Genova furono 71 le donne uccise tra i 456 civili. Ci furono 15 femmine anche tra le 53 vittime dell’eccidio di Schio (Vicenza) del luglio 1945. Fra i giustiziati anche una casalinga di 61 anni, Elisa Stella, vittima di una vicenda assurda – narra sempre Pansa che fa riferimento anche al libro “L’eccidio di Schio. Luglio 1945: una strage inutile” – Aveva affittato un alloggio a un tizio che, dopo un po’, si era rifiutato di pagarle l’affitto. Alle proteste della padrona di casa l’inquilino moroso, nel frattempo diventato partigiano, pensò bene di denunciarla come pericolosa fascista. La donna fu arrestata, rinchiusa nel carcere di via Baratto e qui finì nel mucchio dei trucidati il 6 luglio».
STUPRATA IN CASA DAVANTI AI TRE BAMBINI E SEPOLTA VIVA. Tra tutte forse la più “colpevole” fu una infermiera di Conselice, Anselma G. di 25 anni. Rea di essere fidanzata con un militare fascista e di aver curato soldati tedeschi. Fu stuprata e poi uccisa con un’iniezione di veleno, forse per una cinica legge del contrappasso… Nel triangolo rosso, nella provincia di Bologna comunista furono ben 42 le vittime del femminicidio tra i 334 civili. Stragi di donne non di rado compiute per «antipatie famigliari, contrasti sul lavoro, ruggini antiche. E anche per faccende del tutto private come storie d’amore finite male o questioni di gelosia» si scrive ne “Il sangue dei vinti” evocando quelle ragioni di “femminicidi” che ai nostri giorni suscitano le reazioni indignate di politici e opinione pubblica ma che allora furono passate sotto silenzio e ancora oggi sono relegate nell’oblio. Tra di loro ci fu anche Ida, 20 anni, sposata e madre di un bambino: strangolata col fino telefonico insieme ai suoi sei fratelli, tutti colpevoli perché due di loro avevano la tessera del Pfr, e gettata in una fossa comune con altre dieci vittime. Nel Modenese, a Liberazione ormai conclamata, non fu da meno il trattamento riservato al gentil sesso che si ritrovò a pagare una doppia empietà per la sua natura: alla condanna a morte si aggiunse infatti l’empietà dello stupro. Pansa narra di omicidi «che qui non possiamo ricordare neppure in parte. Tutti o quasi senza una parvenza di processo. E spesso preceduti da efferatezze barbariche, specialmente nei confronti delle donne catturate». «Rosalia P., 32 anni, segretaria del fascio di Medolla, il 27 aprile fu presa in casa, violentata davanti al marito e ai tre bambini…», fu poi obbligata a scavarsi la fossa in giardino e «sepolta viva». «Il 2 maggio a Cavezzo, madre e figlia, Bianca e Paola C., vennero seviziate a lungo, sino alla morte. Poco tempo fece la stessa fine un’insegnante cinquantenne che stava cercando notizie sulla scomparsa delle sue amiche di Cavezzo». Come detto in questa narrazione ho volutamente espunto le storie di coloro che, per citare un paragrafo del libro, seppero “Morire da uomini” avendo militato e creduto nel fascismo. Tra loro ci fu anche un’insegnante, sospettata di essere ausiliaria ma di certo terziaria francescana, che lasciò parole toccanti. Angela Maria Tam annunciò così la sua morte in una lettera ad un sacerdote: “Durante tutto il viaggio da Sondrio a Buglio ho cantato le canzoni della Vergine. Ho passato in prigione ore di raccoglimento e di vicinanza a Dio. Viva l’Italia! Gesù la benedica e la riconduca all’amore e all’unità per il nostro sacrificio. Così sia!”». Per molte ci fu l’onta dello stupro che prima avevano già conosciuto anche le partigiane o staffette catturate dai fascisti. Con macroscopica differenza: per 90 di esse, ausiliarie della Saf, la morte, in molti casi preceduta da inaudita violenza, giunse dopo il 25 aprile, in tempo di pace, ad opera di quei partigiani che liberarono l’Italia proprio dalle violenze e dai soprusi del fascismo e dell’occupazione nazista. Una mobilitazione contro il femminicidio dovrebbe quindi cominciare dal passato, riconoscendo le vittime inermi di una vindice carneficina ideologica che pagarono doppio… Solo perché erano donne. Fabio Giuseppe e Carlo Carisio
STORIA. 25 aprile, il monopolio della Resistenza fa male alla memoria. Alberto Leoni il 22.04.2018 su Il Sussidiario. 25 aprile: una festa non più compresa, ormai subìta, da molti travisata. E forse i giovani neppure sanno cos’è. Ma cosa è stata la quinta guerra di indipendenza? 25 aprile. Una festa non più compresa, subìta a cuor leggero perché è un giorno di ferie, si dorme e chi è cattolico non va nemmeno a messa. Alcuni, pochi, si raduneranno per manifestazioni locali. I soliti vecchietti dell’Anpi, bandiere, sindaci con fascia tricolore, qualche ragazzino in corteo “perché ci sono i giovani”, qualche discorso altisonante poi tutti a casa. Questo è lo squallido esito finale della gestione della Resistenza di cui si è impadronita la sinistra per settant’anni. Non è chi non veda che, della Resistenza e dei partigiani, non frega più niente a nessuno e, va detto per onestà, la colpa non è soltanto dell’Anpi o del Partito comunista italiano (Pci) e dei sempre più pallidi epigoni e mutazioni di quest’ultimo. A fronte di studi complessi e coraggiosi, fondamentali da un punto di vista storiografico ma non letti dal grande pubblico (si prenda ad esempio Una guerra civile: saggio storico sulla moralità della resistenza di Claudio Pavone, Bollati Boringhieri 1991) sta il ben più ampio successo di pubblico delle opere di Gianpaolo Pansa che ha rievocato i crimini contro i fascisti commessi nel 1945. L’Anpi ha sempre tacciato lo storico di Casale Monferrato di denigrare la Resistenza mentre Pansa, uomo di sinistra, ha scritto semplicemente quanto è avvenuto e non è mai stato smentito. Il difetto di queste opere è, caso mai, un altro: essersi concentrato sui crimini e non aver raccontato quella che fu l’epopea resistenziale. Inoltre il successo continuo di queste opere sta a significare che c’è uno strato assai profondo di italiani che non ha mai condiviso il valore della Resistenza e, prima di condannare questi, c’è da chiedersi il perché di tale atteggiamento. Forse perché centinaia di migliaia di giovani aderirono alla Repubblica Sociale con piena coscienza e deliberato consenso? E la Repubblica è stata anche la loro casa comune? Forse no e quegli uomini e donne e i loro figli si sono sentiti esiliati in casa propria. Se la Grande Guerra fu definita “la Quarta guerra d’indipendenza”, la Resistenza fu la quinta, la più complessa e sanguinosa. Ma della Resistenza e di quegli eroi, perché tali furono, non si parla più ed è davvero un sacrilegio: perché chi conosce quelle storie e quei volti se li rivedrà sempre davanti agli occhi, a chiederci cosa abbiamo fatto del loro sacrificio. E va detto, a merito dell’Anpi, che sul sito internet dell’associazione è presente una mole enorme di informazioni, molto ben strutturata per chiunque voglia approfondire il tema. Da dove si può cominciare a far conoscere l’aspetto positivo e commovente della Resistenza? Per chi scrive tutto iniziò con la visione del film Il partigiano Johnny di Guido Chiesa, utile per introdurre alla conoscenza dell’opera di Beppe Fenoglio, forse il più grande romanziere italiano del dopoguerra. Italo Calvino, in una memorabile presentazione del suo Il sentiero dei nidi di ragno fece, in realtà l’esaltazione di Una questione privata, opera pubblicata poco dopo la precoce morte di Fenoglio: “il romanzo che tutti avevamo sognato … c’è la Resistenza proprio come era, di dentro e di fuori, vera come mai era stata scritta, serbata per tanti anni limpidamente nella memoria fedele, e con tutti i valori morali, tanto più forti quanto più impliciti, e la commozione, e la furia”. E ancora di Italo Calvino, partigiano in Liguria egli stesso, è la poesia che più di tutte rievoca quell’epopea: “Oltre il ponte”, di cui si cita la strofa più nota: “Avevamo vent’anni e oltre il ponte/ oltre il ponte ch’è in mano nemica/ vedevam l’altra riva, la vita/ tutto il bene del mondo oltre il ponte./ Tutto il male avevamo di fronte/ tutto il bene avevamo nel cuore/ a vent’anni la vita è oltre il ponte/ oltre il fuoco comincia l’amore”. Letteratura? Retorica? In realtà Calvino ricalca perfettamente la spinta ideale di tanti uomini e ragazzi di quegli anni e la riprova è un episodio che riguarda l’inizio dell’attività partigiana dell’architetto Filippo Beltrami, caduto in combattimento a Megolo, in Val Toce, nel febbraio del 1944. A metà ottobre 1943 Beltrami aveva deciso di andare sulle montagne per combattere contro i tedeschi e incontrò l’amico avvocato Marco Macchioni. Salutandosi da lontano i due futuri partigiani cominciarono a recitare i famosi decasillabi della strofa finale di “Marzo 1821” di Alessandro Manzoni: “Oh giornate del nostro riscatto!/ Oh dolente per sempre colui/ che da lunge, dal labbro d’altrui/ come un uomo straniero le udrà!/ Che a suoi figli narrandole un giorno/ dovrà dir sospirando “io non c’era”/ che la santa vittrice bandiera/ salutata quel dì non avrà”. Era la tradizione risorgimentale di lotta contro lo straniero che ritornava prepotente alla superficie dopo una guerra scatenata da Mussolini contro la volontà della nazione in nome di un miope calcolo politico e dopo una serie di errori catastrofici, dalla guerra d’Etiopia al Patto d’Acciaio. Oggi può far comodo a una vulgata moderata ritenere che nella Resistenza ci fossero solo ladri, grassatori e assassini e che “gli italiani corrono sempre in aiuto del vincitore” (Ennio Flaiano). Ma il sottotenente del genio Ettore Rosso, che si fece esplodere con un carico di mine insieme all’avanguardia di una divisione panzer a Monterosi, alle quattro di notte del 9 settembre 1943, non lo fece per vincere una guerra perduta e non salì sul carro del vincitore. E con lui tantissimi altri militari italiani che, pur non volendo attaccare i tedeschi, alleati fino al giorno prima, furono moralmente costretti a farlo per resistere e non essere fatti prigionieri. Si può cominciare da quel settembre a dire che la prima Resistenza fu dei militari e non certo dei politici. In un mese di combattimenti più di 20mila militari italiani furono uccisi dai tedeschi. Chi scrive ha esaminato tutte le motivazioni delle medaglie d’oro al valor militare concesse a caduti della Resistenza italiana: si tratta di 587 nomi di uomini e donne, volti e storie difficilmente dimenticabili. Ebbene, di questi, 79 riguardano militari italiani uccisi tra il settembre e l’ottobre 1943. Da questo dato possiamo partire per fare un’importante puntualizzazione: la Resistenza non fu costituita solo da coloro che combatterono dietro le linee nemiche nel territorio italiano occupato dai nazifascisti. Questa fu solo una delle componenti anche se fu la maggioritaria e più importante. Pochi ricordano le altre tre:
1. le forze armate italiane sia dopo l’armistizio del 1943 sia nel periodo successivo, che va dal dicembre 1943 fino alla fine della guerra (67 medaglie d’oro al valor militare e 3mila caduti);
2. i 600mila militari deportati in Germania, che si rifiutarono di entrare nell’esercito di Salò pur patendo fame e malattie, di cui morirono in 40mila: fu grazie a loro che la Germania non potè costituire altre divisioni da mettere in campo per tentare di cambiare il corso della guerra;
3. i militari italiani all’estero, in Grecia e Jugoslavia (27 Movm e 10mila caduti).
Quanto a coloro che fecero la guerra partigiana bisogna definire, sempre in estrema sintesi, le motivazioni, il numero e la composizione politica. Come precisato in Il Paradiso devastato: storia militare della Campagna d’Italia (Ares 2012) la scelta fu tra il permettere che la Germania nazista depredasse il nostro paese di ogni risorsa disponibile per continuare la guerra o opporsi ad essa. Quanto alle motivazioni, è giusto far parlare Giuseppe Fenoglio in Il partigiano Johnny: “E nel momento in cui partì si sentì investito — nor death itself would have been divestiture — in nome dell’autentico popolo d’Italia, a opporsi in ogni modo al fascismo, a giudicare ed eseguire, a decidere militarmente e civilmente. Era inebriante tanta somma di potere, ma infinitamente più inebriante la coscienza dell’uso legittimo che ne avrebbe fatto. Ed anche fisicamente non era mai stato così uomo, piegava erculeo il vento e la terra». Quanto alla vita quotidiana del partigiano, arroccato su montagne prive di risorse, sarebbe bene ricordare che, specie d’inverno, fame, freddo e malattie rendevano tale vita maledettamente scomoda.
La guerra partigiana in Italia iniziò per l’iniziativa di singoli, come di scampati a un diluvio universale e non meraviglia che, nel novembre del 1943, i partigiani fossero solo 3.800 di cui 1.650 nel Piemonte legittimista e di forti tradizioni militari. Gli autonomi, apolitici, militari per cultura erano la maggioranza; iniziavano a organizzarsi i garibaldini, comunisti, fortemente indottrinati, combattivi opportune et inopportune e quelli di Giustizia e Libertà, mazziniani per formazione, rigorosi, spietati verso il nemico e verso loro stessi. I cattolici furono sempre minoritari ma saldamente inseriti nel territorio e capaci di un ottimo rapporto con la popolazione.
Nel luglio del 1944, dopo lo sfondamento della Linea Gustav e la liberazione dell’Italia centrale da parte delle forze alleate, Ferruccio Parri calcolava 52mila combattenti di cui 25mila nelle formazioni comuniste, 15mila giellisti, 10mila autonomi e 2mila socialisti. Si nota qui il formidabile sviluppo della componente comunista con uno sforzo organizzativo encomiabile anche se, da parte di molti, vi furono critiche per l’abitudine di gonfiare numericamente gli effettivi a scapito della qualità, specie in stagioni e territori dove le risorse alimentari erano insufficienti a nutrire una simile massa di armati. Il numero dei partigiani attivi diminuì drasticamente nell’inverno 1944-45 per poi risalire in primavera fino a toccare la cifra di 80mila combattenti ai primi di marzo 1945 e di 100mila in aprile. Metà di essi appartenevano a formazioni a guida comunista, ma va anche detto che nelle divisioni Garibaldi militavano moltissimi che comunisti non erano. La Resistenza non era un menu à la carte dove ci si poteva permettere di scegliere: si andava dove capitava o dove era più facile trovare aiuto. Resta il fatto, invero beffardo e imbarazzante, che, in pochi giorni, il numero dei partigiani raddoppiò. Una stima governativa del 1947 quantifica in 223.639 il numero di combattenti e in 122.518 il numero di individui accreditati come patrioti per la loro collaborazione alla lotta partigiana. E’ logico che molti scendessero in campo al momento dell’insurrezione; è altrettanto vero che furono in tanti a fregiarsi di una qualifica di partigiano quanto mai immeritata. Ciò detto resta il fatto che il movimento resistenziale in Italia fu il più sviluppato dell’Europa occidentale, superiore anche a quello francese per capacità bellica e importanza di operazioni. La fine della guerra in Italia fu considerevolmente abbreviata dall’insurrezione del 25 aprile e tale affermazione è corroborata da quanto narra lo storico inglese G.A. Shepperd secondo il quale “il consumo di carburante e di munizioni da parte delle forze alleate era stato altissimo e il 7 maggio si sarebbe verificata una penuria di munizioni per l’artiglieria da campo e anche la situazione dei carburanti era ormai critica. Non solo, ma il 25 aprile la situazione era peggiorata e non c’erano più riserve disponibili. L’insurrezione del nord Italia ebbe quindi un’importanza fondamentale nell’abbreviare i combattimenti e nel determinare la resa delle forze tedesche”. Un dato, incontrovertibile, che dovrebbe essere ricordato da quanti (e sono sempre di più) pensano che la Resistenza italiana sia stata ben poca cosa.
Il costo umano fu di 40mila caduti cui vanno aggiunti 10mila civili uccisi nelle rappresaglie naziste. Questi sono dati oggettivi che, tra l’altro, prescindono dalla testimonianza umana di coloro che diedero la vita per la nostra libertà. Questo il valore della Resistenza che non può essere sminuito dai molti punti oscuri che saranno oggetto dei prossimi articoli.
STORIA. Non solo Porzus: com’erano cattivi i partigiani comunisti con i loro “amici”. Alberto Leoni 12.05.2018 su Il Sussidiario. Continua il profilo storicamente “scorretto” della Resistenza. Sembra che i partigiani comunisti avessero una certa abitudine a reprimere il dissenso con il “fuoco amico”. La Resistenza nacque per cacciare lo straniero e divenne guerra civile, come illustrato dal già citato saggio del Pavone dove venivano delineate tre guerre distinte tra loro:
1) lotta di liberazione contro l’occupante tedesco, 2) guerra civile contro il fascismo collaborazionista, 3) guerra rivoluzionaria. Le prime due furono comuni a tutte le componenti della Resistenza, la terza alla sola componente comunista che la applicò non solo ai fascisti, non solo ai neutrali, ma anche a coloro che combattevano contro i nazifascisti e non erano delle loro stesse idee. L’equivoco più colossale della vulgata resistenziale sta proprio in una presunta unità che non ci fu mai se non per i suddetti punti 1 e 2. Chi spezzò questa unità fu il Partito comunista, che cercò di monopolizzare il movimento resistenziale senza fermarsi di fronte a nessun tabù, come l’assassinio deliberato del proprio alleato. La guerra partigiana in Italia ebbe caratteri di ferocia disumana fondamentalmente per due influssi: uno interno all’Italia stessa e uno esterno. Quello endogeno fu la brutalità di comportamenti già presenti nel nostro Paese in occasione di rivolte contadine o di repressioni. Ma c’è un fattore esogeno ed è l’importazione, in Italia, della guerra totale, senza restrizioni né tabù, quale fu praticata nella guerra civile spagnola (1936-1939). I comunisti, che ne avevano avuto diretta esperienza, inserirono nell’Italia del 1943 una spietatezza logica e mirata a vincere la guerra in ogni modo, senza curarsi delle sofferenze della popolazione e delle rappresaglie e con una particolare attenzione alla soppressione dei propri avversari politici, specie se alleati. Di contro, l’altra metà della Resistenza (autonomi, Giustizia e Libertà, cattolici) fu sempre attenta a non peggiorare la situazione e a non inasprire gli odi, pur combattendo con grande valore. Se potessimo dividere per categorie le vittime della brutalità partigiana potremmo partire da:
1) i fascisti combattenti. Vale la pena ricordare che la guerra partigiana era di per sé spietata. Prigionieri non se ne facevano né dall’una né dall’altra parte se non per scambiarli con altri prigionieri. E quanto è vero il patema d’animo del partigiano Milton in Una questione privata di Fenoglio quando scopre che, anche presso i partigiani autonomi, i fascisti venivano tutti “scorciati”.
2) i civili neutrali e non collaborativi. In genere i comunisti si prendevano con le cattive ciò che gli altri partigiani cercano di ottenere con le buone.
3) i fascisti dopo il 25 aprile. Anche qui bisogna rendersi conto che una guerra non è un incontro di boxe, dove al suono della campanella si smette di tirar cartoni, pena la squalifica. In un contesto così spietato la vendetta non è scusabile ma comprensibile. Eppure, per quanto si legga, furono quasi sempre i comunisti a fare massacri dopo la fine della guerra.
4) Ma c’è una quarta categoria di vittime della Resistenza che è al centro del nostro interesse: i partigiani uccisi da altri partigiani.
Il caso più conosciuto è quello delle malghe di Porzus, dove un distaccamento dei Gruppi di Azione Partigiana, a guida comunista, passò per le armi un intero comando brigata delle formazioni cattolica “Osoppo”. Movente: cedere il Friuli Venezia Giulia alla Jugoslavia titina. Nell’eccidio morirono, uccisi “da mano fraterna nemica” Francesco De Gregori, zio omonimo del cantautore e Guidalberto Pasolini, fratello minore di Pier Paolo. Un strage sottaciuta per decenni che ebbe risonanza mediatica con il film “Porzus” di Enzo Martinelli (1997) ma con reazioni memorabili come quella del presidente dell’Anpi Federico Vincenti il quale chiese ufficialmente che il film non venisse proiettato nelle scuole italiane. Solo dopo vent’anni di polemiche è stata possibile una memoria condivisa. Un caso isolato? Purtroppo no. Sembra che, da parte comunista, ci fosse una certa abitudine a reprimere il dissenso col “fuoco amico”. Cesare Valobra, comandante di un distaccamento della brigata “Lanciotto” che prese parte alla battaglia di Firenze mi raccontava che, essendo ebreo da parte di padre, era fuggito coi suoi fratelli in montagna trovando accoglienza nelle brigate “Garibaldi”. Non essendo comunista polemizzava apertamente coi capi fino a che un compagno gli fece presente che, nel combattimento successivo, avrebbe dovuto guardarsi dalle pallottole che provenivano da dietro. Più di recente mi è stata narrata la storia di un partigiano cattolico nelle montagne sopra Genova che fu inviato nel capoluogo a bordo di una Kubelwagen tedesca preda di guerra e fu vittima di un’imboscata: un errore, per carità. Ma quanti furono questi “errori”?
Giampaolo Pansa ha raccontato la storia, senza essere smentito, di Giovanni Rossi “Bracciante”, combattivo ma troppo autonomo rispetto alle direttive del Partito. Il 28 febbraio due partigiani comunisti uccisero Rossi nel sonno. Troppo autonomo e indipendente era anche Dante Castellucci “Facio”, amico e compagno dei fratelli Cervi, giustiziato dopo un processo che fu ritenuto una farsa dalla fidanzata e dagli amici. Sempre in Emilia, ad Argelato, desta ancora orrore la sorte dei sette fratelli Govoni, massacrati dopo lunghe ore di sevizie dai partigiani della brigata garibaldina “Paolo”. In tutto furono quarantaquattro le vittime di questa carneficina e tra esse Giacomo Malaguti che aveva combattuto a Cassino nel Corpo Italiano di Liberazione. I responsabili dell’eccidio furono condannati all’ergastolo ma riuscirono a fuggire in Cecoslovacchia come avvenne per altri assassini. Altro caso eclatante fu quello della missione “Strasserra”. Un agente dell’Office of Strategic Service (l’americano Oss), il tenente Emanuele Strasserra, insieme ad altri agenti e partigiani, giunsero nel Biellese per costituire una formazione partigiana non comunista che facesse da contrappeso allo strapotere dei garibaldini nella zona. Una formazione di garibaldini agli ordini di Francesco Moranino “Gemisto” tese loro un’imboscata e li sterminò, dopo di che i garibaldini eliminarono anche le mogli di due partigiani uccisi perché stavano indagando in modo troppo approfondito. Moranino venne condannato all’ergastolo nel 1957 ma la pena venne commutata in trent’anni di carcere che “Gemisto” non fece mai perché era in Cecoslovacchia. Nel 1964 il presidente della Repubblica Saragat gli concesse la grazia e “Gemisto” potè tornare in Italia venendo eletto senatore nel 1964. Se per questi e per altri delitti la giustizia ha fatto il suo corso accertando i fatti accaduti, per altre morti di comandanti partigiani non si va al di là del forte sospetto che la versione ufficiale non sia quella vera. Savino Fornasari ed Emilio Canzi furono due notevoli comandanti partigiani anarchici nella zona del Piacentino. Entrambi, subito dopo la fine della guerra, morirono in incidenti stradali sospetti. Ugualmente sospetta è la morte di Sante Vincenzi e Giuseppe Bentivogli, prestigiosi esponenti socialisti dell’ala riformista, uccisi il 21 aprile 1945 da un gruppo di fascisti nella Bologna appena liberata dagli Alleati. Tale, almeno, la versione ufficiale, perché quella mattina i tedeschi se n’erano andati durante la notte e i fascisti erano abbastanza accorti per cercare di salvare la pelle e non continuare a fare rastrellamenti.
Sempre in Emilia furono assassinati (sicuramente non da fascisti) diversi rappresentanti delle “Fiamme Verdi” cattoliche. Per motivi di spazio vengono citati solo i nomi: Anselmo Menozzi (Paolo), Pietro Cipriani (Aldo), Mario Simonazzi (comandante Azor). Infine Giorgio Morelli “il Solitario”, giornalista e partigiano, venne ucciso per aver cercato di scoprire la verità su quelle morti.
Un’altra morte misteriosa fu quella di Manrico Ducceschi detto “Pippo”, uno dei capi partigiani più efficienti e combattivi dell’Appennino toscano. Ducceschi costituì una banda partigiana che, dopo numerosi successi, venne inquadrata nella V armata statunitense e contribuì ad arrestare l’offensiva invernale italo-tedesca in Garfagnana. Ducceschi, collegato al Partito d’Azione, era sempre stato indipendente dai comunisti e legato agli Alleati tanto da venir contatto dagli americani in funzione anticomunista. Il 24 agosto si recò a Roma e, al suo ritorno a Pistoia, preannunciò che avrebbe denunciato l’operato di alcuni gruppi partigiani. Due giorni dopo venne trovato impiccato in casa propria, appeso alla cintura dei propri pantaloni. L’autopsia sarà compatibile con l’evento ma alcuni elementi gettarono subito alcuni sospetti, come la mancata acquisizione del suo archivio agli atti dell’Autorità giudiziaria. Verranno condotte nuove inchieste negli anni Settanta e Ottanta ma senza esiti concreti se non il coinvolgimento di Licio Gelli.
Fondamentale, per tre casi che verranno descritti di seguito, l’indagine di Luciano Garibaldi I giusti del 25 aprile: chi uccise i partigiani eroi? (Ares 2018).
Il capitano Ugo Ricci comandava il distaccamento “Sozzi” della 52ma brigata Garibaldi “Luigi Clerici” in val d’Intelvi. Combattente in Africa settentrionale, dopo l’8 settembre costituì una formazione partigiana monarchica e cattolica. Audace e cavalleresco, preferiva disarmare che uccidere e questo non era gradito dal comando garibaldino. Il 28 settembre 1944 fu convocato per una riunione dove venne incaricato di catturare il ministro della Repubblica sociale Guido Buffarini Guidi che si trovava a Lenno, sulle rive del lago di Como. Il tentativo, eseguito a mezzanotte del 3 ottobre, fallì e Ricci rimase ucciso con due compagni: Buffarini Guidi non era nemmeno in zona. Nello scontro, che avvenne nel bar accanto all’hotel Regina di Lenno, morirono anche tre fascisti che vi si trovavano, presi completamente di sorpresa. Ricci, che era entrato nel bar, non aveva cercato lo scontro a fuoco, non era quello il suo obbiettivo. Furono altri partigiani dietro di lui a sparare e Ricci fu udito gridare al tradimento prima di cadere ucciso. Per decenni, inutilmente il padre e la fidanzata cercheranno di far riesaminare il caso che, tuttavia, è stato oggetto di studi approfonditi.
Il secondo caso è quello del tenente colonnello dei carabinieri Edoardo Alessi, eroe di guerra in Africa settentrionale al comando di un battaglione di paracadutisti carabinieri e poi partigiano in Valtellina. Anche in questo caso, la disciplina della sua formazione, la fede cattolica, l’idea monarchica differenziavano pericolosamente Alessi dalle tendenze del comando comunista di zona. Va ricordato che Alessi aveva dichiarato, da subito, che non ci sarebbe state esecuzioni di fascisti se non dopo un regolare processo. Dopo la sua morte ci furono più di cento omicidi nella zona.
Il 26 aprile 1945, quando ormai la Liberazione era vicina, cadde in un agguato insieme a un suo compagno a Gualzi di S. Anna, frazione di Chiesa Valmalenco. Secondo la versione ufficiale Alessi e Cometti, il suo compagno, furono uccisi da un gruppo di fascisti che stavano eseguendo un rastrellamento. Da subito corsero voci sull’inattendibilità di tale versione che furono confermate dall’indagine effettuata da Teresio Gola, ufficiale di collegamento del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia e amico di Alessi. Subito dopo la Liberazione, Gola interrogò un tenente della Guardia Nazionale Repubblicana, Mario Giordani, che rese un’interessante dichiarazione. Nella notte del 25 aprile, Giordani ricevette una telefonata che denunciava la presenza di partigiani in frazione Sant’Anna. Accorsi sul luogo, i militi trovarono i corpi di Alessi e Cometti con ferite da arma da fuoco e da taglio. Vi fu un processo nel corso del quale venne condannato a dieci anni un sergente della Gnr, Mario Vignale, sulla base di testimonianze ma senza riscontri oggettivi. La sentenza fu impugnata dal Vignale davanti alla Cassazione che ordinò, il 30 giugno 1947, il rinvio del processo alla Corte di Assise di Bergamo. “Tuttavia — precisa Luciano Garibaldi — sia presso il tribunale di Bergamo, sia presso l’Archivio di Stato della città non esiste traccia di quel procedimento” (op. cit. p. 93). Successive indagini compiute privatamente hanno confermato i sospetti relativi a un tradimento di alcuni partigiani che avrebbero eliminato Alessi. La “mano fraterna nemica” colpiva ancora e non aveva lasciato tracce apprezzabili.
Il terzo caso, il più studiato e misterioso è quello del leggendario comandante Alfo Gastaldi “Bisagno” morto in un incidente stradale il 21 aprile 1945 e che sarà l’argomento del prossimo articolo.
STORIA/ Così è se vi pare: i partigiani e quelle strane medaglie al valore. Alberto Leoni 29.04.2018 su Il Sussidiario. Ogni singola Medaglia d’oro al valor militare della Resistenza andrebbe esaminata in dettaglio, per rendersi conto del grande valore di quegli uomini, ma non solo. Al lettore che abbia disdegnato di partecipare ai festeggiamenti per la festa della Liberazione si consigliano alcuni libri fondamentali, che spiegano bene cosa sia stato il meglio della Resistenza e come si debba guardare, per il nostro stesso bene, agli eroi e non ai maniaci omicidi per giudicare un passato e desiderare di emulare i grandi anziché sentirci migliori dei pessimi. Eravamo partigiani: ricordi del tempo di guerra del grande storico Raimondo Luraghi, medaglia d’argento, ricrea le gesta di Pompeo Colajanni, il leggendario “Barbato”, comunista, avvocato, ufficiale di cavalleria, comandante della divisione “Garibaldi Piemonte”. Un uomo, invero, formidabile. Si consiglia anche la lettura di La guerra dei poveri di Nuto Revelli, ferrigno comandante della brigata “Carlo Rosselli” e di Senza bandiera di Edgardo Sogno conte Rata del Vallino di Ponzone, volontario coi nazionalisti in Spagna, fiero oppositore delle leggi razziali antisemite, medaglia d’oro, d’argento e di bronzo della Resistenza: pochi libri d’avventura giungono a questi livelli. Questa introduzione serve a sgombrare il campo da possibili, future critiche alle affermazioni contenute nel presente articolo e che riguardano le indagini compiute sulle motivazioni di alcune medaglie d’oro al valor militare (Movm) della Resistenza. Complessivamente la massima decorazione militare è stata conferita a 407 partigiani con concentrazioni nei teatri di operazione del Piemonte (88) e dell’Emilia (87). Va notato che in Emilia tali decorazioni crebbero impetuosamente dalla metà del 1944 al 1945, anche a seguito degli avvenimenti sulla Linea Gotica che andava dalla Versilia alla Romagna, mentre in Piemonte lo sviluppo appare costante. Quanto ai reparti, gli appartenenti a formazioni garibaldine, a guida comunista, decorati con Movm sono i più numerosi superando il centinaio. Sempre sulla base di prime ricerche si può calcolare che i comunisti decorati con Movm sono 75 e i cattolici 77: due i valdesi e due gli ebrei. Già da queste prime note si può considerare quanto sarebbe interessante uno studio comparativo su queste personalità, spesso giovani. Una constatazione doverosa: ben 373 medaglie sono conferite alla memoria perché questi eroi non sopravvissero alle proprie gesta. D’altra parte, proprio da queste prime indagini risaltano alcune motivazioni alquanto strane e contraddittorie. Va premesso che, in quanto seguirà, non vi è alcun intento derisorio nei confronti di questi poveri morti: derisione e, in qualche caso, disprezzo vanno esclusivamente a coloro che hanno falsificato la realtà per fini politici o personali. Il tenente dei bersaglieri Antonio Cambriglia, per esempio, aveva combattuto durante le Quattro Giornate di Napoli, si arruolò nella V armata americana e venne paracadutato vicino a La Spezia per prendere contatto coi partigiani. “Accettato combattimento con pochi patrioti contro preponderanti forze nazifasciste — così recita la motivazione della sua Movm — conscio della propria sorte … chiudeva la sua eroica vita ecc”. Per lo storico Antonio Bianchi, nel suo La Spezia e Lunigiana: società e politica dal 1861 al 1945 Cambriglia fu ucciso durante una rapina il 2 novembre del 1944. Bianchi appare sicuramente ben informato e credibile: e allora perché questa motivazione?
Con il comunista Demos Malavasi si arriva al pirandelliano “così è se vi pare”. Sul sito dell’Anpi la nota biografica su Malavasi riporta la sua uccisione il 9 settembre 1943 ad opera dei tedeschi. Subito dopo, però, si riporta quasi integralmente la motivazione della Movm che descrive come il Malavasi “partecipava alla lotta partigiana … in numerosi fatti d’arme, con il fuoco del suo mitra uccidendo tredici tedeschi” poi altri due a colpi di pistola. Data della morte di questo Rambo comunista nella motivazione (espunta sul sito dell’Anpi) 1° dicembre 1944. Ora, viene da fare una sola domanda all’Anpi: perché? Perché riportare due versioni incompatibili sulla stessa pagina?
Se poi si passa a Marzabotto e dintorni siamo nella Gardaland delle balle con una sola terrificante verità: il sadismo del battaglione esplorante della 16ma divisione “Reichsfuhrer SS” comandato da Walter Reder, oltre alla brutalità delle altre truppe germaniche. Quanto alle vittime civili per mezzo secolo si è parlato di 1.830 vittime, salvo poi considerare che in tale numero sono stati compresi anche i civili uccisi dai partigiani e dai bombardamenti alleati. Oggi si riconosce in 770 la cifra esatta. Nemmeno lo storico fascista Giorgio Pisanò sfugge alla regola quando afferma che i nazisti ebbero solo il famigerato “Cacao” come guida mentre gli scampati di almeno tre zone diverse sentirono dei nazisti parlare in dialetto emiliano. In quell’occasione morì il comandante Mario “Lupo” Musolesi, “attaccato infine da schiaccianti forze di SS tedesche, si difendeva disperatamente e cadeva da eroe alla testa dei suoi uomini”. In realtà “Lupo”, il vicecomandante Gianni Rossi e un terzo partigiano Gino Gamberini andarono a cercare aiuto: solo Rossi riuscì a fuggire e Musolesi non era alla “testa dei suoi uomini”.
In effetti tutta la storia della formazione partigiana “Stella Rossa” è oscura e costellata di enigmi. Ma la motivazione della Movm conferita al giovane Gastone Rossi è chiara al di là di ogni dubbio: “in una dura azione di fuoco accortosi che una mitragliatrice nemica decimava i partigiani, si lanciava da solo all’assalto per distruggerla a colpi di bombe a mano, immolando così i suoi sedici anni alla Patria. — Marzabotto, 3 settembre 1944”. Ma il bollettino del Comando Unico Militare Emilia Romagna del 5 settembre 1944 racconta che Rossi morì in seguito a ferita riportata per un incidente di servizio. E, in effetti, vi fu un procedimento penale a carico di Cleto Comellini per omicidio colposo dato che i due ragazzi, il 3 settembre, mentre giocavano con una pistola carica, fecero partire un colpo che uccise il povero Gastone: ma la motivazione rimane sul sito del Quirinale e su quello dell’Anpi: perché?
La storia di Augusto Bazzino, partigiano ligure, si intreccia con quella della sventurata Giuseppina Ghersi, seviziata e massacrata a tredici anni dai partigiani dopo la Liberazione. Nella motivazione della Movm si legge che Bazzino, combattendo alla testa dei suoi uomini, rimase gravemente ferito, morendo il 28 aprile. In realtà due giorni prima lo zio di Giuseppina, Attilio Mongoli, borsanerista, stava per essere fucilato dai partigiani con altri disgraziati dagli uomini del Bazzino. Un condannato cercò di fuggire e Bazzino lo inseguì ma un partigiano tirò una raffica uccidendo il condannato e ferendo a morte il proprio comandante. Ma, forse, la più tragica e falsa motivazione è quella di un eroico militante socialista, Paolo Fabbri. “Nel corso di una azione di collegamento … addentratosi tra i nevosi valichi dell’Appennino, stremato di forze, perdeva la vita. 14 febbraio 1945”. Ora, conferire una medaglia d’oro a uno che muore congelato pare davvero eccessivo, ma le cose non sono andate esattamente così. Paolo Fabbri e il suo compagno Mario Guermani avevano compiuto la propria missione e dovevano ritornare a Bologna con molto denaro per la Resistenza. All’ultimo momento lasciarono la somma al comando partigiano socialista e si avviarono nella neve accompagnati da una guida locale, Adelmo degli Esposti. Questi rientrò alla base da solo affermando di aver sentito spari ed esplosioni e di aver perso di vista i due comandanti partigiani che furono trovati solo dopo la fine della guerra. Era evidente che non erano morti di freddo dato che le loro teste erano state perforate da proiettili di grosso calibro. Ma questo episodio rientra in un argomento più ampio che sarà affrontato nella prossima puntata: i partigiani uccisi da altri partigiani.
· La guerra civile del 25 aprile che continua tutt’oggi.
L’INTELLIGHENZIA SINISTRATA APPROFITTA DEL 25 APRILE PER RIVERSARE TUTTO IL SUO ODIO. Franco Grilli per il Giornale il 25 aprile 2019. La sfilata del 25 aprile a Milano ha avuto un obiettivo chiaro: mettere nel mirino il "nemico" Salvini. Insulti, offese e attacchi al ministro degli Interni hanno declinato questa giornata per la Festa della Liberazione. E a mettere nel mirino il ministro tra una bandiera rossa e l'altra c'era anche Gino Strada. Il fondatore di Emergency non ha risparmiato attacchi al titolare del Viminale e ai microfoni di Repubblica tv ha affondato il colpo sul ministro: "Importante festeggiare il 25 aprile visto che al governo ci sono dei fascisti e noi difendiamo altri valori. Risposta positiva e mi auguro che molta più gente cominci a mobilitarsi perché questa situazione è pericolosa". A questo punto è arrivato l'insulto vero e proprio per Salvini: "È un fascista e spero si tolga dai c...". Parole forti quelle di Strada che sottolineano i rapporti sempre tesi tra il fondatore di Emergency e il ministro. Solo qualche settimana fa Strada aveva criticato Salvini per la politica dei porti chiusi: "Mi stupisce la completa disumanità di questo signore. È un atteggiamento che non è soltanto non solidale o indifferente, ma è gretto, ignorante. È un atteggiamento criminale, questi sono dei criminali, dobbiamo svegliarci ci stanno ammazzando la gente sotto i nostri occhi e li sta ammazzando un governo che, purtroppo, molti italiani hanno anche assecondato e votato". L'odio contro il ministro non poteva certo mancare nella manifestazione del 25 aprile. E così Strada non si è sottratto all'ennesimo attacco nei confronti del titolare degli Interni...
Angelo Scarano per il Giornale il 25 aprile 2019. Andrea Camilleri sceglie il 25 aprile per attaccare (ancora una volta) il ministro degli Interni Matteo Salvini. L'autore di Montalbano in un'intervista a Servizio Pubblico parla della festa della Liberazione e ricorda il suo 25 aprile del 1945: "Mi trovavo nella mia terra, in Sicilia. Conoscevo la libertà già dal 1943, quando gli americani sbarcarono in Sicilia nella notte fra il 9 e il 10 luglio. Ma in quei giorni stavo incollato alla radio nella mia stanza a sentire le notizie su ciò che avveniva in Italia e nel mondo, perché capivo che nel giorno della liberazione anche il resto dei miei compatrioti avrebbero goduto di quel momento irraccontabile, in cui senti cadere dei lacci e dei bavagli che fino a quel momento ti hanno imprigionato. Ho condiviso quel giorno attraverso l’udito, ascoltando tutte le notizie possibili sulla liberazione”. Poi arriva l'affondo su Salvini che di fatto nel giorno delle celebrazioni per la Liberazione ha deciso di recarsi a Corleone per testimoniare l'impegno dello Stato nella lotta contro la mafia: "Non posso trattenermi dal dire che con il governo di oggi abbiamo un esempio lampante di mentalità fascista, quella del ministro Matteo Salvini. Quella è mentalità fascista, una delle forme di fascismo che può anche essere eletta democraticamente". Ma il livore di Camilleri si riversa su Salvini qualche istante più avanti. Parlando della Resistenza, Camilleri passa agli insulti: "La nostra Costituzione è ispirata a ciò che venne a significare il 25 aprile: non fu una ‘rissa’ tra comunisti e fascisti come dice Salvini. C’erano le brigate Garibaldi comuniste, ma anche i partigiani monarchici e quelli democristiani. Dio mio, lì c’era l’Italia e tu la riduci a una rissa? Io a 93 anni mi sento fremere di rabbia perché dicendo una frase così questo ignorante di Salvini offende i caduti di tutte e due le parti, perché i fascisti che andavano a morire giovani credevano in un ideale sbagliato, orrendo, ma ci credevano, così come i comunisti, i monarchici e i democristiani. Salvini non sa neanche il senso della parola ideale". Lo scrittore a quanto pare ha vissuto da vicino, sulla propria pelle, gli accadimenti della Storia. Dalla marcia su Roma a cui partecipò anche suo padre fino alla caduta del fascismo. Temi che hanno segnato la personalità di Camilleri che però adesso vede, come buona parte della sinistra, in Salvini un pericolo per la democrazia.
L'appello: la storia è un bene comune, salviamola. "Repubblica" appoggia il manifesto lanciato dallo storico Andrea Giardina, dalla senatrice a vita Liliana Segre e dallo scrittore Andrea Camilleri per ridare dignità nelle scuole alla materia, scrive il 25 aprile 2019 La Repubblica. La storia è un bene comune. La sua conoscenza è un principio di democrazia e di uguaglianza tra i cittadini. È un sapere critico non uniforme, non omogeneo, che rifiuta il conformismo e vive nel dialogo. Lo storico ha le proprie idee politiche ma deve sottoporle alle prove dei documenti e del dibattito, confrontandole con le idee altrui e impegnandosi nella loro diffusione. Ci appelliamo a tutti i cittadini e alle loro rappresentanze politiche e istituzionali per la difesa e il progresso della ricerca storica in un momento di grave pericolo per la sopravvivenza stessa della conoscenza critica del passato e delle esperienze che la storia fornisce al presente e al futuro del nostro Paese. Sono diffusi, in molte società contemporanee, sentimenti di rifiuto e diffidenza nei confronti degli “esperti”, a qualunque settore appartengano, la medicina come l’astronomia, l’economia come la storia. La comunicazione semplificata tipica dei social media fa nascere la figura del contro-esperto che rappresenta una presunta opinione del popolo, una sorta di sapienza mistica che attinge a giacimenti di verità che i professori, i maestri e i competenti occulterebbero per proteggere interessi e privilegi. I pericoli sono sotto gli occhi di tutti: si negano fatti ampiamente documentati; si costruiscono fantasiose contro-storie; si resuscitano ideologie funeste in nome della deideologizzazione. Ciò nonostante, queste stesse distorsioni celano un bisogno di storia e nascono anche da sensibilità autentiche, curiosità, desideri di esplorazione che non trovano appagamento altrove. È necessario quindi rafforzare l’impegno, rinnovare le parole, trovare vie di contatto, moltiplicare i luoghi di incontro per la trasmissione della conoscenza. Ma nulla di questo può farsi se la storia, come sta avvenendo precipitosamente, viene soffocata già nelle scuole e nelle università, esautorata dal suo ruolo essenziale, rappresentata come una conoscenza residuale, dove reperire al massimo qualche passatempo. I ragazzi europei che giocano sui binari di Auschwitz offendono certo le vittime, ma sono al tempo stesso vittime dell’incuria e dei fallimenti educativi. Il ridimensionamento della prova di storia nell’esame di maturità, l’avvenuta riduzione delle ore di insegnamento nelle scuole, il vertiginoso decremento delle cattedre universitarie, il blocco del reclutamento degli studiosi più giovani, la situazione precaria degli archivi e delle biblioteche, rappresentano un attentato alla vita culturale e civile del nostro Paese. Ignorare la nostra storia vuol dire smarrire noi stessi, la nostra nazione, l’Europa e il mondo. Vuol dire vivere ignari in uno spazio fittizio, proprio nel momento in cui i fenomeni di globalizzazione impongono panorami sconfinati alla coscienza e all’azione dei singoli e delle comunità. Per questo cittadini di vario orientamento politico ma uniti da un condiviso sentimento di allarme si rivolgono al governo e ai partiti, alle istituzioni pubbliche e alle associazioni private perché si protegga e si faccia progredire quel bene comune che si chiama storia e chiedono che la prova di storia venga ripristinata negli scritti dell’esame di Stato delle scuole superiori. che le ore dedicate alla disciplina nelle scuole vengano incrementate e non ulteriormente ridotte. che dentro l’università sia favorita la ricerca storica, ampliando l’accesso agli studiosi più giovani. Andrea Giardina, Liliana Segre, Andrea Camilleri.
Il 25 aprile, ormai una festa "contro". Da anni il giorno della liberazione è diventata occasione per contestare. Ieri toccò a Berlusconi, oggi a Salvini. Qual è il senso di tutto questo? Scrive il 25 aprile 2019 Panorama. Scommettiamo che il 25 aprile (o, meglio, le manifestazioni organizzate da ANPI e sindacati) sarà pieno di slogan, cartelli, cori e "Bella Ciao" contro Matteo Salvini? Scommettiamo che come ogni anno, al passaggio della Brigata Ebraica a Milano ci saranno i soliti scontri di sempre al grido di "Palestina Libera"?. Noi due soldini li punteremmo volentieri ma non troveremmo oggi una società di scommesse che accetterebbe la nostra puntata perché è certo che andrà così. Perché ormai, da decenni, il 25 aprile da Festa della Liberazione si è trasformata in Festa della Contestazione. Prima di tutto contro l'avversario politico della sinistra (o di quello che ne resta). Anni fa fu Berlusconi, attaccato al grido di "buffone", "mafioso", "evasore" "bunga Bunga" etc etc. Stessa sorte toccata a Letizia Moratti, ex sindaco di Milano, contestata a fischi, insulti e sputi mentre accompagnava in corteo il padre, ex partigiano ed ex deportato a Dachau, seduto sulla sua carrozzina. Adesso tocca a Salvini, il nuovo "cattivo" che avanza, il nuovo bersaglio da colpire. Il fatto è che tutto questo ha tolto senso al 25 aprile, trasformandola da Festa Nazionale di liberazione (e fine della guerra) a Festa di una parte politica. Per rendersene conto basta guardare oltre la solita manifestazione di Milano dei soliti 100mila partecipanti. E fare un giro in ogni piccolo comune d'Italia dove ci sarà una piccola celebrazione. Una volta era un avvenimento per tutto il paese, oggi il deserto. C'è il sindaco con la fascia, ma che vorrebbe essere in vacanza, c'è la banda, qualche reduce sopravvissuto e pochi altri. Un breve discorso, la corona d'alloro in memoria dei caduti del paese e poi "rompete le righe". Per gli italiani il 25 aprile è solo l'occasione buona per fare un Ponte, meglio se cade di martedì o giovedì così prendendo un giorno di assenza dal lavoro me ne sto a casa o al mare 4. Questo perché gli italiani sanno benissimo, dopo 74 anni, che il fascismo è morto, sepolto e non tornerà mai più. E chi ancora oggi lo rimpiange è numericamente e politicamente irrilevante. Una festa lontana senza più significato. E se siamo arrivati a questo è proprio perché qualcuno se n'è appropriato, l'ha fatta propria svuotandola del vero senso e trasformandola in una manifestazione di parte. Tanto un nemico da attaccare ci sarà sempre.
25 aprile, Virginia Raggi fischiata dall'Anpi: "Buffona, vattene a casa. Libera Casapound", scrive il 25 Aprile 2019 Libero Quotidiano. "Buffona", "vattene a casa", "libera Casapound". E poi fischi, insulti e diti medialzati. Tutti contro la sindaca di Roma Virginia Raggi mentre interveniva dal palco della manifestazione Anpi per il 25 aprile a Porta San Paolo accusata di essere troppo "tollerante" nei confronti di Casapound. Ma tra i contestatori c'erano anche persone che l'hanno applaudita nel corso del suo intervento, giudicato "molto importante" dai vertici dell'associazione dei partigiani. "Se siamo qui è per rendere omaggio e celebrare perché ci crediamo davvero, per le persone che hanno deciso di opporsi contro il regime e hanno dato la vita per esprimere le proprie idee, come qualcuno di voi sta facendo adesso", ha detto la sindaca replicando ai contestatori.
Milano, la sfilata del 25 aprile finisce in rissa tra grillini e Pd. I 5 Stelle allontanati dai dem. Poi l'attacco dei centri sociali ai pentastellati: "Strattonati per la bandiera del Movimento". Angelo Scarano, Giovedì 25/04/2019, su Il Giornale. La sfilata del 25 aprile dei Cinque Stelle insieme alla sinistra e al Pd per le strade di Milano è finita in rissa. Una rappresentanza del Movimento Cinque Stelle è infatti finita nel mirino dei centro sociali. Durante ilo corteo si sono registrati momenti di tensione come ha raccontato Bruno Misculin, attivista grillino: "Mi hanno strattonato, cercato di strapparmi lo striscione di mano e portarmelo via: mi ci sono appeso e mi hanno trascinato un po’ di metri per terra. Quando hanno visto che non lo mollavo e c’era altra gente, l’hanno lasciato andare". Secondo l'attivista pentastellato l'attacco sarebbe arrivato perché teneva in mano una bandiera del Movimento Cinque Stelle: "Non abbiamo rubato nessun posto, era una zona libera - riferisce al Corriere -. Mi hanno detto “Voi qua non ci potete stare". La sensazione è che tra la sinistra e i Cinque Stelle sia andata in scena una rissa per contendersi la piazza e per intestarsi la sfilata del 25 aprile. L'episodio è stato condannata dall'europarlamentare del Pd, Brando Benifei. Dura anche la condanna da parte del sottosegretario agli Affari Regionali, il grillino Stefano Buffagni, pure lui alla manifestazione. Ma c'è un altro aspetto in questa vicenda. A quanto pare alcuni esponenti del pd avrebbero allontanato i rappresentanti del Movimento Cinque Stelle: "Quest’anno i 5 stelle non si sono organizzati per partecipare al corteo, spero che l’anno prossimo lo facciano", ha affermato la segretaria metropolitana del Pd, Silvia Roggiani. I Cinque Stelle hanno protestato per essere stati allontanati dal gruppo dem che esponeva le bandiere del Pd. Insomma adesso i piddini e i grillini litigano per intestarsi la passerella del 25 aprile. Il tutto mentre alcuni antagonisti hanno attaccato la brigata ebraica con cori, fischi e insulti: "Assassini, terroristi". L'ennesima pagina di una festa della Liberazione macchiata dalle "scintille" di piazza.
25 aprile, partigiani fischiano il questore di Prato. Lui li denuncia. Il questore di Prato, Alessio Cesareo, ha fatto sapere di avere denunciato gli iscritti di Anpi che hanno fischiato in piazza lui e il prefetto Rosalba Scialla durante le celebrazioni del 25 aprile: "Contestati con cori e canti partigiani". Gianni Carotenuto, Sabato 27/04/2019, su Il Giornale. Non saranno privi di conseguenze penali i fischi e i cartelli di richiesta di dimissioni che gli iscritti di Anpi di Prato, il 25 aprile, hanno rivolto in piazza contro questore e prefetto. Il capo della polizia della città toscana, Alessio Cesareo, ha trasmesso al Ministero dell'Interno un'informativa per spiegare che denuncerà tutte le persone ritenute responsabili di vilipendio nei confronti suoi e del prefetto Rosalba Scialla. Lo ha reso noto stamattina il Corriere Fiorentino, spiegando che il giorno della Festa della Liberazione il questore pratese ha firmato un telex "urgente" per informare il Viminale su quanto successo in piazza Santa Maria delle Carceri. Nel corso delle celebrazioni per il 25 aprile, diversi iscritti all'Associazione dei partigiani avevano inscenato una protesta contro il questore Cesareo e il prefetto Scialla, in merito all'autorizzazione che quest'ultimo aveva concesso per la manifestazione di Forza Nuova dello scorso 23 marzo. Una decisione criticata dalla sinistra e dalla diocesi locali per la scelta - considerata una provocazione - del giorno del corteo, svoltosi a 100 anni esatti dalla fondazione a Milano dei Fasci di Combattimento. Il 25 aprile, quando lo speaker del cerimoniale ha fatto il nome del prefetto, alcuni presenti alle celebrazioni hanno fatto partire una selva di fischi chiedendone le dimissioni con slogan e cori. "Nel corso delle celebrazioni per la Liberazione - si legge nel telex trasmesso al Viminale dal questore di Prato - un gruppo di soggetti appartenenti all'Anpi ha contestato con cori e cartelli, poi acquisiti dai poliziotti, il prefetto Scialla e il questore Cesareo". Inoltre, "i cori sono consistiti nel chiedere le dimissioni del prefetto e nell'intonare alcuni canti tipici della lotta partigiana". Nelle ultime righe del telex, si legge che durante le celebrazioni Digos e polizia scientifica hanno fatto delle riprese "acquisendo alcune cartelli con frasi considerate non rispondenti alla solennità della manifestazione" e che "i soggetti ritenuti responsabili di questi comportamenti, che sono in corso di identificazione, saranno segnalati all'autorità giudiziaria". La notizia della denuncia di Cesareo ha trovato conferme anche in Procura. A questo punto i giudici potrebbero aprire un fascicolo per vilipendio, reato (previsto dall'art. 290 e ss. c.p.) che prevede una multa dai 1000 ai 5000 euro.
25 aprile, l'orrore degli anti-fascisti con due bambini: la follia nel cartello, come li mandano al corteo, scrive il 27 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Dopo due giorni dal 25 aprile, scoppiano ancora polemiche sullo scontro tra anti-fascisti e neo-fascisti dopo la pubblicazione di una foto con due bambini che sorreggono un cartello durante una delle manifestazioni per la festa della Liberazione. La pagina Azione Antifascista ha diffuso proprio il 25 aprile uno scatto in cui due bimbi tengono in mano un cartello che recita: "Mio nonno sparava ai fascisti non li votava". Sotto al post sono seguiti centinaia di insulti e critiche contro la scelta di strumentalizzare due bambini per diffondere un messaggio che ha ben poco di pacifico e democratico: "Siete delle merde - scrive un utente - che usano pure i bambini per la vostre schifezze. Vergognatevi". Nonostante il messaggio violento, la foto è rimasta online per almeno 48 ore, in più i volti dei bambini non sono neanche stati censurati. Alla faccia della loro privacy.
L'ultima vergogna partigiana: i bambini sponsor dell'odio. Sui social antifascisti la foto di due bimbi con un cartello: "Mio nonno sparava ai fascisti". Divampa la polemica. Giuseppe De Lorenzo, Sabato 27/04/2019, su Il Giornale. Qualcuno forse se l'è dimenticato. Era il cinque settembre del 2016 quando l'Anpi insorse contro il raduno "Ritorno a Camelot" organizzato dall'ultradestra italiana. Un gruppetto di ragazzi a Revine (Treviso) venne immortalato irrigidito nel saluto romano di balilla memoria. La foto-ricordo dei pargoli "fascisti" finì online e l'Associazione dei partigiani chiese di "perseguire" i genitori per la "strumentalizzazione" delle giovani menti. Una dura reprimenda sull'"esecrabile" comportamento di mamme e papà che fece scalpore. E provocò una feroce polemica a sinistra. Tre anni dopo, situazione simile: corteo antifascista, due bimbi sorridenti imbracciano un cartello eloquente con scritto "Mio nonno sparava ai fascisti, non li votava". Il piccolo, cappellino bianco e bottiglietta d'acqua in mano, sorride al fotografo. La bimba fa lo stesso, sorreggendo con entrambe le mani il manifesto. Dietro di loro gli adulti guardano e non si scandalizzano. Lo scatto viene condiviso online da Azione Antifascista, movimento con la missione di "derattizzare le città" e che - a quanto pare - non si fa problemi a utilizzare due giovani cuori per propagandare un messaggio che (per quanto "antifa") non è propriamente pacifico. Abbiamo cercato di risalire alla data e al luogo in cui è stata scattata la fotografia, senza però riuscirci. Poco importa: qui il problema non è il dove né il quando, ma il come. Ovvero l'utilizzo che ne è stato fatto. I due bambini - così come i pargoli neonazi di Treviso - sono diventati inconsapevoli portatori d'odio. Perché per quanto centri sociali e compagni continuino a cantare che "uccidere un fascista non è reato" e che "l'unico fascista buono è un fascista morto", non per questo sono due messaggi che insegneremmo ai nostri figli. O no? Legittimare i colpi di pistola contro i fascisti (che poi, chi sono oggi i "fascisti"?) non è come raccontare la favola di cappuccetto rosso. Il "nonno" che spara ai "camerati" non è (solo) il cacciatore che uccide il lupo cattivo. Perché la storia della Resistenza nasconde tante, troppe ombre. Chi "sparava ai fascisti" colpì anche persone innocenti. Sarebbe giusto ricordare anche quei "nonni" del triangolo della morte in Emilia Romagna, quelli che usarono le pallottole per una sommaria "giustizia partigiana". Ai due ragazzetti avranno spiegato le esecuzioni, le torture, gli stupri e le crudeltà di (alcuni) partigiani? Oppure sono stati "usati" per veicolare l'idea che contro nuovi e vecchi "fascisti" si può sempre premere il grilletto? La fotografia, dove o come sia stata scattata, è diventata presto virale in rete. In poche ore ha collezionato quasi mille reazioni, oltre 350 commenti e 400 condivisioni. Altri l'hanno ripresa e riproposta a loro volta. Oggi diremmo: è virale. Dunque occorre chiedersi: quale messaggio è passato? Se prendiamo per buone le parole del presidente dell'Anpi di Roma, Fabrizio De Sanctis, secondo cui "i geni del populismo sono nei dittatori del passato", potremmo pensare che quel cartello qualcuno lo abbia letto con un riferimento al presente. In fondo, a Modena, il corteo del 25 aprile ha preso di mira con scritte offensive le vittime delle foibe, i militari morti a Nassiriya e pure il ministro dell'Interno ("spara a Salvini"). Domanda: gli antifa pensano che il "nonno partigiano" di oggi avrebbe il diritto di sparare pure a loro, solo perché qualcuno considera carabinieri, militanti di destra, leghisti, Salvini o Berlusconi dei "fascisti"? Sorprende (o forse no) che gli antifascisti s’indignino per i saluti romani e non facciano lo stesso in questo caso. E che, anzi, lo trasformino in motivo di vanto condividendo lo scatto su Facebook. L’odio nazista è forse diverso dall’odio di sinistra? No: un chilo di piombo pesa esattamente come un chilo di piume. Ma questa è una questione politica: l’eterna guerra civile italiana, riproposta ogni anno da alcuni, ha l’unico scopo politico di attaccare il nemico del momento. Basta etichettarlo come “Fascista” e tutto diventa legittimo. Pensatela come volete, ma almeno fatevi una domanda: siamo sicuri che affidare a due bimbi quell'annuncio d'odio sia davvero educativo?
BENITO MA NON BENISSIMO. Francesco Curridori per Il Giornale il 28 aprile 2019. "Credo che tutte le persone morte, al di là delle colpe che possono avere in vita, sono degne di rispetto". Così Luca Ancetti, direttore del Giornale di Vicenza spiega la scelta, come da tradizione, di pubblicare sul suo quotidiano il necrologio di Benito Mussolini con tanto di foto inclusa. "Sempre nei nostri cuori" è la frase scelta per accompagnare il richiamo alla messa in suffragio del Duce che si terrà domani alle 18.30 davanti alla chiesa del cimitero Maggiore di Vicenza. “La foto, la frase, il richiamo sono state pubblicate nella pagina dei necrologi come tanti altri. Ovvio – aggiunge Ancetti – che la foto di Mussolini risalti, come avviene nei libri di storia. Ma nel necrologio non c’è nessun richiamo a quello che la persona è stata in vita. È uno spazio a pagamento, come lo è per tutti quelli che lo richiedono. È chiaro che – sottolinea il direttore – se mi avessero chiesto di pubblicarlo in cronaca ci avrei pensato”.
Da Ansa il 28 aprile 2019. Oggi pomeriggio alle 17 a Brescia nella chiesa di Santo Stefano, in città, sarà celebrata una messa che ricorda l'anniversario della morte di Benito Mussolini. Lo annuncia un necrologio pubblicato sulle pagine del Giornale di Brescia e pagato dalla Delegazione provinciale dell'Associazione Nazionale famiglie caduti e dispersi della Rsi. "Oltre il rogo non vive ira nemica" è stato scritto nel necrologio.
Da Ansa il 28 aprile 2019. "Mussolini per mille anni". Questo il testo dello striscione firmato dal movimento neofascista di Forza Nuova comparso la notte scorsa nel centro di Roma, a due passi dal Colosseo, per ricordare l'anniversario della morte del dittatore. "Contro vecchi e nuovi partigiani, contro sbirri, toghe e pennivendoli. Contro vili, prudenti e traditori, contro i servi di Soros, contro Bruxelles e la Nato. Contro ogni antifascismo. Onore eterna all'ultimo dei Cesari! - si legge sulla pagina Facebook di Forza Nuova -. Per l'Italia di oggi e di domani il suo esempio la nostra lotta". Intanto sul Giornale di Brescia un necrologio annuncia una messa per commemorare l'anniversario della morte di Benito Mussolini. Solo pochi giorni fa, in una manifestazione neofascista, era stato esposto a Milano, vicino a piazzale Loreto, uno striscione inneggiante al Duce: otto ultrà della Lazio sono indagati.
“NON SIAMO NOSTALGICI, SIAMO FEDELI”. Da ansa il 29 aprile 2019. Bufera sul servizio trasmesso dal Tgr dell'Emilia Romagna da Predappio su Mussolini per l'anniversario della morte del Duce. Il servizio della TgR Emilia Romagna ha suscitato - a quanto si apprende - "profonda irritazione" nell'ad della Rai, Fabrizio Salini, che ha chiesto al direttore della TgR, Alessandro Casarin, un'accurata relazione su tempi e sulle modalità di realizzazione del pezzo. Domenica alcune centinaia di persone hanno partecipato al corteo che a Predappio ha raggiunto la cripta Mussolini, per rendere omaggio alla sua tomba nel giorno del 74/o anniversario della morte. Gli attivisti hanno sfilato in silenzio, diverse camicie scure e bandiere tricolori chiuse. La cripta è stata aperta in via straordinaria. Presente anche la nipote, Edda Negri Mussolini. Attacca il Pd: "Al Tgr Emilia Romagna è andato in onda un servizio che nulla ha a che vedere con l'informazione e molto con quella che è apparsa come una vera e propria apologia del fascismo. Due minuti di interviste e immagini, con tanto di saluti romani, sulla manifestazione fascista di Predappio per l'anniversario della morte di Mussolini. L'amministratore delegato Salini spieghi se questa è la nuova informazione Rai. Chi ha deciso di mettere in onda quel servizio? Chi non ha controllato? Il direttore Casarin sia chiamato a risponderne": scrive su Facebook il deputato del Partito democratico Michele Anzaldi, segretario della commissione di Vigilanza Rai, che ripubblica il video del servizio andato in onda ieri alle 19.30. "L'apologia del fascismo, nell'ordinamento giuridico italiano, è un reato - prosegue Anzaldi - previsto dall'art. 4 della legge Scelba attuativa della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione. Sarà interessante, anzi doveroso, sapere se in questi due minuti di servizio del Tgr si ravvisi il reato".
VIALE MAZZINI, A NOI! Antonella Baccaro per il "Corriere della sera" il 29 aprile 2019. Sarà aperta un' inchiesta interna sul servizio mandato in onda dalla Tgr Emilia-Romagna domenica sulle celebrazioni a Predappio del 94esimo anniversario della morte di Benito Mussolini. Lo ha deciso l' amministratore delegato della Rai, Fabrizio Salini, che ha chiesto al direttore della Tgr, Alessandro Casarin, un' accurata relazione su tempi e sulle modalità di realizzazione del pezzo che ha provocato nel manager, e non solo, una «profonda irritazione». A denunciare il servizio è stato il deputato del Pd, membro della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi, secondo il quale bisognerà verificare se nei due minuti, andati in onda per ben due volte, si possa ravvisare il reato di «apologia del fascismo». In ogni caso Anzaldi ha chiesto le dimissioni di Casarin. «Dimissioni insensate» secondo il collega della Lega, Massimiliano Capitanio che elogia la presa di distanza di Casarin da un «servizio sbilanciato». «Un servizio che è l' esatto contrario della missione della Rai di servizio pubblico» secondo Federico Fornaro (Leu), membro della Commissione di Vigilanza. Il minireportage «incriminato» ha dato conto del pellegrinaggio di «un corteo di trecento persone» alla cripta della famiglia Mussolini, intervistando due o tre dei presenti senza contraddittorio. Così c' è chi ha detto di non sentirsi «nostalgico» ma «fedele» a Mussolini. Chi lo ha definito «il più grande uomo storico che abbiamo avuto in Italia». Tra le testimonianze, quella della nipote, Edda Negri, che ha interpretato la manifestazione come un gesto di «affetto per il nonno» e non come un fatto politico. Non è mancato un appello al «Camerata Mussolini», corredato dal saluto romano. Il servizio è stato commentato dalla conduttrice del Tgr che ha parlato delle polemiche che sarebbero sorte per una manifestazione che offriva «una visione della storia a senso unico». Già ieri in mattinata Casarin si era dissociato dall' operato del Tgr Emilia-Romagna, ritenendolo non consono con la linea editoriale della testata, e aveva preannunciato che d' intesa con l' azienda sarebbero stati presi provvedimenti. Anche il comitato di redazione della Tgr emiliana si è dissociato dalla decisione del caporedattore della sede bolognese di far realizzare e mandare in onda il servizio. Critico il presidente della Regione, Stefano Bonaccini (Pd): «Bisogna stare attenti a non mettere mai fascismo e antifascismo sullo stesso piano». Il presidente della commissione di Vigilanza, Alberto Barachini (FI) ha chiesto a Salini un resoconto sulle verifiche avviate. Si è distinto il direttore del Tg de La7, Enrico Mentana, che su Facebook ha detto di credere che «un reportage, anche breve, debba documentare quel che sta avvenendo, senza il dovere di interventi riequilibratori (che nel caso avrebbero avuto ancor meno senso)». A difesa del Tg, anche il sindaco piddino di Predappio, Giorgio Frassineti, secondo cui il servizio aveva lo scopo di sottolineare la solitudine di una città cui nessuno, neanche il Pd, ha mai dato una mano ad arginare certe celebrazioni, ad esempio creando un Centro studi sul fascismo.
Servizio su Predappio, si dimette caporedattore del Tgr Rai Emilia. Pubblicato sabato, 04 maggio 2019 da Corriere.it. Il capo redattore della Tgr Emilia Romagna Antonio Farnè ha rimesso il mandato di Responsabile della Tgr Emilia Romagna, dopo le polemiche scoppiate a seguito del servizio sulla manifestazione di nostalgici a Predappio, andato in onda il 28 aprile nell'edizione delle 19.30. Il Direttore Alessandro Casarin ha accolto questa decisione e ha affidato l'interim della Redazione Emilia Romagna a Ines Maggiolini, già capo redattore Tgr Lombardia, e che attualmente è vice direttrice Tgr con delega sulle redazioni Emilia Romagna e Sardegna oltre che responsabile delle Rubriche Tgr. Nei prossimi giorni l'Azienda avvierà le procedure per l'attivazione del Job Posting per individuare il nuovo responsabile della Redazione Tgr Emilia Romagna. Antonio Farnè resta a disposizione del Direttore Alessandro Casarin per un nuovo incarico nell'ambito della Tgr. Durissima era stata l'Anpi: «Un servizio vergognoso e gravemente lesivo del dettato antifascista della Costituzione repubblicana, due minuti di oltraggio all'Italia", avevano scritto il vice presidente nazionale Gianfranco Pagliarulo e il segretario Andrea Liparoto. E proteste veementi erano arrivate anche dalle sezioni provinciali dei partigiani di Modena e Bologna: "Quello che è andato in onda nel telegiornale dell’Emilia- Romagna non può definirsi informazione, meno che mai può definirsi servizio pubblico. E ciò che è stato trasmesso per ben due volte non può essere una svista" bensì "apologia di fascismo, un reato per la legge».
Fascisti a Predappio: il caporedattore del TgR Emilia Romagna si è dimesso. Antonio Farnè lascia la direzione regionale dopo le polemiche per il servizio Rai andato in onda domenica 28 aprile senza contraddittorio sulla commemorazione di Mussolini. Al suo posto arriva Ines Maggiolini. L'ad Salini aveva avviato un'indagine interna. L'Anpi era insorta: "Due minuti di oltraggio all'Italia". La Repubblica il 4 maggio 2019. Era già partita la resa dei conti in casa Rai. Ed ora salta il caporedattore del TgR regionale dell'Emilia Romagna dopo il servizio andato in onda domenica 28 aprile nell'edizione delle 19.30, sulla commemorazione di Benito Mussolini avvenuta a Predappio. Antonio Farnè si è dimesso. Al suo posto arriverà Ines Maggiolini. Al capo redattore Tgr Lombardia, attualmente vice direttrice Tgr con delega sulle redazioni Emilia Romagna e Sardegna oltre che responsabile delle Rubriche Tgr, è stato affidato l'interim della redazione Emilia Romagna. Il servizio, realizzato dal giornalista Paolo Pini, era stato contestato da più parti per la mancata presa di distanza, "due minuti di interviste e immagini, con tanto di saluti romani, sulla manifestazione fascista" per dirla con le parole del deputato Pd Michele Anzaldi, segretario della commissione di Vigilanza Raiche per primo aveva sollevato il caso e usato parole durissime: "apologia del fascismo". Immediatamente la direzione della Tgr, con il direttore Alessandro Casarin, aveva preso le distanze dal servizio e sul caso era interventuo l'ad Rai Fabrizio Salini aprendo una indagine interna. Durissima era stata l'Anpi: "Un servizio vergognoso e gravemente lesivo del dettato antifascista della Costituzione repubblicana, due minuti di oltraggio all'Italia", avevano scritto il vice presidente nazionale Gianfranco Pagliarulo e il segretario Andrea Liparoto. E proteste veementi erano arrivate anche dalle sezioni provinciali dei partigiani di Modena e Bologna: "Quello che è andato in onda nel telegiornale dell’Emilia- Romagna non può definirsi informazione, meno che mai può definirsi servizio pubblico. E ciò che è stato trasmesso per ben due volte non può essere una svista" bensì "apologia di fascismo, un reato per la legge". Il servizio finito sotto accusa era stato messo in onda su autorizzazione del caporedattore. Antonio Farnè, ex presidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna, ha dunque rimesso il mandato e - si legge in una nota della Rai - il direttore Alessandro Casarin ha accolto questa decisione. "Nei prossimi giorni l'azienda avvierà le procedure per l'attivazione del Job Posting per individuare il nuovo responsabile della redazione Tgr Emilia Romagna". Antonio Farnè, in Rai da oltre vent'anni, era stato nominato caporedattore del Tgr Emilia Romagna a marzo 2017. Il suo destino ora? Resta a disposizione del direttore Alessandro Casarin per un nuovo incarico nell'ambito della Tgr.Nel frattempo si preparano le grandi manovre per la sua successione. Così scaldano i muscoli Ivan Epicoco, già grande rivale dell’attuale caporedattore, e Gabriele Pasini. Di loro si parla dopo il ritiro dalle competizioni per il vertice di un altro dei nomi storici della Rai bolognese, come Filippo Vendemmiati, il quale su Facebook aveva usato toni durissimi a commento del servizio di Predappio: "Vergogna".
Enrico Mentana e lo "scandalo Tg3": "Perché il servizio su Mussolini da Predappio va bene". Pd devastato, scrive il 29 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Un servizio del Tg3 Emilia Romagna sulla commemorazione di Benito Mussolinia Predappio diventa un caso a viale Mazzini. Si ribella il cdr, si dissocia il direttore del Tg Regione Alessandro Casarin, i retroscena descrivono l'ad Fabrizio Salini "furioso", con richiesta di "relazione precisa e puntuale" su chi ha autorizzato la messa in onda del servizio (responsabilità individuate poi nel caporedattore). Soprattutto, è il Pd a gridare ovviamente allo scandalo, con l'ineffabile Michele Anzaldi, senatore e membro della Commissione di Vigilanza, a gridare all'"apologia di fascismo". Un po' a sorpresa, però, è Enrico Mentana, direttore del TgLa7, a spezzare una lancia nei confronti dei colleghi: "Si sta molto discutendo per un servizio andato in onda in un tg Rai sul raduno di Predappio nell'anniversario della morte di Mussolini. Qui - scrive su Facebook il giornalista - sono di un'opinione diversa rispetto alla maggior parte delle voci che ho sentito. Credo infatti che un reportage, anche breve, debba documentare quel che sta avvenendo, senza il dovere di interventi riequilibratori (che nel caso avrebbero avuto ancor meno senso)". E tanti saluti a chi, nel nome dell'antifascismo più retorico, è disposto a chiudere bocca e pure occhi.
Mussolini: «Io bloccata per la foto sulla tomba a Predappio». Pubblicato lunedì, 29 aprile 2019 da Silvia Morosi su Corriere.it. L’account Instagram di Alessandra Mussolini è stato disattivato. La denuncia arriva dalla stessa europarlamentare, attraverso il proprio profilo Facebook, dove ha gridato alla «censura». «Mi è stata notificata la disabilitazione del profilo Instagram dopo la pubblicazione delle fotografie fatte sulla tomba della mia famiglia, a Predappio», ha scritto Mussolini. «Questa vera e propria discriminazione mi offende non tanto sul piano politico (in un momento importante della campagna elettorale mi viene impedito l’utilizzo dei social), ma soprattutto dal punto di vista personale», continua il post. La nipote di Benito Mussolini conclude il post sostenendo che «questo è il grado di democrazia e di libertà che viene garantita alle persone perbene: quelle che insultano, minacciano, inveiscono ogni giorno coperte dall’anonimato vengono invece coperte e tutelate. Ovviamente non mi fermeranno né ora nè mai!». Mussolini era stata al centro delle polemiche anche per lo scontro social di qualche giorno fa con Jim Carrey, scoppiato a causa di un disegno pubblicato dall'attore canadese nel quale si vedevano il Duce e Claretta Petacci appesi alla tettoia di piazzale Loreto a Milano. «Se vuole vederla in un altro modo, può sempre capovolgere la vignetta e vedere suo nonno che salta di gioia o che fa l'appello», aveva scritto l'attore, replicando al «bastardo» twittato dalla Mussolini. Solo un mese fa, il pronipote del Duce, Caio Giulio Cesare Mussolini, era stato oscurato su Facebook e aveva attaccato: «Discriminato per il mio cognome». In un'intervista al Corriere della Sera aveva detto: «Io, terzo Mussolini in politica: Dio, patria e famiglia, ma non sono fascista».
Alessandra Mussolini, vergogna infinita: "Muori, puttana. Appendiamo anche te". Orrore osceno: chi è la bestia, scrive il 29 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Lei, Alessandra Mussolini, si ritrova con il profilo Instagram chiuso per aver condiviso le foto da Predappio, dov'è sepolto nonno Benito Mussolini, il Duce. "Non mi fermeranno", assicura la diretta interessata su Facebook, ma intanto gli altri utenti social la ricoprono di insulti e minacce oscene. "Questa vera e propria discriminazione offende non tanto sul piano politico (in un momento importante della campagna elettorale mi viene impedito l'utilizzo dei social), ma soprattutto dal punto di vista personale", denuncia l'europarlamentare di Forza Italia. "Evidentemente, questo è il grado di democrazia e di libertà che viene garantita alle persone perbene: quelle che insultano, minacciano, inveiscono ogni giorno coperte dall'anonimato vengono invece coperte e tutelate. Ovviamente non mi fermeranno né ora né mai". E giù con l'elenco dei commenti vergognosi che i più "progressisti" e "democratici" del lotto, eminenti "antifascisti", le hanno dedicato: "Troia del mio zerbino", "A testa in giù, puttana", "Ma muori anche tu puttanona", "Prima o poi appendiamo pure te", giusto per limitarsi ai più cordiali e civili. "Che ne dite di queste belle personcine?", chiede ai suoi followers la Mussolini: "Aspetto ora che gli attenti gendarmi dei social e la Polizia Postale facciano il loro lavoro".
L'inutile bufera su Predappio in un Paese senza più cultura. Raduno fascista a Predappio: bufera sul servizio della Rai. Giordano Bruno Guerri, Martedì 30/04/2019 su Il Giornale. «Una visione della storia a senso unico»: così ha detto senza immaginare la bomba che le stava per scoppiare fra le mani - la giornalista del Tg3 dell'Emilia-Romagna introducendo il servizio sulla commemorazione fascista per Mussolini, a Predappio. «E dopo la manifestazione non sono bastate dure prese di posizione, condanne» ecc., ha concluso dopo il servizio. In mezzo, due minuti pieni di braccia alzate e aria fritta, con una signora che non si dichiarava «nostalgica», bensì «fedele», e un rubizzo in camicia nera che sproloquiava sulla «democrazia, un elemento che si divide in due teste, quella anarchica e quella organica». Folclore nero, insomma, lo stesso che si ripete tutti gli anni e che da anni viene puntualmente mandato in onda dai telegiornali di qualsiasi tendenza, come i servizi sulle città spopolate a Ferragosto. Con la differenza che stavolta l'autore del servizio ha commesso l'ingenuità (sospetto più per pigrizia che con intenzione politica) di non condannare con la sua viva voce quanto stava avvenendo: quel «una visione della storia a senso unico» non è parso sufficiente e si sono aperte le cateratte dell'antifascismo rituale. Ora, che esista un revival della nostalgia e del neofascismo è evidente. Lo so bene io, che da settimane vengo insultato e minacciato sul social da fascisti sciolti e organizzati per un mio libro sull'impresa di Fiume, dove sostengo (e dimostro) che non fu un'impresa fascista, e che lo stesso d'Annunzio non era affatto fascista. È che, senza il Vate, il fascismo appare a lorsignori meno «bello», e quindi si risentono a priori manifestando il risentimento a modo loro, voce grossa e randello in mano, anche se - per ora e per fortuna - è soltanto una tastiera. Non fanno paura, come non devono fare paura i trecento né giovani né forti che si sono dati appuntamento a Predappio per un loro rito funerario in cui celebravano, senza rendersene conto, la morte del loro credo. Il fascismo, quel fascismo, è morto e non ha possibilità di risorgere. C'è da preoccuparsi, piuttosto, dell'imbarbarimento verso la crudeltà che investe la nostra società e cui assistiamo ogni giorno, sgomenti ma senza capirne il senso. L'elenco è lungo, ognuno faccia il proprio. Basta citare l'episodio di Manduria, con la «baby gang» giovani delinquenti in gruppo che hanno torturato giorno dopo giorno, un poveruomo indifeso lasciandolo morire legato a una sedia e filmandolo, così, per divertimento. O di quel giovanissimo membro di Casa Pound che, mentre pubblicava slogan in difesa delle donne, ne ha stuprata una una camerata! - dopo averla ubriacata e picchiata. Filmando il tutto, naturalmente. Il vero pericolo è in questa mancanza di cultura, di pietas e di pietà, di senso del dolore altrui e del pudore della propria rozza ferocia.
Ramelli, danni alla scritta-ricordo. Oggi i raduni di estrema destra. Pubblicato lunedì, 29 aprile 2019 da Federico Berni e Cesare Giuzzi su Corriere.it. La notte prima del 44esimo anniversario della morte del militante del Fronte della gioventù Sergio Ramelli è stata imbrattata con vernice rosa la scritta in ricordo del giovane in via Paladini. Un episodio che conferma la fortissima tensione di questi giorni, in cui sono state date alle fiamme le corone commemorative di due partigiani e, una settimana fa, i tifosi della Lazio hanno esposto uno striscione per Mussolini in corso Buenos Aires. E stasera andrà in scena la doppia manifestazione, da un lato quella di estrema destra (in parte vietata dalla prefettura), dall’altra il presidio dei gruppi antifascisti. Tutto è avvenuto alle 3.31 di notte, quando una volante di passaggio ha notato la vernice rosa sul plexiglass che ricopre la scritta «Ciao Sergio» in via Paladini. Sul posto c’era già un addetto Amsa di passaggio, impegnato in quel momento nelle pulizie, che aveva notato il danneggiamento pochi minuti prima. La lastra protettiva è stata smontata e ripulita, la vernice ha in parte imbrattato il marciapiedi. Sul caso indaga la Digos. «Io ricordo un ragazzo massacrato a sprangate per un’idea e la violenza da qualunque parte arrivi non è mai la soluzione», ha detto il ministro dell’Interno Matteo Salvini, in prefettura a Milano, ricordando la morte di Ramelli. «Mi auguro che tutto venga fatto nel rispetto della legge della decenza e del buongusto», ha aggiunto Salvini, facendo riferimento alla commemorazione in programma per questa sera, che ogni anno porta con sé una scia di polemiche per la presenza di militanti neofascisti. «Penso che nessuno si offenda perché viene commemorato un giovane ucciso a sprangate perché aveva idee diverse da altri», ha aggiunto Salvini. E se alla manifestazione compariranno striscioni inneggianti al fascismo, come quello esposto la scorsa settimana dai tifosi della Lazio in corso Buenos Aires, o verranno fatti saluti romani «ci sono le forze dell’ordine, ci penseranno loro», ha concluso il vicepremier.
La polizia carica, un ferito. Ma sono in tantissimi a Milano per onorare Sergio Ramelli. Il Secolo D'Italia lunedì 29 aprile 2019. In tanti hanno risposto a Milano all’appello per onorare Sergio Ramelli, assassinato dall’odio comunista 44 anni orsono. A piazzale Susa si è radunata una folla davvero grande, anche se la prefettura ha fatto di tutto per dissuadere la partecipazione. Persino la provocazione dell’autorizzazione di un corteo antifascista che sembrava la rivendicazione di quel delitto compiuto con viltà e violenza inaudita.
Una carica irresponsabile. Ma la comunità che si è radunata per Ramelli è stata molto più composta di quel che speravano avversari e stampa. C’è stata anche una irresponsabile carica di polizia, con un ferito tra i manifestanti, per impedire la partenza del corte. Partecipazione di migliaia di militanti di destra, richiamati da Cpi, Fn, Lealtà e Azione, e dall’appello di 60 parlamentari a partire da Fdi. La manifestazione si svolge civilmente. E’ stata peraltro, da sinistra, una giornata di continue provocazioni contro la memoria di Ramelli. La notte scorsa la lastra per ricordarlo con la scritta ‘Ciao Sergio’ è stata coperta di vernice rosa. A notarlo una Volante della polizia, che passando intorno alle 3.30 in via Paladini, dove abitava, ha visto l’ennesimo atto di vandalismo nel clima di tensione che si respira in questi giorni in città. Ma non è stato l’unico gesto visivo che inneggia alla violenza che uccise nel 1975. La scritta “100 Ramelli” vergata in rosso e seguita da un simbolo anarchico è apparsa in viale Gran Sasso. Che è nel quartiere di Città Studi adiacente a quello dell’Ortica, zona operaia, dove il giovane fu aggredito a morte. Poi le provocazioni anche sul web, denunciate da esponenti di Fratelli d’Italia, i consiglieri alla regione Lazio e al Campidoglio, Chiara Colosimo e Andrea De Priamo, e dal parlamentare Federico Mollicone. “Inorriditi ci chiediamo come mai non sia stata oscurata dai vertici di Facebook l’immagine postata dal sedicente gruppuscolo Azione Antifascista Roma Est: la pesante chiave inglese Hazel 36 utilizzando anche l’hashtag ‘Ramelli’, lugubre strumento di morte utilizzata negli anni di piombo dai gruppettari dell’ultrasinistra per sprangare i militanti di destra”. Così la Colosimo e De Priamo.
Nostalgici a sinistra. Poi, anche Mollicone: “Non sono bastati alcuni giornalisti “distratti” che nei giorni scorsi hanno riportato la morte di Ramelli come causata dagli scontri con militanti di Avanguardia Operaia. Ora i nuovi antifascisti dimostrano di rivendicare i tempi bui in cui “uccidere un fascista non è reato”. L’infamia di questi nostalgici degli anni di piombo arriva a richiamare l’aggressione antifascista con gli hashtag che corredano la foto che ritrae una chiave inglese: #ramelli o #hazet36. Io personalmente ho provveduto a segnalare la vergognosa foto: ora tocca al ministro dell’Interno e alla Polizia postale intervenire per eliminare l’account e rintracciare i responsabili”.
Delinquenti comunisti, Sergio Ramelli vivrà sempre nelle nostre battaglie. Francesco Storace, martedì 30 aprile 2019 su Il Secolo D'Italia. Non riusciranno mai a cancellare dalla nostra memoria il ricordo di Sergio Ramelli. Lui vive mentre loro si macerano nell’odio. Loro, uguali a quei delinquenti che lo aggredirono in gruppo, con viltà e chiavi inglesi in mano. Lo massacrarono, fini’ in coma e 47 giorni dopo Nostro Signore se lo portò in Paradiso. E ieri i loro tardoemuli cercavano il bis. Con le loro urla sguaiate. Ai suoi ideali puliti – i nostri – gridavano allora che “uccidere un fascista non è reato”. Ora, come svillaneggiava un delirante comunicato della sinistra rifondarola, fanno anche peggio se possibile. E scrivono vergognosamente che “i morti sono stati vivi e che la loro fine, anche se tragica, non cancella scelte e militanza”. È la firma, 44 anni dopo, su un delitto spietato. Costoro fanno i rivoluzionari ma pretendono coccole dal potere, anche quello attuale. Che vergogna, prefetto di Milano per quel corteo vietato fino all’ultimo a chi voleva onorare Sergio, con tanto di manganellata a un manifestante. E che pena per la pagliacciata consentita invece ai cosiddetti antifascisti che hanno potuto sfilare con i loro toni truculenti.
Un prefetto che non capisce. C’è Salvini agli Interni, ma nemmeno lui riesce a garantire un corteo alla comunità che subì quell’infamia. Hanno dovuto forzare per ottenere un diritto sacrosanto. Eppure gli anni di piombo, le aggressioni, i pedinamenti – come ha significativamente ricordato ieri Fabio Rampelli – erano triste pane quotidiano per ciascuno di noi. Ma la prefettura di Milano ha finto di non capirlo. Grazie a Ignazio La Russa per quel video a ricordo di Sergio Ramelli e per aver affermato una verità inequivocabile. Fu una aggressione vigliacca, altro che scontri tra estremisti. E saranno denunciati i giornalisti che hanno scritto questa infamia contro chi non si può più difendere. Saranno i quattro autori del libro “Sergio Ramelli una storia che fa ancora paura” ad agire anzitutto contro Il Corriere della Sera e anche contro Repubblica. Grazie a Guido Giraudo, Andrea Arbizzoni, Francesco Grillo, Paolo Severgnini. Anche così si difende la memoria di Sergio. Denunciando la violazione dell’art. 656 del codice penale per la “pubblicazione e diffusione di notizie false, esagerate o tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico” che si somma alla chiara diffamazione attuata con gli articoli dei due giornali citati e altri ancora. Una denuncia che peraltro appare necessaria stante l’assenza di una doverosa smentita e di un chiaro riconoscimento della figura immacolata di Ramelli.
Patetici antifa’. Noi, ancora oggi, non riusciamo a non indignarci per l’oltraggio continuo alla memoria di Sergio. Sembra di rivivere quegli anni, con i teppisti rossi che ci colpivano e i giornalisti che li proteggevano. Non ne avevano diritto allora e men che meno oggi. Ecco perché ieri sera c’era comunque tanta militanza a commemorare Sergio Ramelli. Perché nessuno riuscirà a farci dimenticare il suo volto pulito e il suo atroce martirio. Se 44 anni dopo, una comunità ne onora il sacrificio è perché Egli era molto più degno dei suoi carnefici. E fanno davvero pena quei ridicoli e patetici antifa’ che non si rendono conto – nei loro cervelletti malati – di quanto danno provocano alla democrazia italiana. Criminali ieri, mentecatti infantili oggi. Quei pugni chiusi dateveli in testa e magari rinsavirete.
La Difesa indaga sul generale che il 25 aprile lasciò la festa. Le offese dell'Anpi al generale di brigata Paolo Riccò. Chiara Giannini, Venerdì 03/05/2019, su Il Giornale. La Difesa ha aperto un'istruttoria formale nei confronti del generale di brigata dell'Esercito Paolo Riccò, che lo scorso 25 aprile abbandonò a Viterbo la cerimonia per le celebrazioni in occasione della festa della Liberazione, in seguito agli attacchi del presidente locale dell'Anpi Roberto Mezzetti. Da quanto si apprende, la richiesta sarebbe partita direttamente dal gabinetto del ministro della Difesa, Elisabetta Trenta. Sarebbero stati i suoi collaboratori più stretti a suggerire di far partire l'iter per verificare se il generale dell'Aviazione dell'Esercito (Aves) sia stato manchevole o meno nella sua condotta. Qualora si dovesse stabilire che abbia agito in maniera non consona, potrebbe rischiare un provvedimento disciplinare. Non si capisce il perché l'area pentastellata del governo continui a scagliarsi contro le forze armate, anziché difendere quelle divise che operano per la tutela del buon nome dei militari. Il gesto di Riccò aveva attirato gli elogi di moltissimi italiani. Come si ricorderà Mezzetti aveva lanciato accuse pesanti ai soldati italiani, accusandoli anche di aver ucciso civili in Afghanistan, fatto non comprovato da alcuna conferma. Peraltro, esiste un precedente. Anni fa l'ex comandante del Coi, generale Marco Bertolini, fece la stessa cosa durante un convegno sui caduti dell'Afghanistan, quando qualcuno lanciò illazioni contro i suoi militari. Ma nessuno pensò a iter di alcun tipo. La decisione di apertura di un'istruttoria ha generato polemiche nel settore. Molte le critiche al ministro Trenta, che per molti esponenti delle forze armate dovrebbe pensare più a difendere i suoi uomini e le sue donne che mostrare «quel lato pacifista che non piace a nessuno e offende le divise». Il rappresentante del Cocer Interforze, maresciallo Marco Cicala, chiarisce a tal proposito: «Il generale Riccò, se consideriamo i fatti, non ha violato né regolamenti né etica militare, anzi, il suo stile umile e di difesa delle forze armate è in piena coerenza con un giuramento prestato decine di anni fa. Non solo - conclude il maresciallo - lo dimostra la sua carriera, ma anche questi esempi che fanno molto bene non solamente alla coesione interna alla Difesa ma anche al popolo italiano».
· “Bella ciao” canzone di tutti gli italiani?
Rovinano pure la festa di Natale con la pretesa di cantare la solita Bella ciao sotto l’Albero. Francesco Storace giovedì 12 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Cercate, cercate pure, ma Bella Ciao non la trovate tra i Canti di Natale. Perché è una pagliacciata mischiare sacro e profano. Eppure succede e stanno (quasi) tutti zitti. Come se si dovesse fare politica persino sotto l’Albero. Il silenzio sarebbe continuato se non esistesse la rete, con i suoi social, le sue notizie, anche se confinata in un ambito locale. Ma le vergogne si scoperchiano perché è inaccettabile turlupinare la buona fede delle persone. La “location” per l’esibizione della canzone tanta cara alla sinistra estremista – inclusa quella che governa l’Europa – è un comune in provincia di Foggia, Torremaggiore. Il 7 dicembre il sindaco Emilio Di Pumpo, accende l’Albero con tutte le sue luci. Arrivano i cantori – si fanno chiamare Street Band Vagaband, nomen omen… – e alla fine della cerimonia si canta l’immancabile Bella Ciao di questi tempi sardinati. Antifascismo da operetta. Da piccoli noi, “quelli di prima”, amavamo Tu scendi dalle stelle oppure Jingle bells. E certo non la buttavamo in politica. Ma nell’Italia blasfema c’è spazio per rovinare persino il Natale, una storia bimillenaria, il cammino dell’umanità. Senza senso del ridicolo. L’ex sindaco Lino Monteleone ha usato parole durissime nei confronti di un’iniziativa quantomeno sfrontata: “Ciò che mi stupisce è che si usi anche la banda presente all’evento facendole intonare ‘Bella ciao’: non mi risulta che sia un canto natalizio. Del resto, sono molti ormai i segnali di rigurgito ideologico, un atteggiamento frequente e ingiustificato, anche di rimozione della verità”. E si potrebbe anche aggiungere che se nel nostro paese si arriva a intonare Bella Ciao pure in Chiesa come è accaduto in Toscana, ormai la sfrontatezza ha oltrepassato ogni limite immaginabile. Ed è un peccato anche perché, nel caso del comune pugliese, si è voluto appiccicare un bollo ideologico ad un’iniziativa che aveva visto la partecipazione attiva di realtà sociali, a partire dall’Anfass e da altri soggetti locali. E’ stata quella canzone inutile, fuori luogo, dannosa, a far esplodere la polemica. Perché almeno durante le feste, le feste sante, c’è chi vorrebbe essere lasciato in pace. Invece no. La banda musicale rivendica il gesto: “E’ stato suonato il ritornello della canzone Bella ciao, dopo la richiesta di alcuni presenti tra il pubblico. Noi riteniamo di essere strumenti attraverso il quale divulgare musica e non potremmo farlo senza l’ascolto del nostro pubblico”. Chissà se qualcun altro dal pubblico avesse chiesto loro di intonare Faccetta Nera come avrebbero reagito… Ovviamente, applausi al signor sindaco dai suoi compagni. Ecco un commento di una signora dalla pagina Facebook del Peppone di Torremaggiore: “Una come me che è cresciuta a pane e ‘Bella ciao’ non ci vede niente di male che sia stata suonata in occasione delle feste natalizie perché appartiene al colore politico della nostra amministrazione e a quanto pare so che invece è stata molto apprezzata dalla gente presente”. Che facciamo? Che cosa merita un commento del genere? Sei cresciuta a pane e “Bella ciao”, cara compagna? Evidentemente ti ha fatto male se non riesci a distinguere una canzone di parte con una festa sacra. Sono quelli che pensano di potersi permettere di tutto. Non è democrazia, è anarchia.
Ue, Gentiloni e i commissari socialisti cantano Bella Ciao in aula, ira Meloni. Pubblicato mercoledì, 04 dicembre 2019 da Alessandro Sala per corriere.it il 4 dicembre 2019. Hanno intonato «Bella Ciao», il canto partigiano per antonomasia (sulle cui origini vi sono però parecchie discordanze), all’interno dell’aula dell’Europarlamento di Strasburgo, dopo il via libera definitivo alla Commissione Ue guidata da Ursula von der Leyen. E lo hanno fatto in perfetto italiano, segno che la conoscevano bene. Sette dei 9 nuovi commissari di area socialista, tra cui il titolare degli Affari Economici Paolo Gentiloni, hanno pensato di festeggiare così l’avvio della nuova esperienza di governo, con un momento goliardico durante una foto-opportunity limitata agli esponenti del loro gruppo, dopo quella di rito con l’intera squadra. C’è grande partecipazione al coro e tra i più entusiasti si notano l’olandese Frans Timmermans, che della von der Leyen è il vicepresidente esecutivo con delega al Green Deal Europeo, ovvero le macropolitiche ambientali; la maltese Helen Dalli, commissaria all’Uguaglianza; e la portoghese Elisa Ferreira, commissaria per la Coesione e le riforme. Nessuno dei sette si sottrae al battimano ritmato che accompagna la piccola esibizione.
Meloni indignata. Ma un video registrato nell’occasione con un telefonino ha iniziato a circolare anche al di fuori delle chat del gruppo e oggi è stato diffuso su Facebook dalla presidente di Fratelli d’italia, Giorgia Meloni, sotto l’eloquente titolo di «Unione sovietica europea». « Solo io reputo scandaloso questo ridicolo teatrino da parte delle più alte istituzioni europee — si chiede l’esponente della destra italiana —? Non hanno nulla di più importante di cui occuparsi?». Anche il leader leghista Matteo Salvini è intervenuto sul coro dei commissari: «Complimenti a Pd e 5 Stelle per la scelta di Gentiloni come rappresentante dell’Italia in Europa — scrive l’ex vicepremier su Twitter —. Al prossimo giro canteranno anche Bandiera Rossa, poi Sanremo e tournée internazionale».
I precedenti. Anche se le origini partigiane di «Bella Ciao» non sono certe, e non è neppure certo che si tratti un brano italiano, nella politica italiana questo canto viene spesso evocato come canto di resistenza. Il soggetto del testo, del resto, lo è. Lo hanno rispolverato le «sardine» che nelle ultime settimane hanno riempito le piazze in nome della resistenza civile (per esempio qui durante il raduno di Genova); lo ha cantato nei giorni scori in chiesa di Vicofano, nel Pistoiese, don Massimo Biancalani, suscitando la rabbia di Salvini; lo aveva intonato addirittura Michele Santoro in diretta tv nel 2002 in polemica con l’allora premier Silvio Berlusconi. E risuona regolarmente ad ogni celebrazione del 25 aprile e nelle manifestazioni della sinistra. Nulla di strano, insomma, che dei parlamentari di sinistra la considerino un proprio simbolo. Ma il fatto che siano commissari, quindi rappresentanti istituzionali e non esponenti di parte, e che il canto sia avvenuto all’interno dell’Aula con tanto di coreografia ufficiale della Ue ha mandato su tutte le furie Giorgia Meloni.
«Noi Popolari siamo più seri». Ma non solo lei. Anche l’europarlamentare Fulvio Martusciello (Forza Italia), dal canto suo, ha scritto in una nota:«Ma pensassero a lavorare che sono pagati per questo. Bonino, Frattini o Tajani che pure sono stati commissari europei non lo avrebbero mai fatto. Non è un caso che i commissari che cantano sono tutti socialisti. Noi popolari siamo seri e una cretinaggine del genere non l’avremmo mai fatta».
I commissari europei cantano “Bella Ciao”, Meloni: “Teatrino ridicolo e scandaloso”. Alberto Consoli mercoledì 4 dicembre 2019 su Il Secolo d'Italia. “Commissari europei intonano “Bella Ciao”. Solo io reputo scandaloso questo ridicolo teatrino da parte delle più alte istituzioni europee? Non hanno nulla di più importante di cui occuparsi?”. Ha ragione Giorgia Meloni: un teatrino deprimente che sta facendo il giro del web. “Siamo alla tragica fine dell’Europa”, commentano i più, ossia gli utenti social che stanno condividendo questa scena molto poco edificante. Sul sito di Giorgia Meloni, la prima a diffondere dal suo profilo Fb il video, non ci sono solo commenti riferibili a una condivisione politica. Moltissimi commentatori si scandalizzino per ben altro. L’Europa ha grandi problemi da dibattere: la crisi economica, il ruolo che la Ue vorrà darsi, stratta tra Usa, Cina e Russia. Aziende in crisi, L’economia che arranca. Eppure gli “autorevoli commissari”, trovano il tempo per pagliacciate del genere. Ma come – è il senso dei commenti- intendono inculcarci l’idea che senza Europa saremmo dannati, persi, senza una bussola politica. Poi perdono tempo a “cazzeggiare”? Il video è pubblicato dai social di FdI con un titolo ironico: “Unione sovietica europea”. Ironia a parte, l’indignazione resta. L’inno “Bella ciao” ormai viene usato come una clava un po’ da tutti: dalle sardine, da alcuni preti, dalle piazze di sinistra, dai preti rossi il primo giorno di scuola. Lo strimpella il ministro dell’Economia Gualtieri. Bella Ciao, a dispetto delle sue origini, è usato come slogan-contro: ogni volta che c’è da vocare le paure fasciste e sovraniste. Follia. Tristissima scena quella dei commissari Ue, che osserviamo, per fortuna per pochi minuti. Tristissima Europa.
Marco Rizzo, Partito Comunista: “Commissari Ue cantano un’idea e sono gli stessi che la distruggono”. Rossella Grasso il 4 Dicembre 2019 su Il Riformista. In pochi minuti è diventato virale un video che vede i Commissari del gruppo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici (S&D) mentre cantano “Bella Ciao” al Parlamento europeo dopo aver ottenuto il via libera dell’assemblea. Un video vecchio di una settimana che ha indignato Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista. “Adesso basta, non se ne può più – ha tuonato sulla sua pagina Facebook – Anche i commissari UE cantano ‘Bella Ciao’. Sono quelli che equiparano il comunismo al nazismo. Questa canzone è violentata ovunque. I Partigiani si rivoltano nella tomba. Vergogna! Fuori da UE, euro e Nato!” Se non stupisce che Meloni e Salvini fossero contrari a una simile esternazione dal parte del gruppo dei neocommissari socialisti, la posizione del segretario generale è particolare e gli abbiamo chiesto una spiegazione: “Vediamo i soggetti e l’oggetto – ha detto Rizzo – I soggetti sono il potere costituito dell’Unione Europea, la gabbia europea che attanaglia i popoli europei, secondo il nostro giudizio politico, sono gli uomini che consentono al fondo monetario internazionale e alla Banca Centrale europea di esercitare al meglio il loro potere. L’oggetto è una canzone che ha rappresentato le istanze di cambiamento, di battaglia, in cui sono morte decine di migliaia di persone tra cui in maggioranza comunisti. Possono rivoltarsi nella tomba i Partigiani a vedere che questi signori cantano la loro canzone? Purtroppo nel mainstream del capitalismo globalizzato "Bella ciao" la cantano tutti. E a me dà fastidio”. Per Rizzo si tratta di un vero e proprio ossimoro, l’esatto contrario del significato profondo di quella canzone. “Possiamo far cantare un’idea da quelli che quell’idea la distruggono? È la modalità con cui si crea il consenso e si crea anche il dissenso in questa società. Stessa cosa succede per chi inquina il mondo che si pone la questione dell’ambiente. È buffo ma oggi è così. Il 70% dell’inquinamento del mondo è fatto da 100 multinazionali e tra queste c’è chi impone la discussione sulla green economy. Come dire, "chiagnono e fottono"? Io sono contrario”. L’indignazione per il gesto in Parlamento europeo arriva anche da Salvini che ha twittato “Al prossimo giro canteranno anche Bandiera Rossa, poi Sanremo e tournee internazionale!” e Meloni che ha definito “scandaloso” l’accaduto. Per una volta le estremità di destra e sinistra sono tutti d’accordo? “Per definizione non sono mai d’accordo con la Meloni – ha detto – Penso di essere un po’ più titolato di Salvini e Meloni a parlare di Resistenza e partigiani anche perché gli antenati della Meloni durante la Resistenza stavano dall’altra parte“. “Bella Ciao” è una delle canzoni più cantate in tutti i contesti, anche non politici, come è accaduto per la popolare serie di Netflix ‘Casa de papel’ tanto da diventare per molti identificativa della serie tv, tralasciando il suo vero significato (e YouTube ne è testimone). La cantano anche le sardine ogni volta che scendono in piazza e per Rizzo anche questo è un abuso decontestualizzato. “Ormai tutti la cantano – ha detto il segretario comunista – Ma allo stesso modo mi sono incazzato quando ho visto il Che Guevara usato da Casapound. C’è un limite a tutto. ‘Bella Ciao’ la cantano tutti addirittura i padroni dell’Europa. È una roba folle”. Il segretario del partito comunista orgogliosamente ammette di non aver mai indossato una maglietta con il Che stampato su. Perché come ‘Bella Ciao’ “il Che è qualcosa che ti resta nel cuore – ha continuato – è l’idea del grande rivoluzionario. Questa società riesce persino a commercializzare un grande sentimento. È una società che fa schifo”. Rizzo non ci sta a credere che le sardine siano un movimento rivoluzionario. “La rivoluzione significa cambio di sistema – spiega – non mi pare che ci sia né tra le sardine, né tra il popolo viola né tra i 5stelle, né da Podemos né da Syriza una modalità di intercettare il dissenso in queste società contemporanee, nessuna di loro ha messo in discussione il sistema basato sull’economia capitalistica, nessuno parla di economia socialista, di cambio del sistema. Questa è la rotta su cui interpretare quello che accade ed è la differenza tra ribellione e rivoluzione”. Il segretario comunista guarda con sospetto a quel movimento che dice essere nato “guarda caso” a Bologna, dove tra poco ci saranno le amministrative che avranno un riflesso nazionale. Ragionando di partigiani, simboli e Resistenza non può non tornare alla mente Nilde Iotti scomparsa 20 anni fa proprio il 4 dicembre. Marco Rizzo l’ha conosciuta ed è convinto che siano politici come lei ad aver fatto la differenza. Lo afferma con amarezza perché “oggi politici come lei non ce ne sono più – ha detto – È stata una donna che ha partecipato all’emancipazione femminile in Italia, ma tutta la storia delle donne è legata all’idea del riscatto e del cambiamento della società. Qual è il primo posto al mondo in cui le donne hanno votato? L’Unione Sovietica. Dove per prime le donne hanno avuto i diritti di maternità, il primo ministro donna, tutti i mestieri ad alto livello sono stati anche per le donne dall’ingegnere all’astronauta, il diritto all’aborto e al divorzio? Sempre l’Unione Sovietica. Nilde Iotti ha portato tutto questo in Italia con un livello di dignità politica altissimo. Se pensiamo a Nilde Iotti e a cos’è oggi la politica, beh insomma…anche sul versante femminile lo scenario è disarmante”.
La storia di "Bella Ciao", l’inno che nacque dopo la Resistenza. Roberta Caiano su Il Riformista il 5 Dicembre 2019. Nell’ultimo periodo la famosa canzone “Bella Ciao” è diventata un successo mainstream cantata ovunque. Senza dubbio la sua risonanza tra un pubblico giovanile la si deve alla serie Tv spagnola La casa di Carta, che continua a cavalcare gli schermi arrivando alla sua terza stagione. Andata in onda per la prima volta su Netflix nel 2017, continua ad avere un enorme successo mondiale e con essa la canzone Bella Ciao. Ma in questi ultimi mesi la canzone è stata adottata anche come inno dalle migliaia di giovani sardine che stanno affollando le piazze di moltissime città italiane a protestare contro Matteo Salvini. E’ notizia fresca, invece, quella che riguarda i Commissari del gruppo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici, i quali dopo aver ottenuto il via libera dell’assemblea, hanno intonato Bella Ciao al Parlamento europeo. Il video è diventato così virale da scatenare polemiche e commenti di indignazione e sconcerto. Oltre a Giorgia Meloni e Salvini, che si sono subito affrettati a chiosare la notizia su twitter, si è espresso in merito anche il segretario generale del Partito Comunista, Marco Rizzo. Il politico ha dichiarato in un’intervista che “la canzone ha rappresentato le istanze di un cambiamento di battaglia in cui sono morte decine di persone, tra cui in maggioranza partigiani comunisti italiani.” La maggior parte delle volte Bella Ciao è considerata la canzone intonata dai partigiani mentre liberavano l’Italia. Tutt’oggi viene usata come inno antiautoritario non soltanto in Italia ma in tante piazze del mondo. In realtà non molti sanno che questa è una leggenda che la tradizione ha tramandato sino ai nostri giorni. Infatti Bella Ciao non esisteva durante la Resistenza e nessuno la cantava, anche se alcuni studiosi sostengono che in alcune zone di Reggio Emilia e del Modenese fosse in realtà già nota. Tra le bande partigiane il canto più diffuso era Fischia il vento, nato nel 1943 dalla cadenza sovietica . Bella Ciao nella versione che conosciamo, debutterà ufficialmente a Praga nel 1947 durante il "Festival mondiale della gioventù democratica" e di lì conoscerà una fortuna sempre maggiore, anche al di là dei confini nazionali. Infatti la sua notorietà internazionale si diffuse alla fine degli anni ’40 e agli inizi degli anni ’50 in occasione dei Festival che oltre a Praga, si tennero anche a Berlino e Vienna dove fu cantata dai delegati italiani e in seguito tradotta in varie altre lingue. Questo canto deve la sua identificazione come simbolo della Resistenza italiana al testo, in quanto connota la canzone esclusivamente come inno contro “l’invasore”.
Bella Ciao, hit non di lotta ma di resistenza. Paolo Delgado il 6 Dicembre 2019 su Il Dubbio. Le incerte radici della canzone simbolo. La incise Yves Montand, Daffini la cantò al festival dei due mondi di Pesaro: rappresentava la propaganda comunista. Poi i Dc la cantarono a Zaccagnini. Al funerale di Giorgio Bocca, grande firma ed ex partigiano, i dolenti scelsero di salutarlo intonando Bella Ciao. Decisione discutibile, avendo Bocca assicurato che i partigiani non l’avevano mai cantata. Al funerale di Giorgio Bocca, grande firma ed ex partigiano, i dolenti scelsero di salutarlo intonando Bella Ciao. Decisione discutibile, essendo Bocca uno di quelli che avevano assicurato che il canto destinato a diventare una sorta di nuova Internazionale, ritinteggiata in rosa pallido, i partigiani non l’avevano mai cantata. Aveva ragione lui o Cesare Bermani, autore del primo studio sulla canzone- simbolo La vera storia di "Bella Ciao", secondo cui invece qualcuno la cantava, comunque senza grande diffusione. E’ un fatto che i canzonieri della Resistenza usciti quando l’odore della polvere da sparo era ancora acre, nella seconda metà degli anni ‘ 40 e nei primissimi ‘ 50, proprio non la nominano e anche l’ipotesi di Bermani, secondo cui sarebbe stata l’inno della Brigata Maiella, sembra poco probabile: il figlio del fondatore della Brigata, Ettore Troilo, cita in un suo libro le canzoni delle Brigata e dell’ "inno" non c’è traccia. Fonti beninformate giurano che la canzone fu presentata alla rassegna di Praga sulle "Canzoni mondiali per la Gioventù e per la Pace", una delle tipiche iniziative Cominform dell’epoca, e che, complice l’orecchiabilità, il motivo decollò lì. Come in tutti i pezzi folk, rintracciare l’origine è un’impresa. Carlo Pestelli, autore a sua volta di Bella ciao. La canzone della libertà, parla di canzone- gomitolo, nella quale si intrecciano, anche in questo caso come spesso capita nelle canzoni folk, ‘ si intrecciano molti fili di vari colori’. Il gomitolo finale arriva al grande pubblico con l’incisione di Yves Montand, allora stella mondiale francese di origine italiana e comunista. L’anno dopo il Nuovo Canzoniere Italiano la presenta al Festival dei Due Mondi di Pesaro, intonata da Giovanna Daffini, e fioccano le polemiche sulla propaganda comunista al Festival. I commentatori vicini alla Dc si scompongono ma poco più di 10 anni dopo, quando Benigno Zaccagnini, l’ "onesto Zac", rappresentante eminente dei morotei viene eletto segretario della Dc i delegati salutano il sedicente nuovo corso proprio col già vituperato motivo.
Oggi la cantano dappertutto. A New York, a Occupy Wall Street, e a Hong Kong, In Cile come in Iraq, a Parigi come a Roma e ieri anche sotto la porta di Brandeburgo. Ci mette parecchio di suo la serie Netflix "rivoluzionaria" per eccellenza, La casa di carta. Se la cantano lì, nella fiction più antibanche che sia mai stata trasmessa. Però è difficile credere che Paolo Gentiloni e i rappresentanti del Pse avessero in mente una feroce campagna contro le banche quando, dopo il voto a favore della commissione von der Leyen, hanno dato vita al noto coretto. La fortuna del canto non-partigiano, sostiene qualcuno, si deve proprio all’assenza di tonalità forti. Niente a che vedere con roba come Fischia il vento, che la vernice rossa non gliela si scrostava di dosso nemmeno a provarci per ore. E’ una canzone che poteva andare bene per tutti, fascisti esclusi, e dunque pareva fatta apposta, in Italia, per consentire a quello che si chiamava allora ‘ arco costituzionale’ di festeggiarsi senza troppe tensioni. Ma in fondo come e perché si sia arrivati a questo esempio eminente di ‘ invenzione della tradizione’ conta poco. Meglio chiedersi cosa l’opzione canora transnazionale indica oggi. Bella Ciao, nonostante le apparenze, non è una canzone di lotta. E’ una canzone di resistenza ( con la r minuscola). La può cantare chiunque ritenga di trovarsi alle prese con un potere che opprime, con l’invadenza di una potenza estera, persino con la temuta vittoria elettorale di un partito ritenuto minaccioso. E’ una canzone gentile: la può cantare chi resiste con le bottiglie molotov ma anche chi si affida alla resistenza passiva e persino chi si limita ad assieparsi in una piazza. Se non proprio buona per tutti gli usi, quasi.
Bella Ciao? Sallusti: “Nessun partigiano l’ha mai cantata”. Vaurosenesi.it il 30 aprile 2019. “Bella ciao” canzone di tutti gli italiani? Sallusti: ‘Nessun partigiano l’ha mai cantata’. Per Alessandro Sallusti ‘non c’è traccia di Bella ciao nella Resistenza, introdotta a metà degli anni ‘50 dalla retorica comunista’. A Quarta Repubblica, il talk show condotto da Nicola Porro, in onda tutti i lunedì sera su Rete 4, si discute sul fatto che la canzone Bella Ciao rappresenti o meno tutti gli italiani con Ilaria Bonaccorsi, Vittorio Sgarbi, Alessandro Sallusti, Marco Gervasoni e Vauro. Argomento spinoso e divisivo che, infatti, fa discutere animatamente gli ospiti in studio. La tesi di Porro è che sia diventata una canzone di parte e che, quindi, non è giusto che venga fatta cantare anche a suo figlio a scuola. Di questa stessa idea, ma con sfumature diverse, sono anche il direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti e il critico d’arte Vittorio Sgarbi. Dalla parte opposta della barricata, è proprio il caso di dirlo, si sistema la storica e giornalista, Ilaria Bonaccorsi, mentre il vignettista Vauro Senesi sostiene, come gli altri ma da un punto di vista agli antipodi, che non sia la canzone di tutti perché appartiene solo agli italiani antifascisti.
Ma Bella ciao può essere considerata o no la canzone di tutti gli italiani. È questo il tema di discussione introdotto a Quarta Repubblica da Nicola Porro verso la fine della puntata andata in onda lunedì 29 aprile. Secondo la definizione di Wikipedia, Bella Ciao “è un canto popolare, nato prima della Liberazione, diventato poi celeberrimo dopo la Resistenza perché idealmente associato al movimento partigiano”. Dunque, secondo il conduttore, “chi la canta gli dà un contenuto politico, è diventata una canzone di una parte” che non dovrebbe essere fatta cantare nelle scuole. Una tesi contrastata con veemenza da Ilaria Bonaccorsi, secondo la quale, invece, il canto appartiene a tutti gli italiani perché “è una canzone trovatella che racconta di una reazione ad una oppressione, nel caso specifico la reazione a 20 anni di dittatura nazifascista e alla fine di una guerra tragicamente combattuta accanto ad Hitler. Non è la canzone di una parte, ma degli esseri umani”.
L’affondo di Alessandro Sallusti: ‘Comunisti parte minoritaria della Resistenza’. La pensa naturalmente in maniera opposta Alessandro Sallusti, secondo il quale “vi siete accodati alla narrazione che ci fanno da 70 anni di quelle vicende. In realtà Bella ciao non può essere la canzone di tutti, anche perché è una fake news. Nessun partigiano l’ha mai cantata – sostiene il direttore del berlusconiano Il Giornale – Non c’è traccia di Bella ciao nella Resistenza. È stata introdotta a metà degli anni ‘50 dalla retorica comunista proprio per impossessarsi definitivamente di un fenomeno, quello della Resistenza, di cui il Partito Comunista è stato una parte, tra l’altro anche minoritaria, ma ha cercato ed è riuscito, perché ancora 70 anni dopo noi immaginiamo che i partigiani erano tutti e soltanto comunisti e che cantavano Bella ciao. Non è vera né l’una né l’altra cosa”.
Vauro d’accordo con Sgarbi. A questo punto interviene Vittorio Sgarbi, convinto che Bella ciao “è una bella canzone, ma va rispettato che sia di una parte, perché altrimenti essa perde la sua forza di rottura. Non puoi immaginare La Russa, Berlusconi o Sallusti che la canta, perché è offensivo. Il partigiano monarchico Edgardo Sogno mai l’avrebbe cantata. La caratterizzazione di sinistra, per cui immagino Vauro sia contento, va lasciata a Bella ciao, non possiamo farla diventare cosa di tutti. Se Casapound la canterà sarà un delitto”. Opinione con cui concorda anche Vauro. Il vignettista prima premette che “sarà un miracolo di questa trasmissione, ma è già la terza puntata che vado d’accordo con Sgarbi”. Poi però attacca a testa bassa: “Alla domanda se Bella ciao è la canzone di tutti gli italiani, io rispondo un secco e netto no. È la canzone di tutti gli italiani che si riconoscono nella Costituzione della Repubblica italiana, antifascista e nata dalla Resistenza. L’antifascismo è un valore e anche una discriminante”.
Alessandro Sallusti fa a pezzi Vauro a Quarta Repubblica: "Parlate di partigiani e dimenticate le foibe". Libero Quotidiano 30 Aprile 2019. "Bella ciao è una fake news. Non era la canzone dei partigiani ma è stata introdotta negli anni Cinquanta dalla retorica comunista". Alessandro Sallusti, ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica, su Rete 4, fa a pezzi il vignettista Vauro Senesi che, invece, insiste sulla necessità di insegnare il fascismo nelle scuole anche se il conduttore sottolinea che i bambini non sanno nulla dell'argomento: "L'istruzione è il primo anticorpo contro il fascismo", tuona il vignettista. Ma il direttore de Il Giornale lo massacra: "In quella scuola si sono dimenticati di insegnare le foibe e la strage di Osoppo e tante altre cose ancora".
O anti-grillino, portami via...La cantilena di Bella Ciao sta risuonando in queste settimane nelle manifestazioni della sinistra. Ma se resistenza deve essere, oggi il nemico non può essere la destra liberale e neppure Salvini che si barcamena come può. Alessandro Sallusti, Martedì 30/04/2019, su Il Giornale. Ieri ho partecipato a un dibattito televisivo, ospite di Nicola Porro su Rete4, sul ritorno in auge di Bella Ciao, la canzone che modificata nel testo fu adottata negli anni Cinquanta dal Pci per dare una colonna sonora postuma alla retorica della Resistenza e all'antifascismo perpetuo da utilizzare contro chiunque, da Berlusconi a Salvini, si sia frapposto con successo all'avanzata del comunismo. La cantilena di Bella Ciao sta risuonando in queste settimane nelle manifestazioni della sinistra, ma anche nelle scuole e in un caso addirittura in chiesa, Eugenio Scalfari le ha dedicato un pezzo della sua omelia domenicale su La Repubblica. Un revival sinistro in ogni senso, che come tutti i revival è indice dell'incapacità di guardare al presente e al futuro, un po' come Little Tony che si è fermato a Cuore matto e Bobby Solo a Una lacrima sul viso. Sono fermi lì, quelli del Pd, alla rivoluzione sognata e per fortuna nostra fallita. Ma se proprio vogliamo dare una colonna sonora a questo tempo bisognerebbe che anche la sinistra uscisse dalla «nostalgia canaglia» (peraltro titolo di una fortunata canzone cantata da Al Bano e Romina) e scrivesse un nuovo spartito con parole e musica comprensibili non tanto ai nostri nonni, ma ai nostri figli e nipoti, cosa che però non mi pare Zingaretti e soci siano intenzionati o capaci di fare. Proporsi, tra accelerazioni e frenate (ieri quella dell'ex ministro Delrio) come possibili stampelle dei Cinque Stelle nel caso di una rottura tra Di Maio e Salvini, più che un programma politico è una mossa della disperazione nella quale era già caduto Bersani sei anni fa all'indomani della sconfitta, o «non vittoria» come la chiamò lui, alle Politiche del 2013. Se resistenza deve essere, oggi il nemico non può essere la destra liberale (quella radicale e intollerante è talmente al lumicino che bastano polizia e carabinieri) e neppure Salvini che si barcamena come può stante la situazione. L'inutile «fascismo-antifascismo» andrebbe sostituito con il più utile «grillismo-antigrillismo» perché nell'opaco movimento di Di Maio e nei suoi agganci con i servizi segreti italiani e stranieri sta il vero pericolo per la democrazia, proprio come ai tempi di Bella ciao, ballata pensata da chi ci voleva portare al fianco di Stalin.
Red Ronnie a Stasera Italia contro le Sardine e Bella Ciao: "L'invasore chi è, Matteo Salvini o l'Europa?" Libero Quotidiano l'8 Dicembre 2019. Parole che strappano un sorriso a Matteo Salvini. Parole di Red Ronnie a Stasera Italia, il programma di Rete 4, rilanciate sui social proprio dal leader della Lega, di fatto difeso a spada tratta dal cantante. Barbara Palombelli chiede a Red Ronnie: "Ma che tipo è Salvini secondo te?". Lui risponde: "È un istintivo, uno che si dice che raggiunga la pancia perché parla con la pancia. Raramente legge dei discorsi, diffido da chi lo fa". Dunque, Red Ronnie prosegue: "All'inizio del servizio avete fatto sentire la canzone C'è chi dice no di Vasco Rossi, in un servizio in cui elencavate tutti i nemici del leghista. Io ho il disco, e devo mettere un pezzo della canzone: continuano a giudicarlo per il Papeete, perché era a torso nudo, perché beveva il mojito. È un po' come quello che Vasco diceva di se stesso. Gli dicevano: guardate l'animale, è un animale? E Salvini oggi è un po' quell'animale che tutti dicono", afferma. Ma non è finita, perché poi nel mirino di Red Ronnie ci finisce Bella Ciao, tornata in auge nelle piazze delle sardine: "Visto che parliamo di canzoni, vorrei parlare di Bella Ciao. È una canzone che va bene nella Casa di Carta ormai. Ma cantare Bella Ciao, quando si dice: mi sveglio la mattina, è arrivato un invasore. Ma l'invasore chi è? Salvini o qualcuno dell'Europa che ci sta invadendo e ci sta comprando? Io sono un anarchico, però vedo che ci sono molte cose che non stanno andando in questo mondo, c'è qualcuno che non sa più che ore sono", conclude. Intervento, come detto, rilanciato sui social da Salvini col commento: "Fortissimo Red Ronnie, parole di buonsenso!".
· Cancellare il 25 aprile. Per tornare a parlare di presente (e futuro).
25 aprile. Non era guerra di Liberazione (ci hanno pensato gli Alleati) ma una miserabile guerra civile per il Potere.
Prigionieri della Liberazione. La chiamano "liberazione" ma in realtà è una prigionia. Ogni anno il 25 aprile fa prigionieri gli italiani e li costringe ad assistere alla contrapposizione tra presunti partigiani e fantomatici fascisti. Scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 24/04/2019, su Il Giornale. La chiamano «liberazione» ma in realtà è una prigionia. Ogni anno, dal 1946, il 25 aprile fa prigionieri gli italiani e li costringe ad assistere a tre giorni di contrapposizione tra presunti partigiani e fantomatici fascisti. Cambiano i nomi dei partiti e pure il quadro politico ma il 25 aprile no, si ripete con identica liturgia e con uguali parole d'ordine a prescindere dalla realtà, con un'enfasi e una retorica quasi che il nemico fosse ancora alle porte e i resistenti su in montagna a combattere. Visto che per non offendere i «nuovi» italiani c'è chi è arrivato a negare la celebrazione del Natale, sarebbe bello che per non offendere l'intelligenza di tutti gli italiani la piantassero con la riedizione verbale di una guerra civile che - quella sì - fu cosa seria e produsse inutili morti da ambo le parti. Il 25 aprile è una festa partigiana nel senso di parte. Si ricorda non la benefica fine di una dittatura cosa più che legittima - ma una storia riscritta a uso e consumo dei vincitori. I quali, fino al 24 aprile 1945, certamente non erano in numero apprezzabile nelle piazze armati ma richiusi in casa ad aspettare i liberatori degli eserciti angloamericani per poi sfogare nei giorni seguenti la loro vendetta con altrettanta ferocia dei predecessori. La storia ognuno la legge come vuole, ma è la cronaca a essere oggettivamente stucchevole. Neppure il giovane Di Maio (si parla di fatti che riguardano suo nonno) è riuscito a sottrarsi al pagamento della tassa e domani sfilerà, non si capisce a che titolo, alla testa di uno dei tanti cortei puntando il dito contro il «fascista» Salvini, che va bene per andare al governo ma che diventa un pericolo pubblico sotto elezioni. Già, perché il problema è proprio e solo questo: fuori dall'ipocrisia, non c'entra la memoria e neppure la storia, ma solo i voti. Essendo infatti le elezioni quasi sempre attorno a maggio, il 25 aprile il più delle volte cade in piena campagna elettorale. Quale occasione migliore quindi per andare in piazza a difendere, da chi non si capisce, la «Repubblica nata dall'antifascismo» (più veritiero sarebbe dire: nata grazie agli americani e a Churchill). Che poi per il resto dell'anno questa Repubblica venga dagli stessi patrioti costantemente bistrattata e mortificata da politiche inadeguate è ritenuta cosa secondaria. In fondo basta aspettare solo altri 12 mesi che arriva il 25 aprile successivo, e per l'ennesima volta anche i mediocri e i codardi potranno tornare a dirsi per un giorno statisti e leoni.
Altro che il 25, evviva il 18 aprile. In quel giorno del '48 le prime elezioni post costituzione: gli italiani scongiurarono la presa del potere da parte dei comunisti. Alessandro Sallusti, Giovedì 25/04/2019 per il giornale. Oggi avremmo voluto sì festeggiare la liberazione, ma quella da un governo di dilettanti. Ci siamo andati vicino ma purtroppo sono ancora lì, sfidando la legge di gravità. Lo spettacolo da guerra civile dentro la maggioranza andato in scena l'altra sera a Palazzo Chigi, con ministri che si ammutinano, altri che si ricattano e i restanti che litigano furiosamente tra di loro non ha precedenti nella storia della Repubblica nata proprio sull'onda del divisivo e sanguinoso 25 Aprile. Al punto che, come mi ha suggerito ieri un amico, per ripristinare un po' di verità, verrebbe voglia di spostare la celebrazione della Liberazione a un'altra data, perché quella vera, di liberazione, avvenne non un 25 ma un 18 aprile. Proprio in quel giorno del 1948 si celebrarono le prime elezioni post costituzione repubblicana e gli italiani con il loro voto scongiurarono il rischio reale e concreto della presa del potere da parte dei comunisti e dei socialisti. Vinse con il 48 per cento del consenso e la maggioranza assoluta dei seggi la Democrazia cristiana di De Gasperi. Solo a quel punto - in mano a moderati, cattolici e liberali - l'Italia trovò davvero la sua libertà (il rischio era di passare direttamente dal fascismo al comunismo di Togliatti), la sua collocazione definitiva nello scacchiere del mondo occidentale e l'inizio di un percorso di stabilità, di crescita sociale ed economica che la portò fino a essere l'ottava potenza del mondo. Oggi, di fronte alla pericolosità di Di Maio e del governo tutto ci sarebbe bisogno, invece che delle risse e degli odi da «25», di un nuovo «18 Aprile» che rimetta l'Italia sui giusti binari della storia. Più che i «liberatori» - tanto per stare nel tema del giorno - questi governanti mi sembrano simili ai gerarchi di Salò che uno contro l'altro, asserragliati nel fortino, si occuparono solo di salvare se stessi, peraltro con risultati pessimi. Matteo Salvini deve salvare il suo sottosegretario Siri, Di Maio la sua sindaca Raggi, il premier Conte il suo nobile posteriore, ognuno insomma ha un suo personale motivo per non fare prevalere il bene comune come si è ben visto l'altra sera a Palazzo Chigi, tanto che anche il decreto sviluppo è rimasto nel limbo. Salvini ci rifletta, non ha il diritto di trascinarci tutti in questo buco nero.
PATTY CHIARI. Da “Un giorno da Pecora – Radio1” il 23 aprile 2019. “Se mi sono divertita a Sanremo quest'anno? Ho pensato che mi mancava solo una partecipazione al Festival per arrivare a dieci presenze, per poi non andarci più”. A parlare è Patty Pravo, che oggi è stata ospite della trasmissione di Rai Radio1 Un Giorno da Pecora, condotta da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. Non andrà più a Sanremo? “Non credo, perché ti stanca, devi lavorare tanto. Una volta poi Sanremo era Sanremo, ora...” Cosa è diventato il Festival di Sanremo oggi, a suo avviso? “E' diventato un po' come tutto alla fin fine, è diventato ciò che non serve...” Tra poco ci sarà il 25 aprile: lei festeggerà la Liberazione? “Ma siamo liberati?” Beh, si – hanno risposto i conduttori - e da tanto anche...”Ah si? Non mi sembra, mi sembra che ci sia abbastanza casino in giro per non esserlo”. Chi ci opprime ora? “Tutto, il mondo ci sta opprimendo”. Lei festeggerà, insomma. “Festeggio l'oppressione”, ha concluso la cantante a Un Giorno da Pecora Radio1.
Al Bano ironico: festa della liberazione? Mi chiedo da chi ci dobbiamo liberare adesso…Scrive martedì 23 aprile Il Secolo D'Italia. Al Bano controcorrente come sempre. Neanche il cantautore pugliese sfugge alla ridda di polemiche che stanno infiammando l’Italia per quella festa divisiva che è il 25 aprile: “Per me il 25 aprile è anzitutto la festa di San Marco Evangelista, il patrono del mio paese, Cellino San Marco. Ovviamente so che è la festa della Liberazione e mi domando: ora da chi ci dobbiamo liberare?”. A raccontare così, all’Adnkronos, il suo rapporto con il 25 aprile è Al Bano che quanto alle polemiche sulle celebrazioni della Liberazione fra Salvini e Di Maio, alle rispettive posizioni in materia, dice che “non c’è novità” e aggiunge: “Per un musicista quello che conta è l’armonia, solo quando c’è grande armonia una musica è quasi perfetta. Se si introducesse questo principio anche in politica si farebbe il bene dell’Italia, di qualsiasi Paese”.
25 aprile, meglio spegnere la luce e dormire ventiquattr’ore filate. Scrive mercoledì 24 aprile Francesco Storace su Il Secolo D'Italia. Verrebbe voglia di una bella dormita. Stanotte a mezzanotte e risvegliarsi dopodomani. Senza sentire il frastuono, il baccano delle risse sul 25 aprile, tra grillini e leghisti, tra filopalestinesi ed ebrei, tutti contro tutti, nel nome della divisione. Altro che Italia pacificata! Questa “festa” intristisce perché se ne dicono di tutti i colori persino fra quanti la promuovono. Oppure, come al governo: il 25 aprile litigano e dal 26 stanno ancora assieme a palazzo Chigi. I famosi valori…E’ diventata la festa dello sbadiglio, si tiene sveglio solo Emanuele Fiano con il suo delirio legislativo per mettere in carcere chi ha un’idea che non piace a lui. Non gli basta la censura di Facebook persino se di cognome fai Mussolini, lui vuole andare giù pesante, da buon gendarme della post-storia. Quella scritta con la stilografica dei vincitori.
Strepitano fra di loro. Si rendano conto piuttosto del fastidio provocato da quegli strepiti tra di loro. Come lo scontro nel governo. Di Maio che riscopre la vena partigiana, che pure Beppe Grillo sbeffeggiava fino a un po’ di tempo addietro; e Salvini, che a festeggiare non ci pensa proprio e se na va a Corleone. Il rumore diventa più serio quando coinvolge l’associazione partigiani e la comunità ebraica. Che pare non si vogliano manco salutare, visto che a Roma danno vita a due manifestazioni distinte. Da una parte e dall’altra, come combattenti contrapposti. E in effetti ne abbiamo visti negli anni di schiaffoni che volavano tra le due fazioni, nel mirino la Brigata Ebraica. Annuncio sui social: “Per chi vuole condividere con la comunità ebraica il #25aprile e il ricordo della brigata ebraica senza essere oggetto di contestazioni e insulti”, con appuntamento al cimitero di guerra del Commonwealth. Tanto per non sfilare con l’Anpi. Che fa ancora di più a Trieste, disertando la commemorazione ufficiale del Comune alla Risiera di San Sabba. Volevano parlare solo loro…
De Felice e Pansa. E’ così da oltre settant’anni e ogni anno è sempre peggio. Nonostante il tempo trascorso, c’è ancora una faziosità che acceca. Perché in realtà fu guerra civile, e c’è chi si ostina a negarla. Perché verrebbe meno il grande ostacolo alla pacificazione tra gli italiani. E’ stato gettato fango su quanti – tra gli uomini di cultura – hanno cercato tra le carte la verità storica. Il monumentale lavoro di De Felice come la luce sulle tragedie da parte di Giampaolo Pansa. E troppa politica che ci ha speculato sopra, invece, additando come nemici gli intellettuali che non ci stavano. Chissà quando verrà il tempo della pacificazione, che magari potrebbe ruotare attorno ad un percorso storico più che a una data che, da sola, è emblema evidente della divisione tra italiani. Ci sarà mai spazio per una norma costituzionale di un solo articolo che invece ne indicasse varie, di giornate importanti, a simboleggiare una voglia di unità autentica e di popolo, magari da approvare all’unanimità? Sì, forse è già notte ed è solo un sogno mentre si fatica a dormire per le urla di quelli che litigano. Ormai il rumore si sente pure dalle tastiere che trasmettono i soliti messaggi di odio. Meglio spegnere la luce e dormire ventiquattr’ore…
Cancellare il 25 aprile. Per tornare a parlare di presente (e futuro), scrive il 13 aprile 2019 Cristiano Puglisi su Il Giornale. Fascisti. Fascisti ovunque. Con l’approssimarsi del 25 aprile, come ogni anno, ritorna più minaccioso che mai lo spauracchio in fez e camicia nera. Ovviamente in prima fila a denunciare questo pericolosissimo ritorno di fiamma tricolore (si scherza, suvvia…) è l’ANPI, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia che, negli ultimi giorni, si è trovata coinvolta nell’ennesima e “attualissima” battaglia: la decadenza di Benito Mussolini da cittadino onorario di alcuni comuni italiani. Cittadinanza onoraria ovviamente conferita nella totalità dei casi durante il ventennio. Per non parlare di quel sindaco PD che, a Cremona, ha vietato una messa di suffragio in onore del Duce. O di chi, allarmato, lancia strali contro Giorgia Meloni colpevole di aver candidato alle elezioni europee un pronipote di Benito. Del resto è inutile ripetersi, su questo blog lo si scriveva un anno fa e non è cambiato assolutamente nulla, il 25 aprile, “lungi dall’essere un momento in cui storicizzare i fatti del secondo conflitto mondiale, ne consente invece sempre più spesso la politicizzazione”. Politicizzazione che, non c’è bisogno di dirlo, anche in virtù della tradizionale coincidenza di questa festività con le maggiori tornate elettorali, torna sempre utile per una parte politica, la sinistra, che ultimamente di argomenti da sfruttare a proprio vantaggio ne ha pochini. Si perdoni dunque a chi qui scrive l’autocitazione, ma del resto non avrebbe senso trovare un nuovo modo di esprimere un concetto così cristallino e financo banale. Ciò che però francamente preoccupa non è tanto questo, quanto il fatto che nessuno, soprattutto tra le fila della cosiddetta destra, che dovrebbe tendenzialmente essere la parte colpita dalla propaganda avversaria, muova un dito per mettere finalmente a tacere queste deliranti baracconate. Per consegnare finalmente il ventennio alla storia e lasciare riposare i morti in pace. Perché, va detto, parlare oggi di togliere la cittadinanza onoraria a Mussolini Benito, nato nel 1883, è un po’ come se gli inglesi chiedessero ai francesi di rimuovere l’intitolazione delle vie a Napoleone Bonaparte: una cosa ridicola. Punto. Tanto ridicola che viene il sospetto che la cosiddetta “destra” abbia alla fine buon gioco a evitare la fine di queste strumentalizzazioni, fine che consentirebbe di concentrarsi su argomenti più attuali e problematiche più impellenti. Una su tutte, la crisi economica che l’Italia sta vivendo nonostante il Governo Frankenstein giallo-verde avesse promesso mirabolanti imprese. E riprese. E invece no. Anche a destra si continua a prestarsi al gioco di doversi giustificare per il “peccato originale” del fascismo. Si continua a ribadire, da parte degli esponenti politici, l’estraneità a un passato con il quale, in realtà, non potrebbero comunque avere nulla a che spartire. In primis perché il fascismo, di destra, intendendo con questo termine la destra liberal-conservatrice, non lo era. In secondo luogo perché quella esperienza è finita nel 1945, quando gran parte degli attuali politicanti destrorsi neppure erano nati. Ma così non si può andare avanti. Piaccia o meno, sia politicamente corretto o meno, il fascismo e l’antifascismo vanno strappati dai quotidiani e consegnati ai libri di storia, ai quali appartengono. E allora è forse necessario, dato che è impossibile attenderselo dalla sinistra, che la destra prenda coraggio e, sfruttando il momento di consenso, faccia qualcosa che è davvero utile al Paese: proporre la cancellazione, visto ciò che è divenuto, del 25 aprile dal calendario delle festività. Sì, cancellarlo. Affinché, almeno sotto elezioni, i morti possano finalmente riposare in pace, con i loro errori e le loro buone azioni. Ma, soprattutto, perché la classe dirigente italiana, dopo 74 anni, possa finalmente guardare avanti. Smettendo di discutere di passato e, soprattutto, di sentirsi così esentata dal dover discutere di ciò che è davvero importante per le famiglie italiane e i loro figli: il presente e il futuro.
· I Catto-Comunisti vincenti la guerra civile. Per me il 25 aprile è...
Mattarella sul 25 Aprile: «Lotta di popolo, no a riscritture della storia» Casellati: «La libertà frutto di sacrifici». Pubblicato giovedì, 25 aprile 2019 da Marzio Breda su Corriere.it. L’ultimo strappo, quello sul 25 aprile, contro il quale sono in corso svalutazioni, boicottaggi e diserzioni (per esempio quella di Salvini e dei suoi ministri), cercherà di ricucirlo lui, oggi, a Vittorio Veneto. Con un discorso in bilico tra un passato che non passa, perché si insiste a guardarlo secondo logiche divisive, e un presente altrettanto lacerante. Non lancerà anatemi, ma il suo «no a riscritture della storia» pronunciato ieri, è la premessa per ricordare che in questa data fondante della nostra democrazia tutto si tiene, Sergio Mattarella: dalla Resistenza alla nascita della Repubblica alla Costituzione. Senza che nessuno possa vantare egemonie politiche o contestarle. Così, rinfrescherà la memoria a chi si ostina a dire che a impegnarsi nella lotta di Liberazione furono solo i 500 mila partigiani («a prevalenza rossi», si recrimina). Non fu così. Si trattò invece — e lo rimarcherà — di un movimento allargato, nel quale furono coinvolti anche migliaia di nostri militari (per esempio a Cefalonia, nell’Egeo, in Corsica, nei Balcani) e i 600 mila deportati nei lager tedeschi (che avrebbero potuto sottrarsi alla prigionia scegliendo Salò), e le popolazioni civili che aiutarono i «ribelli» rischiando la vita e affiancandoli nelle insurrezioni in varie città e, infine, moltissime donne. E proprio il ruolo femminile il presidente ha voluto che fosse sottolineato a Vittorio Veneto, dove la cerimonia sarà «in rosa». Basterà il suo sforzo di pedagogia civile a preservare il 25 aprile dalle strumentalizzazioni? Difficile, ma potrebbe forse scuotere dall’indifferenza qualcuno, visto che si è arrivati perfino a celebrare il compleanno di Hitler. Questo spera il capo dello Stato, mentre su di lui incombono altre, più complesse questioni. A partire dalla tenuta del governo, ormai sotto stress al punto da materializzare i rischi di una crisi. I due azionisti della maggioranza si rincorrono ogni giorno da un capo all’altro del Paese attaccandosi l’un l’altro e mettendo in scena, nel tempo che resta loro da questa asfissiante campagna elettorale, una politica contraddittoria e ondivaga. Mattarella ne è «sconcertato». Il problema, per lui, è che le categorie politiche tradizionali non valgono più per valutare ciò che può accadere con l’esecutivo «del cambiamento». E se al Quirinale si dà per scontato che questo stallo sull’orlo dell’abisso si trascinerà almeno fino al voto europeo, a preoccupare il presidente sono gli effetti di una scarsa incisività sul fronte dell’economia. E lo dimostrerebbero le misure contenute nel decreto crescita, se arriverà in porto limitando i danni temuti dagli operatori con cui il Colle si sente, che non vedono il riaccendersi di chissà quali prospettive. Diversi i fronti aperti. Tutti monitorati da Mattarella, che su uno in particolare ha un dialogo aperto con il premier Conte. È il caso del rinnovo dei vertici di Bankitalia, che non è più un problema italiano: il 9 maggio diventa un problema della Banca centrale europea, e se perdurasse l’immobilismo del governo si paralizzerebbe l’intero sistema delle banche centrali e Draghi sarebbe allora il primo a doversene dolere, cosa imbarazzante. Non dovrebbe essere una partita troppo complicata: scadono alcuni mandati dentro il direttorio e sono ferme alcune nomine. Eppure è una prova di come la conflittualità permanente influisca sulla capacità decisionale del governo. E apre incognite su come in autunno si affronterà una situazione economica difficile. Di qui le inquietudini del presidente, pensando alle scelte della prossima legge di bilancio e ai rapporti tra Roma e la Ue, con cui dovremo negoziare. Ecco il cuore dei suoi timori e domande. Come questa: avranno, i due partner, la responsabilità di intestarsi una manovra lacrime e sangue?
Casellati : «Libertà frutto di sacrifici. Coltivare la memoria per le nuove generazioni». Pubblicato mercoledì, 24 aprile 2019 da Dino Martirano su Corriere.it. È un 25 aprile difficile anche quello della presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati. Perché la 74^ Festa della Liberazione dal nazifascismo è assediata da polemiche feroci, quest’anno perfino all’interno del governo; ed è una ricorrenza che oggi cade nel contesto internazionale funestato dalle stragi di Pasqua contro i cristiani nello Sri Lanka. Eppure — in un quadro in cui pure l’attività parlamentare é messa a dura prova dal clima di rissa continua nella maggioranza M5S-Lega — il primo pensiero della senatrice Casellati può essere tradotto in un inesauribile «grazie a chi ha combattuto per la nostra libertà»: perché «il 25 aprile il nostro popolo si è fatto Nazione...». Presidente, la nostra è l’epoca della «convivenza forzata» con il terrorismo? «Con il terrorismo non c’è nessun tipo di convivenza possibile. La società contemporanea, sempre più interconnessa e globalizzata, appare purtroppo particolarmente esposta a vecchie e nuove forme di fanatismo. Inaccettabili, senza se e senza ma, sono le stragi terroristiche di matrice religiosa nello Sri Lanka, così come le tante altre stragi che colpiscono comunità in tutto il mondo, e in particolare quella cristiana che solo lo scorso anno ha registrato circa 4000 vittime. Sono frutti avvelenati dell’odio, della violenza e dell’intolleranza davanti ai quali non possiamo stare a guardare con cieca rassegnazione come se si trattasse di una sciagura ineluttabile. L’unica strada percorribile è quella di rafforzare gli strumenti della comunità internazionale per isolare e debellare ogni forma di radicalismo che miri ad instaurare il terrore e a mettere in discussione il principio cardine della convivenza pacifica tra i popoli». C’è chi sostiene, ora con forza anche nel governo, che non è importante festeggiare il 25 aprile. Cosa accade a un Paese, anche a democrazia matura, se la memoria non viene più coltivata? «Il 25 aprile è una data simbolica che evoca e racchiude i valori fondanti del nostro Paese ed esalta i pilastri immateriali su cui è stata eretta la nostra Repubblica: libertà, pace e democrazia. Celebrarlo oggi significa continuare a ricordare l’orgoglio e lo spirito di sacrificio di un popolo che ribellandosi contro i totalitarismi ha trovato la forza di farsi nazione. Coltivare la memoria è fondamentale per fare in modo che le nuove generazioni conoscano le radici del nostro Stato di diritto, a partire dal valore universale della Costituzione repubblicana». Suo padre, condannato a morte, fu tra gli italiani che il 25 aprile del ’45 riacquistò la libertà e la speranza di vivere. Qual è il tributo che dobbiamo a quella generazione? «Alla generazione di cui faceva parte mio padre, liberale e partigiano, l’Italia e gli italiani delle epoche successive devono, dobbiamo, tante cose. Senza i loro sacrifici, senza le loro lotte, senza la loro caparbietà, senza il loro coraggio nel voler costruire un Paese libero e senza divisioni, la nostra storia avrebbe preso un’altra piega. Con quella generazione, che ci ha restituito la libertà e la democrazia ed è stata protagonista della rinascita materiale e morale dell’Italia, abbiamo tuttora un enorme debito di riconoscenza. Credo che il modo migliore per ricordare i nostri padri sia credere nelle istituzioni, difenderle e rappresentarle con convinzione e con forza». In Europa, si fanno di nuovo sentire forti voci interne agli Stati nazionali ma, come ha pronosticato il Capo dello Stato, «il sovranismo non minerà l’Unione europea». Anche lei è ottimista su questo fronte? «Sono d’accordo con il presidente Mattarella. L’Europa è la casa comune che ci ha garantito oltre 70 anni di pace, di democrazia e di benessere sociale. La stessa storia dell’integrazione europea è caratterizzata dalla complementarietà e dalla convivenza delle istanze nazionali con gli slanci e i sentimenti comunitari. Per questo è necessario verificare quello che non va. Non più un’Europa burocratica, ma una comunità più vicina ai bisogni reali dei cittadini e più attenta ai temi “sensibili”: dal diritto alla sicurezza al contrasto all’immigrazione illegale, dal terrorismo all’equità sociale». La maggioranza politica è in attesa delle Europee per valutare l’orizzonte strategico del governo Conte. Può offrire una guida stabile al Paese una coalizione in perenne campagna elettorale? «Che ogni campagna elettorale porti con sé toni che risentono della competizione tra le forze politiche è fisiologico. Lo è meno il ricorso continuo alle urne, in particolare per quanto riguarda i rinnovi delle amministrazioni regionali. Negli ultimi mesi sono andati al voto Abruzzo, Basilicata, Sardegna e tra poco il Piemonte. Credo che ci sia lo spazio per avviare una razionalizzazione dei momenti elettorali; e ciò ad esclusivo beneficio non solo dei cittadini coinvolti, ma anche della dialettica istituzionale. Rispetto all’orizzonte strategico dell’attuale governo non sta ovviamente a me fare alcun tipo di valutazione». In Parlamento, i cui calendari del mese di maggio appaiono ridotti, molte proposte vengono bloccate dai veti incrociati di una maggioranza molto rissosa. Dopo le Europee teme un rallentamento ancora più forte della produzione legislativa? «Al contrario, auspico che possano prevalere in Parlamento le tempistiche scandite dalla necessità e dalla opportunità dei singoli provvedimenti. Da questo punto di vista segnalo il prezioso e fattivo lavoro portato avanti nelle commissioni che, in linea con quanto previsto dal nuovo regolamento del Senato, ricoprono un ruolo centrale di riflessione, di approfondimento e di grande responsabilità rispetto all’iter legislativo. Quindi un ruolo decisivo. Lo sottolineo perché noto che da parte di diversi osservatori si continua a sottovalutare questo aspetto quando si fa il punto della situazione sui lavori parlamentari». Quali determinazioni sono state assunte dai presidenti di Senato e Camera in merito alla modifica in Parlamento delle intese Stato-Regioni sull’autonomia differenziata? «L’autonomia differenziata, prevista dall’articolo 116 della Costituzione, reca in sé tutte le caratteristiche per realizzare una significativa “innovazione” negli attuali equilibri istituzionali. È questione molto delicata che presuppone un iter complesso, sul quale con il presidente Fico continuiamo a confrontarci per trovare una soluzione equilibrata che possa coniugare centralità del Parlamento e attuazione delle intese Stato-Regioni. La posta in gioco è alta perché lo strumento offerto dall’articolo 116 della Costituzione può essere l’occasione per favorire lo sviluppo dei nostri diversi territori nelle loro peculiarità».
Vittorio Feltri, la verità storica sui comunisti: bacchetta Mattarella, cosa non ha voluto ammettere, scrive il 27 Aprile 2019 su Libero Quotidiano. Sergio Mattarella è una persona perbene, mite e ragionevole, dice quasi sempre cose sensate, ma qualche volta capita anche a lui di fare la pipì fuori dal vaso, e noi se non si offende glielo facciamo rispettosamente notare perché il nostro mestiere è tenere d' occhio anche i pitali. Egli a Vittorio Veneto, che fu teatro della prima guerra mondiale, peggiore e più insensata della seconda, ha dichiarato che non c' è mai stato un fascismo "buono". Il che non è vero poiché l' avvento delle camicie nere ha impedito il trionfo del bolscevismo, e non mi pare che le bandiere rosse fossero migliori delle prime. Non lo dico io che sono un semplice cronista bensì la storia, basta studiarla oppure solo leggiucchiarla. Visto quello che è successo nell' Unione Sovietica e nei Paesi della cosiddetta Cortina di ferro, non è difficile riconoscere che il comunismo è stato una sciagura. Ciononostante non c' è nessuno, nemmeno il capo dello Stato, che ne rammenti le stragi, gli atti contro l' umanità, le soperchierie. Tutti zitti e ancora ossequiosi nei confronti delle dittature rosse quasi fossero state qualcosa di salvifico e degno di lode. Certamente il fascismo precipitò nella tragedia ed è impossibile assolverlo o, peggio, rivalutarlo, tuttavia non si comprende per quale motivo gli accadimenti d' Ungheria e di Cecoslovacchia vengano archiviati sotto la voce "piccoli incidenti di percorso". E sorvoliamo sulle schifezze dei gulag nonché sulle prodezze di Togliatti a riguardo degli alpini nostrani. I marxisti continuano ad essere apprezzati, comunque non disprezzati, mentre i camerati vengono sputacchiati. Due pesi e due misure che non si giustificano alla luce della realtà. In ossequio al conformismo più vieto si tollerano i compagni e si liquidano i littori e i repubblichini come delinquenti. Questo pensiero distorto e turpe appare inestirpabile, benché si basi su una falsità evidente e inaccettabile. Ci dispiace che persino un uomo probo della statura di Mattarella si adegui all' andazzo e avalli le tesi dei progressisti di nome e non di fatto, gente faziosa e priva di giudizio. Vittorio Feltri
Per me il 25 aprile è...La libertà, la democrazia, un ricordo, la speranza: le voci degli intellettuali. Scrive il 24 aprile 2019 La Repubblica.
ERALDO AFFINATI, scrittore. Ogni 25 aprile ripenso a mio nonno che, insieme a tanti altri, diede la vita per la libertà di cui godiamo noi: Alfredo Cavina, partigiano della 36 brigata Garibaldi, fucilato dai nazisti. Insegnando l'italiano ai ragazzi africani, credo di rendergli onore. La democrazia non è un bene privato.
MANUEL AGNELLI, musicista. Per me il 25 aprile è uno dei momenti che ci ricorda che la libertà non è una conquista che dura per sempre. E' uno dei momenti, non l'unico, che dovrebbe far scattare qualcosa in noi, che ci ricorda che oggi schierarsi è un dovere.
SIMONETTA AGNELLO HORNBY, scrittrice. Mio padre me lo diceva sempre: quando sei venuta al mondo tu, le donne non potevano votare. Per me la fine del fascismo, la festa della Liberazione, significano anche questo: l'inizio dell'emancipazione della donna.
ALBERTO ASOR ROSA, storico della letteratura. Il 25 aprile resterà per tutta la vita il giorno in cui mio padre mi prese per mano, dodicenne, e insieme andammo a Piazza Tuscolo, dove gruppi di amici e compagni dei due sessi si stringevano, gridando, urlando e ridendo. Tutti eravamo sicuri, piccoli e grandi, che da quel trionfo non saremmo mai tornati indietro. E io, nonostante tutto, lo sono ancora.
ALESSANDRO BARICCO, scrittore. E' l'ostinata celebrazione di un pensiero bellissimo: da qualsiasi oscurità usciremo liberi.
MARCO BELPOLITI, saggista. 25 aprile è ricordare quanto siano profonde le radici del fascismo e come cambi nome, stile e metodo, ma non sia mai morto, e quanto grande il danno materiale e morale che può ancora causare.
ALESSANDRO BERGONZONI, scrittore e attore. La differenza tra moria e memoria. Ricordarsi di far stimare le vittime. Per saperne il valore, e non dar mai per scontato quel che altri noi hanno troppo pagato. Non giocare più a "pace libera alcuni": alla faccia della musica dei dimenticanti e di chi sta facendo di ogni erba un fascio (solo perché siamo appesi a un filo). Un saluto a te, Vittoria!
FRANCESCO BIANCONI, musicista dei Baustelle. Il 25 aprile è per me il ricordo di Eugenio, Dina e di certi altri vecchi che ho avuto la fortuna di conoscere da ragazzino. Gente che mi ha raccontato le sofferenze patite in guerra e la gioia della riconquista della libertà. L'importante è non dimenticare, per riconoscerlo quando torna, che il fascismo in ogni sua manifestazione è sempre oscena retorica: parole funeste senza pensiero, violenza legittimata, sputo per terra.
VASCO BRONDI, musicista. Piero Calamandrei uno dei fondatori del Partito D'Azione scriveva "Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione."
MASSIMO CACCIARI, filosofo. 25 aprile significa ricordare attraverso quanto sangue, quali distruzioni e sacrifici si sia giunti a porre termine a una sciagurata serie di errori, alla sottovalutazione colpevole della crisi e di chi la faceva strumento della propria volontà di potenza, al conflitto tra stati europei. 25 aprile è un appello alle nostre attuali responsabilità.
LUCIANO CANFORA, storico. E' una scena in toscana nel'47: un autocarro di partigiani con le bandiere rosse che attraversano la campagna e io insieme a mio padre. Un'immagine di movimento, entusiasmo, fiducia.
VINICIO CAPOSSELA, musicista e scrittore. Sono stato abituato a considerare Il 25 Aprile una festa nazionale sacramente laica, in cui nasce l'uomo libero. Eppure quel senso di liberazione non è affatto materia inanimata, minerale . E' corpo vivo che richiede azioni, libere azioni, perché la vita lo mantenga in salute nel quotidiano. Il 25 aprile non è desueto, non è da abolire, è da rinnovare ogni giorno.
ASCANIO CELESTINI, regista e scrittore. È un'opportunità per mettere da parte i propri giudizi e le proprie idee, e studiare che cosa è stato davvero il 25 aprile. L'inizio d'un percorso di riconciliazione, tant'è che dopo il 1945 in Italia non c'è stata né una guerra civile né una caccia alle streghe.
PAOLO COGNETTI, scrittore. Vorrei che il 25 aprile festeggiassimo la fine della guerra più drammatica che il mondo abbia conosciuto. Festeggiamo la pace e la libertà dall'oppressione, dalla violenza e dalla paura della guerra. Credo che tutti gli italiani abbiano motivo per farlo.
GUIDO CRAINZ, storico. Ci racconta una straordinaria storia italiana, il 25 aprile, nel più ampio scenario della Resistenza europea. Quell'Italia seppe riscoprire un'idea di patria che il fascismo aveva disonorato e costruire le basi di una Costituzione profondamente democratica: siamo stati anche così, e il 25 aprile ci aiuta a ricordarlo.
SERENA DANDINI, conduttrice tv. Il 25 aprile è ricordarsi che la libertà va protetta e curata come un fiore prezioso.
GIANCARLO DE CATALDO, scrittore. E' l'origine di una democrazia libera, così libera da garantire la libertà anche di chi non la condivide.
ROBERTO ESPOSITO, filosofo. Il 25 aprile 1945 è il giorno che mi ha consentito di vivere l'intera esistenza nella libertà. In quella data la storia del Paese ha imboccato la strada di una democrazia che va sempre difesa come il bene più prezioso. Perciò il 25 aprile, oltre che alle nostre spalle, è sempre davanti a noi.
MAURIZIO FERRARIS, filosofo. Il 25 aprile è la nostra presa della Bastiglia. Per una nazione che, diversamente da Inghilterra e Francia, non ha conosciuto rivoluzioni, e ne ha pagato a lungo le conseguenze, il 25 aprile è l'evento che più ci si avvicina, e come tale va onorato e celebrato.
EMILIO GENTILE, storico. Il 25 aprile 1945 fu la condizione indispensabile che rese possibile fondare una democrazia repubblicana, con la collaborazione di tutti i partiti antifascisti, uniti nel comune proposito di restituire alle italiane e agli italiani la dignità di un popolo sovrano. Questi sono i fatti. Negare l'attualità del loro significato, equivale a togliere alle italiane e agli italiani la dignità di popolo sovrano.
UMBERTO GENTILONI, storico. Una grande opportunità, l'inizio di un cammino comune fondato sulla libertà. "La libertà è come l'aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare" (Piero Calamandrei).
FABRIZIO GIFUNI, attore e regista. Il 25 aprile va festeggiato oggi e rinnovato ogni giorno, è una memoria luminosa che tiene insieme in un unico abbraccio i nostri nonni e i nostri figli.
MONICA GUERRITORE, attrice. "Ricorda il 25 aprile". E' un memo da scrivere in rosso a stampatello da appiccicare sul display del telefonino, sulla televisione, sul computer, sull'iPad. Su qualunque mezzo usi la maledetta propaganda per fare schiavi uomini e donne esausti. Un post- it per sfuggire prima nella testa perché le armi sono già in tv. E non per fiction.
HELENA JANECZEK, scrittrice. "Festa di liberazione dal nazifascismo" dice già tutto quello che per me significa il 25 aprile. Ma il fatto di sapere che quella liberazione è avvenuta anche grazie al contributo, grande o piccolo, di una consistente minoranza di italiani e italiane è veramente un motivo perché andare in piazza equivalga a fare festa.
NICOLA LAGIOIA, scrittore. Da una parte la dittatura, le leggi razziali, i treni per Auschwitz. Dall'altra la democrazia, il rispetto della dignità umana. Sì sì, no no. Chi prova l'imbarazzo della scelta non può dirsi italiano. Chi, a livello istituzionale, non festeggia questa data è un traditore della patria.
MARC LAZAR, politologo. Celebrare il 25 aprile è ovviamente una necessità perché è il modo di ricordare la Liberazione e perché è una lezione di democrazia per le nuove generazioni. Ma penso che sarebbe un errore da parte della sinistra italiana strumentalizzare oggi la festa della Liberazione per dire che siamo davanti alla minaccia di un ritorno del fascismo. Non si legge il presente con gli occhi del passato anche se bisogna conoscere il passato per sapere quello che ci dice il nostro presente.
MAURIZIO MAGGIANI, scrittore. Il 25 Aprile la Repubblica ricorda che un popolo ha saputo affrancarsi con le proprie mani e la propria volontà dalla vergogna della servitù e del tradimento per farsi nazione di uomini liberi; è un giorno di gioventù e meraviglia, per questo mi va di cantare e di ballare, mi va di mangiare salami e focacce e bere vino, mi va di abbracciare e baciare i miei fratelli e le mie sorelle. Buona festa.
MAHMOOD, musicista. Il 25 aprile è un giorno molto importante in cui si celebra la liberazione del nostro paese dalla dittatura del fascismo. Nel passato dell'Italia c'è stata una vera e propria lotta per la liberazione, in quella di oggi bisogna combattere ogni giorno battaglie forse piccole ma secondo me importanti perché la costrizione adesso passa in maniera più sottile.
DACIA MARAINI, scrittrice. Il 25 aprile del 43 non sapevo neanche che fosse il 25 aprile. Ero chiusa in un campo di concentramento giapponese per antifascisti assieme con mio padre, mia madre e le mie due sorelle piu piccole, affamata, malata di ber iberi e di scorbuto, mangiata dai parassiti interni ed esterni. Sono passati tanti anni ma per me il 25 aprile è un ricordo di gioia sfrenata, la liberazione da un incubo: razzismo, intolleranza e fame.
MICHELA MARZANO, filosofa. È un omaggio alla libertà, cui tanti hanno sacrificato la propria vita; un monito per chi, forse, ancora non sa cosa sia il coraggio.
STEFANO MASSINI, scrittore e drammaturgo. È sapere che possiamo scegliere, e la responsabilità della scelta ci farà pure talvolta paura, ma è una paura sensazionale perché implica che la vita è tua, e ne decidi solo tu.
ALBERTO MELLONI, storico. Il 25 aprile è il ritorno dei sopravvissuti e la conta dei morti, è il velo che coprì i voli e gli eroi, è la speranza impedì la coscienza della colpa, è la certezza che le istituzioni democratiche bastano finché tutti le riconoscono come frutto di quel giorno.
YVES MENY, politologo. Per me il 25 aprile rimane legato al ricordo delle manifestazioni per la festa della liberazione a Firenze alla fine degli anni 70. La cosa che stupiva il giovane francese d'allora era la bellezza di una folla gioiosa che non gridava slogan ma cantava canzoni della resistenza a cominciare da Bella Ciao. Ma una cosa è certa: il 25 aprile di una volta non esiste più come non esiste più l'Italia dei padri fondatori, dei partiti, di una società civile ricca e vivace. Nostalgia...
MICHELA MURGIA, scrittrice. La liberazione è un processo, non un traguardo. Il miglior modo di onorare le lotte di ieri è proteggerne i frutti nell'oggi.
GIGI PROIETTI, attore e regista. L'ho sempre festeggiato. Continuerò a festeggiarlo per quello che rappresenta per me e per quello che ha rappresentato per mio padre e per la mia famiglia.
IAN RANKIN, scrittore. Riguardo al 25 aprile in Italia, è sempre importante ricordare e celebrare la sconfitta di un pezzo di fascismo nella Storia. Prego solo che tutti noi non diventiamo sonnambuli per tornare indietro verso un mondo in cui l'ideologia e le sue atrocità vengono considerate costrutti politici credibili.
MASSIMO RECALCATI, psicoanalista. Il 25 aprile è vedere le proprie catene, raccoglierle, alzarsi, liberarsi.
SILVIA RONCHEY, storica. E' il giorno in cui mio mio nonno e mio padre, come quest'ultimo mi raccontò in seguito, pensarono di dovere tirare fuori per l'insurrezione contro i tedeschi i fucili nascosti nei rotoli di stoffa del suo piccolo laboratorio di camicie.
ANTONIO SCURATI, scrittore. Il 25 aprile, oggi, a più di 70 anni dalla Resistenza e dalla Liberazione, ammainate le bandiere ben tinte della diatriba ideologica novecentesca, è il ricordo di gesta gloriose ma, soprattutto, la festa gioiosa di ogni sincero democratico. Chiunque si dissoci, offende la democrazia.
BENEDETTA TOBAGI, scrittrice. Il 25 aprile per me non è solo storia. Attraverso le storie dei protagonisti della Resistenza, è il promemoria vivente che, anche nei contesti più difficili, anche se siamo in minoranza, anche se è rischioso, possiamo scegliere. Possiamo lottare. Possiamo sperare.
EMANUELE TREVI, scrittore. Il 25 aprile è una festa dai significati così limpidi e facili da comprendere che i suoi nemici e detrattori più che imbecilli sono finti imbecilli: la specie più pericolosa. Pensano di fare l'occhiolino a una minoranza di canaglie che li votano, e non capiscono di asservirsi alle peggiori ombre che minacciano la società: sempre pronte a chiedere l'orribile prezzo del loro consenso.
ROBERTO VECCHIONI, musicista. Il 25 aprile non è un ricordo o un blitz della memoria né tanto meno una celebrazione. La Liberazione è un inseguimento tosto, un inseguimento mai concluso, una promessa da mantenere all'instabile certezza che abbiamo nel cuore.
PAOLO VIRZI', regista. Il 25 aprile 1945 è la data in cui gli italiani provano a diventare un popolo adulto, dopo l'infantilismo stupido di una dittatura ridicola e tragica.
GUSTAVO ZAGREBELSKY, giurista. Sono nato sotto le bombe, il 25 aprile è stata una vera liberazione.
ZEROCALCARE, fumettista. Per un sacco di anni il 25 aprile era una data di scontro perché le istituzioni gli volevano dare un valore museale, una specie di feticcio rituale, e noi ci battevamo perché invece fosse declinato anche nell'oggi, che parlasse anche delle oppressioni e resistenze moderne, che da quelle antiche traggono le proprie radici. Adesso pure quello scontro sembra un lusso, visto che gli anni sono passati e anche quel feticcio è stato svuotato, equiparando i partigiani e i repubblichini, raccontando torti e ragioni come se non ci fossero valori e principi a tessere una Storia che andasse oltre i singoli episodi. Negli anni il 25 aprile, da festa della liberazione dal nazifascismo, è diventato di volta in volta festa di generica libertà, festa contro le dittature (quali?) festa dei patrioti europei (boooh vabbé.). L'antifascismo da valore fondativo è diventato una mezza parolaccia, qualcosa di esecrabile perchè quel suffisso "anti" sarebbe divisivo, e la divisione, nell'epoca dell'equidistanza e della pacificazione a tutti i costi, è lo spauracchio da scongiurare. Perché la comunità nazionale dev'essere unita, non ci sono differenze di idee, di censo, di classe, tutto è piallato nella retorica che unisce gli italiani da un lato, e gli "altri", gli stranieri, i diversi, gli incompatibili, dall'altra. Un processo che ha asfaltato tutto, per decenni, portato avanti dal centro destra come dal centro sinistra. Poi nel 2019 se svejamo tutti e diciamo oibò, qualcuno non riconosce il valore del 25 aprile. Mannaggia e com'è possibile. Faceva così mia nonna, che iniziava i libri aprendo una pagina a caso a metà, e non capiva che succedeva.
LEO GULLOTTA, attore e regista. E' una data molto precisa perché ricorda storicamente la liberazione dal fascismo. Dobbiamo segnarlo a fuoco nel nostro cervello. Non potrà mai essere una partita a bocce. La data segna la mia liberazione, per la mia libertà e la tua. E quella di tutti".
MARIO MARTONE, regista. Il 25 aprile è qualcosa di cui possiamo essere orgogliosi.
GABRIELE MUCCINO, regista. Il 25 aprile celebra naturalmente la liberazione dell’Italia dai nazifascisti ma soprattutto la fine di una sanguinosa e rovinosa guerra civile che vide italiani combattere contro italiani per la libertà. I milioni di italiani, tutti fieramente fascisti che avevano affollato le piazze per 20 anni, sembrarono scomparire di colpo. Nessuno dichiarò più di essere stato fascista. Fu così che si iniziò a ricostruire, tutti insieme, un Paese portato alla totale rovina portandolo al più grande boom economico immaginabile durante gli anni ‘60.
· I Fascio-comunisti perdenti la guerra civile. Per me il 25 aprile è...
Veneziani: «Ecco i sette motivi per cui non festeggio il 25 aprile». Scrive mercoledì 24 aprile 2019 su Il Secolo D'Italia. Intervento magistrale di Marcello Veneziani sul 25 aprile dalla colonne de LaVerità. Lo scrittore ed editorialista entra senza tanti preamboli nel tema di una festa divisiva e destinata ad avvelenare gli animi. Una festa che mai e poi mai potrebbe celebrare. «Non celebro il 25 aprile per sette motivi.
Uno, perché non è una festa inclusiva e nazionale, ma è sempre stata la festa delle bandiere rosse e del fossato d’odio tra due Italie». Lo spettacolo a cui stiamo assistendo già da giorni, alla vigilia di questa data infausta, sono la prova provata, del resto, di quanto il “fossato d’odio” sia profondo. Veneziani prosegue punto per punto, elencando le ragioni dei ordine storico, civile e morale per cui non festeggerà il 25 aprile. Sette motivi che spiegano in bella sintesi perché questa data non è una festa.
Secondo motivo: «perché è una festa contro gli italiani del giorno prima, ovvero non considera che gli italiani fino all’ora erano stati, in larga parte fascisti o comunque non antifascisti e dunque istiga alla doppiezza, all’ipocrisia».
«Tre, perché non rende onore al nemico, ma nega dignità e memoria a tutti coloro che hanno dato la vita per la patria, solo per la patria, pur sapendo che si trattava di una guerra perduta.
Quattro, perché l’antifascismo finisce quando finisce l’antagonista da cui prende il nome: il fascismo è morto e sepolto e non può sopravvivergli il suo antidoto, nato con l’esclusiva missione di abbatterlo».
Fin qui i motivi storici che inducono lo scrittore a tenersi alla larga da questa data. Poi viene un altro male indigesto, un vizio italico atavico, che Veneziani ha sempre osteggiato nelle sue analisi: la retorica. Lo spiega, elencando il quinto dei motivi: «Perché quando una festa aumenta l’enfasi con il passare degli anni anziché attenuarsi, come è legge naturale del tempo, allora regge all’ipocrisia faziosa e viene usata per altri scopi: ieri per colpire Silvio Berlusconi, oggi Matteo Salvini».
C’è poi la retorica celebrativa – scrive Veneziani passando al sesto motivo per cui aborre questa data: «Perché è solo celebrativa, a differenza delle altre ricorrenze nazionali, si pensi al 4 novembre in cui si ricordano infamie e dolori della Grande Guerra; invece nel 25 aprile è vietato ricordare le pagine sporche o sanguinarie che l’hanno accompagnata e distinguere tra chi combatteva per la libertà e chi voleva instaurare un’altra dittatura».
Arriviamo quindi all’ultimo aspetto: «Sette, perché celebrando sempre e solo il 25 aprile, unica festa civile in Italia, si riduce la storia millenaria di una patria, di una nazione, ai suoi ultimi tempi feroci e divisi. Troppo poco per l’Italia e per la sua antica civiltà».
Perché non celebro il 25 aprile. Scrive Marcello Veneziani su La Verità il 24 aprile 2019. Non celebro il 25 aprile per sette motivi. Uno, perché non è una festa inclusiva e nazionale, ma è sempre stata la festa delle bandiere rosse e del fossato d’odio tra due italie. Due, perché è una festa contro gli italiani del giorno prima, ovvero non considera che gli italiani fino allora erano stati in larga parte fascisti o comunque non antifascisti e dunque istiga alla doppiezza e all’ipocrisia. Tre, perché non rende onore al nemico ma nega dignità e memoria a tutti coloro che hanno dato la vita per la patria, solo per la patria, pur sapendo che si trattava di una guerra perduta. Quattro, perché l’antifascismo finisce quando finisce l’antagonista da cui prende il nome: il fascismo è morto e sepolto e non può sopravvivergli il suo antidoto, nato con l’esclusiva missione di abbatterlo. Cinque, perché quando una festa aumenta l’enfasi col passare degli anni anziché attenuarsi, come è legge naturale del tempo, allora regge sull’ipocrisia faziosa e viene usata per altri scopi; ieri per colpire Berlusconi, oggi Salvini. Sei, perché è solo celebrativa, a differenza delle altre ricorrenze nazionali, si pensi al 4 novembre in cui si ricordano infamie e orrori della Grande Guerra; invece nel 25 aprile è vietato ricordare le pagine sporche o sanguinarie che l’hanno accompagnata e distinguere tra chi combatteva per la libertà e chi voleva instaurare un’altra dittatura. Sette, perché celebrando sempre e solo il 25 aprile, unica festa civile in Italia, si riduce la storia millenaria di una patria, di una nazione, ai suoi ultimi tempi feroci e divisi. Troppo poco per l’Italia e per la sua antica civiltà.
Quando avremo una memoria condivisa? Quando riconosceremo che uccidere Mussolini fu una necessità storica e rituale per fondare l’avvenire, ma la macelleria di Piazzale Loreto fu un atto bestiale d’inciviltà e un marchio d’infamia sulla nascente democrazia. Quando riconosceremo che Salvo d’Acquisto fu un eroe, ma non fu un eroe ad esempio Rosario Bentivegna con la strage di via Rasella. Quando ricorderemo i sette fratelli Cervi, partigiani uccisi in una rappresaglia dopo un attentato, e porteremo un fiore ai sette fratelli Govoni, uccisi a guerra finita perché fascisti. Quando diremo che tra i partigiani c’era chi combatteva per la libertà e chi per instaurare la dittatura stalinista. Quando distingueremo i partigiani combattenti sia dai terroristi sanguinari che dai partigiani finti e postumi, che furono il triplo di quelli veri. Quando onoreremo con quei partigiani chiunque abbia combattuto lealmente, animato da amor patrio, senza dimenticare “il sangue dei vinti”. Quando celebrando le eroiche liberazioni, chiameremo infami certi suoi delitti come per esempio l’assassinio del filosofo Giovanni Gentile, dell’archeologo Pericle Ducati o del poeta cieco Carlo Borsani. Quando celebrando la Liberazione ricorderemo che nel ventennio nero furono uccisi più antifascisti italiani nella Russia comunista che nell’Italia fascista (lì centinaia di esuli, qui una ventina in vent’anni); che morirono più civili sotto i bombardamenti alleati che per le stragi naziste; che ha mietuto molte più vittime il comunismo in tempo di pace che il nazismo in tempo di guerra, shoah inclusa. Quando sapremo distinguere tra una Resistenza minoritaria che combatté per la patria e la libertà, cattolica, monarchica o liberale, come quella del Colonnello Cordero di Montezemolo o di Edgardo Sogno, e quella maggioritaria comunista, socialista radicale o azionista-giacobina che perseguiva l’avvento di un’altra dittatura. I comunisti, che erano i più, non volevano restituire la patria alla libertà e alla sovranità nazionale e popolare ma volevano una dittatura comunista internazionale affiliata all’Urss di Stalin.
Da italiano avrei voluto che la Resistenza avesse davvero liberato l’Italia, scacciando l’invasore. Avrei voluto che la Resistenza fosse stata davvero il secondo Risorgimento d’Italia. E avrei voluto che il 25 aprile avesse unito un’Italia lacerata. Sarei stato fiero di poter dire che l’Italia si era data con le sue stesse mani il suo destino di nazione sovrana e di patria libera. In realtà l’Italia non fu liberata dai partigiani ma dagli alleati che ci dettero una sovranità dimezzata. Il concorso dei partigiani fu secondario, sanguinoso ma secondario. La sconfitta del nazismo sarebbe avvenuta comunque, ad opera degli Alleati e dei Sovietici. I partigiani non agirono col favore degli italiani ma di una minoranza: ci furono altre due italie, una che rimase fascista e l’altra che si ritirò dalla contesa e ripiegò neutrale e spaventata nel privato o si rifugiò a sud sotto le ali della monarchia. Il proposito di unire gli italiani non rientrò mai nelle celebrazioni in rosso sangue del 25 aprile. Fu sempre una festa contro: contro quei morti e i loro veri o presunti eredi. Chi ha provato a unirsi alla Festa da altri versanti è stato insultato e respinto in malo modo. Accadrà quest’anno pure ai grillini ignari?
Non vanno dimenticati gli italiani che restarono fascisti fino alla fine, combatterono, morirono senza macchiarsi di alcuna ferocia, pagarono di persona la loro lealtà, la loro fedeltà a un’idea, a uno Stato e a una Nazione; la futura classe dirigente dell’Italia fu falcidiata dalla guerra civile. Sia tra gli antifascisti che tra i fascisti vi furono patrioti e mazziniani che pensarono, credettero e combatterono nel nome della patria. L’antifascismo fu una pagina di dignità, fierezza e libertà quando il fascismo era imperante; ma non lo fu altrettanto l’antifascismo a babbo morto, cioè a fascismo sconfitto e finito. Era coraggioso opporsi al regime fascista, non giurargli fedeltà, ma fu carognesco sputare sul suo cadavere e oltraggiarlo. E infame è farlo ancora oggi, 74 anni dopo. Distinguiamo perciò tra gli antifascisti che rifiutarono di aderire al regime fascista, pagandone le conseguenze; e gli antifascisti del 25 aprile da corteo postumo e permanente. MV, La Verità 24 aprile
25 aprile 2019, si parli anche delle zone d’ombra dell’antifascismo. Scrive mercoledì 24 aprile 2019 Mario Bozzi Sentieri su Il Secolo d'Italia. Di retorica si può morire. A confermarcelo l’enfasi che continua ad avvolgere la data del 25 aprile, la fatidica giornata della Liberazione. Tanta dolciastra ricorrenza è evidentemente tutta interna all’uso strumentale dell’appuntamento, utilizzato, mai come quest’anno, per evidenti finalità politiche.
Il Pci, da subito, lo aveva utilizzato per mascherare le sue tare ideologiche, il doppiogiochismo staliniano, soprattutto la necessità di essere legittimato all’interno del sistema democratico. A sinistra e non solo, molti oggi lo usano per analoghe necessità politiche. Ad uscirne malconcia è innanzitutto la verità storica e quindi la legittimità di una data che – secondo i suoi cultori – dovrebbe essere alla base del nostro sistema costituzionale. Qualche domanda è d’obbligo.
È – come si dice – proprio grazie alla Resistenza che l’Italia ha potuto godere di 74 anni di libertà? D’accordo, la Storia non si fa con i se e con i ma… eppure altri Paesi che la Resistenza e la conseguente guerra civile non l’hanno avuta, più o meno per lo stesso numero di anni godono di un rodato sistema democratico (pensiamo alla Germania e al Giappone). La nostra Costituzione è democratica perché è antifascista ? E se invece fosse (anche) antifascista perché è democratica ? E dunque – di conseguenza – antitotalitaria, anticomunista, antifondamentalista. In buona sostanza garantista rispetto ad un sistema di libertà che accomuna Stati ed esperienze storico-istituzionali ben lontane tra loro: dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, dalla Francia all’Australia.
Ha un senso appellarsi genericamente all’antifascismo? In realtà è storicamente necessario parlare di un antifascismo “arcobaleno”. Lo dicono le più aggiornate ricerche storiche, che identificano una Resistenza dalle molte facce: quella della guerra nazionale di liberazione (soprattutto contro l’invasore tedesco) , quella della guerra di classe (sbocco naturale – secondo i comunisti – per costruire nuovi rapporti economici e sociali) e della guerra civile (segnata dallo scontro tra italiani). Lo confermano le vicende politiche del nostro Paese, negli anni immediatamente seguenti la fase costituente, con una Dc ben più sensibile a cavalcare il pericolo comunista e un Pci che vede nella Dc il nuovo fascismo, servo del “grande capitale” e dell’imperialismo a “ stelle e strisce”.
E che dire delle violenze gratuite da parte delle formazioni partigiane ? Centinaia i sacerdoti uccisi solo per la loro Fede (tra questi il seminarista quattordicenne Rolando Rivi, ucciso da due partigiani di una Brigata Garibaldi); partigiani bianchi soppressi da quelli rossi (un esempio tra i tanti Guido Pasolini, il fratello di Pier Paolo, ucciso a Porzus insieme ad altri sedici partigiani della Brigata Osoppo, formazione di orientamento cattolico e laico-socialista, da parte di un gruppo di partigiani – in prevalenza gappisti – appartenenti al Partito Comunista Italiano); stragi ingiustificate (come quella di Schio dove, a guerra finita, il 6 e 7 luglio 1945, vennero uccise a colpi di mitraglia 54 persone, da un gruppo formato da partigiani della Divisione garibaldina “Ateo Garemi”).
Fu veramente determinate, rispetto all’economia generale della guerra, il moto resistenziale ? Piero Operti, uno che l’antifascismo l’aveva praticato per tutto il Ventennio, nel dopoguerra afferma di come sui partigiani agissero vagamente i motivi ufficialmente professati rispetto a quelli climatici e climaterici: “… il loro numero – scrive Operti – diminuiva nella stagione invernale ed aumentava in primavera, si sgonfiò dal maggio al settembre del ’44 durante l’avanzata degli Alleati dal Garigliano all’Arno e dalle coste di Normandia e di Provenza al Reno, si assottigliò all’inopinato loro arresto sull’Appennino tosco-emiliano e sul Reno, per ricrescere a dismisura dopo che la guerra fu praticamente finita, a metà di marzo, allorché gli Occidentali raggiunsero il Weser e i Russi attraversarono l’Oder”.
Evidenziare le zone d’ombre di certo antifascismo non significa – sia chiaro – non rispettare quanti morirono nel sanguinoso biennio 1943-1945. Ma, nel contempo, quando avvenne non può essere livellato sotto l’idea del “grande movimento popolare” e delle sorti e progressive del processo democratico. Renzo De Felice non a caso parlava di “lunga zona grigia” nella quale si ritrovò la maggioranza del popolo italiano in attesa della fine.
Onore dunque a quanti ventenni morirono nel nome dei propri ideali, da una parte e dell’altra (quella della Rsi), uniti – per dirla con Carlo Azeglio Ciampi – da un sentimento comune: convinti di servire l’onore della propria Patria.
Verità storica e rispetto dei caduti: sgomberato il campo dalla retorica d’occasione da qui bisogna partire per “liberare” la Liberazione dalle falsificazioni che l’hanno segnata da più di un settantennio. Solo allora il 25 aprile potrà essere riconsegnato, nella sua interezza, alla nostra Storia nazionale, finalmente emendato dalle falsificazioni e dalle strumentalizzazioni di parte. Sine ira et studio.
Ultras della Lazio a Piazzale Loreto: «Onore a Benito Mussolini». Scrive mercoledì 24 aprile 2019 Federica Argento su Secolo d'Italia. «Onore a Benito Mussolini». Firmato “Irr”, sigla che sta per Irriducibili, uno dei gruppi più “duri e puri” della curva Nord laziale. I tifosi della Lazio – racconta la Gazzetta dello Sport – hanno srotolato un lungo striscione inneggiante al Duce a due passi da piazzale Loreto a Milano. Sì, proprio a due passi da quel luogo in cui Mussolini e Claretta Petacci vennero esposti dopo la morte dai partigiani. I tifosi della Lazio, in trasferta a Milano per il ritorno della semifinale di Coppa Italia contro il Milan, non possono infatti introdurre striscioni politici negli stadi. E così sono andati lontano da San Siro a srotolare lo striscione, a Corso Buenos Aires per la precisione. Hanno scandito canti, numerosi slogan, hanno fatto il saluto romano e se ne sono andati.
La reazione dell’Anpi: «Insopportabile». Subito l’Anpi è saltato come una furia a stigmatizzare l’episodio. L’enfasi retorica si spreca: «È insopportabile che avvengano simili provocazioni alla vigilia del 25 Aprile. Chiediamo alle autorità di individuare i responsabili», ha commentato Roberto Cenati, presidente milanese dell’Associazione nazionale partigiani, aggiungendo: «È ora di dire basta. Si sciolgano le organizzazioni neofasciste e neonaziste, applicando le leggi Scelba e Mancino». La polizia sta facendo accertamenti, anche se quando è arrivata in corso Buenos Aires il gruppo si era allontanato e nessun disordine è stato provocato. Il sindaco Sala su Facebook si accoda all’Anpi e condanna il gesto: «Anche cercando di non drammatizzare, non si può non capire che si stanno superando certi limiti. E che la denuncia di tutto ciò spetta soprattutto alla politica. A tutta la politica però. Milano è e resterà sempre una città profondamente antifascista».
Il pericolo farsista. Scrive Marcello Veneziani su Il Tempo 3 dicembre 2017. Siamo alla paranoia ideologica virale. Una bandiera del Secondo Reich, che era una monarchia costituzionale ottocentesca, tenuta in caserma da un ragazzo carabiniere di vent’anni, diventa il pretesto del giorno per gridare al Nazismo risorgente, che non c’entra un tubo con la bandiera e con la storia del secondo Reich. L’uso fake della storia sconfina nel delirio persecutorio. Ma non basta. In pieno autunno del 2017, un benemerito compagno ha scoperto una cosa tremenda: il 20 maggio del 1924, la città di Crema conferì su proposta della giunta locale la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini. L’orrenda scoperta ha subito compattato il valoroso popolo de sinistra – enti, associazioni, partiti e sindaca, oltre l’ineffabile Anpi – che ha intimato di provvedere subito a ritirare l’atto osceno in luogo pubblico. Togliendo la cittadinanza onoraria di Crema a Mussolini avremo finalmente un Duce scremato. Tempestivo, non c’è che dire, se ne sentiva l’urgenza, 93 anni dopo. Ma come dice un proverbio politicamente corretto, Chi va piano va Fiano e va lontano. E’ tutta una gara in Italia per scoprire e revocare la cittadinanza onoraria al Duce in un sacco di comuni. Pensavo a questo eroico atto di ribellione al fascismo da parte della città cremosa mentre leggevo per il terzo giorno consecutivo commenti, anatemi e mobilitazioni contro il pericolo fascista dopo la sconcertante “azione squadrista” compiuta a pochi chilometri da Crema, a Como. La Repubblica, per esempio, ha schierato il suo episcopato per condannare il fascismo risorgente e chiamare a raccolta l’antifascismo eterno. Sui tg c’è stato un tripudio di demenza militante a reti unificate. Non avevo intenzione di scriverne, mi pareva immeritevole d’attenzione, ma la paranoia mediatico-politica non accenna a scemare.
1) Ora, per cominciare, quell’irruzione in un’assemblea pro-migrantinon è di stampo squadrista semmai di stampo sessantottino. Gli squadristi, come i loro dirimpettai rossi, non irrompevano per leggere comunicati e andarsene senza sfiorare nessuno. L’abitudine di interrompere lezioni, assemblee, lavori è invece tipicamente sessantottina e poi entrò negli usi degli anarco-situazionisti, della sinistra rivoluzionaria, dei centri sociali, ecc. Gli “skin” in questione ne sono la copia tardiva, l’imitazione grottesca.
2) Secondo, i comunicati. Trovate pure demente e mal recitato, quel comunicato che gli impavidi neofascisti hanno letto interrompendo la riunione filo-migranti. A me fa sorridere, se penso ai comunicati degli anni di piombo. Vi ricordate? Davano notizie o annunci di assassini, accompagnavano attentati ed erano a firma Br, Primalinea e gruppi affini. Quando penso a quei comunicati, deliranti ma corrispondenti ad azioni deliranti e sanguinose, trovo farsesco il remake a viso aperto di quattro fasci e l’allarme mediatico che ne è seguito.
3) Terzo, la violenza di irrompere e interrompere. Succede ancora, nelle università, in luoghi pubblici, verso chi non piace ai movimenti di sinistra radicale, lgbt, centri sociali o affini. È capitato anche a me, girando l’Italia, di trovare aule universitarie e luoghi pubblici in cui non riesci a parlare o parli sotto scorta, tra interruzioni, proclami e incursioni. Di questo teppismo i giornali e i tg non ne parlano mai. E nessuna di queste anime belle che gridano indignate al pericolo fascista, ha mai espresso una parola di solidarietà e di condanna. Lo dico anche al pinocchietto fiorentino che esorta la comunità nazionale a indignarsi tutta e non solo la sua parte politica, per l’episodio di Como, anzi per la strage virtuale: lui non ha mai speso una parola per stigmatizzare episodi di segno opposto, assai più numerosi e più violenti e pretende che l’Italia insorga compatta per una robetta del genere? Diamine, ci sono ogni giorno storie di violenza e di morti, aggressioni in casa, e la comunità nazionale intera deve mobilitarsi unita di fronte a un episodio verbale così irrilevante? In realtà, voi informazione pubblica, voi governativi, voi giornaloni e associati, siete i primi spacciatori di bufale o fake news. Perché prendete una minchiata qualsiasi e la fate diventare La Notizia della Settimana, ci imbastite teoremi, prediche, rieducazioni ideologiche, campagne e mobilitazioni antifasciste. Se il pericolo che corrono le nostre istituzioni ha tratti così farseschi, allora il primo pericolo è la ridicolizzazione della storia e della democrazia da voi operata quando sostenete che sono messe a repentaglio da episodi così fatui e marginali. Non sapete distinguere tra una bomba e una pernacchia. E finirete spernacchiati.
Annalisa Chirico e il fascismo, lezione sul 25 aprile a sinistri e Roberto Saviano. Scrive il 25 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Come ogni anno, è polemica sul 25 aprile. Anzi, quest'anno più degli altri anni. A sinistra, infatti, sono scatenati a sbandierare il fantomatico rischio-fascista che verrebbe incarnato alla perfezione da Matteo Salvini. E una bella lezione a questa sinistra che trova in Roberto Saviano il suo leader assai poco silenzioso arriva da Annalisa Chirico, la quale dice la sua su Twitter: "Posso dirlo - premette -? La polemica sul 25 aprile è stucchevole, non esiste un pericolo fascista, le camice nere non sono alle porte, dobbiamo difendere la democrazia dall’impostura degli incompetenti, dalla dittatura dei clic, dal politicamente corretto eretto a ideologia". Poco da aggiungere, se non che la Chirico è un'insospettabile. Insomma, una che il 25 aprilo lo apprezza.
“I CORTEI PER IL 25 APRILE SONO UNA SCENEGGIATA”. Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” il 24 aprile 2019. Ieri Libero, con un magistrale articolo di Alessandro Giuli, si è già occupato del 25 aprile, festa della liberazione, ridotta ormai a sagra paesana, a rito stanco e pregno di bolsa retorica. Vorrei solo aggiungere una ovvia riflessione che, pur essendo scontata, viene snobbata. I nostri partigiani, animati da lodevoli intenti, non erano in numero sufficiente per scacciare il nazifascismo in un Paese che aveva conformisticamente seguito Mussolini in ogni sua iniziativa, per quanto idiota, tipo le leggi razziali, sottoscritte dal 95 per cento, forse di più, dei professori universitari. E sorvoliamo sulla seconda guerra mondiale combattuta a fianco di Hitler, una schifezza pari alla prima e non peggio. In sostanza se non fossero intervenuti gli angloamericani noi italiani saremmo ancora qui irrigiditi nel saluto romano. Chi contesta la presente tesi sbaglia per ignoranza o cieca adesione al pensiero unico. Quindi commemorare la Liberazione quasi fosse una nostrana pagina eroica è un' autentica mistificazione. Smettiamola di fingerci migliori di quanto siamo. Nel contempo non dimentichiamo di ringraziare i suddetti angloamericani che dopo aver tolto dai piedi le camicie nere ci hanno aiutato a ricostruire decentemente la patria. I cortei e i comizi in piazza dedicati al 25 aprile sono una sceneggiata vuota di qualsiasi significato storico. In ogni caso sarebbe sbagliato non riconoscere meriti ai partigiani, compresi quelli come Giorgio Bocca, valente giornalista, che per lunga pezza, prima della conversione, era stato fascistissimo. Un' altra festa che ci ha frantumato le scatole è quella dei lavoratori, che si celebra il primo maggio. Quale senso ha inneggiare al sudore in una Italia in cui pochi imparano un mestiere e si trovano un impiego per guadagnarsi da vivere, senza ricorrere al reddito di cittadinanza, una sorta di questua organizzata dallo Stato? Perfino la Costituzione è comica sul tema, affermando che la Repubblica è fondata sul lavoro, quando tutti sanno che la manodopera e gli imprenditori sono sfruttati crudelmente dal fisco per consentire al ceto politico di sprecare denaro in iniziative tese ad aiutare i parassiti. Cessiamo di prendere per il bavero i cittadini con festeggiamenti che prescindono dalla realtà. Il lavoro si festeggia lavorando, non fermando i servizi pubblici e tutto quello che funziona nei giorni normali.
· Prima e dopo la cosiddetta “Liberazione”.
E se fosse stato davvero il Re a far cadere Mussolini? Un «reportage storico» ricostruisce le ore cruciali della fine del fascismo. Fra misteri, ipotesi, rivelazioni. Francesco Perfetti, Mercoledì 11/12/2019 su Il Giornale. Il 25 luglio 1943 era domenica. A Roma la giornata, una calda e bella giornata estiva, sembrava trascorrere tranquilla ma la sensazione che fosse già accaduto, o stesse per accadere, qualcosa di grosso era nell'aria. La pittrice Leonetta Cecchi Pieraccini, animatrice di un vivace cenacolo intellettuale, appuntò nella sua agendina queste parole: «Aspettavamo diversi amici che viceversa non sono giunti: e ci è mancato così il conforto di scambiarci reciprocamente opinioni e notizie. La inquietudine degli animi è generale, e raggiunge spesso il carattere di paura. Paura non si sa di che cosa. Di tutto. Oggi è festa e i giornali non ci sono». Si sapeva, in giro, che nella serata precedente e durante la notte si era svolta la seduta del Gran Consiglio del Fascismo, ma non se ne conoscevano i particolari. Il giornalista Ugo Indrio, condirettore di Roma Fascista e redattore del quotidiano Lavoro Fascista, dovendo preparare la consueta nota politica per il settimanale, decise di recarsi a Palazzo Wedekind, dove da qualche mese era stato trasferito il direttorio nazionale del Pnf e dove vantava alcune amicizie, in cerca di notizie. Non ne trovò, vide soltanto volti preoccupati e se ne tornò preoccupato a casa dove si mise a scrivere la sua rubrica che non sarebbe mai stata pubblicata. Fu solo nella tarda serata, alle 22,45, che venne data notizia ufficiale attraverso la radio delle «dimissioni» di Mussolini e della nomina a capo del governo di Badoglio che lesse il proclama con l'infausta e ambigua frase: «La guerra continua». Tutti furono colti di sorpresa. Accanto alle reazioni popolari - di giubilo per la supposta fine delle operazioni belliche e per la caduta del regime o di ventilati timori per il futuro - cominciarono a diffondersi le voci più fantasiose come quella secondo la quale Italo Balbo era vivo e avrebbe presto fatto sentire la sua voce da una radio clandestina. Di quanto era davvero accaduto durante la drammatica seduta del Gran Consiglio del fascismo non si sapeva, ovviamente, nulla. E ancor meno si sapeva di altre «congiure» immaginate o tentate, supposte o reali che avevano provocato la fine del regime. Ancora oggi, comunque, non tutto è chiaro sugli avvenimenti di quella torrida estate del '43. Non sono pochi i misteri che li avvolgono né gli interrogativi senza risposta che li circondano. A cercare di mettere ordine nei dati della grande sciarada del 25 luglio 1943 è un piccolo, ma denso e delizioso, libro di Pier Luigi Vercesi dal titolo La notte in cui Mussolini perse la testa. 24-25 luglio 1943 (Neri Pozza, pagg. 224, euro 13,50), che si legge come un thriller storico ma che, in realtà, pone sul tappeto questioni storiograficamente significative. A cominciare da quella sulla effettiva rilevanza della seduta del Gran Consiglio ai fini del crollo del regime, che in un certo senso potrebbe essere considerato come il risultato di una sorta di «implosione interna» del partito. Alla convocazione del Gran Consiglio del Fascismo, che non si era più riunito da oltre tre anni, si era giunti per la richiesta di alcuni gerarchi riuniti presso la sede del partito per discutere le iniziative propagandistiche messe in piedi dal nuovo segretario del Pnf all'indomani dello sbarco alleato in Sicilia. Sorprendendo tutti Mussolini aveva aderito alla richiesta e Vercesi ventila l'ipotesi, peraltro ben plausibile, che, anziché di un cedimento del dittatore, si fosse trattato di un suo calcolo, di una sua «astuzia» per lasciarsi aperta la strada a mosse successive non esclusa quella di una trattativa separata di pace. Comunque sia, la vicenda della convocazione del Gran Consiglio è uno dei tanti punti oscuri di questa storia. Non è l'unico: perché, per esempio, Mussolini non volle che durante la seduta ci fosse, com'era uso, uno stenografo? E perché, ancora, rinunciò al servizio di guardia dei «moschettieri del duce»? E perché, infine, non reagì di fronte all'esito di una votazione che metteva di fatto in crisi il regime? Non è ipotizzabile che tale comportamento fosse dovuto al suo stato di salute, è più probabile che egli fosse ancora convinto di avere in pugno la situazione sia per quanto concerneva il rapporto con Vittorio Emanuele III sia per quel che riguardava l'ipotesi di uscita dalla guerra. Durante la riunione del Gran Consiglio a Palazzo Venezia venne allo scoperto l'iniziativa che Dino Grandi, il «conte diabolico», aveva preparato nei giorni precedenti con l'aiuto di altri congiurati fra i quali Luigi Federzoni e Giuseppe Bottai. L'ordine del giorno, poi approvato e che prevedeva la restituzione al Re dei «poteri militari e politici», era stato portato a conoscenza di Mussolini due giorni prima dal suo stesso estensore, che propose al duce di rinunciare alla riunione e di riconsegnare al re il mandato di Capo del governo. Anche qui non c'era stato nessun tentativo da parte di Mussolini di reagire. Un altro mistero. La «congiura» di Grandi era andata avanti preceduta da frenetici incontri con i gerarchi. Ma, accanto ad essa, molti altri intrighi si erano sviluppati. A corte e fuori della corte. C'era la Principessa di Piemonte, Maria José, che cercava contatti in più direzioni. C'erano ambienti vaticani che scalpitavano attorno a ipotesi cervellotiche di coinvolgimento di Umberto o, persino, del genero del duce, Galeazzo Ciano. C'erano, poi, esponenti della vecchia classe dirigente liberale che avevano assunto come punto di riferimento Ivanoe Bonomi e Alberto Bergamini nelle cui abitazioni si riunivano intellettuali in odore di fronda. Ma, come osserva Vercesi, «ben scarso peso» ebbe sulla caduta del regime questo «coagularsi» di antifascismo tradizionale. Un altro attore, poi, si muoveva sulla scena ma, soprattutto, dietro le quinte. Era il re Vittorio Emanuele III, che si appoggiava sul fedele ministro della Real Casa, il conte Pietro d'Acquarone , sui militari fedeli alla Casata e, anche, su settori della diplomazia tradizionalmente monarchici. Secondo Vercesi «l'unico a tenere il bandolo della matassa» fu proprio Vittorio Emanuele III, «un uomo dal carattere complicato, introverso e controverso, umiliato da Mussolini quando gli sottrasse prerogative e, al tempo stesso convinto che il duce fosse la gran testa in grado di tenere insieme l'Italia». Fu lui che, giocando d'astuzia, preparò «l'uscita di scena del dittatore» attendendo e facendo in modo che fosse lo stesso Mussolini «a costruirsi la trappola di cui sarebbe rimasto vittima». Il «golpe del re», insomma, fu quello davvero determinante che «utilizzò» le altre «congiure», a cominciare da quella di Grandi. Il che, per inciso, spiega anche il comportamento, apparentemente ingenuo o passivo, di un Mussolini convinto fino all'ultimo di trovare un appoggio in Vittorio Emanuele III. È davvero suggestiva la ricostruzione di Vercesi, dagli avvenimenti che portarono alla crisi del regime fino all'arresto del duce e alla nomina di Badoglio: una ricostruzione che, spesso ridimensionando luoghi comuni e versioni consolidate, mette insieme tanti tasselli come in una appassionante trama da romanzo giallo. A riprova del fatto che spesso la realtà, nella fattispecie la Storia, supera la fantasia.
Benedetto Croce, 1943-48. Un filosofo tra le rovine. Marco Valle l'1 luglio 2019 su Il Giornale. «Siamo stati vinti, e questo non bisogna dimenticare; ma anche i vinti hanno una dignità da serbare, e anche i vinti hanno o trovano armi per difendersi specialmente nella molteplicità cozzante degli interessi del mondo; e operare per l’Italia e frenare anche il mal animo, la cupidità e la prepotenza inglese, si può, ma richiede uomini che abbiano occhio acuto e braccio fermo». Così, il 12 luglio 1944, scriveva sconsolato Benedetto Croce all’indomani delle sue dimissioni dal governo guidato dell’inetto Bonomi. Ma nel disastro epocale seguito al 25 luglio e all’8 settembre ‘43, uomini di tal fatta non c’erano; restava solo una folla di politicanti trasformisti, petulanti agitatori, avvocati “paglietta”, generali felloni. E un cocciuto sovrano, ormai delegittimato, sputtanato, impresentabile. Era il “regno del Sud”, l’ultima sgangherata ridotta dello Stato sabaudo impiantata su un fazzoletto d’Italia ristretto tra Brindisi — l’usbergo dei fuggitivi del “Baionetta” — e la Napoli amarissima e disperata narrata con rabbia da Malaparte e dolente pietas da Norman Lewis. Un panorama di rovine materiali e morali, sgombro d’ogni dignità e decenza, scenario perfetto per la “morte della Patria”. Il comandante Carlo Fecia di Cossato, uomo serio e autentico eroe di guerra, non resse a tanto schifo. Alla madre scrisse «siamo stati indegnamente traditi e ci troviamo ad aver commesso un gesto ignobile senza alcun risultato. Da mesi non faccio che pensare ai miei marinai che sono in fondo al mare. Penso che il mio posto è con loro». Per Cossato la sola scelta onorevole fu un colpo di pistola alla tempia.
Le guerre di Don Benedetto. In questa riedizione mandolinara de “l’Inferno” di Hieronymus Bosch, unico e solitario riferimento “alto” rimaneva Don Benedetto, il vecchio filosofo di Pescasseroli, il maestro del neoidealismo, il rivale di Gentile. Croce, il liberale antifascista. Croce, il “Papa laico”. Croce, il patriota monarchico (senza illusioni) sempre pervicacemente anticomunista. Fu lui —unica, vera autorità morale, con buona pace della vulgata ancora dominante, di quel tempo crudele, volgare e confuso — a tentare di ricomporre i lacerati brandelli dello Stato liberale post-unitario in una visione democratica e nazionale e immaginare un futuro alternativo al consociativismo catto-comunista che ha afflitto (e affligge) l’Italia. Un compito immane, impossibile ma certamente generoso quanto misconosciuto o negato.
L’ennesimo “tradimento della memoria”. Ora, con coraggio (e tante, tante carte d’archivio), Eugenio Di Rienzo ha voluto ripercorrere quell’ultimo passaggio politico del grande filosofo in un agile quanto denso lavoro significativamente intitolato “Benedetto Croce. Gli anni dello scontento 1943-1948” (Rubbettino, ppgg. 178, euro 14,00) . Sin dalle prime pagine il docente romano — grande autorità negli studi storici e mente libera e anticonformista — si è impegnato in un accurato “smontaggio” delle varie leggende cucite negli anni dai chierici del “politicamente corretto” sul percorso crociano post-1943. Ritroviamo perciò il direttore de “La Critica” impegnato a salvare l’istituto monarchico ma assolutamente indisponibile verso Vittorio Emanuele e il principe Umberto, ambedue ritenuti corresponsabili della disfatta. Alla dinastia Croce prospettava un duplice “salto” generazionale con il trasferimento della corona al piccolo principe di Piemonte sotto la reggenza di Marie José (magari proprio da lui coadiuvata…). Una prospettiva improponibile per i Savoia e il partito di corte ma probabilmente, allora, l’unica via praticabile per la salvezza del traballante trono. Il seguito è noto. Al tempo stesso il filosofo-ministro comprese subito la portata delle ambizioni britanniche sull’Italia e il Mediterraneo. Opponendosi a gran voce. Di Rienzo sfata così le bubbole su un Croce supinamente filo-albionico e disfattista al punto da riportare le sue dichiarazioni del 1940, all’indomani della battaglia di Punta Stilo. Ai suoi famigli e amici che ironizzavano sulle pecche della Regia Marina rispose seccato «non m’importa un bel niente del fascismo; sono italiano e desidero che gli italiani facciano fronte agli inglesi». Un atteggiamento che manterrà anche di fronte ai britannici vincitori, improvvisamente immemori delle promesse di Radio Londra e molto bramosi d’imporre alla King’s Italy una punitiva, spietata “pace cartaginese”. Dietro ai progetti di Churchill ed Eden, Don Benedetto intravide con lucidità la prosecuzione — ormai anacronistica, come i fatti di Grecia, Palestina e Egitto dimostrano nell’immediato dopoguerra — del bisecolare piano di un Mare clausum tutto inglese, uno scenario geopolitico in cui non vi era posto alcuno per un’Italia sovrana e autonoma. L’unica alternativa per sottrarsi ai ricatti armistiziali fissati a Malta rimanevano gli americani, ancora relativamente poco interessati al quadro mediterraneo ma già insofferenti dell’albagia tardo imperialistica dei “cugini d’oltre Oceano”. Una carta che Croce, forte della sua notorietà, cercò di sfruttare con ripetute interviste (assai poco gradite a Londra…) alla stampa statunitense.
Il professor Croce contro il compagno “Ercoli”. Ma le amarezze più profonde arrivarono dai suoi antichi discepoli improvvisamente abbacinati dal “Loherngrin redivivo dalla Russia”. Ercole Ercoli, ovvero Palmiro Togliatti. L’arrivo a Napoli nella primavera ’44 del proconsole di Stalin sconvolse tutti gli artificiosi equilibri del “regno del Sud”. Fedele alla coordinate fissate a Mosca, il callido piemontese offrì una sponda inaspettata a Badoglio e i suoi mesti revants con la “svolta di Salerno”, un esercizio d’alta politica (va riconosciuto…) che proiettò subitamente il PCI nelle stanze del governo monarchico. Croce, una volta di più, capì l’ampiezza e la pericolosità della strategia togliattiana e (soprattutto) la sua matrice esogena: «Se i comunisti si mettono a collaborare col Badoglio e col Re, che faranno, allora, gli altri partiti, e particolarmente il democratico cristiano, che ha anch’esso le sue masse e non vorrà tenerle fuori dal governo, abbandonando il campo ai comunisti?… Ho dovuto osservare che gli inglesi e gli americani, che maneggiano gli affari politici in Napoli, sono molto tardi nel comprenderle. E neppure questa volta avevano compreso che ciò che a noi tutti è apparso evidente, e cioè che il tratto di ordinare, da Mosca, ai comunisti di collaborare era appunto contro di essi».
Come Di Rienzo ben documenta, Togliatti fu da subito conscio della totale ostilità dell’autore della “Storia d’Italia” — e del micidiale opuscolo “Per la storia del comunismo in quanto realtà politica”… — verso il suo partito e ogni ipotesi di “democrazia progressiva”; da qui la decisione di sferrare contro l’insigne studioso una pesantissima campagna denigratoria fatta d’illazioni, menzogne, accuse d’ogni sorta: latifondista, criptomussoliniano, reazionario, “maceria umana”. Nemico di classe, nemico politico, nemico del popolo. Una macchina del fango ben congegnata e perfettamente oliata anche grazie al contributo di una filiera di “utili idioti” (Romano, Gullo, Calogero e poi Omodeo, Carandini, Pannunzio, persino il genero Craveri) già crociani convinti e magicamente trasformatisi azionisti o filo-comunisti. Vicende e veleni che le tante prefiche del “compromesso storico” (da Bocca e Scalfari in poi) hanno giustificato o volutamente occultato per decenni…
Nell’autunno di quell’anno terribile un atrabile Don Benedetto, sempre più sempre più preoccupato dall’invasività comunista, si decise a collaborare con i democristiani e i loro referenti vaticani (Montini in primis). Un passo indubbiamente difficile per il “Papa laico” ma infine necessario poichè prodromico all’affondamento del gabinetto Parri e all’archiviazione definitiva dei governi “resistenziali”. Si aprì così una nuova fase della politica post-bellica in cui cattolici e liberali, pur tra molte diffidenze, iniziarono a cooperare mentre tra De Gasperi e Croce si solidificava un rapporto amicale e, pur nel rispetto delle rispettive culture, persino affettuoso. Le posizioni rimasero infatti differenti, a volte divergenti e non mancarono diatribe e forti distinguo come nel caso delle relazioni Stato-Chiesa o a proposito dei rapporti con il PCI (dialettici per i DC, di contrapposizione per Croce) e sulle linee di politica internazionale. Un punto, quest’ultimo, assolutamente centrale per il senatore napoletano. A differenza dell’amico trentino, il nipote di Silvio Spaventa si oppose fieramente al famigerato Diktat, il trattato di pace imposto a Parigi il 10 febbraio 1947, non si rassegnò alla perdita dell’Istria e Fiume e, pur accettandola in chiave antisovietica, poco si entusiasmò per l’adesione della neonata Repubblica al Patto atlantico e ancor meno per le emergenti retoriche europeiste. Non si trattava di fumisterie tardo-patriottiche di un malmostoso nostalgico — ed Eugenio Di Rienzo lo sottolinea con efficacia — ma bensì un atto di preveggenza e di speranza verso quella “povera Patria” che malgrado tutto e tutti «non si rassegnava a morire». Sul tavolo di lavoro dell’anziano filosofo presero forma le prime intuizioni per un nuovo, moderno patriottismo scevro, da stolidi sciovinismi ma attento all’interesse e alla dignità nazionale e avverso ad ogni limitazione alla sovranità del Paese. Idee che pochi anni dopo sorressero l’entusiasmante stagione del “neoatlantismo” di Mattei, Gronchi e Fanfani, caratterizzando un progetto ambizioso, sebbene talvolta contradditorio, che riportò per qualche lustro l’Italia — un’altra volta ancora grande media potenza — nel nuovo “grande gioco” mediterraneo e internazionale. Dagli “anni dello scontento” di Don Benedetto ecco allora un’ultima lezione — da studiare, comprendere e riprendere — destinata a tutti coloro che, ieri come oggi, non accettano di condividere il triste e tristo destino prefigurato dal buon Hegel per quelli “Stati per i quali libertà è morta del timore di morire».
Maurizio Acerbi per “il Giornale” il 30 giugno 2019. Hai detto che volevi seguirmi dovunque, fino alla morte. Questo è il momento». È il 30 aprile 1945, via Poliziano, Ippodromo di San Siro, Milano. A soli 31 anni, con un bambino in grembo, Luisa Ferida, bellissima attrice degli anni del Fascismo, si trova ingiustamente faccia al muro, davanti al plotone di esecuzione comandato da Giuseppe Marozin detto Vero, capo della Brigata partigiana Pasubio. In una mano stringe una scarpina azzurra, che aveva acquistato per il figlio Kim, morto poco dopo la sua nascita e che doveva riscaldare i piedi del futuro bimbo. Al suo fianco, che cerca di farla inutilmente sorridere, pur consapevole del destino ormai segnato, è Osvaldo Valenti, 39 anni, altro divo del grande schermo, con il quale Luisa era legata sentimentalmente. La Ferida è terrorizzata, sa che non ha colpe se non quella di aver amato. L' accusa è quella di collaborazionismo, per aver torturato alcuni partigiani a Villa Triste, sede milanese della famosa banda Koch. Una condanna basata sui «forse» perché non fu mai dimostrato il legame tra la banda e la coppia. Addirittura, sembra che la soubrette Daisy Marchi, amante di Koch, si spacciasse con i detenuti per la celebre Ferida. Valenti, diventato nel '44 tenente della Xa Flottiglia MAS, sa di essere innocente. Per questo motivo si era consegnato ai partigiani insieme alla sua Luisa qualche giorno prima sperando di salvarsi, confidando nella sua famosa arte oratoria (parlava sei lingue). Affidandosi a Nino Pulejo che, però, li destina a Marozin. Il 21 aprile, Vero incontra Pertini che ordina «fucilali; e non perdere tempo. Questo è un ordine tassativo del CLN. Vedi di ricordartene». La loro sorte è segnata. In una cascina di Baggio, subiscono un processo sommario (lei non venne nemmeno interrogata) con inevitabile condanna a morte. Mai comunicata ai due. Tanto che quando vengono fatti salire sul camion che li accompagna al luogo dell' esecuzione, i due sono ignari dell' imminente fine. Nel corso del procedimento penale che lo coinvolse, fu lo stesso Marozin a scagionare la Ferida: «Non aveva fatto niente ma la rivoluzione travolge tutti». Anzi, Marozin andò oltre, puntando il dito, in sede processuale, proprio contro Sandro Pertini. «Quel giorno Pertini mi telefonò tre volte dicendomi: Fucilali, e non perdere tempo!». Addirittura, pare che Pertini si fosse rifiutato di leggere il memoriale difensivo che Valenti aveva preparato durante la prigionia, documento che avrebbe potuto scagionare i due. Ad onor del vero, fu solo Marozin a coinvolgere il futuro presidente della Repubblica, forse proprio per alleggerire la sua posizione. È vero anche che Pertini non smentì mai tali fatti. Quanto a Valenti, la sua innocenza venne confermata dalla Corte d' Appello di Milano, la quale sentenziò che la Ferida e Valenti non furono giustiziati, bensì assassinati. Una raffica di mitra mette fine alla vita delle due celebrità. Anzi tre, visto che nel grembo di Luisa stava crescendo il loro futuro figlio. Sul corpo di lui, i partigiani scrivono: «I partigiani della Pasubio hanno giustiziato Osvaldo Valenti». Su quello della Ferida, invece, entrano nei dettagli: «Giustiziata perché collaboratrice del seviziatore Osvaldo Valenti». Non solo: la casa milanese della coppia viene svaligiata, dopo l' esecuzione. I partigiani, portano via un autentico tesoro (compresi dei cani di razza) di cui non si avrà più traccia. Luisa Ferida, pseudonimo di Luigia Manfrini Farnè, era nata 1l 18 marzo 1914 a Castel San Pietro Terme. Il nome d' arte Ferida trae spunto da uno stemma della casa paterna che raffigurava una mano trafitta, quasi premonitore della sua morte. Fin da subito, la giovane Luigia si distingue per la sua incredibile bellezza. Morto il padre, possidente romagnolo, viene mandata a studiare in un collegio di suore, ma il suo essere ribelle la porterà a fuggire a Milano, dove recita a teatro con Paola Borboni e Ruggero Ruggeri. Ben presto, il cinema si accorge di questa donna dai tratti unici. È il 1935 quando Piero Ballerini e Corrado D' Errico le affidano una parte per La freccia d' oro, grazie alla protezione del produttore Francesco Salvi, suo amante di 14 anni più vecchio, proprietario della Diorama. Dopo vari film, alcuni in coppia con Amedeo Nazzari o con Totò (Animali pazzi), la Ferida esplode letteralmente con Un' avventura di Salvator Rosa, diretto da Blasetti, il regista che sarà determinante per la carriera di Osvaldo Valenti. Nella pellicola Luisa interpreta la parte della contadina Lucrezia, della quale, Flaiano scrisse: «Luisa Ferida non è stata inferiore (a Rina Morelli, ndr) e i suoi periodici ruggiti veramente piacevoli». Tanto basta per lanciarla nell' olimpo delle dive dell' epoca. La sua recitazione naturale, mai artefatta, asciutta, grintosa, diversa da quella enfatica delle sue colleghe, la rendono unica. È sul set che conosce e si innamora del suo Osvaldo, di otto anni più grande di lei, con due matrimoni alle spalle, figlio di un barone siciliano e di un' aristocratica greca. Lei, ad onor del vero, in un primo momento mette gli occhi su Blasetti, costretto, fin dal primo giorno sul set, a sfuggire gli sguardi provocanti dell' attrice. Tanto da chiedere allo stesso Valenti di parlarle: «Evidentemente glielo fece capire talmente bene che nel giro di due giorni scattò il rapporto tra loro due», ricordò, ironicamente, il regista. La coppia, ormai di divi, lavora insieme ai film più importanti dell' epoca, come La corona di ferro, La cena delle beffe, La bella addormentata, I cavalieri del deserto, Orizzonte di sangue. I due si amano, fanno scandalo. È lei ad adattarsi agli eccessi (alcol, sesso e droga) della vita di lui, che la ricambiava di un amore perverso. Le malelingue li ricoprono di pettegolezzi, tra lussuria e atteggiamenti disinibiti. A casa, organizzano festini, splendide cene, balli e feste a base di champagne, caviale e cocaina. Finiscono sul lastrico e se fino a quel momento i due non avevano mai fatto riferimento al Fascismo (Valenti, in privato, era famoso per le parodie dei gerarchi fascisti) ecco che Osvaldo decide di aderire alla Repubblica Sociale. Una scelta che per Steno era figlia anche di «una necessità di droga, perché Valenti, fin dall' epoca in cui era un noto divo, si drogava e frequentava un giro di gerarchi fascisti che facevano largo consumo di stupefacenti, dispensandoli a destra e a manca». Nel 1944, si recano a Venezia per lavorare al Cinevillaggio, centro cinematografico della Repubblica Sociale Italiana. Qui, la Ferida, insieme a Valenti, gira Un fatto di cronaca, film diretto da Piero Ballerini (1944). È il loro ultimo lungometraggio. Almeno, a Lucia Manfrini, madre di Luisa, viene riconosciuta, dal ministero del Tesoro, dopo una accurata inchiesta dei Carabinieri di Milano, una piccola pensione, motivata dalla «morte per cause di guerra» della figlia.
Croce-Gentile, l'amicizia come "ideale" primario. Le lettere inedite tra i due filosofi svelano uno scontro intellettuale insanabile. Ma, anche, una grande stima. Francesco Perfetti, Mercoledì 03/07/2019 su Il Giornale. Nel fascicolo del 13 novembre 1913 della rivista La Voce di Giuseppe Prezzolini apparve un articolo-saggio di Benedetto Croce dal titolo Intorno all'idealismo attuale in cui venivano criticate le posizioni teoretiche di Giovanni Gentile e dei suoi allievi dell'ateneo palermitano dove era stato chiamato a insegnare.
Le parole di Croce erano nette: «Il vostro idealismo attuale non mi persuade». «Esso mi sembra una filosofia la quale si propone di liquidare la filosofia, e di far tacere una volta per sempre tutte le dispute filosofiche che, fondate come sono tutte su distinzioni, sarebbero prive di fondamento, essendo tutte le distinzioni, per voi, astratte e arbitrarie». Per lui, in altri termini, l'idealismo attuale diventava «indifferentismo teoretico ed etico» e produceva «depressione» nella «coscienza dei contrasti della realtà» nonché «acquiescenza al fatto come fatto o all'atto come atto».
A queste osservazioni Gentile replicò l'11 dicembre, sempre su La Voce, sostenendo che la sua filosofia non portava a una «depressione di valori» ma piuttosto a una loro «elevazione» e ribadiva la convinzione che fosse necessario «cambiare radicalmente il punto di partenza, ossia insistere fortemente sul principio di tutto l'idealismo moderno, del pensiero che non presuppone nulla, perché assoluto, e crea tutto». Con questa polemica si incrinava definitivamente il sodalizio fra i due pensatori idealistici e cominciava a maturare quella separazione che, più avanti, nel tempo si sarebbe trasformata in rottura.
Nel quarto volume del Carteggio tra Benedetto Croce e Giovanni Gentile, relativo agli anni 1910-1914, curato da Cinzia Cassani e Cecilia Castellani (Aragno, pagg. 644, euro 35), si trovano diverse lettere che mostrano come i due protagonisti vivessero in privato la formalizzazione del loro dissidio scambiandosi preventivamente il testo dei reciproci interventi e come fossero convinti che esso non avrebbe intaccato i rapporti personali. Il 20 novembre, Gentile, inviando a Croce la bozza della sua replica, si mostrò amareggiato per la «pubblica discussione» che divideva «agli occhi del pubblico due nomi che praticamente potevano bene restare uniti senza pericoli di equivoci» e paventò che si potesse sfruttare l'episodio: «Accadrà che contro un giudizio di Gentile ci sarà un giudizio di Croce, e contro un giudizio di Croce un giudizio di Gentile». Croce rassicurò l'amico: «Certo, c'è gente malevola, che sarà ben lieta di vederci in contrasto e che ora ti soffia nell'orecchio. Io invece chiudo il mio a tutte le insinuazioni malevole, che sono senz'alcun effetto sopra di me, fondato come sono sul saldo ricordo di una provata amicizia». Le lettere che i due si scambiarono su quell'episodio si conclusero il 3 dicembre quando Croce scrisse: «Credi pure che l'affetto e la stima mia per te sono ora, come sono stati sempre, fortissimi. E mi pare che abbiamo dato ora un bell'esempio di lealtà scientifica, portando alla pubblica discussione il nostro dissenso; e ne daremo uno più bello di amicizia, restando indivisibili». Quello stesso giorno Gentile, in una bella lettera finora inedita, usò queste nobili parole: «Se più in là e ogni volta che vorrai, tornerai ad occuparti dell'idealismo attuale, io te ne sarò sempre gratissimo, nulla io più desiderando che vederlo discusso, e da nessuno meglio che da te potendo aspettarmi una discussione proficua».
Il sodalizio fra i due era di antichissima data. Risaliva al 1896, quando Gentile, allora impegnato nella stesura della tesi di laurea, aveva scritto al più anziano e già illustre filosofo. Da quel momento ebbero inizio un'amicizia profonda e uno scambio epistolare, fra i più importanti della storia culturale italiana: uno scambio che consente di cogliere i fondamenti dello sviluppo della filosofia italiana contemporanea. Fin dall'inizio il loro dialogo intellettuale toccò temi importanti e si trasformò in stretta collaborazione quando nel 1903 cominciò a essere pubblicata la rivista La Critica destinata a diventare bandiera di una lunga battaglia culturale e civile. Croce concepì e plasmò questa rivista come una propria creatura, ma il ruolo di Gentile non fu secondario e fu anzi soprattutto nei primi anni quello di un comprimario. Non è un caso che, almeno fino al 1914, egli vi scrisse tanto quanto Croce e vi pubblicò i saggi che avrebbero poi costituito Le origini della filosofia contemporanea in Italia e che facevano da pendant ideale ai saggi crociani su La letteratura della nuova Italia. La collaborazione fra i due andò oltre le pagine della rivista e trovò diversi modi di esplicarsi a cominciare dalla pubblicazione delle collane dei classici della filosofia dell'editore Laterza.
Entrambi si sentivano partecipi e, forse più, protagonisti di quella rinascita dell'idealismo che stava maturando in Europa e che aveva cominciato a manifestarsi sul finire del secolo proprio come reazione a una cultura impregnata di positivismo. E non a caso, forse, La rinascita dell'idealismo fu il titolo della prolusione che, a poche settimane dall'uscita del primo numero de La Critica, egli pronunciò il 28 febbraio 1903 nell'ateneo napoletano. Eppure, malgrado la loro stretta collaborazione, maturavano poco alla volta differenze che, per quanto evidenti nel carteggio, i due si sforzavano di minimizzare per amicizia o reciproco rispetto. A cominciare, per esempio, dai temi dell'estetica, in particolare la relazione fra arte e giudizio critico, a quelli del rapporto tra filosofia e storia della filosofia.
Gentile, peraltro, stava orientandosi sempre più verso una propria filosofia, l'idealismo attuale o attualismo, le cui premesse sono presenti già nel volume La riforma della dialettica hegeliana del 1913. Lo scambio epistolare fra i due pensatori offre la possibilità di seguire gli sviluppi di una frattura intellettuale che non fa velo al profondo rapporto di amicizia reciproca. La frattura, come è noto, avverrà molto più avanti sul terreno politico e Croce e Gentile diventeranno, emblematicamente, a torto o a ragione poco importa, i simboli del liberalismo, da una parte, e del fascismo, dall'altra parte. Ma vale la pena di rammentare che, quando ebbe notizia dell'assassinio di Gentile a opera dei partigiani, Croce lo commentò con una battuta amara: «Ammazzano anche i filosofi!». E nel suo diario di quando «l'Italia era tagliata in due» lo ricordò «bonario uomo e amico».
Fra le tante e importanti lettere, fino a oggi inedite, inserite nel quarto volume del Carteggio fra Croce e Gentile ve ne sono alcune che rivelano, sia pure da ottiche e posizioni diverse, i «turbamenti» dei due corrispondenti di fronte all'approssimarsi del conflitto mondiale. E ve ne sono, ancora, altre di natura più intima, rivelatrici della personalità degli autori. Come quella nella quale Croce dice di sé: «Quando io sarò morto, certamente mi faranno qualche busto o statua, almeno in qualche paesetto in Abruzzo, se non in qualche stradicciuola di Napoli. Ebbene, io spero che allora ci scriveranno sotto in mio elogio: Tolse la filosofia e la letteratura dalle mani dei professori universitarii». Epitaffio o battuta ironica? Chissà, ma, certo, una delle tante perle che rendono godibile persino la lettura di un epistolario.
· Fascismi.
Damnatio memoriae. Il volume di Francesco Carlesi su Italia e fascismo. Luigi Iannone il 21 novembre 2019 su Il Giornale. Damnatio memoriae. Italia e fascismo. Scritti storici sui tabù del nostro tempo, a cura di Francesco Carlesi (Eclettica edizioni, p.228, euro 13) e con saggi di Gianluca Passera, Michelangelo Suozzi, Fabrizio Vincenti, Francesco Guarente, Raimondo Fabbri, Sandro Righini e Daniele Trabucco. A quasi ottant’anni di distanza, il ventennio mussoliniano rimane il periodo più discusso della storia italiana. Le censure e le lotte ideologiche hanno spesso impedito di cogliere le complessità di quell’epoca lontana, che con tutti i suoi drammi rappresentò comunque un passaggio importante della nazione in cammino. Tra le due guerre si sviluppò un pensiero economico-sociale antitetico al liberismo che influenzò irrimediabilmente le evoluzioni del dopoguerra. Il Codice Civile del ’42, le politiche demografiche e le teorie geopolitiche sono alcuni dei principali elementi di interesse nati nel contesto della dittatura. Inoltre, una serie di personaggi controcorrente aspetta ancora di essere riportata al centro del dibattito: Gradi, Panunzio, Di Crollalanza, Berto Ricci, Tassinari, Solaro, Bombacci, Biggini. Questo viaggio controcorrente si completa con incursioni storiche sul Risorgimento e la Prima guerra mondiale fino alle figure di Mattei e Olivetti, che si intrecciano, volenti o nolenti, con il ventennio su cui è caduta la damnatio memoriae. È da salutare con viva soddisfazione questo volume curato da Francesco Carlesi e da altri studiosi tanto giovani quanto valorosi e promettenti. Non posso negare che in tempi di menzogna leggere cose vere e certamente frutto della indiscutibile onestà intellettuale degli Autori, induce anche ad un sentimento di conforto e di speranza. Non senza significato il volume reca il titolo Damnatio memoriae volendo significare già con il suo incipit la ferma determinazione di questi giovani studiosi di volere trarre dal buio profondo della Foiba un intero periodo della storia d’Italia che non è azzardato dire abbia costituito, con le sue luci e con le sue ombre, un’epopea. Un periodo della nostra storia nazionale che si è voluto, e purtroppo ancora si vorrebbe, non solo occultare nel buio di un abisso, ma addirittura cancellarlo come esso non fosse mai esistito. Già solo per questo sorge spontaneo un sentimento di gratitudine nei confronti di Francesco Carlesi come anche degli altri giovani studiosi che hanno contribuito a realizzare questa opera: Gianluca Passera, Michelangelo Suozzi, Fabrizio Vincenti, Francesco Guarente, Raimondo Fabbri, Sandro Righini e Daniele Trabucco. Di questi alcuni già li conoscevo per i loro scritti e per il loro impegno ma a tutti va rivolta la mia profonda gratitudine anche per il coraggio che essi dimostrano nell’affrontare tematiche “politicamente scorrette”, come oggi si usa dire, senza alcuna esitazione a render palese il rifiuto dell’imposizione di un “pensiero unico” e di una ricostruzione degli eventi storici tanto unilaterale quanto falsa. Questo volume, dunque, deve essere inteso anche come un manifesto e consapevole atto di coraggio civile, prima ancora che politico, dei suoi Autori che ad esso hanno contribuito pur in piena consapevolezza del fatto che questa loro opera sarà causa per essi di discriminazioni e di ogni altra diversa forma di violenza morale. Il volume certamente non può ripercorrere in tutti i suoi aspetti la vicenda storica del Fascismo dal 1919 al 1945, che da movimento si trasforma poi in regime. Il volume è strutturato in due parti: una ha ad oggetto alcune “questioni storiche”, l’altra ha ad oggetto “ritratti” di talune personalità che hanno caratterizzato l’epoca fascista con la loro azione ed i loro studi: dal sindacalismo alla democrazia organica; dall’impegno in guerra all’impegno nella vita civile; dalla sfida al comunismo come al capitalismo, marcando in tal modo profili e contenuti della cosiddetta “terza via”; dal costituzionalismo fascista alla rivoluzione “graduale”. Questa seconda parte comprende anche ritratti di personalità attive anche nel dopo-Fascismo: Adriano Olivetti ed Enrico Mattei che dal Fascismo trassero lo spirito della comunità e della solidarietà e lo spirito della difesa intransigente dei legittimi interessi e della dignità nazionale. D’altra parte, non è un caso che la stessa vigente Costituzione repubblicana del 1948 riprende molto della politica sociale ed economica del Fascismo operando una scelta più rivolta al “comunitarismo” che all’individualismo, esaltando il lavoro e favorendo il risparmio, promuovendo la classe lavoratrice fino a prevederne la presenza negli organi di gestione delle imprese e, tra le altre cose ancora, sottolineando la funzione sociale della proprietà privata e dell’impresa che tuttavia non significa negazione della proprietà privata o negazione della libertà di impresa. Il volume in questione tratta nella sua prima parte, come si è detto, talune questioni storiche individuandole tra le più significative e non in dipendenza di una loro consequenzialità cronologica. Così dal Risorgimento alla grande guerra come “quarta guerra di indipendenza”. Segue l’esame del rapporto tra l’Italia fascista e il liberismo e la definizione contenutistica della “terza via” dal primo dopoguerra fino all’attualità. Si è detto che si affrontano questioni storiche ma in realtà sono questioni che pur avendo una ormai antica origine storica, si impongono ancora oggi nella attualità e così l’attenzione del volume si incentra sulla «Carta del lavoro» cui segue appunto un ineludibile interrogativo: è una storia “che non è ancora finita?”. Un’attenzione specifica è rivolta alla lotta alla mafia condotta dal Fascismo anche con metodi di risoluta spietatezza a fronte della emergenzialità delinquenziale del fenomeno mafioso. Vengono poi delineate le linee della geopolitica italiana del passato e del futuro.
La prima parte del volume si conclude affrontando un problema di particolare attualità: il problema del calo demografico in Italia che va affrontato in base alla incontestabile considerazione che il “regresso delle nascite è la morte dei popoli”. La seconda parte del volume, come si è detto, è una interessantissima “galleria” di ritratti di personalità che hanno profondamente inciso nella più che ventennale esperienza fascista italiana. Si tratta di personaggi ai quali il volume rende giusto merito per quanto, in termini di azione e di idee, essi avevano contribuito a quella gigantesca opera di modernizzazione dello Stato e della Nazione promossa dal Fascismo. Si tratta di personaggi più noti e meno noti. Si tratta di personaggi ormai tutti scomparsi dalla vita terrena ma certamente sempre presenti nella memoria nazionale. Personaggi anche solo in apparenza contraddittori ma viceversa sempre coerenti alle loro immutate idee di giustizia e di equità sociale. Così è a dire soprattutto di Nicola Bombacci, “il comunista in camicia nera”, la cui tragica ma esaltante fine viene ricordata per le sue ultime parole rivolte ai suoi assassini: «Viva il socialismo». Un atto di accusa, una condanna tanto inesorabile quanto vera che con solo due parole segnò la linea di demarcazione non solo tra assassini e vittime, ma anche tra chi era nella ragione e chi nel torto; tra chi era con i lavoratori e chi era contro. Così pure viene evocata la figura di Giuseppe Solaro, ultimo Podestà della Città di Torino, impegnato da sempre nella sua lotta disperata contro il comunismo e il capitalismo dell’alta finanza speculativa. La fierezza di Giuseppe Solaro è consacrata nella sua ultima foto che lo ritrae compostamente vestito, commiserante con la sua dignità verso i suoi aguzzini che per sfregio vollero a lui riservare la morte per impiccagione, unico caso di omicidio partigiano (tra le tante centinaia) commesso in tal modo. Un’attenzione particolare viene rivolta a Berto Ricci per la sua costante e intransigente lotta al capitalismo da lui condotta con lo stesso slancio e la stessa passione dei combattimenti durante la grande guerra, e a Sergio Panunzio, il sindacalista e il giurista rivoluzionario. Un nome questo che mi è particolarmente caro perché tra i primi che io sentii nella mia famiglia essendo stato mio padre in un certo senso “allievo” del Prof. Panunzio dal cui pensiero e dalla cui passione negli e per gli studi egli trasse molta ispirazione. E poi Mario Grandi, il teorico della “democrazia organica”, Aurelio Padovani, Giuseppe Tassinari, Araldo di Crollalanza, l’uomo della ricostruzione dopo il devastante sisma del 1930 in Irpinia, l’uomo che restituì alle casse dello Stato 500.000 lire che erano “avanzate” rispetto alla somma messagli a disposizione per la ricostruzione. E infine, l’indimenticabile e indimenticato Carlo Alberto Bigini, il teorico del costituzionalismo fascista, molto prematuramente e scomparso in circostanze mai chiarite e che se fosse sopravvissuto molto avrebbe potuto dire del famoso carteggio Mussolini-Churchill del quale egli era certamente in possesso.
Il volume si conclude con interessantissime riflessioni del suo curatore Francesco Carlesi a proposito dell’espansione statunitense in ragione di un preteso “destino manifesto” della Nazione nordamericana che inizialmente rivolto a nobili idealità con riguardo all’organizzazione politica e sociale interna e con riguardo all’azione estera della giovane e grande Confederazione (rectius Federazione), si è poi tramutato in autogiustificazione per violente azioni di imperialismo di rapina e sopraffattorio nella declinazione di improponibili mistificazioni: dalla promozione dei diritti umani alla “esportazione della democrazia” attraverso l’organizzazione di colpi di Stato anche violenti in pregiudizio della indipendenza politica ed economica di molti Stati pur di antica tradizione.
L’ espressione “primavere colorate” o, nello specifico, “primavere arabe” fu già “coniata” negli ambienti dell’establishment politico e militare statunitense ben prima che accadessero le volute devastazioni in quei tanti Stati vittime della “difesa dei diritti umani”. Diceva il sociologo francese Pierre-Joseph Proudhon “Chi dice umanità cerca di ingannarti” ma molti, troppi, hanno dimenticato questo ammonimento volto a denunciare la menzogna e disvelare l’inganno. Come ho detto, questo volume non ripercorre, né potrebbe farlo, tutte le vicende e tutti i personaggi di un arco storico più che ventennale, ma mette in luce aspetti significativi di quella esperienza politica che attirò l’attenzione di tanti e tanti governi, intellettuali, politici, sindacalisti ed operatori economici di ogni parte del mondo, a cominciare dal Presidente degli Stati Uniti d’America Franklin Delano Roosevelt, in particolare, per gli ancora perduranti effetti della devastante crisi economica del 1929 che fu crisi veramente economica e di produzione, non come quella di oggi che è crisi monetaria e di speculazione finanziaria. Il volume avrebbe potuto nella parte introduttiva delle vicende e questioni storiche ricordare anche la leggendaria figura del Poeta Armato, l’Impresa fiumana e lo Statuto della Reggenza Italiana del Carnaro dal quale molto fu “preso” dal Fascismo per la costruzione dello Stato corporativo. Per altro aspetto, e a tacer d’altro, bisogna pur dire che il volume in questione ha il grande merito di evidenziare nella ricostruzione della vicenda storica e dei molti personaggi che ne furono protagonisti, i grandi meriti del Fascismo: l’anteposizione dei diritti sociali ed economici rispetto ai diritti civili e politici dei quali i primi ne sono presupposto perché senza questi i secondi sarebbero vacue enunciazioni tipiche dello Stato liberale; il diverso rapporto di rappresentanza tra il cittadino e lo Stato, poiché non è lo Stato che rappresenta il cittadino ma viceversa: il cittadino “è” lo Stato; la esaltazione del lavoro come unico fattore della produzione; la consapevolezza che le libertà individuali esistono effettivamente se esiste la libertà collettiva, cioè la libertà del Popolo; l’azione costante di strenua difesa dei legittimi interessi nazionali. E poi, tante altre “cose” ancora ma senza dimenticare i lati oscuri dell’esperienza fascista e tra questi l’infamia delle leggi razziali. Non l’errore di una guerra che è facile giudicare ex post in ragione del suo esito infausto, ma che va valutata anche in considerazione dei tradimenti interni “certificati” nell’art. 16 del cosiddetto “trattato di pace” del 10 febbraio 1947. Esito infausto di una guerra combattuta praticamente contro il mondo intero in nome di una idealità che trascendeva la contingente finalità intrinseca di uno sforzo bellico: era la guerra “del sangue contro l’oro”. Ha vinto l’oro e oggi ne vediamo e ne paghiamo le conseguenze.
“QUESTA SCRITTA MI FA SCHIFO”. Da Il Fatto Quotidiano il 5 luglio 2019. “Salvini muori“: questa è la scritta comparsa nei giorni scorsi su un muro sotto i portici di via Santo Stefano a Bologna che ha fatto arrabbiare il leader de Lo Stato Sociale Lodo Guenzi, che su Instagram si è scagliato contro le parole tracciate forse durante il corte di un centro sociale sabato scorso. “Questa scritta mi fa schifo, fra una settimana se è ancora lì la cancello io“, ha detto il cantante bolognese spiegando che è proprio “davanti a casa mia e ogni mattina spero di trovarla cancellata”. “Lasciamo ad altri questo schifo e scegliamo l’intelligenza, il paradosso, l’ironia, il gioco, la poesia e la passione – aggiunge Lodo Guenzi – Anche nello scontro, soprattutto nello scontro. Perché frasi come queste sono merda fascista, e non fanno che costruire una società fascista. Non so quando abbiamo cominciato ad arrenderci a questo squallore, ma rispondere alla merda con la merda farà sempre e solo vincere la merda. Chi parla male pensa male. Chi pensa male agisce male”. Il post di Lodo Guenzi è stato subito invaso da migliaia di commenti ma le sue parole hanno ricevuto il plauso anche del commissario provinciale della Lega Carlo Piastra, come riporta il Corriere: “Non sono un grandissimo fan dei cantanti che fanno politica, ma il suo gesto dimostra una grande intelligenza ed educazione“, ha detto il deputato chiedendosi perché non sia stato il Comune a muoversi per primo: “Salvini non è solo il capo di un partito, ma è il ministro dell’Interno e rappresenta le istituzioni, forse il Comune si sarebbe dovuto muovere prima”.
"Bastardo fascista, ti sfondo". Paura per l'ex consigliere che denunciò i crimini dei partigiani. Sfiorata aggressione per l'ex consigliere di Noli, Enrico Pollero, che si è battuto per intitolare una targa a Giuseppina Ghersi, la bimba uccisa dai partigiani. Lui: "Rifarei tutto". Elena Barlozzari, Lunedì 24/06/2019, su Il Giornale. Continua a pagare il prezzo d’aver riportato a galla una storia scomoda, Enrico Pollero, 63 anni, ex consigliere comunale di Noli, nel Savonese. I suoi guai sono iniziati assieme all’interpellanza che ha fatto da apripista alla realizzazione della targa in memoria di Giuseppina Ghersi, “sfortunata bambina” – si legge sull’epigrafe – finita nelle grinfie di un branco di partigiani comunisti senza scrupoli né pietà che, a guerra conclusa, l’hanno rapita, seviziata ed uccisa. Sul tentativo dell’Anpi di osteggiare il progetto, facendosi megafono di folli tesi giustificazioniste, sono stati versati fiumi d’inchiostro e di indignazione. Dopodiché sulla piccola cittadina rivierasca è piombato il silenzio. La vita, quella di tutti i giorni, è ricominciata a scorrere. Per tutti, ma non per Pollero che, da allora, è oggetto di continue minacce e intimidazioni. L’ultima risale a sabato scorso e, come racconta l’ex consigliere a IlGiornale.it, è quasi degenerata in una vera e propria aggressione. “Verso sera passeggiavo dalle parti della chiesa di Sant’Anna, quando il gestore di un bar mi ha notato ed ha messo a tutto volume la canzone Bella ciao”. Pollero, a dispetto delle calunnie che girano sul suo conto, è un moderato e non si scompone. Lo stigma di “fascista”glielo hanno appiccicato addosso (“Pollero ratto”, hanno scritto con la bomboletta spray su un muro non lontano dalla sua abitazione) e, oramai, si è rassegnato a conviverci. Così risponde a quella provocazione a modo suo, con un sorriso. “Vieni nel vicolo che ti spacco, coniglio, bastardo fascista”. Gli strilla l’altro in faccia, dopo essersi scagliato fuori dal bar, irritato da quella reazione bonaria. “C’è mancato poco che mi mettesse le mani addosso, per fortuna – racconta – è intervenuto un assessore della giunta attuale e l’ha bloccato”. Dell’accaduto ha provveduto ad informare la Digos, ma non vuole passare per vittima. “Preferisco che se la prendano direttamente con me – spiega – che con la targa di quella povera bambina”.
Lo scorso anno, infatti, qualcuno aveva vandalizzato il cippo in memoria della Ghersi. Le piastrelle di ceramica su cui campeggia quell’epigrafe stringata, che indulge su colpe e responsabilità, ed è figlia di un compromesso politico inutilmente cercato per disinnescare le polemiche, erano state mandate in frantumi. “Mi sono rimboccato le maniche – ricorda l’ex consigliere – e l’ho riparata a mie spese”. Rifarebbe tutto, nonostante tutto? “Certo – risponde senza esitare –, mio padre era un partigiano ed io stesso ho militato nel partito comunista fino a vent’anni, poi ho capito che la democrazia era un’altra cosa, da allora la pacificazione nazionale è sempre stata il faro del mio impegno e non mollo: sogno un 25 aprile che ricordi indistintamente le vittime di ogni colore”.
Il fascismo degli antifascisti. Alessandro Gnocchi, Giovedì 10/01/2019 su Il Giornale. Il fascismo degli antifascisti. È un'espressione di Pier Paolo Pasolini e il titolo di un libro tanto piccolo quanto interessante pubblicato da Garzanti. Non ci sono inediti ma una selezione esaustiva degli articoli dello scrittore dedicati a fascismo e antifascismo. In coda una splendida intervista a Pasolini realizzata da Massimo Fini, nel 1974. Ieri un amico (via twitter), il libraio e scrittore Emiliano Gucci, notava che l'analisi più lucida dei nostri giorni è firmata da un uomo ucciso quando lui, Gucci, aveva due mesi. Ottimo spunto, che rubo a Emiliano (grazie). Infatti la lettura de Il fascismo degli antifascisti finisce con l'essere illuminante. Prima di entrare nel merito, una considerazione marginale: come poteva Pasolini, al netto di un marxismo posticcio, definirsi comunista? In questi scritti viene fuori piuttosto un conservatore, se non addirittura un reazionario. Non stupisce che Pasolini fosse un appassionato lettore di Antonio Delfini, scrittore geniale, dimenticato e pubblicato con i piedi dall'editoria italiana. Delfini aveva scritto un semi-delirante Manifesto per un partito conservatore e comunista, una formula nella quale Pasolini doveva riconoscersi. Il limite dell'analisi di Pasolini è linguistica: in sostanza definisce «fascista» tutto quello che non gli piace, antifascismo incluso. Il fascismo è trasformato in una categoria morale, che indica il carnefice, la sopraffazione, la violenza. Anche nella vaghezza del significato di fascismo Pasolini rispecchia lo spirito del nostro tempo, in cui il fascismo è tutto e niente, quasi sempre un insulto da usare come clava per zittire l'avversario non conforme al politicamente corretto. Veniamo ai testi.
Punto primo. L'antifascismo ha fatto nulla per cancellare il fascismo e i fascisti: «Li abbiamo solo condannati gratificando la nostra coscienza con la nostra indignazione; e più forte e petulante era l'indignazione più tranquilla era la coscienza».
Punto secondo. L'antifascismo è una litania che si snoda da Ferruccio Parri ad Adriano Sofri, ed è ben accetta dai perbenisti della politica. Sorpresa: i veri fascisti sono quelli al potere e al governo. I Moro, i Fanfani, i Rumor, i Pastore, i Gronchi, i Segni, i Tanassi, i Cariglia e magari i Saragat e i La Malfa. «Contro la politica di costoro, si può e si deve essere antifascisti» (qui Pasolini ruba le parole a Marco Pannella).
Punto terzo. Oggi il fascismo è un'altra cosa rispetto al Ventennio. Fascisti e antifascisti sono diventati uguali e hanno desideri simili: «Il nuovo fascismo - che è tutt'altra cosa - non distingue più: non è umanisticamente retorico, è americanamente pragmatico. Il suo fine è la riorganizzazione e l'omologazione brutalmente totalitaria del mondo». Le tradizioni devono essere spazzate via dalla «società dei consumi» e dal conformismo. La cultura di massa «è infatti direttamente legata al consumo, che ha delle sue leggi interne e una sua autosufficienza ideologica, tali da creare un Potere che non sa più cosa farsene di Chiesa, patria e famiglia». L'omologazione riguarda tutti: popolo e borghesia, padroni e sottoproletari. La stessa divisione in classi sociali tende a scomparire o quantomeno a essere indistinguibili.
Punto quattro. Cos'è il Potere e chi lo detiene? «Scrivo Potere con la P maiuscola (...) solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c'è. Non lo riconosco più né nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nelle Forze Armate. Non lo riconosco più neanche nella grande industria, perché essa non è più costituita da un certo numero di grandi industriali: a me, almeno, essa appare piuttosto come un tutto (industrializzazione totale) e, per di più come tutto non italiano (transnazionale)».
Di cosa sta parlando Pasolini? A cosa si riferisce quando impropriamente usa la parola fascismo per descrivere l'assimilazione totale dei nostri tempi? Sostituite «fascismo» con «globalizzazione»: i conti tornano. Ecco spiegato il potere transazionale che scavalca le vecchie forme di potere nazionale. Ecco cosa significa l'appiattimento e la confusione delle classi sociali. Ecco cosa significa l'omologazione del mondo, imposta con brutale forza totalitaria. Pasolini, integrato e apocalittico, membro della società letteraria con licenza di fuga nei sobborghi, si rivela davvero preveggente. Non tanto per la questione del fascismo e dell'antifascismo che, in termini storici, ritiene conclusa e da accantonarsi. Pasolini è scioccato dalle forze che daranno vita alla globalizzazione a trazione americana. Lì intuisce l'esistenza di un nuovo potere ubiquo e senza volto, che potremmo forse individuare nelle istituzioni transnazionali, nell'alta finanza e nella casta dei «tecnici». Per commerciare agevolmente, meglio cancellare le frontiere, le differenze, le tradizioni e perfino la politica, che ha tempi lunghissimi rispetto all'economia. Il tempo è denaro e il denaro è tempo. Meglio decidano rapidamente i tecnici con o senza l'investitura del voto, come abbiamo potuto verificare sulla nostra pelle. Rispetto a Pasolini, la sinistra di oggi ha fatto qualche passo indietro, tornando all'antifascismo, caricaturale in assenza di fascismo. A volte finisce a schiaffoni, come nel caso dei giornalisti dell'Espresso picchiati dai «camerati» a margine della commemorazione della strage di Acca Larentia. La violenza è da condannare duramente. Ma non basta quest'episodio per descrivere un'Italia in mano agli squadristi. Piuttosto vale la pena notare che la sinistra ha sposato completamente la globalizzazione. Forse Pasolini oggi si chiederebbe se la sinistra sia ancora di sinistra.
Fascismi. Pubblicato sabato, 27 aprile 2019 da Adriano Sofri su Il Foglio. Forse si può ripetere qualche ovvietà trascurata sul fascismo. Per esempio: “fascismo” in Italia (non solo) ha almeno due accezioni principali e concorrenti. E’ il fenomeno storico succeduto alla brutalità della Grande Guerra e durato come una dittatura violenta, razzista e vocata al totalitarismo per più di vent’anni. Ed è per i suoi avversari una categoria antropologica e fortemente morale, il fascismo universale, la designazione di un modo di essere umano e specialmente maschile. Così Pasolini, per eccellenza, ma l’esempio più penetrante e drammatico è, mi pare, nel verso di Sylvia Plath: “Ogni donna ama un fascista”. (Certo che non è vero. Certo che è vero. Vuol dire che in ogni uomo sonnecchia, almeno, un fascista). Lo scambio fra le due accezioni non può che provocare qualche confusione. Ma si può fare attenzione. Un’altra ovvietà sta nell’estensione illimitata dell’antitesi fascismo-antifascismo. Quella antitesi era essenziale durante il dominio del regime fascista. “Tutto il bene, tutto il male”. Ma non esauriva allora, e tantomeno esaurisce dopo, il confronto politico e civile. Viene da qui un’ulteriore confusione. L’espressione “ritorno del fascismo”, ragionevole com’è, induce però a immaginare una versione rinnovata dell’idea per cui la storia è un ciclo di andate e ritorni: c’è il fascismo, poi viene l’antifascismo, poi torna il fascismo, o minaccia di tornare, e gli si rioppone l’antifascismo eccetera. Quello che in realtà arriva non è “il ritorno del fascismo”, quello storico, benché l’esperienza, ancora così bruciante, del fascismo storico, e il riconoscimento della personalità “fascista” forniscano criteri preziosi all’intelligenza di ciò che arriva. Complica le cose, ma bisogna rinunciare all’idea che la storia giri su se stessa e anche all’idea che la storia vada, sia pure con deviazioni, arresti, retrocessioni, verso il progresso. La storia ha un passo di ubriaco, e si può provare a renderne l’ubriachezza meno molesta. Per provarci, essere antifascisti non basta, ma è indispensabile. L’antifascismo è stato troppo sveltamente annesso alla noia del politicamente corretto. Ci sono molti esperti soprattutto preoccupati che si evochi il fascismo per il corso politico prevalente oggi. Lasciamo perdere quelli che lo fanno, poveracci, per viltà o ruffianeria. Consideriamo quelli che pensano francamente che l’evocazione del fascismo faccia dirottare l’opposizione politica e civile. Però bisogna rinunciare alla minimizzazione del fascismo in divisa, “caricaturale”, “folcloristico” eccetera: quel fascismo è un ingrediente complementare, oltre che ributtante, di quello che arriva. Ha una funzione simile a quella della strategia della tensione fra i 60 e i 70. Salvini e CasaPound, o Forza Nuova eccetera, stanno in questo rapporto. Ed è vero che lo stesso Salvini non è Mussolini, come ha detto lapidariamente Andrea Camilleri: tutt’al più un Federale. Anche Mussolini non era Mussolini, fino a pochi giorni prima. La Lega di Salvini non è, come sperano alcuni specialisti più sensibili alle differenze che alle somiglianze, un’incarnazione aggiornata dell’antiantifascismo, la infastidita terza via del qualunquismo italiano. L’evocazione, più o meno indebita accademicamente, del fascismo, forse riuscirà a indurre un numero maggiore di giovani a chiedersi di che cosa si trattasse. Succede però che una minoranza, ma consistente, di giovani, studi a suo modo, devota a suoi maestri e idoli, il fascismo storico, contraffacendone la verità ma agguerrendosi nella sua vulgata e nei suoi gerghi. Il movimento operaio – non solo lui – era una grandiosa impresa educativa e autoeducativa. Nel contesto della sua ispirazione e sostegno, l’autodidattismo di chi era escluso dall’istruzione ufficiale era una conversione personale e collettiva epica. Oggi l’autodidattismo si immagina autosufficiente, vanta il proprio diritto a un’ignoranza cellulare, concepisce addirittura una propria superiorità morale. La sinistra democratica avrebbe qui il suo compito e la sua occasione migliore: l’educazione e l’autoeducazione. Non che la memoria, l’intelligenza della realtà non è mai stata così divisa, e però ha bisogno di essere divisa, divisissima. Da questo punto di vista, la scissione élite-gente è inutile, ed è anzi la maschera attraverso cui passa una lacerazione sociale verticale, non orizzontale: fra chi vuole “il napalm” e chi la solidarietà – e ammucchiare “la gente” toglie ai singoli nella gente ogni residuo di responsabilità personale. Domani – o dopodopodomani… – a domanda non risponderanno di aver obbedito agli ordini, non ancora, ma risponderanno di aver creduto in Salvini o chi per lui. “Come facevano tutti”, o quasi. Si saranno lasciati trascinare, come allo stadio. La folla assiepata e filtrata, uno alla volta, a farsi il selfie: a questo è ridotta la responsabilità individuale, al selfie a due, prima di tornare a casa e portare una carezza di Salvini ai bambini. La degradazione economica ha questo effetto tragicomico, di far dimenticare agli svaligiati il primato della condizione materiale e di trasformarli in idealisti, in fanatici esaltati pronti a votarsi a una causa – e a un Uomo. Quale “classe” sta dietro a Salvini Forse la differenza più importante è questa: che noi non veniamo dopo una guerra, veniamo prima.
Antonio Socci il 4 Marzo 2018 su Libero Quotidiano: "Ma quale fascismo, Europa e speculatori sono i nuovi dittatori". Sembra incredibile, ma il fascismo è stato il tema centrale della campagna elettorale 2018 della Sinistra. La parte che, nel 1994, irrideva Berlusconi perché parlava di comunismo, oggi suona l' allarme per l' apocalittica minaccia fascista che d' improvviso incomberebbe sull'Italia. Solo che nel '94 era plausibile parlare di comunismo perché - dopo le inchieste che avevano spazzato via gran parte dei dirigenti dei partiti democratici - la classe politica rimasta padrona della scena era quella che proveniva dal Pci, il più grande partito comunista d' occidente, che era stato legato ai regimi dell' Est europeo. Il candidato alla guida del governo italiano per la Sinistra, data vincente, alle elezioni del 1994, era Achille Occhetto, ultimo segretario del Pci. Proprio quell'Occhetto che nel marzo 1989, pochi mesi della caduta del Muro, al Congresso del Pci, ribatté a muso duro a Craxi gridando dal palco (fra grandi applausi): «Non si comprende perché dovremmo cambiar nome. Il nostro è stato ed è un nome glorioso che va rispettato». Appena nove mesi dopo - iniziato il crollo dei regimi dell' Est - Occhetto si precipitò alla Bolognina ad annunciare il cambio del «nome glorioso» che d' improvviso era diventato imbarazzante. Ma il partito restava sempre quello, come pure il suo fortissimo insediamento sociale e politico (anche nelle istituzioni), come la sua classe dirigente e il suo stesso segretario. Il quale segretario si apprestava appunto a conquistare nel '94 la guida del governo in Italia.
COMUNISTI OGGI - D'altronde il comunismo era sì crollato all' Est - dove tuttavia alcuni pezzi di establishment rosso continuavano a dominare - ma era ben vivo in Cina, a Cuba, in Corea del Nord e Vietnam. Dove peraltro il comunismo continua a dominare anche oggi, nel 2018 (su un miliardo e mezzo di persone). Il fascismo che invece è stato evocato in questa campagna elettorale dalla Sinistra non ha appigli storici: quel regime è finito da 73 anni. Non c'è in Italia una classe politica che viene dal regime fascista. Ci sono piccoli gruppi marginali di nostalgici, come ci sono gruppi (più numerosi) che si richiamano al comunismo. Ma sono residuali e senza rappresentanza parlamentare. A questa evocazione del fascismo in campagna elettorale dal centrodestra hanno risposto sostenendo che la sinistra cercava di buttarla in caciara per eludere i problemi concreti degli italiani e i suoi fallimenti di governo: sull'economia, che ancora è in coma, sull' emigrazione e sulla sudditanza all' Unione Europea, cioè a Germania e Francia. Nei social - e nei discorsi di alcuni leader del centrodestra - è stata molto usata una citazione di Pier Paolo Pasolini, tratta da una lettera ad Alberto Moravia, datata ai primi anni Settanta, dove si legge: «Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un' arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua a logora la società già moribonda». Giovedì scorso, su Repubblica, Massimo Recalcati spiegava: «Per Pasolini il "nuovo fascismo" non aveva a che fare con le rinate organizzazioni fasciste dopo la fine della seconda guerra mondiale e la Liberazione, ma con il potere di plasmazione delle vite e delle coscienze che il nuovo "sistema dei consumi" era riuscito a produrre». E proseguiva: «Questa tesi generale - in sé forse discutibile - ha il merito di emancipare il fascismo dal problema della sua eventuale riorganizzazione politica - che secondo Pasolini era un fenomeno del tutto residuale - per ricondurlo a un grande tema antropologico». Recalcati fra l' altro suggeriva «il fascismo come rinuncia al pensiero critico, massificazione, irregimentazione». Aggiungeva anche altri connotati, ma seguendo il suo ragionamento (che ho qui riassunto) viene da osservare che in Italia - da decenni - la «rinuncia al pensiero critico», la «massificazione» e l'«irregimentazione» hanno caratterizzato specialmente l' area di opinione della Sinistra che poi, negli ultimi anni, si è clamorosamente sposata con il "pensiero unico" iperliberista della moderna globalizzazione - per così dire - clintoniana.
CONFORMISMO - Basta vedere la plumbea uniformità dei media, nazionali e internazionali, ad esempio nell' analisi della vittoria di Trump o della Brexit, dell' Unione Europea, dell' Euro, di Putin e via dicendo. Così la sinistra ha perso la rappresentanza del popolo ed è totalmente saltata la tradizionale contrapposizione destra/sinistra. Sui social la frase di Pasolini è stata rilanciata con questo commento: «Sostituire il desueto "consumismo moderno" con la "moderna globalizzazione" dopodiché rileggete e ditemi se non è attuale». Ma si tratta di un commento che viene dall' area della Lega di Salvini, non dalla sinistra. La Lega di Bagnai e Borghi ha colto in pieno quel cambiamento del capitalismo che Pasolini poté solo intuire. È il nuovo capitalismo della finanza che si è mangiata l' economia reale, che ha travolto il ceto medio, gli stati nazionali e lo stato sociale. È quello che Giulio Tremonti chiama «mercatismo». In "Uscita di sicurezza" ha parlato di segnali di «un tipo nuovo di fascismo», un «fascismo finanziario». Anche la mancanza di democrazia che caratterizza l' Unione Europea fa pensare a un rischio totalitario. Il grande dissidente russo Vladimir Bukovskij ha ripetutamente giudicato l' Ue una nuova Unione Sovietica, spiegandone le analogie. C'è di che riflettere. Antonio Socci
Antonio Socci 31 Marzo 2019 su Libero quotidiano, la confessione di Federico Rampini sulla sinistra: "I veri fascisti siamo noi". «Debuttai come giornalista (in nero e senza un contratto di lavoro, proprio come si usa oggi) nel 1977 alla Città futura. Era il giornale della Federazione giovanile comunista italiana». Così impietosamente Federico Rampini - oggi firma di punta di Repubblica - ricorda il suo esordio professionale nel suo ultimo libro, "La notte della sinistra", dove affonda il coltello nelle contraddizioni, nelle ipocrisie e negli errori della sua parte politica, che elenca: «dall' immigrazione alla vecchia retorica europeista ed esterofila, dal globalismo ingenuo alla collusione con le élite del denaro e della tecnologia». Il libro di Rampini in pratica demolisce la Sinistra. L' autore invita anzitutto a smetterla di «raccontarci che siamo moralmente superiori e che là fuori ci assedia un' orda fascista». Invita anche a smetterla «di infliggere ai più giovani delle lezioni di superficialità, malafede, ignoranza della storia. Si parla ormai a vanvera di fascismo, lo si descrive in agguato dietro ogni angolo di strada, studiando pochissimo quel che fu davvero... Si spande la retorica di una nuova Resistenza, insultando la memoria di quella vera (o ignorandone le contraddizioni, gli errori, le tragedie)». Poi l' autore ricorda le orribili assemblee studentesche degli anni Settanta, dove «gli estremisti, decidevano chi aveva diritto di parola e chi no. "Fascisti", urlavano a chiunque non la pensasse come loro. L' élite di quel momento (giovani borghesi, figli di papà, più i loro ispiratori e cattivi maestri tra gli intellettuali di moda) era una Santa Inquisizione che sottoponeva gli altri a severi esami di purezza morale, di intransigenza sui valori».
FILASTROCCHE. Attualmente sembra si sia disinvoltamente cambiato tutto, ma «nel politically correct di oggi sono cambiate solo le apparenze, il linguaggio, le mode. Tra i guru progressisti ora vengono cooptate le star di Hollywood e gli influencer dei social, purché pronuncino le filastrocche giuste sul cambiamento climatico o sugli immigrati. Non importa che abbiano conti in banca milionari, i media di sinistra venerano queste celebrity. Mentre si trattano con disgusto quei bifolchi delle periferie che osano dubitare dei benefici promessi dal globalismo». Le parole d' ordine e gli slogan dell' attuale Sinistra vengono demoliti con chirurgica precisione. I sovran-populisti sono accusati di alimentare la paura? «Da quando in qua» si chiede Rampini «la paura è una cosa di destra, anticamera del fascismo? Deve vergognarsi chi teme di diventare più povero? Chi patisce l' insicurezza di un quartiere abbandonato dallo Stato?». E le parole identità, patria, interesse nazionale? Rampini sconsolato scrive: «dobbiamo smetterla di regalare il valore-Nazione ai sovranisti...». A loro - dice - «abbiamo lasciato» la parola Italia: «certi progressisti» si commuovono per le grandi cause come «Europa, Mediterraneo, Umanità» mentre ritengono la nazione «un eufemismo per non dire fascismo». Solo che la liberal-democrazia è nata proprio «dentro lo Stato-nazione» e Mazzini e Garibaldi «erano padri nobili della sinistra», la quale peraltro ha «venerato tanti leader del Terzo Mondo - da Gandhi a Ho Chi Minh a Fidel Castro - che erano prima di tutto dei patrioti». La Sinistra nostrana si entusiasma solo per il sovranismo altrui. Rampini osserva: «non si conquistano voti presentandosi come "il partito dello straniero". Negli ultimi tempi in Italia il mondo progressista ha sistematicamente simpatizzato con Macron quando attaccava Salvini e con Juncker quando criticava il governo Conte». Così si conferma «il sospetto che la sinistra sia establishment, e pronta a svendere gli interessi nazionali. Ed è un' illusione anche scambiare Macron per un europeista: è un tradizionale nazionalista francese, che dell' Europa si serve finché gli è utile, ma per piegarla ai propri interessi». Su Juncker poi Rampini è durissimo ricordando che faceva parte del governo del Lussemburgo quando adottava certe politiche fiscali, cioè offriva «privilegi fiscali alle multinazionali di tutto il mondo: uno dei principali meccanismi di impoverimento del ceto medio e delle classi lavoratrici di tutto l' Occidente».
ERRORE GRAVE. Secondo Rampini «uno che ha governato il Lussemburgo» non dovrebbe essere «promosso» a dirigere la Commissione europea. L' autore trova incredibile che «opinionisti di sinistra abbiano tifato per Juncker». E poi si chiede: «Perché solo gli italiani dovrebbero vergognarsi di avere cara la propria nazione? Definirsi europeisti in chiave antinazionale, il vezzo attuale della nostra sinistra, è un errore grave: a Bruxelles né i tedeschi né i francesi dimenticano mai per un solo attimo di difendere con determinazione gli interessi del proprio paese». Il primo capitolo del libro s' intitola "Dalla parte dei deboli solo se stranieri". La fissazione delle élite progressiste per gli immigrati (che sono utilissimi a un certo capitalismo per abbattere retribuzioni e protezioni sociali) va di pari passo con la dimenticanza della stessa Sinistra per i nostri poveri e il nostro ceto medio impoverito. Qui l' analisi di Rampini si fa spietata per moltissime pagine. E fa capire perché il popolo e i lavoratori hanno divorziato dalla Sinistra e questa è diventata il partito delle élite e dei quartieri-bene: «L' Uomo di Davos ha plagiato la sinistra, i cui governanti si sono alleati proprio con quelle élite». La conclusione di Rampini è questa: «non vedo un futuro per la sinistra italiana se si ostinerà a essere il partito dei mercati finanziari e dei governi stranieri, in nome di un europeismo beffato proprio da tedeschi e francesi». Antonio Socci
Vittorio Feltri 26 Aprile 2019 su Libero Quotidiano: "Sinistra ridicola. Ha ucciso il 25 aprile (e fa vincere le elezioni a Matteo Salvini)". Complimenti agli antifascisti di maniera, da osteria e da centri sociali che sono stati in grado di trasformare il 25 aprile in una buffonata irresistibilmente comica. Non mi riferisco solo a quanto è avvenuto a Milano: in tutta Italia la festa della Liberazione dal duce e dei suoi manipoli è stata una occasione volgare per denigrare Salvini, facendolo passare pubblicamente come un pericoloso gerarca. Una operazione stolta organizzata dalla sinistra più becera incapace di leggere correttamente la realtà e buona a nulla, come si evince dallo stato comatoso in cui si è ridotta. Matteo issato al vertice di una presunta dittatura di stampo mussoliniano è peggio di una forzatura: è un imbroglio che non funziona ai fini di prendere in giro il popolo italiano, il quale nutre nei confronti del leader leghista una fiducia illimitata. Non è un caso che il capo del Carroccio sia in testa a qualsiasi sondaggio che misuri attualmente il gradimento degli uomini politici in vista. Di Maio è in rotta di collisione col proprio elettorato, le sue preferenze calano vistosamente ogni dì. Il Pd, con il povero Zingaretti al comando, è asfittico. L' unico che guadagni consensi a vista d'occhio è Salvini. Il motivo del suo successo non è difficile scoprirlo. Egli interpreta il sentimento della gente, che non è certo fascista, ignorando totalmente la tradizione ducesca, lo spirito che animava le camicie nere e l' intera paccottiglia ideologica che sosteneva la necessità di "dissetare" i rari contestatori con bottiglie di olio di ricino. Alberto da Giussano non ha mai usato il manganello e attribuirgli l' idea di mortificare con la violenza gli avversari è da manicomio. La storia del fascismo è stata tragica, mentre quella degli antifascisti sfiora il ridicolo, specialmente ora che gli squadristi, quanto i partigiani, sono sepolti al cimitero ed è impresa velleitaria tentare di farli risorgere nella speranza vana di riempire le piazze e svuotare le urne piene di voti a favore di Matteo. I riti ripetitivi e noiosi del 25 aprile affidati ai compagni non servono a resuscitare i morti del secolo scorso. Salvini vincerà le elezioni perché tiene l'orecchio vicino alla base, mentre i suoi competitori inseguono i fantasmi di un'epoca remota che non vale neanche la pena di rammentare. Vittorio Feltri
Fascismo, comunismo, populismo, sovranismo. Quale di questi è incompatibile con la democrazia? Roberto Marchesi, Politologo, studioso di macroeconomia, il 5 Febbraio 2019 su Il Fatto Quotidiano. La risposta è facile per tutti, specialmente nel vissuto popolare. Ma, se si volesse verificare, si resterebbe sbigottiti nel vedere come siano variegate e fantasiosamente motivate quelle risposte. Sono molti, specialmente tra i giovani, quelli che pensano alle dittature fasciste, naziste, comuniste come a sistemi politici nati e imposti con la violenza. Un po’ lo fu il sistema comunista sovietico, impostosi in Russia con la rivoluzione. Ma allora anche le nostre democrazie, all’origine, nacquero da violente rivoluzioni, necessarie per abbattere le monarchie assolute. La rivoluzione francese è quella che produsse i risultati più importanti e duraturi, perché profondi. Fu poi proseguita da Napoleone che, per imporre quei radicali cambiamenti sociali dovette far guerra a tutte le monarchie europee. Ma poi si fece “prendere la mano” perché per attuare tutte le importanti riforme che avviò ovunque nei territori conquistati, fu costretto ad assumere su di sé tutto il potere “imperiale” necessario al governo dell’immenso territorio. Il suo fu un sistema di potere imperiale e sovranista ma popolare, vagamente a imitazione di quello romano. Ma anche i coloni americani dovettero conquistare il loro spazio con le armi per liberarsi dal dominio inglese e costruire quella che, attualmente, è la più longeva repubblica democratica del mondo. Poi, appena un secolo fa, arrivò un’altra grande, violenta, rivoluzione, quella sovietica, a spazzare via un’altra veneranda monarchia, quella russa, che pure fu capace di costringere alla ritirata persino l’irresistibile Napoleone. Quello che sorprende in tutto questo “spaccato” di storia è che probabilmente sono proprio pochi, nella comune popolazione, quelli che conoscono almeno a sufficienza l’accavallarsi di queste pagine di storia. Molti conoscono gli esiti finali, ma non le origini o almeno le loro più significative evoluzioni politiche e storiche. Sono ancora troppi quelli che non sanno per esempio che tanto il fascismo quanto il nazismo sono nati come forze politiche completamente aderenti ai sistemi democratici in cui si sono formate. Solo in seguito si sono trasformate nei “mostri” politici e morali che tutti conosciamo e di cui, proprio in questi giorni, abbiamo celebrato, per non dimenticare, gli orrori delle nefande “leggi razziali”. Pochissimi sanno per esempio che la tremenda dittatura sovietica si sovrappose a quello che fu in realtà un ottimo progetto democratico. Quel progetto fu però letteralmente “violentato” da un Partito Comunista che cercava in quel modo di imporre (in modo inumano) il proprio ideale ugualitario. I Soviet infatti non erano altro che i “Parlamenti” russi, a vari strati sovrapposti l’uno sopra l’altro: comunale, regionale, nazionale e sovra-nazionale (Urss = Unione repubbliche socialiste sovietiche). Il sistema era stato creato per consentire al popolo di eleggere i propri rappresentanti ai vari livelli fino al livello supremo del Segretario Generale dell’Urss. Ma se a ogni livello si intrometteva il Pcus, il partito comunista sovietico, a scegliere chi poteva candidarsi, quel sistema perfettamente “democratico” diventava solo di facciata e in realtà si muoveva esattamente come una dittatura gestita dai gerarchi del partito. Adesso fate un pensierino ai nostri sistemi elettorali degli ultimi 20 o 30 anni e dite: cos’ha, oggi, il nostro sistema democratico di diverso da quello sovietico? Se poi ci aggiungiamo quello che il Pd e suoi alleati volevano, ma non sono per fortuna riusciti a fare (l’eliminazione del Senato e la creazione di una Camera composta da Consiglieri Regionali già scelti in sede partitica), provate a dire a quale sistema democratico operante fino agli anni 80 somigliava il “capolavoro” politico di Renzi & C? E con quale leader? La risposta a queste domande c’è già qua sopra, quella al quesito nel titolo è invece: tutti e nessuno. Dipende come viene usato lo strumento che si ha a disposizione. Se hai un martello e lo usi per piantare un chiodo per appendere un quadro, fai un uso perfetto di quel martello, ma se lo usi per picchiarlo in testa a qualcuno sei un criminale. Il nazismo, il fascismo e il comunismo hanno attraversato la loro fase genetica in sostanziale compatibilità coi sistemi orientati alla piena democrazia, ma poi sia Hitler che Mussolini che Stalin hanno completamente accantonato quell’ideale per andare ad abbracciare ideali del tutto opposti a quello democratico. Sul “populismo” cosa vogliamo dire se non che, essendo la democrazia il sistema nel quale il popolo può esercitare compiutamente il proprio potere attraverso i suoi rappresentanti eletti, come fa il popolo a non essere populista? Ma anche il termine “sovranista”, oggi usato quasi come un epiteto da un numero enorme di propagandisti politici col posto fisso nei quotidiani talk show, come può il popolo non essere “sovranista” se è esso stesso ad essere sovrano in una democrazia? Morale della favola (come si diceva una volta): viviamo oggi in un sistema democratico che usa la democrazia come “faccia pulita” per nascondere i veri interessi multiformi dei troppi che si impegnano in politica con altri fini. Gli unici che oggi parlano di un tentativo per “aggiustare il sistema”, e cercare di farlo funzionare almeno in un modo decente, sono quelli del M5s, perciò continuo personalmente a dargli fiducia (ma non è una fiducia cieca), sperando che non finiscano anche loro stritolati nelle pieghe (e le piaghe) del potere. “La democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre finora sperimentate” disse Churchill, ma è l’unica che consente a tutti di essere qualcuno e non solo un numero (solo se esercitata in modo corretto però).
I figli del duce…
Roberto D’Agostino per “Vanity Fair” il 26 novembre 2019. Giorgia Meloni piace per quella vaga aria da "ma vattela a pià in der culo", per dirla alla Ferilli. Con i suoi quarti di faccia tosta in primissima fila, la leader di Fratelli d’Italia ha sempre quell'espressione "impunita", a mandibola sciolta, tendenza pitbull, di chi, alla domanda: ti va di leggere un bel libro?, risponde: no, grazie, ce n'ho già uno. E se qualcuno osa dirle che è indisponente, ribatte pronta: “Ahò, se volevo essere simpatica a tutti nascevo cocaina!”. Protagonista dell'immagine vincente e fiammeggiante della "prolo-star" ruspante, apertamente vitalistica, destrorsa senza infingimenti - dice cose estreme come “Affondiamo i barconi”, “Costruiamo i muri, se servono”, “Cacceremo i rom, uno a uno” -, Giorgia ha sdoganato in politica l'immagine della gioventù "impresentabile", della periferia sommersa, telefiglia di Italia Uno e nemica di Italia Nostra, facendo naufragare le mammolette intellettuali, borghesi psicologicamente abbacchiati dal proprio benessere, insignificanti e insapori come una pastina glutinata, eccitanti come una ninna-nanna della Mannoia. Attenzione, però: coatta non per sfiga ma per sfida. E mentre a sinistra impera il fighettismo del politicamente corretto - vedi “Basta!”, l’ultimo libro della sua antagonista femminista Lilli-Botox Gruber che asfalta il potere del testosterone - ma non si vede traccia di una leader in gonnella, il paradosso vuole che nella destra conservatrice e maschilista, tutta “cazzi & cazzotti” per antonomasia, ha preso il comando di una partito questa vispa 42enne nata e (poco) cresciuta nel quartiere romano della Garbatella. E lo ha fatto spostandosi più a destra di quanto già non fosse: è infatti contraria più o meno a tutto, ai diritti degli ‘’orchi omosessuali che rubano le identità" e a “Genitore uno-Genitore due”, all'Europa e all'euro, all'accoglienza e all'integrazione dei migranti. La forza dell'intestino meloniano ha recentemente raggiunto il suo climax con il caso “Io sono Giorgia”. Tutto ha inizio quando l’influencer Tommaso Zorzi lancia una stories su Instagram con le parole omofobe urlate dalla Meloni, in Piazza San Giovanni lo scorso 19 ottobre (“Io sono Giorgia!!! Sono una donna, sono una cristiana, sono una madre e non me lo toglierete!”). Su internet lo sfottò ha subito successo ma le visualizzazioni milionarie arrivano da un remix ballerino creato da MEM & J (“Musica tamarra e trash, fatta da gente che non sa cantare. Dj quando capita”). Viralissimo, da Nord a Sud, da giovani a meno giovani: oggi se cercate con #iosonogiorgia troverete centinaia di video in cui tutti - dalle ragazze di 'Non è la Rai' a Jennifer Lopez, da Malgioglio a Madonna - ballano sulle note di questo tormentone. Anziché "partire di testa" per la presa in giro (la "craniata" è la minaccia basica dei coatti per regolare i conti con il mondo crudele), la “ducetta” de’ noantri coglie al volo l’occasione di “sposare” lo sfottò, segnalando in un suo post l’effetto di ‘’Io sono Giorgia’’ sui sondaggi di Fratelli d'Italia. Giorno dopo giorno, il tormentone trash declinato in tutti i modi dalla fantasia degli utenti dei social passa così da essere una critica contro qualsiasi forma mal-destra di discriminazione sessuale a diventare il suo inno personale. Convegni, feste di paese, Costanzo Show, apertura di pizzerie, ecco la Gigiona che sale sul palco gigionando il remix-contro. “Se mi piace la “canzone” ‘Io sono Giorgia’? Tantissimo, la adoro, la canticchio anche io perché ti entra in testa e non ti lascia più. Pure le mie nipoti la ballano! Diciamo che la cosa è sfuggita di mano”, ride felice. E Gigiona aggiunge: “Se finisco in un remix – anche se montato per contestare le mie idee – in fondo significa che ho qualcosa da dire, no?”. Una inversione a U di senso che ha fatto il miracolo di trasformarla in un personaggio pop e ha finito, a costo zero, per superare in notorietà Matteo Salvini. Come valutare questo grottesco fenomeno mediatico, da macchietta nera a idolo arcobaleno? Chi la fa, l’aspetti. E buonanotte ai suonatori…
Basta con “Io sono Giorgia,” Ok Boomer e gli altri meme tossici. Stefano Colombo il o7 novembre 2019 su thesubmarine.it. I meme “Io sono Giorgia” e Ok, boomer tradiscono un problema della cultura pop “di sinistra”: un cedimento generale verso i modelli mentali della destra. Da Pepe the frog agli NPC, la destra internazionale ha capito che un meme può essere un’arma retorica potente almeno quanto un comizio televisivo, e che può essere efficace non solo per radicalizzare giovani maschi bianchi, ma anche per influenzare in modo rilevante l’orientamento elettorale di un Paese. Meglio ancora: i meme e più in generale la propaganda online possono essere un vero e proprio strumento di egemonia culturale. I giorni scorsi l’internet italiano è stato dominato da un meme (?) sulla segretaria di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. Il meme nasce dal remix di un suo discorso, in cui Meloni dice amenità come “Io sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana,” etc. — no, non metteremo qui il link al video — e ha dato vita a un florilegio di variazioni. La maggior parte di chi si è lanciato nella condivisione virale di questo meme l’ha fatto in buona fede e nella maggior parte dei casi si è trattato di persone che si identificano come “di sinistra”, convinte di ridere alle spalle di una politica neofascista. Nell’internet anglosassone, invece — e quindi, di riflesso, anche nella bolla anglofila del nostro — è circolato ieri il video di una parlamentare neozelandese, appartenente al partito dei Verdi, che zittisce con “ok, boomer” un parlamentare avversario che prova a interromperla durante un suo intervento. La parlamentare citava un meme che da giorni imperversa sugli account social statunitensi. Questo meme è stato sostanzialmente un grande aiuto alla perenne campagna elettorale di FdI — come peraltro ha riconosciuto smaccatamente in questo post la stessa Giorgia Meloni. Il problema principale di questo meme è che è figlio di una concezione distorta, fuorviante, del concetto di satira. L’equazione che sta alla base di questo ragionamento è: c’è Meloni che fa una cosa che fa ridere, dunque è un meme contro di lei, ridiamo e condividiamolo. Non necessariamente questo però equivale a satira: la figura mediatica di Giorgia Meloni non viene in alcun modo abbassata, svelata, demistificata da questo bombardamento mediatico. Anzi.
Giovanni Donzelli ad Agorà smonta le balle di sinistra: "Destra maschilista? Peccato che Giorgia Meloni..." Libero Quotidiano il 10 Dicembre 2019. A demolire alcuni dei più fastidiosi stereotipi cavalcati dalla sinistra, ospite in studio ad Agorà su Rai 3, ci pensa Giovanni Donzelli, deputato di Fratelli d'Italia. In particolare, si scaglia contro l'idea che la destra sia maschilista e che il rispetto per le donne sia una sostanziale esclusiva della sinistra. "Si descrive sempre la destra come maschilista e retrograda, quando l'unico partito in Italia presente in Parlamento con leader donna è Fratelli d'Italia", premette riferendosi ovviamente a Giorgia Meloni. "E ci è arrivata - riprende Donzelli - senza quote rosa, senza aiuti particolari: ci è arrivata litigando con gli uomini e dimostrando di essere più brava degli uomini che a destra erano tanti e capaci. Usciamo dallo stereotipo della destra maschilista che non rispetta le donne mentre invece la sinistra è aperta - rimarca il meloniano -. Dopodiché, per me, la vera emancipazione femminile si avrà quando la donna potrà competere sul mondo del lavoro con gli uomini a pari condizioni ma non sarà giudicata negativamente se vorrà scegliere, invece di lavorare, di stare attenta alla famiglia", conclude Donzelli.
Giorgia Meloni, la confessione sugli esordi in politica: "Gli uomini non mi accettavano. Ma Bertinotti..." Libero Quotidiano il 10 Dicembre 2019. Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d'Italia, è la leader del momento. 42 anni, romana, la Meloni ha recentemente superato Matteo Salvini negli indici di gradimento sui leader, piazzandosi seconda dopo il premier Giuseppe Conte. Se i sondaggi rappresentano un termometro, Giorgia Meloni ha incanalato la febbre dei sovranisti. "Ma che fatica per arrivare fino a questo punto", riferisce la Meloni in una intervista ricca di aneddoti a La Repubblica. Dopo gli auguri di buon lavoro alla nuova premier donna in Finlandia, la leader dei sovranisti parla della condizione delle donne in politica e delle difficoltà ad essere accettate come capi. Per rendere l'idea, utilizza la similitudine degli studenti sempre "sotto esame" e cita la canadese Charlotte Witton, primo sindaco donna di una capitale: "Una donna deve fare ogni cosa due volte meglio di un uomo per essere considerata brava la metà". L'intervista de La Repubblica continua ripercorrendo alcuni punti salienti della carriera politica di Giorgia Meloni. Il debutto in politica a 15 anni, poi a 27 la presidenza dell'associazione giovanile di destra "Azione", fino all'approdo in Parlamento nel 2006, quando fu scelta come vicepresidente della Camera. Di quel periodo, la Meloni ricorda l'alto livello e la profondità della politica. A suo avviso, l'allora presidente della Camera, il comunista Fausto Bertinotti, rappresentò una guida illuminante per una giovane Meloni alle prime armi. Nonostante le sensibilità politiche agli antipodi, Bertinotti le fu vicino, a differenza della sinistra di oggi, che con la proverbiale superiorità morale guarda "dall'alto in basso i partiti sovranisti". Lei, leader sovranista "rispettata più dalla destra che dalla sinistra", conferma la sinergia con Salvini a cui lo lega valori e orizzonti comuni. Infine un consiglio alla figlia: "Non fare politica. Studia, studia, studia".
Dagospia il 10 dicembre 2019. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, è intervenuta questa mattina ai microfoni di RTL 102.5 durante “Non Stop News”, il programma condotto da Pierluigi Diaco, Fulvio Giuliani e Giusi Legrenzi. Un suo commento sul duro attacco del capo dello Stato agli evasori. Sono ovviamente d’accordo sul fatto che l’evasione sia una piaga che vada assolutamente combattuta, però rimane il fatto che dobbiamo capire dove sta. L’idea che ho è che si continui a parlare di evasione come se il problema dell’evasione fossero davvero i commercianti e non si capisce che noi abbiamo uno Stato che fa il forte con i deboli e il debole con i forti e l’evasione miliardaria, la grande evasione, decide di non guardarla proprio. Noi stiamo discutendo la manovra economica e finanziaria, Fratelli d’Italia ha fatto due emendamenti sul tema della grande evasione: uno è stato sicuramente bocciato, l’altro vedremo che fine farà. Uno è quello sui colossi del web, noi abbiamo delle grandi società del web che in Italia guadagnano miliardi di euro e che complessivamente, tutti insieme, lo scorso anno hanno versato in Italia 204 milioni di euro, che è quello che pagherebbe una media azienda. Noi abbiamo presentato un emendamento per tassare le società del web col principio dell’imposta di bollo, cioè tassando sulla base del numero degli accessi. Vediamo cosa accade al Governo. Abbiamo centinaia, migliaia di extracomunitari, cinesi, che aprono e chiudono centinaia di imprese senza mai versare un euro allo Stato perché per loro è molto più facile scomparire. Aprono un’impresa, la chiudono prima che lo Stato cominci a fare controlli, ne aprono un’altra e lo Stato, visto che non trova loro, se la va prendere con l’imprenditore italiani e gli chiede i soldi anche di quello che non ha pagato. Abbiamo fatto un emendamentino, sul modello che funziona nelle altre nazioni, per cui il caro extracomunitario, se vuole aprire un’ azienda in Italia lo può fare tranquillamente , ma deve dare trentamila euro a titolo cauzionale che io piano piano lo Stato scaricherà dalle tasse, così è certo che paghi. Il Governo che voleva combattere l’evasione fiscale, il carcere ai grandi evasori, cosa ha fatto? Lo ha bocciato. Allora andiamola a prendere dove sta l’evasione, perché non prenderla da banche, multinazionali, società del web, grandi colossi, extracomunitari e poi andare a massacrare il commerciante che ha già una tassazione al 47,8% diventa una cosa un po’ pesante per chi vuole lavorare. Il Governo la settimana scorsa sembrava particolarmente traballante. Nelle ultime ore sembra invece che la situazione sia andata migliorando. Ci crede? Io poco, francamente. Ci sono due spinte contrapposte che si muovono, da una parte una maggioranza che disperatamente vorrebbe arrivare più avanti possibile perché ha paura di misurarsi con il consenso degli italiani, dall’altra parte, però, questa paura di misurarsi con il consenso, questa consapevolezza di non avere abbastanza voti, porta i singoli attori a doversi per forza distinguere dal resto della compagine. Abbiamo una maggioranza che non è d’accordo su niente, litiga su tutto, ha votato la manovra e sono usciti dal consiglio dei Ministri dicendo che non c’entravano niente, PD ha presentato il doppio dei nostri emendamenti. Oggi governare non è una cosa facile, servono visione, gioco di squadra, credibilità, coraggio, un’idea molto chiara di Italia. Sono rimasta scioccata dalle parole del Ministro Fioramonti dei Cinque Stelle che ha detto che il Movimento non ha un’idea di paese. Se non ce l’hai non dovresti candidarti a governarlo, il punto uno della politica è avere un’idea di paese. Ieri è stata Bruxelles per la battaglia contro il MES. Il 20 dicembre c’è un’iniziativa importante. Quale? Ci sono gli auguri di Natale di Fratelli d’Italia in piazza a Roma. Noi siamo molto legati ai simboli della nostra tradizione, celebreremo il Natale in una nazione in cui il natale non si celebra, si nasconde e diventa solo una scusa per mangiare panettone e per scambiarsi regali.
Conchita Sannino per “la Repubblica” il 10 dicembre 2019.
Presidente Giorgia Meloni, seppur da destra, come donna a capo di un partito, li farà gli auguri alla neopremier finlandese e "avversaria" Sanna Marin?
«Ci mancherebbe. Da fronti opposti, ovviamente, le auguro buon lavoro. Io sono davvero molto contenta di vedere delle donne ai massimi livelli istituzionali nei loro rispettivi Stati: mi auguro che queste donne facciano bene per tranquillizzare coloro che pensano che un Paese non possa essere messo nelle mani di una donna».
La conversazione è a tratti interrotta da saluti e complimenti.
«Ah ciao ragazzi, piacere, grazie, buonasera signora». Poi spiega: «Sto ripartendo da Bruxelles, dopo aver gridato il nostro no al Mes. Sono in aeroporto. Quindi, qualcuno ci riconosce, noi donne della politica...».
Se dovesse spiegare, in una scuola di politica, che cosa serve per farcela nel suo ambiente?
«Userei proprio l' immagine dello studente: perché rischi di sentirti sotto esame, eternamente, condizione ingiusta e fuori luogo ovviamente. Ma l' immagine va letta anche in positivo: perché la vera risposta non è fregartene. La vera reazione deve essere: impegnarti di più, pensare di più. Lo sa cosa diceva la fortissima Charlotte Whitton?».
Primo sindaco donna di una capitale, anno 1951, a Ottawa.
«Diceva: "Una donna deve fare ogni cosa due volte meglio di un uomo per essere considerata brava la metà". E aggiungeva: "Per fortuna non è difficile"». (Risata delle sue, un po' più dolce di quella delle imitatrici)
Siamo sinceri fino in fondo: lei deve aver scontato diffidenze al suo interno. Almeno all' inizio.
«Sono la prima a riconoscere e a dire che le mie sfide me le ero scelte tutte di un certo livello... Mai nessuno mi ha regalato nulla, e non mi sono sentita discriminata. Però sono una donna leader, ho cominciato a 15 anni a fare politica, mi sono fatta... si può dire?... un mazzo. A 27 anni ero presidente di Azione Giovani. Ho fatto un lavoro immane: l'aggravante era di essere accettata come capo».
A destra, l' immagine del vincente è ancorata al maschile.
«Certo. Il capo è condottiero, punto. Era anche un problema di physique du rôle, vogliamo dirla così? Anche se in Italia questa idea mi pare non risparmi neanche la sinistra. Quindi, premesso che in politica non è facile per nessuna donna, non lo è neanche tra noi "sovranisti": un po' scatta quella tentazione di guardarti dall' alto in basso, "ma tanto non sarà così preparata, così intelligente". Detto questo, io sono stata, in generale, molto più rispettata da uomini di destra che dalla sinistra».
Non si riferirà solo ai post da tastiera, che colpiscono donne-leader indistintamente.
«No, difatti. Qui non c' entra la questione di genere. Perché, alla fine, molti della sinistra si portano dietro questa forma di presunta superiorità per cui il solo fatto di essere una portatrice di valori di destra ti autocondanna: allora "non capisci niente, allora sei cretina"».
In realtà lei, da giovane parlamentare e vicepresidente della Camera, ebbe un feeling imprevedibile con Bertinotti.
«Verissimo. Un' amicizia che dura tuttora, con lui, con la moglie. Io ero davvero alle prime armi: c' era un Parlamento non di neofiti come adesso, e presiedere la Camera con tanti di quei navigatissimi colleghi era una cosa che poteva dare ansie pazzesche. Lui, da leader di Rifondazione mi fu vicino. Io, da giovane esponente di An, lo invitai alla nostra kermesse a Atreju. Lui fu contestatissimo al suo interno per aver accettato. E invece insieme buttammo giù alcuni muri».
Nostalgia di quella politica?
«Un po' sì. Ma neanche nostalgia, è cronaca: parlo di una profondità e di un livello che oggi si incontra più difficilmente. Basta vedere la violenza che usa il M5s contro di me».
Sempre convinta che con Salvini in futuro sarà facile?
«Non è facile mai. Ma abbiamo valori comuni, un orizzonte dentro il quale poter lavorare insieme».
E se domani sua figlia dovesse dirle che farà politica: consigli?
«"Non lo fare! ", direi. No: seriamente. Gliene darei solo uno: studia, studia, studia».
La Bestia di Giorgia Meloni: chi c'è dietro il successo social della leader di Fratelli d'Italia. Negli ultimi mesi la politica romana è seconda solo a Matteo Salvini su Facebook. Ecco la strategia che ha usato e l'influencer di destra che gestisce la sua macchina del consenso. Mauro Munafò su L'Espresso il 12 dicembre 2019. Matteo Salvini e la sua “bestia” hanno segnato la strada. Giorgia Meloni è stata la più diligente nel seguirla. Il successo del leader della Lega sui social network è infatti da almeno due anni il modello di riferimento per la fondatrice di Fratelli d’Italia che, anche grazie a Facebook e soci, sta aumentando le sue percentuali di consenso nel Paese arrivando alla soglia della doppia cifra. Elezione dopo elezione, sondaggio dopo sondaggio. I numeri parlano chiaro: dietro Salvini, che è il politico europeo più seguito su Facebook (il social network più usato e più importante per raggiungere gli elettori, soprattutto in Italia), Giorgia Meloni è ormai stabilmente la seconda bocca di fuoco ed ha nel corso degli ultimi mesi distanziato la squadra e i principali esponenti del Movimento 5 Stelle, fino a qualche tempo fa gli unici che potevano contendere il dominio delle reti di condivisione al leghista. Negli ultimi trenta giorni i post, le foto, i video e i messaggi della Meloni hanno ottenuto solo su Facebook poco meno di 4 milioni di interazioni. Per fare un paragone: Di Maio non raggiunge i due milioni, Conte sta sotto il milione e Renzi e Zingaretti sono assai più indietro (rispettivamente 650mila e 260 mila). L’engagement è il parametro più importante quando si parla di social: si tratta della somma di tutti i like, commenti e condivisioni che i contenuti prodotti da una pagina generano. Un dato più rilevante rispetto al semplice numero di “mi piace” che un profilo accumula nel tempo e che ormai è considerato poco indicativo. Se infatti nella classifica dei like Meloni è solo sesta tra i politici italiani, guardando al tasso di coinvolgimento sale fino in seconda posizione dietro all’irraggiungibile (per ora) Salvini, che può contare su 12 milioni di interazioni nel mese. Le cose vanno anche meglio su Instagram, dove Meloni accumula 2 milioni di interazioni nell’ultimo mese (quattro volte quelle di Di Maio e otto volte quelle di Renzi) ed è cresciuta nell’ultimo anno del 140 per cento. Dietro il boom digitale di Giorgia Meloni c’è Tommaso Longobardi, responsabile dei suoi social network dal 2018. Romano di ventotto anni, una breve esperienza nell’esercito e laurea in psicologia, è considerato uno dei golden boy della nuova destra oltre ad essere uno dei più importanti influencer d’area online. Le sue pagine Facebook personali contano in totale oltre 700 mila fan, a cui vanno aggiunti gli utenti raggiunti attraverso pagine amiche con cui collabora. Una su tutte la pagina satirica, di orientamento sovranista e molto apprezzata anche in area leghista, “Figli di Putin” che conta 600mila follower e ne condivide spesso i “meme” e i contenuti. Grazie a questo pubblico, Longobardi può anche testare l’efficacia di alcuni messaggi che poi vengono trasportati sui canali della Meloni. Nel suo curriculum c’è anche un anno di lavoro presso la Casaleggio Associati, la società che ha costruito la comunicazione del Movimento 5 Stelle, con cui ha collaborato tra il 2015 e il 2016 prima di passare a SocialCom, agenzia tra le più importanti quando si parla di comunicazione politica digitale. Il piano per sdoganare l’immagine di Giorgia Meloni su un pubblico più ampio rispetto ai tradizionali bacini della destra ricorda quello messo in piedi da Luca Morisi con Matteo Salvini: una costante esposizione di scene di vita familiare e momenti privati, intervallati da messaggi prettamente politici e slogan. Nello scorso mese i contenuti più virali partiti dalla pagina della Meloni sono stati non a caso le scene di vita familiare con la figlia e il gatto, una lunga serie di selfie in cui la leader di Fratelli d’Italia sorride ed esulta per qualcosa (i risultati in Umbria, i sondaggi, l’esito di un dibattito televisivo) e i ripetuti attacchi alla capitana Carola Rackete o alle “sardine”. Già, il nemico da identificare per galvanizzare la base è un punto chiave della strategia digitale. Parlando dei deludenti risultati sul web di Pd e Forza Italia, Longobardi commentava in un’intervista a TermometroPolitico che questi partiti «non sono riusciti a identificare un nemico comune efficace che unisse il loro potenziale elettorato». Un nemico comune che invece è molto chiaro sulle pagine di Giorgia: la sinistra e gli immigrati. Oltre ai messaggi “mainstream” ci sono poi quelli riferiti a una nicchia da conquistare. Dal marzo 2019 Meloni ha speso 40mila euro in messaggi sponsorizzati su Facebook, indirizzati a gruppi specifici grazie agli strumenti forniti dal social network (il cosiddetto micro-targeting): spot su detrazioni a favore delle mamme indirizzate solo al pubblico femminile, slogan contro la mafia per il pubblico di Campania e Sicilia, messaggi a favore delle forze armate diretti agli agenti dei vari corpi. E anche la recente apertura di un profilo ufficiale su Vk.com, clone russo di Facebook molto frequentato dalle frange estreme della destra bannate di recente dal social di Zuckerberg, può essere intesa come una strategia per parlare alle nicchie affini. Una struttura ormai ben oliata che però non manca di prendere qualche toppa. Sull’onda del successo virale del video “Io sono Giorgia, sono una madre”, subito cavalcato anche dalla propaganda meloniana, la leader dei Fratelli d’Italia ha pensato di sbarcare anche su TikTok, il social usato dai giovanissimi per condividere brevi video con balletti. Anche qui Meloni ha voluto imitare l’esempio di Salvini, appena arrivato su questo nuovo terreno: ma stavolta è andata male. Dopo aver accumulato appena 250 fan nei primi giorni su TikTok, il profilo ufficiale al momento risulta non più raggiungibile, e i link diffusi sugli altri canali social di Meloni per raggiungerlo sono stati fatti sparire in fretta e furia.
I soldi di Giorgia Meloni: ecco tutte le lobby che finanziano Fratelli d'Italia. L’ultradestra Usa. i Palazzinari romani. E i lobbisti di multinazionali in Europa: da Exxon a Huawei. Inchiesta sui segreti finanziari del partito di destra. Federico Marconi e Giovanni Tizian il 06 dicembre 2019 su L'Espresso. Lei è Giorgia, madre, italiana, cristiana. Ma soprattutto è la leader di Fratelli d’Italia, partito che viaggia verso la soglia del 10 per cento dei consensi. E nei sondaggi più recenti risulta la seconda leader più gradita dagli italiani: col 40 per cento ha superato di tre punti Matteo Salvini. È vero che Meloni strizza l’occhio al capitano sovranista, ma alla Russia di Putin preferisce la grande famiglia dei conservatori britannici e dei repubblicani americani: era sul palco del Conservative Political Action Conference, l’evento più prestigioso del mondo conservatore, il primo marzo 2019 a Washington, alla presenza di Donald Trump. Il volto razionale del populismo di destra, l’ha definita Steve Bannon, l’ex stratega del presidente americano. La macchina messa in piedi da Fratelli d’Italia, però, costa: l’ultimo bilancio indica spese per 2,3 milioni, un milione in più dell’anno precedente. E proprio seguendo i soldi affiorano le contraddizioni dei Fratelli d’Italia. O piuttosto dei fratelli di lobby. I lobbisti, cioè, commensali degli eurodeputati di Giorgia Meloni alle cene di gala nella tanto vituperata Bruxelles. I nazionalisti italiani si muovono con scioltezza in Belgio, nel ventre dell’Unione. Qui frequentano i salotti giusti, si siedono al tavolo con le multinazionali, in barba al “Prima gli italiani”. I Fratelli d’Italia con in testa la loro leader hanno persino dato vita a una fondazione e a un partito a Charleroi, 60 chilometri a Sud di Bruxelles. Almeno sulla carta, perché all’indirizzo c’è in realtà l’abitazione di un architetto belga. Giorgia in Europa ha scelto come sherpa navigati berlusconiani, che l’hanno introdotta nell’Ecr, acronimo del gruppo parlamentare European Conservatives and Reformists. Il quinto per numero di membri (62) nell’emiciclo. E tra i più ricchi per sovvenzioni dell’Europarlamento, ma anche per le donazioni private, che arrivano dalla galassia degli ultraconservatori a stelle e strisce. La morfologia del potere che sostiene Fratelli d’Italia muta però a Roma. Assume la forma dei principi del mattone della Capitale, di fondazioni che custodiscono la storia della destra sociale e concludono ottimi affari immobiliari, di think tank ed enfant prodige del sovranismo, in società con grand commis di Stato e, di nuovo, lobbisti. Insomma, il lato nascosto del partito di Giorgia Meloni è distante dalla propaganda sui bisogni degli italiani che non arrivano a fine mese. E stride con lo storytelling populista inciso al primo punto del programma di Fratelli d’Italia: «La capitale dell’Europa non può più essere Bruxelles, capitale dei lobbisti, ma Roma o Atene dove è nata la civiltà europea». Così senza darne risalto pubblico, alcuni dei suoi colonnelli di stanza a Bruxelles si ritroveranno a cena con lobbisti, multinazionali, banchieri. Da qui inizia il viaggio de L’Espresso nei segreti finanziari di Giorgia e i suoi fratelli d’Italia.
A CENA CON LE LOBBY. L’hotel Renaissance è tra i più chic della città, a pochi passi dai palazzi delle istituzioni dell’Unione. La hall è curata e sfarzosa. A sinistra della reception c’è un corridoio stretto che porta a una sala riservata. Si affitta per eventi e ha un’entrata sul retro. La sera del 12 novembre è prenotata per una cena di gala a inviti dell’European Conservatives and Reformists, di cui fanno parte i cinque deputati di Fratelli d’Italia eletti alle elezioni di maggio. I primi ospiti arrivano alle 19.30, per l’aperitivo di benvenuto. Atmosfera conviviale, utile a rinsaldare relazioni con i rappresentanti del potere finanziario ed economico che frequentano i palazzi della capitale d’Europa. Tra gli speaker della serata ci sono Carlo Fidanza, ex Fronte della gioventù, europarlamentare di Fratelli d’Italia nonché membro dell’ufficio di presidenza di Ecr. E Fred Roeder, lobbista e presidente di Consumer Choice Center, associazione collegata ai colossi del tabacco e all’ultradestra statunitense. Il politico italiano e il lobbista americano sono attovagliati allo stesso tavolo, il numero 1. Negli altri sedici, i posti sono assegnati ad ambasciatori, lobbisti dell’industria, esponenti di think tank americani e associazioni, come Confindustria. Nell’elenco,di cui L’Espresso ha preso visione, compaiono più di 160 nomi. Non manca nessuno dei grandi brand della globalizzazione: giganti della telefonia come Huawei, del petrolio qual è Exxon, e del mondo bancario. Ci sono persino due responsabili di Scientology, tra questi Ivan Arjona Pelado, presidente europeo dell’organizzazione religiosa, che ha sedotto molti vip di Hollywood. Contattato, ha confermato la sua partecipazione, ma definisce Scientology “apolitica”. Il party autunnale ricalca il riuscitissimo “Summer gala dinner”, allestito a giugno scorso da Ecr nel suggestivo Château de Grand-Bigard, maniero del XII secolo non troppo distante da Bruxelles. Il costo per partecipare a quell’evento era di 210 euro, con la possibilità di versare una “sponsorship” all’Ecr. Quanto hanno pagato, invece, gli invitati dell’ultimo gala dinner a novembre? «Non hanno pagato», ha risposto l’Ecr, «per il summer gala, invece, hanno versato un contributo soltanto i deputati per sostenere le spese dell’organizzazione, come il pagamento dei voli». Anche la cena del 12 novembre, dunque, è stata offerta dal gruppo parlamentare agli ospiti. Una spesa notevole visto il numero atteso di partecipanti. Tra gli invitati troviamo rappresentanti di multinazionali e società che hanno versato contributi sostanziosi negli ultimi anni ai conservatori. Per esempio At&T, il colosso texano delle telecomunicazioni quotato in Borsa, che ha donato 12mila euro nel 2017 e 13.230 euro l’anno successivo. Il capo di At&T, Randall Stephenson, risulta tra i maggiori finanziatori dei repubblicani americani. In sintonia con Paul Singer, padre del fondo Elliot Management che ha investito oltre 3 miliardi proprio in AT&T e che negli anni è stato molto generoso con il partito di Trump. La corporation era presente alla cena del 12 novembre con Alberto Zilio, direttore degli affari pubblici in Europa e lobbista di At&T. La società non ha risposto alla nostra richiesta di commento. Al tavolo 3 con Zilio c’era Raffaele Fitto, già berlusconiano di ferro, oggi europarlamentare di Fratelli d’Italia. Fitto è il regista dell’entrata del partito di Giorgia Meloni nel movimento dei conservatori europei, di cui è peraltro co-presidente. L’ex ministro di Berlusconi ha un ruolo di peso anche nella fondazione dei conservatori, fondata nel 2009 dalla lady di ferro del neoliberismo, Margaret Thatcher.
EURO AMERICANI. Fitto, infatti, è vicepresidente di New Direction, costola strategica dell’Ecr per convogliare finanziamenti. La fondazione ha incassato più di 840 mila euro dal 2015 a oggi. Tra i versamenti più sostanziosi spicca di nuovo At&T con 48 mila euro. A seguire c’è British American Tobacco, terzo gruppo al mondo per produzione di sigarette: 23 mila euro negli ultimi due anni. Un rapporto solido quello tra i conservatori europei della Meloni e le industrie delle sigarette. Alla cena di gala, infatti, era stato invitato anche un lobbista della Japan Tobacco, che però a L’Espresso ha risposto di aver partecipato solo alla cena di giugno dell’Ecr e di non aver fatto alcuna donazione. Chi sicuramente ha donato a New Direction e a Ecr è un insieme di fondazioni americane che fanno capo al mondo ultraconservatore dei Repubblicani, in particolare all’ala destra del Tea Party. C’è per esempio The Heritage Foundation, think tank che ha ispirato la politica di Reagan nel 1980. Sui conservatori europei, Heritage ha scommesso 20 mila euro. Un piccolo contributo a New Direction è arrivato anche dall’American Freedom Alliance: “I difensori della libertà”, si definiscono sul sito web, contro quelle che loro ritengono fantasiose teorie sul cambiamento climatico e l’islamizzazione dell’Occidente. L’Afa nel 2009 ha accolto come un eroe Geert Wilders, il leader dell’estrema destra olandese che ha coniato il termine “Eurabia” e considera la religione musulmana al pari del nazismo. Il fondatore, Avi Davis era portato in palmo di mano da Steve Bannon, l’ex stratega di Trump. Lasciata la Casa Bianca ha una sola ossessione: formare i nuovi “gladiatori” del sovranismo europeo. Bannon nel 2018 è stato ospite di Atreju, festa annuale di Fratelli d’Italia. Giorgia Meloni, del resto, non ha mai nascosto l’amicizia con il politico dell’alt right americana. All’Afa si aggiunge poi Atlas, che ha donato direttamente a Ecr, organizzazione no profit, più simile a un vero e proprio gruppo di pressione, legata sempre agli ultraconservatori Usa. Del network Atlas fa parte Consumer Choice Center, il think tank presieduto da Roder, commensale di Carlo Fidanza alla cena di gala del 12 novembre. Un contributo di 35 mila euro è arrivato alla fondazione anche da Fratelli d’Italia, che ha favorito così il suo ingresso nella casa dei conservatori europei. Ci sono poi i contributi pubblici del Parlamento europeo ricevuti da New Direction: finora ha goduto in media di 1,2 milioni ogni anno, per il 2019 la previsione è di 1,7 milioni. Giorgia Meloni, grazie a Raffaele Fitto, è salita sul cavallo giusto. Anche perché è d’oro: nel 2017 il gruppo Ecr ha incassato 1,44 milioni sovvenzioni dal Parlamento. Che, stando ai dati ufficiali dell’Autorità che si occupa di monitorare questi flussi, potrebbe versare altri 7 milioni per gli anni 2018 e 2019. Ecr si piazza così tra il terzo e quarto posto per soldi pubblici ricevuti. E lo strapotere dei burocrati dell’Unione? In questo caso nulla da eccepire.
I FANTASMI DI CHARLEROI. Rue des Alliés è una via poco trafficata di Roux, sobborgo residenziale di Charleroi, a un’ora di macchina da Bruxelles. Al civico numero 15, in un edificio in cortina rossa di due piani, dovrebbe esserci, carte alle mano, la seconda “casa” di Giorgia Meloni, l’Alliance pour l’Europe des Nations (L’Espresso ne ha dato conto con Vittorio Malagutti e Andrea Palladino a ottobre dell’anno scorso ). Il 18 luglio del 2018 – a meno di un anno alle elezioni europee di maggio 2019 - la leader di Fratelli d’Italia fonda a Bruxelles l’associazione, secondo le norme previste dall’Europarlamento per la costituzione dei partiti e per l’accesso ai finanziamenti. Segretario di Aen è Carlo Fidanza, allora senatore di Fratelli d’Italia, mentre il tesoriere è Francesco Lollobrigida, deputato e cognato di Meloni. L’Alliance ha anche una fondazione, stando a quanto riportano i documenti ottenuti dall’Espresso, la Foundation pour l’Europe des Nations, presieduta da Marco Scurria, cognato di Fabio Rampelli (maestro politico di Giorgia) ex eurodeputato di Fratelli d’Italia, oggi professore alla Link Campus di Vincenzo Scotti, l’università legata al Movimento 5 Stelle finita al centro delle cronache per il Russiagate. Anche la fondazione ha indicato come sede Rue des Alliés, a Roux. Sul citofono, tuttavia, non ci sono indicazioni di partiti e fondazioni. Figura solo il nome di un architetto belga, Jean-Pierre Dooms. Ma al citofono non risponde nessuno ed è impossibile sapere se all’interno ci siano degli uffici. L’esistenza dell’associazione e della fondazione non risultano nemmeno nell’apposito spazio delle note al bilancio 2018 pubblicate da Fratelli d’Italia. «Non c’era bisogno di scriverlo in quel documento, le due associazioni non avevano nessun rapporto economico con noi», è la risposta ufficiale del partito, che aggiunge: «Sono in corso le pratiche per chiuderle».
FRATELLI D’ARMI. Quando la Brexit sarà compiuta, Giorgia Meloni avrà il suo sesto eurodeputato. Consoliderà così la seconda posizione per numero di parlamentari nell’Ecr, dietro ai polacchi del PiS, partito di ultradestra al governo a Varsavia. A volare nella capitale europea sarà Sergio Berlato, strenuo difensore della lobby delle armi. Un compagno di banco perfetto per Pietro Fiocchi, anche lui eletto con Fratelli d’Italia. Fiocchi, il cui nome è nella lista degli invitati alla cena del 12 novembre, è nel board dell’omonima multinazionale delle armi . E rischia di dover gestire un rapporto che puzza di conflitto di interessi. Infatti, nell’elenco dei lobbisti accreditati all’Europarlamento figura l’Associazione Nazionale Produttori Armi e Munizioni, il cui presidente è Stefano Fiocchi, a capo della Fiocchi Munizioni di Lecco. Stessa azienda in cui è cresciuto Pietro, il prescelto di Giorgia Meloni. Un settore vasto, le armi. Che riguarda anche i cacciatori. Anche loro fedeli a Giorgia. Il 9 maggio 2018, due mesi dopo le elezioni politiche, Fratelli d’Italia ha ricevuto un bonifico di 70mila euro dall’Associazione Cacciatori Veneti. E di questa generosità Giorgia deve probabilmente ringraziare proprio il futuro eurodeputato Berlato, punto di riferimento per il mondo venatorio del Nord Est.
I PALAZZINARI. Dalla polvere da sparo al mattone, fonte inesauribile di denari. Solo tra il 2016 e il 2018 Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia hanno ricevuto dai più noti costruttori romani circa 180 mila euro di donazioni. «Si tratta di erogazioni liberali da parte di società che non avevano alcuna criticità giudiziaria da noi conosciuta», è la risposta del partito ricevuta dall’Espresso. Negli elenchi ufficiali ci sono tutti: Angiola Armellini, immobiliarista già indagata, nel 2014, per una maxi evasione fiscale, con 20 mila euro, versati tramite quattro società nel 2016 quando cioè era nota la sua disavventura giudiziaria; Sergio Scarpellini, palazzinaro deceduto l’anno scorso, coinvolto nello scandalo della casa dell’ex braccio destro di Virginia Raggi, Raffaele Marra ; i costruttori Santarelli; un’azienda del gruppo Mezzaroma; le imprese del gruppo Navarra, attivissime negli appalti pubblici che hanno versato 25 mila euro; infine l’immancabile Luca Parnasi, l’imprenditore del mattone che voleva realizzare il nuovo stadio della Roma, poi travolto da un’inchiesta giudiziaria per corruzione e per finanziamento illecito. Oltreché a fondazioni e associazioni legate a Pd e Lega, ha donato anche a Fratelli d’Italia, sezione Roma-Lazio, che ha percepito 50 mila euro dalla stessa società, l’Immobiliare Pentapigna, con cui Parnasi ha foraggiato Carroccio e Dem. L’Espresso ha ottenuto la ricevuta di quel versamento datato 1 marzo 2018. Per il partito tutto regolare: «I documenti sono stati consegnati, su richiesta, alla Corte dei Conti». Tuttavia l’erogazione non risulta negli elenchi ufficiali della tesoreria di Montecitorio alla quale vanno comunicate le donazioni entro tre mesi dall’accredito: alla voce “Fratelli d’Italia Roma-Lazio” non c’è la Pentapigna di Parnasi. Al contrario troviamo due società e due nomi che ci riportano sempre al costruttore romano e che in tutto hanno versato 100 mila euro. Finanziamenti registrati il 20 giugno 2018. Le due aziende sono Sofrac Group e Sepac, che hanno elargito complessivamente 60 mila euro. Due aziende riconducibili a Maurizio e Prospero Calò, che a loro volta hanno versato 20 mila a testa. Entrambi consiglieri fino al 2017 di Parsitalia, società del gruppo Parnasi. E soci in un’azienda di cui l’azionista di maggioranza è proprio la Pentapigna del costruttore. Insomma, dal palazzinaro e dall’area imprenditoriale che gli ruota attorno, sono arrivati sui conti di Fratelli d’Italia la bellezza di 150 mila euro. Durante la campagna elettorale del 2016 per le comunali, Giorgia Meloni avrebbe dovuto partecipare a una cena organizzata dall’associazione leghista Più voci alla presenza dell’immarcescibile Parnasi. Almeno questo è quello che sosteneva il tesoriere della Lega, Giulio Centemero, nella chat con il costruttore . Fratelli d’Italia, però, smentisce questa circostanza. Seppure non c’entri col mattone, di certo tra i maggiori benefattori di Fdi c’è Daniel Hager, rampollo di una famiglia azionista di una potente multinazionale americana: la Southern wine&spirits, colosso della distribuzione del vino da 16 miliardi di fatturato, da poco entrata nel mercato canadese della cannabis legalizzata. Hager è il marito di Ylenja Lucaselli, neo meloniana, eletta alla Camera, che non ha badato a spese per sostenere il partito: generosissima con i suoi 90 mila euro, che sommati a quelli del marito fanno 200 mila euro. La coppia d’oro a stelle e strisce dei fratelli d’Italia.
LA SEDE È UN AFFARE. Ma i soldi non sono l’unico patrimonio di Giorgia Meloni. Per questo Fratelli d’Italia ha promosso la nascita della Rete delle fondazioni e dei centri studi “non conformi”, per difendere la sacralità della vita e combattere le derive gender. Di questa rete, due sono le fondazioni più legate al partito. Una è la Fondazione Alleanza Nazionale, che nasce nel 2012 per tutelare il patrimonio, ideale e immobiliare, dell’ex Msi. Presidente è Giuseppe Valentino, ex parlamentare missino. Insieme a lui tanti altri che per anni hanno militato per la fiamma tricolore: da Ignazio La Russa a Italo Bocchino, da Maurizio Gasparri a Gianni Alemanno. Manca lei, Giorgia Meloni, che nel 2015 dopo una battaglia interna alla fondazione riuscì ad accaparrarsi la fiamma tricolore, simbolo di Msi e An, prima di dimettersi da consigliera. Nel patrimonio immobiliare degli ex missini figura l’appartamento di via della Scrofa, 39, a due passi da Camera e Senato, dove Fratelli d’Italia ha da poco trasferito il suo quartier generale. Un altro indirizzo denso di storia: sede del Msi di Almirante e poi di Alleanza Nazionale con Gianfranco Fini. Poi c’è un altro luogo identitario dell’ex Msi, in via Ottaviano, 9. A pochi passi da lì nel 1975 è stato ucciso lo studente greco Mikis Mantakas e per questo ha avuto sempre una centralità nella topografia della destra romana. Dopo lo scioglimento di An era stata occupata dal Movimento Sociale Europeo fino a quando, nel 2015 non è stato minacciato lo sfratto. Fu forte la mobilitazione di tutti i camerati romani per evitare che la sede si trasformasse in un locale commerciale. Interviene allora la Fondazione An, che a inizio luglio 2018 compra l’immobile da Pasquale ed Eleonora Romualdi. Un ottimo affare. Per 174 metri quadrati a pochi passi da San Pietro, gli ex missini hanno speso solo 50 mila euro: 288 euro al metro quadro in una zona in cui anche per un box le quotazioni sono assai più alte. Da quando è stato acquistato però «non è più frequentato come un tempo», racconta la portiera. Pasquale Romualdi non è parente di Pino, uno dei camerati fondatori del Movimento sociale italiano insieme a Giorgio Almirante. È un’immobiliarista romano che ha perso la battaglia con i militanti morosi. E ha permesso alla fondazione di chiudere un buon affare. «Siamo stati costretti, non si è trovata una situazione migliore in 45 anni», spiega Romualdi a L’Espresso, «L’appartamento era occupato da persone non facilmente gestibili. Siamo stati espropriati di quel bene molto tempo fa». Oltre allo stabile di via Ottaviano, ce n’è anche un terzo, sempre nel cuore di Roma. È al civico 40 di via Paisiello, a due passi da Villa Borghese, polmone verde della Capitale. È stato donato ad Alleanza nazionale dalla contessa Anna Maria Colleoni, una «camerata vera», dice di lei chi la conosceva bene: alla sua morte, nel 1999, tutto il suo patrimonio finì al partito allora guidato Gianfranco Fini. Da allora l’appartamento nel centro di Roma ha avuto più inquilini: l’ultimo “legale” è stato La Destra di Francesco Storace, poi è stato occupato dai neofascisti di Forza Nuova dell’ex terrorista nero Roberto Fiore. Sul citofono c’è ancora la sigla F.N. e la scritta Futura Vis, srl riconducibile alla famiglia di Roberto Fiore che ha sede proprio al domicilio che fu della Colleoni. Quello di via Paisiello non è l’unico lascito della contessa camerata ad An. Ce n’è stato un altro ben più noto, poi venduto: era al 14 di Boulevard Princesse Charlotte, a Montecarlo. È stata la celebre casa di Fini a Montecarlo. Era stata ceduta nel 2008 dagli ex missini per 330 mila euro a una società offshore di proprietà di Giancarlo Tulliani, fratello di Elisabetta, moglie di Fini . Società che poi lo rivende per 1 milione e 360 mila euro a un’altra offshore, di proprietà di Francesco Corallo, ex re delle slot machine legali, rinviato a giudizio a giugno per associazione a delinquere, peculato, riciclaggio ed evasione fiscale, e anche per la casa di Montecarlo. Nella lista delle fondazioni d’area c’è poi la Giuseppe Tatarella. A capo Francesco Giubilei, ’92, fondatore di Nazione Futura. Organizza eventi in giro per l’Italia, a cui partecipa anche l’uomo di Steve Bannon, Benjamin Harnwell. Giubilei ha per soci d’affari anche grand commis di Stato buoni per tutte le stagioni. Ne “Il periscopio delle idee”, una piccola casa editrice, con lui troviamo: Carlo Malinconico, sottosegretario alla presidenza con Monti; Pino Pisicchio, ex Dc, che rimpiange «i tempi di De Mita e Andreotti»; Andrea Monorchio, già ragioniere generale dello Stato; infine, Luigi Tivelli, che intercettato in un’inchiesta sui fondi al teatro Eliseo si definiva «il Fausto Coppi del lobbying». Altro che popolo sovrano.
La Russa e l’insulto ad Airola: «Io li ricevo, nessuno ne parla». Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Roncone. Il senatore di FdI: «Lui gridava, avrei potuto dirgli ossesso e non drogato». Ineffabile La Russa, che a 72 anni torna nei panni di Gnazzzio (cit. Fiorello) e urla Giogaaato! — Drogaaato! — a un senatore grillino nell’emiciclo di Palazzo Madama. Eterno La Russa, sopravvissuto a faticosi quarant’anni di destra, passando per le avventure con il Cavaliere e il sodalizio con Gianfranco Fini («Ha commesso errori giganteschi») e quindi un po’ però sopravvissuto anche a se stesso, con i suoi modi ruvidi e con quel ghigno luciferino, con i resti di un ciuffo nero sulla fronte. Fatale La Russa, straordinario animatore di feste, mai visto arrivare dai paparazzi prima di mezzanotte, che mentre ti parla con la coda dell’occhio ancora continua a non perdersi il passaggio in Transatlantico della senatrice in bilico su tacco 14 (la sobrietà è andata a farsi friggere da tempo).Comunque Ignazio Benito Maria La Russa, vicepresidente del Senato e autorevole esponente di Fratelli d’Italia («Tolga pure l’autorevole: io sono il fondatore del partito») non aveva alcuna intenzione di riprendersi certi titoli sui giornali. Quell’urlo, dice, gli è proprio scappato. Forse il vecchio istinto. Forse solo la noia. Stava lì nel suo scranno, seduto accanto all’amica Daniela Santanché. Lui a braccia conserte, lo sguardo su un dibattito come ne aveva ascoltati per anni — giovane e brillante avvocato, fu eletto per la prima volta nel 1992 con il Msi — sebbene stavolta la discussione fosse sull’emendamento per la cannabis light (poi dichiarato inammissibile dalla presidente Elisabetta Casellati): ed è utile ricordare che sul tema delle droghe, pesanti o leggere, La Russa ha sempre avuto una posizione netta — «Io sottoporrei tutti i parlamentari al test del capello» — pure se adesso il più piccolo dei suoi tre figli, Leonardo Apache (gli altri sono Antonino Geronimo e Lorenzo Cochis), fa il rapper, si fa chiamare Larus e canta «sono tutto fatto».«Ma si capisce che canta e basta, e che è un bravo ragazzo!».
Va bene: ma torniamo all’altro giorno, a Palazzo Madama. Cos’è successo?
«Mi sono accorto che quel grillino…».
Il senatore Alberto Airola?
«Esatto, lui: beh, stava lì a gridare come un ossesso, le mani a imbuto, e impediva di parlare al nostro capogruppo, Luca Ciriani, un friulano pacato, un gentiluomo».
Quindi gli ha urlato «drogato». Le sembra normale?
«Oh, sembrava sul serio uno drogato… Comunque, d’accordo: avrei potuto urlargli “ossesso”, e forse non sarei finito sui giornali. Anche se poi voi giornalisti…».
Continui, è interessante.
«Mai una volta che vi siate interessati agli insulti che ricevo io. Vi svegliate solo quando vi pare, diciamo così».
Un perseguitato.
«Beh, un pochino».
E un sopravvissuto.
«Effettivamente, della vecchia guardia siamo rimasti in pochi… c’è Casini, c’è Gasparri… e pure…».
Chi?
«Quella di Europa…».
La senatrice Emma Bonino?
«Sì, bravo. Siamo rimasti noi quattro, mi sembra. Per fortuna, però, ci sono giovani validi».
Insomma.
«Mi creda, ce ne sono».
Mah.
«La Meloni, scusi, è bravissima».
È brava, certo: però ormai ha 42 anni, ed è parlamentare da 13.
«Vabbé, non è più giovanissima: comunque è formidabile. Il mio orgoglio. Dissi a Crosetto e agli altri: questo partito nuovo e piccolo, che chiameremo Fratelli d’Italia, dev’essere guidato da una leader fresca e brava. Eccola, è Giorgia… Diciamo che, sondaggi alla mano, non mi sono sbagliato». La Russa continua ad essere una formidabile risorsa narrativa. Una volta arrivò a vantare una parentela con Dario Fo. Ora s’è dato una calmata: ma c’è stato un tempo in cui litigava con tutti, allenatori di calcio e generali (fu ministro della Difesa). Da un palco urlò «culattone» ad un attivista Lgbt. Sferrava pestoni davanti alle telecamere, metteva le mani addosso — a Milano, da giovane segretario del Fronte della Gioventù, era soprannominato Ignazio La Rissa — poi si pentiva, smetteva di essere sovraeccitato e ti portava a fare pace alla buvette.Un giorno Berlusconi ordinò a Fini: «Devi dire a La Russa di tagliarsi il pizzetto». Ma Fini non osò riferire.
La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare? ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino. E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.
Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.
· La doppiezza di Casapound.
Così Pound il visionario cadde vittima dell'"appeal of fascism". L'autore americano voleva influenzare il Duce ma non ci riuscì. E pagò molto cari i propri sogni. Francesco Perfetti, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale. Il 20 gennaio 1933 Ezra Pound venne ricevuto da Mussolini a Palazzo Chigi presso la sede del ministero degli Affari Esteri. A sollecitare l'incontro era stato proprio il poeta, nel pieno della sua maturità quarantasette anni e da diversi anni residente in Italia. Aveva sollecitato l'udienza già l'anno precedente. Il 23 aprile aveva chiesto, tramite la segreteria particolare del capo del governo, di poter voler manifestare a Mussolini le «proprie impressioni» sull'Italia e una decina di giorni dopo aveva precisato i temi, non certo appetibili, dei quali avrebbe voluto discorrere: «dettagli» da lui «osservati viaggiando in diverse parti d'Italia nell'ultimo decennio»; «condizioni di lavoro nelle miniere di zolfo in Sicilia»; «produttività nell'industria di sughero». A fine anno, poi, aveva inviato un copione cinematografico, scritto con Francesco Ferruccio Cerio e intitolato Le Fiamme Nere, commemorativo della marcia su Roma e del primo fascismo. Nella stessa occasione aveva aggiunto che avrebbe voluto chiedere a Mussolini elementi per «rispondere ad alcune critiche al libro di Ludwig: Colloqui con Mussolini, comparse in giornali americani». Non è da escludere che il Duce si fosse deciso a ricevere il poeta proprio per quell'accenno al libro-intervista con Ludwig che lasciava intendere l'intenzione di dargli un seguito. Per quanto fosse un lettore onnivoro è, però, improbabile che Mussolini, all'epoca dell'incontro con Pound, conoscesse del poeta qualcosa di più del nome e della reputazione. Quale fosse il suo vero sentimento lo dice il commento «divertente» che egli pronunciò alla lettura dei Cantos. Il che, per inciso spiega perché un politico, realistico e machiavellico com'era lui, rifiutasse ogni ulteriore richiesta di incontro da parte di un poeta che pensava di operare politicamente da artista visionario. Tuttavia Mussolini fu incuriosito da questo intellettuale straniero che gli parlava di moneta e usura richiamandosi a strampalate teorie economiche. E, per così dire, si fece bello citando un poeta francese, Charles Péguy, morto in guerra autore di un libro sul denaro che lui, Mussolini, aveva a suo tempo recensito. La storia dei tentativi di incontrare di nuovo Mussolini è lunga. Per esempio alla fine di settembre del 1935 il poeta si vide negare una richiesta di udienza, a metà del mese successivo propose di illustrare al Duce il progetto di una Lega dei Popoli ma la segreteria di Mussolini liquidò la richiesta con un appunto che lo definiva «strampalato concepito da una mente nebbiosa, sprovvista di ogni senso della realtà». Provò anche, alla fine del 1936, dopo un ennesimo rifiuto, a scrivere direttamente al Duce saltando la segreteria, una lettera, ispirata dalle sanzioni economiche della SdN nei confronti dell'Italia, nella quale riprendeva le sue idee su moneta, usura e banche. Anche a questa, come ad altre successive, Mussolini non rispose a conferma della sua indifferenza, se non diffidenza, per il poeta. Nel 1939 Pound si recò in America. Voleva vedere Roosevelt per una missione di pace ma non gli fu possibile. Tornato in Italia, propose al Minculpop varie iniziative di propaganda. Il diplomatico Luigi Villari, che in quel ministero si occupava dei rapporti culturali con gli Usa, formulò parere negativo. Presentò Pound come «uomo di ingegno e cultura e ispirato da ottimi sentimenti» nei riguardi del fascismo, ma «confusionario» e desideroso di «occuparsi di questioni economico-finanziarie sulle quali ha idee alquanto fantastiche». Aggiunse che negli Usa era «apprezzato come poeta» ma non «preso sul serio» come «scrittore politico ed economico» e concluse che, pertanto, una «iniziativa originata da lui non avrebbe avuto molto peso». Malgrado ciò il Minculpop autorizzò la collaborazione di Pound a «Radio Roma», per l'intervento di Cornelio Di Marzio e probabilmente senza che Mussolini ne sapesse nulla. Nella vicenda non c'è nulla di strano perché allora la propaganda utilizzava frequentemente giornalisti stranieri per trasmissioni in lingua. Pound si sentiva americano tant'è che, prima che gli Usa entrassero in guerra, cercò di tornare in patria e, con l'attacco a Pearl Harbour, sospese le trasmissioni che riprese solo dopo che gli fu negato il rimpatrio. Del resto, queste erano precedute dalla dichiarazione che non gli era stato chiesto di dire nulla contrario alla propria coscienza o incompatibile coi doveri di cittadino americano. In 13 mesi trasmise 125 interventi che per l'opinione pubblica del suo Paese furono irrilevanti e, semmai, contribuirono soltanto a spingere l'intellettualità angloamericana ad esecrare il poeta. Al momento del crollo del fascismo egli si trovava a Roma Dopo l'8 settembre, iniziò un faticoso viaggio a piedi, in autostop, in treno per raggiungere la figlia in Alto Adige. Qualche settimana più tardi, di nuovo in cammino per Rapallo. L'adesione di fatto alla RSI era nelle cose: Pound si trovava in territorio governato dai fascisti ma soprattutto vide nel fascismo, repubblicano e sociale, l'opportunità per rilanciare le proprie idee. Iniziò così la collaborazione a Il Popolo di Alessandria e a testate minori. Pubblicò, insieme al «gruppo degli scrittori del Tigullio», due manifesti ridondanti entusiasmo per le scelte economiche della RSI. Vennero poi l'arresto, le terribili settimane rinchiuso in una gabbia esposta al sole di giorno e alla luce accecante dei riflettori di notte. E infine il trasferimento a Washington per un processo mai celebrato, la dichiarazione di infermità mentale e il ricovero nel manicomio criminale St. Elisabeth's. Fino a quando, a seguito della mobilitazione intellettuale promossa da Sergio Solmi e Diego Valeri, dopo dodici anni gli venne restituita la libertà. Durante l'inferno della detenzione nel Disciplinary Training Center vicino Pisa, egli riuscì a comporre quei Canti Pisani nei quali sono contenuti i pochi ma celebri versi sulla fine di Mussolini e della Petacci: versi drammatici e allucinati che fanno tornare alla mente quanto scrisse Malaparte (altro spirito stravagante, suo amico e corrispondente) nelle pagine di Muss. Versi, tuttavia, che, al di dell'aspetto emotivo, avevano una valenza politica istituendo un parallelo simbolico tra la fine di Mussolini e quella di Mani, il padre del manicheismo, il cui corpo, conciato e imbottito di fieno, era stato esposto al pubblico ludibrio. Più che di «fascismo» si potrebbe parlare, per il caso Pound, di «mussolinismo». Egli convinto che Mussolini, malgrado non lo ricevesse, fosse un epigono dei geni politici del passato, un «artista» della politica, capace come gli artisti di «intuizioni» ostacolate dalla cerchia di politicanti di professione attorno a lui. E ciò soprattutto nella sfera economica. Pound si era infatuato delle idee di un economista eterodosso, Clifford Hugh Douglas, che aveva teorizzato un programma di riforme monetarie noto come Social Credit. E accanto a quella di Douglas, aveva subito il fascino di un altro economista, Silvio Gesell, critico del capitalismo e dell'usura. Si potrebbe di un Pound che idealizzava la figura di Mussolini e vedeva in essa lo strumento attraverso il quale proiettare i propri desideri di riforma economica e sociale. Non c'era, alla base del «fascismo» di Pound, una conoscenza approfondita (forse nemmeno superficiale) dei principi teorici o delle basi ideologiche del regime. Il suo «mussolinismo» o, se proprio si vuole, il suo «fascismo» era una espressione, tutta poundiana e personale, di quel fenomeno di appeal of fascism che interessò tanti intellettuali, prevalentemente anglosassoni, amici dello stesso Pound come Thomas Stearns Eliot, Wyndham Lewis, William Butler Yeats, Gilbert Keith Chesterton, Hilaire Belloc e via dicendo. Sotto questo profilo Ezra Pound è una espressione simbolica e paradigmatica del dramma politico e culturale del Novecento e vive tutte le contraddizioni del suo tempo.
La doppiezza di Casapound. I fascisti del terzo millennio erano nati per rompere con le posizioni classiche dell’estrema destra, si sono ritrovati nel nazionalismo nostalgico e a rimorchio delle campagne xenofobe della Lega. Paolo Delgado il 10 Maggio 2019 su Il Dubbio. Tra gli studiosi e gli esperti c’è chi l’ha definita «una fusion tra cultura pop e neo fascismo», chi l’ha bollata come «caricatura del fascismo», chi la considera «uno dei più interessanti e ambigui movimenti populisti emergenti in Europa». La definizione più fortunata di CasaPound però viene dal suo leader riconosciuto, Gianluca Iannone, leader e cantante del gruppo rock di estrema destra Zeta Zero Alfa, che in realtà l’aveva ripresa da un giornalista ma poi fatta propria e sostanziata: «Significa essere proiettati verso il futuro con salde radici culturali, significa essere centrati ma in continuo movimento senza nostalgismi, senza maschere senza complessi». Oggi CasaPound è l’emblema stesso del neofascismo in Italia. La richiesta di sgombro della palazzina che occupa in via Napoleone III, a Roma, dal 26 dicembre 2003 è diventato un discrimine tra fascismo e antifascismo. Ieri Luigi Di Maio la ha reclamata a gran voce, ma lo stesso Salvini, la sera prima a Otto e mezzo, si era detto favorevole. Probabilmente controvoglia, ma dal momento che quella palazzina, come la presenza dello stand della casa editrice del gruppo, AltaForte, al Salone del Libro, è diventata la linea di demarcazione tra fascismo e democrazia, gli è toccato fare di necessità virtù. Sulla cacciata di Altaforte dal Salone di Torino, invece, il capo della Lega tiene il punto. Non potrebbe fare diversamente essendo stato proprio il libro intervista con lui la prima pietra dello scandalo «Il rogo dei libri non ha mai portato fortuna. Alle idee si risponde con altre idee, alla faccia dei “democratici” che decidono chi può andare al Salone e chi invece deve essere escluso». L’editore, a sua volta uno dei principali leader del gruppo, Francesco Polacchi sostiene che il vero obiettivo della levata di scudi che ha portato all’estromissione del suo stand dal Salone di Torino sia proprio Salvini e almeno in parte ha certamente ragione. Maurizio Murelli, ex detenuto politico di estrema destra ed editore, ricorda per esempio su Fb che tra le tante case editrici di estrema destra, tra cui la sua Edizioni Barbarossa più volte presente al Salone di Torino è l’unica a non aver mai pubblicato un testo fascista. Ma nessun’altra casa editrice neofascista era mai stata presa di mira CasaPound è neofascista, su questo non c’è dubbio. E’ quindi d’obbligo, quasi per tutti, parlarne solo in termini di botte, che ci sono davvero, date e ricevute, o di apologia del peggio, dal fascismo alle pulsioni xenofobe e razziste, e ci sono anche quelle. Ma ciò che ha differenziato a lungo i «fascisti del terzo millennio» dalle altre organizzazioni neofasciste europee, a partire dai detestati “cugini” italiani di Forza Nuova, è stata proprio la sua "ambiguità", la compresenza di elementi diversi, a volte contraddittori. Quell’ "ambiguità" che, nell’incitamento al pogrom di Casal Bruciato, sembra oggi cancellata. L’albero genealogico di Cp risale, come quello di Fn, a Terza Posizione, l’organizzazione neofascista degli anni ‘ 70 che si voleva alternativa al comunismo ma anche al capitalismo e all’imperialismo. Nata dalle esperienze delle “Occupazioni Non Conformi” alla fine degli anni ‘ 90, Cp era nata esaltando la componente più culturale della tradizione di estrema destra: il futurismo, D’Annunzio e l’impresa di Fiume, Ezra Pound, del cui nome, secondo la figlia del poeta, il gruppo si fregia indebitamente. Dopo un rapido passaggio nella Fiamma tricolore, Cp si propone nel 2008 come gruppo politico autonomo, fornito di una sua organizzazione nelle scuole, il Blocco Studentesco, di un’emittente, Radio Bandiera Nera, di un periodico mensile, Il Primato Nazionale. Soprattutto dopo l’uscita dalla Fiamma, Cp cerca di esaltare, pur senza mai rinnegare le radici fasciste, le discontinuità con le posizioni classiche dell’estrema destra. Firma un manifesto contro l’omofobia, cerca di coniugare le posizioni fortemente identitarie, dunque ostili alla migrazione di massa, con il rifiuto del razzismo. Invita nella propria sede l’esponente del Pd Paola Concia, militante lesbica, e l’ex brigatista Valerio Morucci. A tratti, nonostante la rigida gerarchia interna, si propone quasi come una sorta di “fascismo libertario”. Oggi di quell’ispirazione originaria, senz’altro distinta dalla visione usuale di un neofascismo rozzo ed esclusivamente muscolare, si coglie poco. CasaPound, in questi anni, si è dedicata soprattutto all’intervento nei quartieri delle periferie, ha finito per identificarsi sempre di più con le campagne contro gli immigrati. Incontrandosi inevitabilmente su questo terreno con la nuova Lega di Salvini. Le iscrizioni sono aumentate, e oggi sono oltre 20mila. Un certo radicamento nella aree della periferia romana sono riusciti a costruirlo. Rendendo però sempre più evanescente la propria specificità. Tra i fondatori c’è chi coglie questo slittamento in pieno e con malcelata preoccupazione, addossandone la colpa alle campagne mediatiche: «Se ci dipingono come identici a Forza Nuova finisce che entra nel movimento anche gente che pensa di entrare in Forza Nuova».
· Il saluto romano: manifestazione del pensiero (come il pugno chiuso comunista).
Cuneo, fanno il saluto romano a scuola: allievi "puniti" con lezioni su Resistenza e migranti. Il gesto di quattro studenti davanti a un manifesto di una mostra ospitata dall'istituto: sospesi 6 giorni, scrive Cristiano Palazzo il 07 aprile 2019 su La Repubblica. Un percorso educativo studiando la Resistenza e le leggi razziali come punizione per aver fatto il saluto romano davanti a un manifesto di "Lager SS". È quanto dovranno "scontare" i quattro studenti minorenni del liceo De Amicis di Cuneo (città che, tra l'altro, è Medaglia d'oro per la Resistenza) durante la sospensione di sei giorni decisa dalla preside Mariella Rulfi con il Consiglio di Classe dopo il gesto che li vide protagonisti. Era un giorno di febbraio (come racconta la Stampa di Cuneo), era suonata la campanella dell'intervallo, i ragazzini uscirono dalla classe e si schierarono in fila orizzontale davanti alla locandina che ritraeva le Ss che era stata affissa in Aula magna per una mostra fotografica sui campi di sterminio in occasione della Settimana della Memoria. Il gesto fu immortalato in un video girato con il telefonino che, nel tam tam sugli smartphone, è finito tra le mani della preside che ha deciso di prendere provvedimenti. Così si è deciso per sei giorni di sospensione che però i quattro studenti non trascorreranno a casa. I ragazzi, infatti, in questo periodo dovranno intraprendere un percorso di consapevolezza e riflessione per riconoscere il significato di quanto fatto. In calendario c'è prima di tutto la visita all'Istituto storico della Resistenza di Cuneo, dove si confronteranno su quanto accaduto durante la Seconda guerra mondiale e sulle leggi razziali. Poi ci sarà la comunità Emmaus di Boves per scoprire l'impegno sociale attraverso attività di riciclo dei rifiuti e infine ci sarà un centro cuneese di accoglienza straordinaria di migranti e la visita al Sacrario della Madonna degli Alpini sulla collina di Cervasca dove ogni anno si radunano le "penne nere" per onorare i Caduti in guerra.
"Il saluto romano non è reato", assolti due politici nell'imperiese. Esponenti di Forza Nuova avevano alzato il braccio durante una cerimonia in memoria della Repubblica di Salò. La Repubblica il 07 novembre 2019. "Il fatto non costituisce reato": è questa la formula con il quale il giudice monocratico del Tribunale di Imperia Sonia Anerdi ha assolto dall'accusa di apologia del fascismo l'ex assessore del Comune di Diano Castello (Imperia) ed esponente di Forza Nuova Manuela Leotta e il sanremese Eugenio Ortiz. I due il 26 aprile del 2015 avevano fatto il saluto romano e gridato "presente" durante una celebrazione, presso il cimitero di Sanremo in memoria dei caduti della Repubblica sociale italiana. La sentenza con la quale sono stati assolti i due imputati è stata pronunciata sulla base di precedenti verdetti della Cassazione. Il pm aveva invece chiesto una condanna a 3 mesi di reclusione e 300 euro di multa. Sul tema si registrano per altro diversi orientamenti della Cassazione. A maggio con la sentenza 21409, la Corte ha confermato la condanna per un avvocato “nostalgico” del regime che, nel corso di una seduta del Consiglio comunale di Milano, in occasione della presentazione del “Piano Rom” aveva steso il braccio accompagnando il gesto con la frase “presenti e ne siamo fieri”, ma solo pochi mesi prima la Cassazione aveva sentenziato che non è reato il saluto romano se ha intento commemorativo e non violento: in questo senso, può essere considerato una libera "manifestazione del pensiero" e non un attentato concreto alla tenuta dell'ordine democratico. La Cassazione aveva così definitivamente assolto due manifestanti di Casapound, che durante una commemorazione organizzata a Milano nel 2014 da esponenti di Fratelli d'Italia, rispondendo alla "chiamata del presente" avevano alzato il braccio destro facendo il saluto fascista. Il giudice di Imperia si è conformato a questo orientamento.
Imperia, saluto romano non è reato: assolti in 2. Una forma di saluto che fece molto discutere nel corso di un episodio del 2015, durante le celebrazioni funebri in onore ai caduti Rsi a Sanremo: il giudice assolve Manuela Leotta ed Eugenio Ortiz. Marco Della Corte, Giovedì 07/11/2019, su Il Giornale. "Il fatto non costituisce reato": con tali parole Sonia Anerdi, giudice monocratico del tribunale di Imperia, ha assolto Manuela Leotta, assessore del comune di Diana Castello (Imperia) ed esponente di Forza Nuova ed Eugenio Ortiz, residente a Sanremo, dall'accusa di apologia di fascismo. Tutto accadde il 26 aprile 2015, quando i due avevano esibito il saluto romano e gridato "presente" durante una celebrazione in memoria dei caduti della Repubblica sociale italiana svoltasi presso il cimitero di Sanremo. Come si legge dall'agenzia Ansa, la sentenza, con cui sono stati assolti i due imputati in questione, può contare su diversi precedenti da parte della Cassazione. Originariamente, il pm aveva invece chiesto una condanna di 3 mesi di reclusione ed un'ammenda di 300 euro.
Saluto romano non è reato. Il saluto romano non costituisce reato se esibito durante cerimonie come commemorazioni. Basandosi su tale status quo, il giudice Sonia Anerdi ha assolto dall'accusa di apologia di fascismo l'esponente di Forza Nuova Manuela Leotta e il sanremese Eugenio Ortiz. I due avevano salutato con la mano tesa gridando "presente" i caduti della Repubblica sociale italiana nel corso di una commemorazione svoltasi il 26 aprile 2015. La scena era stata filmata da alcuni agenti della Digos presenti tra la folla di nostalgici. Il pm aveva chiesto per i due imputati una condanna a tre mesi di reclusione ed il pagamento di 300 euro di multa. Tuttavia, il giudice Anerdi, prendendo come spunto precedenti verdetti della cassazione, ha dichiarato che quanto attuato da Ortiz e Leotta non costituisce reato. Questo, contrariamente a quanto formulato in una recente sentenza, in cui la cassazione aveva invece confermato la condanna di un avvocato di Milano che aveva fatto il saluto romano nel corso di una seduta del consiglio comunale. Un episodio analogo era avvenuto anche nel corso dei funerali di Antonio Rastrelli, ex presidente della giunta regionale Campania. In quel caso il saluto fascista era stato utilizzato per salutare il feretro del politico. Il caso in questione non era stato scevro di strascichi giudiziari.
“IL SALUTO NAZISTA? È UNA MANIFESTAZIONE DEL PENSIERO COSTITUZIONALMENTE GARANTITA”. Manuela Messina per La Stampa il 5 aprile 2019. Avere urlato il motto nazista "Sieg Heil" alla cerimonia commemorativa per i caduti della Repubblica sociale italiana, nell’aprile di due anni fa al Campo X a Milano, è “una manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita”. Così per il giudice di Milano Maria Angela Vita che ha assolto “perché il fatto non sussiste” tre giovani che ostentarono simboli fascisti e nazisti il 24 aprile 2016 alla manifestazione che ogni anno si svolge al cimitero Musocco, nel capoluogo lombardo. I tre - Alessandro Botrè, 30 anni, Alessio Polignano, 43 anni e Liliane Tami, 27 anni – erano finiti a processo per avere violato l’articolo 5 della legge Scelba, che sanziona appunto chi compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista e delle organizzazioni naziste. Gli imputati infatti non solo gridarono lo slogan della Germania di Hitler ma fecero il saluto romano ed esposero lo stendardo della "associazione combattenti 29esima divisione granatieri Waffen-Ss". Il giudice sostiene che è diritto dei cittadini esprimere liberamente il proprio pensiero, quando con non vi sia pericolo concreto per la “tenuta dell’ordine democratico”. Peccato che nella stessa Costituzione non solo non vi sia traccia di forme di tutela verso qualsiasi manifestazione del pensiero che porti a ideologie totalitarie, ma anzi la stessa carta vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista”. Scrive il giudice della settima sezione penale del Tribunale milanese che i “simboli fascisti e nazionalsocialisti ostentati nel corso della cerimonia” sono stati una “manifestazione del pensiero, costituzionalmente garantita, all’interno di un contesto commemorativo (e non un attentato concreto alla tenuta dell’ordine democratico) e come tali, pertanto, privi di quella offensività concreta vietata dalla legge”. Il giudice ha valutato infatti che la norma della Legge Scelba punisce “quelle manifestazioni del partito fascista che possono determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste”. Ma nel caso della cerimonia al campo X, le “circostanze e le modalità della cerimonia funebre (…) pure a fronte dell’ostentazione da parte degli odierni imputati di gesti, comportamenti ed emblemi indiscutibilmente di stampo fascista e nazionalsocialista, non appaiono, al Tribunale, tali da suggestionare concretamente le folle, ed indurre negli astanti sentimenti nostalgici in cui ravvisare un serio pericolo di riorganizzazione del partito fascista”. Per di più ha sottolineato il “carattere esclusivamente commemorativo” e “pacifico” della cerimonia che era “esclusivamente rivolta ai defunti, in segno di omaggio e di umana pietà, senza alcuna finalità di restaurazione di carattere fascista o nazionalsocialista”. Sentito in aula al processo, Botrè, che è iscritto all’ordine dei giornalisti della Lombardia, aveva ammesso di avere voluto evocare i “valori del nazionalsocialismo”. Per Polignano si trattò invece solo di un “ricordo storico”.
Saluto romano: la Procura dà la linea. "Troppe assoluzioni" nei processi per reati a sfondo politico. Intervengono i vertici, scrivono Cristina Bassi e Luca Fazzo, Venerdì 19/04/2019, su Il Giornale. In Tribunale sul saluto romano si è creato il caos: è reato o no? Ci sono state infatti sia condanne sia assoluzioni per fatti molto simili. La Procura ha deciso di intervenire con una indicazione ai Vpo, i pm «supplenti». Nei processi a sfondo politico meglio che si consultino con i colleghi togati esperti in materia. Si può o non si può fare il saluto romano? Il tema ultimamente è controverso, perché dal tribunale di Milano sono arrivate sia assoluzioni che sentenze di condanna. E rischia di diventare caldo nei prossimi giorni, quando ricorreranno sia l'anniversario della Liberazione che quello delle uccisioni dei neofascisti Sergio Ramelli e Enrico Pedenovi: occasione quasi sempre di cortei dell'ultradestra con il relativo apparato di labari, slogan e saluti. Così la Procura della Repubblica corre ai ripari e decide di riportare sotto una unica regia tutte le indagini per i reati «ideologicamente e politicamente sensibili». Una serie di assoluzioni recenti, questa è la convinzione dei vertici della Procura, è stata causata anche da comportamenti immotivati dei magistrati incaricati di rappresentare l'accusa nei processi: compresa quella che nel febbraio scorso ha scagionato tre imputati che il 24 aprile 2016 al Cimitero Maggiore avevano non solo fatto il saluto romano ma anche innalzato stendardi delle Waffen Ss e lanciato lo slogan nazista «Sieg Heil». Una decisione che la Procura non ritiene accettabile e che si prepara a impugnare. Il problema nasce dal fatto che a sostenere in aula l'accusa contro gli imputati di questo genere di reati i magistrati a tempo pieno che hanno condotto l'indagine delegano al loro posto dei Vpo, ovvero viceprocuratori onorari: avvocati che campano come «cottimisti» della giustizia, sostituendo i pm nelle udienze per i reati considerati «minori». Fin quando si tratta di scippi o piccoli episodi di spaccio, non c'è problema. Ma anche il saluto romano è, sulla carta, un reato minore. E a volte accade che i Vpo cui arriva da gestire il fascicolo chiedano loro stessi la assoluzione dei neofascisti sotto accusa: a volte dopo avere cambiato il capo di imputazione. Quando poi le assoluzioni arrivano davvero, scattano i comunicati di indignazione delle varie organizzazioni partigiane. L'esigenza di trovare una linea comune, e di evitare proscioglimenti a cuor leggero, era stata sollevata da Alberto Nobili, il pm che gestisce le inchieste «politiche» della Procura. E nei giorni scorsi il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano ha scritto una lettera a tutti i Vpo, di cui coordina l'attività, con una indicazione precisa. Ogni volta che avranno a che fare con un processo «ideologicamente sensibile», dovranno consultarsi con un pm di mestiere, esperto della materia. Non saranno obbligati a seguire i suoi «consigli», perché per legge chi impersona la pubblica accusa in udienza agisce liberamente, ma il messaggio è chiaro: «Prima di chiedere l'assoluzione, parlatene con noi». Un invito che alcuni Vpo hanno preso malissimo, considerandolo l'ennesima prova di essere considerati magistrati di serie B. L'iniziativa della Procura nasce dal fatto che ai saluti romani e agli slogan usati in queste occasioni si possono applicare due leggi, apparentemente assai simili: la legge Scelba del 1957, che punisce il reato di «manifestazioni fasciste», e il decreto Mancino del 1993. La pena è identica (il carcere fino a tre anni) ma per applicare la legge Scelba la Cassazione pretende che ci sia un pericolo concreto di fare proselitismo, mentre per violare la legge Mancino bastano slogan e simboli, soprattutto se questo avviene in pubblico. Alcune delle assoluzioni più recenti sono arrivate dopo che i Vpo hanno scelto di modificare l'imputazione, contestando la legge Scelba invece della Mancino. Questo non dovrà più accadere, hanno deciso i vertici. «Come al solito siamo l'ultima ruota del carro», ha risposto un Vpo. Ma almeno la prossima volta i nostalgici sapranno a cosa vanno incontro.
Vittorio Feltri fa impazzire i sinistri: "Saluto romano? Alzo con garbo l'avambraccio, e...", scrive il 9 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Questa storia infinita e noiosa del saluto romano condannabile quale reato mi sembra assurda e farebbe ridere se non fosse stata trasformata dalla sinistra in un tormentone indigesto. Se il saluto incriminato è romano, risalente cioè all'impero di Giulio Cesare e successori, che ci importa se poi fu adottato dai fascisti? Sempre romano rimane, pertanto perché dovrebbe essere vietato? Non riesco a capire con quale logica esso debba venire bandito, mentre la stretta di mano, poco igienica, continui non solo ad essere in auge e addirittura raccomandata. Io ogni giorno vado al ristorante. La prima cosa che faccio è recarmi in bagno onde lavarmi gli arti superiori. Mi siedo al tavolo e ogni pirla che entra nel salone, conoscendomi, si avvicina e mi porge il palmo. Non posso negare il mio. Però mi incavolo. Non mi va di raggiungere il lavabo trenta volte al dì e mi tengo per disperazione la mano contaminata dagli avventori. Amen. Non sarebbe meglio agire come gli antichi della capitale che alzavano garbatamente l'avambraccio in segno di omaggio e finiva il tormento con buona pace di tutti? Non c'è verso di farlo capire agli antifascisti, impegnati a combattere i fascisti immaginari e convinti che i simboli fasulli siano prodromi di un ritorno del duce. Recentemente è successo un fatto stravagante. Alcuni scolari, rei di aver fascisticamente salutato per gioco, non soltanto sono stati redarguiti ma perfino condannati a subire corsi di riabilitazione democratica: devono studiare in cosa consistesse la Resistenza e, non bastasse, saranno obbligati a frequentare gli immigrati. Già, gli stranieri trasformati in strumenti di punizione per studenti giudicati scapestrati e ignoranti. Bisogna essere stolti e razzisti per considerare la frequentazione degli extracomunitari una forma di punizione per ragazzi anticonformisti. Gli immigrati non sono la peste né aguzzini, bensì gente comune la cui quantità nel nostro paese va tenuta sotto controllo. E basta. Vittorio Feltri
· Il fantasma di Mussolini: "Fa parte della storia".
Così Mussolini ha conquistato l'Italia. L'anticipazione del libro di Bruno Vespa "Perché l'Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare)". Bruno Vespa il 14 novembre 2019 su Panorama. Il governo Facta proclama lo stato d’assedio... (dal cap. VI). Il sonno di Facta durò meno di tre ore. Un’ora dopo la mezzanotte il presidente del Consiglio fu svegliato dai sottosegretari Giuseppe Beneduce e Aldo Rossini, informati da Dino Grandi dei drammatici sviluppi dell’insurrezione. Raggiunto in pochi minuti il ministero della Guerra, seppe che il suo capo di gabinetto Ottorino Carletti era sommerso dai telegrammi dei prefetti di decine di province dove la rivoluzione era in corso, con esiti alterni e nel caos generale. Al ministero, ad aspettarlo c’erano il ministro Soleri, il collega dell’Interno Taddei e il generale Emanuele Pugliese, comandante della divisione dell’esercito preposta alla protezione di Roma. Pugliese, di famiglia ebraica, era un ufficiale pluridecorato di grande valore. Il 19 ottobre aveva ricevuto l’incarico di difendere Roma da possibili attacchi fascisti e, al tempo stesso, di evitare scontri a fuoco con le camicie nere. Altrimenti, dinanzi a una guerra civile, il re - si diceva - avrebbe abdicato. Una classica soluzione all’italiana. Quindi Pugliese predispose il necessario: interruzioni ferroviarie nei punti chiave, controllo degli accessi stradali alla capitale, pattugliamento dei ponti sul Tevere. In un rapporto ai comandanti di brigata e di reggimento, garantì - come doveva, secondo il giuramento prestato - la più assoluta fedeltà alla Corona. Così come, in Io difendo l’esercito, sostiene di aver assicurato per tempo al ministro Soleri che, malgrado le aperte simpatie di molti soldati per il fascismo, al momento opportuno i suoi uomini si sarebbero schierati a fianco del re. (È nota la frase di qualche alto ufficiale – fu attribuita a Diaz, ma senza riscontri – che, alla domanda sulla fedeltà dei militari, avrebbe risposto: «L’esercito farà il suo dovere, ma è meglio non metterlo alla prova».) Pugliese aveva a disposizione 28.400 uomini, perfettamente armati e addestrati: ne sarebbero bastati assai meno per far fallire la rivoluzione fascista. (Nel dopoguerra il tenente Emilio Lussu, che quando era capitano della brigata Sassari aveva conosciuto il generale e che in seguito fondò il Partito sardo d’azione, nel suo Marcia su Roma e dintorni gli rimproverò ingiustamente la mancata difesa della capitale.) I fascisti erano complessivamente 26 mila, per la gran parte armati soltanto di rivoltelle e fucili da caccia, e gli altri solo di manganelli, pugnali e roncole. Facta e Taddei provarono a far ricadere su Pugliese la responsabilità dell’inefficiente resistenza militare alle scorrerie delle camicie nere. Lui si difese con un’energia, anche dialettica, che lo portò persino a varcare i limiti del protocollo. Disse di aver presentato fin dal 27 settembre un piano preventivo e di non aver ricevuto alcuna risposta. Se a Firenze, a Perugia e in altre città era accaduto quel che non doveva accadere è perché fino al 27 ottobre l’autorità politica aveva mantenuto i poteri senza delegarli a quella militare, che quindi si era trovata completamente spiazzata. Pugliese chiese pertanto ordini scritti e il ministro dell’Interno s’impegnò a fornirglieli. Nel ricostruire quei momenti, Emilio Gentile dà atto al ministro della Guerra di aver disposto il 10 ottobre la costituzione di 8 nuclei mobili misti di soldati, carabinieri e guardie regie per fronteggiare eventuali disordini, e il 19, come abbiamo visto, aveva incaricato Pugliese di difendere la capitale. Ma ordini scritti di passare alla fase operativa, al generale non arrivarono mai. Il Consiglio dei ministri si riunì alle 5.30 del mattino di quel drammatico 28 ottobre e prese atto che l’unico modo per contrastare i fascisti era proclamare lo stato d’assedio. Giuseppe Paratore, vecchio amico di Francesco Crispi e ministro del Tesoro, riferì nel dopoguerra che il generale Arturo Cittadini, aiutante di campo di Vittorio Emanuele III, avrebbe detto che, senza lo stato d’assedio, il re avrebbe abbandonato l’Italia. Ma l’episodio è controverso. In quelle ore di gran confusione, è agli atti un telegramma spedito alle 5 del mattino da Facta a Giolitti, al popolare Filippo Meda e a Mussolini per invitarli a Roma «per conferire». Se il sovrano voleva prendere tempo, e se due giorni prima aveva chiesto a Facta di associare il fascismo al governo «per le vie legali», come si spiega il precipitare della situazione in poche ore? È un fatto che, in meno di un’ora di discussione, la decisione venne presa all’unanimità, anche se Facta era taciturno, più cupo che mai, e prima di recarsi al Quirinale avrebbe detto: «Vedo male». Che cosa sapeva e non aveva detto ai suoi colleghi? Per quanto tempo ha giocato di sponda con tutti, nel tentativo di essere lui il traghettatore dei fascisti al governo? O ha ragione chi lo descrive come ormai deciso a chiudere con dignità la sua vicenda politica convertendosi alla prova di forza? Lo stato d’assedio fu comunque deciso dal governo, tanto che il ministro delle Colonie Giovanni Amendola poté sospirare: «Domani quegli scalzacani saranno messi a posto». Ma come si proclama uno stato d’assedio? Nessuno lo sapeva. Negli archivi dell’Interno c’era quello relativo ai moti di Milano del maggio 1898, quando i cannoni del generale Fiorenzo Bava Beccaris fecero strage dei rivoltosi. (Singolare precedente: al Corriere della Sera fu allora impedito di raccontare gli scontri e il proprietario direttore Eugenio Torelli Viollier si dimise protestando: «Sento aria di Borbone».) Con le necessarie modifiche, il testo fu dunque passato alla tipografia del Viminale alle 7.50, mentre fin dalle 6.30 il comando della divisione dell’esercito basata a Firenze ricevette l’ordine di sgomberare gli edifici occupati dai fascisti e alle 6.45 ai prefetti del regno fu comunicata la notizia dello stato d’assedio, con la disposizione di mantenere l’ordine pubblico. Con straordinaria tempestività, alle 8.30 gli attacchini stavano diffondendo il manifesto sui muri di Roma. Il proclama era un appello ai cittadini perché capissero che, dopo tanta pazienza, era necessario «mantenere l’ordine con qualunque mezzo e a ogni costo». In parallelo veniva diffuso il documento che assegnava i pieni poteri al generale Pugliese: vietati gli assembramenti e la circolazione automobilistica e tranviaria, vietati i pubblici spettacoli, chiusura alle 21 degli esercizi pubblici.
…ma il re si rifiuta di firmarlo. Nel groviglio di tesi contrastanti, noi crediamo all’autenticità del monito di Arturo Cittadini al governo. Quale presidente del Consiglio - e, in particolare, un uomo prudentissimo fino alla pavidità come Facta - si sarebbe azzardato a diffondere la proclamazione dello stato d’assedio se non fosse stato arcisicuro della copertura del re? Diversamente, si deve immaginare che Facta abbia firmato lo stato d’assedio per mettersi a posto con la coscienza e con la storia, lasciando a Vittorio Emanuele III l’intera responsabilità della decisione finale. Sia come sia, alle 9 del mattino il presidente del Consiglio si presentò al Quirinale per la controfirma del decreto, ma il re si rifiutò di firmarlo. In L’Italia in camicia nera, Indro Montanelli sceneggia addirittura un dialogo da pochade tra i due: «Quando vide la bozza del proclama, il re andò su tutte le furie, anzi strappò il testo dalle mani del primo ministro, e lo chiuse in un cassetto come se gli scottasse le mani. Quando poi seppe che era stato diramato dall’agenzia ufficiale Stefani, la sua collera non conobbe limiti. “Queste decisioni” disse “spettano soltanto a me… Dopo lo stato d’assedio, non c’è che la guerra civile…”. E concluse: “Ora bisogna che uno di noi due si sacrifichi”. Per la prima e forse ultima volta, Facta riuscì a trovare una battuta: “Vostra Maestà non ha bisogno di dire a chi tocca”. E prese congedo ». (Facta tornò al Quirinale, dove nel frattempo si era trasferito Vittorio Emanuele, alle 11.30, accompagnato dai presidenti di Camera e Senato, per formalizzare le dimissioni.) Le cose, in realtà, sono molto più complicate e drammatiche di quanto non emerga dal brillante racconto di Montanelli. Il re non si era coricato nemmeno per mezz’ora e aveva trascorso la notte in frenetiche consultazioni. Più vecchio e stanco dei suoi 53 anni, Vittorio Emanuele tentò fino all’ultimo di salvare la faccia formando un governo di obbedienza fascista, ma senza Mussolini. Per farlo, doveva giocare su tre tavoli: istituzionale, politico, militare. Chi lo consigliò di non firmare? A Paolo Puntoni, che dal 1939 sarebbe diventato suo primo aiutante e suo confidente, raccontò di aver preso la decisione da solo: «Nei momenti difficili tutti sono capaci di criticare e di soffiare sul fuoco; pochi o nessuno sono quelli capaci di prendere decisioni nette e di assumersi gravi responsabilità. Nel 1922 ho dovuto chiamare al governo “questa gente” perché tutti gli altri, chi in un modo, chi nell’altro, mi hanno abbandonato. Per 48 ore io in persona ho dovuto dare ordini direttamente al questore e al comandante del corpo d’armata perché gli italiani non si scannassero tra loro». Tutto questo lavorio, onestamente, non risulta. Sia all’arrivo alla stazione sia nel primo incontro a villa Savoia, Facta, che pure era tutt’altro che un ardimentoso, aveva avuto la netta sensazione che il re si sentisse costretto a un’azione di forza. In una lettera inviata al deputato cattolico Giovanni Bertini, uno dei fondatori del Partito popolare e ministro dell’Agricoltura nei due governi Facta, Vittorio Emanuele aveva spiegato: «È vero che, quando il presidente del Consiglio ebbe a parlarmi la sera del mio arrivo alla stazione e successivamente, ero rimasto concorde con lui nel valutare i pericoli della situazione politica, ma purtroppo ho dovuto poi convincermi che la situazione era assai diversa da quella prospettata, e per questo mi son trovato a non poter dar seguito alle decisioni deliberate dal governo». Il re, probabilmente, sopravvalutava la forza militare e le condizioni psicologiche dei fascisti: se il generale Pugliese avesse dato ordine di sparare, le camicie nere avrebbero ceduto prima dei legionari dannunziani a Fiume sotto il fuoco ordinato da Giolitti. Di più: se i militari di Firenze, Bologna e Perugia le avessero investite con una raffica di mitraglia, non sarebbero nemmeno arrivate a Roma. Mussolini, invece, lo sapeva perfettamente e, con la sua straordinaria abilità politica, bluffò fino all’ultimo. Evidentemente, i fascisti erano riusciti a mascherare bene la loro debolezza, anche se dal punto di vista mediatico si aveva la sensazione che i rivoltosi fossero molto più forti di quanto erano nella realtà. Qualche giorno prima delle elezioni in Umbria, Nicola Zingaretti mi mandò un whatsApp con la mappa della regione elaborata dall’Istituto Cattaneo di Bologna dopo le elezioni europee del 26 maggio 2019. Era verde, con una piccola macchia rossa nella parte orientale, più o meno da Castiglione del Lago a Città della Pieve. «Questa è la verità » scriveva il segretario del Pd. Dopo lo scandalo della sanità che nella primavera del 2019 aveva decapitato la giunta Marini, per la sinistra la regione era persa, ma, senza l’alleanza con il M5s, la sconfitta sarebbe passata quasi sotto silenzio. Perché allearsi quando la somma degli schieramenti alle Europee dava comunque un vantaggio di 6 punti al centrodestra? Zingaretti ha risposto nelle pagine precedenti: serviva avviare una strategia di lungo periodo. Di qui la spericolata esposizione comune a Narni del presidente del Consiglio insieme a Zingaretti, Di Maio e Roberto Speranza (LeU). Nessuno però, nemmeno Salvini, si aspettava un risultato così devastante: il 57,6 per cento di Donatella Tesei, avvocato, candidata del centrodestra, contro il 37,5 per cento di Vincenzo Bianconi, l’albergatore pescato all’ultimo momento come «esponente della società civile». La tragedia sta nei dettagli. Il Pd (22,3) ha tenuto: solo un paio di punti in meno delle ultime elezioni europee. Ma il Movimento 5 Stelle (7,4) ha dimezzato i voti presi soltanto cinque mesi prima (14,6) e perso 20 punti sulle Politiche del 2018 (27,5), piazzandosi dopo Fratelli d’Italia (10,4) che, a sua volta, ha doppiato Forza Italia (5,5), mentre la Lega (37) ha perso un punto rispetto alle Europee, ma ha quasi raddoppiato il voto del 2018 (20,2). Un quarto degli elettori del MSs alle Europee ha votato centrodestra. Luigi Di Maio ha abbandonato immediatamente la prospettiva di ripetere l’alleanza con il Pd nelle successive elezioni regionali. Gli attacchi interni contro di lui si sono moltiplicati, ma per il Movimento si apre un problema non di leadership bensì di identità. Cresce se è all’opposizione (dove pensava di restare più a lungo di quanto ci è rimasto), crolla se va al governo. I cinque anni magici (2013-2018) sembrano irripetibili. Forse esagera Ernesto Galli della Loggia (Corriere della Sera, 29 ottobre 2019) quando richiama l’Uomo Qualunque del dopoguerra. Se non altro perché il MSS ha celebrato nel 2019 il decennale, mentre il partito di Guglielmo Giannini visse solo tra il 1944 e il 1946. Certamente, il Movimento è a un bivio: tornare all’opposizione con una forte testimonianza o scivolare progressivamente verso una posizione satellite del Pd, che però lascerebbe ai Calenda e, soprattutto, ai Renzi il ruolo di moderati del centrosinistra? Nessuno dei giallorossi ha messo in discussione il governo Conte, ma un governo ha senso se governa. E il gabinetto, prima e dopo le elezioni in Umbria, è stato troppo strattonato - in particolare da Di Maio e da Renzi - per poter continuare a lungo così. Un volo transatlantico fatto solo di turbolenze e vuoti d’aria non è un viaggio. È un incubo. L’entità della sconfitta giallorossa in Umbria colpisce perché il candidato Bianconi aveva l’esplicito appoggio delle gerarchie ecclesiastiche. Ha dunque ragione Galli della Loggia quando parla di tramonto storico del «blocco cattolico-postcomunista» che è stato finora il cardine del potere in Italia? Matteo Salvini non comunica mai le sue strategie, se ne ha. Gli basta la tattica. La conquista del territorio paese per paese, casa per casa. Le sue campagne elettorali lasciano attoniti gli avversari. Se va in un paese di 2 mila abitanti, sa di raccoglierne tutti i voti. Nel paese vicino diranno: se è andato lì, verrà pure qua. E così via, battendo sempre su immigrazione, tasse, lotta alla legge Fornero. Il declino di Forza Italia (in Umbria fisiologico) pone al Cavaliere l’urgenza di rifondarsi. La sua testimonianza è decisiva per garantire al centrodestra un credibile aggancio in Europa, ma rischia di ridursi appunto a testimonianza. A meno che non faccia con Renzi quel famoso Partito della Nazione che era la prospettiva del Patto del Nazareno (18 gennaio 2014). Alleato e non più avversario della forte destra di Matteo Salvini. Il 28 ottobre 2019, uscendo dalla trasmissione postelettorale di Porta a porta l’ho buttata lì a Salvini: «Scommettiamo che alla fine Renzi il governo lo farà con voi?».
Il fantasma di Mussolini (non) spaventa Salò: "Fa parte della storia". Il Consiglio comunale deve votare sulla revoca della cittadinanza al Duce. La gente: roba vecchia, scrive Stefano Filippi, Domenica 07/04/2019, su Il Giornale. Un'ombra aleggia sul golfo di Salò, un fantasma che minaccia - dicono - un angolo di Garda perfetto, pulito, ordinato, che non si scompone nemmeno se tira vento. Le folate fanno turbinare foglie e cartacce, ma sul lungolago nulla volteggia perché il selciato è lustro come il pavimento di casa. O la gente di qui ha il Nobel dell'educazione civica, o i netturbini sono primatisti del pronto intervento. Sarebbe uno spicchio d'Italia incontaminato, se non fosse per quei 20 mesi tra il 1943 e il '45, 20 mesi più pesanti di 20 anni. Anzi, del Ventennio, con la maiuscola. Lo spettro che si aggira per Salò non è quello del comunismo, come scrissero Marx ed Engels, ma del suo opposto. Quello del fascio, di Benito Mussolini, della Repubblica sociale italiana insediatasi in questa insenatura dopo l'8 settembre. Strano destino, quello di Salò. La Rsi non ebbe una Costituzione né una capitale. Il duce se ne stava 20 chilometri più a nord, a Gargnano, dove si riuniva il governo e aveva sede pure il comando tedesco. I ministeri erano sparsi in mezzo Nord Italia, da Cremona (Giustizia) a Venezia (Lavori pubblici). A Salò invece, a parte il ministero degli Esteri, era concentrato il dipartimento della propaganda: il Minculpop (ministero della Cultura popolare) con Giorgio Almirante capo di gabinetto, l'agenzia di stampa Stefani e le postazioni dei giornali accreditati. Le note di regime e i dispacci della Stefani cominciavano con l'intestazione «Salò comunica», «Salò dice», «Salò informa». E così la Rsi fu la Repubblica di Salò. Nel 1924, quando l'Italia intera faceva a gara per propiziarsi Mussolini, anche Salò conferì la cittadinanza onoraria al duce. Oggi un conformismo uguale e contrario la vuole cancellare, come già altrove. Il consigliere di minoranza Stefano Zane ha presentato una mozione che il Consiglio comunale discuterà domani sera. Quattro ex sindaci si sono accodati: «Il Consiglio comunale deve prendere una decisione unanime e condivisa» contro chi calpestò i diritti umani. I quattro non sapevano della cittadinanza onoraria. Non se n'era accorto nemmeno un altro sindaco di Salò, Francesco Zane, che di Stefano Zane era il nonno e fu partigiano e senatore Dc per tre legislature. E se lo sapeva, non gli era importato molto.
Seduti sotto il portico del municipio, un tempo Palazzo della Magnifica patria, alcuni anziani discutono senza passione. «Non vedo il problema», dice uno. «Cosa vai a rivangare Mussolini», biascica un altro. «La Rsi fa parte della storia», aggiunge un terzo. E se gli chiedi se vedano il rischio di un ritorno del fascismo, ti guardano come se davanti avessero un marziano. Il perché lo spiega Paolo Rossi, proprietario dell'hotel Bellerive e soprattutto del Laurin, lo splendido edificio liberty che ospitò il ministero degli Esteri della Repubblica sociale, nonché presidente di Federalberghi Brescia e Lombardia: «A Salò non ci sono mai stati estremismi, nemmeno in tempo di guerra. Qui la guerra nemmeno arrivò. I miei nonni, che erano di Gardone, mi raccontavano che anche là era tutto tranquillo. Del resto, i tedeschi piazzarono Mussolini a Villa Feltrinelli proprio perché queste erano zone al riparo da attacchi aerei. Le polemiche di oggi mi paiono pretestuose, vogliono dare alle cose un significato che non hanno. Non si fa così l'antifascismo». Paradossalmente, della Rsi bisognerebbe parlare di più. All'Infopoint turistico svelano che esiste un certo interesse per i luoghi mussoliniani accompagnato da molta ignoranza: qualcuno chiede dov'è la casa del duce (che era a Gargnano), dove viveva la Petacci (a Gardone), dove sono stati ammazzati (sul lago di Como) e addirittura dov'è la tomba (a Predappio). Ma Salò non è Predappio, non ci sono mausolei, marce, souvenir, nulla. Solo 50 anni dopo la fine della guerra Marzio Tremaglia, da assessore lombardo alla Cultura, fondò un Centro studi sulla Rsi con un centro di documentazione che fu il primo nucleo del Musa, il Museo di Salò, e ora ne rappresenta una piccola sezione. Il professor Roberto Chiarini, storico bresciano, da presidente del Centro studi ha fatto collocare alcune targhe illustrative davanti a una quindicina di luoghi simbolo della breve stagione mussoliniana, da Villa Amadei (Minculpop) al municipio (ufficio interpreti): qualche anno fa il Fondo per l'ambiente italiano vi organizzò una visita. Fine della presenza pubblica della Rsi a Salò. «Il fascismo si combatte studiandolo e prendendone le distanze dal punto di vista storico, non propagandistico - dice Chiarini - C'è una polemica analoga a Brescia, dove il duce fece erigere la statua del Bigio, il maschio nudo fascista, e ora molti non lo vogliono ricollocare in piazza Vittoria dopo il restauro. A Brescia tutti i tombini portano il simbolo del fascio. Fare i conti con il passato è un vecchio problema. Ma la verità è che l'Italia non tornerà fascista mai più».
Salò, resta la cittadinanza onoraria a Mussolini. Ma non è finita. Il Comune di Salò ha rigettato la mozione di un consigliere di opposizione che chiedeva la revoca della cittadinanza onoraria a Benito Mussolini. Il sindaco: "Se ne occuperà la prossima amministrazione. Ora siamo in campagna elettorale", scrive Gianni Carotenuto, Martedì 09/04/2019 su Il Giornale. L'8 aprile come il 25 luglio, la fine di un'epoca, l'ora di quella che agli occhi di un consigliere di opposizione doveva essere una decisione irrevocabile: togliere a Benito Mussolini la cittadinanza onoraria del Comune di Salò, ben 95 anni dopo la sua concessione. Ma non è andata così. Almeno per ora, l'onorificenza concessa al gran capo del fascismo rimane. A deciderlo il consiglio comunale che ha rigettato la mozione presentata da Stefano Zane, consigliere di opposizione della lista civica "Scelgo Salò" che a fine marzo era finito sulle prime pagine di tutti i giornali per avere chiesto il ritiro del titolo onorifico al Duce. "La questione - riporta l'Ansa - dovrà affrontarla la prossima amministrazione che uscirà dal voto di maggio" ha dichiarato il sindaco del paese Gianpiero Cipani (centrodestra). "Adesso siamo in campagna elettorale e il tema crea una tensione inutile" ha aggiunto il primo cittadino di Salò. "Venuti a conoscenza da un articolo di stampa che nel 1924 è stata concessa la cittadinanza onoraria a Benito Mussolini e che tale concessione, mai revocata, rappresenta a livello storico e politico un grande significato simbolico, e tenuto conto in particolare degli eventi che portarono la Città di Salò a rappresentare simbolicamente uno dei momenti più bui della nostra storia, con la presente mozione si chiede che il Consiglio Comunale nella seduta del prossimo 8 aprile 2019 revochi tale cittadinanza onoraria". Questo il testo integrale della mozione depositata da Zane e respinta dal consiglio comunale senza essere neppure discussa. Un tema, quello della cittadinanza onoraria al Duce, che non sembrava avere particolarmente appassionato i residenti. "Non vedo il problema, aveva detto uno. "Cosa vai a rivangare Mussolini", la protesta di un altro. "La Rsi fa parte della storia", aveva dichiarato un terzo al Giornale.
"Natale di Roma è fascista". E il M5S vuole boicottarlo. Raggi vuol negare il sostegno al corteo per il Natale di Roma perché i vessilli, le aquile e i fasci ricorderebbero il fascismo, scrivono Elena Barlozzari e Francesco Curridori, Mercoledì 10/04/2019, su Il Giornale. Il corteo per il Natale di Roma è una tradizione che si ripete da più di vent’anni. Ogni 21 aprile, nel giorno della fondazione dell’Urbe, migliaia di rievocatori sfilano lungo le vie del fu impero romano. Quest’anno, però, l’evento potrebbe saltare perché manca il sostegno della giunta Raggi. Transenne, bagni chimici e qualche vigile urbano per controllare la situazione. Nulla di più, nulla di meno. Un aiuto minimo ma al tempo stesso fondamentale per gli organizzatori dell’associazione Gruppo storico romano che sopravvive grazie ad autofinanziamento e donazioni. “Perdere il Natale di Roma sarebbe un oltraggio all’orgoglio capitolino e una pessima figura all’estero”, attacca Andrea Buccolini, responsabile delle relazioni esterne dell’associazione, nata negli anni Novanta per mantenere vivi usi e costumi dei nostri avi. Non a caso il gruppo ha siglato protocolli d’intesa con Roma Capitale, con il Mibact e col dipartimento di Storia Romana dell’Università di Tor Vergata.
La passione dei gladiatori per l'Antica Roma. Il quartier generale dell’associazione si trova a due passi da porta San Sebastiano ed è un villaggio romano del primo secolo avanti Cristo, interamente realizzato grazie al contribuito dei soci. Visitato da circa 10mila turisti l’anno, al suo interno custodisce un anfiteatro, il senato, il triclinium (la sala da pranzo) e una scuola per gladiatori. “Qui ognuno può sfogare il proprio amore per la storia”, spiega Flamma. Nella vita reale è una cantante lirica ma quando entra nel villaggio si trasforma in una gladiatrice: “Sono una persona troppo attiva per fare la matrona o la vestale”, scherza. Come lei c’è Emanuele, operaio con la passione per gli sport da combattimento, approdato al mondo della rievocazione da circa dieci anni. Per lui, invece, la gladiatura è un vero e proprio “stile di vita” perché “ti insegna ad esser coraggioso tanto nell’arena quanto nella vita di tutti i giorni”. Ma nel Gruppo Storico Romano c’è spazio anche per ninfe, pretoriani, legionari e musicisti. “Ogni membro dell’associazione studia, rivive, ricostruisce e interpreta un personaggio che è realmente esistito”, spiega Buccolini che veste i panni del prefetto dell’imperatore Adriano, Marco Turbonem.
La polemica sui simboli fascisti. In totale gli iscritti sono più di duecento e, durante tutto l’anno, partecipano a circa trecento eventi in tutto il mondo. “Quando ci esibiamo all’estero – prosegue Buccolini – ci pagano tutto e veniamo accolti come star di Hollywood”. Un trattamento ben diverso, quindi, da quello che sembra riservargli proprio il Campidoglio. “Il rapporto con le varie amministrazioni – spiega – è sempre stato problematico perché ancora esiste quel pregiudizio culturale che identifica la romanità come qualcosa di nostalgico e appartenente al Ventennio”. La colpa è delle simbologie, delle aquile e dei fasci littori che Mussolini prese in prestito dagli antichi e che Buccolini e i suoi esibiscono ad ogni rievocazione. “Quei simboli sono parte delle nostre tradizioni, della nostra storia e – replica amareggiato Buccolini – la politica non c’entra”. A quanto pare, invece, i Cinquestelle vedono il fascismo ovunque: Di Maio lo vede in Salvini, mentre la giunta Raggi dopo i pini del Duce se la prende pure con Romolo e Remo. La denuncia dell'associazione: "Il Natale di Roma è a rischio".
Bergamo, Benito Mussolini cancellato dai cittadini onorari. Passa in Consiglio comunale la mozione della sinistra. Il sindaco Gori si è astenuto: “Non è così che si determina il tasso di antifascismo”, scrive il 12 marzo 2019 La Repubblica. Benito Mussolini non è più cittadino onorario di Bergamo. Era il 24 maggio del 1924 quando il commissario prefettizio Alfredo Franceschelli conferì la cittadinanza onoraria della città di Bergamo al Duce. Quasi un secolo dopo i consiglieri comunali Emilia Magni e Luciano Ongaro di Sinistra Unita, forti di una petizione giunta al Comune di Bergamo nel 2016, hanno chiesto la cancellazione di Mussolini dal registro dei cittadini onorari di Bergamo perché "in contrasto con i principi e i valori della nostra Costituzione". La questione è giunta in aula, ieri sera, con 13 consiglieri favorevoli, 10 contrari e 10 astenuti. Così è stato deliberato di eliminare il riconoscimento della cittadinanza onoraria a Benito Mussolini che dunque è stato cancellato dal registro dei cittadini onorari di Bergamo. Il sindaco Giorgio Gori ha deciso di astenersi: "Revocare, anzi oggi 'non riconoscere', la cittadinanza onoraria a Mussolini, a 74 anni dalla sua morte, a mio avviso non aggiunge sostanzialmente nulla. E non è l'adesione a una petizione, come qualcuno in questi anni ha inteso, da che si è iniziato a riparlare della cittadinanza onoraria di Mussolini, a poter determinare il tasso di antifascismo di ciascuno di noi", ha spiegato.
Il Comune di Empoli revoca la cittadinanza onoraria a Mussolini, scrive il 12 marzo 2019 La Repubblica. Il Consiglio comunale di Empoli ha votato, lunedì sera, la revoca della cittadinanza onoraria a Benito Mussolini, che la città aveva concesso il 24 maggio 1924. Ne dà notizia su Facebook la sindaca Brenda Barnini (Pd). Il documento che attestava il conferimento della cittadinanza onoraria a Mussolini era stato ritrovato dopo una ricerca effettuata all'archivio storico. Alla votazione non ha partecipato il consigliere comunale di Fratelli d'Italia Andrea Poggianti, che alle prossime elezioni amministrative rappresenterà la coalizione di centrodestra sfidando la sindaca Barnini. "Il Consigliere Poggianti, candidato sindaco del Centro destra - ha scritto la sindaca su Facebook - non ha invece voluto partecipare al voto dicendo che ci sono cose più importanti di cui occuparci... si commenta da solo. Ma intanto il Duce non è più cittadino onorario di Empoli e questo è quello che conta per la capitale morale dell'antifascismo e medaglia d'oro al merito civile per il contributo dato nella Resistenza, nella Liberazione e con il sacrificio di centinaia di cittadini innocenti morti sotto il regime fascista e nelle deportazioni".
L'ultima crociata dell'Anpi "No alla piazza per Almirante". A Ladispoli una piazza in ricordo di Giorgio Almirante. Ma l'Anpi insorge: "L'esaltazione di idee e azioni di stampo nazifascista siano perseguite a norma di legge", scrive Luca Romano, Martedì 12/03/2019, su Il Giornale. L'ultima crociata dell'Anpi e della sinistra si riversa contro Giorgio Almirante. I partigiani (e Fratoianni) non vedono di buon occhio l'intitolazione di una via all'ex leader del Movimento Sociale Italiano. La cerimonia dovrebbe tenersi a Ladispoli, dove il Comune ha deciso di ricordare il politico della destra italiana dedicandogli una strada cittadina. Per l'Anpi si tratta di una "provocazione", perché è "inaudito" intitolare una piazza "a tale individuo" soprattutto farlo nel "giorno della ricorrenza dell'eccidio delle Fosse Ardeatine". "Il 24 marzo del 1944 i nazisti di Kappler, anche grazie alla fattiva collaborazione di elementi di spicco della repubblica di Salò, trucidarono 335 persone innocenti come criminale rappresaglia al 'legittimo atto di guerra' subito in Via Rasella - dice l'Anpi in una nota -Giorgio Almirante era personaggio non secondario della repubblica saloina, fascista e razzista mai pentito". Per l'associazione dei partigiani la cerimonia ideata a Ladispoli vorrebbe "sottolineare la continuità con tali retaggi e a rivendicare la giustezza di tale atrocità". Per questo la sezione locale dell'Anpi e quella provinciale di Roma fanno "appello alle Istituzioni" affinché "non sia permessa tale scellerata inaugurazione". "L'Anpi chiede che l'esaltazione di idee e azioni di stampo nazifascista - prosegue il testo - siano perseguite a norma delle leggi Scelba e Mancino. E chiama la cittadinanza alla mobilitazione perchè il fascismo, il nazismo, il razzismo non trovino più albergo e legittimazione nella vita della Repubblica, nata con la Resistenza e la Guerra di Liberazione, come sancito dalla Costituzione scritta col sangue dei Martiri".
Benito Mussolini è stato l'unico a tagliare il debito pubblico degli italiani, scrive Nino Sunseri il 9 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. «Se potessi avere mille lire al mese» cantava nel 1939 il maestro Mazzi. Che tempi. I telefoni bianchi al cinema e Amedeo Nazzari che minacciava la peste su chiunque non avesse avuto voglia di brindare con lui. L' Impero che era tornato sui Sette Colli e c' erano un po' di altre faccende fra le quali la più incredibile: l'Italia senza debito pubblico. Un evento abbastanza eccezionale considerando che da Quintino Sella in poi le finanze pubbliche sono sempre state sofferenti. Gli unici, però, che riuscirono a curarle davvero furono i ministri del Duce a cominciare da Giuseppe Volpi, poi conte di Misurata. La prima operazione risale al 1926 e blocca la crescita del debito. Un filmato dell'istituto Luce mostra il Duce che al Vittoriale brucia i buoni del tesoro. Il secondo intervento nel 1935 avvia il percorso di discesa.
I CONSIGLI DI MENICHELLA - Su questa strada il Duce segue consigli di economisti che non amano certo la camicia nera: Donato Menichella, governatore della Banca d' Italia dopo Vincenzo Azzolini che negli anni dell'occupazione tedesca riesce a mettere in salvo i lingotti d' oro custoditi a Palazzo Koch. Oppure Alberto Beneduce che del fascismo non condivide nulla visto che ha chiamato le tre figlie: Vittoria Proletaria, Italia Libera e Idea Socialista poi sposata con Enrico Cuccia. Il fondatore di Mediobanca che, finché ha vissuto ha voluto che l'assemblea degli azionisti della banca si svolgesse il 28 ottobre anniversario della Marcia su Roma. Con quella scelta il banchiere siciliano voleva indicare che il 28 ottobre era un giorno lavorativo come un altro. I governi dell'Italia repubblicana hanno potuto usare ed abusare del bilancio dello Stato grazie al lavoro sporco fatto dal Duce e dai suoi collaboratori molti dei quali anti-fascisti dichiarati. La storia comincia nel novembre del '26 con il "Prestito del Littorio". Buoni del Tesoro con rendimento 5% e senza scadenza da scambiare con vecchi certificati settennali. Un' operazione da 20,4 miliardi, che si dimostrò un disastro. I titoli in pochi mesi perdettero circa il 30% perché i nuovi certificati, benché offerti con un piccolo premio subirono un forte deprezzamento. Per i risparmiatori un vero bagno di sangue, ma anche alcune istituzioni (come la Banca d' Italia, le Casse di risparmio e l'Ina) furono penalizzate perché obbligate a comperare quei titoli. Nel '34, con un nuovo decreto, Mussolini stabilì la conversione del Littorio in nuove obbligazioni con durata venticinquennale e rendimento 3,5 %. Molti privati tentarono di farsi rimborsare i vecchi titoli, ma il Tesoro accolse solo poche richieste e la conversione fu di fatto obbligatoria. La perdita di credibilità, in entrambi i casi, fu enorme, ma dopo qualche anno il Duce ottenne nuovo credito, grazie alla propaganda e ai risultati comunque raggiunti.
IL RISANAMENTO - Il primo consolidamento, ad esempio, fu annunciato come parte di un pacchetto di risanamento economico per raggiungere l'obiettivo (centrato) della "quota 90", cioè la parità con la sterlina precedente alla prima guerra mondiale. Un obiettivo buono per la propaganda. Devastante per l'economia. Il lavoro del Duce fu completato dalla Repubblica con l'iperinflazione dopo la guerra. Tecnicamente non è un consolidamento, ma produce gli stessi effetti. Con una scelta dei tempi a dir poco sospetta, l'allora ministro delle Finanze Marcello Soleri lanciò il Prestito della ricostruzione, un titolo trentennale con rendimento 3,5% (poi portato al 5). Nessuna conversione forzosa ma il tasso offerto era buono e i risparmiatori corsero a sottoscrivere. Quasi contemporaneamente furono tolti i vincoli amministrativi sui prezzi e alla fine del '47 l'inflazione superò il 100%. Risultato, il Prestito divenne carta straccia così come tutti i buoni del Tesoro emessi dal Duce. Luigi Einaudi, allora governatore della Banca d' Italia, nelle Considerazioni finali del '47 ammise: «Potevamo stroncare l'inflazione, non l'abbiamo fatto perché lo Stato ci guadagnava». Nino Sunseri
Che cos’è la vendetta? La morale degli schiavi. Pubblica o privata, umana o divina, dalla “nemesi” omerica a Piazzale Loreto: la lunga marcia del rancore, scrive Lanfranco Caminiti il 3 Marzo 2019 su Il Dubbio. «Cantami, o Diva, del Pelide Achille, l’ira». La prima parola della letteratura europea, il primo verso dell’Iliade di Omero, è Menin, l’ira. E non «cantami» come tradusse Vincenzo Monti. È per la sua ira che Achille vuole vendetta. Che sarà funesta. Siamo al decimo anno di guerra, e non si vede ancora la fine di quel conflitto. Crise, sacerdote di Apollo, è andato da Agamennone per chiedere la restituzione della figlia Criseide, schiava del re, ma ne è stato cacciato in malo modo. È per questo che Apollo, risentito, manda la peste fra i greci, mietendo vittime e minando la possibilità di vittoria dell’esercito acheo. Achille affronta Agamennone – che Criseide sia restituita al padre. Agamennone non ne vuol sapere – non può cedere ad Achille, il conflitto è aperto, e potrebbe significare una crisi ancora più larga nella catena di comando – ma poi acconsente purché gli sia data in cambio Briseide, la schiava prediletta da Achille. È una vigliaccata, ma Achille accetterà, per salvare la possibilità di vittoria: ma si ritira, irato, fuori di sé, nella tenda, lontano dai combattimenti. La sua assenza – il più valoroso e temibile dei guerrieri greci – si fa subito sentire: i Troiani riportano vittoria su vittoria. È a questo punto che Patroclo, il più caro e amato dei suoi fedeli, indossa le armi di Achille e va in battaglia, perché i nemici credano che il valoroso guerriero sia tornato. Ma viene affrontato da Ettore, e ucciso. Non c’è dio che tenga, non c’è legge che tenga, non c’è costume che tenga, Achille vuole vendetta, e stavolta ogni connotazione è privatissima: ucciderà Ettore e ne farà strazio e strazio e strazio del suo cadavere – come se quell’ira non trovasse pace nemmeno nella vendetta, che trasfigura l’eroe in un orribile sicario. Achille sta offendendo le leggi degli dei e quelle degli uomini – negando anche il cadavere di Ettore al padre. Poi, cederà a Priamo, e restituirà le spoglie del figlio, perché abbiano la giusta gloria che si deve agli eroi, funerali e riti solenni: Achille è rinsavito, non è più posseduto da vili passioni, è cresciuto, e il suo spirito è di nuovo quello dell’antico e meraviglioso guerriero. Ora, il poema può avviarsi alla conclusione. I poemi omerici non sono altro che questo: una rappresentazione dell’idea di vendetta. D’altronde, la guerra di Troia era nata per la vendetta voluta da Zeus, infuriato per il rapimento di Elena, a sua volta avvenuto per un’altra vendetta, messa in opera da Hera, che era stata scartata da Paride, quando s’era fatto il concorso di miss tra le dee dell’Olimpo. E tutto il lungo viaggio di Ulisse, tra compiacenti maghe e sciocchi e crudeli mostri, provocato anch’esso per vendetta da Poseidone che lo tiene lontano da Itaca, non porta che lì, alla terribile resa dei conti contro i Proci, dove agirà in lui e il legittimo sovrano che tende a ripristinare le leggi del luogo e la personalissima passione: «Ma venne / per voi tutti la fatal ultima sera». Dei e uomini sono accomunati dallo stesso sentimento, la vendetta. È ciò che rende umanissimi gli dei, che ce li rende comprensibili, prossimi, e quindi è ciò che rende divini gli uomini, abitati da sentimenti oltre l’umano: ira e vendetta sono dee che “prendono possesso” dell’uomo, lo trasfigurano. Nel mondo greco perciò la vendetta è naturale e inevitabile: se una legge umana viene tradita, l’eroe si ribellerà, vendicandosi; se una legge morale, divina, viene tradita, saranno gli dei a vendicarsi, perseguitando l’uomo, per l’eterno: così, le Erinni, dee della vendetta, perseguiteranno Oreste che ha ucciso la madre, Clitennestra. Non c’è mai un “giudizio morale”: Medea uccide i figli avuti da Giasone, ma Giasone – che a lei deve tanto, forse tutto – l’ha tradita, sta ormai per gettarla via come una scarpa vecchia. Medea fuggirà su un carro verso il Sole. E tra gli dei stessi continuerà la corsa a cedere ai sentimenti e a vendicarsi, in un turbinio di gesti orribili, finché un ordine, l’ordine, non venga ristabilito. La vendetta perciò paradossalmente ristabilisce un equilibrio, una armonia. È privata, ma ricostruisce un ambiente in cui tutti possano riconoscersi.
È con l’avvento del monoteismo che le cose cambiano – perché ora c’è un solo dio, e il rapporto diventa “esclusivo”, senza interferenze, senza condivisioni e compartecipazioni. È proprio un Dio capriccioso, iroso, geloso, quello del Vecchio Testamento – tanto imperscrutabile quanto vendicativo. Ma la vendetta è la Sua gloria. E l’uomo giusto a essa deve rifarsi: «Il giusto gioirà, quando avrà visto la vendetta; i suoi piedi egli laverà nel sangue dell’empio» (Salmi, 58).
Per Nietzsche (in Genealogia della morale) l’abbandono della morale barbarica della vendetta immediata, senza strascichi, a vantaggio di questo affidarsi alla vendetta divina, di un dio che «riscattava le offese», era il principio dell’etica servile che poi si era andata affermando. La «morale degli schiavi», l’odio degli individui assoggettati aveva ormai riempito la Storia: la Storia non era altro che uno srotolarsi del Risentimento. Eppure, la cosiddetta legge del taglione era precisa (Levitico, 24): «17: Parimente, chi avrà percossa a morte alcuna persona, del tutto sia fatto morire. 18: E chi avrà percossa alcuna bestia a morte, paghila; animale per animale. 19: E quando alcuno avrà fatta alcuna lesione corporale al suo prossimo, facciaglisi il simigliante di ciò ch’egli avrà fatto. 20: Rottura per rottura, occhio per occhio, dente per dente; facciaglisi tal lesione corporale, quale egli avrà fatta ad altrui. 21: Chi avrà percossa a morte una bestia, paghila; ma chi avrà percosso un uomo a morte, sia fatto morire. 22: Abbiate una stessa ragione; sia il forestiere, come colui ch’è natio del paese; perciocché io sono il Signore Iddio vostro». La legge del taglione “ricostruiva” un equilibrio in modo proporzionale – tale l’offesa, tale il risarcimento, più grave l’offesa, più grave il risarcimento. Ma per Nietzsche era proprio la rinuncia a esercitare “in proprio” il diritto/ dovere della vendetta e averlo affidato a Dio, che rappresentava la fine della assunzione di responsabilità – la delega a interposta “persona”, benché fosse Dio. Con lo sguardo nietzschiano, perciò – la scomparsa della figura del guerriero, l’avvento del sacerdote che si allea con le impotenti plebi, che del numero, della massa fanno la forza, per avere il potere e il comando – la Rivoluzione francese non sarebbe altro che il trionfo del Risentimento. In fondo, l’aristocrazia aveva mantenuto un suo “codice di responsabilità”: assumeva in proprio il diritto/ dovere di ripagare l’offesa con la vendetta. Decapitarli, uno dopo l’altro, con “Madame la Guillotine” in spettacoli di piazza – e le descrizioni che ne sono arrivate sono raccapriccianti, benché lo strumento di morte fosse stato pensato per “alleviare e abbreviare” la sofferenza e lo spettacolo della morte – ha più il carattere della vendetta che quello della trasformazione epocale del mondo.
Robespierre – che più di altri teorizza e si agita contro il “complotto aristocratico” – pensa che l’esecuzione di Luigi Capeto, re Luigi XVI, avrebbe dovuto avere il «carattere solenne di una vendetta pubblica». L’uso della ghigliottina avrebbe dovuto “frenare” e soddisfare un ben più ampio e sanguinario desiderio di vendetta delle masse. Un furore senza freni che finirà però con il consegnare alla vendetta popolare gli stessi giacobini: non ci sono più dei né eroi a controbilanciare le cose per ristabilire un’armonia naturale. La Storia precipita. È un modo di vedere le cose. Però, un passaggio qui è colto, quello della “spettacolarizzazione” della vendetta sociale: le tricoteuses che si affollano sotto il patibolo e sferruzzano a maglia mentre le teste rotolano – ecco, sono loro, il nuovo “pubblico” della Storia.
Con la Rivoluzione francese la vendetta non è più mito, non è più religione, è storia: è Politica. E da allora, ogni grande trasformazione, ogni passaggio politico ne sarà segnato inevitabilmente. La “necessità politica” obbliga i bolscevichi a fucilare nel paesino sperduto di Ekaterinburg l’intera famiglia dei Romanov – anche qui, il “complotto degli aristocratici” si sta avvicinando pericolosamente con le sue guardie bianche.
È un sacro furore, una vendetta del popolo, una vendetta della Storia. La “necessità politica” obbliga i partigiani a fucilare Mussolini e la Petacci – cosa se ne sarebbe dovuto fare del Duce? Trascinarlo a processo? Tenere aperta una ferita così suppurata scatenando curiosità, emozioni, ancora schieramenti, piuttosto che voltare pagina in fretta e guardare avanti? E poi, i loro corpi, insieme a quelli di altri gerarchi, appesi sinistramente a piazzale Loreto, sconciamente, svillaneggiati, straziati, a ripagare in quella stessa piazza dove erano stati appesi, sconciamente offesi i corpi di giovani partigiani solo poco tempo prima. Occhio per occhio, dente per dente.
Una vendetta, quasi “una questione privata”. Così, è la storia: così succederà ai Ceaucescu, così, e peggio, succederà a Gheddafi. È l’arte che non abbandona mai il tema umanissimo della vendetta, fin dalle tragedie greche, passando per buona parte del teatro shakesperiano: ma chi non ha palpitato per il Conte di Montecristo, quell’Edmond Dantès, incarcerato, in piena Restaurazione, per 14 anni con la falsa accusa di essere forse stato bonapartista e finalmente libero e ricco e pronto a distillare la sua furibonda vendetta? E chi non ha cantato, sulle note del Rigoletto di Verdi, «Sì, vendetta, tremenda vendetta / Di quest’anima è solo desio. / Di punirti già l’ora s’affretta / Che fatale per te suonerà. / Come fulmin scagliato da Dio / Il buffone colpirti saprà».
Ma è il cinema che con ingordigia s’è più d’altri appropriato del tema – è davvero impossibile citare. Solo alcune cose: Freaks, di Tod Browning, del 1932, che fu quasi subito ritirato dalle sale, un film perturbante, interpretato da reali creature affette da malattie deformanti, che lavorano in un circo: la punizione terribile che nani e ballerine effettueranno contro la bella ( e normale) Cleopatra che vuole accaparrarsi il denaro del nano Hans e, dopo averlo circuito, tenta di avvelenarlo avendo per complice il forzuto Ercole – la ridurranno a una gallina da esibire al ludibrio del pubblico – fa ancora impressione: una vendetta di gruppo, contro chi è “diverso”, e che dietro la normalità di un bel viso e un bel corpo nasconde la cattiveria del male, e viene punita. E come non leggere il cinema di Sergio Leone se non segnato dal tema della vendetta? Cos’altro è C’era una volta il West se non la storia della vendetta di Armonica- Charles Bronson, che infine caccia nella bocca di Henry Fonda quell’armonica che da piccolo era stato costretto a suonare mentre gli impiccava il fratello? E cos’altro è C’era una volta in America, se non il desiderio di pareggiare i conti di Noodles- De Niro? Anche Quentin Tarantino è un “cantore” della vendetta: Kill Bill, su tutto, ma anche Bastardi senza gloria, a esempio. E enorme, anzi, di costume, è stato il successo di V, per vendetta, dove accade un rovesciamento delle cose e una loro definitiva cristallizzazione: l’eroe, che indossa la maschera di Guy Fawkes, viene ora “fatto proprio” da una massa che abbandona lo stato passivo e finalmente è pronta a ribellarsi, a riscattarsi dell’arroganza e della prepotenza dei potenti, ma lo fa nell’anonimato. La vendetta è diventata anonima – Anonymous è il nome del più capace gruppo di hacker che attaccano i siti di istituzioni o aziende che sono additate come “nemiche del popolo”.
«La cosa lenta o ratta / sia la vendetta fatta»: è Brunetto Latini. Nel Medio Evo, la vendetta “privata” è ancora concepibile, ma è affare di potenti, e risolve le guerre tra potentati. Le masse non sono ancora entrate nella Storia. Leggendolo con gli occhi di Nietzsche, il Novecento è il secolo della Vendetta. Eppure, il proletariato era classe dotata di coscienza e non animata solo dall’odio, voleva costruire un mondo nuovo e non solo fare tabula rasa dei privilegi del vecchio. Le “avanguardie” di quel tempo spendevano il tempo loro a fare sì che non ci si abbandonasse mai a gesti vendicativi – che il “nuovo eroe”, l’operaio, era animato da nobili passioni. Che ne è rimasto? Forse solo il Risentimento e la Spettacolarizzazione. E la vendetta, forse solo adesso, è il compimento di una “etica servile”, talk show e social ne sono le “arene”, non certo i campi di battaglia. Sentimenti piccoli piccoli – le carriere, la visibilità, il servilismo – abitano gli uomini: le loro armi, le querele, le sentenze, i giudizi, il vocio della plebe. Miserrimi, perciò, e mai vicino al “divino”.
La sindrome di Stoccolma della sinistra per il fascismo. Al Museo del Risorgimento di Milano documenti, foto, riviste e disegni dell'epoca del Mussolini socialista, scrive Luigi Mascheroni, Mercoledì 20/02/2019, su Il Giornale. A Milano, al Museo del Risorgimento, ieri è stata inaugurata una piccola mostra. Intitolata 1919-1926: il fascismo da movimento a regime (fino al 24 marzo) racconta - attraverso una documentazione originale ricchissima: giornali, riviste, volantini, manifesti, libri, vignette, disegni, fotografie - la nascita dell'esperienza politica che più di ogni altra ha segnato storia, vita e memoria recente del nostro Paese. A un secolo di distanza da quegli avvenimenti, ecco come il Mussolini socialista rivoluzionario s'infilò nel tunnel della dittatura. Vale la pena ricordarlo. Il 21 marzo 1919 in piazza San Sepolcro a Milano nasceva il «Fascio di combattimento». Erano arditi, nazionalisti, futuristi, interventisti e sindacalisti rivoluzionari guidati da un ex socialista ultramassimalista, Benito Mussolini, già direttore de L'Avanti, espulso dal Psi e in quel momento alla guida del Popolo d'Italia. L'obiettivo era un cambiamento radicale della società: suffragio universale col voto esteso alle donne, abolizione del Senato, Assemblea costituente per decidere la forma dello Stato, ruolo legislativo per le rappresentanze professionali e di mestiere, otto ore di lavoro, riduzione dell'età previdenziale a 55 anni, sequestro dei beni delle Congregazioni religiose... Un programma di ultra-sinistra. Poi accadde quello che accadde, e Mussolini - diventato Duce - rivendicò persino la responsabilità politica del delitto Matteotti...La mostra di Milano, divisa in quattro sezioni (dall'interventismo al biennio 1925-26), ognuna delle quali corredata dall'esposizione della stampa di regime e di opposizione e dalla satira del periodo, è ricchissima, intelligente, utile. E, al netto di una locandina graficamente così celebrativa da sembrare disegnata da un nostalgico di Terza posizione, è organizzata dalla Fondazione «Anna Kuliscioff», pietra angolare della storia del pensiero socialista. Il cui presidente, Walter Galbusera, ammette una semplice verità, a dispetto del ridicolo antifascismo al tempo dei fascistometri: «Si possono ritrovare oggi analogie ed episodi assimilabili con le vicende che portarono, un secolo fa, il fascismo al potere. Ma difficilmente la storia si ripete e soprattutto il contesto di oggi è profondamente diverso». Nessun pericolo per la tenuta democratica del Paese. Bene così. Per il resto non rimane che notare una persistente sequela di «celebrazioni» da sinistra del fascismo, soprattutto il fascismo rosso (e non c'è uomo di sinistra che oggi non sottoscriverebbe i principî sociali del fascismo rivoluzionario, o della Carta del Carnaro o della Costituzione della Repubblica sociale...). Incapace di liberarsi dal fascismo, che è di volta in volta ossessione o fascinazione, alla fine la sinistra ne rimane in ostaggio, vittima di una sindrome di Stoccolma intellettuale, per cui si rimane legati a ciò che più è pericoloso alla propria sopravvivenza. Si demonizza il fascismo come male assoluto, ma se ne resta sedotti. Con effetti spiazzanti. La straordinaria mostra Art Life Politics: Italia 1918-43 alla Fondazione Prada di Milano curata da Germano Celant (occorreva il suo pedigree per fare una cosa del genere senza essere accusati di apologia di regime); il museo del Fascismo fortemente voluto dal sindaco (del Pd) di Predappio; l'empatico romanzo M. (Bompiani) del liberal Antonio Scurati; la mostra sul fascistissimo premio Cremona, a Cremona (giunta di centrosinistra)... Piccoli esempi di come la sinistra che vede fantasmi dappertutto, non riuscendo a seppellirli, finisce col resuscitarli.
8 idee per costruire il millennio. Nell'ultimo libro di Marcello Veneziani ("Nostalgia degli Dei") ecco 8 punti per dare un senso alla nostra vita, scrive Marcello Veneziani il 14 febbraio 2019 su Panorama. La nostalgia degli dei è l’amore per la luce, per l’inizio e per ciò che va oltre la morte. Gli dei sono metafore, figurazioni dei principi, idee in forma di simboli. I dieci dei in questione sono Civiltà, Destino, Patria, Famiglia, Tradizione, Comunità, Mito, Anima, Ritorno, Dio. Sono gli dei di cui nutriamo nostalgia, i numi tutelari che sentiamo mancare o vacillare nel presente. Gli dei che danno senso, sostanza e lungimiranza alla vita, dalla nascita alla morte. Sono pensiero vivente. Gli dei sono proiezioni e protezioni che ci consentono di uscire dal mondo e dal tempo, di riconoscere i nostri limiti e di trascenderli, e trovare orizzonti, tutori e aperture oltre l’esistenza caduca. Gli dei fondano l’umanità oltrepassandola, sorvegliano i confini e connettono gli uomini tra loro, la realtà visibile all’invisibile. Gli dei perduti diventano nostalgie, a volte malattie, come dice Jung. Felicità è vedere gli dei, saggezza è vedere con gli occhi degli dei.
Civiltà. La civiltà è una visione del mondo che si è fatta vita attraverso le esperienze della storia ereditate dai secoli. Alle basi di ogni civiltà, anche sottaciuta, c’è una religione civile, ossia un legame comunitario super partes da cui attingere principi, basi comuni, limiti e valori non negoziabili. Ogni civiltà coltiva il senso del confine. Una civiltà decade quando perde il passato e il futuro, il naturale e il soprannaturale, le aspettative vengono trasferite nel privato e nell’immediato e attengono esclusivamente all’individuo e al suo star bene.
Patria. La patria è il bisogno naturale e culturale di riconoscere un’origine, un luogo che sentiamo come habitat. La patria è un legame verticale, che ha un presente, un passato e un futuro e unisce in un patto indissolubile i vivi, i morti e i non ancora nati. La patria risponde a una domanda originaria: è un caso o un destino che siamo nati qui, in questo luogo, con questa lingua, da questi genitori? Chi ritiene che sia un fatto puramente accidentale nascere qui o in un altro luogo, non dà alcun senso al legame della patria. Chi risponde invece che non è un caso nascere in un luogo anziché in un altro, ritiene la patria un destino e reputa quel legame costitutivo del nostro essere al mondo.
Famiglia. La famiglia è il luogo primario della cura. È il primo riparo e la prima apertura, il primo habitat e la prima relazione. Nella famiglia è l’archeologia del conoscere, la forma primitiva dell’amare, dove l’attenzione si fa premura. La parola fa qui i primi passi. Qui si conosce la gioia della nascita, il dolore della morte, il tramandare e il perdurare della vita, il luogo della sostituzione affettiva, di padre in figlio, di nonno in nipote. La famiglia è il luogo inerme dell’autenticità in cui non conta ciò che fai o ciò che hai ma conta semplicemente che ci sei.
Tradizione. La tradizione non è il culto del passato ma è il senso della continuità e la sacra importanza del permanente. È rivelazione dell’essere nel cuore del divenire. La tradizione è la forma suprema di resistenza collettiva alla morte, l’unica immortalità accessibile nella storia. È un orizzonte di senso comune, rielaborato nel corso del tempo e immerso nell’esperienza della vita e della storia. La tradizione sta al tradizionalismo come la fiamma alle ceneri. Chi vive nel solco della tradizione è un erede gravido. L’antagonista della tradizione non è il progresso ma l’egocentrismo del presente. La brutta copia della tradizione è il kitsch, che sorge sulla cattiva imitazione e ripetizione del già detto, già fatto.
Mito. Il mito è la casa degli dei, la loro dimora naturale, cioè soprannaturale. Ma il mito è una dimensione costitutiva dell’animo umano e della sua mente. Non è verità non è illusione, ma è vedere il mondo con altri occhi, sotto altra luce. È il racconto sorgivo sulla nascita della vita e del mondo e ci proietta oltre l’io, oltre l’utile, oltre il presente. Ogni mito è mito del ritorno. Entrare nel mito significa uscire dalla mortalità, il mito intreccia le sorti e canta il destino. Per vivere l’uomo ha bisogno di favole e se ne distrugge alcune ne fabbrica altre. Senza miti la vita non è più libera, razionale e autonoma, è solo più povera, insensata e labile. Uscire dal mito è vivere spenti, è come se fosse spento l’interruttore.
Destino. Senza il destino, siamo in balia del caso e dei suoi capricci. Tutto può essere, può non essere, non fa differenza. Essere o non essere, è la stessa cosa. Il destino ha due possibilità, dar senso al mondo o alla vita o non darlo. Il caso ne ha una sola. Destino è legame, connessione, nulla va perduto per sempre ma di tutto resta comunque una traccia indelebile. L’estrema modernità ha dichiarato guerra al destino in ogni sua forma: natura, limite, obbligo, ordine, necessità, fedeltà. Vive la libertà come rifiuto radicale del destino. Essere è avere un destino. Altrimenti coincide col niente.
Anima. L’anima è l’impronta viva che lasciano negli uomini gli dei. È il nostro quid più personale ed è quel che più ci collega all’universo (anima mundi). L’anima è la cripta di tutto quel che è la nostra vita, il punto dove trova coscienza, memoria e sensibilità l’intero racconto in cui siamo immersi, quel flusso chiamato vita. Anima è l’energia spirituale che orienta al destino e al ritorno presso gli dei. È il soffio vitale del corpo, la sua forma come la sua essenza, la sua origine e la sua destinazione. Ritrovare l’anima nel cuore della vita per non finire in balia del corpo, del tempo e della morte.
Dio. Dio è il nome che diamo al Mistero. È l’Intelligenza entro cui siamo e pensiamo. Dio è la scommessa della ragione e del cuore. Viviamo l’epoca del disdio, equivalente al dispatrio. L’Io è un Dio che ha perso la testa. Nell’amor di Dio difendi l’essere dal nulla, la vita dal suo disfarsi, la luce dal buio. Difendi la tua infanzia con le sue preghiere, difendi tua madre, gli avi devoti da cui discendi. Nell’amor di Dio difendi la luce del mattino, la bellezza del creato, l’armonia del mondo, la maestà del cielo e i frutti della terra. Difendi la vita che continua e si trasmette oltre la tua morte. Nell’amor di Dio non difendi Dio e non porti prove teologiche, non hai la pretesa di essere il suo avvocato; difendi le energie spirituali che quel trasporto suscita. (I brani tratti da Nostalgia degli dei. Una visione del mondo in dieci idee).
1919-2019: cent'anni di fascismo. Un secolo fa nasceva il Partito Fascista. E se oggi prevalessero stanchezza ed una crisi di rigetto? Scrive Marcello Veneziani l'8 gennaio 2019 su "Panorama". «A decorrere dal 1° gennaio, nessun uomo o partito politico potrà dichiararsi irresponsabile dei propri errori con la scusa che c’è stato il fascismo». Ci vorrebbe una dichiarazione del genere, come quella scritta dal poeta e scrittore socialista Giacomo Noventa per ritenere definitivamente fuori corso il fascismo, a un secolo dalla sua nascita e a tre quarti di secolo dalla sua morte. Noventa auspicava di prescrivere il fascismo come alibi in un capodanno assai precedente a questo; ma ora che siamo arrivati a cent’anni, non ci sono più alibi per invocare sempre il fascismo. Nel secolo in cui siamo nati, il diciannovesimo fu sinonimo di Inizio, fu l’anno degli Albori. Il 1919 fu in Italia un anno speciale: nacque il fascismo a Piazza San Sepolcro, a Milano, come un movimento radicale e rivoluzionario benché patriottico e nazionale. Ma nel ’19 nacque pure l’italo-comunismo, sorto sulle ceneri della Grande guerra e sull’onda della Rivoluzione bolscevica, con la fondazione di Ordine nuovo di Antonio Gramsci e Palmiro Togliatti a Torino, da cui poi nascerà a Livorno il partito comunista. Nel ’19 nacque pure il Partito popolare fondato da don Luigi Sturzo, che sarà poi padre della Dc. Un movimento che diventò regime, un partito che diventò poi il più grande partito comunista d’occidente e un partito democristiano che diventò governo per mezzo secolo. Ma non solo: sempre nel ’19 avvenne il cortocircuito tra guerra, rivoluzione, sindacalismo e poesia con l’Impresa fiumana di d’Annunzio. Fu la prova generale della rivoluzione fascista ma anche il prototipo di altre rivolte, ’68 incluso. E pensare che un anno così pesante è ricordato da una canzone così lieve: «Nel millenovecentodiciannove vestito di voile e di chiffon, io v’ho incontrata non ricordo dove, nel corso oppure a un ballo-cotillon». La canzone di Achille Togliani si concludeva con uno smemorato ricordo: «Poi vi condussi non ricordo dove, e mi diceste... non ricordo più. Nel 1919 vi chiamavate forse gioventù». Nostalgie d’amore a parte, quello fu davvero l’anno in cui irruppe la gioventù, anzi la giovinezza, come categoria dello spirito, consacrata dalla guerra, avanguardia della rivoluzione e del radioso avvenire. Ma di tutti quegli anniversari ci resta addosso il fascismo. Dopo tante scorpacciate di fascisteria, arriva il centenario di una storia che durò «appena» un quarto di secolo ma che perdura nella damnatio memoriae da tre quarti di secolo. L’esatto contrario del comunismo, che durò tre quarti di secolo ma è stato rimosso già nel restante quarto. Cent’anni di fascistudine. Proviamo a scrivere, come disse Giuseppe Prezzolini, un necrologio onesto del fascismo o quantomeno di come nacque. Per cominciare, il fascismo ebbe un padre e una madre: Padre Coraggio, ovvero una guerra sofferta, vinta e tradita; e Madre Paura, ossia la minaccia della rivoluzione comunista, interna e internazionale. Una guerra vittoriosa a caro prezzo e un biennio rosso di violenze fecero nascere il fascismo; poi, una guerra disastrosa e un biennio di guerra civile lo affossarono. Un destino circolare ebbe il fascismo. Ma il fascismo è dentro la storia del socialismo, fu un suo capitolo interno: il fascismo ne fu figlio e figliastro, fu l’eredità e la reazione. È difficile pensare che il fascismo sia eterno, l’Urfascismo di Umberto Eco, e che il grembo da cui nacque e in cui crebbe sia invece morto e sepolto. Se è eterno il fascismo, eterno è il socialismo da cui nacque, ed eterno è il conflitto da cui germinò. Più sensato ci pare invece pensare che si tratti di fenomeni storici, dunque con un’alba, un apice e un tramonto, di cui restano eredità, tracce e memorie. Possono a volte riaffiorare ma non sono eterni. Storicizzare il fascismo è l’unico modo per comprenderne il senso, la portata e gli effetti. Con quelle premesse ci chiediamo: può rinascere oggi il fascismo? Se il fascismo nasce da una guerra, da una generazione di arditi che torna dal fronte, dal socialismo di cui eredita metodi ma non scopi, dal nazionalismo e dal sindacalismo rivoluzionario, dal terrore nazionale e mondiale del comunismo, non c’è alcuna possibilità di fascismo oggi. Un contesto mutato, un conflitto che si trasferisce in video e sui social, un mondo interdipendente, global, dominato dall’economia e un’Italia dentro l’unione europea. Aspettarsi il fascismo oggi è come aspettare il ritorno di Napoleone. Allora, modifichiamo la domanda: il ’19 che si apre somiglierà al ’19 del secolo precedente, avrà lo stesso fervore degli inizi, sarà davvero come dice Luigi Di Maio, l’Anno del Cambiamento? A giudicare da quel che è accaduto negli ultimi anni, di inizi ne abbiamo avuti già troppi e in breve tempo: siamo passati dal berlusconismo al renzismo, dai tecnici eurocrati ai populisti-sovranisti al governo. Cambi radicali di prospettive, cambiamenti sorprendenti, traumatici. Un succo concentrato di politica e antipolitica, con relativo collasso di destra, sinistra, centro e leadership. Ma adesso davvero l’Italia è divisa tra Cambiamento e Restaurazione? E se prevalesse il terzo movimento, la stanchezza e il rigetto, dove porterebbe, che facce avrebbe, che movimenti e idee veicolerebbe? E se fosse il tempo della Rivoluzione conservatrice? Cent’anni fa, nel ’19, l’America che si ergeva con Woodrow Wilson alla guida del mondo, la Russia bolscevica di Lenin divenuta Urss e il sorgente fascismo si definirono Ordine nuovo, come era scritto pure sul dollaro. Oggi siamo al Disordine nuovo. Il futuro è una terra straniera. Benvenuti nel ’19.
L’assassino Sandro Pertini e chi lo salvò…. Benito Mussolini, scrive il 22 aprile 2018 Alex Delarge su spaccanapoliblog.it. fedelmente riportato da unmondopossibile.blogspot.it. L’Assassino Sandro Pertini e chi lo salvò … Benito Mussolini.
“Con la morte di Mussolini scompare uno dei più grandi uomini politici cui si deve rimproverare solamente di non aver messo al muro i suoi avversari” – Josif Vissarionovic Dzugasvili alias Stalin –
“Io non mi pento di aver fatto tutto il bene che ho potuto anche agli avversari, anche ai nemici, che complottavano contro la mia vita, sia con l’inviare loro dei sussidi che per la frequenza diventavano degli stipendi, sia strappandoli alla morte. Ma se domani togliessero la vita ai miei uomini, quale responsabilità avrei assunto salvandoli?” – Benito Mussolini –
“Ora invece per le conseguenze del delitto Matteotti sarà costretto a fare il dittatore senza averne la stoffa. E saranno guai, perché un dittatore non deve avere paura del sangue. Se egli fosse così stato e se aveva delle responsabilità nel delitto Matteotti, non avrebbe esitato un attimo a mettere al muro la squadraccia di Dumini, nonché Marinelli e Filippelli pur sapendoli innocenti”. – Italo Balbo –
Non posso mettere mano al mouse che lo schermo inizia a vomitare merda … e di quella pesante, cercavo conferma di questo e come sotto casualmente mi imbatto …Dalle dichiarazioni precedenti si evince quale fu il problema di Mussolini e della pseudo dittatura e la conferma la si ha proseguendo nella lettura, il problema è che non solo uccisero i suoi uomini, assassinarono lui ed anche decine di migliaia di Italiani. Leggendo le varie ricostruzioni quello che mi è diventato chiaro è che fu solo uno scontro di potere per interessi, gli antagonisti erano stati tagliati fuori, perchè dico questo, che da un lato sembrerebbe ovvio, il potere? Perchè erano tutti originariamente dalla stessa parte, socialisti, gli anarchici quasi scompaiono, gli altri i comunisti ma per esempio: Romano Bilenchi, scrittore, collabora alla stampa fascista, è mussoliniano più tardi approdato al comunismo ricordò a Togliatti: ”Ma io sono stato fascista” e quello di rimando gli rispose: “Tutti siamo stati fascisti”… Trovo per caso, cercando altro, mentre stò scrivendo questo interessante punto di vista di un poeta, scrittore socialista testimone dei tempi, Giacomo Noventa: «l’antifascismo era una setta interna al fascismo… Nel fascismo di ieri c’era qualcosa di valido e di vero che non c’è nel fascismo ripetuto d’oggi» per poi concludere col sospetto che «il fascismo fosse propriamente la cultura e il pensiero italiano. Che il fascismo fosse l’Italia», ma bisogna leggerlo tutto per comprenderne il pensiero. “La verità è che tutti eravamo fascisti o ci comportavamo come se lo fossimo”. – Giampaolo Pansa –
Per tornare agli interessi chi scrive l’articolo quì di seguito ventila un certo interesse da parte di Pertini di far uccidere in fretta e furia il Duce. L’articolo Arturo Navone. MUSSOLINI: FU PERTINI A ORDINARNE LA MORTE. Navigando casualmente in internet, mi sono imbattuto in questo link in cui si riporta una importante testimonianza/denuncia sull’ancora misteriosa morte di Benito Mussolini, su chi la volle a tutti i costi, sul perchè lo si volesse eliminare, sulle modalità di esecuzione. Ne esce un nuovo estratto storico, non molto dissimile da certe vili azioni stampo politico/mafioso, che denuncia lo schifo ideale dal quale prese le mosse questa Repubblica, come oggi la viviamo noi in Italia. Ma chi pronuncia questa grave accusa? Non si tratta di un revanscista, di un nostalgico, di un negazionista o revisionista. Ma di un noto personaggio del Partito Socialista italiano, tal Stefano Surace, autore del libro “Caro Pertini…” (premiato nel 1982 da una giuria di giornalisti come “miglior libro dell’anno”) già direttore del periodico “Socialismo” e residente per vari anni a Parigi. Alcuni anni fa (era il 1985) il sig. Surace si decise ad intervenire in risposta ad un articolo comparso su “Le Monde”, il più autorevole quotidiano francese, dal titolo “Qurant’anni fa, l’esecuzione sommaria di Mussolini” firmato Jacques Nobécourt, capo dei servizi esteri. Con una lettera inviata a Nobécourt ed al direttore del quotidiano André Fontaine, lo scrittore italiano, rilevando nell’articolo diverse inesattezze storiche, così testualmente rispose: MUSSOLINI: FU PERTINI A ORDINARNE L’ELIMINAZIONE, L’ONESTA TESTIMONIANZA/DENUNCIA DI UN ALTRO SOCIALISTA: STEFANO SURACE. Caro Nobécourt, ho avuto solo ieri occasione di leggere su “Le Monde” del 29 aprile scorso il tuo pregevole articolo “Il y a quarante ans, l’execution sommaire de Mussolini”; e poiché si tratta di un articolo dichiaratamente storico, e contiene qualche inesattezza, credo che i lettori del vostro giornale abbiano diritto a delle precisazioni, per obiettività e completezza d’informazione. In quell’articolo, in effetti, si afferma fra l’altro:
1. che ad ordinare l’uccisione di Mussolini fu il “comitato insurrezionale” partigiano, e cioè un triunvirato formato da Luigi Longo (comunista), Sandro Pertini (socialista) e Leo Valiani (del Partito d’Azione), ma che il ruolo determinante, in questa faccenda, lo ebbe verosimilmente Luigi Longo;
2. che il giorno dopo l’ “esecuzione”, il 29 aprile 1945, i cadaveri di Mussolini, Claretta Petacci e degli altri “giustiziati”, che erano stati appesi per i piedi alle rampe di una pompa di benzina a piazzale Loreto a Milano, vi furono staccati per ordine di Pertini;
3. che quell’esecuzione (realizzata materialmente da un gruppo di partigiani capeggiati da Walter Audisio, detto Colonnello Valerio) ebbe comunque il consenso più o meno tacito di tutti i partners del gioco politico dell’epoca comprese le destre, il Generale Cadorna (comandante militare delle forze partigiane) e lo stesso Pietro Nenni, già amico di Mussolini ma poi diventato suo avversario e ormai diviso da lui da troppo sangue versato. E, in definitiva, che ebbe anche il consenso di inglesi e americani;
4. che in particolare gli americani avevano sì mandato tre missioni per recuperare Mussolini, ma senza fretta. E gli inglesi non si erano affatto curati del Duce;
5. che tutti costoro preferirono che Mussolini fosse ucciso sommariamente piuttosto che processato, poiché si sarebbe trattato di un processo più che a lui, alla politica italiana degli ultimi venti anni; e dunque il Duce ne poteva uscire ben vivo, e magari riabilitato, come ti aveva a suo tempo dichiarato lo stesso Longo “Se non l’avessimo giustiziato sarebbe stato, due ore dopo, nelle mani degli americani e vivrebbe oggi con un pensione di ex-Presidente del Consiglio”.
Al riguardo debbo osservare:
1. per l’ordine di uccidere Mussolini, più che Longo fu determinante Pertini in quanto rappresentava il Partito Socialista, all’epoca la più importante fra le forze politiche della Resistenza italiana. In questo partito lui aveva un peso decisivo che gli aveva consentito, ad esempio, di essere determinante -e questo lo riconosci nel tuo articolo- anche nel rifiuto della proposta, avanzata da Mussolini, di trasferire i suoi poteri al Partito Socialista. Più precisamente, Pertini diede a Walter Audisio l’ordine perentorio di recarsi a Dongo con un gruppo di uomini scelti con cura, farsi consegnare Mussolini e i gerarchi catturati e ucciderli a tutti i costi prima che qualcuno potesse impedirlo. Siccome però i partigiani che avevano catturato il Duce erano riluttanti a cederlo (intendevano consegnarlo direttamente agli Alleati, secondo le istruzioni che da tempo costoro avevano diffuso largamente e ripetutamente fra i partigiani) Audisio doveva ingannarli, facendo loro credere che avrebbe condotto i prigionieri appunto dagli alleati. Audisio si presentò ai partigiani di Dongo esibendo un ordine scritto firmato da Pertini, di consegnarli Mussolini e gli altri. Quei partigiani in un primo tempo rifiutarono, ma Audisio riuscì alla fine a convincerli, ribadendo che avrebbe condotto Mussolini dagli Alleati senza torcergli un capello. Invece quando lo ebbe nelle mani, dopo pochi chilometri precisamente a Giulino di Mezzegra- lui e gli altri del suo “commando” lo uccisero (o, come tu scrivi, lo massacrarono) insieme agli altri prigionieri, secondo gli ordini di Pertini. Tutto questo è confermato da numerose fonti ben degne di fede, e concordanti. Mi limito qui ad indicarne una, particolarmente qualificata: la M.O. della Resistenza Giovanni Pesce, tuttora vivente, e il suo libro “Quando cessarono gli spari” pubblicato anni fa dalla Feltrinelli, che queste circostanze narra nei dettagli senza mai essere state smentite.
2. Quell’uccisione non ebbe affatto il consenso generale, tutt’altro. Nessuno dei leaders occidentali e ben pochi dei capi partigiani la volevano, non confondendo certo il Duce con Hitler. Gli Alleati non si erano affatto disinteressati della sorte di Mussolini. In particolare gli americani, oltre ad inviare le tre missioni di cui tu parli, avevano diramato in lungo e in largo, fra i partigiani italiani, l’istruzione precisa che nel caso lo avessero catturato dovevano consegnarlo direttamente, e ben vivo, agli Alleati. Gli Alleati riconoscevano in effetti a Mussolini -come perfino ai criminali di guerra nazisti- il diritto a un processo. E in quello che si farò, a Norimberga, fra gli imputati era previsto anche lui, come precisa fra gli altri lo storico Silvio Bertoldi che nel suo “Norimberga: guai ai vinti” (pubblicato anche come supplemento al n. 14/85 del settimanale “Oggi”) scrive: “A Norimberga avrebbe dovuto esserci anche Mussolini”. Chiaro che, essendoci una bella differenza fra il Duce e i criminali di guerra nazisti, era probabile che lui da quel processo sarebbe uscito vivo, e magari “riabilitato” in tutto o in parte, come ti confermò Longo.
3. Quanto a Nenni, e a tanti altri capi antifascisti, non solo non diedero il loro consenso all’uccisione di Mussolini, ma non perdoneranno mai a Pertini quell’“esecuzione” che giudicavano di una degradante vigliaccheria. Tanto più che, se Pertini era vivo e sano, lo doveva in gran parte proprio a Mussolini. Quando difatti era stato a sua volta -alti e bassi della vita- nelle mani del Duce (era stato arrestato e condannato per cospirazione contro lo Stato) Pertini era gravemente ammalato di tubercolosi, malattia da cui all’epoca difficilmente si guariva da liberi, e figurarsi in prigione. Sarebbe stato facile dunque a Mussolini eliminare definitivamente questo suo accanito nemico, poiché nessuno si sarebbe sorpreso se in carcere la malattia avesse seguito il suo corso abituale, e magari Pertini fosse deceduto. E invece il Duce (sollecitato da Nenni, suo vecchio amico e conterraneo, anche se diventato suo avversario politico) gli fece fare cure così assidue ed efficaci da guarirlo completamente, al punto che Pertini è arrivato all’attuale età in condizioni di salute ed efficienza eccezionali. La galera non è un grande albergo e, se vi si entra sani, dopo un lungo soggiorno si esce quasi sempre malati se non -come suol dirsi- “coi piedi in avanti”. A Pertini invece successe esattamente il contrario: entrò gravemente malato e uscì, dopo quattordici anni, ben sano. Se quindi è potuto arrivare a quest’età e diventare Presidente della Repubblica lo deve, piaccia o no, alle cure che Mussolini gli aveva fatto fare non immaginando certo che, una quindicina d’anni dopo, proprio lui lo avrebbe fatto uccidere senza pietà. Ma Nenni non fu certo il solo ad indignarsi per quel massacro. Furono davvero in tanti: Ferruccio Parri, per citarne uno -che sarà poi a capo dei primi Governi dopo la Liberazione- lo definì “una macelleria messicana”, come riporta fra gli altri Mario Cervi.
4. Anche per l’esposizione di piazzale Loreto -che resta tuttora una macchia per la nostra Resistenza, e tanto ha danneggiato l’immagine dell’antifascismo e del popolo italiano- Pertini fu determinante. Pur volendo supporre che non abbia ordinato precisamente di appendere quei cadaveri per i piedi in quel piazzale (cosa comunque difficile da escludere avendo lui concepito e pilotato fin dall’inizio l’“operazione massacro”) non c’è dubbio che senza l’esecuzione non ci sarebbe potuta essere neanche l’esposizione. Vero è che lui ha poi cercato di giustificarsi sostenendo di essere intervenuto per farla finire. Ma in realtà ad intervenire, più che lui, fu Pietro Nenni, proprio nei suoi confronti e in modo durissimo. E così Pertini dovette muoversi a farli staccare, quei corpi, ma non lo fece certo a gran velocità, vista l’ulteriore durata dello spettacolo. Si tratta di un dettaglio ben conosciuto da chi visse da vicino queste cose, e mi consta personalmente poiché sono stato socio, in una casa editrice, proprio di colui che a quel tempo ufficiale partigiano e tuttora ben vivo, aveva tolto materialmente i cadaveri da piazzale Loreto portandoli in luogo non esposto. Non bisogna dimenticare inoltre l’intervento del Cardinale di Milano Ildefonso Schuster, che in quei giorni si era interessato perchè Mussolini si consegnasse spontaneamente, con garanzia della vita. Costui affermò: “Solo i barbari possono permettersi simili gesta” e si affrettò ad adoperarsi presso il comando partigiano perchè lo spettacolo avesse fine; come testimonia fra gli altri Monsignor Angelo Majo, arciprete del Duomo di Milano.
5. Pertini fece dunque uccidere Mussolini contro la volontà degli Alleati e della gran parte dei capi della Resistenza, ingannando quegli stessi suoi compagni partigiani che avevano catturato il Duce e volevano che restasse ben vivo.
6. Sul perchè Pertini avesse tanta fretta di uccidere Mussolini, che gli aveva salvata la vita e la salute, c’è da considerare che all’epoca molti pensavano, a torto o a ragione, che gli Alleati intendevano rimettere il Duce al vertice dello Stato italiano, sia pure con poteri limitati (come si regolarono ad esempio per il Giappone).Ma ciò avrebbe impedito che quella carica andasse invece (come in Jugoslavia per Tito e in Cina per Mao Tse Tung) a un capo partigiano, fra i quali uno dei favoriti era appunto Pertini. C’è poi il mistero dell’oro di Dongo, cioè del tesoro della Repubblica di Salò che Mussolini aveva con sé quando fu catturato, e che scomparve come nebbia al sole. Mistero che non sarebbe stato tale se Pertini non avesse fatto uccidere Mussolini. Quanti hanno cercato di testimoniare su quella sparizione sono stati tutti, a loro volta, “misteriosamente” uccisi.
7. Comunque Nenni non perdonerà mai il massacro del Duce, e finché lui ebbe peso nella vita politica italiana (e cioè fino ad una decina d’anni fa, prima che l’età lo prostrasse) Pertini fu condannato ad una specie di emarginazione tacita nel Partito Socialista e nella vita politica italiana, tanto da non avere incarichi politici di rilievo, neanche di semplice ministro. Era solo, in pratica, l’uomo politico più rappresentativo di Savona e della sezione socialista di quella città. Sezione che tuttavia -è emerso poi- è assai ben piazzata per avere la palma della più corrotta fra le sezioni provinciali di tutti i partiti politici italiani, compresa la Democrazia Cristiana; visto che diverse decine di suoi esponenti, dirigenti e membri sono stati messi in prigione o, comunque, incriminati per intrallazzi particolarmente vasti (caso Teardi). Solo quando Nenni, invecchiato, perse autorità, Pertini poté riemergere ed avere la carica di Presidente della Camera, da cui è poi passato a Presidente della Repubblica raggiungendo finalmente il vertice dello Stato, sia pure con tre decenni di ritardo. E quando, dopo qualche tempo, qualcuno ventilò l’opportunità di una sua dimissione, Pertini replicò: “Hic manebo optime”. Esattamente come aveva risposto a suo tempo Mussolini…Tutto ciò può sorprendere chi è abituato all’immagine agiografica di Pertini abitualmente diffusa dai mass media, in Italia e altrove. Ma questa immagine, che pare messa a punto con estrema cura, si spiega considerando i potenti e vasti interessi che si servono di essa come efficace copertura dei gravissimi abusi che prosperano in Italia su vasta scala. Ma la realtà storica - ed io sono il primo a dispiacermene come italiano - è ben diversa, e non a caso ha reso improponibile l’assegnazione a Pertini di un premio Nobel per la pace, che pure era stata ventilata; o che fosse lui a celebrare, con un discorso ufficiale al Parlamento europeo, la fine della guerra e la riconciliazione generale… Il più bello è che poi Pertini si prende la libertà di definire “assassino” uno come Scalzone che, fino a prova contraria, non ha mai ucciso nessuno, e del resto non è mai stato incolpato di questo. Che cosa fu, quello di Pertini ai danni di Mussolini, se non l’assassinio “politico” di un prigioniero indifeso? Il quale, per di più, quando lo aveva avuto a sua volta in suo potere gli aveva salvato la vita e la salute, facendolo curare come lui stesso non aveva saputo fare? E’ giusto che i lettori de “Le Monde” queste cose vengano a saperle, appunto per obiettività e completezza di informazione. Con vive cordialità. Stefano Surace
Pertini e Scalfaro, due assassini diventati presidenti della Repubblica. La farsa della resistenza from europadelsud on Vimeo. Da parte sua, Sandro Pertini si limitò a ricordare solo quanto segue: “Quando mi dissero che il cadavere di Mussolini era stato portato a piazzale Loreto, corsi con mia moglie e Filippo Carpi. I corpi non erano appesi. Stavano per terra e la folla ci sputava sopra, urlando. Mi feci riconoscere e mi arrabbiai: «Tenete indietro la folla!». Poi andai al CLN e dissi che era una cosa indegna: giustizia era stata fatta, dunque non si doveva fare scempio dei cadaveri. Mi dettero tutti ragione: Salvadori, Marazza, Arpesani, Sereni, Longo, Valiani, tutti. E si precipitarono a piazzale Loreto, con me, per porre fine allo scempio. Ma i corpi, nel frattempo, erano già stati appesi al distributore della benzina. Così ordinai che fossero rimossi e portati alla morgue. Io, il nemico, lo combatto quando è vivo e non quando è morto. Lo combatto quando è in piedi e non quando giace per terra”. – Sandro Pertini –
Quà ce n’è per tutti, da un commento nello stesso articolo: “Nenni venne fatto prigioniero dai camerati in Francia per 24 giorni, il 5 aprile 1943 viene consegnato dagli stessi, ai carabinieri italiani al Brennero con l’ordine di accompagnarlo al confino di Ponza. Tutto questo su ESPRESSA RICHIESTA del suo amico il DUCE. Dopo il massacro di quest’ultimo, e la rivoltante codardia partigiana di quel fine aprile 45, lo stesso Nenni scriverà sull’AVANTI, circa colui che gli salvò la vita… “giustizia è stata fatta !” Perciò deduco che Nenni era una merda di uomo”.
Sappiamo anche che: Il 25 aprile 1945 Luigi Longo, uno dei massimi esponenti del Pci e quindi del CLNAI (Comitato Italiano Liberazione Alta Italia), nell’impartire disposizioni per l’esecuzione della condanna a morte del Duce, ordinò: “Lo si deve accoppare subito, in malo modo, senza processo, senza teatralità, senza frasi storiche”. Purtroppo la storia non consola e non ripaga, tanto è vero che il suo agire lo portò, come attestò e dimostrò Carlo Silvestri, esponente socialista (ma anche Piero Parini, Renzo Montagna e altri collaboratori che lavorarono con lui) a salvare praticamente la vita a quasi tutti i capi della Resistenza, catturati dai tedeschi o ben individuati nei loro nascondigli, compresi Parri, Lombardi, Pertini, ecc., fu “ripagato” con le parole di Sandro Pertini, il partigiano estremista che in quei giorni di fine aprile ’45 sbraitò alla radio che Mussolini: “doveva essere ammazzato come un cane tignoso”. Questo è quanto si sapeva in Italia, ma pare dalle intercettazioni che oltreoceano la pensassero ben diversamente ma ovviamente ben altro doveva figurare: Benito Mussolini, fu assassinio premeditato, la telefonata fra Churchill e Roosevelt il 29 luglio 1943, la Conferenza di Casablanca. Il “beneamato” Presidente non ha fatto solo questo di cui qualcuno sarà pure contento, perchè non riguardava lui, ovvio. Ma guardando bene ce n’è da dire talmente tante che rimando ad un altro articolo, possiamo vedere La verità su Via Rasella e sulla strage delle Fosse Ardeatine, di Antonio Leggiero, il TOP: RAPPRESAGLIE PARTIGIANE – Come i partigiani comunisti facevano eliminare i loro alleati scomodi e saltare all’ultimo “crimine” non da poco: Pertini e il golpe, 1985, quello che gli Italiani non sanno.
· Mussolini e Napoleone.
MA CHI TI CREDI DI ESSERE, NAPOLEONE? MUSSOLINI ERA OSSESSIONATO DA BONAPARTE. Roberto Festorazzi per Avvenire il 18 agosto 2019. Le analogie tra le figure storiche di Mussolini e di Napoleone sono state analizzate finora soltanto alla superficie. Ma, sebbene i parallelismi tra i due personaggi non vadano enfatizzati, resta un fatto che le loro vicende presentano punti di contatto poco conosciuti. L’occasione è propizia per occuparcene, dato che il 15 agosto prossimo ricorrono i 250 anni dalla nascita del condottiero corso, imperatore dei francesi, che imperversò a lungo, nel bene e nel male, nel Continente europeo. Cominciamo col dire che il Duce ammirava Bonaparte: e che tale sentimento crebbe, mano a mano che il capo del fascismo si trovò a ricalcarne, mutatis mutandis, le orme, fondando anch’egli un impero. Mussolini, anzi, era in qualche modo ossessionato da Napoleone; e se, da un lato, cercava di trarre insegnamento dalla sua vita, e dai suoi errori, dall’altro, per nemesi storica, era fatalmente trascinato, con il suo emulo e alleato Hitler, verso il medesimo abisso in cui sprofondò il dittatore corso. Affidò a Giovacchino Forzano la sceneggiatura di un dramma storico sui Cento giorni - la breve stagione di resurrezione di Bonaparte, prima di Waterloo -, intitolata Campo di Maggio. Un’opera la cui paternità molti riconducono a Mussolini stesso, quantomeno nell’elaborazione del soggetto. Durante una famosa intervista concessa, nel 1932, allo storico tedesco Emil Ludwig, il Duce dichiarò: «Non ho mai preso Napoleone a modello, poiché non sono affatto da paragonare con lui, e la sua attività fu del tutto diversa dalla mia. Egli ha concluso una rivoluzione, io ne cominciata una». Poco dopo, tuttavia, quasi contraddicendosi, ammise che la considerazione verso il suo predecessore, era aumentata dopo essere divenuto capo del governo. Il giornalista svizzero Paul Gentizon, amico di Mussolini, raccolse una sua confidenza, il 28 ottobre 1934, in occasione dell’inaugurazione delle nuove sale del Museo napoleonico di Roma. Il Duce, narrò Gentizon, dopo aver osservato tutti i cimeli esposti, si fermò bruscamente davanti alla sciabola che Bonaparte aveva con sé, nella battaglia delle Piramidi del 21 luglio 1798: «La prese in mano, la soppesò e ammirò a lungo la finezza della lama. E senza dissimulare in alcun modo la commossa simpatia che il grande imperatore gli ispirava, mi disse: "Da quando governo un grande paese, il rispetto che ho per Napoleone va sempre aumentando"». Molti sono i riferimenti elogiativi che, in scritti o discorsi pubblici, Mussolini riservò a Bonaparte, che, per i suoi natali e le sue ascendenze familiari, considerava a tutti gli effetti un italiano, e dunque, un proprio antenato. Il 28 ottobre 1932, lo definì «della stessa razza dei Dante e dei Michelangelo»: ossia, un genio assoluto. Sul piano storico fattuale, esistono suggestive similitudini tra l’uno e l’altro. Tanto per cominciare, erano entrambi venuti a luce, sotto la costellazione del leone. Il che, insegnano gli astrologi, indica una ben precisa dominante caratteriale, contraddistinta da forte volitività. In secondo luogo, nel loro percorso politico, sul terreno di guerra, incontrarono lo stesso tenace avversario: l’Inghilterra. La nazione d’Oltremanica, infatti, se sbarrò il passo al consolidamento della supremazia francese in Europa, poco più di un secolo più tardi, bloccò le aspirazioni dell’Italia mussoliniana, non soltanto ad affermare la propria potenza nel Mediterraneo, ma anche a insediarsi, mediante le sue sponde coloniali affacciate sul Mar Rosso, lungo la rotta per l’Oceano Indiano. Ma sono alcune circostanze perlopiù sfuggite anche allo sguardo indagatore degli storici, a permetterci di ravvisare le più sorprendenti analogie. Sia Mussolini, sia Napoleone, subirono una rovinosa caduta, che comportò la perdita totale del potere e la prigionia, cui seguì una risurrezione più o meno effimera. Dopo la disfatta subita durante la campagna di Russia, e la sconfitta, dell’ottobre 1813, nella battaglia di Lipsia che chiamò a raccolta gli eserciti di tutta Europa coalizzati contro di lui, l’imperatore subì l’onta dell’invasione della Francia da parte delle armate straniere. Il 6 aprile 1814, abdicò, a Fontainebleau, e fu quindi esiliato all’isola d’Elba. Tornò in auge, durante i Cento giorni, tra il marzo e il giugno del 1815, allorquando, riconquistato il potere e dunque la piena autorità in campo militare, affrontò per un’ultima volta i suoi nemici, sul campo di battaglia, finendo definitivamente battuto a Waterloo, alle porte di Bruxelles. A quel punto, venne confinato all’isola di Sant’Elena, ove morì. Quanto a Mussolini, disarcionato dalla congiura di palazzo del 25 luglio 1943, e avviato a diversi luoghi di detenzione, fu liberato, il 12 settembre successivo, nel corso di un blitz condotto da un nucleo speciale tedesco. Fu quindi Hitler a rimetterlo in sella, non per cento, ma per seicento giorni, durante l’esperienza della Repubblica sociale italiana terminata con la definitiva sconfitta dell’Asse. Ma davvero pochi hanno osservato le somiglianze che ricorrono nelle circostanze della drammatica fuga di Napoleone da Fontainebleau, nel 1814, e in quelle del disperato viaggio di Mussolini incontro alla morte, 131 anni più tardi. Innanzitutto, i due eventi si compirono nei medesimi giorni dell’anno. Bonaparte si avviò verso la costa meridionale della Francia, il 20 aprile 1814, giungendo a Fréjus, il 27. Avrebbe dovuto imbarcarsi per l’Elba la mattina del giorno successivo, ma spasmi allo stomaco lo bloccarono a terra per alcune ore. Com'è noto, il Duce, partito da Milano la sera del 25 aprile 1945, trovò la morte, sul lago di Como, il successivo 28. Ma c’è dell’altro. Com’è noto, Mussolini tentò di evitare l’arresto, da parte dei partigiani, indossando un cappotto militare tedesco, e salendo su un autocarro della Wehrmacht che viaggiava nella stessa colonna alla quale si erano uniti i relitti dello Stato fascista in ritirata. Napoleone, per poter attraversare incolume gli ottocento chilometri che lo dividevano dalla costa Sud, e sottrarsi così al linciaggio della folla inferocita, si camuffò anch’egli, indossando alcuni capi dei commissari della scorta armata che lo deteneva: l’uniforme da generale dell’austriaco Franz von Koller, il berretto da colonnello del prussiano Friedrich von Truchsess-Waldburg, e il mantello del conte russo Schouvaloff.
· Il Duce ed Il Jazz.
Mattia Rossi per “il Giornale” il 9 giugno 2019. Esattamente un anno e mezzo fa, l' editore Jouvence pubblicava uno dei testi musicologici più anticonformisticamente interessanti dell' ultimo periodo: gli scritti musicali di Julius Evola (Da Wagner al jazz). Se nessuno poteva immaginarsi un Evola musicologo, ancor meno ci si poteva aspettare un Evola attratto dal jazz e dalla musica afroamericana in quanto «costituisce una delle forme di superamento del romanticismo». Eh già, leggende a parte, l' Italia degli anni Venti e Trenta fu un vero e proprio volano per la musica jazz italiana. Ce l' ha confermato anche la storica della musica Anna Harwell Celenza, lo scorso anno, con un libro per Carocci (Jazz all' italiana) nel quale ha spiegato che Mussolini stesso vedeva nella modernità del jazz «un simbolo del regime fascista», pure negli anni delle leggi razziali quando l' Eiar indiceva concorsi alla ricerca di nuovi talenti jazz da inserire in palinsesto. Insomma, il tema dei rapporti tra fascismo e musica jazz, nell' ultimo periodo, ha subìto una (necessaria) rivalutazione. Da ultimo, arriva ora Jazz e fascismo (Mimesis, pagg. 178, euro 15) di Luca Cerchiari che, oltre a confermare i meriti, tratteggia anche alcune ombre legate alla «repressione» verso la musica afroamericana (ne è un esempio il velenoso pamphlet Jazz Band del '29 di Anton Giulio Bragaglia che volle ingraziarsi il regime attraverso la sua esterofobia musicale). Quello tra jazz e fascismo fu, infatti, come emerge quasi sempre chiaramente nel lavoro di Cerchiari, un rapporto intricato e bifronte e, a volerne risalire le origini, occorre andare agli anni Dieci: il battesimo newyorkese del jazz coincise con la nascita italiana di un movimento fortemente proiettato verso la rottura con la tradizione, il futurismo. Casavola, musicista e teorico futurista pugliese, lo spiegò bene: «Il Jazz Band è il prodotto tipico della nostra generazione eroica, violenta, prepotente, brutale, ottimista, antiromantica, antisentimentale e antigraziosa». Dall' entusiasmo col quale il movimento di Filippo Tommaso Marinetti, che ammise di amare il «cakewalk dei negri», salutò il jazz, anche il fascismo accolse benevolmente la musica afroamericana: «Non ho nessuna antipatia per il jazz come ballabile e lo trovo divertente», affermò lo stesso Mussolini (da notare che il libro si chiude con una testimonianza del figlio Romano, guarda caso pianista jazz: «In casa si ascoltava di tutto. Mio padre fu contentissimo di sentirmi suonare il pianoforte: suonavo blues e standard americani, ma anche canzoni italiane. Egli voleva però che io imparassi a leggere bene la musica, cosa che lui sapeva fare»). A conferma di un rapporto amicale col fascismo, il jazz, negli anni Venti, riuscì a trovare spazio alla radio, l'Eiar, nonostante il consulente governativo per la musica fosse il visceralmente anti jazzista Pietro Mascagni: l'autore di Cavalleria rusticana mai estromesse il jazz dai palinsesti e, come segnala Cerchiari, al maestro Stefano Ferruzzi furono affidati, dal '27, la direzione dell' orchestra jazz in onda tre giorni a settimana e la conduzione del programma Jazz Band. All' opposto di Mascagni si trovò Alfredo Casella, eclettico pioniere delle avanguardie, che al jazz dedicò, per primo in Italia, nel '29, alcuni scritti favorevoli nei quali definì il jazz come «l' unica musica la quale abbia indubbiamente lo stile novecentista. Il jazz sta dando ai musicisti seri una vera e grande lezione». Questa lezione, per Casella, che ben sperava nella rottura con la tradizione melodrammatica, era: «Date all' umanità una musica fatta di ritmo, di timbri e di melodia: una musica che tutto sia fuorché noiosa, una musica che - dopo tanti anni di grigiori intellettuali, di poemi sinfonici asfissianti, di esperimenti da laboratorio - rechi agli uomini la gioia sonora della quale hanno necessità». Se, come detto, qualche screzio col regime ci fu, è anche vero che i veti autarchici verso il jazz angloamericano funsero da trampolino di lancio per la musica italiana. Negli anni della Repubblica di Salò, infatti, si assistette in Eiar a una promozione del «gez» di casa nostra: le orchestre di Pippo Barzizza e Cinico Angelini, il Trio Lescano, Natalino Otto, Alberto Rabagliati, Franco Cerri, Glauco Masetti, Giampiero Boneschi, il grande fisarmonicista Gorni Kramer, il sassofonista Tullio Mobiglia...Più che di repressione, dunque, il fascismo fu protagonista di un attento controllo della musica jazz e, volenti o no, fu anche grazie al Ventennio che essa proliferò in Italia.
· Il Duce e le Donne.
"SIGNORA, PERMETTE CHE AMI CLARA?" Giovanni Cavallotti per “il Giornale” Il 17 luglio 2019. Non ha avuto pace neanche dopo morta, e solo nel 1956 - erano passati 11 anni da Piazzale Loreto - i familiari hanno potuto darle una tomba. Da allora riposa al Verano, all' ombra di una statua che la raffigura con il volto e il busto protesi in avanti e le braccia gettate all' indietro, come se stesse per prendere il volo. Sul sarcofago di marmo rosa c' è scritto soltanto: «Claretta Petacci 1912-1945». La gente, comunque, non ha bisogno di chiedere chi sia: lo sa. È poco importa se taluni la considerano un' eroina, e altri una povera vittima, o peggio. Un posto nella storia Claretta ce l' ha perché la sua vicenda personale si intreccia con quella di un periodo tragico del nostro passato. Non foss' altro che per questo è giusto rievocarla. I Petacci erano un' antica famiglia che vantava origini aristocratiche, Ma che socialmente apparteneva al «generone», ossia all' alta borghesia romana. Il padre di Claretta, Francesco Saverio, era medico del Vaticano; la madre, Giuseppina Persichetti, veniva da una famiglia di costruttori edili senza quarti di nobiltà ma con sostanziosi conti in banca. Andavano abbastanza d' accordo, anche se, come carattere, si trovavano ai due poli opposti: lui mite riservato, amante del quieto vivere. e, lei, energica, volitiva, rosa da un' ambizione che riversava suoi figli. E questi non la deludevano. Il maschio di famiglia, Marcello, avviato alla laurea in medicina, mirava senza mezzi termini alla carriera e alla ricchezza. La figlia minore Myriam aspirava ad affermarsi come attrice, ma nei limiti del possibile e del ragionevole, perché non mancava di senso critico e sapeva di non essere una Duse. La primogenita Claretta, invece, sognava: che cosa non si sa bene, e forse non lo sapeva neppure lei. Ma certamente grandi cose. Aveva una carica di entusiasmo che esplodeva violenta e la spingeva a sposare qualunque causa purché fosse romantica ed eroica: e in questo non c' era nulla di artefatto. Si potrebbe dire che era per natura una fanatica e un' esaltata. Ma bisognerebbe subito aggiungere che la differenza tra l' idealista e l' esaltato e tra l' ispirato e il fanatico sta soprattutto nella angolatura dalla quale li si guarda. Esteriormente, Claretta era la classica ragazza-bene: curava il proprio vestiario e la propria persona, nuotava, sciava, giocava a tennis, suonava il violino e il pianoforte, frequentava l' opera e le mostre d' arte, leggeva i best sellers dell' epoca e scriveva poesie né migliori né peggiori di tante altre. Più tardi, riscoprì un' antica vocazione per il disegno e dipinse una serie di quadri delicati e gradevoli alla vista. Uno di essi, dal titolo La strada bianca, è riprodotto in quasi tutte le sue biografie, perché il paesaggio immaginario che vi aveva raffigurato somiglia stranamente a quell' angolo di Giulino di Mezzegra in cui la morte la colse. Si direbbe che un oscuro presagio le avesse guidato la mano. Ma probabilmente non è così, perché la tela è del 1936 e a quell' epoca Claretta non conosceva altro che il gioioso entusiasmo e la fiducia nella vita.
Un clima da romanzo rosa. Come molte giovani di allora, ammirava Mussolini. Ma lo ammirava alla sua maniera, mitizzandolo e facendone l' oggetto di un culto in cui l' immagine del «grand' uomo» si fondeva con quella del «prode cavaliere» e perché no del «principe azzurro». C' era in lei molto D' Annunzio di seconda mano. E anche questa era una caratteristica della sua generazione. Il suo primo, fortuito incontro con Mussolini è stato fin troppe volte descritto. In un giorno d' aprile del 1932 - Claretta aveva da poco compiuto i 20 anni - la famiglia Petacci decise di andare in gita ad Ostia. Salirono sulla loro macchina targata Città del Vaticano e guidata da un autista in uniforme, inconfondibile status symbol dell' epoca, e imboccarono l' allora nuovissima autostrada. Claretta sedeva accanto al fidanzato, il sottotenente dell' Aeronautica Riccardo Federici che qualche requisito di principe azzurro l' aveva, essendo uno dei pochi ufficiali designati a partecipare alla storica crociera americana di Balbo. Erano circa a metà percorso quando li sorpassò sfrecciando un' Alfa Romeo rossa, modello da corsa. E Claretta, che ne aveva subito riconosciuto il guidatore, balzò in piedi sbracciandosi e gridando: «È il Duce! Viva il Duce!». Poi all' autista: «Raggiungilo. Devi raggiungerlo ad ogni costo!». Non ce l' avrebbero mai fatta se Mussolini, incuriosito, non si fosse lasciato sorpassare. Vide una ragazza vestita di bianco che lo fissava come in trance, le sorrise e tornò a premere l' acceleratore. Di nuovo Claretta gridò all' autista: «Raggiungilo!» e il giochetto si ripeté un paio di volte fino a quando le due automobili - e quella della scorta di Mussolini - si fermarono in riva al mare a poca distanza l' una dall' altra. Claretta balzò a terra, corse incontro al suo idolo, si presentò, presentò i familiari e trovò il modo di raccontare che tempo prima aveva inviato a Palazzo Venezia un quaderno di poesie dedicate al Duce e non aveva avuto risposta. «Ah, sì, credo di ricordare» mentì Mussolini che se la divorava con gli occhi: perché Claretta era bella, anzi bellissima. Coloro che l' hanno conosciuta sono concordi nell' affermare che le fotografie non le rendono giustizia. L' incontro finì con qualche frase di circostanza, e Claretta non sperava quasi più che avesse un seguito quando un giorno il telefono di casa Petacci squillò. «Posso parlare con la signorina Clara?», disse una voce. Sono quel signore di Ostia». E Claretta, sconvolta e balbettante, seppe che Mussolini aveva ritrovato le sue poesie e la invitava a Palazzo Venezia per discuterne. Vi andò (accompagnata dalla madre fino al portone), e ne discussero. Ma nessuno dei due pensava alle poesie che Mussolini, tra l' altro, confessò di non avere ancora lette. Lei tremava dall' emozione, lui la fissava in modo strano. «Lo sapete che quella notte non ho dormito pensando a voi?», le disse. E aggiunse come parlando a se stesso: Siete così giovane». Aveva infatti la stessa età di sua figlia Edda. Si rividero più volte - forse una dozzina - durante i mesi che seguirono. Parlavano di musica e di poesia, stavano alla finestra a osservare il volo delle rondini, si guardavano. Un giorno lui le confessò di sentirsi solo, e lei rispose che lo capiva. Ma, nonostante quel clima da romanzo rosa, nessuno pronuncio la parola amore. Claretta era sempre fidanzata con il tenente Federici e non solo intendeva sposarlo, ma si indispettiva per certi suoi tentennamenti dell' ultima ora. Lo sposò, finalmente, nel 1934 e visse con lui a Orbetello il tempo che bastava a scoprire che il matrimonio era un disastro. Forse, soltanto allora, si rese conto che la sua non era idolatria del «grande capo», ma passione amorosa, violenta ed esclusiva. E dovette accorgersene anche suo marito, che non le risparmiò le scene di gelosia e che, ad un certo punto, la lasciò per andare volontario in Africa. Al ritorno fu nominato addetto aeronautico a Tokyo, e prima di partire, chiese la separazione legale. Così, nell' estate del 1936, mentre l' Italia festeggiava l' Impero, Claretta si ritrovò in quella condizione di «moglie separata» che secondo gli ipocriti costumi dell' epoca equivaleva a una tacita licenza di adulterio per lei, e a un mezzo alibi per il suo eventuale amante: perché una cosa era «sedurre» una nubile, magari vergine, un' altra cornificare» un marito in carica e un' altra ancora accogliere nel proprio letto una donna che formalmente era ancora sposata ma in pratica non apparteneva più a nessuno. Le visite a Mussolini, interrotte durante il periodo di Orbetello, ripresero quindi con maggior libertà e si fecero sempre più frequenti. Ma prima che si giungesse a una vera e propria relazione accadde un episodio che, a raccontarlo oggi, sembra incredibile: Mussolini convocò a Palazzo Venezia donna Giuseppina Petacci e, guardandola negli occhi, le chiese: «Signora, mi permettete di amare Clara?». Solo a permesso accordato la passione raggiunse il suo fatale traguardo. Al di là di ogni riferimento ai fumetti, comunque (ma quanto c' era di non fumettistico in quei remoti anni 30?) bisogna dire che Mussolini aveva davvero perso la testa per Claretta Petacci. Era la prima volta che si innamorava sul serio e la cosa poteva sembrare strana per uno come lui, che di donne ne aveva avute tante, e di ogni età ed estrazione sociale. Ma forse una spiegazione c' è, e potrebbe essere quella che Myriam Petacci ha dato nelle sue memorie. Furiosi accessi di gelosia Un giorno - riferisce Myriam - Mussolini confidò che, quando era ancora un giovane e squattrinatissimo maestro di scuola, incrociava spesso sulla strada di casa carrozze di lusso guidate da cocchieri in livrea, che trasportavano forestieri, ospiti alle feste organizzate da un ricco proprietario terriero della zona, il futuro presidente del Consiglio, Adone Zoli. E raccontò che su quelle carrozze, mentre si scansava per evitare gli spruzzi di fango, gli era capitato di intravedere ragazze splendide e raffinate, che parevano uscire da una favola proibita per lui e che naturalmente non lo degnavano di uno sguardo. Ed ecco che ora, una di quelle ragazze - non un' intellettuale spregiudicata o una nobildonna in cerca di avventure, ma una signorina di buona famiglia, anzi, una vera signora, e per giunta bellissima - si gettava i suoi piedi offrendogli un amore adorante. Per l' ex-proletario Mussolini era il simbolo della rivincita, così come per l' ex-caporale lo era stato il bastone di Maresciallo dell' Impero. Più tardi, la magia si dissolse e gli ardori di Mussolini si affievolirono. Ma per almeno sette anni la relazione fu intensa e ininterrotta. Ogni giorno, alle 14, Claretta arrivava a Palazzo Venezia e, passando da una porta posteriore, saliva al suo appartamento», che era poi una camera con bagno. Si metteva quindi in vestaglia e restava fino alle 18 o alle 20, ad ascoltare dischi e a leggere libri e giornali, in attesa che Mussolini trovasse, tra un impegno e l' altro, il tempo per fare l' amore con lei. E pare che lo trovasse sempre, anche più di una volta al giorno. La domenica il programma cambiava. Durante l' estate, Mussolini, Claretta e l' ancora adolescente Myiriam, che nelle intenzioni della coppia doveva salvare le apparenze, andavano a fare il picnic e a prendere il bagno sulla spiaggia privata di Castelporziano: e a preparare la cesta con i cibi era donna Giuseppina, che sosteneva di essere la sola a saper curare l' ulcera del Duce, e otteneva palesi successi anche perché, come risultò poi dall' autopsia, quell' ulcera non esisteva affatto. D' inverno, invece, i tre andavano a sciare al Terminillo, dove l' Albergo Impero teneva sempre a loro disposizione le stanze migliori: singola per Myriam, matrimoniale per Mussolini e Claretta.
Vista con gli occhi di oggi, quell' esistenza appare squallida e umiliante. Ma Claretta era felice: aveva conquistato il suo idolo, ne era sempre più innamorata e si sentiva al settimo cielo quando lui le chiedeva un parere, o l' incaricava di leggere i giornali stranieri e di segnare gli articoli interessanti. Soffriva solo perché Mussolini non la voleva con sé nei viaggi ufficiali. Allora restava appesa al telefono ad aspettare una chiamata che spesso non veniva: e questo le provocava accessi di gelosia furibonda, non sempre ingiustificati, perché Mussolini seguitava ad essere circuito dalle donne, e il suo gallismo non era certo una garanzia di fedeltà. La gelosia, ad ogni modo, era la sola nube che offuscava i loro rapporti. Vi fu un brutto momento quando lei rimase incinta e abortì non senza qualche complicazione clinica. Ma le attenzioni di Mussolini la ripagarono della sofferenza, e tutto ricominciò come prima. O almeno, lei lo credette. In realtà, il segreto della relazione era trapelato, specie da quando Mussolini aveva cominciato a frequentare la villa con salone e campi da tennis che i Petacci si erano fatti costruire alla Camilluccia. Ormai, non solo i gerarchi, ma anche gli ambienti militari e quelli di Corte sapevano»: e un odio feroce s' andava addensando su Claretta cui si attribuiva un' influenza politica che non aveva mai avuta. Perfino un osservatore attento e spregiudicato come Dino Grandi la definì una donna nefasta, e non se ne capisce la ragione: a meno che non condividesse anche lui la tesi secondo la quale quell' amore tardivo - e lo stress che comportava - avevano tolto a Mussolini la lucidità necessaria per fronteggiare gli eventi. «Il mio destino è il suo» All' oscuro di tutto era invece l' opinione pubblica, che cadde dalle nuvole quando all' indomani del 25 luglio 1943 i giornali raccontarono la storia, romanzandola e presentando Claretta come una specie di Pompadour e i suoi familiari come un branco di ladri e profittatori. Non era vero, perché il solo ad aver tentato qualche modesto intrallazzo era (e neanche questo è sicuro) Marcello. E lo prova il fatto che la Repubblica Italiana restituì ai Petacci i loro beni, Camilluccia inclusa. Ma, lì per lì, la fantasia popolare si accese e quando Claretta, Myriam e i loro genitori furono arrestati e rinchiusi nel carcere di Novara, la gente approvò. Nel carcere, dove i Petacci subirono angherie e umiliazioni, Claretta non ebbe che un pensiero: il «suo» Mussolini, anzi il «suo» Ben. E quando il 9 settembre i tedeschi la liberarono chiese solo di poter tornare al suo fianco. Ma l' uomo che ritrovò non era più quello di prima. Lo sdegno popolare che la loro love story aveva suscitato e le rimostranze di donna Rachele (che, incredibilmente, aveva saputo la verità dai giornali) lo rendevano incerto, quasi vergognoso, troppo frustrato per accettare l' adorazione senza una punta di istintivo imbarazzo. Claretta cercò di restargli vicina, ma ci riuscì solo fino a un certo punto. Ebbe un alterco violento con donna Rachele e ne uscì distrutta, non per le male parole che erano corse, ma per il fatto che Mussolini non ebbe il coraggio di farle una telefonata consolatrice. Si trovò contro le formazioni degli ultras del fascismo repubblicano che progettarono addirittura di rapirla per sottrarre il Duce alla sua «infausta influenza». E dovette vedersela anche coi tedeschi che cercavano di servirsi di lei, minacciandola e ricattandola. Dopo qualche mese, dovette abbandonare la villa sul Garda, dove si era illusa di rivivere i giorni del passato. Si trasferì al Vittoriale, dove rimase isolata. E cadde in uno stato di frustrazione non diverso da quello in cui versava Mussolini. Si mosse invece Myriam che, prima dello sbarco alleato in Normandia, riuscì ad arrivare in automobile a Madrid e a strappare alle autorità spagnole la promessa di dare asilo alla sua famiglia. Al ritorno, fece il diavolo a quattro per avere un aereo, ma quando finalmente Mussolini poté procurarglielo, Claretta non volle salirvi. Era il 21 aprile 1945, e le restava una settimana di vita. Mussolini le aveva ingiunto di fermarsi al Vittoriale, ma lei, disobbedendo, l' aveva seguito segretamente a Milano. E qui, in un appartamento di corso Littorio (oggi Matteotti) avvenne l' ultimo incontro con Myiriam. «Non posso darti ordini, ma sono la sorella maggiore e ti supplico di fare quello che dico. Porta via i nostri vecchi e lasciami qui» disse Claretta. «Ma perché?», chiese Myriam. «Perché non posso lasciarlo. Credi che potrei guardarlo in faccia dopo averlo abbandonato nel pericolo?». Si salutarono alla fine, è l' ultima cosa che Myriam vide fu il volto della sorella che la guardava dalla tromba dell' ascensore. Le aveva consegnato una busta da aprire dopo l' atterraggio in Spagna. E dentro c' era una lettera che cominciava con le parole: «Io seguo il mio destino, che è il suo». Il destino li fece ritrovare sulla strada di Dongo, concesse loro un' ultima notte in una casa di contadini, e in fine un' ultima alba, che salutarono insieme, ammirando la corona di montagne innevate intorno al lago. Poi arrivò il commando dei partigiani, li trascinò giù per i sentieri e le stradine fino all' ingresso di una villa di Giulino di Mezzegra, dove partirono le raffiche di mitra. Ancor oggi, a 42 anni di distanza, non si sa chi fu a premere il grilletto. Ma fra le tante affermazioni menzognere contenute nel rapporto del presunto carnefice Walter Audisio, una sembra esatta: che Claretta rimase ferma fino all' ultimo accanto a Mussolini e che, quando intuì quello che stava per succedere, fece il gesto di pararglisi davanti, per proteggerlo. Caricarono su un camion il suo corpo, insieme con quello di Mussolini, dei gerarchi fucilati a Dongo e di suo fratello Marcello, ucciso sotto gli occhi della moglie del figlio. Poi, a Milano, li scaraventarono ai piedi del famoso distributore di piazzale Loreto, dove la folla infierì su di loro con calci, sputi e qualcosa di peggio. Ad un certo punto, forse per evitare ulteriori oltraggi, li sollevarono e li appesero alle impalcature del distributore, a testa in giù, come si fa con gli animali macellati. E poiché la gonna di Claretta tendeva a scivolare verso il basso, la fermarono con una spilla in modo che non le si scoprissero le cosce. Il pudore era salvo.
· Il Duce e gli Omosessuali.
VENTENNIO NON A MISURA D’OMO. Bruno Ruffilli per “la Stampa” il 6 agosto 2019. Due libri, una sola sfida: raccontare le storie dimenticate all' ombra della grande Storia. Così, mentre sul ventennio fascista le pubblicazioni si moltiplicano senza soluzione di continuità, a ripercorrere le vicende degli omosessuali confinati sotto il Duce sono due titoli usciti di recente. Uno è “In Italia sono tutti maschi”, di Sara Colaone e Luca de Santis (pp. 190, euro 19), premiato come miglior fumetto nel 2009, tradotto in otto lingue e appena ripubblicato da Oblomov. Già dal 1928 le autorità fasciste destinavano gli omosessuali al confino, il soggiorno obbligato in piccoli centri o isole per un periodo che andava da uno a cinque anni. Lo scopo era prevenire i reati da parte di persone ritenute predisposte, o sospette, e impedire che potessero organizzarsi in comunità. I condannati erano mafiosi, soprattutto, ma poi - sempre più spesso - dissidenti politici, e in generale chiunque mostrasse comportamenti ritenuti sconvenienti o immorali e tuttavia non punibili a rigor di legge: ad esempio prostitute, transessuali, e quelli che il regima definiva "pederasti". In Italia, a differenza di altri Paesi, l' omosessualità non era un reato: il Duce si era opposto a un articolo specifico del codice Rocco che prevedeva la reclusione da uno a tre anni per le relazioni tra persone dello stesso sesso. Comminare una pena significava infatti ammettere l' esistenza di un fatto: «La previsione di questo reato non è affatto necessaria - si legge nella relazione della Commissione Appiani, che aveva discusso la normativa - perché per fortuna e orgoglio dell' Italia il vizio abominevole che ne darebbe vita non è così diffuso tra noi da giustificare l' intervento del legislatore». E ancora: "E' noto che per gli abituali e i professionisti del vizio, per verità assai rari, e di impostazione assolutamente straniera, la Polizia provvede fin d' ora, con assai maggior efficacia, mediante l' applicazione immediata delle sue misure di sicurezza e detentive". Così non ci furono omosessuali italiani deportati nei lager nazisti. Bastava poco: una soffiata, anche anonima, una voce, un bacio, una cartolina potevano avere conseguenze tremende. La denuncia passava dal Questore al Prefetto, che rinviava il fascicolo a una commissione provinciale, la quale interrogava il denunciato e valutava le accuse. Tutto senza tribunali, giudici, avvocati, giornalisti. I denunciati potevano essere diffidati o ammoniti, destinati al confino in un altro comune o in una colonia. Come quella di San Domino, nelle isole Tremiti, dove ancora oggi si vedono i capannoni che accolsero Ninella e gli altri protagonisti del libro di Colaone e de Santis. Il volume nasce da una testimonianza vera ma è costruito come un film, con momenti durissimi e punte di tenerezza: c' è anche una relazione con un esponente del potere e non manca un delitto passionale. Gli autori affrontano la durezza, la fatica, l' umiliazione del confino con un tono leggero, pur nell' accurata ricostruzione della vicenda. Altri hanno documentato le storie degli omosessuali italiani sotto il fascismo, in film, documentari, canzoni. E libri, come quelli di Giovanni Dall' orto, Lorenzo Benadusi, Gianfranco Goretti e Tommaso Giartosio, oppure il recentissimo Adelmo e gli altri - Confinati omosessuali in Lucania, di Cristoforo Magistro (Ombre Corte, 208 pagine, euro 18). Il volume nasce da una mostra fotografica che ha debuttato quattro anni fa a CasArcobaleno di Torino e poi è stata presentata in altre varie città; dopo una prima parte che illustra la situazione storica e sociale italiana nel Ventennio, nella seconda ripropone le storie delle persone della mostra. Volt e vite che altrimenti sarebbero state dimenticate, come i fascicoli che le raccontano, e che Magistro ha salvato dall' oblio attraverso un lungo lavoro di ricerca negli archivi, quelli che rimangono. Ha tradotto il linguaggio burocratico, goffo e formale, in brevi racconti, che spesso nascondono qualche sorpresa. La più grande è proprio la scoperta che dei circa 300 omosessuali italiani mandati al confino tra il 1938 e il 1942, molti finirono in Basilicata, in piccoli centri dove furono accolti con benevolenza, e spesso riuscirono a ricostruire qualche forma di relazione sociale. Come racconta Carlo Levi, c' era verso di loro curiosità e generosità, unite a volte a rispetto, quando non ammirazione. Molti tra i deportati omosessuali avevano un buon livello culturale, o erano esperti nel loro lavoro, di sarti, fabbri, antennisti. E un lavoro dovevano cercarlo, perché il sussidio governativo, quando c' era, era misero e non bastava per coprire vitto e alloggio: così i confinati accettavano paghe inferiori alla media della popolazione, che era già poverissima. Una guerra tra poveri, dentro la Grande Guerra che vedeva coinvolta l' Italia. Adelmo è il più giovane, ha solo 19 anni quando viene inviato al confino: la sua storia occupa una pagina scarsa, mentre quella di Giuseppe, studente di 22 anni, fermato in compagnia di un marchese, è quasi un romanzo, tra abbandoni, missive nascoste, malattie e miserie. E una relazione impossibile con un marchese, che sarà condannato pure al confino, ma troverà subito rifugio in Svizzera. In una lettera gli scrive queste parole: «Io, terminato il confino (se Dio non mi chiama a sé prima di allora) non so cosa farò e dove andrò perché avrei l' intenzione di ritirarmi dalla vita, più per disprezzo che per timore della società, votandomi completamente a Dio nella pace di un convento». Giuseppe non vedrà esaudito il suo desiderio, e morirà nel luglio del 1941, durante una breve licenza, annegato a Santa Maria di Pozzallo per salvare il fratello minore dal mare mosso.
· Il bisnipote del Duce in politica: censurato, non sono fascista.
Il bisnipote del Duce: «Io, terzo Mussolini in politica. Ma non sono fascista». Pubblicato sabato, 06 aprile 2019 da Claudio Bozza su Corriere.it. Caio Giulio Cesare Mussolini, 50 anni, già ufficiale di Marina e poi rappresentante in Medio oriente di Finmeccanica, figlio di Guido e bisnipote del Duce ha deciso di candidarsi alle elezioni europee con Fratelli d’Italia. È il terzo Mussolini, nella storia della Repubblica, che si butta in politica dopo le cugine Alessandra (europarlamentare) e Rachele, eletta in Consiglio comunale a Roma.
Mussolini, lei è un manager affermato: perché la politica?
«Dopo tanti anni all’estero oggi vedo l’Italia in una situazione molto difficile dal punto di vista economico e sociale. Così ho deciso di impegnarmi, sperando che le mie competenze possano dare un contributo per risollevarci».
Cosa ha significato per lei, da bambino, chiamarsi «Mussolini»?
«Pensate che dopo 80 anni si continuano ad avere pregiudizi. “Mussolini” non è un cognome facile di portare, ma io ho sempre cercato di andare avanti indipendentemente da quello che c’è scritto sulla carta d’identità».
Oggi lei si candida alle elezioni europee con Fratelli d’Italia, puntando anche sul fatto che il suo è un cognome evocativo… O rischia di essere un’arma a doppio taglio?
«Chiedo di essere valutato di quello che ho fatto: prima tanti anni come ufficiale in Marina, poi l’esperienza da manager in Finmeccanica. Ho acquisito competenze che ora, tornato a casa, vorrei mettere al servizio del mio Paese».
Sul suo profilo Facebook ha una foto di Salvini con lo slogan «Dio, patria, famiglia». Perché FdI e non Lega?
«Fratelli d’Italia ha una storia di coerenza, portata avanti da Giorgia Meloni. Se c’è qualcuno che ora sta tentando di appropriarsi di questi valori è semmai la Lega».
Lei si sente fascista?
«Non sono fascista. Mio nonno diceva che i fascisti erano quelli che avevano combattuto in quel periodo. Io lascerei la storia agli storici. Io penso che continuare a rivangare il passato sia un errore. Dobbiamo pensare che il fascismo è morto con Mussolini. Io mi candiderò al Sud e questo territorio sarà la mia priorità».
E cosa pensa, invece, di chi si dichiara apertamente fascista, come CasaPound o Forza Nuova?
«Bisognerebbe chiederlo a loro».
Se fosse eletto al parlamento Ue su quale cosa si impegnerebbe subito?
«La priorità è quella dei fondi comunitari, specialmente nel campo agricoltura. Poi servono alternative per l’Italia: è inutile offrire il reddito di cittadinanza se poi non si approvano misure per creare lavoro».
Cosa pensa del governo italiano?
«Che è un governo innaturale. Non possono stare insieme due forze così diverse».
Il centrodestra dovrebbe riunirsi, con Salvini premier?
«È una necessità forte, e Fratelli d’Italia darà un contributo importare a questo progetto».
Lei è il terzo Mussolini che si butta in politica. Ora sua cugina Alessandra, lasciata Forza Italia, è senza partito...
«Abbiamo seguito due percorsi diversi. Io mi avvicino adesso alla politica e ritengo sia il momento giusto. Abbiamo un buon rapporto, ma storie diverse...».
C'È UN ALTRO MUSSOLINI IN POLITICA. Da Today il 7 aprile 2019. Il pronipote di Benito Mussolini si candida alle elezioni europee con Fratelli d'Italia. Caio Giulio Cesare Mussolini, 50 anni, spiega al Times la decisione di scendere in campo con la formazione guidata da Giorgia Meloni. "Condivido le loro idee sul recupero della sovranità, sulla protezione del nostro paese e sulla famiglia", dice l'ex ufficiale di Marina e poi rappresentante in Medio oriente della più grande azienda di Difesa italiana. Caio Mussolini, scrive il quotidiano, spera di essere giudicato per il suo curriculum e non per il suo cognome: "La mia esperienza mi garantisce un background nelle relazioni europee". Quando si parla di Benito Mussolini, dice: "Ci sono state tante cose positive e alcuni errori -le parole riportate dal Times- Il sostegno di Tony Blair alla guerra in Iraq è stato un crimine ma i britannici non lo attaccano ogni giorno per questo”.
Chi è Caio Giulio Cesare Mussolini. Caio Giulio Cesare Mussolini è figlio di Guido e nipote di Vittorio Mussolini quindi bisnipote del Duce. Nato in Argentina nel 1968 oggi vive ad Abu Dhabi. Sarebbe il terzo Mussolini in politica dopo Alessandra (appena uscita da Forza Italia e deputata europea uscente) e Rachele (consigliere comunale a Roma). Caio Mussolini è nato in Argentina nel 1968. Ha trascorso l’infanzia e l'adolescenza tra l’Italia e il Venezuela, entrato nell’Accademia Navale di Livorno ha fatto carriere fino a raggiungere il grado di Tenente di Vascello il comando di Nave Gorgona nel 1998. Durante gli anni di servizio ha partecipato a diversi corsi e missioni, sia in Italia che all’estero. Dopo il congedo nel 2002 ha iniziato a lavorare per Oto Melara (società di Finmeccanica) come Marketing & Sales Area Manager per i sistemi navali in Latinoamerica e Medio Oriente. Come responsabile del Medio Oriente ha coordinato le attività commerciali, di marketing, le relazioni istituzionali e media per le attività delle aziende del gruppo Finmeccanica nei settori della difesa, elettronica e aerospaziale per i paesi del Golfo. Attualmente è il GM di Drass Middle East in Dubai. In una breve intervista concessa nel 2017 al Corriere della Sera spiegava come vedesse l'Italia sull'orlo del baratro, additando Alfano (allora alla Farnesina) come un "ministro patetico". "Non c’è rispetto per le regole e mancano il senso civico e il principio di autorità".
Europee, c'è un pronipote di Mussolini candidato al Sud. Fdi lancia Caio Giulio Cesare al Sud, il Pd ci prova con Stomeo, scrive Michele De Feudis l'8 Aprile 2019 su La Gazzetta del Mezzogiorno. Fitto contro Mussolini. L’europarlamentare di Maglie, candidati di Fdi, per tornare in Europa, dovrà prendere un voto in più di un candidato identitario - e fascinoso per il mondo della destra meridionale -: la leader nazionale Giorgia Meloni, con lo sfondo del Colosseo Quadrato di Roma, ha annunciato la discesa in campo sotto il simbolo della Fiamma nel collegio meridionale di Caio Giulio Cesare Mussolini, pronipote del Duce. «Sono fiera di annunciare la candidatura di Mussolini - ha spiegato la Meloni - dirigente di Finmeccanica, è stato per 15 anni ufficiale della Marina, è un militare e un patriota. Continua così il nostro cammino verso la vittoria alle europee». Il giovane Mussolini ha commentato così il passaggio ufficiale: «E’ un onore essere candidato in Fdi. Mi candido dal Sud perché l’Italia riparta dal Sud. Non c’è una questione meridionale ma una questione nazionale. Ho servito l’Italia per tanti anni, vorrei farlo in Europa adesso». La candidatura di Mussolini si è consolida anche con incontri in Puglia (l’estate scorsa a Taranto è stato ospite per una manifestazione pubblica di Andrea Piepoli, dirigente di Gioventù nazionale) e proprio in merito alla politica ionica il neo candidato si è espresso con durezza nei confronti del M5s, «per la promesse non mantenute in merito allo sviluppo della città». Il suo programma avrà queste priorità: «La questione dell’immigrazione, gestita malissimo dalla sinistra; la lotta all’illegalità diffusa, la schiacciante pressa della tasse elevatissime che asfissiano le imprese, il lavoro che manca, il precariato che affligge i giovan». A sinistra, invece, il Pd di Nicola Zingaretti lancia in Puglia un nome di peso nel mondo dei piccoli comuni: il partito salentino oggi, nella direzione regionale, presenterà la candidatura per Bruxelles di Ivan Stomeo, sindaco di Melpignano, città della Taranta e presidente dell’associazione dei Borghi autentici d’Italia. «Il sostegno ampio registrato intorno al mio nome - ha illustrato Stomeo alla Gazzetta - è un grande riconoscimento per un sindaco di un piccolo comune. In questo modo il Pd si apre alle piccole realtà. Porto l’esperienza del mio borgo al centro della campagna elettorale, per metterla a disposizione del partito e di una eventuale vittoria alle Europee». Stomeo è stato per due mandati presidente dei Borghi autentici e la settimana prossima passerà la mano per cimentarsi nella campagna per il parlamento Ue: «I miei temi forti? Il mio programma - ha puntualizzato - sarà costruito sulla centralità della persona e sulla realizzazione di politiche ambientali. Nell’ambito dell’Anci, inoltre, il presidente Antonio Decaro, mi ha affidato una delega su rifiuti ed energia e anche su questo cercherò di dare il mio contributo all’Italia in Europa». La sua sarà una campagna molto sobria: «Farò pochi manifesti in tipografia, mentre conterò sulla rete delle comunità che conosco nei borghi con cui ho collaborato. Ovviamente centrale sarà il lavoro sui social, che mi consentiranno di raggiungere un vasto pubblico elettorale». Infine la scommessa del welfare: «Melpignano è stato uno dei laboratori nazionali delle cooperative di comunità. La Regione Puglia ha fatto una legge, con Sergio Blasi primo firmatario, sulle cooperative di questo tipo. In questi mesi ci sono stati due bandi pugliesi per questo settore. Ora ci copiano Abruzzo, Molise e Campania. Con la mia elezione il Sud può tornare protagonista dell’innovazione sociale in Europa», ha concluso Stomeo. La Puglia avrà anche una pattuglia di candidati di destra radicale per l’Ue: Casapound ha ufficializzato la presentazione del simbolo con il logo dell’Alleanza europea dei movimenti nazionalisti, guidato dall’europarlamentare ungherese Bela Kovacs, ex esponente del partito di centrodestra Jobbik.
Caio Mussolini a Libero: "'C'è chi gioca a fare il Capitano, io sono Comandante. Alla Boldrini dico una cosa", scrive l'8 Aprile 2019 Salvatore Dama su Libero Quotidiano. Caio Giulio Cesare Mussolini, 51 anni, ufficiale di marina e poi manager. Quanto è stato difficile crescere con questo cognome così impegnativo?
«Indubbiamente "Mussolini" non è un cognome facile da portare, ma ho sempre cercato di andare avanti indipendentemente da quello che c' è scritto sulla mia carta d' identità. Non mi vergognerò mai della mia famiglia, ma ho sempre cercato di affermare il mio nome e di fare la differenza a prescindere dal cognome».
Lei è nato nel 1968 e fa di cognome Mussolini. Si definirebbe un fascista?
«Il fascismo è morto con Benito Mussolini. Non a caso, lo storico Renzo De Felice sosteneva fosse più corretto parlare di mussolinismo che di fascismo. Anagraficamente sono lontano da quel periodo storico. Oltretutto sono nato in un anno, il '68, che evoca tutto tranne che la nostalgia del Ventennio. Battute a parte, a me interessa fare politica, il fascismo è materia di studio per gli storici».
Recentemente Tajani, presidente del Parlamento europeo, ha ammesso che non tutto il Ventennio andrebbe archiviato come una fase buia della storia d' Italia. Concorda?
«Se lo dice lui... Credo a ogni modo che sia un pensiero condiviso dalla stragrande maggioranza degli italiani. E poi potrei portare a sostegno di questa tesi anche i compagni Togliatti e Pertini...».
Ha un bel lavoro a Dubai: come le è venuto in mente di candidarsi alle Europee, al Sud?
«Ho servito per tutta la vita il mio Paese, sono stato Comandante in Marina militare e poi un manager di Finmeccanica. C' è chi gioca a fare il capitano, io sono veramente un Comandante. Il Comandante Mussolini. Oggi voglio continuare a servire il mio Paese difendendo gli interessi nazionali dell' Italia in Europa. Il Sud è la questione nazionale. Infatti, se il Sud resta fermo, l' Italia non crescerà e conterà sempre di meno in Europa e nel mondo».
Sarà candidato per Fratelli d' Italia. Ma in questo momento non era meglio la Lega?
«Amo l' Italia da quando sono nato, non da pochi anni. L' amore per l' Italia non è una scoperta recente, insomma. E nemmeno interessata. Ho servito nella Marina militare per buona parte della mia vita e ho giurato fedeltà al mio Paese. Fratelli d' Italia è un partito autenticamente patriottico ed è quello più vicino alla mia sensibilità culturale. Giorgia mi piace per la sua grinta e per la sua coerenza. È l' unica leader donna e anche questo è un bel segnale al Paese. Il suo partito mi ha accolto benissimo, come se fossi un vecchio militante. Li ringrazio tutti, in particolare i più giovani».
Un Mussolini candidato in un momento in cui tanti parlano di ritorno del fascismo: cosa ha da dire a chi vede il pericolo di un nuovo Ventennio?
«Che vedono nemici immaginari. Il fascismo arrivava dopo una guerra, dopo la frustrazione della vittoria mutilata e la minaccia del biennio rosso. Nulla di ripetibile, così come non è ripetibile il fascismo. Vedo, semmai, altri pericoli: il pensiero unico, il mondialismo, la dittatura del politicamente corretto, l' immigrazione incontrollata, pochi grandi gruppi finanziari che controllano tutto, l' integralismo islamico. Ecco, magari invece di inseguire chimere astratte, sarebbe meglio guardare in faccia la realtà».
Dirà a tutti di scrivere Mussolini: alla Boldrini verrà un colpo. Magari abbatterà i suoi 6x3.
«È un problema tutto suo. Io dico solo che non puoi cancellare un pezzo importante della storia d' Italia. Sarebbe meglio concentrarci sulle periferie-spazzatura costruite dagli antifascisti nel dopoguerra, che - lo disse un grande urbanista napoletano come Aldo Loris Rossi, socialista - andrebbero demolite tutte. Quelle sì. Hanno abbattuto e abbatteranno le Vele di Scampia, costruite negli anni '60 e '70. Difficilmente abbatteranno mai il Palazzo del Poste in centro a Napoli o il lungomare di Bari».
Massimo Fini per “il Fatto Quotidiano” il 15 aprile 2019. Nella sua rubrica L'Amaca, pubblicata da Repubblica, Michele Serra trova estremamente disdicevole, e quasi delittuoso, che Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d' Italia, abbia candidato alle Europee Caio Giulio Cesare Mussolini, bis-bis-nipote del Duce. Il solo cognome lo manda in deliquio e anche sul nome arriccia il nasetto perché ricorda quella romanità cui il capo del fascismo si ispirava (se potesse, il Serra, metterebbe ai ceppi, riesumandolo, anche Caio Giulio Cesare, quello vero di alea iacta est!). Più che steso tranquillamente su un' amaca, Serra sembra seduto sui carboni ardenti e scrive: "Mussolini fu un dittatore, un razzista, un' icona del ridicolo e la rovina del suo popolo". Che il fascismo sia stato una dittatura non è nemmeno il caso di ricordarlo, anche se meno spietata di quelle a lui contemporanee, ma portando pur sempre sulla coscienza il delitto Matteotti, l' assassinio in Francia dei fratelli Rosselli, lo spegnimento, intellettuale e fisico, in carcere di Antonio Gramsci, il fondatore del Partito comunista italiano, e l' orrore delle leggi razziali. Mussolini poi, a differenza di Francisco Franco, ebbe la gravissima responsabilità di entrare in guerra con un alleato con cui non ci saremmo dovuti alleare e di perderla con tutte le conseguenze che ciò ha comportato. Altrimenti sarebbe morto tranquillamente nel suo letto, come Franco, invece di essere giustamente fucilato e poi appeso per i piedi a Piazzale Loreto, insieme a Claretta Petacci, ai gerarchi, quelli responsabili, quelli meno responsabili e altri di nulla responsabili, in una delle pagine più vergognose della nostra Storia che fece orrore agli stessi vincitori americani che allora erano parecchio diversi da quello che sono oggi. La potenza retorica dei discorsi di Mussolini, che affascinò decine di milioni di nostri progenitori, può apparire ridicola oggi che sono passati tre quarti di secolo dal suo apogeo, ma allora non lo era affatto (per vedere il ridicolo nella retorica di Michele Serra non dovremo aspettar tanto, ci basta leggerlo oggi). Il fascismo, con tutti i suoi errori e anche orrori, aveva in testa un' idea di Stato e di Nazione, che cercò di realizzare coerentemente. L' Iri, diventato nel dopoguerra un carrozzone democristiano, fu una risposta intelligente alla crisi del '29, peraltro agevolata dal fatto che allora il mondo era molto meno "interconnesso". La "battaglia del grano" (che probabilmente Michele Serra trova "ridicola") era il tentativo, lungimirante, di trovare un equilibrio fra l' avanzante industrialismo e l' agricoltura, suggestione che sarebbe di capitale importanza recuperare oggi che il capitalismo industriale e finanziario sta assassinando intere popolazioni. Del resto gli "anni del consenso" non me li sono inventati io. Michele Serra, che è un uomo colto, oltre che un uomo d' onore, avrà sicuramente letto Renzo De Felice e Denis Mack Smith. Scrivo queste cose con tranquilla coscienza perché mio padre, Benso Fini, si fece quindici anni di esilio a Parigi, soffrendo la fame e la povertà come gli altri, pochi, fuorusciti, in nome della libertà. Se avessi la mentalità da sbirro di Serra andrei a controllare come si comportarono i suoi genitori e nonni durante il regime mussoliniano. Ma io non sono uno sbirro e l' obiettivo del mio articolo è altro. Mi colpisce come, a 75 anni dalla fine del regime fascista, la sinistra radical chic e radical snob ("cuore a sinistra, portafoglio a destra") si renda, essa sì, ridicola facendo il ponte isterico al solo sentir il nome di Mussolini, anche se di un bis-bis-nipote. Vorrei ricordare a Michele Serra che nel dopoguerra, quando le lacerazioni del conflitto erano ancora sanguinanti, né Rachele Mussolini, né i figli del Duce, né Edda Ciano furono mai toccati, non solo per la generosa intercessione di quel grande uomo che è stato Pietro Nenni, ma perché la sinistra era ancora una cosa seria e, più in generale, la collettività italiana era meno imbarbarita di quanto lo sia oggi, nell' anno di grazia 2019. Fa specie che una persona che ha un passato e un presente professionale del tutto rispettabile (ufficiale di Marina e dirigente di Finmeccanica) come Caio Giulio Cesare Mussolini sia messa alla gogna solo per il suo cognome da Michele Serra e da tutti i Michele Serra che abitano il nostro Paese, dando così piena ragione a Mino Maccari: "I fascisti si dividono in due categorie: i fascisti propriamente detti e gli antifascisti".
«Mussolini is back»: il candidato FdI sulla stampa estera. Pubblicato mercoledì, 10 aprile 2019 da Corriere.it. «Third Mussolini descendent enters Italian political arena». Fa notizia all’estero la candidatura del pronipote del duce, Caio Giulio Cesare Mussolini, alle imminenti elezioni europee, nelle liste di Fratelli d’Italia. Ne parlano anche dall’altra parte dell’Atlantico Abc, Washington Post, Fox News. Non solo importanti testate, ma anche tabloid come Newsweek e Daily Mail. Per alcuni osservatori vedere il discendete di uno dei responsabili della distruzione dell’Europa sedere, neanche 80 anni dopo, tra i banchi delle istituzioni che rappresentano quel continente, è un po’ come vedere il nipote di Hitler accomodato al Bundestag. Il protagonista ormai passa il tempo a ribadire la sua distanza ideologica dal lontano parente, ma certo la foto con Giorgia Meloni - sullo sfondo del Colosseo Quadrato, uno dei fiori all’occhiello dell’architettura del Ventennio - non ha aiutato a sgombrare il campo dagli equivoci. Tanto più che la nomination è arrivata a poca distanza da altre due polemiche assurte alle cronache internazionali, la querelle tra Jim Carrey e Alessandra Mussolini sulla vignetta di piazzale Loreto e il semi elogio di Mussolini da parte del presidente del Parlamento Tajani, rapidamente ritrattato. I due episodi, uniti alle politiche migratorie del governo Conte - spesso accusate di populismo, se non proprio di xenofobia e razzismo - stanno accendendo, insomma, i riflettori della stampa straniera sulle presunte nostalgie che starebbero riaffiorando nella penisola. Nella maggior parte degli articoli online il candidato è inevitabilmente associato alla figura del duce, e in molti casi non è presente neanche la sua foto. «Riconquistare la sovranità e proteggere il nostro paese e la famiglia» gli obiettivi dichiarati al Times, che ha voluto incontrare Caio Mussolini: «Perché spendere 100 euro per un migrante e lasciare le noccioline per i pensionati?» chiede al quotidiano di Londra. Il Times of Israel sottolinea la contraddizione italiana tra l’antifascimo dichiarato nella Costituzione e «la persistenza di partiti neofascisti, che rimasero parte integrante del panorama politico italiano del dopoguerra, anche se sostenere quelle idee era giuridicamente un crimine». Niente di nuovo, quindi. Secondo la Associated Press, «l’antifascismo brandito dagli anni 50 anche contro coloro che non sono affatto fascisti» ha creato una sorta di reazione culturale alla demonizzazione di quel periodo, «nonostante il danno che ha fatto», portando così a una sua distorta riattualizzazione. Le Parisien, in Francia, evidenzia come all’ultimo congresso FdI abbia partecipato anche Steve Bannon: l’ex consigliere di Trump, intenzionato a federare i movimenti europei di estrema destra, che a dicembre scorso dichiarò al Corriere che «il 2019 sarà l’anno dei sovranisti». Il Guardian mette in relazione l’oscuramento dei profili Facebook di Mussolini e di alcuni militanti di Casa Pound, allegando il video delle proteste anti rom di Torre Maura e la scena del cibo calpestato. Il giornale britannico cita anche una propria intervista del 2011 a Di Stefano, in cui il segretario di Casa Pound indicava il fascismo come «un punto di riferimento». La pagina Fb di Mussolini, nel frattempo, è tornata online e il titolare ne ha subito approfittato per postare i ringraziamenti «all’enorme sollevazione popolare contro una sospensione vergognosa, che ha eseguito meccanicamente le segnalazioni di gruppo di centri sociali ed estremisti di sinistra», ribadendo di star valutando comunque un’azione legale contro Zuckerberg. In quasi tutti i siti la notizia della candidatura di Caio è associata più a effigi e immagini storiche del duce che a quelle dell’interessato, spesso del tutto assente. Segno che Meloni ha colto nel segno puntando tutto sull’ingombrante cognome del suo “cavallo”, che rappresenta sicuramente l’emanazione finora più evocativa del fantasma populista che si aggira per l’Ue. E ovunque non mancano di ricordare come, in realtà, siano già scese in politica altre due rappresentanti della famiglia Mussolini: la cugina di secondo grado Alessandra (inizialmente nelle fila del Msi) e la sorella Rachele (sempre per FdI), consigliere comunale a Roma. Il loro impegno pubblico non destò tuttavia le stessa attenzione mediatica: forse perché donne e dunque percepite, nell’immaginario collettivo legato al dittatore, come meno pericolose e minacciose? L’estremismo patriottico del personaggio - notano ancora in comune parecchie testate - non è soltanto nel cognome, ma anche nell’altisonante nome di battesimo, dal gusto imperiale: l’epopea romana, è risaputo, fu uno dei cavalli di battaglia della propaganda fascista, a cominciare dalla ripresa del saluto col braccio teso. La figura del dittatore, del resto, tuttora non smette di sollevare questioni anche in patria: notizia di mercoledì, 10 aprile, il respingimento dell’istanza di revoca della cittadinanza onoraria di Salò. L’ultimo di una infinita serie di tentativi di rimuovere, anche simbolicamente, gli spettri del passato.
Il bisnipote di Mussolini che punta a Bruxelles: «Nell’Agro pontino rimpiangono il nonno». Pubblicato mercoledì, 10 aprile 2019 da Virginia Picolillo su Corriere.it. «Quando ho sentito le sciocchezze della Boldrini che voleva demolire i monumenti cancellando un pezzo di storia patria, mi sono sentito ribollire il sangue e mi son detto, “è arrivato il momento”». Il cognome è Mussolini. E al suo apparire, nelle liste di FdI alle europee, Caio Giulio Cesare, bisnipote del Duce, ha scatenato polemiche feroci: ma lui, 50 anni, sommergibilista poi manager internazionale in Oto Melara e Finmec, al Corriere respinge gli attacchi di chi lo vive come l’ultima eredità del dittatore. Lui non lo definisce così. Alla domanda su chi era Benito in casa Mussolini risponde: «Ne abbiamo sempre parlato tanto, cercando di distinguere il piano familiare da quello politico. I ricordi sono tanti, personali che conservo gelosamente. Ma anche in tutta Italia se ne parla tutti i giorni. Ha lasciato il segno nelle vite, nelle città e nella memoria di tutti gli italiani. Penso che il giudizio sul mio bisnonno lo debbano dare gli storici. Io sono un militare che si candida». Ma che è già accusato di solleticare pulsioni fasciste. «Il fascismo è morto con Benito Mussolini. Ieri ho attraversato l’agro pontino, descritto da Antonio Pennacchi. I figli dei pionieri della bonifica ancora piangono quando raccontano cosa accadde. La storia non è bianco o nero». Le leggi anti-razziali sì. E lui lo ammette: «Sono una ferita aperta per me. Non credo ci sia una sola persona di buon senso che le difenda. Furono il primo vero momento di disamore del popolo italiano verso il fascismo». E il resto? «Non mi candido a fare lo storico. Non mi paragono a nessuno. Io sono Caio. Ho due lauree, parlo tre lingue. Ho delle qualità e cerco di affermarle. Ho girato mezzo mondo e ho capito quanto i nostri interessi siano poco e male rappresentati. Ci vuole più Italia, altro che “più Europa”. Dobbiamo fare squadra e farci valere. Tutti insieme, destra, sinistra, sopra, sotto». Ma il manifesto non evoca il fascismo? «No. È un font déco. Il fascismo è solo un’ossessione di tanti ignoranti. E l’Italia è storia e futuro». Dell’eredità politica del Duce dice di non aver «mai avvertito il peso»: «Ho sempre pensato solo a fare il mio dovere, a servire il mio Paese. Ho giurato fedeltà alla Repubblica e ho cercato di farmi un nome». Sull’immigrazione apprezza Salvini che «ha messo un freno agli arrivi» anche se, «dopo l’intervento francese in Libia (altro che Europa unita...) l’Africa è una polveriera. Bisogna stabilizzare il Sub-Sahara, la Libia e cercare uno sviluppo sostenibile. O la demografia ci condannerà all’invasione. Ho letto che anche alcuni vescovi dicono “no” alla logica folle dell’accogliamoli tutti. Mi pare buonsenso». Ma allora perché non sta con Salvini? «Giorgia è una patriota. Da sempre».
· Il Duce è tornato. È Mr Facebook.
Facebook sospende il bisnipote di Mussolini «È per il mio cognome». Pubblicato lunedì, 08 aprile 2019 da Corriere.it. Facebook ha sospeso il profilo di Caio Giulio Cesare Mussolini (chi è), bisnipote del Duce, candidato alle elezioni europee del 26 maggio nella circoscrizione Sud con Fratelli d’Italia. «Voglio tranquillizzare tutti: non farò campagna elettorale con fasci littori, saluti romani e fez — scrive il candidato del partito guidato da Giorgia Meloni — Trovo però inaccettabile che Facebook chiuda il mio profilo personale solo perché il mio cognome è Mussolini. Sono stato bloccato fino al giorno 11 di Aprile, pur non avendo scritto nulla e dopo una giornata di insulto libero contro la mia persona e la mia famiglia». Caio Mussolini — in una intervista al Corriere «Io, terzo Mussolini in politica: Dio, patria e famiglia, ma non sono fascista» — aveva spiegato: «Chiedo di essere valutato di quello che ho fatto: prima tanti anni come ufficiale in Marina, poi l’esperienza da manager in Finmeccanica. Ho acquisito competenze che ora, tornato a casa, vorrei mettere al servizio del mio Paese». Mussolini, sabato scorso, aveva ufficializzato la sua candidatura assieme a Giorgia Meloni, proprio attraverso un video su Facebook. Evocativo il luogo scelto come sfondo: il Palazzo della civiltà italiana, edificio soprannominato Colosseo Quadrato. «Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori» la scritta che campeggia sulla sommità. Da sempre simbolo legato al Ventennio, sorse tra il 1936 e il 1940, quando fu progettato il quartiere romano dell’Eur in vista dell’Esposizione universale e del ventennale del regime, nel 1942. Lo scoppio della guerra cambiò drasticamente il corso delle cose e l’evento non si svolse mai.
“L'UNICO DISCRIMINATO SONO IO. FACEBOOK SI COMPORTA COME UN CENTRO SOCIALE”. Fabrizio Nicotra per “il Messaggero” il 9 aprile 2019.
Caio Giulio Cesare Mussolini, pronipote del Duce e candidato con Fratelli d'Italia alle Europee, cosa è successo con Facebook?
«Mi hanno disabilitato l'account privato fino all'11 aprile. Eppure non avevo scritto nulla.
Evidentemente Fb esegue le segnalazioni di centri sociali e compagni vari. Mentre tollera insulti, minacce di morte e immagini violente. Ho dato mandato al mio Avvocato di denunciare Fb per discriminazione».
Notorietà improvvisa...
«Sì, ho sempre servito l'Italia in silenzio. Un po' per via del cognome ingombrante, che però porterò sempre con orgoglio, e un po' per il nome, nel senso che di carattere sono riservato. Volevo parlare di temi concreti, di interesse nazionale da far valere in Europa, di Sud come vera questione nazionale. E invece no. Pazienza, da domani girerò il mio collegio elettorale e parleremo di cose concrete. Di futuro. E di Italia».
Ha mai fatto politica prima?
«Mai. È la mia prima esperienza. Ovviamente ho respirato politica per tutta la mia vita».
Meloni ha scelto lei per il cognome che porta?
«Credo per il mio nome, cioè per quello che ho fatto nella mia vita. Ufficiale di Marina, manager di grandi aziende, due lauree, tante esperienze internazionali. Ho sempre cercato di fare al meglio il mio dovere».
Quanto vale il brand Mussolini?
«Lo scopriremo il 26 Maggio. Tanti vogliono scrivere Mussolini sulla scheda. Così, ho deciso che il motto della mia campagna è #ScriviMussolini e devo dire che piace molto».
Sua cugina Alessandra come l'ha presa? Vi siete sentiti?
«Non ci siamo ancora sentiti. Ho un buon rapporto con lei, che ha tanta esperienza e magari mi darà qualche consiglio prezioso nel corso della campagna».
A giorni la conferenza di FdI a Torino. In Europa per cambiare l'Europa Come?
«Difendendo l' interesse nazionale in ogni singolo atto, votazione. Dall' agricoltura al turismo, troppe volte il Sud e l' Italia sono stati penalizzati a vantaggio del Nord Europa o di lobby finanziarie. Altro che Siamo europei o più Europa. Ci vuole più Italia!».
Tommaso Rodano per il “Fatto quotidiano” il 9 aprile 2019. Il cognome è pesante: Mussolini. I tre nomi non aiutano a sdrammatizzare: Caio Giulio Cesare. Una carta d' identità che tiene insieme tutta la retorica un po' accattona della Roma imperiale, dal conquistatore fino al Duce. Caio Giulio Cesare Mussolini (che di Benito è pronipote) si candida con Fratelli d'Italia alle elezioni europee. Giorgia Meloni - in nome della retorica accattona di cui sopra - ha dato l' annuncio con un video di fronte al Palazzo della Civiltà italiana. Ovvero il "Colosseo quadrato" dell' Eur, uno degli edifici simbolo del ventennio, che riporta sulle facciate il celebre discorso di Mussolini (senior): "Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi". L'operazione è abbastanza plateale. Nella sfida a Matteo Salvini per contendersi l'elettorato post fascista, Meloni si gioca il jolly: i più nostalgici potranno scrivere sulla scheda elettorale la parola magica. "Mussolini". E lui, Caio Giulio Cesare, se tutto andrà bene se ne andrà a Strasburgo. Tutt' altro clima rispetto ad Abu Dhabi. Mussolini vive negli Emirati Arabi da 12 anni, è stato per quasi 10 il responsabile del Medio Oriente di Finmeccanica, ufficio aperto con lui in epoca Guaguaglini. Chi ci ha lavorato non riesce a non parlarne bene. Due lauree, tre lingue (inglese, francese e spagnolo), comportamento impeccabile: lo descrivono come un uomo preciso, scrupolo, affidabile. Fisico asciutto e formazione militare: Caio Giulio Cesare è stato ufficiale della Marina, per 8 anni ha lavorato sui sommergibili. Nato in Argentina, cresciuto in Venezuela, dopo la carriera militare è stato manager di Oto Melara, controllata di Finmeccanica. Poi il grande salto in Medioriente, dove ha gestito commesse pesanti. Come quella dei caccia Eurofighter venduti al Kuwait, un affare da 4 miliardi. La firma è arrivata nel 2015 ma il lavoro preparatorio era iniziato già nel 2008. E Mussolini era una figura importante, uomo di molteplici relazioni nelle ambasciate e nelle corti del potere locale. Insomma, per citare chi l'ha conosciuto, "una risorsa molto preziosa per Finmeccanica". Almeno fino all' arrivo come amministratore delegato di Mauro Moretti nel 2014. Mussolini viene cacciato da un giorno all'altro. Secondo i maligni "proprio per colpa del suo cognome". Insomma, malgrado le riconosciute capacità professionali, la carriera e la vita di Caio girano in un modo o nell' altro attorno al suono della parola "Mussoloni". Il pronipote del Duce - figlio di Guido e nipote del secondo genito Vittorio - non manca di lamentarsene nelle interviste. "Spesso quando chiamo un ristorante per prenotare un tavolo mi attaccano il telefono in faccia. O mi chiedono se sono un parente. Rispondo: 'Parente di chi? Ho un papà, una mamma, uno zio'" Per chiamarsi così ci vuole il fisico. "Penso che se fossi stato alto 1 metro e 90 non avrei sentito un peso del genere sulle mie spalle. Purtroppo sono solo 1 e 80". Da tempo è in pessimi rapporti con Facebook. Ieri, tornato alla ribalta dopo la candidatura, ha annunciato la battaglia disperata contro il social di Mark Zuckerberg: "Il mio profilo personale è stato bloccato solo perché il mio cognome è Mussolini. Qui l' unico discriminato sono io. Facebook si comporta come un centro sociale. Sto valutando se iniziare un' azione legale". Ma è una vecchia polemica. In un' intervista alla Verità di febbraio già raccontava il suo cruccio: "Secondo Facebook non avrei diritto al mio nome. Ho fatto anche delle controprove. "Caio Mao" lo accetta. "Caio Stalin" lo accetta. Persino "Caio Polpot". Capirà che anche la storia merita la par condicio". Peggio che a lui è andata alla cugina Edda Negri Mussolini: "A Facebook non vanno bene né i Negri né i Mussolini, si figuri insieme". Caio è fascista non rinnegato, ma atipico: "Un post fascista che si richiama a quei valori in modo non ideologico", dice lui. Dopo Alessandra e Rachele Mussolini, potrebbe essere il terzo della sua stirpe a occupare una carica politica: un seggio al Parlamento europeo, gentilmente offerto da Giorgia Meloni (che nei confronti del suo cognome non ha alcuna forma pregiudizio). Scappato da quel marchio, alla fine riuscirà forse a ottenerne qualche profitto: Mussolini dà, Mussolini toglie.
Caio Mussolini: “Facebook ha sospeso mio profilo, discriminato per cognome”. Caio Mussolini, candidato di FdI nella Circoscrizione Sud per le europee, ha criticato Facebook per aver sospeso il suo account a causa del cognome. L’esponente politico sta valutando un’azione legale, scrive Gabriele Laganà, Lunedì 08/04/2019, su Il Giornale. "Voglio tranquillizzare tutti: non farò campagna elettorale con fasci littori, saluti romani e fez. Trovo però inaccettabile che Facebook chiuda il mio profilo personale solo perché il mio cognome è Mussolini. Ieri sono stato bloccato fino al giorno 11 di Aprile, pur non avendo scritto nulla". È quanto afferma in una nota Caio Giulio Cesare Mussolini, candidato di Fratelli d'Italia nella Circoscrizione Sud per le elezioni europee del prossimo 26 maggio, dopo che il popolare social network ha sospeso temporaneamente la sua pagina ufficiale. "Dopo una giornata di insulto libero contro la mia persona e la mia famiglia. Se poi la policy di Facebook è consentire foto a testa in giù, insulti, minacce di morte e di aggressioni, e al contempo sanzionare una persona solo per il suo cognome, allora siamo messi malissimo. Qui l'unico discriminato sono io” ha rincarato la dose l’esponente del partito di Giorgia Meloni. Caio Mussolini ha criticato pesantemente l’azione compiuta da Facebook che "si comporta come un centro sociale. E' inaccettabile”. Anche se il blocco della pagina personale dura pochi giorni, il candidato sta“valutando con gli avvocati se iniziare un'azione legale" per l’accaduto.
Please, lasciate in pace il Comandante Mussolini (Caio Giulio Cesare)…, scrive mercoledì 10 aprile 2019 Francesco Storace su Il Secolo D'Italia. Diventeranno pazzi. Appena hanno saputo che c’è un nuovo Mussolini in lista sono usciti di testa. Poi hanno scoperto che ha due lauree. E, terribile, parla fluentemente tre lingue. Sono disperati a sinistra, e hanno trovato un nuovo nemico. Si chiama Caio Giulio Cesare Mussolini e si candida con Fratelli d’Italia nella circoscrizione sud alle europee. Temono un’ondata di “scrivi Mussolini” e tempestano i social per stimolare quell’odio che è la loro caratteristica principale. Ma hanno trovato un osso duro, difficile da sbeffeggiare. Caio Giulio Cesare, un nome da delizia imperiale romana, ha un curriculum d’eccellenza. Orrore, lavora. Comandante della Marina prima, manager di Finmeccanica poi. Dalle loro parti, difficile trovarne. Giorgia Meloni lo candida nel nome della coerenza che Fratelli d’Italia vuole rappresentare nella sfida europea. Quella modernizzazione che caratterizzò l’Italia fra le due guerre. E quella fotografia che ha ritratto la leader di Fdi con Caio Mussolini davanti al palazzo della civiltà del Lavoro è perfetta. Magari si riuscisse a farne tante altre su quanto simboleggia un’epoca.
Può diventare un esempio. Sicuramente è un cognome che pesa. Se fosse indifferente per il popolo, probabilmente non ci sarebbe l’attenzione – unita a diverse villanie da querela – che si riscontra anche nella stampa. Perché è una persona seria. Figlio di Guido Mussolini e bisnipote del Duce, Caio Giulio Cesare non è mai stato funzionario di partito, non ha vitalizi in banca, non riscuote la pensione della legge Mosca. Tutto questo lo fa diventare terribilmente insopportabile. Perché può diventare un esempio. Ed è perfettamente inutile il giochino di certa stampa: è fascista o postfascista? Semplicemente, si tratta di una persona normale con un cognome che normale non è. E che pretende rispetto per la storia della sua Nazione e, se è ancora concesso, per la sua famiglia. Si candida in Europa non per restaurare il fascismo, ma per portare più Italia laddove ce n’è sempre di meno. “Pensiero unico, immigrazione incontrollata, pochi grandi gruppi finanziari che controllano tutto, l’integralismo islamico“: in un’intervista ha indicato questi come i suoi nemici. Sono anche i nostri nemici.
Serra, la sinistra che ignora… Con quel cognome, semmai, sarà più facile parlarne e mettere a nudo le responsabilità della sinistra più irresponsabile del mondo nella sottovalutazione dei pericoli che corriamo. Non è casuale l’attacco che ieri gli ha riservato Michele Serra su Repubblica, che per lui avrebbe preferito un futuro da gelataio a Guidonia. Mostrando così – come gli ha ricordato Caio Giulio Cesare Mussolini – di non rispettare né i gelatai, né di conoscere la storia. Guidonia fu città di Fondazione. Serra non lo sa e scrive a casaccio. Saranno gli elettori delle sei regioni meridionali a decidere se farsi rappresentare da lui o no, e non quelli come Michele Serra. In una circoscrizione così vasta, gli sarà ben difficile andare dappertutto. Ma basterà sapere della sua presenza in lista per farlo sostenere: ed è proprio quello che certa sinistra teme. Altrimenti, a che servirebbe attaccarlo a testa bassa? A proposito: ne parlano anche testate internazionali. Ecco, lasciatelo in pace. Please. Demonizzarlo non vi conviene.
CasaPound: "Cancellati da Facebook gli account di nostri leader". Ma per il social sono state violate le regole. La formazione di estrema destra, protagonista delle ultime proteste violente nelle periferie romane, accusa la compagnia di Zuckerberg. In realtà i discorsi basati su odio e discriminazione razziale sono espressamente vietati e i profili vengono chiusi solo dopo diverse infrazioni. "Abbiamo degli standard", fa sapere la compagnia. "Partiti politici, candidati e singoli cittadini devono attenersi a queste norme", scrive il 9 aprile 2019 La Repubblica. CasaPound ora si presenta come vittima di Facebook. La formazione di estrema destra - protagonista negli ultimi giorni delle proteste violente di Torre Maura e Casal Bruciato, a Roma - va all'attacco del social network. Con un post in cui viene ripreso l'articolo di Primato nazionale, quotidiano sovranista di area diretto da Adriano Scianca, sostiene che Facebook avrebbe cancellato "sistematicamente gli account personali dei maggiori esponenti del movimento". "Crediamo sia importante dare alle persone un modo per esprimersi ma al contempo vogliamo che chiunque su Facebook possa sentirsi al sicuro", fa sapere il social network. "Per questo abbiamo stilato gli Standard della Comunità. Partiti politici e candidati, così come singoli individui e organizzazioni presenti su Facebook devono attenersi a queste norme". Facebook ha poco meno di 30 mila dipendenti che in cinque centri dedicati alla sicurezza e moderazione dei contenuti si alternano offrendo una copertura 24 ore se 24. Agiscono su segnalazione degli utenti e in base ai principi che regolano il social network perché ad oggi i sistemi di intelligenza artificiale non sono in grado di capire le differenze che passano ad esempio fra una battuta o un insulto. I discorsi basati su odio e discriminazione razziale sono espressamente vietati da tempo e in ogni caso nessun profilo viene chiuso per una singola violazione ma solo in seguito a diverse infrazioni. Sarebbero stati cancellati gli account di "Gianluca Iannone (presidente di CasaPound Italia), Andrea Bonazza (responsabile Cpi e consigliere comunale a Bolzano), Maurizio Ghizzi (consigliere Cpi a Bolzano), Emmanuela Florino (portavoce di Cpi Napoli), Carlotta Chiaraluce (portavoce di Cpi Ostia), Roberto Acuto (responsabile Cpi Napoli), Giorgio Ferretti (candidato Cpi ad Ascoli Piceno), Mario Eufemi (candidato Cpi a Nettuno), Fernando Incitti (responsabile di Frosinone ed ex candidato sindaco), Fabio Barsanti (consigliere comunale Cpi Lucca)". Il quotidiano sovranista parla di "assenza di motivazioni" o della "la totale pretestuosità delle stesse". Solo ieri era esploso il caso del candidato di Fratelli d'Italia Caio Giulio Cesare Mussolini, pronipote del Duce, escluso da Facebook. CasaPound è stata protagonista - in questo caso involontaria - anche di un'altra polemica. Ieri Luigi Di Maio ha sollecitato lo sgombero dell'edificio occupato abusivamente dalla formazione di estrema destra in pieno centro a Roma.
Facebook oscura il profilo del presidente di CasaPound Iannone e di altri dirigenti. Pubblicato martedì, 09 aprile 2019 da Martina Pennisi su Corriere.it. I profili del presidente di CasaPound, Gianluca Iannone, dei consiglieri comunali, Andrea Bonazza e Maurizio Puglisi Ghizzi, di Carlotta Chiaraluce e di Emmanuela Florino non sono più accessibili su Facebook. Lo denuncia una delle pagine del partito, additando l’amministrazione italiana di Facebook come «palesemente di sinistra». «Sarà ora nostra premura segnalare tale comportamento direttamente agli amministratori globali del social, direttamente alla punta più altra della piramide Zuckerberg, e portare in sede legale italiana quanto avvenuto, per rivendicare libertà di pensiero, diritti politici e diritti dei consumatori», prosegue la nota che si appella all’Articolo 21 della Costituzione. Trattandosi di profili privati e non di pagine, la rimozione potrebbe essere legata a una violazione delle policy del social network. È vietato, per esempio, sostenere un’organizzazione o un gruppo violento e o criminale, esprimere minacce verosimili a terzi, diffondere discorsi inneggianti all’odio o di discriminazione verso le persone o manifestare l’intenzione o il supporto ad atti di violenza fisica contro le persone (qui la lista di tutto quello che può portare all’oscuramento del profilo). Il Corriere della Sera ha chiesto spiegazioni a Facebook. Lunedì 8 aprile era stato Caio Giulio Cesare Mussolini, bisnipote del Duce, a lamentare di essere stato bloccato dal social fino all’11 aprile. CasaPound si è anche scagliata contro la richiesta al responsabile provinciale Fernando Incitti di registrare la sua pagina come inserzionista politico, come previsto dalle nuove regole introdotte lo scorso 29 marzo che chiedono a chiunque voglia pubblicare pubblicità politiche o su temi di interesse pubblico particolarmente dibattuti (come l’immigrazione) di fare una formale richiesta. Non c’è stata dunque alcuna anomalia o trattamento particolare riservato al partito. Negli ultimi giorni CasaPound ha protestato a Roma contro l’assegnazione di una casa popolare ai rom e ha presentato il simbolo per la corsa alle elezioni europee.
Il Duce è tornato. È Mr Facebook, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 11/04/2019, su Il Giornale. Camerata Zuckerberg! Presente! Mettiamo due o tre cose in fila: Caio Giulio Cesare Mussolini, pronipote del Duce e candidato alle Europee, qualche giorno fa è stato cacciato (e poi riammesso) da Facebook. Poco dopo sono stati messi alla porta anche quattro esponenti di CasaPound. Il motivo? Avrebbero violato la policy del social network di Facebook e innervosito l'algoritmo che tutto sovraintende (oltre che qualche utente che si è divertito a segnalarli). Non è la prima volta che accade e non sarà neppure l'ultima. Su Facebook non si possono fare un sacco di cose: tipo mostrare i capezzoli, postare foto violente o pornografiche e inneggiare all'odio. E, evidentemente, non si può nemmeno essere di estrema destra. In barba alle regole più elementari della libertà di espressione. Perché il retropensiero di tutto questo è semplicissimo: uno si chiama Mussolini, quegli altri alzano il braccio destro ogni due minuti e quindi sono dei fascisti che non hanno diritto di passeggiare per le autostrade del più grande mezzo di comunicazione del pianeta. Però questi signori hanno deciso di candidarsi alle elezioni e, dunque, di sottomettersi alle leggi della democrazia. Che diritto ha il signor Zuckerberg di tappargli la bocca? Perché sono dei fascisti, risponderà il censore unico mondiale del politicamente corretto. Benissimo. A noi a scuola hanno insegnato che il fascismo è una dittatura, con un solo uomo al comando che riduce al silenzio le opposizioni e manda al confino chi esprime idee scomode. Il tutto condotto in modo sbrigativo e senza dare precise spiegazioni. Vi ricorda qualcosa? Tipo Facebook? Un condominio globale da miliardi di iscritti-sudditi governato da un solo uomo che sa tutto di noi e mette al confino digitale chi non gli va a genio. Più che un social network è il sogno di ogni dittatore: basta un click per eliminare il dissenso.
· I 100 anni di Giulio ultimo corazziere del re.
I 100 anni di Giulio ultimo corazziere del re. «Io, il Duce e la resistenza». Pubblicato giovedì, 06 giugno 2019 da Giulia Busetto su Corriere.it. Il re lo chiama per nome. Mussolini lo fissa negli occhi e tira dritto. La principessa Maria Josè si preoccupa per la sua salute. Pio XII «è sofisticato, ma tutto quell’oro addosso mentre la gente rosicchia le suole mi fa un certo che». Siamo in piena guerra mondiale. La seconda. Giulio Biasin giura fedeltà a Vittorio Emanuele III. E lo conquista al punto da diventare presto anche guardia personale della regina Elena. Lui, l’ultimo corazziere del re d’Italia, il prossimo 19 settembre compirà cent’anni. E dall’alto del suo metro e 92 racconta la sua storia. Un giorno rimane colpito da una rivista che ritrae degli uomini a cavallo «elegantissimi. Voglio anche io essere così». Quando lo dice ai genitori il papà sviene. Poi si riprende: «Lì almeno ti raddrizzano loro. Santa, portami una penna — comanda alla moglie lavandaia in dialetto veneziano —. Firmiamo questa carta». Quell’autorizzazione è l’ultimo regalo di papà Bepi a Giulio. Perché una settimana dopo quel vigile urbano «severo ma giusto» morirà d’infarto nella sua cucina, quella di una casetta veneziana del sestiere di Castello. Ma è solo grazie a quella firma che il minorenne diventerà l’ultimo corazziere del Regno. Spalle larghe, sviluppate in canoa. Bellezza composta d’altri tempi. Il segreto? «Ha sempre mangiato qualsiasi cosa, tranne i sassi» lo prende in giro il figlio Francesco. Biasin è appassionato di illustrazioni storiche e modellismo. Fin quando la vista non l’ha tradito ha continuato a costruire velieri con il mezzo guscio delle noci. E il suo re non l’ha mai dimenticato: «Cordiale. Appassionato di numismatica. Memoria d’acciaio. Sapeva i nomi e conosceva i volti di tutti i corazzieri». Giulio vede ancora passare tutti davanti al suo picchetto al Quirinale. «Mussolini era l’unico a fissarti negli occhi. Era guardingo». Anche il fratello Francesco, ammirato dalla carriera di Giulio, diventa corazziere. Alla sua prima scorta del sovrano, appena finito l’addestramento: «Guarda che sei nuovo, il re se ne accorgerà, stai sull’attenti» lo avvisa Giulio. «Non se ne accorgerà» gli risponde il fratello. E così sembra, perlomeno durante il tragitto dagli uffici all’appartamento del Quirinale: «Attenzione, sua maestà il re». Sciabole al vento e passa Vittorio Emanuele. Le porte dell’ascensore non si chiudono. «Il re così si accorge del nuovo corazziere, esce dall’ascensore, si ferma davanti a mio fratello Francesco e lo omaggia con il saluto militare». Quando Francesco sta per morire per un’infezione, è la principessa Maria a ordinare l’importazione di penicillina dall’Africa, invano. Il racconto di Giulio riprende. Ecco la prima visita medica. A Roma riconoscono la sua stazza atletica. «Ho fatto canottaggio per anni». I medici si scambiano uno sguardo d’intesa. «Ti facciamo diventare corazziere del re, ma dovrai fondare il primo corpo dei canottieri dell’arma». Così sarà. «Comincia tutto negli anni 30 — mette a posto le date il figlio —. Col fratello Francesco erano un duo invincibile». Tanto da sfiorare le olimpiadi. Convocazioni e giochi sfumati per la guerra. Poi c’è l’amore per il suo cavallo Barco, purosangue irlandese. Una volta dimentica la stalla aperta «e di notte me lo ritrovo nel camerone dove dormo. Si è fatto tutte le scale del Quirinale». Con la fuga del re dopo l’armistizio Giulio diventa partigiano. Torna a Venezia e con un altro carabiniere libera la caserma di San Zaccaria minacciando i tedeschi col mitra. Nel dopoguerra va a vedere cos’è stato del Quirinale. Tutto è cambiato. Ma basta il suo fischio e in lontananza parte un galoppo. Il suo Barco è ancora vivo. Gli sta correndo incontro.
· Pochi ma buoni. Albertazzi ed i partigiani codardi.
La verità sulle stragi in Valpolcevera e Bolzaneto. Laura Tecce il 26/11/2019 su Il Giornale Off. Un lavoro di ricerca certosina tra documenti d’archivio e testimonianze dirette, alcuni episodi tristemente noti, altri persi nel tempo o occultati con dolo da decenni di storiografia parziale e retorica resistenziale. In tale ottica, la ricerca di una verità che si sostanzia nei dati, senza forzature ideologiche, è stata riportata da Gabriele Parodi e Paola Coraini in Chiedi al torrente. Le stragi partigiane in un quartiere della «Grande Genova», Valpolcevera 1943-1945 (Italia Storica, 2019, 190 pagine, 18 euro). Un saggio scevro da intenti revisionistici – la maggior parte delle prove sono negli archivi della Resistenza, addirittura nelle dichiarazioni e nei memoriali dei partigiani stessi, proprio per evitare strumentalizzazioni – ma senza edulcorazioni. In Valpocevera e a Bolzaneto, furono circa 1.900 le vittime di coloro che per decenni sono stati definiti “liberatori”, quei partigiani dipinti come eroi, che non risparmiarono donne e civili, esseri umani senza colpa, probabilmente inconsapevoli di una guerra di odio e rivalsa. Per tanto, troppo tempo ci siamo dimenticati del sangue non solo dei vinti ma anche di quello di coloro che non avrebbero voluto né vincere né perdere, semplicemente non c’entravano nulla.
Resistenza, un’altra voce fuori dal coro. Mieli: «Ecco al verità sui partigiani comunisti». Il Secolo d'Italia martedì 26 novembre 2019. Dall’agiografia alla storiografia. Meglio, dall’esaltazione faziosa della Resistenza alla sua rivisitazione “senza tabù”. L’invito a guardare senza lenti deformanti uno dei periodi più controversi e cruenti della nostra pur tormentata vicenda nazionale arriva dall’ex-direttore del Corriere della Sera Paolo Mieli. Indubbiamente un atto di coraggio intellettuale. A distanza di oltre settant’anni la Resistenza resta infatti ancora una sorta di zona franca, off limits per l’approfondimento e l’indagine storiografica. Lo ha imparato a sue spese Giampaolo Pansa, ripetutamente insultato dal cosiddetto “popolo della sinistra”. La sua colpa? Aver sollevato il velo di reticenza sulle violenze partigiane negli anni 1944-46. Prima di lui, in verità, e in tempi ben più bastardi, lo aveva fatto Giorgio Pisanò, giornalista e senatore missino. Speriamo vada meglio a Marcello Flores e Mimmo Franzinelli, autori della Storia della Resistenza.
Mieli elogia la Storia della Resistenza di Flores e Franzinelli. È il libro che Mieli invita a leggere senza pregiudizi. Di più: l’ex-direttore del Corsera ripercorre l’ultima fase della guerra civile seguita all’armistizio dell’8 settembre del ’43. Prima dell’aprile 1945, spiega Mieli, la Resistenza era stata caratterizzata da «conflitti interni generati da tentativi scissionisti per ribaltare gli assetti direttivi di un gruppo partigiano». Ma anche da «passaggi contrastati dall’una all’altra formazione, oltreché rivalità tra bande operanti nella stessa zona». Sarebbero proprio questi, sottolinea ancora Mieli, gli aspetti «ignorati o sottovalutati» dalla storiografia ufficiale, spesso trasformatasi in agiografia. Storie di regolamenti di conti e brutale realpolitik rimaste nell’ombra. La ragione per Mieli è semplice: «Il timore di prestare il fianco ai denigratori della Resistenza». Ma, aggiunge, «è stato un grande errori. Gli italiani sarebbero stati in grado di capire».
I precedenti di Pisanò e Pansa. Da qui la necessità si svelare i passaggi cruciali del «biennio della guerra civile», un periodo reso «monco e poco credibile agli occhi dei posteri» dalla retorica degli storiografi di parte che ne hanno cantato solo le gesta eroiche. E così spazio a tradimenti, processi sommari, accuse di spionaggio, fango puro nei confronti di questo o quel partigiano “scomodo”, come nel caso di Dante Facio Castellucci. Pagine truci, come scontri a fuoco scatenati dai comunisti «che intendevano mantenere una supremazia numerica e politica su ogni altra forza», secondo la testimonianza di un militare di rango britannico. Non per caso, l’epicentro di tante violenze è l’Emilia-Romagna, cuore dei partigiani rossi, che non esitarono a venire a patti strategici con i nazisti per eliminare i partigiani «rivali».
Uber Pulga. Partigiano in camicia nera. Carlini racconta Uber Pulga, fascista che si unì a resistenti. Patrizio Nissirio il 10 febbraio 2017 su Ansa. ALESSANDRO CARLINI, PARTIGIANO IN CAMICIA NERA (CHIARELETTERE, pp. 173, 16 euro) Memoria personale e familiare, la Storia della Seconda guerra mondiale e della Resistenza con la maiuscola e quella personale, violenta, drammatica e lacerante del protagonista Uber Pulga: "Partigiano in camicia nera", esordio letterario (ancorché basato su una storia verissima) di Alessandro Carlini, non è un libro che può lasciare indifferenti. Ricostruendo la vita del cugino del nonno, dal quale per la prima volta da bambino ascoltò la storia, Carlini ha scritto, romanzandola, la vicenda di Uber, fascista e poi repubblichino convinto, aguzzino di Slavi nei Balcani, infiltrato tra i partigiani - che finiranno torturati ed uccisi - che negli ultimi mesi di guerra, dopo aver peraltro incontrato Mussolini che lo decora, decide di aiutare la Resistenza. Con conseguenze fatali. L'autore, spinto dalla passione per la Storia e dal desiderio di non far svanire nel nulla quella memoria familiare, ha raccolto una gran quantità di informazioni da fonti orali, ricerche d'archivio, sopralluoghi. L'emozione personale traspare nella elegante prosa, coinvolgente ed a tratti commovente: Uber emerge potente nelle sue contraddizioni, molto diverso da quanti per opportunismo si unirono a una Resistenza alla quale non credevano minimamente in zona Cesarini. Un uomo devastato da chissà quali sentimenti - rimorso? orgoglio tradito? delusione verso il leader che lo aveva mandato in guerra? Non è ovviamente dato saperlo - che non nega la sua identità ma, semplicemente, vede per sé una strada diversa, opposta a quella percorsa fino a qual momento, ideali che ha combattuto che, in extremis, decide di sostenere. Che non cancella il suo passato ma scrive un futuro diverso, anche nella memoria che lascerà alla sua famiglia, o alla Storia. "Partigiano in camicia nera" non intende riscrivere il passato, magari socchiudendo la porta a chissà quale rilettura della Guerra civile, ma offre una visione senza sconti delle contraddizioni di un individuo che in sé racchiude quelle degli anni di conflitto in cui egli crede, vive e muore. Una storia romanzata che costringe il lettore a riflettere sulle domande spietate che probabilmente si fece Uber Pulga. Per le quali, naturalmente, c'è solo la sua personale risposta, e il conto che scelse di pagare. (ANSA).
La storia di Uber Pulga, un "Partigiano in camicia nera". Personaggio controverso, repubblichino, traditore per Salò, combattente per la libertà ma per altri un infiltrato. Un libro di Alessandro Carlini va alle radici storiche di un ragazzo di 25 anni con le sue luci e le sue ombre, che finì fucilato dall'Rsi. Donatella Alfonso il 14 aprile 2017 su La Repubblica. Probabilmente ha ragione nonno Franco, quando al nipote che gli chiede le ragioni della scelta di suo cugino Uber nei momenti più concitati della guerra partigiana, risponde: "Non possiamo sapere quello che Uber ha visto". No, non lo sappiamo cosa ha visto Uber Pulga, il Partigiano in camicia nera protagonista del bel libro di Alessandro Carlini, edito da Chiarelettere (174 pagine, 16 euro). L'autore, scrittore e giornalista (collabora con Ansa e Repubblica) è infatti quel nipote che cerca di sapere dal nonno, ormai molto anziano e ammalato, qualcosa di più sul personaggio più misterioso della loro famiglia, Uber Pulga, appunto. "A Felonica (Mantova) dov'è nato e nel cui cimitero ora riposa, sopra l'ingresso del Comune c'è una lapide ce lo ricorda come 'partigiano' morto col grado di sottotenente - scrive Carlini - nei libri della pubblicistica fascista è considerato un caduto repubblichino. E ancora, il suo nome compare nelle liste dei partigiani di Mantova (...) in provincia di Parma il suo nome è fra quelli dei disertori fucilati dalla Rsi per aver scelto di unirsi alla Resistenza. Se da Mantova si passa il Po e si arriva a Reggio Emilia, il suo nome è coperto dall'infamia e la sua storia è ricordata cine quella di una scaltra e feroce spia fascista, responsabile della morte di due partigiani". Ma chi era, quindi, Uber Pulga? "È quello che ho cercato di scoprire; una persona che si presenta, con addosso la camicia nera della Rsi, ai partigiani delle Sap tra Parma e Reggio, a rischio della fucilazione; e li convince che deve usare la divisa per infiltrarsi tra i fascisti - racconta Carlini - sicuramente una persona che era stata allevata nel solco degli ideali di regime e che, pur rendendosi conto degli errori fatti, li ha portati con sé nella nuova strada che aveva scelto, quella di aderire alla Resistenza. Secondo me Uber Pulga è un esempio di quella zona grigia buona, positiva, degli ex fascisti che hanno deciso convintamente di dare il loro contribuito alla fine della guerra e del regime". Non si tratta di un partigiano del 26 aprile, come furono chiamati i troppi voltagabbana seguiti ai giorni della Liberazione. Uber Pulga restò fascista ma senza esserlo più, o forse fu antifascista pur vestendo ancora la camicia nera. Forse in lui, addestrato in Germania al controspionaggio, infiltrato in una formazione partigiana, responsabile della fucilazione di due di loro, è proprio la gelida stretta di mano di Mussolini che lo promuove sul campo ma che gli si rivela, di colpo, come l'artefice non di un futuro radioso, ma dello sfacelo della guerra e della rovina del paese, a convincerlo che la parte giusta è un'altra. E allora la necessità è quella della sfida, forse anche con l'idea della "Bella Morte" a cui facevano riferimento gli arditi del popolo mussoliniani. Traditore e leale, allo stesso tempo e su due fronti? Sicuramente Pulga riconosce il male fatto dal fascismo, ma tiene conto di un codice che è quello di essere al servizio di chi asserisce di volere il bene degli italiani. Non a caso, nell'aula davanti al Tribunale repubblichino che lo condannerà a morte, dirà: "Dico solo questo, che non rinnego nessuna delle mie azioni". Carlini racconta di aver lavorato molto sui documenti degli istituti storici della Resistenza di Parma e Reggio Emilia, di aver letto i verbali che portano alla fine Pulga, all'alba del 25 febbraio 1945, a essere fucilato come traditore, con la faccia rivolta al muro, dai suoi ex camerati d'arme della Rsi; aveva 25 anni. Una storia non facile da raccontare, che tiene ben distinte le due anime di Uber, ma che cerca di capire la realtà di coloro che fecero la scelta più difficile. "A me hanno colpito due sue foto, una del 1940 in cui è serio, posato; cinque anni dopo, poco tempo prima di morire, è un'altra persona, non più il militare tutto d'un pezzo, ma un giovane che sorride", aggiunge ancora Carlini.
Chi era Uber Pulga, “partigiano in camicia nera” che scelse la libertà senza nascondere il suo passato. La lacerante biografia di Uber Pulga, nato a Felonica (Mantova) nel 1919, è raccontata in un libro, Partigiano in camicia nera (Chiarelettere), scritto dal giornalista Alessandro Carlini. Opera letteraria che rifugge sembianze e struttura di un possibile saggio storico e che invece si trasforma in romanzo lucido ed appassionato. Davide Turrini il 25 Aprile 2017 su Il Fatto Quotidiano. Un partigiano in camicia nera. Sì, proprio così. L’irriducibile divisione nazionale, civile e politica dell’Italia novecentesca sembra essere cucita addosso a Uber Pulga. Quando nel suo penultimo capitolo di vita, all’incirca fine gennaio 1945, in un deposito militare di Reggio Emilia, sta rubando mitragliatrici, bombe a mano, pistole e lanciarazzi, per portarle ai partigiani su un collina, Pulga veste la sua camicia nera. Quella d’ordinanza, quella dov’erano appese onorificenze da boia di guerra, quella da spia e traditore. Non c’è nessun mascheramento. Pulga non si spoglia di quello che è, ed è stato, per indossare nuovi panni. L’ufficiale fascista di Salò sceglie la “libertà”, il “futuro”, il “mondo nuovo”, senza nascondere il suo passato. E così viene arrestato dai repubblichini, torturato, messo al muro, ucciso con le pallottole di bersaglieri e nazisti. Voltagabbana? Opportunista? Doppiogiochista? La lacerante biografia di Uber Pulga, nato a Felonica (Mantova) nel 1919, è raccontata in un libro, Partigiano in camicia nera (Chiarelettere), scritto dal giornalista Alessandro Carlini. Opera letteraria che rifugge sembianze e struttura di un possibile saggio storico e che invece si trasforma in romanzo lucido ed appassionato. Dieci capitoli, dieci tappe del Pulga adulto dal 1942 al 1945, dieci quadri che sembrano gli antichi pannelli disegnati di un cantastorie. Pulga è imbarcato come caporale del Regio esercito nell’aprile del ’42. Va, convinto e feroce, alla conquista dello “spazio vitale” inneggiato dal Duce. Marcia verso Est, in bocca ai comunisti slavi. Bestie, carogne, pidocchi. Pulga assaggia la paura dell’essere ucciso senza perché, all’improvviso, e quindi decide di uccidere per primo. Spara, sgozza, incendia case, e avanza nella storia provocando morte e odio. Flashforward: siamo nei dintorni dell’8 settembre 1943. L’armistizio Uber lo vive in Sardegna su una camionetta del XII battaglione dei paracadutisti della Nembo. I ‘ribelli’ che stanno coi tedeschi corrono verso la Corsica e conservano sotto un telone il corpo del loro comandante che avrebbe voluto arrendersi ma che è finito ucciso da una mitragliata di piombo probabilmente “amico”. Ancora un salto in avanti: ottobre 1944, Pulga è arruolato dal servizio segreto delle SS, imparato il tedesco diventerà una spia, finto disertore altoatesino, tra le fila dei partigiani reggiani. Pochi giorni dopo, il nuovo capitolo, nascosto in un casa isolata di campagna da un distaccamento partigiano. Accudito, accolto come amico, destinato al cruciale compito di armiere, Pulga sabota infine un’azione armata della Resistenza. Due partigiani in fuga ne intuiscono la vera identità, intanto Uber assieme ai militi delle Brigate Nere tortura, uccide, e fa uccidere, proprio come faceva in Jugoslavia, due partigiani che gli erano stati a fianco. E ancora: tra la fine del dicembre ’44 e inizio gennaio ’45 diventa sottotenente del divisione Italia nel parmense. Incontra perfino Mussolini che lo promuove di grado personalmente. Solo che Pulga di fianco al mito, smunto ed emaciato, niente più pupille roteanti dal balcone, sente puzza di stantio e di fine imminente. Gli ideali di libertà e di una società giusta ed egualitaria carpiti tra i partigiani Rus e Noli non sono passati invano. L’odio fascista verso il nemico si trasforma prima in tormentato e mostruoso senso di colpa, poi in aiuto concreto per una nuova causa. Uber salta ancora il fosso e diventa anche solo per poche settimane un partigiano. Ed eccolo lì nel tentativo di rubare armi ai nazifascisti mentre veste la camicia nera, che viene riempito di botte dalle Brigate Nere e infine giustiziato.
Solo un prete, Don Augusto Sani, il cappellano militare, raccoglie la confessione di Uber Pulga in punto di morte. Un lungo flashback che sembra un film srotolato alla maniera del Lucien Lacombe di Louis Malle. Dolore, pena e incertezza che richiamano i cumuli di macerie dell’Italia distrutta dalla guerra civile di un Marco Laudato di Tiro al Piccione, come quella febbrile insofferenza del Partigiano Johnny di Fenoglio. “C’è una memoria e una letteratura resistenziale e, negli anni più recenti, ne abbiamo avuta una di Salò. Mancava una vicenda che le contenesse entrambe, quelle due componenti conflittuali della nostra storia, senza scivolare nel revisionismo”, ha spiegato in un’intervista Alessandro Carlini che ha raccolto prove documentali per almeno quindici anni, tra cui la lettera originale del cappellano Sani, e ha ricostruito la vicenda di Pulga, cugino di secondo grado di suo nonno Franco, alla cui memoria è dedicato il libro.
Carlini è in grado di far vibrare violenza e redenzione dell’agire di Pulga, centellinandone la trasformazione etica e sociale, scivolando nello stridore dell’avventura insanguinata della guerra, e rendendolo una sorta di prisma, specchio e controluce di una pacificazione politica e storica che in Italia non è ancora arrivata . “Guardami bene, ti dico, guardami bene”, si rivolge il Pulga, inventato grazie ad un lirismo da grande romanziere da Carlini, all’ultimo partigiano che lo accoglie da ufficiale realmente pentito che vuole aiutare la Resistenza. “Questo è il brutto muso dell’Italia cattiva e sconfitta, anche se mi odi devi ricordarti che sono italiano come lo sei tu e se volete essere diversi prendete da noi il meno che potete. Se mi ammazzi, qui, così, diventi uguale a me, da Abele un maledetto Caino. Uguale a me, che anche se mi tolgo la divisa come vuoi tu, se la brucio, come vuoi tu, se la strappo e la riduco in mille pezzi, non cambia niente. Ho il cuore nero e così resta. Io sono il perdente e il rinnegato. Io pago per le mie colpe, che non ti dico, perché ti chiedo di non pagarle al posto mio. Dammi solo modo di rinnegare l’imboiatura di un regime che ci ha lasciato solo il bel gesto dell’ammazzarci. Almeno se devo farlo lo faccio per la causa che ora mi ordina la coscienza e non più un dittatore, un generale, o un tedesco”.
Partigiani, quei patrioti (uomini e donne) che hanno restituito l’onore all’Italia. Pubblicato mercoledì, 24 aprile 2019 da Corriere.it. Storia complessa quella di alcune parole che vivono un significato nobile e diventano paradigmi positivi eppure ne conservano sfumature di tutt’altro tenore. Una di queste è partigiano. Letteralmente significa «di parte», ovvero persona schierata con una delle parti in causa. Nella nostra storia «partigiani» sono stati i protagonisti della Resistenza contro il nazifascismo e in particolare contro le truppe tedesche di occupazione e i fascisti della Repubblica di Salò. In generale con partigiani si identificano coloro che si sono ribellati nei paesi occupati dalle truppe dell’Asse durante la seconda guerra mondiale. Un partigiano quindi è un combattente armato ma non è un soldato. Infatti non appartiene ad un esercito regolare ma ad un movimento di resistenza e che solitamente si organizza in bande o gruppi, per fronteggiare uno o più eserciti regolari, con l’aiuto determinante della popolazione civile. ingaggiando quella che viene definita una guerra asimmetrica. Così la «lotta partigiana» si intende una guerra di difesa di natura civile contro un’occupazione militare. Una forma di conflitto dichiarata legittima anche dall’ Assemblea Generale dell’ONU nel 1965. Il 25 Aprile di ogni anno festeggiamo la Liberazione e in particolare celebriamo il giorno nel 1945 in cui il Comitato di liberazione nazionale dell’alta Italia proclamò l’insurrezione di tutti i partigiani contro gli occupanti nazifascisti. Cioè il giorno in cui abbiamo riconquistato la dignità che il fascismo aveva infangato con la dittatura, con le leggi razziali, con l’abolizione delle libertà civili. In quel Comitato di liberazione c’erano esponenti politici molto diversi, cattolici, socialisti, comunisti, liberali. A tutti fu molto chiaro che l’interesse e la dignità del paese dovessero essere prevalenti rispetto a ogni egoismo politico. È lo stesso spirito che ci ha portato alla nascita della Repubblica italiana e al varo della Costituzione. Per questo non festeggiamo il 3 maggio, giorno in cui effettivamente si smise di combattere in Italia. Il numero dei caduti nella Resistenza italiana (in combattimento o eliminati dopo essere finiti nelle mani dei nazifascisti), è molto alto. Secondo studi accreditati, ripresi dall’Anpi (Associazione nazionale partigiani) sono stati complessivamente circa 44.700; altri 21.200 rimasero mutilati o invalidi. Tra partigiani e soldati italiani caddero combattendo almeno 40 mila uomini (10.260 furono i militari della sola Divisione Acqui, caduti a Cefalonia e Corfù). Altri 40 mila IMI (Internati Militari Italiani), morirono nei Lager nazisti. Le donne partigiane combattenti furono 35 mila, e 70 mila fecero parte dei Gruppi di difesa della Donna. 4.653 di loro furono arrestate e torturate, oltre 2.750 vennero deportate in Germania, 2.812 fucilate o impiccate. 1.070 caddero in combattimento, 19 vennero, nel dopoguerra, decorate di Medaglia d’oro al valor militare. Durante la Resistenza le vittime civili di rappresaglie nazifasciste furono oltre 10.000. Altrettanti gli ebrei italiani deportati; dei 2000 di loro rastrellati nel ghetto di Roma il 16 ottobre 1943 e deportati in Germania se ne salvarono soltanto 11. Tra il 29 settembre 1943 e il 5 ottobre 1944 nella valle tra il Reno e il Setta (tra Marzabotto, Grinzana e Monzuno), i soldati tedeschi massacrarono 7 partigiani e 771 civili e uccisero in quell’area 1.830 persone. Per quella strage soltanto nel gennaio del 2007 (dopo la scoperta dell’«armadio della vergogna» dove erano stati occultati i fascicoli) il Tribunale militare di La Spezia ha condannato all’ergastolo dieci ex SS naziste. I partigiani sono patrioti che hanno combattuto per la libertà e per restituire l’onore ad un paese infangato dai crimini fascisti. Resta solo da accennare al fatto che chi vuole sottolineare la parte più ambigua di questa parola, cerca di spingere «partigiano» verso il significato di fazioso, settario, in generale non obiettivo. Ma in questo chiaroscuro, quelle caratteristiche che vorrebbero sminuire il valore della parola, potrebbero essere parimenti rivendicate come virtù. E, in un prossimo futuro, i vocabolari potrebbero scegliere, come contrari di questa parola, indifferente o conformista, per disegnare l’assenza di passione e la scelta di non rischiare mai niente.
Albertazzi: il fascista anarchico che amava Pavolini e odiava la destra, scrive Adriano Scianca il 29 Maggio 2016 su Il Primato Nazionale. «Lei è un uomo di destra?». «Non lo sono stato a vent’anni, figuriamoci se posso esserlo oggi». Giorgio Albertazzi non era fatto per compiacere le menti asfittiche e i cuori di latta. E quando diceva di non essere di destra (al Fatto quotidiano, nello scambio di cui sopra) era solo per posizionarsi in un altrove alieno da tutti i conformismi. Nietzsche vagheggiava di un «Nuovo Partito della Vita». È l’unico a cui Albertazzi sia mai stato iscritto. Ma nei suoi vent’anni, gli stessi in cui, appunto, «non era di destra», aveva intravisto la vita indossare una divisa con gli emblemi della morte. Classe 1923, Albertazzi era cresciuto da fascista, come tutti quelli della sua generazione. Con il mito di Mussolini, ma anche con il culto estetico della Germania hitleriana: «La croce uncinata era bellissima, come bandiera, e anche certe divise nere dei nazi», scriverà nella sua autobiografia. Era impazzito per la guerra di Spagna, «una guerra stupenda per ardimento scontro ideologico eroismi: i rossi che stuprano i conventi, Barbadiferro che combatte con la sciabola, eccetera (mi rendo conto di scrivere alcune cose irresponsabili, ma assicuro che le penso tutte irresponsabilmente)». Poi venne il 25 luglio e l’8 settembre. In mezzo, uno zio ammazzato di botte dagli antifascisti e un voltafaccia senza onore e senza decoro («Mi ricordo la faccia da caratterista americano di secondo rango di Badoglio, figura ambigua e meschina: non mi piaceva»). L’arruolamento nella Repubblica sociale venne da sé. Cosa spinse il giovane Albertazzi a schierarsi per il fascismo repubblicano? «Era la paura (dignitosa) di mio padre, gli occhi ansiosi (lo sguardo!) di mia madre e il silenzio (vile) dei fascisti (degli ex). Tutto ciò mi spinse a scegliere i perdenti, in una specie di sonnambulismo. Scelsi non coloro che si erano già arresi, che disprezzavo, bensì la causa perduta (alla fine del ’43 gli alleati e l’Urss avevano già vinto), contro il conformismo piccolo borghese, che già si preparava ad acquattarsi nelle pieghe della Resistenza». Ma non c’era solo l’onore perduto da riscattare. In qualche modo baluginava anche il sogno di una rivoluzione sociale contro tutti i potentati conservatori: «Scelsi la Repubblica, che voleva dire, per me, un altro fascismo, non orpelloso, non coi fregi d’oro, non quello del maresciallo dell’Impero, non quello monarchico, non quello della Chiesa – lo scelsi nell’illusione, forse, che fosse ancora quello che nasce dalla costola del socialismo libertario di mio nonno Nando». Venne la guerra civile, quindi. Nei ricordi dell’attore, una figura emerge in modo particolarmente limpido: Alessandro Pavolini. Albertazzi fa giustizia sullo stereotipo che ne ha fatto un visionario, un esaltato, un pazzo. «Secondo me – racconta – Pavolini aveva perfettamente il senso della realtà: non si fa una guerra come quella, già perduta, se non per affermare proprio una realtà: essere disposti a morire per un’azione da compiere, un’estetica della morta». Sulla recente polemica a proposito dei partigiani “veri” o “falsi”, Albertazzi avrebbe potuto raccontare la sua esperienza: «Forse non dovrei dirlo – non sta bene! – ma io i partigiani li ho sempre visti scappare, le poche volte che li ho visti». Alla fine li avrebbe visti, intenti ad appendere Mussolini e gli altri gerarchi all’insegna di una pompa di benzina: «Piazzale Loreto fu solo macelleria messicana. Niente altro. Fu uno schifo, per chi l’ha voluto e chi l’ha portato a termine», disse senza mezzi termini, ancora al Fatto. Nel dopoguerra, la sua unica “militanza” sarà per il teatro, anche se nelle elezioni del 1975 si presentò con i Radicali: Pannella, disse, era «il solo capace di intuizioni non legate all’apparato», anche se la sua «voglia di far spettacolo è talmente visibile da appannare qualche volta la lucidità politica». Sempre altrove, Albertazzi. Sempre odiato dai custodi delle ortodossie. Di Repubblica, che lo detestava, diceva: «È un giornale molto snob: i giornalisti di Repubblica si vestono in un certo modo, portano certi capelli, ironizzano in un certo modo, scrivono in un certo modo, le donne di Repubblica le riconosci lontano un miglio (sono fascinose e di bella gamba, in genere). Sono tutti imbarcati su un’arca, l’arca dell’impegno vissuto con discreto cinismo». Quando CasaPound decise di ribattezzarsi per un giorno CasaBene, in omaggio a Carmelo Bene, nei 10 anni dalla morte del grande artista, qualcuno chiese ad Albertazzi cosa ne pensasse, nella speranza che si intruppasse nell’esercito degli indignati speciali. Il maestro si fece trovare ancora una volta altrove rispetto al benpensare: «Provo un po’ di amarezza perché sono vivo… Sarebbe stata una felicità che l’avessero intitolata a me». Non è mai troppo tardi. Adriano Scianca
Giorgio Albertazzi: “Scelsi la parte dei perdenti, la Rsi. Piazzale Loreto? Fu macelleria messicana”. Nell'intervista al Fatto del 2015, l'attore parla della sua adesione alla Repubblica di Salò. "La fama di fascista non me la sono mai scrollata di dosso. Andai come tanti ragazzi, convinto che lì si combattesse per l’Italia, ma con altro spirito". E aggiunge: "Misi in salvo 19 ebrei", scrive Emiliano Liuzzi il 28 Maggio 2016 su Il Fatto Quotidiano. Riduttivo chiamarlo col suo nome e cognome, Giorgio Albertazzi, con tutto quello che comporta essere nati a Fiesole, sulle colline del Rinascimento. Meglio maestro, perché è quello che è sempre stato. E a 93 anni è più lucido di sempre, uno dei più grandi intellettuali che l’Italia ha avuto, anche se l’adesione alla Repubblica sociale certi ambienti della sinistra non gliel’ha mai perdonata. “Neanche io, se è per questo, me la sono mai perdonata. Ma scelsi la parte dei perdenti, quella della Rsi, e lo feci più che per un istinto anarchico che non per convinzione. Fu un mio dramma personale, ma senza rinnegarlo o cercare scorciatoie. Poi a me il pentitismo non piace”. Lui non l’ha mai ammesso, ma gli viene imputato di aver partecipato a fucilazioni, anche se nel 1989 venne assolto perché “costretto, ma non estraneo ai fatti”. Attore, regista, scrittore. Grande seduttore. È tutto Albertazzi. Seduce solo a sentirlo parlare, anche attraverso quella distanza che un telefono non può colmare. Seduce perché l’uomo è vero, senza fronzoli. Non ne ha tempo. È il teatro che, a differenza del cinema, fronzoli non ne permette. Seduce la voce, seduce tutte le sere che si apre il sipario. E l’età è un problema accessorio, per chi come lui sul palcoscenico è nato. Lo chiamiamo per sapere di piazzale Loreto. Del luogo come epilogo di una guerra civile che andava a finire un ventennio di fascismo. Albertazzi non era a piazzale Loreto, ma aderì alla Rsi, gli ultimi fascisti. Come lui Dario Fo, ma anche Ugo Tognazzi, Raimondo Vianello, Marco Ferreri e molti altri.
Maestro, per lei cosa fu piazzale Loreto? Era l’epilogo naturale di una rivoluzione?
«Piazzale Loreto fu solo macelleria messicana. Niente altro. Fu uno schifo, per chi l’ha voluto e chi l’ha portato a termine quel disegno. Ma non poteva essere evitato, non nel senso politico del termine, ma perché l’uomo è quella cosa lì».
Un animale?
«Il peggiore degli animali. E quello che accadde a piazzale Loreto mi ripugna, mi angoscia e mi fa rabbrividire ancora il ricordo. Peserà come una macchia indelebile. E tutti gli altri piazzali Loreto che abbiamo dimenticato e che ci sono ancora oggi, in mondo apparentemente lontani come la Siria, la Libia, l’Iraq».
Lei aderì alla Repubblica sociale. Ma era a piazzale Loreto la notte che venne portato il cadavere di Mussolini?
«Non ero in Italia. Io ero a combattere. Paradossalmente contro i tedeschi che erano i nostri alleati. Ma nella confusione di quei giorni ci trovammo a sparare ai tedeschi, in Austria, tra le montagne innevate. Senza più niente».
E cosa dice a quelli che a Milano c’erano alle 3 di notte?
«Dovevano portare il peso della vergogna per quello che fecero, come lo fecero. Come io ho portato la vergogna di essermi schierato coi fascisti».
Abbiamo capito il concetto. Ma l’uomo è migliorato o è sempre quello?
«Siamo all’età del ferro. Siamo regrediti, peggiorati. L’uomo è barbaro. Ha ucciso nel nome di Dio, e continua a farlo. Quale aberrazione è ? Ma non credo ci sia profonda differenza tra le crociate dei cristiani e quelli che ammazzano nel nome di Allah. Tutte le guerre hanno sempre trovato una miccia religiosa. La pretesa di sostenere che il mio Dio è migliore del tuo».
Le sue parole, maestro, sono quelle di chi ha perso la speranza.
«No, io non ho perso nessuna speranza, sono sempre convinto che l’amore e la leggerezza ci salveranno, alla fine. Quando la discesa al degrado un giorno si fermerà. Perché dovrà fermarsi. Purtroppo abbiamo vissuto in tempi irrespirabili. Ma la bontà dell’amore quella non può togliercela nessuno, è come l’equazione di Einstein applicata alla leggerezza».
Lei è un uomo di destra?
«Non lo sono stato a vent’anni, figuriamoci se posso esserlo oggi».
Però aderì alla Repubblica di Salò, la domanda è lecita.
«La fama di fascista non me la sono mai scrollata di dosso. Andai a Salò come tanti ragazzi, convinto che lì si combattesse per l’Italia, ma con altro spirito, e soprattutto consapevole che in quel momento stavo dalla parte di chi già aveva perso. Come dissi in un’intervista all’Espresso nella sentenza del Tribunale militare che mi ha assolto in istruttoria dopo due anni di carcere preventivo, c’è scritto che ho messo in salvo 19 ebrei. Ma non l’ho mai raccontata questa cosa. Non mi andava. le mie responsabilità, seppur di ventenne, me le prendo tutte. Senza vittimismo o pentitismo. Ma ripeto che quello che avvenne a piazzale Loreto fu un teatro dell’orrore, inutile, anche per l’epilogo della rivoluzione civile».
Oggi cosa vede?
«Vedo quello che non vorrei, la violenza che come diceva Shakespeare, manda l’uomo fuori dai cardini. Gli toglie l’intelligenza, il ragionamento. È tutto molto violento, la vita quotidiana è violenta. Lo siamo noi, uomini, e tutto quello che poi creiamo, a eccezione della poesia, è di una violenza inaudita».
L’ultima battaglia politica è quella contro i rom.
«Questo siamo. Inaudito, per questo le dicevo in apertura che siamo all’età del ferro senza nessuna possibilità di svoltare. Fare tesoro degli errori senza farsi il segno della croce e così sia».
E la salvezza dove va cercata?
«Nella leggerezza, nel sorriso, come diceva Calvino».
E il maestro Albertazzi la salvezza dove l’ha trovata?
«Nella poesia. Invocherei la morte se non ci fosse la poesia, l’amore. Il teatro».
ALTRO CHE FENOMENO DI MASSA, LA RESISTENZA ITALIANA! DAGONOTA il 17 aprile 2019. “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati”. Parole sante, queste di Piero Calamandrei, cantore della Resistenza: gli antifascisti che caddero nei campi o che furono seviziati nelle prigioni furono dei veri eroi. Furono martiri straordinari. Però, purtroppo, furono veramente pochini. Gli italiani si iscrissero al Pnf (era obbligatorio per avere un impiego) a milioni. Ma solo in 137.344 rialzarono coraggiosamente la testa e imbracciarono le armi contro i nazifascisti. Le ultime ricerche uscite sul Portale dell’Archivio centrale dello Stato (riportate da Giovanni De Luna su “La Stampa”) dicono proprio questo. Altro che fenomeno di massa, la Resistenza italiana! E non solo. L’opportunismo dominò alla grande: il numero dei resistenti andò in crescendo come il “Bolero” di Ravel con l’avanzare degli Alleati: 10mila furono i partigiani dopo l’8 settembre 1943, i combattenti furono 20-30mila nel febbraio-marzo 1944 e 120-130 mila nei giorni precedenti il 25 aprile. E a guerra finita diventarono ben 250mila. Furono però in 650mila coloro che avanzarono richieste di riconoscimento (in gran parte farlocche e non documentate) dichiarando la loro militanza in Brigate Garibaldi, nel Corpo Volontari della Libertà e affini. Se si veniva annoverati nelle liste dei partigiani ci si conquistava una paghetta niente male (tra le mille e le 5 mila lire). Ma, cosa più importante, ci si faceva il lifting, si cancellavano le macchie nere lasciate dalla precedente militanza fascista. Insomma, alla solita maniera degli italiani, in molti volevano saltare sul carro dei vincitori. Al contrario degli scrittori e dei poeti che celebravano la Resistenza-fenomeno di massa - come Calamandrei, Quasimodo, Ungaretti (che si dovevano anche loro lavare la coscienza) - il segretario del Pci, Palmiro Togliatti fu consapevole che la neonata Repubblica non si fondava sull’antifascismo (di massa). Promulgò amnistie e sdoganò pezzi grossi. Fecero importanti carriere nel dopoguerra persino i giudici che avevano presieduto il Tribunale della razza e avevano destinato al lager i concittadini di religione ebraica. Il Migliore giunse anche ad aprire le porte del suo partito a tanti ex fascisti, forse perché di veri antifascisti ce ne erano stati troppo pochi.
PARTIGIANI D'ITALIA NON TANTI MA BUONI. ECCO I NUMERI DELLA RESISTENZA. Giovanni De Luna per La Stampa il 17 aprile 2019. Al 25 aprile 1945, il numero dei partigiani ammontava, secondo alcune ricostruzioni, a circa 250 mila. Pochi rispetto ai milioni di italiani che si erano iscritti al Pnf e che avevano affollato le piazze di Mussolini; molti rispetto alla scelta che furono chiamati ad affrontare dopo l' 8 settembre, rifiutando sia le lusinghe del «tutti a casa», sia l' obbedienza ai bandi di arruolamento nell' esercito di Salò. Nel primo caso, sarebbero comodamente sprofondati nel ventre delle loro case e delle loro famiglie, limitandosi ad aspettare che passasse «'a nuttata»; nel secondo, si sarebbero messi al sicuro dall' incubo degli arresti, delle deportazioni, delle rappresaglie, rifugiati sotto l' ombrello protettivo della Wehrmacht e della sua poderosa forza armata. Scelsero invece di impugnare le armi contro i tedeschi e i fascisti, di ritrovare, in quel gesto, la pienezza di una sovranità individuale smarrita in venti anni di dittatura, di obbedienza passiva a un regime claustrofobico e soffocante. Furono comunque una minoranza; nei numeri e nella loro stessa autorappresentazione si percepirono come tali, ed ebbero ben chiaro il compito di riscattare, con il loro coraggio, l' ignavia delle maggioranze che avevano supinamente accettato la cancellazione della libertà e della democrazia. Cifre oscillanti È in questo senso significativa una ricerca che si è concentrata proprio sulla dimensione quantitativa della Resistenza, dedicandosi allo studio di circa 650.00 schede relative alle richieste di riconoscimento delle qualifiche partigiane conservate presso l' Archivio Centrale dello Stato. Subito dopo la fine della guerra, per vagliare quelle richieste si insediarono apposite Commissioni regionali e nazionali. Il loro lavoro si presentò subito irto di difficoltà. Si trattava di «normare» una guerra che era stata soprattutto una guerriglia e di stabilire delle regole da applicare in un mondo partigiano che era nato contro le regole, per sua natura fluido, spesso incline più alla spontaneità che all' organizzazione. Anche le cifre erano tutt' altro che certe e risentivano delle varie fasi che avevano scandito le operazioni militari. Così, si può concordare con Guido Quazza che parlò di 9-10.000 combattenti nel dicembre 1943, 20-30.000 nel febbraio-marzo 1944, 70-80.000 uomini nell' estate del 1944, 120-130.000 nei giorni immediatamente precedenti l' insurrezione del 25 aprile, fino ai 250.000 finali, dei quali «150.000, colorita e non sempre utile retroguardia». Le Commissioni operarono sulla base di criteri che erano il più vicino possibile alla realtà, che però non riuscivano a intercettare nella sua interezza. Furono introdotte distinzioni che riguardavano chi aveva operato al Sud della Linea Gotica; ci si limitò a riconoscere solo le formazioni indicate dal Cvl (Corpo Volontari della Libertà), penalizzando quelle che avevano operato spontaneamente; si privilegiò l' aspetto militare della Resistenza, così che al Sud si prese in considerazione come titolo di merito solo la partecipazione alle quattro giornate insurrezionali di Napoli. Si stabilirono diverse categorie di partigiani (combattente, patriota, benemerito ecc.) e per ognuna si richiedevano requisiti diversi (a partire dalla presenza continuativa in banda di almeno tre mesi). Gattopardismo di massa A sollecitare le richieste di riconoscimento c' era anche un interesse economico, la possibilità di percepire un «premio di solidarietà» che oscillava tra le mille e le cinquemila lire, più o meno lo stipendio mensile di un impiegato. Cifre irrisorie che però, in un' Italia stremata dalla guerra, erano molto appetibili. A questo «opportunismo della miseria» se ne aggiungeva un altro, che trovava le Commissioni particolarmente vigili: in un' Italia perennemente sedotta dalla corsa sul carro dei vincitori, ottenere la qualifica di partigiano fu visto anche come una scorciatoia trasformistica per lavarsi la coscienza e rifarsi una verginità democratica. Per fronteggiare questo «gattopardismo di massa» i partigiani chiamati a far parte delle Commissioni usarono criteri particolarmente severi. Ad esempio, quella piemontese, presieduta dal generale Trabucchi, «riconosciuto che molte di tali domande si basavano su dichiarazioni di comodo, od addirittura false», decise di procedere con accertamenti a mezzo di testimonianze orali in contraddittorio. Nell' agosto del 1946 risultavano esaminate in questo modo 26.318 domande. Trabucchi scrisse nella relazione al ministero che prevedeva di riconoscere in Piemonte circa 30.000 partigiani combattenti, «con un risparmio all' erario di circa 500.000.000 rispetto a quanto importerebbe il criterio di "umana comprensione" che qualcuno suggerisce di adottare». Intransigenza morale Più che un criterio contabile di risparmio, si poneva come metro di giudizio «un criterio morale», che doveva indurre la Commissione «alla severità». Se si considera che «la lotta fu condotta da una minoranza», sostenevano i piemontesi, «è giusto che soltanto a questa minoranza sia riservato il riconoscimento di un titolo che deve avere particolare valore». Il «partito dei fucili», quello dei partigiani che «avevano fatto» la Resistenza, si schierava così anche contro le ragioni dei «partiti delle tessere», quelli che fondarono la Repubblica e che, senza guardare tanto per il sottile, cercavano un consenso elettorale il più vasto possibile. Alla fine, secondo i dati definitivi, furono 137.344 i partigiani combattenti ufficialmente riconosciuti, una cifra che non si discosta molto da quella indicata da Quazza. Anche per questa intransigenza, le Commissioni si ritrovarono a operare in condizioni molto difficili: un' organizzazione precaria, la diffidenza delle autorità militari, le impazienze di chi voleva liberarsi al più presto del peso morale della Resistenza. Dal 1948 in poi questo clima si fece particolarmente pesante. A quel punto, il sistema dei partiti si era ormai consolidato e la corsa sul carro dei vincitori cambiò obiettivo. Il flusso delle richieste di riconoscimento della propria militanza partigiana si azzerò, e al Sud, per qualche anno, dichiarare di aver partecipato alla Resistenza divenne addirittura l' anticamera della discriminazione, quasi un demerito. Oggi, il Portale inaugurato presso l' Archivio centrale dello Stato - che rende accessibili tutte le schede con le richieste avanzate allora - offre la possibilità di confrontarsi con l' operato di quelle Commissioni e di guardare a quella esperienza come a un ultimo lascito di chi tentò di fare del partigianato un magistero di apostolato civile, interprete di uno spirito che la Resistenza riuscì a trasfondere anche nella Costituzione.
· Gap. Azioni e ritorsioni: Resistenza, Guerriglia o Terrorismo?
Sant'Anna di Stazzema, 75 anni fa l'eccidio: storie di bambini e di miracoli. Il 12 agosto del 1944, i soldati tedeschi misero a ferro e fuoco il paesino dell'Alta Versilia dove avevano trovato rifugio migliaia di sfollati in fuga da guerra e bombardamenti. Le vittime accertate furono 560, in prevalenza donne e minori. Raccontiamo quel terribile giorno attraverso le storie di mamme e bimbi, perchè la memoria è un dovere di fronte all'attuale rigurgito di simboli e idee nazifasciste. Raffaele Cortese e Marco Patucchi il 12 agosto 2019 su La Repubblica. C’è una grande vallata che scende fino al mare, ricamata da castagni e ulivi. Poche case, qualche roccia bianca appuntita. Una mamma stende il bucato al sole. Il profumo di pulito si mischia a quello delle erbe selvatiche. Ha bisogno di un filo molto lungo per mettere ad asciugare tutti quei panni: le camice di Anna Maria e Luciana, adolescenti, che ci tengono ad essere sempre a posto; i pantaloncini degli unici due maschietti, Eros e Feliciano; gli abitini di Maria Grazia, Franca e Carla; i lenzuolini della piccolissima di casa, Maria, di appena tre mesi. Quella bella signora di 39 anni è Bianca Prezioso, origini napoletane, la moglie di Antonio Tucci, tenente di Marina di stanza a Livorno. Pluridecorato, in cuor suo, dopo aver conosciuto la Grande Guerra, aveva sperato di non dover rivivere qualcosa di simile. Si sbagliava. Lasciata Livorno, bersagliata dai bombardamenti, sfollano in un posto tra le montagne della Versilia apparentemente al riparo dalle rotte di eserciti e aviazione: Sant’Anna di Stazzema. Proprio Sant’Anna, protettrice delle mamme e delle partorienti. Bianca ogni giorno le rivolge, in silenzio, una preghiera. Sant’Anna, poco più di 600 metri di altezza nelle Alpi Apuane. C’è un’unica strada per arrivarci: tante curve e nuvole di polvere. La chiesa, pochi casali sparsi, il bosco. Gli abitanti sono 340, ma nell’estate del 1944 il numero arriva a duemila con i tanti sfollati di guerra che cercano riparo. Alcuni dei Tucci si sistemano nella canonica, i più grandi nelle aule della scuola. Feliciano, Eros e Franca, trovano a Sant’Anna altri bambini, in particolare Enrico Pieri, “Poldina” Bartolucci e Enio Mancini, più o meno della loro stessa età. Anna Maria, Luciana e Maria Grazia conoscono Cesira Pardini, coetanea. La prima domenica dei Tucci inizia con la messa. A Sant’Anna non c’è un parroco, ma Don Giuseppe Vangelisti, della vicina frazione La Culla, conosce ad uno ad uno i “santannini”: per lui sono come persone di famiglia.
San Lorenzo, notte senza stelle. La sera dell’11 agosto le mamme di Sant’Anna cantano la ninna nanna ai figli più piccoli. Quella precedente è stata la Notte di San Lorenzo, ma c’è poca voglia di cercare stelle cadenti. E’ come un presentimento: nessun desiderio potrà mai essere esaudito. Al mattino si spalanca un baratro senza fine. Si diffonde la notizia che i nazifascisti stanno salendo verso il paese. La moglie di Antonio lo convince a fuggire nei boschi. Bianca e gli otto bambini invece restano nella canonica pensando che donne e bambini non possano mai essere vittime deliberate della guerra. Invece si scatena l’inferno. I tedeschi urlano l’ordine di ammassarsi nella chiesa. Accatastati arredi e paglia danno fuoco a tutti e a tutto. Mostri ripugnanti a mille teste, che non risparmiano neanche i neonati. Quando Antonio torna in paese scopre quello che rimane dell’immenso rogo e di centinaia di vite spezzate. Riconosce Bianca che stringe ancora la piccolissima di casa tra le braccia. Stordito, fuori di senno, riesce appena a immaginare la fine degli altri suoi bambini. Inizia a camminare verso il nulla. Tornerà a Foligno dai genitori. Proverà a ricostruire una vita risposandosi con Derna, una donna di Terni, avrà altri tre figli (Eros, Feliciano e Anna Maria). Ma all’età di 58 anni il Tenente Tucci chiude gli occhi per l’ultima volta, sconfitto nella battaglia immane contro i ricordi.
Grazia e Enrico. Enrico Pieri ha 10 anni, abita con i nonni, il papà Natale, mamma Irma e le due sorelle Alice e Luciana a una manciata di metri dalla piazza della chiesa. Ha frequentato la piccola scuola di Sant’Anna. D’estate aiuta la famiglia portando le poche pecore al pascolo. All’alba del 12 agosto, i Pieri sono tutti intorno al tavolo della cucina. Una voce rompe il silenzio e avverte che dal Monte Ornato stanno arrivando i tedeschi. Pochi minuti di angoscia e i Pieri si vedono piombare in casa i nazisti che urlando li trascinano nella casa della famiglia Pierotti, sfollata da Pietrasanta. Grazia Pierotti è una bambina, con la forza della disperazione riesce a nascondersi in un ripostiglio e si accorge che Enrico, con gli occhi sbarrati, in mezzo alle fiamme ed ai corpi già straziati, cerca riparo. Lo tira a sé. Insieme fuggono nell’orto e si nascondono sotto le piante di fagioli. Sentono gli spari e le urla, aggrappati alla vita con la forza istintiva dei bambini. Passano le ore, chissà quanto tempo. Si sentono più sicuri, fuggono anche dall’orto. Enrico conosce tutti i sentieri, ogni albero, ogni sasso. Cerca la mamma, la famiglia. Non c’è più nessuno. Al posto delle piante di fagioli che l’avevano salvato, il giorno dopo la strage in quella stessa terra riposano i poveri resti delle persone a più care. Passano i giorni, i mesi, qualche anno. La normalità non torna più, ma il suo cuore continua a battere. Nel 1960 va in Svizzera, conoscendo le sofferenze e le umiliazioni di ogni emigrante. Si sposa e nel 1963 nasce suo figlio Massimo per il quale sceglie la scuola tedesca: un giorno, chissà, conoscendo la lingua, potrà confrontarsi direttamente con qualcuno o qualcosa che ha avuto a che fare con l’annientamento di Sant’Anna. Enrico è tornato a Sant’Anna nel 1992 e all’inizio non voleva parlare del 12 agosto 1944. Poi qualcosa lo ha spinto a farlo: si è reso conto che la memoria in Italia si affievolisce, si fa presto a dimenticare e dall’oblio emergono revisionismi e ignoranza. Un insulto. Enrico ancora oggi si fa in quattro per i gruppi di ragazzi che raggiungono Sant’Anna da tutto il mondo per rendere omaggio a oltre 560 persone sterminate quella mattina d’agosto. “Ho 85 anni, ma la mi’ mamma mi manca ancora!”.
Cesira e la piccola Anna. Cesira Pardini, 18 anni, abita in località Coletti con il papà Federico, mamma Bruna e otto tra fratelli e sorelle. E’ la maggiore. Energica, combattiva e allo stesso tempo timida e dolce. Ha le mani segnate dalla fatica dei campi, cammina agile tra i sentieri ripidi e sconnessi della sua terra. Raccoglie ogni cosa commestibile: dalle foglie di cavolo alle erbe dei campi e alle castagne. Sua sorella Anna è appena nata, la mamma Bruna non si è concessa che poche ore per riprendersi dal parto. In casa non ci si ferma mai. Il 12 agosto, la mattina presto, Cesira si accorge dell’arrivo di soldati. Suo papà è già al lavoro nei campi con quattro figli. I militari sono furie: alcuni a viso scoperto, altri, forse gli italiani arruolati nelle SS, con una retina calata sul viso: “Ci hanno spinto contro il muro, con botte tremende – ricorda Cesira -. Con me c’era mamma con la mia sorellina Anna di 20 giorni, Adele di 4, Maria di 16 e Lilia di 10. Spararono alla mamma che mi cadde addosso e morì. Avevano colpito anche me e il dolore era tremendo. Nel cadere sono andata a sbattere contro una porta che non era stata chiusa a chiave. Era la cantina e riuscii ad afferrare Adele, Lilia e Maria. Restammo là come paralizzate, non so per quanto tempo, ma sentivo che il fuoco divorava la casa e rischiavamo di morire bruciate. Scappammo. I tedeschi ci videro e spararono ancora. Poi silenzio. La mia sorellina Anna di nemmeno un mese, era in fin di vita. Morì dopo una settimana di agonia. La vittima più piccola della strage. Morì anche Maria”. A Cesira Pardini nel 2012 sarà conferita la Medaglia d’Oro al Valor Civile.
Il miracolo di Ennio. Ennio Mancini ha 6 anni, vive in località Sennari con i genitori, un fratello e la nonna. Il papà lavora nelle vicine miniere di ferro e pirite. All’alba del 12 agosto il signor Mancini è già alzato e vede i soldati tedeschi che si avvicinano. Fa in tempo a far uscire tutti dalla casa, ma sotto la minaccia dei fucili e percossi da calci e spintoni, i nazisti li trascinano verso la piazza della chiesa. Il plotone marcia speditamente, i Mancini stentano a mettere un passo dopo l’altro, a sorvegliarli rimane un solo, giovane tedesco. Spariti dalla vista i commilitoni, questo soldato indica alla famiglia di tornare indietro. Li salva tutti, un inspiegabile miracolo in quell’inferno infinito. Ennio saprà presto cos’è successo a Sant’Anna, lo sterminio dei suoi amici, di intere famiglie. Il terrore. Davanti agli occhi, indelebile, la scena di corpi irriconoscibili, consumati dal fuoco, deformati. Ennio cresce e va a studiare prima a Pisa poi a Massa. Presto trova lavoro da impiegato nelle miniere di Valdicastello e ne diventa direttore amministrativo e del personale. Nel 1971 fonda insieme ad altri sopravvissuti l’Associazione Martiri.
Poldina e il cappello di papà. Leopolda Bartolucci, 12 anni, nella strage perde il padre Adolfo. Lei e la mamma Vittoria si salvano perché sono a Pietrasanta. Della loro casa a Sant’Anna, divorata dalle fiamme, rimane intatta solo una pentola di rame. “Poldina”, morta nel 2009, ha lo straordinario merito di aver raccolto un patrimonio di testimonianze, album di foto con nomi e gradi di parentela. Nei suoi appunti troviamo notizie di ignobili sciacalli che si aggiravano tra i morti per rubare le fedi. E’ grazie a lei se oggi possiamo dare un volto ai tanti bambini uccisi: il grande pannello che si trova al museo di Sant’Anna è opera sua. Ci parla anche di un cappello bruciato, in mostra al museo. Era di suo papà.
Il processo. I morti accertati di Sant’Anna sono stati 560, nessuno conoscerà mai il numero esatto. Autori della strage gli uomini del Battaglione “Galler”, ovvero il II Battaglione del 35° reggimento della 16° Panzer-Grenadier-Division, Reichsfurer-SS. Tra gli arruolati molti italiani. All’eccidio parteciparono anche Alpini del 3 battaglione Hochgebirgsjager e, probabilmente, elementi della scuola alpina di Mittenwald: divisioni spietate, già impegnate in operazioni di sterminio nella Polonia occupata. Dopo aver programmato l’operazione, i nazisti arrivano a Sant’Anna verso le 7 di mattina, divisi in tre squadre: la strage termina intorno alle 11 quando, devastato il paese, prendono la strada di Valdicastello, continuando a mietere vittime. E’ la scia di terrore insensato che ha già sconvolto e continuerà a sconvolgere tante comunità italiane. A Sant’Anna cala il silenzio. Resta la disperazione dei sopravvissuti per i quali la guerra non finirà mai più. Ci vorranno 60 anni prima che inizi il processo: 20 aprile 2004, Tribunale Militare di La Spezia. Nel 1994 erano stati ritrovati casualmente a Palazzo Cesi, negli archivi della procura generale militare di Roma, 695 fascicoli sui crimini di guerra commessi dai nazifascisti dopo l’8 settembre 1943. Erano nell’ “armadio della vergogna”, faldoni portati alla luce e studiati dal formidabile lavoro di indagine di un giornalista, Franco Giustolisi. Il processo sull’eccidio di Sant’Anna, portato avanti dal procuratore Marco De Paolis e da una gruppo di colleghi, carabinieri, interpreti, storici, consulenti, arriva a sentenza il 22 giugno 2005 con la condanna all’ergastolo di 10 ex appartenenti alle SS. Indagati complessivamente 24 militari, 8 le archiviazioni per morte del reo, 5 archiviazione per insufficienza di prove, 1 sospensione per motivi di salute. L’autorità tedesca non ha dato esecuzione alle sentenze. Alcuni dei condannati hanno potuto invecchiare liberi e poi sono morti, alcuni troppo malati per scontare in carcere la pena, altri condannati ma liberi. Ecco i nomi: Anton Galler, archiviato per morte dei reo; Theodor Sasse, archiviato per insufficienza di prove; Alfred Leibssle, archiviato per morte dei reo; Alfred Lohmann, archiviato per insufficienza di prove; David Pichler, archiviato per insufficienza di prove; Karl Gesele, archiviato per morte del reo; Friederich Crusemann, archiviato per morte del reo; Ernst Karpinski, archiviato per morte del reo; Rupert Lesiak, archiviato per morte del reo; Karl Segelken, archiviato per morte del reo; Kurt Osinger, archiviato per morte del reo; Otto Glanznig, archiviato per insufficienza di prove; Alfred Baumgart, sospensione della pena per malattia, poi deceduto; Horst Eggert, archiviato perché morto prima del processo; Gerhard Sommer, ergastolo; Alfred Schonenberg, ergastolo; Werner Bruss, ergastolo; Heinrich Schendel, ergastolo; Heinrich Sonntag, ergastolo; Georg Rauch, ergastolo; Horst Richter, ergastolo; Alfred Concina, ergastolo; Karl Gropler, ergastolo; Ludwig Goring, ergastolo.
La verità su S’Anna di Stazzema. Pubblicato da Vincenzo Ballerino su Ereticamente l'1 Settembre 2015. La storia della Resistenza comunista italiana è costellata da episodi talmente orrendi che sembrano, visti con gli occhi di oggi, assurdi e incredibili. In realtà tali episodi non furono né casuali né sporadici; i partigiani seguivano una linea ideologica e strategica ben precisa e già collaudata alla nascita dell’Unione Sovietica. Per potere perseguire la logica della resistenza comunista, rappresentata dalla strategia del terrore, servivano uomini che sapevano essere cinici e sanguinari, perché solo chi é permeato da tanta disumanitá puó apprezzare l’ideologia comunista. La presenza permanente ed attiva dei criminali comuni all’interno della resistenza non deve per nulla stupire. Tra delinquenti della peggior specie e partigiani non c’era nessuna differenza e nessuna divergenza, sia di vedute che di comportamento anzi, la posizione dei partigiani è più grave perché, sia la pianificazione che l’esecuzione dei delitti erano la risultante della più sanguinaria freddezza e del più cinico odio ideologico. Ecco perché i crimini della resistenza sono particolarmente efferati. Che fossero dei criminali comuni o criminali guidati dall’ideologia (questo erano i partigiani), tutti gli autori di delitti furono coperti con ogni mezzo e in modo sistematico, sia dall’apparato del partito comunista italiano che da quello sovietico, sino ad organizzarne, qualora non ci fossero altri mezzi per proteggerli, la loro fuga ed il mantenimento nell’Unione Sovietica di Stalin. Tra gli innumerevoli esempi che consentono di comprendere perfettamente quale era la costante che contraddistinse sempre la strategia delle bande armate comuniste, si puó citare la tragica vicenda che il 12 agosto 1944 coinvolse Sant’Anna di Stazzema, un paesino dell’entroterra Lucchese, localitá nota come paese “vittima di stragi” da parte tedesca e fascista. In realtá anche in questo caso, nulla togliendo alla crudezza germanica, furono i partigiani a fare inferocire i tedeschi, con il preciso scopo di indurli a compiere una rappresaglia, (che porterà alla fucilazione di quasi tutti gli abitanti del piccolo borgo). Prima di addentrarci nella lettura che segue, vorrei fare una premessa! è ormai risaputo che il mesto operato dei partigiani non fu mai di nessuna importanza per le sorti del conflitto, come se ciò non bastasse, gli alleati, che pure si servirono di questi mascalzoni, non li ebbero mai in alcuna considerazione, tanto che essi per primi li considerarono sempre dei viscidi criminali.
Dell’amara vicenda di questo piccolo borgo ci sono chiare testimonianze di alcuni sopravvissuti. Tra di essi il signor Duilio Pieri, che nella strage perdette il padre, la moglie, due fratelli, le cognate e quattro nipotini, e che dal 1945 è presidente del locale “Comitato vittime civili di guerra”. I partigiani in questione erano i criminali della brigata 10/bis Garibaldi, i quali seguivano l’ormai collaudata tecnica: per prima cosa effettuarono alcuni agguati contro i tedeschi, che a loro volta risposero con una serrata ricerca dei ribelli nelle campagne circostanti al paesino. In quell’occasione i partigiani si introdussero a forza dentro le case e da lì spararono contro i tedeschi (questa operazione mirava a indurre i tedeschi a pensare che tra la gente del posto vi erano partigiani, o che la gente del posto desse loro protezione, azione che faceva scattare il diritto di rappresaglia). A loro volta i tedeschi effettuarono una prima rappresaglia nella quale si limitarono a dare alle fiamme le case da dove erano partiti i colpi. Ma i partigiani continueranno nei loro agguati, sempre col medesimo scopo, indurre i tedeschi (in quel caso si trattava di un battaglione della 16° Divisione SS Reichsführer) a compiere altre rappresaglie. Con l’intento di non fare sfollare i civili, per farli uccidere, i partigiani tranquillizzarono la gente del posto assicurando loro che in caso di una nuova rappresaglia li avrebbero difesi. Infatti ben presto i tedeschi, decisi a “bonificare” la zona, affissero l’avviso di sgombero della popolazione per via dell’imminente rappresaglia (con tanto di avviso che avvertiva che chiunque fosse stato trovato nell’abitato sarebbe stato passato per le armi perché considerato fiancheggiatore dei partigiani).
Racconta Amos Moriconi, un ex minatore che in quel periodo faceva il fornaio, che nella strage perdette la moglie, la figlioletta di due anni, la madre, due sorelle, un fratello e il suocero.<<(…) I comunisti però intervennero subito, strappando il manifesto tedesco e affiggendone un altro nel quale facevano obbligo ai civili di non muoversi. Che cosa dovevamo fare? Eravamo presi tra due fuochi. La presenza minacciosa dei partigiani comunisti era molto più concreta di qualsiasi ordinanza tedesca. Così restammo tutti. Gli abitanti di Sant’Anna, gli sfollati che avevano cercato salvezza nel borgo appenninico non potevano certo sospettare, in quei momenti, che i comandi comunisti avevano freddamente deciso di sacrificarli. I partigiani calcolarono infatti cinicamente che le SS avrebbero scambiato gli uomini di Sant’Anna per partigiani comunisti e li avrebbero massacrati, tornando quindi alle loro basi con la certezza di aver “ripulito” la zona.>> Amos Moriconi continua il racconto:<<(…)Ricordo che affrontai uno degli ultimi partigiani che si accingevano a lasciare il paese e gli dissi: “Perché ci abbandonate? Voi sapete bene di averci infilato in una rete e sapete anche che i tedeschi non ci risparmieranno. Avevate promesso di difenderci. Dove ve ne andate adesso?”. Ma quello mi guardò ghignando e si allontanò senza rispondermi>>. Ben si comprende quindi che la strategia delle bande comuniste era quella di condurre a morte certa i civili. Racconta ancora, Amos Moriconi. <<La strage incominciò poco dopo le sei del mattino. I tedeschi, circondata la vasta conca dell’anfiteatro dove sorge Sant’Anna, si divisero in squadre, penetrando simultaneamente nelle diverse frazioni che compongono il paese: Argentiera, Le Case, Franchi, Vaccareccia, Coletti, Bambini, Colle, Sennari e Molini. La popolazione venne colta di sorpresa. L’allarme però corse fulmineo di casa in casa e furono numerosi coloro che riuscirono a mettersi in salvo gettandosi nei boschi che circondano Sant’Anna. Ma, come già era accaduto in occasione di precedenti allarmi del genere, solo gli uomini tra i 18 e i 60 anni cercarono scampo. Fino a quel momento, infatti, l’incubo della rappresaglia aveva sempre risparmiato, almeno nello Stazzemese, i vecchi, le donne e i bambini. Nessuno in paese, quella mattina, poteva sospettare che i tedeschi fossero decisi a uccidere senza pietà, quali “fiancheggiatori” dei partigiani, tutti gli abitanti di Sant’Anna. Nessuno poteva immaginarlo, ad eccezione però di alcune persone: i capi partigiani comunisti della zona. Questi, infatti, sapevano benissimo che i tedeschi, quando ritenevano di dover eliminare qualsiasi presenza partigiana in un determinato settore, non esitavano a massacrare anche i civili che abitavano nella zona. Lo sapevano anche perché proprio in quelle ultime settimane, e specie nel territorio della provincia di Arezzo, centinaia di innocenti erano stati trucidati nel corso di alcune feroci ritorsioni scatenate dalla attività criminose di formazioni partigiane rosse. Ma i capi comunisti, fedeli alle direttive della “guerra privata” condotta dall’organizzazione rossa, si guardarono bene dal mettere sull’avviso gli abitanti di Sant’Anna: a loro, quegli uomini, quelle donne, quei bambini, facevano più comodo da morti che da vivi, visto e considerato, tra l’altro, che nessuno degli abitanti del paese aveva voluto entrare nelle formazioni partigiane comuniste.>>
Un altro sopravvissuto, Mario Bertelli, in un primo momento pensò che comunisti alla fine sarebbero intervenuti in difesa del paese e della popolazione ma si trattò di una illusione che durò poco. Bertelli racconta <<(…) Dal mio nascondiglio potevo sentire l’eco degli spari e delle raffiche. La distanza mi impediva di udire le grida e le invocazioni d’aiuto. Per un po’ di tempo ritenni così che i tedeschi sparassero più che altro per intimidire la popolazione come era già accaduto altre volte. Poi cominciai a vedere il fumo degli incendi. Bruciavano case un po’ dovunque. Mi resi conto che la situazione si stava facendo tragica. Ero solo, senza armi. Tornare in paese in quelle condizioni non sarebbe servito a nulla: non avrei potuto aiutare i miei familiari e sarei caduto subito nelle mani dei tedeschi. Trascorsi così ore di agonia. Alla fine gli spari diminuirono di intensità e poi cessarono del tutto. Mi avviai allora verso l’abitato. Avrei voluto correre ma ero troppo debole a causa della malattia: il terrore di quanto avrei potuto vedere in paese mi piegava le gambe. Quando giunsi, molte case stavano bruciando. Mi avvicinai alla prima: vidi alcuni cadaveri tra le fiamme. Allora corsi urlando come un pazzo verso la mia casa. Era stata distrutta dalle fiamme, ma tra le macerie infuocate non trovai alcun cadavere. Mi spinsi allora fino alla piazza della chiesa, da dove vedevo levarsi un fumo denso. Ma quando vi arrivai, una scena spaventosa mi inchiodò al suolo senza che avessi più la forza di avanzare di un passo: un mucchio enorme di cadaveri stava bruciando lentamente. Ad un tratto mi sentii afferrare convulsamente e una voce, quella di mio padre, singhiozzò: “Sono là dentro… tutti”. Seppi cosi che nell’orribile cumulo e erano anche mia moglie, mia madre, le mie sorelle Pierina e Aurora e mio nipote. La rappresaglia però non si accanì contro tutte le frazioni che compongono Sant’Anna. Nella frazione Sennari, per esempio, le SS diedero fuoco ad alcune case e radunarono tutta la popolazione in una piazzetta. Sistemarono quindi le mitragliatrici per falciare quei poveretti: giunse però all’ultimo momento un ufficiale che impedì il massacro. Nella frazione Bambini, i tedeschi non bruciarono case e non uccisero alcuno. Le altre frazioni, invece, furono quasi tutte distrutte e gli abitanti massacrati. Non si è mai capito il perché di questa terribile selezione. Una risposta può essere data dal fatto che le SS conoscevano o perlomeno, credevano di conoscere l’ubicazione delle case nelle quali erano stati ospitati i partigiani o, peggio, dalle quali i partigiani avevano fatto fuoco contro i loro camerati. Infatti durante il rastrellamento, accanto ai tedeschi c’era un ex partigiano comunista di nazionalità polacca, diventato spia delle SS (di norma i partigiani presi prigionieri, per evitare di essere fucilati, tradivano sistematicamente i loro compagni, mandandoli a morte certa, oppure si mettevano al servizio dei tedeschi indicando loro le frazioni da distruggere e le famiglie da massacrare perché nascondevano partigiani). I tedeschi compirono la loro rappresaglia e se ne andarono, dopodiché i partigiani, che erano rimasti a godersi lo spettacolo nascosti poco distante dal centro abitato, rientrarono in paese per compiere ció che fu sempre la prerogativa di questi sciacalli , il saccheggio delle case e l’espoliazione dei cadaveri, non mancando mai di strappare persino eventuali protesi dentarie in oro.
Racconta Amos Monconi:<<(…) Fu allora che qualcuno mi disse che era necessario seppellire subito i morti. Raccolsi un pò di attrezzi e scavai una grande buca. Poi vi trasportai le salme dei miei congiunti e cercai di comporle prima di seppellirle. Mentre mi stavo dedicando a questa terribile incombenza, vidi i partigiani. Erano due. Uno lo conoscevo bene da tempo: era un milanese che si faceva chiamare “Timoscenko”. Si avvicinarono a me. Notai subito che avevano le tasche piene di portafogli, oggetti d’oro e d’argento. Se ne erano infilati anche dentro la camicia. Li guardai senza parlare. “Timoscenko” allora mi disse: “Devi consegnarci tutti i soldi e gli oggetti di valore che trovi sui morti. Siamo noi che dobbiamo prenderli in consegna”. Mi sentii salire il sangue alla testa; impugnai la piccozza e la alzai di scatto; “Vattene” gli dissi… “Vai via se non vuoi che ti spacchi il cranio”. “Timoscenko” esitò un momento poi, senza replicare, si allontanò”. Sul conto di questo “Timoscenko” e altri partigiani comunisti ne abbiamo sentite raccontare di tutti i colori. Furono visti entrare nelle case dove non era rimasto vivo più nessuno e uscirne dopo aver fatto man bassa. Furono anche visti spartirsi il bottino.
Il racconto di Amos Monconi fu confermato da Teresa Pieri, una delle superstiti la quale, raccontando ciò che vide qualche giorno dopo la strage affermò <<(…)scesi a Valdicastello, in una strada riconobbi due partigiani comunisti che avevo visto tante volte a Sant’Anna. Mi avvicinai e mi accorsi che si stavano dividendo soldi, braccialetti, catenine d’oro. Tutta roba rapinata sui cadaveri dei nostri cari>>.
Resistenza, Guerriglia e Terrorismo. Talora i termini sono usati nel dibattito in modo confuso o come sinonimi. Leggiamo il vocabolario Sabatini Colletti – ed. Rizzoli Larousse
Resistenza. Oltre ad indicare un periodo in cui in Europa le popolazioni di diversi paesi hanno lottato contro la occupazione nazifascista, in genere indica forme armate o meno di opposizione ad una occupazione del paese o del potere da parte di forze straniere o regimi dittatoriali, da parte di volontari civili o militari.
Guerriglia. Forme di lotta, attentati, imboscate, limitate azioni militari condotte da gruppi ristretti di persone.
Terrorismo. Forma di lotta politica adottata da chi vuole rovesciare in modo radicale una situazione politica o militare attraverso azioni violente, uccisioni mirate, stragi, spesso rivolte contro la popolazione civile e tese a creare paura nella gente. Allora, parlando di Resistenza uno storico o un partigiano accetterebbero di dire che la Resistenza compivano azioni di guerriglia, ma non accetterebbero di dire che i partigiani erano terroristi.
Partigiani come terroristi. Il Tempo il 3 Ottobre 2010. I lettori troveranno in questo libro molti nomi di persone sconosciute. Donne e uomini privi di una storia pubblica, scomparsi senza lasciare traccia di sé. Sono persone uccise nel corso della nostra guerra civile. E quasi tutte schierate da una parte sola: quella fascista, raccolta sotto le bandiere della Repubblica sociale italiana, come militanti, combattenti, semplici simpatizzanti, o ritenuti tali da chi gli ha tolto la vita. Ma i lettori dei Vinti non dimenticano leggeranno anche di tanti altri morti che non erano schierati con nessuno. Come i triestini, i goriziani e i fiumani deportati e fatti sparire dalle milizie comuniste jugoslave soltanto perché intendevano restare italiani. (Dalla Nota al lettore - Come celebrare il 25 aprile? - La storia dal basso). All'inizio di un altro weekend di lavoro a Firenze, dissi a Livia: «Adesso è venuto il momento di inoltrarci nei territori dove la resa dei conti sui fascisti sconfitti durò più a lungo nel tempo e fu più brutale. Per questo» aggiunsi, «sarebbe utile precisare da dove siamo partiti: un punto di vista non convenzionale sulla Resistenza, diverso dall'agiografia di comodo che di solito viene spacciata per storia vera.» «Sono d'accordo» convenne Livia. «Ma cerchi di non esagerare.» «In che senso esagerare?» «Nel senso di lasciarsi prendere dal suo gusto per la polemica. Ormai penso di conoscerla bene, caro Giampa. Posso chiamarla così? Lei mi ha detto che questo abbreviativo lo usava sua madre Giovanna. Mi piace Giampa! Suona bene, è sintetico e veloce, dunque adatto ai nostri tempi frenetici.» Livia proseguì: «La sua vis polemica è molto cresciuta in questi anni, dopo l'uscita del Sangue dei vinti. I detrattori che si è trovato contro le hanno fatto un gran regalo e adesso dovrebbero mangiarsi le mani. Ma le consiglio ugualmente di contenere la spinta a ingaggiare battaglie. La utilizzi con misura, le gioverà.» «Consiglio accettato» risposi a Livia. «Allora proverò, con misura, a dirle la mia sui primi passi della Resistenza o della guerra civile, considerata dal punto di vista dell'antifascismo. Per servirmi di un'immagine poco militare, parlerò dell'alba di una fase storica. E aggiungerò subito che fu un'alba quasi tutta rossa. Intendo il rosso delle bandiere comuniste. «Comincerei con qualche dato sui territori di cui le ho parlato prima. Sono quelli del Nordovest italiano, ossia il Piemonte, la Lombardia e la Liguria. Per queste tre regioni le cifre accertate dal gruppo di Michele Tosca parlano chiaro. Dopo la fine della guerra, in Piemonte vennero uccisi 3611 fascisti o presunti tali, in Lombardia 2995, in Liguria 1722. Il totale fa 8328. Se ci aggiungiamo le 3905 vittime dell'Emilia-Romagna, la regione dove è stata ammazzata più gente, si arriva a 12.233 morti. Ossia a più della metà dei 20 mila fascisti accoppati in Italia quando la guerra era già conclusa.»
Dissi a Livia: «Se invece osserviamo tutto l'arco temporale della guerra civile italiana, a partire dal settembre 1943, le vittime fasciste, sia civili che militari, sono state nel complesso 46 mila. Devo precisarle che si tratta di persone identificate con un nome e un cognome. Poi ci sono i morti rimasti sconosciuti che fanno aumentare di non poco il totale. Naturalmente, da questo consuntivo sono esclusi i militari tedeschi caduti in Italia e le perdite di altri reparti stranieri che combattevano a fianco della Germania sul nostro territorio». «Lei vorrebbe spiegare ai lettori come è iniziato questo bagno di sangue. È così?» mi domandò Livia. «Sì. Mi sembra opportuno, anche se lo faremo in modo estremamente sintetico. Anche noi abbiamo parlato e parliamo molto di quanto accadde durante la guerra civile. Ma di solito lo facciamo a partire dalla primavera del 1944 in poi, quando tutti presero a sparare tutti i giorni. E invece bisogna iniziare dalle avvisaglie, quelle dell'autunno-inverno 1943. Perché è in quella fase che emerge il connotato primario della lotta partigiana, il suo Dna: il terrorismo.» «Il terrorismo?» si stupì Livia. «Sì. Del resto, non saprei in quale altro modo chiamare una tecnica sanguinaria, ma efficace: gettare nel panico il nemico e annientarlo sparando contro singole persone, quasi sempre indifese. Ricorda come si muovevano le Brigate rosse negli anni Settanta e Ottanta? Bene, è la stessa tecnica. Del resto, i killer delle Br si consideravano gli eredi dei terroristi comunisti della guerra civile. E con ragione, penso io. «Ma prima di arrivare ai delitti del 1943, è opportuno dire qualcosa sul clima politico di quel tempo. Per cominciare, bisogna accennare a una verità che gli agiografi della Resistenza dimenticano sempre. In quell'autunno erano ancora molti gli italiani che avevano fiducia in Mussolini…» (...) «Nell'autunno 1943» continuai, «avevo 8 anni e mi ricordo bene certe discussioni in casa mia. Nessuno era fascista, anche se qualcuno si era iscritto al Pnf perché doveva farlo in quanto dipendente pubblico. Ma tutti temevano la reazione dei tedeschi. Avevano visto che erano bastati quattro o cinque paracadutisti con l'elmetto a pentola per rastrellare i soldati sbandati rimasti in città e rinchiuderli nelle caserme. E poi avviarli alla prigionia in Germania. (...) «E dei primi Comitati di liberazione che cosa mi racconta?» domandò Livia «Che contavano molto poco, per non dire quasi nulla. Certo, ne facevano parte uomini coraggiosi e da ammirare. Tutti sapevano bene che cosa stavano rischiando. Come minimo, la deportazione nei campi di sterminio tedeschi. Eppure i Cln sorsero quasi dappertutto, anche nei piccoli centri. Quella fu la prima generazione dei Comitati. Ed era fatale che risentisse della debolezza dei partiti politici di cui erano l'emanazione. (...) «Per tutto questo, i comunisti italiani non vivevano in mezzo a un deserto, come accadeva ai democristiani, ai socialisti, ai liberali e agli azionisti. Il Pci poteva contare sul potere sovietico, una parete d'acciaio alla quale appoggiarsi, uno scudo in grado di proteggerlo. La strategia di Mosca, quella di espandersi nel resto dell'Europa, era diventata la strategia del Pci. (...) Il regime fascista aveva commesso un errore che si sarebbe rivelato fatale dopo il 25 luglio: a Ventotene era stato mandato mezzo vertice del Pci clandestino. Non parlo di Togliatti che viveva tranquillo a Mosca, coccolato da Stalin. Parlo di Luigi Longo e di Pietro Secchia, che in seguito avrebbero guidato i partigiani comunisti in tutta l'Italia occupata. Con loro c'erano Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro, Giovanni Roveda, Girolamo Li Causi e Battista Santhià, l'operaio meccanico piemontese che era stato con Antonio Gramsci nel quotidiano “L'Ordine Nuovo”». (Dalla Parte Quarta, capitolo 18: Gappismo)
Gli insulti del politico di destra:
"Partigiani come terroristi islamici". Ezio Calmonte,
è il presidente del quartiere di San Vito a Bassano, già noto per esternazioni
discutibili e l'odio verso i "banditi comunisti". Globalist il 28 aprile 2019.
“Partigiani come terroristi islamici”. Un insulto - passibile di querela - che è
stato fatto da Ezio Calmonte, il presidente del quartiere di San Vito a Bassano.
Un personaggio dell’estrema destra italiana tutto Salvini, odio verso i
partigiani e altri (tipo Saviano) già noto per le sue esternazioni a dir poco
discutibili che in altri tempi lo avrebbero costretto a lasciare la politica ma
che, al contrario, gli valgono voti e consensi.
La polemica è nata sul web dove Calmonte ha ricordato la figura di Rolando Rivi,
seminarista ucciso dai partigiani, definiti "banditi comunisti". Ha detto: “A
ogni 25 Aprile si ricordano le porcherie dei partigiani comunisti - ha scritto
Calmonte - fatte durante ma soprattutto dopo la fine della guerra, come fanno i
vigliacchi!!! Erano tali e quali ai delinquenti islamici odierni". La
consigliera regionale Alessandra Moretti ha replicato. “Solo chi ignora la
storia e la tragedia del nazifascismo può pronunciare simili nefandezze -
attacca infatti -. Vorrei ricordare a Calmonte che i partigiani e quanti hanno
combattuto la Repubblica Sociale di Mussolini l’hanno fatto anche per la sua
libertà. Mi auguro che i bassanesi non dimentichino mai cosa ha fatto il
fascismo in quelli anni tragici anche nella loro città». Ossia l’assassinio di
molti oppositori politici. Subito la contro-replica dell’estremista di destra:
“Mi dicono che una nota ma sfortunata politica “piddina” di Vicenza abbia
qualcosa di ridire sul paragone tra le porcherie fatte dai partigiani rossi nel
dopoguerra e gli attacchi dei fanatici islamici - ha riferito -. Se non basta
ricordare l’Eccidio di Schio, invitiamo la gentile signora a leggersi “Il sangue
dei vinti” di Gianpaolo Pansa o “I giorni di Caino” di Antonio Serena: capirà
che gli islamici almeno lo fanno in nome di un fanatismo religioso e spesso ci
rimettono la pelle, invece i partigiani comunisti non solo continuavano a
campare, ma spesso si arricchivano con quanto trovavano da portare via. Avere il
coraggio di guardare la Verità in faccia è dura per certi personaggi, anche dopo
74 anni. E questo li porterà alla loro fine, ormai prossima».
Lo storico Cardini: "Non vedo differenza tra un partigiano e un terrorista". Per il medievalista Franco Cardini i foreing fighters sono come gli italiani che seguirono Franco nella Spagna del '36. Francesco Curridori, Mercoledì 08/07/2015, su Il giornale. "Il Medioevo è un periodo pieno di stereotipi con frasi come "le tenebre del Medioevo" che non c’entrano nulla con l’età contemporanea. Anche il termine oscurantismo è stato usato a sproposito perché anche nel luminoso Rinascimento si bruciavano le streghe e nell’illuminato illuminismo si tagliavano le teste". Lo storico Franco Cardini, in un colloquio col giornale.it, parla di Isis, foreing fighters respingendo l'idea che si possa parlare di medioevo dell'Islam.
Ma anche l’Isis taglia le teste…
«L’Isis usa questo sistema per far parlare di sé. I loro dirigenti hanno bisogno di presentarsi all’opinione pubblica come i puri rappresentanti dell’islam sunnita e perciò tirano alto. Il loro vero obiettivo è colpire il mondo sciita e provocare così una reazione dura anche nei loro confronti. Da un lato usano i loro militanti che si immolano per la loro causa morendo da martiri e dall’altro si impongono come leader del mondo musulmano sunnita. Una strategia che, però, non sta pagando perché il Califfato di Al Bagdadi è riconosciuto solo da poche comunità islamiche».
Perché i sunniti ora stanno alzando la testa?
«I guai sono stati causati dall’invasione americana del 2003 in Iraq per la quale si sono appoggiati agli sciiti e così si sono ritrovati contro i sunniti, non solo quelli vicini a Saddam. L’Isis è nata proprio per organizzare questo blocco sunnita che vede Paesi come l’Arabia Saudita e l’Egitto avere un rapporto ambiguo con l’Occidente. Entrambi i Paesi si odiano ma si sono alleati per combattere gli sciiti dello Yemen e combattono Assad e i curdi, nemici del Califfo Al Bagdadi».
Nell’immaginario islamico gli integralisti non sono gli sciiti?
«È moderata l’Arabia Saudita che non fa né guidare né studiare le donne? L’unico Paese moderato è la Siria di Assad che accoglie bene il turismo occidentale, ha un welfare avanzato e consente una certa libertà religiosa ma per noi moderata è l’Arabia solo perché ci vende il petrolio. Gli sciiti e i sunniti sono protagonisti di guerre endemiche e secolari ma si differenziano solo per alcune interpretazioni teologiche».
Come giudica il fenomeno dei foreing fighters?
«Non vedo ci si nulla di strano nell’andare a combattere per le proprie idee. È già successo in Spagna nel ’36-’39 quando migliaia di italiani partirono per combattere con i franchisti. Oggi i giovani italiani sono immersi in un’atmosfera agnostica in cui predomina l’educazione di tipo nichilista e finiscono col drogarsi. Ogni tanto un ragazzo si sveglia e segue Madre Teresa di Calcutta o con Gino Strada ma c’è anche chi magari s’innamora di un amico o un’amica che gli presenta un imam integralista. Il responsabile è il vuoto della cultura occidentale, ogni tanto qualcuno si sveglia e si ribella».
Quindi vede di buon occhio la scelta di Maria Giulia Sergio (Fatima)?
«No, mi rincuora tipologicamente che i giovani reagiscano al conformismo occidentale ma mi preoccupa fenomenologicamente. Si tratta di giovani che hanno un’idea forte (non giusta) da difendere e usano gli strumenti in loro possesso. Non vedo quale sia la differenza tra un partigiano italiano degli anni ’40 e un presunto terrorista che lotta in Iraq o in Siria contro l’invasione del proprio Paese. Il caso di Fatima, invece, è diverso perché lei non ha tradito il cristianesimo ma il nichilismo occidentale e alla civiltà dell’Ipad e dell’Iphone ha preferito l’islam».
È segno della crisi del cattolicesimo e dell’Occidente?
«L’Occidente non è più cristiano perché i suoi obiettivi civili e morali non coincidono più col cristianesimo altrimenti non ci sarebbe questa enorme differenza tra ricchi e poveri. Non ha bisogno di perseguitare le religioni, gli è bastato svuotarle di significato. Dal punto di vista materiale l’Occidente non sarà sconfitto ma dal punto di vista spirituale rischia di implodere al suo interno. Se da qui a qualche anno i foreing fighters diventassero migliaia dovrà fare i conti con il vuoto che ha creato».
Br, l'intervista a Cossiga del 2003: "Terroristi come partigiani". Le Iene 20 gennaio 2019. Dopo il caso Battisti e la nostra intervista all'ex brigatista latitante Alvaro Lojacono, vi riproponiamo una nostra intervista del 2003 all'ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga sugli "anni di piombo". Dopo la cattura e l’estradizione di Cesare Battisti e la nostra intervista all’ex brigatista Alvaro Lojacono (scovato e intervistato da Gaetano Pecoraro in Svizzera, dove è latitante, mentre in Italia è stato condannato all’ergastolo), ci sembra importante riproporre questa nostra intervista del 2003 all’ex presidente della Repubblica, Francesco Cossiga. Cossiga, nemico giurato dei terroristi rossi, si era fatto promotore di un’iniziativa per l’amnistia sugli anni di piombo. Sulla base di un concetto, a cui fa riferimento lo stesso Lojacono e che l’ex Capo dello Stato, scomparso nel 2010, ribadisce anche davanti alle nostre telecamere: “Fu il tentativo di innescare una guerra civile: chi combatté lo fece non con l’animo del terrorista ma con l’animo del partigiano”.
Resistenza 70 anni dopo: Gap, eroi o terroristi? Raffaele Liucci il 24 aprile 2015 su Treccani. I Gap, ossia il lato «brutto, sporco e cattivo» della Resistenza. I partigiani, infatti, combattevano in campo aperto, sulle creste montuose, in un paesaggio di sublime bellezza, sotto un cielo stellato. I gappisti, invece, vivevano clandestini in città, rintanati come topi nei loro rifugi, progettando assassini mirati e attentati dinamitardi che non avevano nulla di epico. Sin qui, la vulgata: ora sottoposta a scrupolosa verifica da Santo Peli (già docente a Padova), in un libro importante, che fissa diversi paletti.
Innanzitutto, la natura assai variegata dei Gap («Gruppi di azione patriottica»). Quasi tutti i gappisti erano comunisti, ma non tutti furono «cenobiti della Resistenza». Un conto era il gappismo lombardo, imperniato su cellule urbane compartimentate. Un altro il «gappismo all’emiliana», artefice di una «guerriglia di massa», dispiegata per le campagne. Il libro di Peli rappresenta un indubbio salto di qualità sull’argomento, ma s’intitola Storie di Gap, proprio perché un’autentica storia generale dei Gap probabilmente non potrà mai essere scritta, considerata la dimensione pulviscolare del fenomeno.
In secondo luogo, il dilemma morale che attanaglia ogni gappista: «uccidere a sangue freddo un uomo che non si conosce». La guerra partigiana è, soprattutto, una guerra difensiva, mentre quella dei Gap è offensiva. Il gappista vive per attaccare, ma anche il combattente più temprato non ha quasi mai una «sufficiente preparazione mentale, psicologica e ideale alla lotta armata». Il libro di Peli offre una ricca messe di testimoniante tormentate: «Chi ha ucciso, da vicino, faccia a faccia, di fronte, se lo porta comunque dentro per tutta la vita», ricorda un gappista: «anche il cannone uccide, ma è una cosa diversa, non sai con precisione dove e come; non vedi facce, né occhi che ti guardano».
In terzo luogo, la questione delle rappresaglie tedesche provocate dal fuoco gappista. L’eccidio delle Fosse Ardeatine (24 marzo 1944) è diventato il fuorviante «simbolo di una “strage degli innocenti” innescata da un’azione isolata, da un’etica della convinzione indifferente alle conseguenze dei propri comportamenti». Certo, se i gappisti avessero rinunciato all’attentato di via Rasella, i 335 «martiri» delle Ardeatine non sarebbero mai andati incontro al loro triste destino. Tuttavia, osserva Peli, occorre emendare almeno due strafalcioni storici. Innanzitutto, non è mai esistito alcun nesso fra la strage e la mancata presentazione dei gappisti («i colpevoli sfuggiti all’arresto», secondo quanto scrisse l’«Osservatore Romano» il 26 marzo). Il massacro nazista, infatti, fu perpetrato «nel più rigoroso silenzio», appena 24 ore dopo l’attacco di Rosario Bentivegna e compagni, senza alcun appello a consegnarsi. Inoltre, il rapporto di 10 a 1 fra prigionieri da sopprimere e tedeschi uccisi non era così scontato come sarebbe apparso a posteriori. Nessuna fantomatica «legge di guerra», infatti, autorizzava a prevedere una strage di tali dimensioni.
Il quarto punto riguarda la tortura. Sono queste forse le pagine più conturbanti del lavoro di Peli. La tortura, va ricordato, fu uno strumento utilizzato esclusivamente dai nazifascisti, mai dalla controparte. Ogni gappista sapeva che, se catturato, sarebbe stato torturato. Era rassicurante, per loro, pensare che «al di sopra di tutto, di noi stessi, vi è la vita del Partito». Ma un uomo, sotto tortura, è sempre un uomo solo, e infatti, ammette Peli, «solo pochi uomini straordinari sono stati in grado di tacere sino alla fine». I più capitolarono, tradendo i compagni. Di fronte all’indicibilità del supplizio, come biasimarli? Del resto, uno degli indubbi meriti di questo libro, fondato su scavi d’archivio, è quello di correggere l’aura di efficienza, rigore e clandestinità che a lungo ha contrassegnato i Gap. I quali, invece, furono combattenti generosi, ma spesso improvvisati, male armati e umanamente fragili, scaraventati in una guerra inaudita e terribile.
Infine, il raffronto fra i Gap 1943-45 e i gruppi armati sorti in Italia negli anni Settanta. I Gap ideati da Giangiacomo Feltrinelli («Gruppi di azione partigiana») sono soltanto l’esempio più lampante di quanto il mito del gappismo abbia influenzato l’immaginario collettivo dell’estrema sinistra in quel decennio. La stessa ricerca di Santo Peli affronta molti temi poi ritornati all’ordine del giorno trent’anni più tardi: la scelta della lotta armata, la moralità della violenza, le vittime innocenti negli attentati. In fin dei conti, anche la distinzione, in uso nel 1944-45, fra gappisti (combattenti clandestini full-time) e «sappisti» (combattenti part-time), prefigura quella fra Brigate Rosse e Prima Linea. Eppure, il «terrorismo urbano» dei Gap (Peli non si perita di usare proprio questo termine) agì in un frangente di emergenza, sotto occupazione militare straniera, mentre le Brigate Rosse dichiararono guerra a uno Stato che, nonostante tutte le sue magagne (incluse, ahimè, le torture inflitte ai brigatisti arrestati), restava saldamente democratico. Oggi, forse, nutriamo addirittura una certa nostalgia per la sua classe politica. Santo Peli, Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza, Einaudi, Torino, pagg. VIII-280, € 30,00.
Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega. Giampaolo Pansa, Domenica 07/10/2012, su Il Giornale. C’è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note,racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro. Tanto i partigiani comunisti che i miliziani fascisti combattevano per la bandiera di due dittature, una rossa e l'altra nera. Le loro ideologie erano entrambe autoritarie. E li spingevano a fanatismi opposti, uguali pur essendo contrari. Ma prima ancora delle loro fedeltà politiche venivano i comportamenti tenuti giorno per giorno nel grande incendio della guerra civile. Era un tipo di conflitto che escludeva la pietà e rendeva fatale qualunque violenza, anche la più atroce. Pure i partigiani avevano ucciso persone innocenti e inermi sulla base di semplici sospetti, spesso infondati, o sotto la spinta di un cieco odio ideologico. Avevano provocato le rappresaglie dei tedeschi, sparando e poi fuggendo. Avevano torturato i fascisti catturati prima di sopprimerli. E quando si trattava di donne, si erano concessi il lusso di tutte le soldataglie: lo stupro, spesso di gruppo. A conti fatti, anche la Resistenza si era macchiata di orrori. Quelli che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ricorderà nel suo primo messaggio al Parlamento, il 16 maggio 2006, con tre parole senza scampo: «Zone d'ombra, eccessi, aberrazioni». Un'eredità pesante, tenuta nascosta per decenni da un insieme di complicità. L'opportunismo politico che imponeva di esaltare sempre e comunque la lotta partigiana. Il predominio culturale e organizzativo del Pci, regista di un'operazione al tempo stesso retorica e bugiarda. La passività degli altri partiti antifascisti, timorosi di scontrarsi con la poderosa macchina comunista, la sua propaganda, la sua energia nel replicare colpo su colpo. Soltanto una piccola frazione della classe dirigente italiana si è posta il problema di capire che cosa si nascondeva dietro il sipario di una storia contraffatta della nostra guerra civile. E ha iniziato a farsi delle domande a proposito del protagonista assoluto della Resistenza: i comunisti. Ancora oggi, nel 2012, qualcuno si affanna a dimostrare che a scendere in campo contro tedeschi e fascisti e stato un complesso di forze che comprendeva pure soggetti moderati: militari, cattolici, liberali, persino figure anticomuniste come Edgardo Sogno. È vero: c'erano anche loro nel blocco del Corpo volontari della liberta. Ma si e trattato sempre di minoranze, a volte di piccole schegge. Impotenti a contrastare la voglia di egemonia del Pci e i comportamenti che ne derivavano. Del resto, i comunisti perseguivano un disegno preciso e potente che si è manifestato subito, quando ancora la Resistenza muoveva i primi passi. Volevano essere la forza numero uno della guerra di liberazione. Un conflitto che per loro rappresentava soltanto il primo tempo di un passaggio storico: fare dell'Italia uscita dalla guerra una democrazia popolare schierata con l'Unione Sovietica. Dopo il 25 aprile 1945 le domande sulle vere intenzioni dei comunisti italiani si sono moltiplicate, diventando sempre più allarmate. Mi riferisco ad aree ristrette dell'opinione pubblica antifascista. La grande maggioranza della popolazione si preoccupava soltanto di sopravvivere. Con l'obiettivo di ritornare a un'esistenza normale, trovare un lavoro e conquistare un minimo di benessere. Piccoli tesori perduti nei cinque anni di guerra. Ma le élite si chiedevano anche dell'altro. Sospinte dal timore che il dopoguerra italiano avesse un regista e un attore senza concorrenti, si interrogavano sul futuro dell'Italia appena liberata. Sarebbe divenuta una democrazia parlamentare oppure il suo destino era di subire una seconda guerra civile scatenata dai comunisti, per poi cadere nelle grinfie di un regime staliniano? Era una paura fondata su quel che si sapeva della guerra civile spagnola. Nel 1945 non era molto, ma quanto si conosceva bastava a far emergere prospettive inquietanti. Anche in Spagna era esistita una coalizione di forze politiche a sostegno della repubblica aggredita dal nazionalismo fascista del generale Francisco Franco. Ma i comunisti iberici, affiancati, sostenuti e incoraggiati dai consiglieri sovietici inviati da Stalin in quell'area di guerra, avevano subito cercato di prevalere sull'insieme dei partiti repubblicani, raccolti nel Fronte popolare. A poco a poco era emerso un inferno di illegalità spaventose. Arresti arbitrari. Tribunali segreti. Delitti politici brutali. Carceri clandestine dove i detenuti venivano torturati e poi fatti sparire. Assassinii destinati ad annientare alleati considerati nemici. Il più clamoroso fu il sequestro e la scomparsa di Andreu Nin, il leader del Poum, il Partito operaio di unificazione marxista. Il Poum era un piccolo partito nel quale militava anche George Orwell, lo scrittore inglese poi diventato famoso per Omaggio alla Catalogna, La fattoria degli animali e 1984. Orwell aveva 34 anni, era molto alto, magrissimo, sgraziato, con una faccia da cavallo. Era arrivato a Barcellona da Londra alla fine del 1936. Una fotografia lo ritrae al fondo di una piccola colonna di miliziani del Poum. Una cinquantina di uomini, preceduti da un bandierone rosso con la falce e martello, la sigla del partito e la scritta «Caserma Lenin», la base dell'addestramento. Orwell stava sul fronte di Huesca quando i comunisti e i servizi segreti sovietici decisero la fine del Poum. Lo consideravano legato a Lev Davidovic Trotsky, il capo bolscevico diventato nemico di Stalin. In realta era soltanto un gruppuscolo antistaliniano con 10 mila iscritti. L'operazione per distruggerlo venne ordita e condotta da Aleksandr Orlov, il nuovo console generale dell'Urss a Barcellona, ma di fatto il capo della filiale spagnola del Nkvd, la polizia segreta sovietica. Nel giugno 1937, un decreto del governo repubblicano guidato dal socialista di destra Juan Negrin, succube dei comunisti, dichiaro fuori legge il Poum, sospettato a torto di cospirare con i nazionalisti di Franco. Tutti i dirigenti furono imprigionati. Se qualcuno non veniva rintracciato, toccava alla moglie finire in carcere. Gli arrestati si trovarono nelle mani del Nkvd che li rinchiuse in una prigione segreta, una chiesa sconsacrata di Madrid. Interrogato e torturato per quattro giorni, Nin rifiuto di firmare l'accusa assurda che gli veniva rivolta: l'aver comunicato via radio al nemico nazionalista gli obiettivi da colpire con l'artiglieria. Gli sgherri di Orlov lo trasportarono in una villa fuori città. Qui misero in scena una finzione grottesca: la liberazione di Nin per opera di un commando di agenti della Gestapo nazista, incaricati da Hitler di salvare il leader del Poum. Ma si trattava soltanto di miliziani tedeschi di una Brigata internazionale, al servizio di Orlov. Nin scomparve, ucciso di nascosto e sepolto in un luogo rimasto segreto per sempre. E come lui, tutti i suoi seguaci svanirono nel nulla. Quanto accadeva in Spagna fu determinante per la svolta ideologica di uno scrittore americano di sinistra, John Dos Passos. Scrisse: «Ciò che vidi mi provoco una totale disillusione rispetto al comunismo e all'Unione Sovietica. Il governo di Mosca dirigeva in Spagna delle bande di assassini che ammazzavano senza pietà chiunque ostacolasse il cammino dei comunisti. Poi infangavano la reputazione delle loro vittime con una serie di calunnie». Le stesse infamie, sia pure su scala ridotta, vennero commesse in Italia da bande armate del Pci, durante e dopo la guerra civile. C'è da scommettere che il nuovo libro di Giampaolo Pansa, La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti (Rizzoli, pagg. 446, euro 19,50; in libreria dal 10 ottobre), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell'introduzione al volume (di cui per gentile concessione pubblichiamo un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull'esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un'altra, la loro.
Tutto quello che la Boldrini non sa sui crimini dei partigiani. Il presidente della Camera elogia l'operato dei partigiani, ma dimentica le loro atrocità. Matteo Carnieletto, Sabato 25/04/2015, su Il Giornale. "I partigiani non ospiti, ma padroni di casa". Così il presidente della Camera Laura Boldrinialle celebrazioni di questo 25 aprile. Ma la realtà storica è davvero questa? O ci troviamo, forse, di fronte a un’altra boutade del presidente della Camera? La realtà partigiana, infatti, è un po’ più complessa rispetto a come la vorrebbe la Boldrini. Ci furono dei partigiani - come ad esempio Eugenio Corti, "l’ultimo soldato del re" - che decisero di prendere le armi contro i repubblichini perché volevano difendere la parola data: avrebbero servito il re in qualsiasi posto e in qualsiasi frangente. Altri, come Giovannino Guareschi, si fecero spedire nei campi di concentramento tedeschi come Imi, Internati militari italiani. Anche loro membri del regio esercito. Anche loro fedeli al re. A ogni costo. C’era poi i partigiani bianchi, quelli nati nelle associazioni cattoliche. C'era, quindi, chi lottava per una parola data, per mantenere fede a un onore. Dall’altra, i partigiani rossi che, va detto, non accelerarono affatto la ritirata tedesca, anzi: la resero ancora più sanguinosa. I continui attentati provocarono continue rappresaglie. Morti su morti. I partigiani rossi volevano sostituire una dittatura, quella fascista, con un’altra dittatura ben peggiore, se mai si può fare una classifica delle dittature, quella comunista. E, per raggiungere questo obiettivo, i partigiani rossi fecero fuori parecchi partigiani bianchi. Quelli della brigata Osoppo, per esempio, alla quale apparteneva anche il fratello di Pier Paolo Pasolini, Guido. L’odio comunista si scagliò soprattutto contro la Chiesa, come del resto era successo in Spagna durante gli anni della guerra civile. Il 13 aprile 1945 i partigiani fecero fuori Rolando Rivi, ora beatificato, perché accusato di una "colpa" terribile: indossare la veste talare e voler diventare prete. Furono moltissimi i preti e i consacrati che fecero una brutta fine nel cosiddetto triangolo della morte, in Emilia, dove ci furono ben 4500 morti dal 1943 al 1949. Tra i crimini più beceri dei partigiani rossi, ovvero dei “padroni di casa”, va annoverato l’omicidio di Carlo Borsani, 28 anni, medaglia al valore di guerra. Un ragazzo come tanti. Un ragazzo che aveva donato tutto quello che aveva potuto all'Italia. Fu ucciso perché accusato di essere fascista e gettato su un carretto della spazzatura. Al collo una scritta: "Ex medaglia d’oro". E poi c’è la lunga fila di morti legati alla Democrazia Cristiana: il dottor Carlo Testa, Ettore Rizzi, Bruno Lazzari e, infine, Giorgio Morelli, partigiano e giornalista cattolico, ucciso perché aveva pubblicato un'inchiesta in cui accusava il presidente comunista dell'ANPI di Reggio della morte di un partigiano cattolico, Mario Simonazzi. E l’elenco potrebbe continuare a lungo. Val la pena però ricordare l’attentato di via Rasella: come è noto, i Gap posizionarono una carretta per far saltare in aria i tedeschi. Le regole dei nazisti erano chiare: per ogni tedesco morto 100 italiani. I partigiani non si curarono di questo sanguinoso avvertimento e agirono lo stesso. Il risultato? La più orrenda carneficina: 335 morti per mano tedesca. Tra questi, anche numerosissimi partigiani bianchi che si trovavano nelle prigioni di via Tasso e di Regina Coeli. Spiace che la Boldrini abbia anche detto che "chi lottava contro i partigiani stava dalla parte sbagliata". Spiace perché la realtà è più complessa e, soprattutto, perché ragionando in questo modo si creano cittadini di serie A e cittadini di serie B. Un'Italia giusta e un'Italia sbagliata. Un'Italia dove esistono dei "padroni di casa", i partigiani, e dove esistono gli emarginati, i repubblichini. E tutto questo a 70 anni dalla fine della guerra civile.
RAPPRESAGLIE PARTIGIANE di Ernest Armstrong. Rappresaglia. Nell’immaginario collettivo creato dal “mito resistenzialista”, all’udire questa parola appare l’immagine di un plotone di tedeschi che fucilano 10 innocenti civili italiani per ogni loro camerata morto.
In realtà la rappresaglia fu attuata da tutti gli eserciti che combatterono nella seconda guerra mondiale, come ricorda anche Gianni Alasia, attuale esponente di Rifondazione Comunista : “Quando il mio amico Heinz Karl M., di Monaco, militare della Wehrmacht, fu fatto prigioniero in Francia, visse momenti tremendi. Vennero fatte decimazioni, e Carlo non capiva il perchè di una cosa così terribile mentre erano inermi prigionieri.” La rappresaglia era ammessa dal Diritto internazionale del tempo di guerra di Ginevra, a patto che ad eseguirla fosse un regolare esercito (in divisa) che fosse stato attaccato da terroristi (non in divisa). Essa poteva avvenire, qualora non si fossero presentati i colpevoli, su prigionieri o su civili, esclusi donne e bambini, colpevoli di aver protetto i terroristi. Sia i terroristi che chiunque avesse ucciso prigionieri, fuori dai casi previsti, alla fine del conflitto doveva essere processato per crimini di guerra. Questo in Italia non accadde. Chi ordinò uccisioni non giustificate dal Diritto Internazionale, se partigiano, fu ricompensato con l’inquadramento tra i graduati nell’Esercito e con titolo alla pensione.
8 agosto 1944, ore 9 del mattino, a Milano in Piazzale Loreto angolo viale Abruzzi esplode una bomba posta sul sedile di un camioncino tedesco che rifornisce di latte le famiglie. Muoiono nell’esplosione sei bimbi, una donna e due giovani padri. Tredici i feriti gravi, sei di loro moriranno il giorno dopo. Il bilancio finale sarà di 15 morti, 7 feriti gravi e una decina di feriti leggeri. Nessun tedesco muore nell’attentato ma l’efferatezza è tale che il Comando germanico chiede di procedere ad una rappresaglia in misura di uno per uno. Non tutti sono d’accordo. Il prefetto, Piero Barini, si dimette. Mussolini interviene e protesta con violenza. Anche il cardinal Schuster interviene. Malgrado ciò al mattino del 10 agosto in piazzale Loreto un plotone della Muti fucila quindici persone sospettate di aver rapporti con i partigiani e per questo da tempo incarcerate a S. Vittore. Ed ecco che scatta immediatamente la rappresaglia partigiana, infatti lo stesso giorno da parte della Delegazione per la Lombardia del Comando Generale delle Brigate Garibaldi viene impartito l’ordine alle formazioni partigiane di fucilare militari fascisti e tedeschi loro prigionieri nella misura di tre ad uno . "Per rispondere agli efferati delitti che i nazifascisti compiono a Milano.....1)Passare per le armi i prigionieri nazifascisti attualmente in vostro possesso; 2)Tali esecuzioni devono essere comunicate e popolarizzate segnalando che vengono eseguite come rappresaglia degli eccidi di Milano; 3) Se tali eccidi si ripetono le esecuzioni in massa di nazifascisti prigionieri dovranno essere immediatamente eseguite ”. Verranno fucilati 30 prigionieri fascisti e 15 tedeschi, probabilmente dalle Divisioni Ossolane di Cino Moscatelli, in quanto molti di loro erano stati catturati in massa, su alcuni treni , qualche tempo prima, dai partigiani dell’Ossola. Un risvolto drammatico è dato dal fatto che Mussolini ed i gerarchi uccisi a Dongo verranno esposti, il 29 aprile 1945, a Piazzale Loreto per “vendicare la fucilazione di 15 patrioti”. Purtroppo la prassi di fucilare prigionieri a seguito dell’uccisione di partigiani fu costante in tutte le formazioni.
Un elenco di controrappresaglie eseguite è contenuto in una lettera del 12 ottobre del 1944 della Delegazione Lombardia del Comando Generale delle Brigate Garibaldi. Un’altra lunga serie di rappresaglie partigiane viene effettuata nel Biellese, se ne trova traccia nel libro “La Resistenza nel Biellese” di Poma e Perona. L’ordine di “prendere fascisti” militi o civili da trattenere come ostaggi per scambi di prigionieri, piuttosto che per fucilarli per rappresaglia viene diramato dai vari Comandi. Così il Comando della 3a Divisione Liguria può permettersi di comunicare, il 25 agosto 1944 , che a seguito del " processo del Tribunale Speciale contro trentun italiani....per ogni fucilazione ordinata dal tribunale, verranno fucilati 2 ostaggi che si trovano in nostre mani”. Si trattava di funzionari e agenti di PS e ufficiali e militi della GNR. Per la fucilazione di due partigiani avvenuta a Varzi, il Comando della 3a divisione Lombardia “Aliotta” ordina che ciascuna delle brigate dipendenti proceda alla fucilazione di 2 prigionieri, mentre dopo la fucilazione di 5 partigiani sulla piazza di Ivestria, la brigata Baltera risponde fucilando 20 SS tenute come ostaggi.
Anche la prassi di stampare ed affiggere manifesti minacciando le rappresaglie non fu prerogativa delle truppe dell’Asse, infatti si legge in un manifestino bilingue diffuso dalla divisione partigiana Serafino della Val Chisone: ”.Soldati tedeschi ....i vostri comandanti erano stati avvertiti che per ciascun nostro caduto avremmo ucciso tre di voi. Oggi informiamo voi stessi della decisione...”. Ma un manifesto del CLN del Piemonte, del 27 settembre 1944, alza la posta: "Alle persecuzioni risponderemo con le persecuzioni. Alle rappresaglie con le rappresaglie. Per ogni patriota ucciso cadranno cinque nazifascisti; per ogni villaggio incendiato cinquanta traditori verranno passati per le armi". E non erano minaccie a vuoto. Infatti il 12 dicembre 1944, dopo l’uccisione di Duccio Galimberti, il Comando regionale Militare del Piemonte emana il seguente ordine: “Passare per le armi cinquanta banditi delle Brigate Nere per vendicare la morte del comandante Tancredi Galimberti”. La vita di Galimberti valeva dieci volte di più del minacciato. Ma c’e già chi passa all’escalation e si prepara ad uccidere anche i familiari di tedeschi e fascisti. Così scrivono, il 28-12-44, i “compagni responsabili” a Pietro, commissario politico della 5a zona Cuneese:". Se i nazifascisti uccidono per rappresaglia dei pacifici cittadini dovremo passare alla controrappresaglia sui fascisti, tedeschi e anche le loro famiglie." . Purtroppo anche stavolta alle intenzioni seguirono i fatti.
Nei libri resistenzialisti delle fucilazioni eseguite per controrappresaglia dai partigiani non si trova che qualche traccia, molto ben mascherata, nè la stampa o la pubblicistica di destra ha mai approfondito questo tema. Cosicchè ancora oggi ci sono ignoti non solo la maggior parte degli episodi, ma anche il numero ed il nome degli uccisi. Che martiri sono, almeno quanto quelli delle Fosse Ardeatine. A questo proposito è emblematico un episodio accaduto in Piemonte, nelle Valli di Lanzo.
Nel gennaio 1994 mentre ristrutturava la sua casa alla periferia di Cantoira, in Alta Valle di Lanzo , Pierino Losero ritrova uno scheletro. Nasce un caso di cronaca di cui si occupano non solo i giornali locali , ma anche La Stampa di Torino. Si fanno vari esami e varie ipotesi : dai resti di un guerriero medioevale ad un caduto della Prima Guerra Mondiale. Finchè una lettera anonima ,spedita a La Stampa , e pubblicata il 18/1/1995 non svela il mistero. “Le ossa ritrovate un anno fa hanno un nome e cognome: Werner Teschendorff, ufficiale tedesco della Wehrmacht, nato a Dusseldorf nel 1922. La lettera anonima ha dato ragione a chi pensava ad una vittima della lotta di liberazione. " Nel marzo o aprile del 1944- comincia il primo foglio- mi trovavo distaccato come partigiano GL in una baita sopra Chialamberto, lì ci vennero affidati tre prigionieri tedeschi dal comando garibaldino di Pessinetto" In quei giorni venne catturato dalla milizia repubblicana Battista Gardoncini, che venne poi fucilato a Torino, in piazza Statuto. Di conseguenza al gruppo partigiano del mittente, che ora abita nell' Albese, arrivò l'ordine immediato di fucilazione per rappresaglia per i tre prigionieri. Il comandante Pedro Francina tentò più volte di far annulare l'ordine recandosi al comando di Pessinetto. Fu tutto inutile, i tre tedeschi dovevano essere passati per le armi. Due di loro, graduati e richiamati nell'esercito, furono fucilati in località "Alpe Crot", sopra Chialamberto. Poi il racconto si fa più intenso: "Erano dei bravi ragazzi con i quali avevo fraternizzato, ...con il cuore gonfio di tristezza e rimorso...lo guardavo mentre scriveva le sue ultime volontà...fu trasportato a Cantoira dove fu fucilato e seppellito in una vecchia casa. Aveva 22 anni, era laureato in botanica, doveva sposarsi di lì a poco, morì dignitosamente gridando "Viva la Germania".
Quello che la lettera anonima non dice è che Werner Teschendorff fu uno dei centoventi prigionieri fucilati per vendicare la morte di “Battista”, ce ne dà conferma, in modo sibillino, Gianni Dolino capo partigiano delle Valli di Lanzo :” Battista, comandante delle Valli, e Pino suo commissario vennero catturati a Balme il 29 settembre e fucilati il 12 ottobre ‘44 con sette compagni, in via Cibrario a Torino, presso l’albergo Tre Re. Il comandante della Piazza di Torino, colonnello Schmidt, rifiutò l’offerta di 120 uomini (tra i quali ufficiali tedeschi) della delegazione Garibaldi, tramite la Curia, in cambio di Battista. ......Pietà l’è morta: pagheranno i 120 offerti in cambio! . Durante la guerra civile il CLN non risparmiò certo sulla pubblicità da dare alle rappresaglie eseguite. Tranne a farne sparire , a guerra finita, ogni traccia. In nessun libro ho sinora trovato una sola riproduzione dei tanti manifesti in cui si annunciavano le rappresaglie eseguite. Per certo, d’altronde, il 15 ottobre 1944 la Delegazione della Lombardia del Comando Generale delle Brigate Garibaldi, annuncia in un manifesto che ad un eccidio nel Pavese si è risposto con la fucilazione di 8 prigionieri, a quello di 15 patrioti in provincia di Varese con quella di 45 nazifascisti, mentre l'Unità del 8-ottobre-44 dà la notizia della fucilazione di 35 prigionieri in risposta all'uccisione di 7 partigiani. Pubblicità fu data, non sappiamo per certo con quale strumento, all’uccisione di un tenente fascista il 19-10-44, effettuata dalla Divisione autonoma De Vitis, per rappresaglia contro l'uccisione di un partigiano e alla fucilazione di Luigi Bevilacqua, Luigi Gallo Marchiando, Michele Pozzi e del capitano Aurelio Quattrini , tutti della G.N.R., catturati l’11 marzo mentre eseguivano un trasloco di mobili, ordinata, il 23 marzo 44 , dal capo partigiano Marcellin a seguito di una rappresaglia tedesca a Pomaretto.
Alcune rappresaglie portano inequivocabilmente la matrice della vendetta come quella eseguita dai partigiani a Collegno. In quella cittadina, alle porte di Torino, a “liberazione” avvenuta, il 1°maggio 1945 i tedeschi della divisione corrazzata del Generale Schlemmer, mentre si ritirano, vengono attaccati dai partigiani che sparando dai tetti uccidono due soldati. I tedeschi sospendono la ritirata, rastrellano le strade ed il mattino seguente , non essendosi presentati i responsabili, fucilano trenta tra civili e partigiani. Quando i tedeschi sono lontani ricompaiono i partigiani che si recano alla Brignione, una fabbrica nelle vicinanze; dentro vi sono trenta giovani della Divisione Littorio, nativi di Cremona e Mantova, nascosti lì ,dopo la resa, da un certo Ruchelli, impietositosi dalla loro sorte. Vengono massacrati tutti e trenta assieme agli studenti Tino Di Fullo e Remy Maccani, accusati di essere fascisti. Anche nella zona di Santhià, i tedeschi, che cercano di aprirsi un varco verso oriente, tra il 28 e 29 aprile, provocano morti, i partigiani per vendetta fucilano a Vercelli un egual numero di prigionieri fascisti. Sono i giorni di Caino, i giorni in cui il giornale Il ribelle , organo della IV divisione partigiana Pinan-Chichero, scrive: "Non basterà colpire l'idea, bisognerà colpire chi si è macchiato servendo l'idea fascista e chi si macchierà di fascismo. Occorre epurare: colpire gli individui renitenti, distruggerli, eliminarli integralmente, disinfettare l'aria infetta.... l'eliminazione dovrà colpire migliaia di fascisti ed i colpiti saranno sempre pochi.Non arrestiamoci per sentimantalismo o per stanchezza" la stessa “filosofia “viene ribadita con più autorità da Giorgio Amendola sull’Unità del 29 aprile,di Torino: " Torino è il centro di direzione e di organizzazione di tutto il Piemonte. Il CLNP esercita la sua funzione di governo e coordina e dirige tutta la guerra. I tedeschi e gli ultimi gruppi di banditi neri sono ormai fuorilegge.....Pietà l’è morta! ...E’ la parola d’ordine del momento. I nostri morti devono essere vendicati tutti. I criminali devono essere eliminati. La peste fascista deve essere annientata. Solo così potremo finalmente marciare avanti. Con risolutezza giacobina il coltello deve essere affondato nella piaga, tutto il marcio deve essere tagliato. Non è l'ora questa di abbandonarsi a indulgenze che sarebbero tradimento della causa per cui abbiamo lottato. Pietà l'è morta!” La strage è iniziata, gli ostaggi non servono più. Per essere certi che nessun fascista resti in vita, la 1a Divisione autonoma Val Chisone "A. Serafino", già citata ,emana le Disposizioni sul trattamento da usarsi contro il nemico :”...Trasmetto gli ordini ricevuti dal CVL...gli appartenenti a tutte le truppe volontarie (fasciste) sono considerati fuori legge e condannati a morte. Uguale trattamento sia usato anche per i feriti di tali reparti trovati sul campo...in caso si debba fare dei prigionieri per interrogatori ecc., il prigioniero non deve essere tenuto in vita oltre le tre ore. firmato: Il Comando di Divisione. “Si è alla strage autorizzata. Ma torniamo alle rappresaglie, in particolare a quelle eseguite dai tedeschi e fascisti. Già oggi qualche storico ipotizza, a seguito di ricerche svolte, che molte rappresaglie venissero provocate appositamente per indurre la gente ad odiare i tedeschi ed i fascisti, ed anche per liberarsi di alleati “scomodi”, così come una ricostruzione dell’attentato di Via Rasella può fare concretamente dedurre. “I comunisti sapevano che l'attentato era assolutamente nullo da un punto di vista militare. Sapevano con assoluta certezza che a quell'attentato, a quel tipo di azione sarebbe seguita una rappresaglia. E' altrettanto indubbio che sapevano che le vittime sarebbero state scelte fra i prigionieri antifascisti incarcerati a Roma. I dirigenti del PCI sapevano che circa centotrenta tra ufficiali del Centro Militare Clandestino e uomini di vari partiti non comunisti si trovavano nelle mani della polizia tedesca. L'attentato di via Rasella venne compiuto all'insaputa dei responsabili della lotta clandestina della capitale..........Nulla da stupirsi dunque che uno degli obiettivi, se non il vero obiettivo, fu quello di eliminare alleati che al disegno del PCI si opponevano: E' fuori discussione , infatti, che l'unico vero risultato raggiunto, con l'eccidio di via Rasella ,fu il totale massacro di scomodi alleati che vennero così trasformati in altrettanti comodi martiri al servizio del partito comunista italiano. Lo stesso Indro Montanelli, nel 1983 ,così riassunse l'attentato:" L'attentato fu inutile, perchè a chiunque risultava chiaro che la liberazione di Roma era questione di settimane, poi perchè prese di mira un reparto di anziani territoriali alto-atesini e scatenò la rappresaglia"...da più parti fu sottolineato che "gli ostaggi fucilati erano in maggioranza antifascisti ma non comunisti” La stessa strategia sembra aver suggerito l’uccisione di Ather Capelli. Al mattino del 31 marzo ‘44, vengono arrestati nel Duomo di Torino e sulla piazzetta antistante i componenti del Comitato Piemontese del CLN, in maggioranza badogliano; alle ore 13 dello stesso giorno, due gappisti, Sergio Bravin e Giovanni Pesce, uccidono a revolverate, dentro l’androne di casa, il direttore della Gazzetta del Popolo, Ather Capelli. L’omicidio darà il via alle rappresaglie a Torino e contribuirà notevolmente alla richiesta “di condanna esemplare” che porterà, nonostante gli interventi del Federale Solaro e del prefetto Zerbino per evitarla, alla condanna a morte del generale Perotti e di altri sette membri del CLN Piemontese, catturati. Ma non è solo il caso dell’attentato di Via Rasella o di Torino. Così Liano Fanti, autore del libro " Una storia di campagna. Vita e morte dei fratelli Cervi", in una intervista a La Stampa : "Il Pci ha fatto dei fratelli Cervi una bandiera, in realtà il partito reggiano li aveva emarginati con l'accusa, sostenuta fino alle soglie dello scontro violento, di essere "anarchici" che non avevano assimilato le linee del partito....Il partito rifiutò ai Cervi la copertura di una delle tante "case di latitanza" (nascondigli che ospitavano i compagni che erano in pericolo o stavano per essere scoperti dal nemico) proprio nel momento di massimo pericolo , per i Cervi il rifiuto fu fatale. Questi fatti si trovano anche nella Storia della Resistenza reggiana di Guerrino Franzini. Dopo la cattura dei Cervi era stato emanato l'ordine di non compiere attentati per non mettere in pericolo la vita degli arrestati. Ma qualcuno non rispettò l'ordine e il 17 dicembre '43 uccide il primo seniore della Milizia Giovanni Fagiani. I fascisti minacciano ritorsioni , ma non fanno nulla. Il 27 dicembre un gruppo partigiano uccide il segretario comunale di Bagnolo in Piano, Davide Onfiani. Non passano più di 12 ore e la rappresaglia colpisce i fratelli Cervi. Nel 1980 Osvaldo Poppi, che con il nome di "Davide" era membro del Comitato Militare, in una lettera inviata all' Anpi di Reggio Emilia ha scritto che non aveva potuto fare con i Cervi quello che nel '44 aveva fatto nel Modenese con Giovanni Rossi, un partigiano refrattario ad accettare la linea del partito. Testualmente: “..non avevo potuto eliminarli in virtù della loro "grande statura morale ". Come si può comprendere molte sono ancora le cose da portare alla luce di quello che fu definito il “secondo Risorgimento” , ma ciò a cui più teniamo è che tutti coloro che ebbero il torto di morire per essersi schierati con la parte perdente o più semplicemente per colpa dell’ odio, non cadano nell’oblìo voluto da una storiografia bugiarda. Anche il “nuovo revisionismo resistenzialista” dell’ultimo libro di Pansa - I nostri giorni proibiti-, non ci trova d’accordo laddove la morale di fondo è quella dei vecchi partigiani che , invitano Marco, figlio di un loro compagno misteriosamente ucciso, a smetterla di cercare la verità, ma soprattutto ad abituarsi a non sapere.
· Piazzale Loreto, sacrificio rituale: morte del nuovo Cesare.
Piazzale Loreto, sacrificio rituale: morte del nuovo Cesare. Scritto il 22/10/17 da libreidee.org. Piazzale Loreto: macelleria messicana o rito esoterico? Giorgio Galli, eminente politologo italiano, propende per la seconda ipotesi. Per questo firma il breve saggio pubblicato in appendice nel volume “Mussolini e gli Illuminati”, nel quale Enrico Montermini, giovane ricercatore indipendente, rivisita l’intera parabola del Duce, “da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto”. L’autore mette in luce il legame occulto tra il fascismo, la massoneria italiana e gli ambienti della supermassoneria finanziaria anglosassone. Una lettura raggelante, quella della fine del dittatore interpretata in chiave esoterica: Mussolini ucciso sul Lago di Como e quindi “battezzato”, da morto, in uno strano rito di purificazione, per poi essere tradotto a Milano, fotografato cadavere con in pugno uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e infine appeso a testa in giù, per richiamare un altro degli “arcani”, l’Appeso, simbolo del poterecapovolto. Tutto questo a piazzale Loreto, cioè «non a caso, nella piazza milanese dedicata alla Madonna», visto che – nella folle visione dei registi del macabro spettacolo – proprio «nel grembo della beata vergine» doveva “nascere”, simbolicamente, il nuovo Cristo. Un secondo avvento del messia, «propiziato dalla caduta del nuovo Giulio Cesare».
Delirio? Eppure coincide alla lettera con la cronologia di quei drammatici giorni. Montermini sostiene che l’atroce scempio di piazzale Loreto parrebbe la diligente attuazione della “profezia” pronunciata nel 1908 dall’esoterista inglese Annie Besant, leader della Società Teosofica fondata da Helena Petrovna Blavatsky. La Besant parla per la prima volta di un nuovo periodo, il passaggio dall’Età dei Pesci all’Età dell’Acquario, segnata dal ritorno di Cristo sulla Terra, preceduto però dalla reincarnazione di Giulio Cesare, che dovrà regnare e poi cadere. Ma che c’entra Mussolini con le visioni di certo esoterismo? C’entra eccome, assicura Montermini, che si incarica di indagare cercando «l’altra faccia della storia, quella che si nasconde dietro gli avvenimenti narrati nei libri». Basta verificare chi favorì la nascita ufficiale del fascismo, il 23 marzo 1919 in piazza San Sepolcro a Milano: «Intorno a Mussolini troviamo sempre personaggi legati al substrato del mondo esoterico: massoneria e altri ordini iniziatici ancora più segreti e potenti, e naturalmente molto meno conosciuti, come la paramassoneria finanziaria con i suoi circoli elitari». La tesi: «Mussolini fu selezionato, fu aiutato ad arrivare al potere». Lo dimostrano «forze politiche ed esoteriche, presenti a piazza San Sepolcro nel momento in cui fu fondato il fascismo».
Secondo Montermini, documenti alla mano, Mussolini ricevette una vera e propria investitura dal mondo delle società segrete, da parte di un personaggio in apparenza folkoristico, Regina Teruzzi, che in realtà «era la medium di un gruppo di potentissimi e autorevolissimi cultori della tradizione romana, l’aristocrazia nera dedita alla tradizione pagana». Personaggi di spicco: il duca Giovanni Antonio Colonna Di Cesarò, noto cultore della teosofia e dell’antroposofia (che poi diventerà ministro delle Poste del governo Mussolini) e Don Leone Caetani, anche lui appartenente a una delle più antiche e potenti famiglie dell’aristocrazia nera romana, il cui fratello – Celaso Caetani – diventerà ambasciatore d’Italia a Washington subito dopo la Marcia su Roma (una nomina irrituale, di provenienza non diplomatica, che suscitò scandalo alla Farnesina). Questi personaggi «invitarono la Teruzzi nel “dies natalis” del fascismo per dare a Mussolini la loro investitura». Lei, la medium, «gli profetizzò che sarebbe diventato “console d’Italia”», cioè autocrate. Investitura “profetica” che avvenne a Palazzo Castani, in piazza San Sepolcro, «sede notoria della massoneria milanese».
La sala per il ricevimento, aggiunge Montermini, fu messa a disposizione da Cesare Goldman, «israelita, altissimo dignitario della massoneria italiana». Nella regia dell’operazione c’era anche il maggiore sponsor del fascismo “antemarcia”, cioè la Banca Commerciale Italiana, massonica, allora diretta da Jósef Leopold Toeplitz, «seguace dell’eresia “franchista”, una setta ereticale ebraica che aveva mischiato l’antico sapere cabalistico ebraico con i riti orgiastici delle religioni gnostiche del mondo antico». Tra i fondatori del fascismo, in quella occasione, «troviamo un lungo elenco di personaggi associati alla massoneria». Lo stesso gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Domizio Torrigiani, «dice che una centuria di massoni milanesi fu tra i fondatori dei Fasci di Combattimento». Mussolini – deduce Montermini – fu accuratamente selezionato dalle società segrete «per rimettere in piedi l’Italia», piegata dagli scioperi insurrezionali del “biennio rosso”, con le fabbriche di armi occupate dagli operai.
Il futuro Duce «era perfettamente consapevole di quei piani». La cosa non sorprende: «Già all’indomani della Prima GuerraMondiale era molto vicino alla massoneria». Per un certo periodo «andò d’amore e d’accordo con le logge, e questo spiega l’aiuto che la massoneria ha dato al successo della Marcia su Roma, soprattutto in termini di desistenza, da parte degli apparati repressivi dello Stato». Fino al 1922, continua lo storico, Mussolini ebbe stretti rapporti con Torrigiani, il leader del Goi. E alla vigilia della Marcia su Roma iniziò a intrattenere rapporti (durati fino al 1925) anche con Raoul Palermi, il “venerabile” della Gran Loggia d’Italia, la massoneria “scozzese” di Piazza del Gesù. «Non a caso Mussolini era circondato da massoni, basta guardare le foto della Marcia su Roma, i cui “quadrumviri” sono tutti affiliati alla massoneria: Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi». Montermini esibisce un’altra foto storica, quella della stretta di mano tra il capo del fascismo e il sovrano, Vittorio Emanuele III, all’indomani della marcia. Un momento solenne, con la frase passata alla storia(«Sire, vi offro l’Italia di Vittorio Veneto») suggellata da una stretta di mano particolare, “massonica”. Il Savoia era massone? Sì, secondo documenti dell’intelligence Usa: era il numero uno della Gran Loggia, al di sopra di Palermi. «E nel libro – rivela Montermini – dimostro che era massone lo stesso Mussolini», anche se poi, nel 1925, il dittatore non esiterà a mettere fuorilegge le società segrete.
Nel volume, Montermini cita le testimonianze di Cesare Rossi (segretario del Duce, affiliato alla Gran Loggia d’Italia) e Michele Terzaghi (deputato del Pnf, alto dignitario della Gran Loggia): entrambi confermano che Mussolini ricevette “in punta di spada” la consacrazione al 33esimo grado del “rito scozzese antico e accettato”.Terzaghi testimonia che Palermi consegnò a Mussolini il brevetto massonico del 33esimo grado “ad honorem” e gli esibì la Dichiarazione di Principi contenuta nel Manuale massonico degli Apprendisti, su cui Mussolini appose di suo pugno le parole “Visto e approvato”. «Firmò un impegno scritto con la massoneria». Glielo ricorderà lo stesso Palermi molti anni dopo, nel 1934, in una lettera autografa – rintracciata da Montermini – in cui il “sovrano gran maestro” della Gran Loggia d’Italia rinfresca la memoria al Duce, rammentandogli come “onorò” quella dichiarazione massonica «il 12 novembre 1922, all’Hotel Savoia». Quel documento, scrive Palermi a Mussolini, «fu riprodotto nei libri di Piazza del Gesù». Aggiunge il gran maestro, sempre rivolto al dittatore: «Il prezioso originale fa ora parte di un museo di quegli americani fedeli, ai quali ci rivolgemmo all’indomani della trionfante Marcia su Roma. Ricordate?».
Quella lettera, secondo Montermini, certifica in modo evidente l’affiliazione di Mussolini nella massoneria, da cui poi prese le distanze sacrificando la libera muratoria «sull’altare dei Patti Lateranensi», privilegiando il rapporto con l’altro super-potereitaliano, il Vaticano. Ma anche la sopressione formale delle comunioni massoniche «rientrava in un disegno più vasto, di cui Mussolini era al corrente: azzerare la massoneria italiana per poi rifondarla, in ossequio al progetto anglosassone di “nuovo ordine mondiale”». Secondo il ricercatore, «Mussolini firmò la sua condanna a morte quando si rifiutò (sulla base probabilmente degli impegni presi con Churchill il 15 gennaio 1927 a Roma) di adempiere alla sua parte dell’accordo, cioè permettere alla massoneria di ricostituirsi e riprendere a operare, rifondata su più solide basi spirituali. Ma c’erano anche stringenti ragioni finanziarie: per esempio, i tentativi dell’Agip di mettere le mani sul pozzi di petrolio iracheni di Mosul». Forse non è casuale neppure la scelta della “forca” di piazzale Loreto: un distributore di carburante della Standard Oil, poi Esso, compagnia fondata da John Davison Rockefeller.
Gli storici sottolineano il primo Mussolini, antimassonico: da direttore dell’“Avanti” fu il regista del congresso che, nel 1914, dichiarò incompatibile l’appartenza alla massoneria con la militanza nel partito socialista. Ma la vera storiadel Duce è oscillante e contraddittoria, obietta Montermini: appena un anno dopo quel congresso, quando Mussolini ruppe con la direzione del Psi e venne cacciato dal partito (politicamente era un uomo finito) a salvarlo, letteralmente, fu il massone Filippo Naldi, «altissimo dignitario di Piazza del Gesù», che mise in piedi il “Popolo d’Italia” affidandone la direzione a Mussolini. Dopo l’ascesa al potere(e il successivo scaricamento della massoneria, che l’aveva aiutato nella Marcia su Roma), il Duce subì diversi attentati «di matrice esoterica», tra cui quello di una donna irlandese, Violet Gibson, che il 7 aprile 1926 gli sparò, ferendolo al naso. «Il gesto di una pazza», si disse, ma Montermini non concorda: la Gibson aveva conosciuto Colonna Di Cesarò (il promotore di piazza San Sepolcro) durante una riunione della Società Teosofica a Monaco di Baviera. E tentò di uccidere Mussolini «poche ore dopo la morte di Giovanni Amendola, massone e teosofo». I mandanti? «A Londra», sospetta Montermini.
Sul fascismo, sostiene lo storico, premevano gli antesignani del New World Order (la finanza“illuminata” di Wall Street) ma anche «il progetto del paganesimo guerriero indoeuropeo e il Movimento Sinarchico d’Impero, francese», ispirato al parigino Joseph Alexandre Saint-Yves, marchese d’Alveydre, teorico della “sinarchia”: il governo oligarchico delle élite visto quasi come una forma di religione. «Quelli che nel libro chiamo “gli Illuminati” esercitavano fortissime pressioni su Mussolini, ma erano divisi al loro interno sulla spartizione del potere». Poi però un accordo lo trovarono, perlomeno sulla fine del Duce italiano: «A inchiodare Roosevelt e Churchill è una intercettazione dei servizi segreti tedeschi», racconta Montermini. Il presidentre americano e il premier britannico «stabilirono nel 1943 che Mussolini doveva essere ucciso». Per la cronaca: «Roosevelt era un 32esimo grado del rito scozzese e Churchill un 33esimo grado, come il successore di Roosevelt, Harry Truman, presidente degli Stati Uniti quando Mussolini venne ucciso».
La morte del dittatore, catturato a Dongo il 27 aprile 1945, e avvenuta l’indomani nel pomeriggio a Giulino di Mezzegra, secondo la storiografia ufficiale, per Montermini sarebbe avvenuta in circostanze controverse e non del tutto chiarite. In particolare, racconta il ricercatore, la popolazione locale rimase turbata dallo strano “rito” cui sarebbe stato sottoposto il cadavere del dittatore: spogliato e lavato a una fontana, «come una sorta di rito battesimale di purificazione». Qualcosa di anomalo, al punto da «spingere gli abitanti della zona a far benedire quei luoghi, poi, dai parroci». Montermini parla di «modalità esoteriche della fine di Mussolini, trascurate dagli storici forse perché privi degli strumenti per penetrare quel linguaggio allegorico e simbolico». L’autore sostiene che la scena dell’esecuzione sia stata alterata, e il cadavere «spostato dal luogo del delitto al cancello di Villa Belmonte», prima di raggiungere Milano il 29 aprile. Il corpo di Mussolini, insieme a quello di Claretta Petacci e dei 16 “gerarchi” fucilati, fu condotto a piazzale Loreto: il luogo dove, il 10 agosto 1944, erano stati giustiziati 15 partigiani, i cui corpi erano stati dileggiati e lasciati esposti al sole per l’intera giornata, impedendo ai familiari di raccoglierne i resti.
Secondo Montermini, però, la scelta di piazzale Loreto può avere anche un’altra spiegazione, lugubremente simbolica: la preparazione del “nuovo avvento di Cristo”. Fra le tante immagini, scattate e filmate dai “combat filmakers” della Quinta Armata americana agli ordini del Moral Operations Branch dell’Oss (futura Cia), ce n’è una che mostra il corpo di Mussolini ricomposto, con nella mano destra «qualcosa di simile a uno scettro», proprio come l’Imperatore nei tarocchi. «E’ una foto stra-pubblicata ma con l’inquadratura ristretta sui volti di Mussolini e della Petacci, escludendo lo scettro». Per Montermini quella messinscena «è il secondo atto della cerimonia: la consacrazione». Cosa si voleva consacrare? «Mussolini è consacrato come il nuovo Giulio Cesare di cui parlava la Besant nel 1909, nella conferenza “Il secondo ritorno di Cristo sulla Terra”». In altre parole «un Giulio Cesare esoterico, in previsione di propiziare il ritorno di Cristo sulla Terra. E dove altro poteva reimcarnarsi, Gesù Cristo, se non nel grembo della vergine Maria, ossia – a livello metaforico, sempre – al centro di piazzale Loreto, la piazza dedicata alla Madonna di Loreto?».
Non è finita: «Terza e ultima fase del rituale, Mussolini viene appeso a testa in giù», come appunto l’Appeso dei tarocchi. La cosa ha «un duplice significato: il sacrificio (ecco quindi l’atto sacrificale per propiziare qualcosa) e l’iniziato, cioè colui che si fa ricettacolo passivo di forze cosmiche, e questo può avvenire soltanto in una fase successiva alla consacrazione esoterica di Mussolini quale novello Giulio Cesare». Per Montermini, si tratterebbe di un dramma simbolico in tre atti – battesimo, consacrazione “romana” e capovolgimento – che suggerisce l’identità dei mandanti, cioè gli alti vertici delle società segrete, gli Illuminati del tempo, e la massoneria angloamericana. Fantasie? Non proprio. «Giorgio Galli si è misurato con le tesi del mio libro, arrivando alla mia stessa conclusione: i fatti di piazzale Loreto, così come raccontati nei libri di storiaper 70 anni, sono da riscrivere», ribadisce Montermini. «La mia intuizione la si può analizzare e discutere, ma non confutare: non si può più fare finta di niente». Aggiunge il ricercatore: «Tendiamo a dare spiegazioni sempre razionali deella storia, ma la storiala fanno gli esseri umani, con le loro convinzioni anche religiose. Io non credo in questo tipo di attività occulte – precisa l’autore – ma dal punto di vista storico non possiamo negare il fatto che esistano persone che credono in queste cose, e spesso queste persone sono ai vertici della società».
Politica, burocrazia, forze armate: «Non è indifferente sapere che tutte queste persone, che occupano posizioni di potere, credono in una dottrina esoterica che rappresenta il mondo in un certo modo, e che vuole dare un certo indirizzo anche spirituale all’attività quotidiana degli affiliati», sottolinea Montermini. «Ma non c’è solo la massomeria, c’è anche la massoneria deviata, quella dei contro-iniziati, i gruppi esoterici che si ispirano alla massoneria come tipo di organizzazione ma portano avanti un pensiero, una filosofia, una dottrina esoterica diversa, in tutto o in parte, da quella massonica». Lo sappiamo: «Ci sono maestri spirituali che hanno tra i loro adepti personaggi potentissimi, in grado di condizionare la politicadegli Stati e quindi la vita di milioni di persone. E dal punto di vista storico, far finta che questa cosa non esista è una mistificazione», concude Montermini. «Si presuppone che i fatti abbiano sempre una consequenzalità logica, negando quindi la presenza dell’irrazionale all’interno della storia: una visione “magica” del mondo che è stata insegnata all’interno dei circoli esoterici, magici, alchemici». Se i grandi poteri non potevano non essere con Mussolini, al momento della sua prodigiosa ascesa, forse non c’è da stupirsi troppo se poi qualcuno sostiene che la sua caduta sia stata davvero “celebrata” come un terribile sacrificio rituale.
(Il libro: Enrico Montermini, “Mussolini e gli Illuminati. Da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto”, Edizioni Sì, 214 pagine, 16 euro. In appendice, nel volume, uno studio di Giorgio Galli, “Piazzale Loreto: macelleria messicana o rito esoterico?”. Molte dichiarazioni di Montermini, in merito al contenuto del libro, sono rintracciabili in filmati su YouTube come “Da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto” e “Mussolini e gli Illuminati”).
Piazzale Loreto: macelleria messicana o rito esoterico? Giorgio Galli, eminente politologo italiano, propende per la seconda ipotesi. Per questo firma il breve saggio pubblicato in appendice nel volume “Mussolini e gli Illuminati”, nel quale Enrico Montermini, giovane ricercatore indipendente, rivisita l’intera parabola del Duce, “da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto”. L’autore mette in luce il legame occulto tra il fascismo, la massoneria italiana e gli ambienti della supermassoneria finanziaria anglosassone. Una lettura raggelante, quella della fine del dittatore interpretata in chiave esoterica: Mussolini ucciso sul Lago di Como e quindi “battezzato”, da morto, in uno strano rito di purificazione, per poi essere tradotto a Milano, fotografato cadavere con in pugno uno scettro (come l’Imperatore dei tarocchi) e infine appeso a testa in giù, per richiamare un altro degli “arcani”, l’Appeso, simbolo del poterecapovolto. Tutto questo a piazzale Loreto, cioè «non a caso, nella piazza milanese dedicata alla Madonna», visto che – nella folle visione dei registi del macabro spettacolo – proprio «nel grembo della beata vergine» doveva “nascere”, simbolicamente, il nuovo Cristo. Un secondo avvento del messia, «propiziato dalla caduta del nuovo Giulio Cesare».
Delirio? Eppure coincide alla lettera con la cronologia di quei drammatici giorni. Montermini sostiene che l’atroce scempio di piazzale Loreto parrebbe la diligente attuazione della “profezia” pronunciata nel 1908 dall’esoterista inglese Annie Besant, leader della Società Teosofica fondata da Helena Petrovna Blavatsky. La Besant parla per la prima volta di un nuovo periodo, il passaggio dall’Età dei Pesci all’Età dell’Acquario, segnata dal ritorno di Cristo sulla Terra, preceduto però dalla reincarnazione di Giulio Cesare, che dovrà regnare e poi cadere. Ma che c’entra Mussolini con le visioni di certo esoterismo? C’entra eccome, assicura Montermini, che si incarica di indagare cercando «l’altra faccia della storia, quella che si nasconde dietro gli avvenimenti narrati nei libri». Basta verificare chi favorì la nascita ufficiale del fascismo, il 23 marzo 1919 in piazza San Sepolcro a Milano: «Intorno a Mussolini troviamo sempre personaggi legati al substrato del mondo esoterico: massoneria e altri ordini iniziatici ancora più segreti e potenti, e naturalmente molto meno conosciuti, come la paramassoneria finanziaria con i suoi circoli elitari». La tesi: «Mussolini fu selezionato, fu aiutato ad arrivare al potere». Lo dimostrano «forze politiche ed esoteriche, presenti a piazza San Sepolcro nel momento in cui fu fondato il fascismo».
Secondo Montermini, documenti alla mano, Mussolini ricevette una vera e propria investitura dal mondo delle società segrete, da parte di un personaggio in apparenza folkoristico, Regina Teruzzi, che in realtà «era la medium di un gruppo di potentissimi e autorevolissimi cultori della tradizione romana, l’aristocrazia nera dedita alla tradizione pagana». Personaggi di spicco: il duca Giovanni Antonio Colonna Di Cesarò, noto cultore della teosofia e dell’antroposofia (che poi diventerà ministro delle Poste del governo Mussolini) e don Leone Caetani, anche lui appartenente a una delle più antiche e potenti famiglie dell’aristocrazia nera romana, il cui fratello – Celaso Caetani – diventerà ambasciatore d’Italia a Washington subito dopo la Marcia su Roma (una nomina irrituale, di provenienza non diplomatica, che suscitò scandalo alla Farnesina). Questi personaggi «invitarono la Teruzzi nel “dies natalis” del fascismo per dare a Mussolini la loro investitura». Lei, la medium, «gli profetizzò che sarebbe diventato “console d’Italia”», cioè autocrate. Investitura “profetica” che avvenne a Palazzo Castani, in piazza San Sepolcro, «sede notoria della massoneria milanese».
La sala per il ricevimento, aggiunge Montermini, fu messa a disposizione da Cesare Goldman, «israelita, altissimo dignitario della massoneria italiana». Nella regia dell’operazione c’era anche il maggiore sponsor del fascismo “antemarcia”, cioè la Banca Commerciale Italiana, massonica, allora diretta da Jósef Leopold Toeplitz, «seguace dell’eresia “franchista”, una setta ereticale ebraica che aveva mischiato l’antico sapere cabalistico ebraico con i riti orgiastici delle religioni gnostiche del mondo antico». Tra i fondatori del fascismo, in quella occasione, «troviamo un lungo elenco di personaggi associati alla massoneria». Lo stesso gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Domizio Torrigiani, «dice che una centuria di massoni milanesi fu tra i fondatori dei Fasci di Combattimento». Mussolini – deduce Montermini – fu accuratamente selezionato dalle società segrete «per rimettere in piedi l’Italia», piegata dagli scioperi insurrezionali del “biennio rosso”, con le fabbriche di armi occupate dagli operai.
Il futuro Duce «era perfettamente consapevole di quei piani». La cosa non sorprende: «Già all’indomani della Prima Guerra Mondiale era molto vicino alla massoneria». Per un certo periodo «andò d’amore e d’accordo con le logge, e questo spiega l’aiuto che la massoneria ha dato al successo della Marcia su Roma, soprattutto in termini di desistenza, da parte degli apparati repressivi dello Stato». Fino al 1922, continua lo storico, Mussolini ebbe stretti rapporti con Torrigiani, il leader del Goi. E alla vigilia della Marcia su Roma iniziò a intrattenere rapporti (durati fino al 1925) anche con Raoul Palermi, il “venerabile” della Gran Loggia d’Italia, la massoneria “scozzese” di Piazza del Gesù. «Non a caso Mussolini era circondato da massoni, basta guardare le foto della Marcia su Roma, i cui “quadrumviri” sono tutti affiliati alla massoneria: Italo Balbo, Michele Bianchi, Emilio De Bono e Cesare Maria De Vecchi». Montermini esibisce un’altra foto storica, quella della stretta di mano tra il capo del fascismo e il sovrano, Vittorio Emanuele III, all’indomani della marcia. Un momento solenne, con la frase passata alla storia («Sire, vi offro l’Italia di Vittorio Veneto») suggellata da una stretta di mano particolare, “massonica”. Il Savoia era massone? Sì, secondo documenti dell’intelligence Usa: era il numero uno della Gran Loggia, al di sopra di Palermi. «E nel libro – rivela Montermini – dimostro che era massone lo stesso Mussolini», anche se poi, nel 1925, il dittatore non esiterà a mettere fuorilegge le società segrete.
Nel volume, Montermini cita le testimonianze di Cesare Rossi (segretario del Duce, affiliato alla Gran Loggia d’Italia) e Michele Terzaghi (deputato del Pnf, alto dignitario della Gran Loggia): entrambi confermano che Mussolini ricevette “in punta di spada” la consacrazione al 33esimo grado del “rito scozzese antico e accettato”. Terzaghi testimonia che Palermi consegnò a Mussolini il brevetto massonico del 33esimo grado “ad honorem” e gli esibì la Dichiarazione di Principi contenuta nel Manuale massonico degli Apprendisti, su cui Mussolini appose di suo pugno le parole “Visto e approvato”. «Firmò un impegno scritto con la massoneria». Glielo ricorderà lo stesso Palermi molti anni dopo, nel 1934, in una lettera autografa – rintracciata da Montermini – in cui il “sovrano gran maestro” della Gran Loggia d’Italia rinfresca la memoria al Duce, rammentandogli come “onorò” quella dichiarazione massonica «il 12 novembre 1922, all’Hotel Savoia». Quel documento, scrive Palermi a Mussolini, «fu riprodotto nei libri di Piazza del Gesù». Aggiunge il gran maestro, sempre rivolto al dittatore: «Il prezioso originale fa ora parte di un museo di quegli americani fedeli, ai quali ci rivolgemmo all’indomani della trionfante Marcia su Roma. Ricordate?».
Quella lettera, secondo Montermini, certifica in modo evidente l’affiliazione di Mussolini nella massoneria, da cui poi prese le distanze sacrificando la libera muratoria «sull’altare dei Patti Lateranensi», privilegiando il rapporto con l’altro super-potere italiano, il Vaticano. Ma anche la soppressione formale delle comunioni massoniche «rientrava in un disegno più vasto, di cui Mussolini era al corrente: azzerare la massoneria italiana per poi rifondarla, in ossequio al progetto anglosassone di “nuovo ordine mondiale”». Secondo il ricercatore, «Mussolini firmò la sua condanna a morte quando si rifiutò (sulla base probabilmente degli impegni presi con Churchill il 15 gennaio 1927 a Roma) di adempiere alla sua parte dell’accordo, cioè permettere alla massoneria di ricostituirsi e riprendere a operare, rifondata su più solide basi spirituali. Ma c’erano anche stringenti ragioni finanziarie: per esempio, i tentativi dell’Agip di mettere le mani sul pozzi di petrolio iracheni di Mosul». Forse non è casuale neppure la scelta della “forca” di piazzale Loreto: un distributore di carburante della Standard Oil, poi Esso, compagnia fondata da John Davison Rockefeller.
Gli storici sottolineano il primo Mussolini, antimassonico: da direttore dell’“Avanti” fu il regista del congresso che, nel 1914, dichiarò incompatibile l’appartenenza alla massoneria con la militanza nel partito socialista. Ma la vera storia del Duce è oscillante e contraddittoria, obietta Montermini: appena un anno dopo quel congresso, quando Mussolini ruppe con la direzione del Psi e venne cacciato dal partito (politicamente era un uomo finito) a salvarlo, letteralmente, fu il massone Filippo Naldi, «altissimo dignitario di Piazza del Gesù», che mise in piedi il “Popolo d’Italia” affidandone la direzione a Mussolini. Dopo l’ascesa al potere (e il successivo scaricamento della massoneria, che l’aveva aiutato nella Marcia su Roma), il Duce subì diversi attentati «di matrice esoterica», tra cui quello di una donna irlandese, Violet Gibson, che il 7 aprile 1926 gli sparò, ferendolo al naso. «Il gesto di una pazza», si disse, ma Montermini non concorda: la Gibson aveva conosciuto Colonna Di Cesarò (il promotore di piazza San Sepolcro) durante una riunione della Società Teosofica a Monaco di Baviera. E tentò di uccidere Mussolini «poche ore dopo la morte di Giovanni Amendola, massone e teosofo». I mandanti? «A Londra», sospetta Montermini.
Sul fascismo, sostiene lo storico, premevano gli antesignani del New World Order (la finanza“illuminata” di Wall Street) ma anche «il progetto del paganesimo guerriero indoeuropeo e il Movimento Sinarchico d’Impero, francese», ispirato al parigino Joseph Alexandre Saint-Yves, marchese d’Alveydre, teorico della “sinarchia”: il governo oligarchico delle élite visto quasi come una forma di religione. «Quelli che nel libro chiamo “gli Illuminati” esercitavano fortissime pressioni su Mussolini, ma erano divisi al loro interno sulla spartizione del potere». Poi però un accordo lo trovarono, perlomeno sulla fine del Duce italiano: «A inchiodare Roosevelt e Churchill è una intercettazione dei servizi segreti tedeschi», racconta Montermini. Il presidente americano e il premier britannico «stabilirono nel 1943 che Mussolini doveva essere ucciso». Per la cronaca: «Roosevelt era un 32esimo grado del rito scozzese e Churchill un 33esimo grado, come il successore di Roosevelt, Harry Truman, presidente degli Stati Uniti quando Mussolini venne ucciso».
La morte del dittatore, catturato a Dongo il 27 aprile 1945, e avvenuta l’indomani nel pomeriggio a Giulino di Mezzegra, secondo la storiografia ufficiale, per Montermini sarebbe avvenuta in circostanze controverse e non del tutto chiarite. In particolare, racconta il ricercatore, la popolazione locale rimase turbata dallo strano “rito” cui sarebbe stato sottoposto il cadavere del dittatore: spogliato e lavato a una fontana, «come una sorta di rito battesimale di purificazione». Qualcosa di anomalo, al punto da «spingere gli abitanti della zona a far benedire quei luoghi, poi, dai parroci». Montermini parla di «modalità esoteriche della fine di Mussolini, trascurate dagli storici forse perché privi degli strumenti per penetrare quel linguaggio allegorico e simbolico». L’autore sostiene che la scena dell’esecuzione sia stata alterata, e il cadavere «spostato dal luogo del delitto al cancello di Villa Belmonte», prima di raggiungere Milano il 29 aprile. Il corpo di Mussolini, insieme a quello di Claretta Petacci e dei 16 “gerarchi” fucilati, fu condotto a piazzale Loreto: il luogo dove, il 10 agosto 1944, erano stati giustiziati 15 partigiani, i cui corpi erano stati dileggiati e lasciati esposti al sole per l’intera giornata, impedendo ai familiari di raccoglierne i resti.
Secondo Montermini, però, la scelta di piazzale Loreto può avere anche un’altra spiegazione, lugubremente simbolica: la preparazione del “nuovo avvento di Cristo”. Fra le tante immagini, scattate e filmate dai “combat filmakers” della Quinta Armata americana agli ordini del Moral Operations Branch dell’Oss (futura Cia), ce n’è una che mostra il corpo di Mussolini ricomposto, con nella mano destra «qualcosa di simile a uno scettro», proprio come l’Imperatore nei tarocchi. «E’ una foto stra-pubblicata ma con l’inquadratura ristretta sui volti di Mussolini e della Petacci, escludendo lo scettro». Per Montermini quella messinscena «è il secondo atto della cerimonia: la consacrazione». Cosa si voleva consacrare? «Mussolini è consacrato come il nuovo Giulio Cesare di cui parlava la Besant nel 1909, nella conferenza “Il secondo ritorno di Cristo sulla Terra”». In altre parole «un Giulio Cesare esoterico, in previsione di propiziare il ritorno di Cristo sulla Terra. E dove altro poteva reincarnarsi, Gesù Cristo, se non nel grembo della vergine Maria, ossia – a livello metaforico, sempre – al centro di piazzale Loreto, la piazza dedicata alla Madonna di Loreto?».
Non è finita: «Terza e ultima fase del rituale, Mussolini viene appeso a testa in giù», come appunto l’Appeso dei tarocchi. La cosa ha «un duplice significato: il sacrificio (ecco quindi l’atto sacrificale per propiziare qualcosa) e l’iniziato, cioè colui che si fa ricettacolo passivo di forze cosmiche, e questo può avvenire soltanto in una fase successiva alla consacrazione esoterica di Mussolini quale novello Giulio Cesare». Per Montermini, si tratterebbe di un dramma simbolico in tre atti – battesimo, consacrazione “romana” e capovolgimento – che suggerisce l’identità dei mandanti, cioè gli alti vertici delle società segrete, gli Illuminati del tempo e la massoneria angloamericana. Fantasie? Non proprio. «Giorgio Galli si è misurato con le tesi del mio libro, arrivando alla mia stessa conclusione: i fatti di piazzale Loreto, così come raccontati nei libri di storia per 70 anni, sono da riscrivere», ribadisce Montermini. «La mia intuizione la si può analizzare e discutere, ma non liquidare: non si può più fare finta di niente». Aggiunge il ricercatore: «Tendiamo a dare spiegazioni sempre razionali della storia, ma la storia la fanno gli esseri umani, con le loro convinzioni anche religiose. Io non credo in questo tipo di attività occulte – precisa l’autore – ma dal punto di vista storico non possiamo negare il fatto che esistano persone che credono in queste cose, e spesso queste persone sono ai vertici della società».
Politica, burocrazia, forze armate: «Non è indifferente sapere che tutte queste persone, che occupano posizioni di potere, credono in una dottrina esoterica che rappresenta il mondo in un certo modo, e che vuole dare un certo indirizzo anche spirituale all’attività quotidiana degli affiliati», sottolinea Montermini. «Ma non c’è solo la massoneria, c’è anche la massoneria deviata, quella dei contro-iniziati, i gruppi esoterici che si ispirano alla massoneria come tipo di organizzazione ma portano avanti un pensiero, una filosofia, una dottrina esoterica diversa, in tutto o in parte, da quella massonica». Lo sappiamo: «Ci sono maestri spirituali che hanno tra i loro adepti personaggi potentissimi, in grado di condizionare la politica degli Stati e quindi la vita di milioni di persone. E dal punto di vista storico, far finta che questa cosa non esista è una mistificazione», concude Montermini. «Si presuppone che i fatti abbiano sempre una consequenzalità logica, negando quindi la presenza dell’irrazionale all’interno della storia: una visione “magica” del mondo che è stata insegnata all’interno dei circoli esoterici, magici, alchemici». Se i grandi poteri non potevano non essere con Mussolini, al momento della sua prodigiosa ascesa, forse non c’è da stupirsi troppo se poi qualcuno sostiene che la sua caduta sia stata davvero “celebrata” come un terribile sacrificio rituale.
(Il libro: Enrico Montermini, “Mussolini e gli Illuminati. Da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto”, Edizioni Sì, 214 pagine, 16 euro. In appendice, nel volume, uno studio di Giorgio Galli, “Piazzale Loreto: macelleria messicana o rito esoterico?”. Molte dichiarazioni di Montermini, in merito al contenuto del libro, sono rintracciabili in filmati su YouTube come “Da piazza San Sepolcro al rito sacrificale di piazzale Loreto” e “Mussolini e gli Illuminati”).
“CHURCHILL VOLLE LA MORTE DI BENITO MUSSOLINI E CLARETTA PETACCI”. Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 29 ottobre 2019. Parlare con Luciano Garibaldi è una esperienza unica. La cultura, la serietà e l'approfondimento di ogni fatto storico rappresentano il substrato culturale della nostra contemporaneità. Ogni passaggio storico narrato da Garibaldi è circostanziato e sostenuto da documenti e da prove. La sua ricerca sulla morte di Benito Mussolini e Claretta Petacci è la base storica su cui fondare la nascita della nostra Repubblica.
Luciano, che cosa ti spinse ad occuparti di una vicenda storica come la fine del fondatore del fascismo?
«Sulla morte del Duce e della sua amante iniziai a indagare nel 1994 con una serie di servizi giornalistici per il quotidiano La Notte e il settimanale Noi della Mondadori, che ebbero risonanza internazionale. Poco tempo dopo, il grande storico Renzo De Felice dichiarò, nel libro-intervista scritto con Pasquale Chessa, che la "vulgata" era falsa e che il capo del fascismo era stato ucciso per ordine di Churchill. Valeva la pena di proseguire su quella strada. Fu così che pubblicai, con la Ares, La pista inglese. Chi uccise Mussolini e la Petacci?».
Se non ricordo male, proprio in quel periodo lo scrittore americano Peter Tompkins realizzò il documentario televisivo in tre puntate per Rai Tre intitolato Mussolini: l' ultima verità.
«Tompkins, che nel '45, appena 24enne, era stato ai vertici dell' OSS (Office of Strategic Services) a Roma, sposava in pieno la mia tesi e accreditava il racconto di Bruno Giovanni Lonati, l' ex partigiano garibaldino che era stato "ingaggiato", con i suoi uomini, dagli inglesi dell' Intelligence Service per portare a termine la missione. L' ultimo mio lavoro per costruire finalmente la verità su quell' evento è stato Perché uccisero Mussolini e Claretta? La verità negli archivi del PCI, scritto assieme al compianto senatore Franco Servello e pubblicato da Rubbettino».
Quale seguito ebbe la pubblicazione del tuo libro?
«La pista inglese fu accolto con grande interesse dai lettori (tre edizioni in pochi mesi) e da quei mass media non più asserviti alla pseudocultura filocomunista che da oltre mezzo secolo dominava il mondo dell' editoria italiana (cartacea, radiofonica, televisiva e informatica, quest' ultima un po' meno). La mia indagine era il frutto di otto anni di ricerche. Prendeva l' avvio da un famoso documento: il fonogramma inviato il 27 aprile 1945 dal CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) al comando del Gruppo d' Armate alleato che, alla notizia dell' avvenuto arresto a Dongo, aveva richiesto la immediata consegna di Mussolini, in attuazione delle clausole dell' armistizio. La risposta fu una menzogna: "Non possiamo consegnarvi Mussolini perché è stato fucilato in piazzale Loreto, nello stesso punto dove erano stati assassinati i nostri compagni". Non era vero. Mussolini, in quel momento, era ancora prigioniero a Dongo. Ma il fonogramma dimostrava che i capi della Resistenza avevano deciso di portare Mussolini a Milano e fucilarlo in piazzale Loreto, dinnanzi al popolo, con una solenne esecuzione capitale sul tipo della decapitazione di Luigi XVI. Assieme a Mussolini, avrebbero dovuto essere "giustiziati" altri 15 esponenti fascisti: tanti quanti erano stati i partigiani fucilati per una rappresaglia a piazzale Loreto nell' agosto precedente».
Perché tale proposito non fu realizzato? Che cosa intervenne a mandarlo a monte?
«Intervenne la inattesa scoperta, fatta dal "colonnello Valerio" inviato da Milano a Dongo, che qualcuno lo aveva preceduto e aveva ucciso, nella mattinata del 28 aprile, Mussolini e Claretta. A questo punto, occorreva modificare il programma e portare a piazzale Loreto non i 15 "fucilandi" più il loro capo, ma sedici cadaveri. Modifica che fu realizzata con le fucilazioni del pomeriggio del 28 aprile sul lungolago a Dongo. E qui il secondo colpo di scena: l' uccisione della Petacci».
Giusto. Chi fu a decidere la condanna a morte dell' amante del Duce?
«La sua morte non era stata programmata da nessuno. Non era prevista, né voluta. Addirittura il suo nome non era compreso nella lista dei prigionieri consegnata dal comandante partigiano "Pedro" (Pier Luigi Bellini delle Stelle) al "colonnello Valerio" (Walter Audisio). Ma il "colonnello Valerio", nello spuntare i nomi della lista, disse, anzi esclamò, come testimoniato da tutti i presenti: «Mussolini: a morte! Clara Petacci: a morte!». Perché? Perché, al pari del Duce, l'aveva trovata cadavere quella mattina, ma soprattutto perché "doveva" assumersi l' onere di una uccisione del cui carico i suoi veri artefici - i servizi britannici - preferivano liberarsi».
Dunque, siamo arrivati alla "pista inglese". Ma quale fu il vero movente che spinse gli uomini di Churchill a uccidere non solo Mussolini ma anche la sua amante?
«Il timore che i due, interrogati dai giornalisti americani (gli unici veramente liberi e più interessati agli "scoop" che agli ordini dall' alto), rivelassero i contatti esistiti fino all' ultimo tra Mussolini e Churchill e aventi lo scopo di spingere Hitler a cessare la resistenza in Occidente per volgersi unicamente contro l' Armata Rossa e impedire così a Stalin di impossessarsi di una buona metà dell' Europa. È facilissimo immaginare che cosa avrebbe potuto accadere se Stalin fosse venuto a conoscenza di quelle manovre sotterranee di Churchill».
Quali prove esistono per avvalorare una simile ipotesi?
«Le prove consistono nelle moltissime testimonianze, per decenni in pratica ignorate, sui contatti segreti tra Mussolini e gli inglesi. Testimonianze che portano le firme di Dino Campini, segretario del ministro dell' Educazione Nazionale Carlo Alberto Biggini, di Sergio Nesi, ufficiale della Decima Mas, di Pietro Carradori, attendente di Mussolini, di Filippo Anfuso, ambasciatore della Repubblica Sociale Italiana a Berlino, di Ermanno Amicucci, direttore del Corriere della Sera, di Alfredo Cucco, sottosegretario alla Cultura Popolare, di Ruggero Bonomi, sottosegretario all' Aeronautica, di Edmondo Cione, fondatore del Raggruppamento Repubblicano Socialista, di Nino D' Aroma, direttore dell' Istituto Luce, di Georg Zachariae, medico tedesco del Duce, di Drew Pearson, giornalista americano, di Umberto Alberici, notaio in Milano».
Qual era il nucleo di quelle testimonianze?
«Personaggi come Quinto Navarra, commesso di Mussolini, Raffaele La Greca, cassiere capo della polizia di Salò, Pietro Carradori, attendente del Duce, e Urbano Lazzaro, il partigiano "Bill" che aveva catturato Mussolini travestito da tedesco, furono sempre concordi nell' affermare che il cosiddetto "oro di Dongo", rinvenuto dai partigiani nella "colonna Mussolini" e incamerato dal PCI, non era il "tesoro di Stato" della RSI, ma era composto dai valori confiscati alle famiglie degli ebrei arrestati e rinchiusi nei campi in seguito alle leggi razziali. Valori che Mussolini intendeva consegnare agli americani, dopo la resa in Valtellina, affinché fossero restituiti ai superstiti a dimostrazione del fatto che quelle confische non erano state fatte per arricchire la RSI a danno dei perseguitati, ma erano state un pesante obbligo derivante dall' alleanza con il Terzo Reich. Come tutti sanno, invece, quelle ricchezze finirono nelle casse del PCI».
Ma il PCI era consapevole della loro provenienza? Se esistesse ancora, il PCI lo negherebbe con sdegno, ovviamente.
«E invece, le cose andarono proprio in quel senso. Massimo Caprara, per vent' anni segretario di Togliatti fin dal 1944 e in seguito grande pentito del comunismo, in un memoriale scritto appositamente per il mio La pista inglese, rivelò come la "versione Audisio" (ossia l' uccisione di Mussolini e di Claretta Petacci nel pomeriggio del 28 aprile davanti al cancello di Villa Belmonte) fosse stata "un falso deliberato", ma soprattutto raccontò gli assolutamente inediti incontri dell' immediato dopoguerra tra Togliatti, allora massimo esponente occidentale del comunismo sovietico, e Churchill, che, dopo il discorso di Fulton (nel corso del quale aveva coniato il termine «cortina di ferro»), era divenuto il nemico numero uno della Russia di Stalin. Incontri a dir poco inimmaginabili, che lasciano intuire una scelta segreta del capo comunista italiano a favore dell' Occidente ben prima di quella ufficiale e ormai "storica" di Enrico Berlinguer. Togliatti infatti ben sapeva che cosa sarebbe accaduto - innanzitutto alla dirigenza del partito - se l' Italia fosse caduta nelle grinfie di Stalin: gulag per tutti, a cominciare dai capi del PCI».
Hai avuto conferme della validità della tua ricostruzione storica?
«Una clamorosa e definitiva conferma alla tesi che porto avanti da 25 anni sulla fine di Mussolini, è giunta nel 2015 dalla pubblicazione postuma del memoriale di Vanni Teodorani (1916-1964), decisa dai figli Anna e Pio Luigi. La parte fino ad allora inedita del diario di Teodorani (che era nipote d' acquisto di Mussolini e suo stretto collaboratore durante tutto il periodo della RSI, e riuscì per molti mesi a rendersi irreperibile ai partigiani comunisti assetati di sangue) riguardava il piano studiato dai servizi segreti americani per sottrarre il Duce alla vendetta partigiana e portarlo in salvo in una base segreta in Sardegna. Ma - come racconta Vanni Teodorani nel suo prezioso memoriale Quaderno 1945/46 - il piano, studiato da elementi dell' OSS (Office of Strategic Services) americani, dai servizi segreti dell' Italia del Sud e, appunto, da un piccolo gruppo di fedelissimi del Duce, fu fatto fallire dai ben più abili inglesi dell' Intelligence Service, che avevano avuto l' ordine da Churchill di eliminare sia Mussolini sia Claretta Petacci».
SE MI LASCI TI APPENDO A TESTA IN GIÙ. Fabio Fusco per movieplayer.it il 31 marzo 2019. Jim Carrey e Alessandra Mussolini, due personaggi apparentemente distanti, ma quando l'attore ha condiviso su Twitter una vignetta sul fascismo e su Mussolini e Claretta appesi a testa in giù, la reazione della nipote del Duce non si è fatta attendere. Da un po' di tempo a questa parte Jim Carrey sta facendo discutere con le sue vignette satiriche che pubblica con frequenza quasi giornaliera. Oggi è toccato ad una vignetta su Benito Mussolini e Claretta Petacci, ritratti a testa in giù, coi volti lividi, a Piazzale Loreto, macabro scenario dell'ultimo atto di quello che fu il ventennio Fascista. "Se vi chiedete a cosa porta il fascismo, chiedete a Benito Mussolini e alla sua amante Claretta". La reazione di Alessandra Mussolini al tweet è stata immediata e diretta: "Sei un bastardo!" ha replicato la nipote del Duce all'attore americano, per poi scontrarsi con altri utenti su Twitter che avevano tentato di metterla al suo posto. La maggior parte delle reazioni al tweet di Jim Carrey sono state generalmente positive ed entusiastiche e nettamente a favore dell'attore. Tra i numerosi commenti alla vignetta, non sono mancati i confronti tra Mussolini e Trump, mentre altri hanno semplicemente ribadito la loro ammirazione per Carrey e sottolineato con amarezza che gli errori del passato dovrebbero essere un monito per le generazioni future. Poche proteste per il tweet, che ha già scaldato questa mattinata di domenica sui social: qualcuno ha fatto notare a Carrey che le sue vignette hanno un mood eccessivamente negativo, mentre altri gli hanno risposto di dedicarsi esclusivamente al cinema. Le vignette pubblicate recentemente da Jim Carrey sono invettive velenose ai potenti e ai personaggi più influenti della politica, ritratti con un aspetto grottesco e sgradevole. Il suo soggetto preferito è Donald Trump, come si può immaginare, ma anche altri leader dell'attuale scenario politico e del passato. Non mancano però vignette di sostegno a colleghi come Whoopy Goldberg e ai cittadini della Nuova Zelanda, colpiti recentemente dall'attentato terroristico a Christchurch.
“PUÒ CAPOVOLGERE LA VIGNETTA E SEMBRA CHE IL NONNO SALTI DI GIOIA”. Da Rollingstone il 5 aprile 2019. Nei giorni scorsi Jim Carrey aveva postato su Twitter una vignetta che ritraeva Benito Mussolini e Claretta Petacci appesi a testa in giù con il commento: “Se vi state chiedendo dove conduce il fascismo, chiedete a Benito Mussolini e alla sua amante Claretta”. Il post ha scatenato la reazione di Alessandra Mussolini, nipote del Duce, che ha scritto: “Bastardo”, scatenando la polemica via social. Ora Jim Carrey ha commentato divertito la cosa sul red carpet del CinemaCon intervistato da Variety . “Non avevo idea che la nipote di Mussolini esistesse, è sconcertante apprendere che è nel governo, non perché è nel governo, ma perché ovviamente sta ancora abbracciando il male”, ha detto Carrey, riferendosi al fatto che Alessandra Mussolini è un membro del Parlamento Europeo. L’attore ha proseguito: “Se vuole vederla da un punto di vista diverso, basta capovolgere la vignetta e sembra che suo nonno salti di gioia, così risolve il problema”.
Jim Carrey choc alla Mussolini: “Capovolgi il disegno e vedrai tuo nonno saltare dalla gioia”. L’attore Jim Carrey ha lanciato un nuovo attacco ad Alessandra Mussolini affermando di non sapere della sua esistenza e provocandola sulla “visione” della vignetta pubblicata sul web, scrive Gabriele Laganà, Venerdì 05/04/2019 su Il Giornale. Continua il battibecco a distanza tra l’attore Jim Carrey e l’europarlamentare Alessandra Mussolini. Intervistato per Variety dal giornalista Marc Malkin, il divo di Hollywood ha commentato: “Non sapevo della sua esistenza. È un po’ sconcertante che lei sia al governo, non perché è al governo, ma perché sta ovviamente abbracciando il male”. Carrey ha, poi, rincarato la dose affermando che “se vuole vederla diversamente, può sempre capovolgere il mio disegno. E sembrerà che suo nonno stia saltando di gioia. C’è la sua soluzione proprio lì. Basta capovolgere il disegno”. Il riferimento è al disegno pubblicato nei giorni scorsi dallo stesso attore che immortalava il Duce Benito Mussolini e Claretta Petacci appesi a testa in giù in piazzale Loreto. “Se state pensando a cosa porta il fascismo, chiedete a Benito Mussolini e alla sua amante Claretta”, aveva scritto ancora Carrey. La risposta della Mussolini non si era fatta attendere: “You are a bastard”. La combattiva nipote del Duce, però, non si è limitata a questa frase tanto da sfidare l’attore a realizzare e condividere vignette che evidenziassero le azioni americane nel corso di alcune delle vicende più importanti della storia, come gli attacchi atomici sul Giappone e gli orrori della segregazione razziale negli Usa.
L’attore non fa mistero delle sue opinioni politiche. Ha attaccato più volte in maniera dura Donald Trump, paragonandolo a un "cane rabbioso". E al presidente americano ha dedicato anche un ciclo di vignette, esposte in una mostra, che lo ritraggono negli atteggiamenti più disparati. Questa volta, però, l’obiettivo era oltre oceano. Di sicuro, la vicenda non finirà qui.
Il mondo alla rovescia. Pubblicato sabato, 6 aprile 2019 da Massimo Gramellini su Corriere.it. Tra il comico Jim Carrey e l’onorevole Alessandra Mussolini, come pensatore politico ritengo più autorevole il primo, anche se la seconda a volte fa più ridere. Epperò la loro diatriba su piazzale Loreto è la tipica situazione in cui riesce difficile schierarsi acriticamente. Tutto è cominciato con la vignetta in cui Carrey disegnava il Duce e Claretta a testa in giù: «Se ti stai domandando dove porta il fascismo, chiedilo a loro». Il senso era chiaro e assai attuale: chi conquista il potere sulle ali del rancore popolare, come Mussolini nel 1922, finirà prima o poi per esserne vittima. La nipote l’ha presa sul personale e ha dato del bastardo al vignettista, il quale ha replicato all’insulto con una battuta - «Se non le piace il disegno, lo capovolga, così vedrà Mussolini saltare di gioia» - che è a sua volta un insulto per chiunque abbia sfogliato un bignamino di storia. Entrambi guardano il mondo alla rovescia. Lei si ostina a non capire che nella cultura di massa, di sicuro in quella anglosassone, suo nonno rappresenta da settant’anni uno dei simboli del male. E lui ironizza su piazzale Loreto senza probabilmente sapere che i protagonisti della sua vignetta vi furono appesi già cadaveri per essere sottoposti a un elenco indicibile di bassezze. Perché è vero che chi cavalca la tigre dell’odio finisce per esserne sbranato. Però nessuna tigre, tranne quella umana, infierisce sulla sua preda, ponendo le basi per un altro ciclo di rancori da saldare.
L’esecuzione di Benito Mussolini. Un particolare che molti ignorano: non furono i Partigiani ad appenderlo, ma i Vigili del Fuoco, per evitare che la gente (la stessa che l’aveva sostenuto) facesse scempio del corpo…! Il Fastidioso, L'informazione che dà fastidio, 28 aprile 2019.
La testimonianza di Walter Audisio (nome di battaglia “colonnello Valerio”), il partigiano che eseguì la sentenza
Il giorno prima Mussolini era stato arrestato a Dongo e la direzione del CLNAI aveva deciso senza indugio per la sua esecuzione immediata. Prelevato dai suoi giustizieri a Bonzanigo, l’ex duce, insieme alla Petacci, fu portato nel pomeriggio in auto in un un piccolo vialetto davanti a Villa Belmonte, un’elegante residenza di Giulino, dove fu fucilato. Questi gli ultimi minuti di vita di Mussolini secondo la testimonianza di Audisio: “Sull’auto lo feci sedere a destra, la Petacci si mise a sinistra. Io presi posto sul parafango in faccia a lui. Non volevo perderlo di vista un solo istante. La macchina iniziò la discesa lentamente. Io solo conoscevo il luogo prescelto e non appena arrivammo presso il cancello ordinai l’alt. Dissi di aver udito dei rumori sospetti e mi mossi a guardare lungo la strada per accertarmi che nessuno venisse verso di noi“. “Quando mi volsi la faccia di Mussolini era cambiata: portava i segni della paura. (…) Feci scendere Mussolini dalla macchina e gli dissi di portarsi tra il muro ed il pilastro del cancello. Obbedì docile come un canetto. Non credeva ancora di morire: non si rendeva conto della realtà. Gli uomini come lui temono sempre la realtà, preferiscono ignorarla (…). Improvvisamente cominciai a leggere il testo della sentenza di condanna a morte del criminale di guerra Mussolini Benito“. “Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontario della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano”. “Credo che Mussolini non abbia nemmeno capito quelle parole: guardava con gli occhi sbarrati il mitra che puntavo su di lui. La Petacci gridò enfatica: “Mussolini non deve morire”. Dico alla Petacci che s’era appoggiata a Mussolini: “Togliti di lì se non vuoi morire anche tu“. La donna capisce subito il significato di quell’anche e si stacca dal condannato. Quanto a lui, non disse una sola parola: non il nome di un figlio, non quello della madre, della moglie, non un grido, nulla. Tremava livido di terrore e balbettava con quelle grosse labbra in convulsione: “Ma…ma…ma…ma signor colonnello. Ma…ma…ma signor colonnello“. “Nemmeno a quella donna che gli saltellava vicino, che si muoveva di qua e di là, disse una sola parola. No: si raccomandava nel modo più vile, per quel suo grosso corpo tremante: solo a quello pensava: a quel grosso corpo appoggiato al muretto”. “(…) Faccio scattare il grilletto ma i colpi non partono. Il mitra si era inceppato. Manovro l’otturatore, ritento il tiro ma l’arma non spara. Passo il mitra a Guido (Aldo Lampredi, ndr.), impugno la pistola: anche la pistola si inceppa. Passo a Guido la rivoltella, afferro il mitra per la canna, aspettandomi, malgrado tutto, una qualunque reazione. Ogni uomo normale avrebbe pensato di difendersi ma Mussolini era al di sotto di ogni uomo normale e continuava a balbettare, a tremare, immobile con la bocca semiaperta e le braccia penzoloni. Chiamo a voce alta il Commissario della 52a che viene di corsa a portarmi il suo Mas. Adesso gli sono di fronte, come prima: egli non si è mosso, continua il suo balbettio di invocazione. Vuol salvare solo quel grosso corpo tremante. E su quel corpo scarico cinque colpi“. “Il criminale si afflosciò sulle ginocchia, appoggiato al muro, con la testa reclinata sul petto. Non era ancora morto, gli tirai una seconda raffica di quattro colpi. La Petacci, fuori di sé, stordita, si mosse confusamente, fu colpita e cadde di quarto a terra. Mussolini respirava ancora e gli diressi, sempre col Mas, un ultimo colpo al cuore. L’autopsia constatò più tardi che l’ultima pallottola gli aveva troncato netto l’aorta. Erano le 16.10 del 28 aprile 1945“.
Un’altra testimonianza. Libero Traversa (Partigiano, politico, giornalista, scrittore e poeta, militante delle formazioni di “giustizia e libertà”, è stato un protagonista della resistenza e ha partecipato alla liberazione di Milano) non ne può più di sentirsi chiedere di piazzale Loreto. Era un ragazzino. Faceva servizio di guardia al tribunale di Milano e l’hanno chiamato a fare servizio d’ordine a piazzale Loreto. Ricorda quei giorni… Alla Bovisa, Lambrate. I posti di blocco dei tedeschi ovunque. A piazzale Loreto gli operai prendevano i tram per andare a Sesto. Il distributore dove hanno appeso i cadaveri si trovava all’angolo I corpi di Mussolini Claretta Petacci e altri fascisti a piazzale Loreto la notte del 29 aprile 1945. Dopo vennero appesi a un distributore di benzina che oggi non c’è più all’angolo con corso Buenos Aires. “Nei giorni della Liberazione avevo 15 anni e sorvegliavo con un moschetto l’ingresso del tribunale. Il 29 aprile si diffuse la voce che avevano fucilato Mussolini e portato a piazzale Loreto. Sono andato a fare il turno del pomeriggio nel servizio di sicurezza. Faceva freddo, ma a piazzale Loreto c’era più caldo. C’erano i cadaveri appesi. Li avevano appesi i vigili del fuoco di Milano, un corpo che ha lasciato molti morti nella Resistenza. Li hanno appesi non per esporli ma perché non si poteva lasciarli per terra. La gente li voleva calpestare. Facevamo cordone. Quando vado nelle scuole a parlare, a volte mi chiedono particolari. Mussolini aveva il sangue che colava dalla bocca? Chissenefrega! Mi incazzo quando sento queste cose. Le cose più importanti di piazzale Loreto sono altre!” Ricordando quei giorni da partigiano-ragazzino Libero pensa ai 15 partigiani fucilati sul piazzale dai militi della Muti e lasciati a terra nel ’44. Pensa alla perdita del consenso di Mussolini: “La gente che sputava era la stessa che l’aveva sostenuto. La piazza era piena. In tutte le famiglie c’erano stati lutti. Si volevano vendicare. Noi abbiamo perso mio fratello Salvatore sul fronte del Don. L’altro, Andrea, è scampato all’eccidio di Cefalonia. Si pativa da anni la fame, il freddo, i bombardamenti. Anche qui vicino è caduta una bomba. I bombardamenti a Milano sono stati terribili. Certo, li facevano gli inglesi, ma la gente considerava Mussolini responsabile. È stato lui a volere la guerra. Perché ha mandato i giovani a morire in Russia e in Grecia? Dopo il 25 luglio del ’43 tutto il Paese l’ha mollato. Il popolo era stufo di una guerra non voluta e chiaramente persa. L’Italia è stata invasa dai tedeschi che hanno rimesso il Duce al potere come hanno fatto con altri governi-fantoccio. Non lo consideravamo legittimo. Se non si capisce questa cosa non si capisce piazzale Loreto”.
· La Grande Guerra. Perché la Guerra Civile.
La Grande Guerra. Perché la Guerra Civile. Carlo Felici il 10 dicembre 2018 su Avanti! Ho chiesto a Carlo Felici, di cui riconosco la preparazione storica, di scrivere in modo libero e a puntate una storia del primo dopoguerra, che parta dal 1918 ed arrivi fino al delitto Matteotti. Una storia di sei anni di guerra civile, come Nenni intitolò il suo libro pubblicato, tradotto dal francese all’italiano, nel 1945 e oggi quasi introvabile. Sei anni raccontati spesso senza il necessario distacco e con parziali negazioni. Ho chiesto a Felici di non avere paura a scrivere tutto. Tutto quel che è accaduto e non solo le violenze sanguinarie delle brigate nere ma anche quelle di segno opposto e di non tacere sugli errori grossolani di un Psi divenuto bolscevico e filosovietico nonostante l’opposizione di Filippo Turati. Ne è uscito un quadro molto interessante dove bolscevismo e fascismo appaiono i due corni di una ferale illusione e dove Mussolini si staglia come un personaggio disponibile a sposare qualsiasi tendenza e alleanza pur di arrivare al potere. Resta sullo sfondo la ragione di chi allora aveva torto: i riformisti, che volevano salvare l’Italia dal pericolo nero e che però si trovarono in esigua minoranza in un Psi attratto dalle tesi della rivoluzione e per di più cacciati dal partito a pochi giorni dalla marcia su Roma. Pubblichiamo la prima delle varie parti del lavoro di Felici al quale l’Avanti! rivolge il più vivo ringraziamento. Mauro Del Bue
Cento anni fa finiva la Grande Guerra ma l’entusiasmo generale ben presto degenerò in un altro conflitto rovinosissimo: una guerra civile, i cui strascichi andarono ben oltre il primo dopoguerra e l’ultima fase della seconda guerra mondiale, fin quasi ai giorni nostri e Dio solo lo sa se è davvero finita. Prima di riflettere sul senso e sulle contraddizioni da cui nacque e che generò, ricordiamo gli eventi storici che avvennero in seguito ad una pace e ad una vittoria tanto agognata ma non da tutti. I morti di quella immane tragedia furono circa 650.000, i mutilati, feriti e dispersi più di un milione. Ma proprio nel nome di tutti loro, sarebbe ingeneroso definirla soltanto una “inutile strage” anche se purtroppo strage ci fu. Il quattro novembre è da vari storici riconosciuto come la fine del nostro Risorgimento, con l’acquisizione di terre la cui italianità fino ad allora era acclarata e in cui erano in atto vari movimenti irredentisti. Socialisti garibaldini e repubblicani entrarono in guerra anche prima del 1915, come volontari in Francia e con tanto di camicia rossa, lottavano contro gli imperi centrali per un nuovo modello di Europa democratica e repubblicana. Su quel fronte morirono anche dei nipoti di Garibaldi. I socialisti italiani erano notoriamente neutralisti, tranne alcuni, tra cui Battisti, che erano appunto irredentisti e interventisti, ma ricordiamo anche della sinistra interventista: Salvemini, De Ambris, Corridoni, Bissolati e lo stesso Rosselli che appartennero al fronte dell’interventismo democratico il quale era appunto il filone risorgimentale della sinistra di allora, ci mettiamo anche persino Togliatti (allora ancora socialista), Ugo Guido e Rodolfo Mondolfo, e lo stesso Nenni che dichiarò appunto le sue ragioni interventiste facendo esplicito riferimento al Risorgimento e distaccandosi in questo da Mussolini. Le ricordiamo perché le consideriamo tra le più significative che possono onorare tuttora la memoria di tanti giovani scomparsi in quella guerra. «Fui d’accordo con Mussolini nella battaglia interventista, anche se mosso da premesse diverse: per me, di formazione popolaresca, garibaldina e mazziniana, quella era l’ultima guerra del Risorgimento per completare l’unità d’Italia. Per Mussolini era invece una guerra rivoluzionaria e un’operazione di politica interna per il potere». Ma le ricordiamo anche perché fu lo stesso Nenni a scrivere un libro sugli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra che uscì in Francia quando lui era in esilio ed in Italia solo dopo la caduta del Fascismo alla fine della seconda guerra mondiale, intitolato “Sei anni di guerra civile”, molto tempo prima, dunque, dei libri di Pansa e di quello famoso di di Claudio Pavone che, così, solo apparentemente “sdoganò” l’espressione “guerra civile” fino ad allora aborrita dagli apologeti della Resistenza, la quale per altro ci fu, insieme alla Lotta di Liberazione, ma sui cui lati “oscuri” è tuttora politicamente scorretto indagare a fondo. Eppure tali lati oscuri iniziarono molti anni prima, già subito dopo una guerra che aveva visto come fieri oppositori i cattolici, i socialisti neutralisti e ovviamente i nascituri comunisti italiani che, già da socialisti, fiutavano il vento di Mosca e l’eco del richiamo di Lenin. Il quale però non li amava molto, se la prese infatti con loro quando non appoggiarono per motivi ideologici gli Arditi del Popolo ed aveva capito che l’unico rivoluzionario vero che c’era in Italia era un grande interventista, patriota il quale, se l’esercito non fosse stato di stretta fede monarchica e comunque costituito da contadini impazienti di tornare alla loro terra, la rivoluzione l’avrebbe fatta prima a Fiume e poi nel resto d’Italia: Gabriele D’Annunzio. Ci vorrebbe un libro per analizzare a fondo queste vicende, riassumerle in alcuni capitoli di storia non è semplice anche perché, per documentarsi, bisogna essere molto esenti da pregiudizi ed andare a scartabellare non solo nelle fonti tradizionali, ma anche tra quelle filofasciste o almeno, in ogni caso, nei giornali dell’epoca, se non altro per risalire a fatti incontrovertibili. I nostri legionari, in ogni caso, tornando a casa, non trovarono vie trionfali e petali di rose ad accoglierli, e non solo campi deserti e fabbriche da riconvertire, ma anche il livore di chi quella guerra non l’aveva mai voluta ed aveva sempre cercato di sabotarla fino alla disastrosa vicenda di Caporetto. Dopo quella ritirata, il conflitto non fu più infatti questione di interventismo o neutralismo, ma di mera sopravvivenza, se gli austriaci avessero sfondato sul Piave (e gli alleati temendo ciò, avevano allestito una seconda linea più arretrata di difesa) essi sarebbero arrivati a Milano e il nostro 8 settembre lo avremmo avuto al contrario e più di trenta anni prima, vanificando più di mezzo secolo di lotte risorgimentali. La situazione subito dopo la fine della Grande Guerra la descrive bene Nenni nel suo libro da me già citato, sono due pagine che vale la pena di citare per intero: “Come dappertutto, la guerra aveva lasciato da noi un immenso corteo di vittime, di miserie, di sofferenze e di indignazione, aggravate dai ricordi delle battaglie sostenute tra interventisti e neutralisti. Le medaglie, i discorsi, le promesse, le commemorazioni erano delle gran belle cose, ma mancava il pane. L’esaltazione della vittoria, le commemorazioni delle battaglie, le onoranze agli eroi della guerra: questo contava pur qualche cosa. Ma di questo non si vive. Ed ecco per giunta, che i nazionalisti si mettono a proclamare che il sacrificio della guerra era stato vano, che un mezzo milione di soldati erano morti senza nessun risultato, e che a Versaglia l’Italia era stata vittima degli imperialismi francese e inglese. L’operaio che ritornava al focolare domestico dopo i duri anni della guerra, trovava i migliori posti occupati ed aveva sotto gli occhi lo spettacolo di una società in piena disgregazione morale. Mentre egli versava il suo sangue e soffriva nelle trincee, si era formata una nuova borghesia. Con impudenza scandalosa, essa aveva ammassato in pochi anni patrimoni colossali. Caio, che era un piccolo commerciante all’inizio della guerra, era adesso un milionario; Tizio, che possedeva una modestissima bottega di fabbro, ora era proprietario di vasti stabilimenti. Come se ciò non bastasse, le ricchezze ammassate nel sangue dei soldati, si esibivano con l’impudenza del vizio, e i nuovi ricchi insultavano la miseria con l’ostentazione del denaro mal guadagnato. Crepi chi ha fame! Il mondo apparteneva ai furbi che avevano saputo trasformare in denaro il dolore e la sofferenza di tutto un popolo. La condizione dei contadini era anch’essa cattiva. Era stato loro detto: “la terra che contendi al nemico sarà tua”, e i contadini l’avevano creduto. Durante le lunghe notti insonni del fronte, il bracciante, mentre stringeva il fucile e le granate attendendo il momento terribile di gettarsi all’attacco sotto il fuoco delle artiglierie, nell’inferno dei bombardamenti, aveva sperato di uscir vivo da quella fornace e di tornare al suo paese, dove la moglie ed i bambini, i genitori e le sorelle lo aspettavano con la buona notizia che ormai la terra dove egli e i suoi padri avevano lavorato al servizio di un usuraio, era stata assegnata a lui che aveva combattuto. Il risveglio era stato crudele, aveva trovato la sua famiglia in una miseria ancora più grande. La terra aveva mutato di padrone, ma il nuovo proprietario non era lui. Molto spesso era un uomo che nulla sapeva di agricoltura, che parlava di borsa e di speculazioni, che chiedeva aspramente un maggiore reddito. Allora il lavoratore dei campi aveva gridato come l’operaio di città: “Viva Lenin!” Incollerito, tenendo il pugno chiuso, aveva minacciato le eleganti automobili che passavano davanti al suo casolare, recanti a bordo coloro che non avevano fatto la guerra, ma che veramente l’avevano vinta”. Questo era il clima dell’immediato dopoguerra descritto da un volontario che era partito dopo essere stato segnalato come sovversivo perché da repubblicano aveva rifiutato di giurare per il re, e, sebbene avesse superato con ottimo profitto il corso ufficiali, venne costretto ad arruolarsi come soldato semplice, divenendo poi, per meriti di guerra, prima caporale poi sergente. La situazione era molto critica, soprattutto la riconversione industriale assai complessa. In questa situazione il patriottismo avrebbe dovuto spingere tutti ad una coesione nazionale interclassista in nome della stessa pace e prosperità sociale, colpendo gli eccessivi privilegi e invitando alla responsabilità i più facinorosi.
Invece il 13 dicembre 1918 l’Avanti titolò che, sull’esempio russo, obiettivo del partito avrebbe dovuto essere la “Istituzione della Repubblica Socialista” in quattro punti:
1) La socializzazione immediata dei mezzi di produzione e di scambio: terre, industrie, miniere ferrovie, piroscafi, con gestione diretta dei contadini, operai, minatori, ferrovieri, marinai;
2) Distribuzione dei prodotti fatta esclusivamente alla collettività a mezzo degli enti cooperativi e comunali;
3) Abolizione della coscrizione militare e disarmo universale in seguito alla unione di tutte le repubbliche proletarie e internazionali socialiste;
4) Municipalizzazione delle abitazioni civili e del servizio ospedaliero. Trasformazione della burocrazia, affidando i servizi alla gestione diretta degli impiegati”.
Non ci vuole molto a capire che un programma del genere in Italia in quel periodo era del tutto velleitario e impossibile da realizzare sebbene D’Annunzio a Fiume vedremo che qualcosa di simile cercherà di farlo, avendo anche le armi per poterlo imporre. Ma, non avendo abbastanza uomini per usarle, farà appello proprio a Serrati il capo dell’allora filosovietico Partito Socialista, il quale si guarderà bene dal muoversi portando volontari a chi era tanto ammirato dal suo stesso Lenin. Senza un esercito dalla propria parte ogni rivoluzione, da Cromwell, a quella inglese e a quella francese, ed oltre, è destinata a fallire, e allora il grosso dell’esercito o era fatto di contadini desiderosi solo di tornare alla loro terra, oppure da quadri fedeli alla monarchia, perché selezionati a tal fine, come abbiamo visto nel caso di Nenni che venne rifiutato, che mai avrebbero aderito ad un programma repubblicano. Eppure, nonostante ciò, l’astrazione dei principi restava ben al di sopra della realtà concreta; per i socialisti che ancora non erano paghi di dimostrare la piena inutilità della guerra, quello che contava di più era soprattutto dimostrare che le fondamenta stesse su cui la guerra era stata tenuta in piedi erano da annientare e da distruggere. Slogan come “Abbasso la Patria” e “Abbasso la guerra” li spingevano a sputare su chi ancora indossava una divisa, addossando sui combattenti che vi avevano creduto e si erano sacrificati, tutta la colpa delle immani miserie che si stavano vivendo. C’erano ancora le questioni dolorose ed aperte della Dalmazia e dell’Istria, ma i socialisti non ritennero di doversi battere per “territori che non ci appartenevano”. Tutto ciò alimentò un clima rovente, anche per la estrema debolezza dei governi liberali, incapaci su tutti i fronti, sia quello internazionale che quello interno. E i combattenti frustrati inevitabilmente finirono nelle file di Mussolini. Non è del tutto vero che il Fascismo si affermò con i soldi del grande capitale italiano, anche se in buona parte con il passare del tempo questo avvenne sempre di più. Gli stessi soldi che Mussolini ebbe per fondare il suo giornale “il Popolo” vennero non tanto dalla Massoneria o dagli industriali italiani, ma in particolare dai socialisti francesi, mediante Marcel Cachin, che divenne poi persino comunista nel secondo dopoguerra. Questo ci fa ben capire come il socialismo in Francia sia spesso andato a braccetto con lo sciovinismo. Di questo finanziamento non hanno mai parlato i socialisti italiani ma in compenso ne parlò lo stesso Cachin, ovviamente allora faceva più comodo parlare del grande capitale guerrafondaio. Eppure il giornale di Mussolini si finanziò anche con le sottoscrizioni, tra il luglio del 1916 e l’agosto 1918 il Popolo riuscì a raccogliere una cifra da capogiro che l’Avanti allora si poteva solo sognare. Solo per la morte di Nazario Sauro, per aiutare la famiglia restata in miseria, tale testata raccolse 66.189,75 lire, poco meno di un milione di euro attuali. Segno questo che molti soldi venivano da gente qualunque e persino da vecchi compagni socialisti. Quando Il Popolo mutò il suo sottotitolo da Quotidiano socialista in Quotidiano dei combattenti e dei produttori, il 1 agosto 1918, gli stessi “produttori del capitale” non la presero molto bene. Lo stesso Corriere che ne era il più fedele interprete, ne stigmatizzò i malumori perché gli imprenditori allora non tolleravano molto i toni rivoluzionari di Mussolini e la sua palese irruenza verbale. Mussolini però aveva ben capito ormai a chi e come rivolgersi e anche le parole giuste per farlo. Scrisse allora: “D’ora innanzi questo giornale sarà il giornale dei combattenti e dei produttori. Nessuna di queste categorie, mi ha dato, né poteva darmi, incarichi ufficiali di sorta: questo giornale continua ad essere l’organo di chi scrive….Questa Internazionale che sorge dalla guerra è un capitolo della disfatta del socialismo che è stato avverso alla guerra….La guerra ha anticipato. Ha introdotto l’eguaglianza negli individui e nei popoli…Nella società che la guerra ha formato non ci sono inferiori e superiori, come c’erano nell’internazionale socialista Vi sono rappresentati allo stesso titolo, cogli stessi diritti tutti i popoli. Anche quelli che non sono uno Stato anche le Colonie. Nella recente riunione di Versailles, c’erano i delegati dei domini e delle colonie dell’Impero Inglese….Davanti a questa creazione gigantesca, che oggi è già quasi compiuta, l’internazionale dei socialisti, l’internazionale della tessera, del marco e della marchetta, appare come una deformità odiosa, come uno sgorbio imbecille sulla pagina di un poema nuovo e divino.”..l’articolo si conclude con un appello al sindacalismo operaio come strumento di lotta e di conciliazione: “Nel sindacalismo operaio, quando sia rimasto immune dall’infezione del socialismo politico, nel sindacalismo che combatte e lavora, c’è un elemento e una ragione profonda di vita”. Sostanzialmente in queste parole c’è già tutto il programma che Mussolini adottò per contrastare la diffusione del marxismo in Italia e anche il collante unitario per contrastare le violenze che cominciarono a dilagare quasi subito dopo al fine della guerra con altrettante violenze di matrice opposta ma ben più mirate ed efficaci.
La fine del 1918 e gli inizi del 1919 furono contrassegnati da continue manifestazioni e dall’organizzarsi delle prime squadre di Arditi, i quali l’11 gennaio del ‘19 intervennero in gran numero durante un discorso del socialista Bissolati a la Scala di Milano che si dichiarava favorevole alla rinuncia della Dalmazia. Il comizio vide la sua conclusione con uno scontro tra Socialisti ed Arditi a cui partecipò anche la polizia. La risposta arrivò poco dopo, il 19 febbraio con circa 5000 persone che sfilarono a Milano al grido di “Viva Lenin!”, stracciando bandiere tricolori e facendo sventolare quelle rosse, lanciando slogan contro la guerra e contro la Patria, prendendo a sputi e malmenando chiunque fosse visto in divisa.
Il 21 febbraio il governo Orlando decretò l’amnistia per i disertori per sedare i tumulti dei socialisti, ma fece pertanto crescere l’ira e l’indignazione degli ex combattenti. A Dalmine vi era un grande centro industriale i cui operai erano iscritti alla Unione Italiana del Lavoro di ispirazione corridoniana e per questo boicottata dai sindacati socialisti e dalla Confederazione generale del lavoro, ciò impediva a quegli operai il riconoscimento di miglioramenti che altri invece ottenevano.
Il 17 marzo del 1919 gli operai di Dalmine entrarono in sciopero, ma in maniera del tutto singolare: occuparono la fabbrica, si chiusero dentro, alzarono sul pennone più alto il tricolore, e si misero a lavorare, volendo con ciò dimostrare che non avevano affatto intenzione di sabotare né la fabbrica né la produzione, invitarono poi Mussolini che non se lo fece ripetere due volte e pronunciò lì uno dei suoi discorsi…ne citiamo un pezzetto emblematico.. “Ancora un rilievo: sul pennone dello stabilimento voi avete issato il tricolore, ed attorno ad essa al suo garrito avete combattuto la vostra battaglia. Bene avete fatto. La bandiera nazionale non è uno straccio anche se per avventura fosse stata trascinata nel fango dalla borghesia o dai suoi rappresentanti politici: essa è il simbolo del sacrificio di migliaia e migliaia di uomini. Per essa dal 1821 al 1918 schiere di uomini hanno sofferto privazioni, prigionia e patiboli. Attorno ad essa, quando è venuto il segnale di adunata, è stato versato nel corso di questi quattro anni di guerra, il fiore del sangue dei nostri figli, dei nostri e vostri fratelli. Mi pare di avere detto abbastanza. Per i vostri diritti che sono equi e sacrosanti, sono con voi. Distinguerò sempre la massa che lavora, dal partito che si arroga, non si sa perché, il diritto di volerla rappresentare. Ho simpatizzato con tutti gli organismi operai, non esclusa la Confederazione generale del lavoro…..Ma dichiaro che non cesserà la guerra contro il partito che è stato durante la guerra lo strumento del Kaiser, parlo del partito socialista ufficiale. Esso vuol tentare sulla vostra pelle un esperimento scimmiesco. Perché non è che una contraffazione russa…” Ormai Mussolini ha capito che lo scontro è inevitabile ed è necessaria una organizzazione politica, anche perché le nuove elezioni sono alle porte.
Il 23 marzo fonda così i Fasci di Combattimento. Il mese successivo il 10 aprile venne convocata una manifestazione a Roma per commemorare la settimana rossa di Berlino, e il compleanno di Lenin, la questura spaventata dai precedenti la proibì, allora i socialisti risposero con lo sciopero generale. La città si andò così riempiendo di gente che protestava contro lo sciopero con gruppi di ex militari ed arditi. Ci furono i primi scontri ed un comizio, ma la polizia intervenne caricando. I nazionalisti pensarono tuttavia di organizzare nel pomeriggio una contromanifestazione che da piazza Colonna attraversò il centro con molte bandiere tricolori e molti reduci arrivando fino al Quirinale. Gli scontri furono pertanto inevitabili, mentre le sinistre sputavano sulle divise, gli altri rispondevano a bastonate e raccoglievano anche il plauso della folla. Bisogna dire che fino ad allora, fino ai fatti di Roma e Milano tra il 10 e il 15 aprile del 1919, il fascismo era pressoché inesistente come forza organizzata ed antagonista. Ma proprio l’imponenza delle manifestazioni dichiaratamente bolsceviche favorì un rapido cambiamento di prospettiva. Se leggiamo i giornali dell’epoca, ci rendiamo pienamente conto di come la reazione al bolscevismo adottato dai socialisti allora a stragrande maggioranza fino ad inserire nel loro simbolo la falce e il martello, alimentò in maniera sempre più irruenta la reazione fascista e la nutrì a poco a poco di sempre maggiori sostegni sia nell’opinione pubblica specialmente delle grandi città, che nell’Esercito. Tra i primi ad aderire ai Fasci di Combattimento, vi era anche il volontario di guerra repubblicano Pietro Nenni.
La Grande Guerra. Le fasi della Guerra Civile. Carlo Felici il 17 dicembre 2018 su Avanti! Nel continuare questo mio excursus sulla guerra civile che si sviluppò in Italia immediatamente dopo la fine del conflitto, prima, sarà bene fare alcune precisazioni, in una sorta di postfazione. Essa fu tale per stessa ammissione di Pietro Nenni che scrisse e pubblicò per la prima volta nel 1930 in esilio in Francia il libro intitolato appunto “Sei anni di guerra civile” e che reca nella sovraccoperta dell’edizione italiana, unica per ora del 1945, proprio l’immagine di Matteotti. Tale guerra avrebbe avuto una pausa per il prevalere del Fascismo, solo temporanea. Fu quindi una pace imposta e non definitiva con non pochi tentativi di riattivarla da parte antifascista di chi in precedenza era uscito sconfitto, con la marcia su Roma, e soprattutto con l’affermarsi del regime, dopo l’infame delitto di Giacomo Matteotti. Perché dopo il 25 luglio del 1943 essa si riattivò, a poco a poco, fino a crescere con le ultime tragiche fasi della guerra, raggiungendo punte di criminalità e di ferocia mai viste prima e che perdurarono anche dopo la fine del conflitto. Non fu infatti la fine della guerra, ma solo la nascita della nostra Costituzione che mise, almeno sul piano storico, una pietra tombale su tale guerra. Sul piano sociale e civile purtroppo i suoi strascichi continuarono fino almeno agli anni ottanta, con le stragi nelle piazze, sui treni, gli omicidi di politici, sindacalisti e magistrati, le trame piduiste e le continue strumentalizzazioni dei giovani in opposte fazioni, purtroppo non ancora del tutto sopite. Ma questa è un’altra storia...magari da affrontare in seguito. A noi ora interessa la prima fase di questa guerra civile, che potremmo dividere in tre bienni: il primo rosso che vide il prevalere delle forze socialiste strettamente connesse con quelle bolsceviche e sindacaliste rivoluzionarie; la sua maggiore riuscita non fu tanto nell’occupazione delle terre e delle fabbriche, ma paradossalmente nell’impresa fiumana, nonostante tuttora ci si ostini a considerare un personaggio come D’Annunzio una sorta di icona del fascismo nascente, quando i primi che rinnegarono la sua impresa rivoluzionaria furono proprio coloro a cui egli, proprio con intento rivoluzionario, si era rivolto accoratamente: Serrati e Mussolini. Il primo perché rivoluzionario solo a parole, il secondo perché pavido della reazione dell’esercito. Tanto meno fu nazionalista in senso stretto, se consideriamo infatti il suo tentativo di fondare la Lega di Fiume, come lui disse, per «tutti quei popoli che oggi patiscono l’oppressione e che vedono atrocemente mutilate le fibre viventi dei loro territori nazionali, e che guardano al vessillo di Fiume come al segno della rivolta e della libertà», ci accorgiamo che la sua impresa ebbe anche una forte vocazione iternazionalista. Per comprendere bene questa fase, è opportuno non solo fare riferimento a fonti storiche tradizionali, ma anche a quelle di “parte avversa” dato che quelle tradizionali spesso tacciono o negano gli omicidi che vennero perpetrati anche dalle forze politiche che vi si stavano affermando sull’onda della vittoria elettorale di un Partito Socialista il quale, cambiando il suo simbolo sul modello sovietico, raggiunse una percentuale di consensi maggioritaria intorno al 30%, mai avuta da allora, né prima né poi dai socialisti.
La seconda fase fu quella della reazione fascista, ben orchestrata e diretta dalle forze reazionarie, dai cosiddetti “padroni del vapore” e dagli “agrari”, spaventati dal pericolo rosso e mobilitati per finanziare il fascismo in funzione antibolscevica, con un esercito e delle forze di polizia anch’esse tendenzialmente proiettate più verso il fascismo che verso orizzonti concretamente democratici e rivoluzionari. Il punto di rottura e di passaggio dalla prima fase alla seconda fu la scissione rovinosa di Livorno che si abbatté come una mazza ferrata sui socialisti e li portò poi inevitabilmente ad essere più deboli sia sul piano politico che sul quello strategico, divenendo così facile bersaglio degli attacchi fascisti. Per questa fase e per comprendere la capitolazione militare della sinistra di allora, bisogna rileggersi il libro già menzionato di Nenni e soprattutto analizzare il ruolo svolto in quegli anni, tra il 20 e il 21, dall’unica formazione combattente che potesse essere in grado di respingere gli attacchi fascisti: gli Arditi del Popolo, di cui parlarono bene sia Gramsci che lo stesso Lenin, ma che vennero isolati sia dai comunisti di Bordiga, il quale non li riteneva ideologicamente affidabili, che dai socialisti di Serrati, il quale rifiutava lo scontro militare, i quali andranno in seguito incontro ad una ulteriore scissione ed al rovinosissimo e vergognoso patto di pacificazione, vera pietra tombale del socialismo tra le due guerre.
La terza fase ci fu dal 22 al 24, con Mussolini già al potere grazie al re e al Vaticano (che emarginò le forze popolari cattoliche antifasciste di Sturzo), e vide prevalere la reazione fascista che si scatenò, con sempre maggiori aiuti economici, in particolare, da parte delle forze reazionarie protese a tutelare i loro interessi e privilegi economici sia nel campo dell’industria che in quello dell’agricoltura.
In essa protagoniste furono le squadre di azione militare fasciste, composte da ex militari e da arditi passati dalla parte di Mussolini, le quali agivano con tattiche e strumenti militari allora ben sperimentati ed efficacissimi, in special modo grazie ai mezzi tecnici a disposizione: armi e veicoli militari già usati in guerra. A documentare questa fase, con estrema dovizia di particolari, basta la fonte più importante di allora, lo scritto di Matteotti. “Un anno di dominazione fascista” che meglio di qualsiasi altro testo illustra come allora l’arbitrio si sostituì alla legge, descrivendo giorno dopo giorno le violenze perpetrate dalle squadre fasciste in maniera sistematica. Tale fase si concluse con la morte dell’eroico tribuno socialista, il suo libro ovviamente non circolò in Italia ma all’estero e come altri non fu più ristampato, come quello di Nenni lo fu una sola volta in italiano mentre avrebbe meritato una ampia tiratura almeno dopo la caduta del fascismo e con l’avvento della Repubblica. Quando ci lamentiamo di certe recrudescenze neofasciste dovremmo farci un serio esame di coscienza su quello che concretamente abbiamo fatto per promuovere una cultura antifascista ed antitotalitaria. Le questioni sollevate sarebbero tante e qui si cerca di accennarvi più che di affrontarle in maniera esauriente e sistematica, perché, a tal scopo, servirebbe un volume apposito, anzi forse tre: uno per la guerra civile tra le due guerre, uno per quella alla fine della seconda guerra mondiale e un terzo per quella degli anni successivi, almeno fino alla fine della prima repubblica, con magari una adeguata appendice per analizzare bene certi strascichi attuali, io mi posso limitare, per ora, ad un lavoro sintetico sulla prima e, se ne avrò l’opportunità, chissà, forse anche ad altri sulle seguenti, per ora.
La Grande Guerra. Il primo scontro della guerra civile. Carlo Felici il 24 dicembre 2018 su Avanti! Nella prima parte dei questo excursus sulla guerra civile nel primo dopoguerra abbiamo parlato dei primi scontri tra nazionalisti e socialisti svoltisi a Roma il 10 Aprile del 1919, dopo tale evento, i socialisti organizzarono una nuova manifestazione a Milano dove esisteva la più potente organizzazione federale socialista d’Italia. Era programmata per il 13 al Largo Garigliano, in via Borsieri, ma la Questura negò l’autorizzazione. Nonostante ciò, i socialisti si presentarono in massa e la manifestazione ben presto degenerò in scontri tra manifestanti e polizia. Persino i sanpietrini vennero divelti e gettati contro gli agenti, ferendone vari, a quel punto intervenne l’esercito e la mischia divenne tremenda. I feriti anche tra i manifestanti furono molto numerosi, gravi due agenti di polizia, un maresciallo e il soldato di 31 anni Giovanni Gregoretti fu ucciso. La massa dei manifestanti venne dispersa e lungo il percorso vi furono non pochi atti di vandalismo, con vetrine spaccate e passanti ed ufficiali aggrediti. Il timore che anche la sede de Il Popolo potesse essere attaccata, spinse arditi, nazionalisti e fascisti a presidiarla persino con una mitragliatrice, la giornata finì così, ma il giorno successivo venne proclamato lo sciopero generale, che fu accompagnato da altri incidenti anche se in tono minore. Il 15 però, invece di terminare, proseguì, con un corteo che tentò di occupare di nuovo Milano, da piazza del Duomo però il deputato Cardiani fece appello agli studenti del Politecnico che sapeva essere ex ufficiali, invitandoli a scendere in piazza per difenderla dal “pericolo rosso”, Centocinquanta che per altro erano solo ex militari ma non fascisti, vi accorsero con bandiere tricolori. Dal fondo di Via Dante arrivava il vociare del corteo che intonava “Bandiera rossa”, avanzando verso il centro, con una avanguardia di circa tremila operai muniti di randelli e paletti di ferro strappati anche dalle aiuole dei giardini. Fu allora che i trecentocinquanta giovani ex ufficiali al grido di “Viva l’Italia! Morte a Lenin!” si scagliarono contro quella avanguardia e avvenne il primo vero atto della guerra civile tra italiani. Da ambo le parti si spararono rivoltellate (c’è da dire che allora la legge sull’uso delle armi era molto meno restrittiva di oggi e che moltissime armi ex residuati di guerra erano detenute e circolavano liberamente). Parrà strano, ma la furia di quei giovani evidentemente abituati ai campi di battaglia e i loro spari, fecero prima sbandare l’avanguardia e poi disperdere il resto del corteo. A quel punto, la situazione si capovolse, ed i nazionalisti, i reduci e i fascisti vollero puntare sulla sede de L’Avanti, che però era presidiata da forze di polizia e da militari. Da una finestra della sede del giornale socialista arrivò uno sparo che colpì a morte il mitragliere Martino Speroni comandato in servizio d’ordine. Fu così che il presidio venne a mancare e la sede fu assalita e data alle fiamme, mentre i redattori si misero in salvo con una fuga precipitosa. La giornata fu pertanto insanguinata da tre morti, tra i quali una ragazza che non c’entrava nulla, il mitragliere e numerosi feriti. A descrivere gli eventi abbiamo la cronaca del Corriere di allora che non era del tutto avverso ai socialisti e cercava di mantenere una posizione al di sopra delle parti. L’articolo del giornale milanese parla anche dell’intervento di un reparto di cavalleria che però si sbandò perché i cavalli furono spaventati dall’agitarsi dei drappi rossi e dei bastoni, e dice anche che fu alla fine un acquazzone provvidenziale a disperdere i manifestanti dall’una e dall’altra parte. Per la prima volta furono utilizzati gli idranti dei pompieri per disperdere gli ultimi residui della folla accorsa. Il giornale riporta anche la colluttazione e la cattura del ventenne Nuccio Zambaldi, dopo l’assalto a L’Avanti e che fu gettato nel naviglio, anche se poi salvato dai militi della Croce Verde. Nonostante tutto ciò, lo sciopero proseguì ad oltranza anche il 16 e il 17, senza che l’opinione pubblica ne potesse comprendere le ragioni, anzi, pur essendo preoccupatissima che potesse degenerare come nei giorni precedenti. Ovviamente l’evento fu cavalcato da Mussolini nelle colonne del suo giornale che stigmatizzò gli scontri con le seguenti parole “Ma tutto ciò che è avvenuto nel Naviglio, anche se non è partito da noi, anche se l’iniziativa non fu nostra, non è da noi rinnegato o rimpianto o deplorato, perché è stato umano, profondamente umano. Non siamo dei coccodrilli democratici e dei vigliacchi. Abbiamo sempre il coraggio delle nostre responsabilità. Siamo ancora quelli di Tregua d’Armi!…E’ l’interventismo popolare, il vecchio buon interventismo del 1915, che, in tutte le sue gradazioni, si è raccolto attorno a noi…noi non ci opponiamo al movimento ascensionale delle masse lavoratrici, non ci opponiamo a questa magnifica incruenta rivoluzione operaia che è in atto e che ha già, anche in Italia, toccato splendide realizzazioni; noi combattiamo apertamente e fieramente, insieme con la maggioranza dei socialisti di tutto il mondo, quel fenomeno oscuro e criminoso, di regressione , di contro-rivoluzione, e d’impotenza che si chiama bolscevismo”. Si noti bene come, nonostante la recente fondazione dei Fasci di Combattimento del mese precedente, Mussolini adotta ancora nel suo intervento la terminologia “socialista” non si sente dunque un “eretico” ma, viceversa, taccia di “eresia” proprio coloro che “vogliono fare come in Russia” e che compatti, militeranno ancora per quasi un paio di anni nel partito che lo aveva espulso prima di scindersi rovinosamente. A fare da eco a tali parole, parrà incredibile, ma è proprio Pietro Nenni che aveva aderito ai Fasci di Combattimento con spirito rivoluzionario e repubblicano e che allora dirigeva Il Giornale del Mattino, finanziato dagli agrari bolognesi, giovane ma già dirigente dei Fasci di Combattimento di Bologna. Ecco cosa scrisse il 19 aprile 1919: “Chi non ha diritto di protestare è proprio l’Avanti! Esaltatore della guerra civile. Credevano forse in via San Damiano che si potesse seminare a piene mani l’odio contro gli interventisti e i patrioti, credevano che si potesse esaltare la dittatura del proletariato come redde rationem per chi aveva amato il proprio Paese, senza che la reazione fosse immediata ed impetuosa? Alla rivoluzione come alla rivoluzione!” Quando Nenni ebbe modo di riflettere accuratamente su quegli eventi e scrisse anche un altro libro: “Storia di quattro anni” su quel periodo, lucidamente capì anche gli errori del Partito Socialista, vale la pena quindi di menzionare anche una citazione da quelle pagine: “Ebbe il Partito Socialista coscienza di questa situazione? Certamente sì (si riferisce alla crisi dei vecchi assetti sociali n.d.r.) Si può dire anzi che, almeno da un punto di vista teorico, questa coscienza l’ebbe in forma esagerata, fino a dimenticare i reali rapporti di classe, il carattere del tutto speciale del reclutamento socialista, la forza di quei ceti medi fra i quali si reclutavano gli interventisti ed in guerra l’ufficialità, le possibilità di sviluppo delle prime associazioni di combattenti, fino a misconoscere in genere il complesso fenomeno del combattentismo. Fu questa svalutazione del combattentismo il primo errore e forse il più fatale. Bisogna però riconoscere che un tale errore difficilmente si poteva evitare, dato il corteo di odi che la guerra lasciava dietro di sé”. Un corteo che purtroppo si fece sempre più funebre. Questo infatti fu solo il prologo di tale lunga guerra civile, ben presto l’inflazione e l’aumento dei prezzi dei generi più richiesti come il pane, provocarono altri scontri, altri morti ed altri saccheggi, così come altri tentativi di sciopero..non tutti riusciti.
Il fallimentare diciannovismo internazionalista. Carlo Felici il 27 dicembre 2018 su Avanti! I fatti dei 15 Aprile ebbero enormi ripercussioni in tutta Italia, da una parte il Partito Socialista non si rese adeguatamente conto della reazione crescente, dall’altra esso procedette senza un minimo di autocritica verso obiettivi sovietici senza accorgersi che le masse seguivano quel partito perché ad esso, nelle rivendicazioni, non vi erano alternative, pur essendo molti di quei lavoratori e contadini reduci dalla guerra. Mussolini, d’altra parte, pur non avendo ancora mezzi e potere adeguati per guidare un movimento che era solo agli albori, non trascurava neanche una occasione per cavalcare la reazione con toni sempre più esacerbati del tipo..”Bene, molto bene; il fantoccio grottesco del leninismo in Italia è uno straccio pietoso consegnato nell’immondezzaio della cronaca nera”.
I fatti di Milano portarono alla moltiplicazione delle sedi dei Fasci di Combattimento. Nei mesi successivi lo scontro crebbe con velocità esponenziale, a maggio vi furono disordini in ordine sparso in sedi locali, a giugno Orlando, battuto dalla coalizione di centrosinistra, dovette lasciare il posto a Nitti che non brillò certo per maggiore solidità ed intraprendenza, confermando la sostanziale debolezza dell’esecutivo, gestito da forze minoritarie con cui però, a differenza del periodo di prima della guerra, quelle popolari non intendevano collaborare per ripetere ciò che era stato già fatto a suo tempo da Turati verso Giolitti, e che aveva prodotto una fruttuosissima stagione di riforme. I prezzi d’altro canto aumentavano, sia per le difficoltà logistiche del dopoguerra, sia per le mire speculative dei commercianti. Il Partito Socialista approfittò della situazione per far salire il livello dello scontro. Solo tra il Giugno e il Luglio del 1919 gli assalti tra dimostranti e forze di polizia fecero 26 morti e più di 600 feriti, nacquero Case del Popolo e Soviet un po’ ovunque e in Val Bisenzio sorse persino una “repubblica sovietica”, nella prima metà di Luglio circa 1200 negozi, decine di abitazioni private vennero devastate o date alle fiamme, reduci, ufficiali, soldati, professionisti o studenti ex ufficiali, una volta riconosciuti come ex militari, venivano sistematicamente insultati e malmenati. A Firenze vennero saccheggiati quasi tutti i negozi e la polizia sparò uccidendo due dimostranti e ferendone 85; a Imola ci furono quattro morti, a Genova due morti, a Lucera sette morti. Il risultato non fu l’estendersi del movimento socialista, ma il progredire di quello fascista, sempre più suffragato dai ceti medi e dai quadri militari degli ex combattenti. Scene di saccheggio si ebbero il 7 Luglio a Torino, in un momento in cui però, come scriveva allora il Corriere: “tra autorità, enti cittadini, e rappresentanti di organizzazioni operaie era perfetto l’accordo verso un comune programma d’azione atto a combattere l’attuale rincaro della vita e quando la cittadinanza era già soddisfatta dei primi innegabili effetti del calmiere imposto dal Comune e fatto rigorosamente osservare.” Curioso che allora si saccheggiassero i negozi di scarpe, proprio mentre era in atto un calmiere dei prezzi delle calzature e rasenta il comico che sempre il Corriere riferisca che “Alcuni arrestati sono stati trovati in possesso di stivaletti scompagnati, di scarpe di velluto, di scarpine da ballo, di scatole di lucido, di nastri e fettucce”. Lo stesso giornale riconosce però che nessuna calzatura andò in deposito alla Camera del Lavoro, che restò estranea ai fatti. E’ dunque dato presupporre che il saccheggio fosse utile per il “mercato nero”. Ovviamente furono assaltate anche birrerie ed osterie, in quel caso però la merce veniva “consumata” sul posto, quindi, scrive sempre il Corriere: “si son prese sbornie fenomenali. Gli osti avevano un gran da fare a servire tutti. Si son visti ragazzini dai 12 ai 15 anni che tracannavano dai fiaschi, sdraiati lungo le strade.” In altre parti della città il servizio d’ordine dei socialisti fu più efficiente, per esempio alla Barriera San Paolo, dove sistematicamente le chiavi dei negozi venivano consegnate alla Camera del Lavoro con tanto di cartello affisso recante il timbro della Camera stessa. Il segretario politico socialista Lazzarini dovette riconoscere l’esistenza dei saccheggi ma li giustificò con un comunicato che attribuiva la responsabilità di tutto ciò al clima post bellico: “Le manifestazioni odierne nella loro gravità e vastità, sono l’indice più sicuro e conclusivo dello sfacelo materiale e morale che la guerra ha creato…Il Partito Socialista con le sue sezioni, i suoi organi e gli iscritti tutti, non può che essere con la folla esasperata per fiancheggiare l’impulso spontaneo e guidare le iniziative verso una possibile soluzione immediata….Solo la soluzione socialista risolverà fondamentalmente in tutti i paesi con una razionale collettiva produzione e con lo scambio e distribuzione a tutti i lavoratori, l’arduo problema.” Come si evince da tale comunicato, per i socialisti, la soluzione non poteva che essere la collettivizzazione e il saccheggio non poteva che risultare causato dal malessere nei lavoratori. Margine di intesa per altre soluzioni non pare ve ne fosse. Nonostante le agitazioni non portassero a nulla ed i prezzi continuassero ad aumentare, non ci fu nessuna consapevolezza da parte del PUS dell’imminente fallimento di quella strategia di lotta, anzi, si decise di dichiarare per il 20 e per il 21 Luglio l’ennesimo sciopero generale, tra l’altro non con un obiettivo di rivendicazione interna, ma in “segno di solidarietà con i compagni rivoluzionari” ungheresi e russi, che in quel periodo di guerra civile in Russia, cercavano di congiungere le loro truppe con l’Armata Rossa. Lo sciopero quindi era mirato più che altro bloccare gli aiuti inglesi e francesi alle armate bianche antibolsceviche. Esso doveva essere coordinato con i socialisti inglesi e francesi. Gli ordini del Partito Socialista erano chiari: “Difendendo le Repubbliche socialiste e lo spirito delle Rivoluzioni proletarie di Oriente noi difendiamo nel tempo stesso le possibilità rivoluzionarie in tutta Europa e specialmente in Italia, che si avvia anch’essa verso decisive esperienze comuniste, che la guerra ha maturato e che la crisi del dopoguerra vieppiù sollecita.” Storicamente basterebbe anche solo questa solenne dichiarazione per evidenziale che le mire bolsceviche e comuniste del PUS di allora erano più che palesi e che non si voleva intendere né perseguire alcuna soluzione alternativa. All’atto pratico, però, i socialisti inglesi non aderirono allo sciopero, mentre la francese Confederation General du travail limitò la sua partecipazione ad una modesta parata, tirandosi indietro e dando l’ennesima dimostrazione del fallimento dell’Internazionale Socialista. Mussolini ovviamente mise in risalto tali contraddizioni rimarcando come l’astensione dal lavoro non portasse affatto ad una “organica opera di rinnovamento politico e istituzionale o al sopravvento di classi consapevoli e degne, ma soltanto a peggiorare la situazione dell’ora e a valorizzare le correnti più antiproletarie e antinazionali del paese”. Lo sciopero del 20-21 Luglio fu, in ogni caso, un fallimento, il sostegno all’Armata Rossa era stato un perfetto fiasco ma, nonostante la defezione francese ed inglese, i socialisti italiani vollero perseverare da soli. Così commentò il Corriere di allora “E’ noto che il Sindacato dei ferrovieri e la Confederazione dei postelegrafonici avevano dapprima aderito alla manifestazione pseudo-leninista; ma allorché si vide che si trattava di una inutile azione sporadica dell’Italia a beneficio, quanto mai problematico, delle repubbliche bolsceviche, rappresentanti la negazione di ogni ordine e di ogni benessere anche proletario, la reazione fu vivacissima” Infatti in quelle giornate più o meno tutti i servizi pubblici funzionarono senza particolari disagi. L’articolo del Corriere così proseguiva: “i due popoli che avrebbero dovuto concorrervi o avevano rifiutato o si erano ritirati; l’opinione pubblica illuminata aveva reagito nel modo più franco e deciso…Nessuna meraviglia che una buona parte del proletariato abbia fatto la sua scelta tra la saviezza e la follia, fra l’interesse proprio e del Paese e le vane fantasticherie sommovitrici dei retori del comunismo e dell’anarchia.” A Londra in effetti ci fu solo un comizio con 150 persone, l’internazionalismo socialista europeo, già sepolto sotto le macerie della II Internazionale e della guerra, stava dimostrandosi, anche in funzione filosovietica, una penosa illusione, e lo restò fino a quando la stessa Unione Sovietica non decise, superata la “sua” guerra civile, di bolscevizzare il socialismo europeo con la “sua” III Internazionale. Mussolini d’altro canto, stigmatizzò dalle colonne del suo giornale il fallimento anche della Confederazione Generale del Lavoro..concludendo con una frase sferzante: “noi non disperiamo di strappare le masse alla turpe, sanguinosa speculazione pussista.” Eppure un vero rivoluzionario in Italia allora c’era, e ben presto passò all’azione...
La vittoria mutilata. Il Vate rivoluzionario passa all’azione. Carlo Felici il 30 dicembre 2018 su Avanti! Nei mesi centrali del 1919, abbiamo visto, le azioni delle forze “rosse” erano abbastanza confuse ed inconcludenti, quelle della “reazione” nera ancora disorganizzate e in sordina, capaci solo di reazioni sporadiche ma non ancora strutturate, dato che il numero degli aderenti era ancora poco numeroso e non ancora dotato di mezzi efficaci. Ci fu però chi decise di passare repentinamente dalle parole ai fatti. La sua prima iniziativa importante fu quella che prese a Roma in Campidoglio, era un poeta, uno scrittore famoso, un eroe di guerra. A Parigi la conferenza di pace di quell’anno aveva visto l’Italia uscire fortemente ridimensionata nelle sue rivendicazioni territoriali, non le era stata concessa né la Dalmazia e nemmeno una città che allora era prevalentemente abitata da Italiani e che era stata culla, come altre, di quell’irredentismo che aveva dato almeno una cognizione di causa ad una immane strage. Il presidente del Consiglio Orlando e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino se ne erano andati dal tavolo delle trattative quasi sbattendo la porta, ma rientrarono dopo pochi giorni con la coda tra le gambe e a giochi ormai fatti. Fiume restava una città presidiata dalle truppe vincitrici del conflitto e all’Italia era impedito di annetterla, liberandola dal limbo a cui era stata destinata. Le agitazioni nelle piazze si susseguirono e furono alimentate anche dai nazionalisti per distogliere anche l’opinione pubblica dalle scottanti questioni sociali allora in corso. Nacque così il mito della “vittoria mutilata”, che per molti reduci fu un ulteriore schiaffo, dopo la negazione delle terre e del lavoro, una volta ritornati in Patria. Lo scrive chiaramente anche Nenni nel suo libro “Storia di quattro anni” : “Dite ad un popolo che ha fatto la guerra senza alcun entusiasmo e con la coscienza di subire un sopruso, che vi ha perduto mezzo milione di vite umane, che ancora sanguina e geme delle ferite della guerra, ditegli che i suoi sacrifici sono stati vani, che esso si è svenato per niente, che ha patito 41 mesi in trincea per ottenere poco più di quanto avrebbe potuto ottenere con la neutralità; ditegli – come dicevano i nazionalisti – che gli alleati lo hanno tradito, che esso rimane senza un sicuro confine e carico di debiti, che gli altri si sono fatti la parte del leone e non gli hanno lasciato neppure le briciole, e poi meravigliatevi se questo popolo in preda ad una santa collera, digrigna i denti. Dimenticate – come fece la borghesia – le promesse fatte durante la guerra, ed all’operaio ed al contadino smobilitati date per viatico un miserevole pacco vestiario e ricacciatelo nella lotta della vita più misero, più avvilito, e poi meravigliatevi di trovarlo ribelle alla vostra legge. No, se c’era qualcosa di sorprendente è che dopo tutto ciò la collera di questo popolo ingannato e tradito si manifestasse con qualche urlo, con qualche intolleranza e votando rosso.” Ebbene, questa rabbia, mentre la vittoria elettorale per i “rossi” maturava e si poneva poi il problema di come utilizzarla “parlamentarmente”, D’Annunzio l’aveva intuita tutta ed era pronto a darle ben altro sfogo. Il sei Maggio 1919 il Vate Rivoluzionario (poi spiegheremo come e perché lo fu davvero) pronunciò un discorso epocale in Campidoglio a Roma sulla “vittoria mutilata”. Ecco alcuni suoi brani significativi: “La storia vostra si fece nelle botteghe dei rigattieri e dei cenciaiuoli? Le bilance della vostra giustizia crollavano forse dalla banda ov’era posto un tozzo da maciullare, un osso da rodere? Il vostro Campidoglio era forse un banco di barattatori e di truffardi? La gloria vi s’affaccendava e ciangottava da rivendugliola? Non ossi, non tozzi, non cenci, non baratti, non truffe. Basta! Rovesciate i banchi! Spezzate le false bilance!». Quella voce è la stessa che oggi vi parla. Ed è la stessa fede: ed è lo stesso ardore, lo stesso ardire. Non lasciate il leale governo d’Italia ritornare verso quei banchi. Non date a pesare in quelle bilance il nostro sangue schietto. In tale ardire è la nostra salute. Non in altro che nell’ardire oggi è la nostra salute, Italiani. Credetemi. A NOI! …. Questi fanti d’Italia, questi cavalieri d’Italia sapevano che stava per scoccare l’ora dell’armistizio. Lo sapevano. Avevano l’ardore in bocca, il vigore nel petto, il cuore palpitante. Erano giovani. Vivevano. Il diritto alla vita stava per essere ricollocato sul dovere del sacrifizio. Essi potevano ritenere nel loro pugno la loro sorte. L’ora stava per scoccare. Intendete fratelli? Bisogna inginocchiarsi. Essi erano inebriati dall’ansia di spingere la vittoria quanto più lontano fosse dato al loro soffio, sul suolo riconquistato, prima che quell’ora scoccasse e segnasse il termine raggiunto. Potevano vivere e incoronarsi. Vollero incoronarsi e morire. Laggiù, su le vie dell’Istria, su le vie della Dalmazia, che tutte sono romane, non udite la cadenza in un esercito in marcia? I morti vanno più presto dei vivi. E per tutto ritrovano essi i segni dei legionari. Fuori la schiaveria bastarda e le sue lordure e le sue mandrie di porci! Con le Aquile e col Tricolore, troncati gli indugi, rinnovato il suo maggio, un’altra volta dal Campidoglio si muove l’Italia. A NOI!” Il discorso sui reduci ebbe un effetto straordinario e se oggi può sembrare ai più intriso di retorica, allora invece esso galvanizzò enormemente tutti coloro che, come abbiamo visto nelle considerazioni di Nenni, non accettavano di andare incontro, dopo quella che veniva ricordata loro come una impresa eroica (e in fondo, nonostante la si dipinga tuttora come una inutile strage lo fu), ad un destino di emarginazione interna e di umiliazione internazionale. D’Annunzio, lo sappiamo, è stato a lungo misconosciuto, considerato alla stregua di un protofascista, lasciato nel dimenticatoio di una decadenza estetica ed esaltato solo per i suoi esagerati estetismi. Eppure la figura del Vate Rivoluzionario resta quella di un perfetto asceta, quasi che, in senso gnostico, tutti i suoi estetismi non fossero altro che un trasgredire volutamente un senso della comune decenza che strideva e trasudava ipocrite maschere di morale bigotta. Per comprendere la figura di D’Annunzio ed il suo rapporto con il mondo “rosso”, bisogna però aprire una parentesi risalendo alla fine dell’Ottocento ed ai primi anni del Novecento. E’ importante per comprendere che quella di Fiume non fu una azione improvvisata ma solo la perfetta e coerente conclusione di un viaggio iniziato molti anni prima. A tal scopo integro questo mio excursus con un mio intervento di qualche tempo fa, proprio dal titolo il Vate Rivoluzionario. Uno degli aspetti più sconosciuti e interessanti dell’opera di uno dei più grandi artisti e poeti italiani, è quello della sua vita rivoluzionaria, un vivere che, come lui scrisse, e ci possiamo davvero credere, fu “chiamato inimitabile” Sino ad ora, l’aspetto della vita di D’Annunzio, dedito alla causa rivoluzionaria, era stato esplorato solo in parte da De Felice, con alcuni testi in merito alle esperienze del poeta nella Repubblica del Carnaro, oggi abbiamo invece uno studio più approfondito che è il frutto di una bella ricerca svolta da Antonio Alosco, il quale ha pubblicato di recente un libro dal titolo: Gabriele D’Annunzio socialista, oltre ad una bella raccolta di suoi scritti rivoluzionari curata da Emiliano Cannone, dal titolo “manuale del rivoluzionario”. Diciamo subito che è un titolo alquanto azzardato, dato che, strictu sensu, il Vate, socialista, non lo fu mai, almeno nell’accezione ordinaria del termine che possiamo riferire alla militanza in un partito e, in particolare, alla adeguazione della propria prassi verso le sue gerarchie interne. Fu però autenticamente rivoluzionario e vedremo perché. D’Annunzio adeguò il mondo in cui visse, in maniera mirabilmente cosmica e storica, a se stesso, pur imprimendo alla sua epoca una sua personalissima, originalissima e vitalissima impronta caratteriale, artistica e anche politica. La sua esperienza con la sinistra storica di fine Ottocento inziò nel 1897 nelle file della destra, ma con intenti tutt’altro che conservatori, il suo, infatti, fu solo un voler portare in Parlamento “la causa dell’intelligenza contro i barbari”, lo disse testualmente: “dopo il guerriero, dopo il sacerdote, dopo il mercante, venga colui che pensa”, fu quindi forse il primo ad inventare in Italia il ruolo dell’intellettuale impegnato, organico, in un’ epoca, per altro, non esente da corruttele e trasformismi, purtroppo mali endemici del nostro paese. Fu presente nelle file della destra, ma non pronunciò mai alcun discorso, stette lì solo in veste di osservatore, fino all’avvento al potere del generale Pelloux e al varo di una serie di leggi liberticide che seguirono ai moti di piazza e alla strage di Milano del 1898. Fu allora che il Vate, in un moto di stizza e di spirito autenticamente libertario, decise di agire, il 23 marzo del 1900, passando all’estrema sinistra, con un famoso discorso che, in sintesi, suona così: “io so che da una parte vi sono i morti che urlano, e dall’altra pochi uomini vivi ed eloquenti. Come uomo di intelletto, vado verso la vita”. La sua, di conseguenza, non fu tanto una decisione in senso politico, ma soprattutto una scelta esistenziale che lo portò a votare importanti provvedimenti, tra quali alcuni in favore della scuola pubblica e rigorosamente laica. Si ricandidò poi nel collegio di Firenze, ma non ebbe successo, ciò nonostante si impegnò per favorire la vittoria delle candidature legate al suo schieramento, pur sostenendo apertamente di non essere socialista, nel senso dell’appartenenza ad uno specifico partito: “Sono e rimango individualista, ad oltranza, individualista feroce..” e sottolineando, con un certo disincanto, consapevole del fatto che nel nostro paese spesso e volentieri le ideologie sono solo coperture di meschini interessi personali o di consorteria, che “il socialismo in Italia è una assurdità. “Da noi non c’è più altra possibile politica che quella di distruggere. Tutto ciò che adesso esiste è nulla, è marciume”..come dargli torto più di cento anni dopo, quando il marciume ormai governa indisturbato solo se stesso? “Un giorno scenderò per strada” disse esplicitamente e fu proprio allora, bisogna dire, che nacque la sua consapevolezza che l’intellettuale artista non poteva più essere solo un testimone, ma doveva necessariamente passare all’azione e diventare un esempio vivente. Qui nasce la sua coscienza rivoluzionaria, spinta sin verso l’eversione. Bissolati lo sostenne, e con lui il giornale socialista l’Avanti, per svariati anni, quelli in cui iniziò il XX secolo, e il suo libro il Fuoco venne addirittura presentato con un articolo in prima pagina, cosa mai accaduta in un giornale politico, con parole molto lusinghiere: “noi dobbiamo rallegrarci di udirlo parlare così, e notare nel libro del Fuoco, i segni di quella sua bella evoluzione politica compiutasi in questi giorni tra lo sbigottimento dei “morti” e la meraviglia dei “vivi” Una splendida presentazione della sua Canzone di Garibaldi, venne scritta, sempre sullo stesso giornale, da uno dei filologi più illustri dell’epoca: Gustavo Balzamo-Crivelli con parole decisamente altisonati: “E l’epopea della Camicia Rossa non vuole altre storie che questa, intessuta nel ricordo non oblioso del popolo, in cui la fiamma dell’ideale mai non si estingue. Gabriele d’Annunzio illuminò di questa fiamma in un riflesso di incendio la sua poesia” D’Annunzio utilizzò il partito socialista per diffondere il suo scritto in tutta Italia (lo recitava egli stesso) e il Partito Socialista si servì del poeta per farsi propaganda per un bel periodo. Lo stesso partito avrebbe presentato volentieri di nuovo la candidatura del Vate nelle successive elezioni, tanto che, pur essendo allora favorevole ad abolire il Senato, che era di nomina regia, quando si discusse della nomina di D’Annunzio, esso la sostenne, anche se poi non ebbe luogo. Furono i repubblicani e i radicali, più organizzati allora territorialmente, a porre il loro veto su ulteriori candidature di D’Annunzio sostenute dai socialisti, e il poeta se ne ebbe tanto a male che, da allora in poi, rifiutò l’impegno parlamentare, pur contribuendo, con le sue conferenze ed i suoi incontri, a sovvenzionare notevolmente gli introiti delle Camere del Lavoro. Si fece persino promotore della costruzione di alcune di esse, e, in occasione della inaugurazione di una, disse testualmente: “Io spero prossimamente di potere entrare, non indegno, come poeta, alla Casa che voi edificherete con pietre armoniose” Inaugurò i corsi dell’Università popolare di Milano facendosi apologeta di una nuova missione educatrice dell’arte verso il popolo, non più suggestionato dal fatto che l’arte dovessere restare un patrimonio di eletti: “Si riconosce che conviene distruggere il pregiudizio che oggi separa gli artisti dalla folla e restringe con un ingiusto privilegio il numero delle arti…i più umili mestieri, esercitati con animo libero, possono assumere nobiltà di arte, come ogni cosa o creatura può diventar bella, così ogni lavoro può divenire un’arte. Tutte le attività umane debbono essere glorificate. Se tutte, oggi, non ci appaiono degne di gloria, questo accade o per ingiustizia o per una servitù che lo opprime..la mano che impasta il pane è nobile come quella dello statuario” Il periodo di stretta collaborazione tra D’Annunzio e i socialisti non fu dunque né breve e nemmeno effimero, ma durò svariati anni, almeno fino al 1906, in particolare durante la direzione de l’Avanti di Bissolati. Furono le successive vicende coloniali italiane che portarono alla divaricazione di percorso tra i socialisti e il Vate, soprattutto perché egli se ne fece sostenitore, con spirito più che nazionalistico , patriottico, quello cioè di una grande Patria popolare che si metteva in moto senza chinare la testa di fronte ad altre potenze le quali, se fosse rimasta a guardare, l’avrebbero schiacciata in un ruolo succube nel Mediterraneo. Questo mito della “grande proletaria”, lo accompagnò fino all’ultima impresa coloniale italiana in Etiopia. Da sottolineare il fatto che tale mito non fu solo suo, ma anche di alcuni socialisti come Labriola, il quale però si spense agli inizi del secolo XX. Fu comunque la Grande Guerra a sancire lo iato profondo con il partito socialista, e come sappiamo, egli fu l’unico a distaccarsi, dato che portò anche Mussolini ad essere espulso dal suo partito. D’Annunzio partì infatti come volontario, a ben 52 anni, guadagnandosi sul campo i gradi di tenente colonnello e soprattutto con una gloriosa nomea, da allora fu infatti, “il Comandante” per antonomasia, per tutti coloro che, dalla guerra, si attendevano un inevitabile sbocco rivoluzionario. Nella guerra scoprì il cameratismo, la condivisione, la stretta interdipendenza con un popolo che lottava per essere protagonista della sua storia, l’essere uniti, e, di conseguenza, che la vita, come creazione artistica, non doveva essere solo quella di un singolo ma quella dello stesso popolo con cui si vive e si muore: “D’un solo cuore, d’un solo fegato, d’un solo patto, con me, come quando voi fate la catena per gettare al sole e alle stelle le vostre canzoni vermiglie, con me, compagni, con me compagno, fedeli a me fedele, ejia ejia eija Alala!” L’esito rivoluzionario arrivò finalmente con l’impresa di Fiume, che solo un disattento quanto superficiale lettore della storia potrebbe tuttora considerare un’impresa nazionalista o dalle caratteristiche coreografiche e confusionarie. Questa mistificazione, che è nata subito dopo sin dai tempi del fascismo, e in certi casi tuttora perdura, è sorta con il preciso scopo di depotenziare un evento che sicuramente, se avesse avuto successo, avrebbe cambiato profondamente la natura del tessuto istituzionale italiano, e il futuro di una Patria più libera e consapevole. Fiume segnò sia il distacco definitivo di D’Annunzio dal Partito Socialista e, in particolare dalla sua direzione che passò nelle mani di Serrati, sia però anche il suo riavvicinamento all’ala più radicale del sindacalismo rivoluzionario.
L’Avanti fu allora diretto da Serrati e rivolse duri attacchi verso D’Annunzio e contro la sua impresa, qualificando il Vate come “rappresentante della piccola borghesia italiana” o della “striminzita speculazione patriottica nostrana”, denigrando così una vicenda che largo clamore stava avendo presso l’opinione pubblica e, al contempo, facendo da sponda alla reazione nazionalista che avrebbe voluto metterla a tacere in nome di interessi diplomatici. Il commento più benevolo dei socialisti di allora fu di considerarla un “gesto donchisciottesco”, ma vedremo bene che, concretamente, fu molto più donchisciottesco il tentativo generalizzato di occupare le fabbriche e di operare una rivoluzione sindacale con un biennio che fu rosso solo di rabbia e di rancore, ma mai di vera capacità rivoluzionaria. Tanto che, quando da Fiume D’Annunzio offrì agli operai in lotta che occupavano le fabbriche le armi per potere portare a vero compimento una concreta ed autentica rivoluzione, egli si vide rispondere no, a dimostrazione che quel biennio, in definitiva, ebbe solo scopi corporativi e salariali, destinati ad essere ridimensionati nel gioco collateralista del riformismo più o meno mascherato, ad oltranza. Fu lo stesso Lenin a lodare D’Annunzio (“In Italia c’è un solo rivoluzionario: Gabriele D’Annunzio”) e a biasimare Serrati e i socialisti di allora. A sostenere l’impresa rivoluzionaria di Fiume fu invece Ricciotti Garibaldi che disse espressamente che essa si poneva in diretta continuità con le imprese risorgimentali garibaldine, non solo per il suo spirito patriottico, ma anche per la sua carica di innovazione sociale. Oltre al contributo delle migliori avanguardie artistiche di allora, ad animare di grande creatività e di spirito autenticamente rivoluzionario quella stagione, ci fu l’apporto di sindacalisti come De Ambris, che scrisse insieme a D’Annunzio la Carta del Carnaro. Persino un giovane di allora: Leo Valiani, che era nato a Fiume ed abitava di fronte al palazzo di governo, ricorda D’Annunzio come “oratore eccezionale e forse ancora più seducente come attore. Mi affascinava soprattutto il suo appello ad una rivoluzione di libertà”.
La Carta del Carnaro che scaturì dalla collaborazione tra De Ambris e D’Annunzio ma non fu, come molti erroneamente credono, solo la stesura in bella copia ed in stile dannunziano delle idee di De Ambris, rappresenta piuttosto la traduzione in una lingua ed in una sensibilità libertaria di principi ed idee di eguaglianza e di dignità sociale che già da tempo andavano maturando nel pensiero più fruttuoso del sindacalismo rivoluzionario di personaggi che, come Corridoni, non si appiattirono nel neutralismo socialista, ma vollero fare del loro interventismo, il preludio per una autentica stagione rivoluzionaria in Italia. Per i socialisti di allora, però, lo Statuto “non pratico, non applicabile, non fu serio”, dissero “è frutto di un lavoro scolastico di un poeta. E’ anacronistico, pletorico e grottesco”, quasi fosse un malcelato disegno dittatoriale di un solo personaggio in cerca di gloria. Ed è particolarmente sintomatico il fatto che, mutatis mutandis, tale giudizio storico abbia accompagnato in senso trasversale ed a lungo tale esperienza, con l’unico scopo di gettarvi discedito e di depotenziarla. Lo stesso sindacalista collaboratore di D’Annunzio venne denigrato bollandolo come “vicedio”. De Ambris e i volontari fiumani vennero definiti “quei parassiti che si chiamano legionari” E’ importante sottolineare ciò, per capire il profondo rancore che quei legionari, in gran parte reduci ed Arditi, cresciuti nelle maggiori e più rischiose difficoltà del conflitto, maturarono dopo la sconfitta a suon di cannonate dell’esperimento rivoluzionario fiumano, confluendo poi sia nelle file fasciste che in quelle antifasciste: gli Arditi del Popolo, e portandosi dietro una carica notevole di rabbia e di violenza. E’ bene ribadirlo con chiarezza: quella rivoluzione era destinata ad estendersi a tutta l’Italia portando ad un ribaltamento dei suoi assetti istituzionali, sulla scia delle idee repubblicane e garibaldine che tanto avevano dato alla storia risorgimentale e tanto erano state frustrate dall’avvento della dinastia dei Savoia come monarchia nazionale, frustrazione e risentimento maturati anche da D’Annunzio già dai tempi delle cannonate di Bava Beccaris.
La Carta del Carnaro aveva e conserva principi avanzatissimi, come la prorietà concepita nella sua funzione sociale e non speculativa, la corporazione come sinergia di forze produttive, la concezione del lavoro operaio come frutto di produttori attivi e non come soggetti alienati passivi, la libertà di religione e dalla religione, la revocabilità delle cariche pubbliche, la parità dei diritti tra uomo e donna, con quell’emancipazione femminile che rese proprio le donne le maggiori protagoniste della rivoluzione fiumana, la promozione di una Lega di Fiume dei popoli oppressi, che possiamo considerare l’antenata dei movimenti no global, e destinata a dar voce a «tutti quei popoli che oggi patiscono l’oppressione e che vedono atrocemente mutilate le fibre viventi dei loro territori nazionali, e che guardano al vessillo di Fiume come al segno della rivolta e della libertà», e infine il decentramento amministrativo e la revisione periodica della Costituzione per renderla sempre più adeguata alle sfide del tempo, pur senza farla rinunciare ai suoi principi basilari. Sono questi caratteri indelebili di attualità che dovrebbero farci ben riflettere, non solo sulla concretezza di quell’epoca e di quel tentativo, forse paragonabile solo a quello della Costituzione della Repubblica Romana del 1849, ma ancor di più su quelli odierni di rinnovamento istituzionale che sovente restano prigionieri di logiche politiche autoreferenziali di basso e persino infimo cabotaggio. E’ stato un illustre esperto di Diritto Costituzionale come Gaspare Ambrosini, presidente della Corte tra il 1962 e il 1967, a dichiarare che “Quell’ordinamento che filosofi, economisti e giuristi non avevano creato, doveva essere creato da Gabriele D’Annunzio, la cui Carta di Libertà del Carnaro, quantunque non entrata in attuazione, resta nella scienza come il modello più insigne di completo ordinamento sindacale finora escogitato” Per questa sua rivoluzione che avrebbe dovuto essere anche quella di tutti noi, il Vate cercò la collaborazione non solo di reparti dell’esercito, ma anche di Mussolini e di Serrati da lui definito “rivoluzionario da temperino”, perché, animato da velleità bolsceviche, ma immobilizzato da una inazione che concretamente si manifestava collaterale allo stesso sistema da lui contestato. Purtroppo non si seppe e non si volle cogliere il momento favorevole e non lo colse in particolare né Serrati a cui pure D’Annunzio si era appellato né Mussolini che temeva che l’esercito restasse fedele alla monarchia e che l’azione non potesse estendersi oltre la Venezia Giulia. Questa fu la sua giustificazione, in realtà il futuro duce temeva che Il Vate lo surclassasse, e lo temette fino alla marcia su Roma, anche se D’Annunzio capì, dopo essere stato lasciato solo, e preso a cannonate dal “ministro della malavita” diventato capo del governo: Giolitti, che la sua rivoluzione era stata rinnegata. Serrati e Mussolini furono accomunati dalla loro codardia in questa vicenda, nessuno dei due era mai stato uno che, come D’Annunzio, avesse messo a repentaglio la propria vita in guerra. Mussolini era stato ferito in una esercitazione e approfittò delle ferite per non tornare più al fronte. D’Annunzio vi tornò anche orbo di un occhio e fino alla fine..usque ad finem! Lapidario il giudizio di Ivanoe Bonomi: “D’Annunzio non si mosse da Fiume e il socialismo bolscevico, odiatore di ogni cosa che avesse il suggello della guerra, continuò stupidamente ad ingiuriare gli ufficiali, a inscenare scioperi, a commettere violenze senza senso, così lo Stato potè sfuggire il suo pericolo più mortale”. Non meno caustico verso i serratiani è stato De Felice, il quale sottolinea “l’incapacità dei socialisti a superare sterili posizioni negative” Lusinghiero, su quell’impresa rivoluzionaria fiumana, resta invece il giudizio di Vittorio Foa, antifascista, uno dei padri nobili della Sinistra italiana condannato a 15 anni dal regime fascista: “L’impresa di D’Annunzio fu un intreccio di componenti culturali, fu un gioioso appello contro ogni conformismo diplomatico e burocratico. Si inseriva in qualche modo nella tradizione garibaldina del fatto compiuto che facilita l’azione diplomatica. Ma anche per la durata dell’occupazione, fu un colpo mortale all’autorità dello Stato”. Così, da allora, il Vate preferì l’esilio volontario nel Vittoriale, respingendo persino personaggi come Gramsci e Bordiga che guardavano a lui dopo la scissione e la creazione del partito comunista, come il principale referente di un progetto rivoluzionario, ormai però fuori tempo massimo (ricordiamo che lo stesso D’Annunzio si definì comunista senza dittatura) Le rivoluzioni, infatti, hanno bisogno di tempismo e del contributo essenziale di un popolo in armi, specialmente di quello che già le usa nell’esercito. Per questo eliminare la leva obbligatoria vuol dire sottrarre al popolo la stessa tutela della sua sovranità. D’Annunzio si sa, finì osannato e “imbalsamato” dal regime in una “prigione doratissima”, in cui però non smise di agire, in maniera più criptica, appoggiando l’unità sindacale e le forze più socialmente avanzate anche durante gli anni della dittatura, così come fu sempre fautore di un patrottismo che fosse il linea con i principi di quella che veniva considerata la “grande proletaria”, la quale, d’altro canto, sappiamo bene che si impose nelle colonie anche con i gas e i campi di concentramento. Non sappiamo se egli morì di emorragia cerebrale, come tuttora recita il referto medico, oppure se fu avvelenato da chi passò poi al servizio dei nazisti, o persino se si suicidò, consapevole di non meritare una lenta agonia nel decadimento psicofisico, sappiamo però che, fino all’ultimo, cercò di dissuadere Mussolini dal perseverare in un’alleanza che già lui aveva visto profeticamente come rovinosa, quella con colui che egli definiva in modo sprezzante: “L’Attila imbianchino”. Fatto sta che la sua morte, il primo di marzo del 1938, gli risparmiò sia lo scempio di una alleanza antistorica e criminale sia la demenza delle leggi razziali sia infine la tragedia di una sconfitta e di una guerra civile che ebbe nella città di Fiume proprio la sua vittima sacrificale più illustre. La sua morte, non a caso, segna la fine di una Italia indipendente, anche perché lui stesso aveva inteso identificare la sua vita, non solo con quella di una straordinaria vocazione artistica, ma anche con quella di un popolo e di una Patria, non isolati in un arrogante disprezzo imperialista, ma in piedi, come grande esempio per le altre destinate ad emanciparsi. Le sue ultime parole, mentre i suoi legionari cercavano di respingere un esercito ben più numeroso ed armato e lui decise di cedere le armi per risparmiare alla città le rovine di un perdurante e tragico bombardamento, restano emblematiche della sua vocazione e del suo Amore rivoluzionario a tutto campo, a tutto tondo. Quello stesso Amore che lo portò a corrispondere nelle parole e nei fatti che: “Io ho quel che ho donato”. Ed è vero, tutto ciò che gli apparteneva era ed è tuttora dello Stato “Se voi mi amate, se io son degno del vostro amore, quella Fiume voi dovrete preservare contro ogni sopraffazione, contro ogni insidia, contro ogni vendetta. Per Fiume bella, per Fiume sana e forte: ejia, ejia, ejia, alalà! Viva l’Amore. Alalà!!” Fiume rappresenta lo spartiacque della guerra civile italiana, perché da allora chi tornò da quella mancata rivoluzione, non fu più lo stesso, segnato una esperienza indelebile ed intensa forse più della guerra stessa. Fiume divenne un luogo dell’anima e lo scontro tra soldati italiani, per la prima volta nella storia del nostro Paese, spaccò irreparabilmente il nostro popolo. Con Fiume però siamo andati avanti fino al Natale del 1920. Dobbiamo tornare ora al 1919, al Congresso socialista di Bologna ed alle elezioni del 16 novembre che videro trionfare elettoralmente il Partito Socialista.
Il congresso socialista di ottobre e le parole profetiche di Turati. Carlo Felici il 4 gennaio 2019 su Avanti! Le elezioni del novembre del 1919 furono precedute da varie occupazioni di terre e dal Congresso del Partito Socialista a Bologna nell’ottobre di quello stesso anno. Parallelamente ai moti per il caro vita, le invasioni delle terre ebbero una tipologia piuttosto simile nelle varie località in cui si verificarono, però mancò sempre un centro di coordinamento che potesse guidarle o svilupparle ulteriormente. Nessuna associazione tra quelle di allora: Federterra, associazioni combattentistiche, o persino cattoliche, fu in grado di assumerne la guida su tutto il territorio italiano, le organizzazioni rosse d’altra parte, mancarono del tutto nel ruolo di coordinamento ed il Partito Socialista restò sostanzialmente estraneo all’invasione delle terre, in una sorta di stallo tra l’attesa della rivoluzione e quella del Congresso nazionale.
Esso si svolse durante la prima settimana di ottobre a Bologna. E vide l’affermazione del massimalista Serrati, deciso assertore delle tesi rivoluzionarie, però “a parole”. Il programma serratiano, infatti, da una parte propugnava lo scontro di classe “per l’abbattimento della borghesia e l’organizzazione del proletariato come classe dominante”, dall’altra nulla faceva né ipotizzava i merito ai mezzi da conseguire per coordinare e portare a termine manu militari, tale lotta intransigente. Serrati era il personaggio più accreditato dalla III Internazionale a guida sovietica, in Italia. Lenin gli mandò una lettera di ringraziamento per l’appoggio nella guerra condotta dall’Armata Rossa contro quella Bianca e di congratulazioni per l’affermazione del movimento rivoluzionario a Bologna; interessante è notare che lo stesso Lenin lo invitava alla prudenza per ciò che riguardava le prospettive insurrezionali. Lenin per altro, invece, guardava con molto interesse anche a D’Annunzio le cui navi a Fiume non di rado intercettavano i convogli di rifornimenti navali mandati dall’Italia ai controrivoluzionari russi e la Reggenza del Carnaro fu il primo Stato a riconoscere ufficialmente l’Unione Sovietica. Serrati ignorò sempre gli appelli di D’Annunzio per unirsi ai suoi legionari ed estendere la rivoluzione al resto d’Italia, D’Annunzio a Fiume aveva le armi. Serrati avrebbe potuto avere gli uomini, ma la saldatura non avvenne mai, in particolare quando, durante l’occupazione delle fabbriche, avrebbe potuto trionfare. La componente bordighiana in quel congresso puntava alla creazione di una solida direzione politica sul modello bolscevico ed era nettamente avversa ad un processo rivoluzionario che fosse demandato a consigli operai o di fabbrica, così come lo era verso ogni eventuale prospettiva elettoralistica, puntando all’astensionismo, ciò però isolò Bordiga ed i suoi rispetto alla corrente massimalista dominante. Sul versante opposto, Turati e la componente riformista apparivano alquanto isolati e minoritari, con alcune varianti: quella di Treves che si chiuse in una sorta di massimalismo personale piuttosto penoso, quella di Matteotti che spingeva verso la valorizzazione delle iniziative in particolare contadine dal basso, quella di Graziadei che si spinse sempre di più verso posizioni massimaliste. A presidiare l’area riformista restò praticamente solo Turati e la sua compagna, fermissimo nel denunciare la deriva massimalista con parole di fuoco, definendola come “l’eversione confessata, completa e profonda…di tutto ciò che costituì sino a ieri il patrimonio dottrinale e tattico del socialismo italiano, insomma il tentativo di soppressione del partito o, a scelta, l’abbandono e la fuoriuscita dei novatori dal partito stesso, per la costruzione di un partito diverso ed opposto”. Il padre del socialismo italiano aveva già intuito ciò che in embrione, allora, avrebbe determinato poi la rovinosa scissione di Livorno. Turati in quella circostanza fu infatti un vero e proprio “profeta nel deserto” perché lucidamente intuì con estrema precisione quali prospettive si aprissero con tale sciagurata stagione massimalista “a chiacchiere”. Mali antichi, mali perduranti purtroppo nella sinistra italiana. Vale davvero la pena di riascoltare con molta precisione le sue parole che purtroppo furono destinate allora a restare relegate in un ruolo minoritario ed inascoltato, meditiamole dunque meglio noi. “Parlare di violenza continuamente per rinviarla sempre all’indomani […] è la cosa più assurda di questo mondo. Ciò non serve che ad armare, a suscitare, a giustificare anzi la violenza avversaria, mille volte più forte della nostra […] Questo è un inganno mostruoso, una farsa, che per altro può tralignare in tragedia, preparando i tribunali di guerra, la reazione più feroce, la rovina del movimento per mezzo secolo, non solo sotto la compressione militare, ma sotto l’ostilità di tutte quelle classi medie, quelle piccole classi, quei ceti intellettuali, quegli uomini liberi che si avvicinavano a noi, che vedevano nella nostra ascensione la loro propria ascensione, la liberazione del mondo, e che noi – colla minaccia della dittatura e del sangue – gettiamo dalla parte opposta, regaliamo ai nostri avversari, privandoci di un presidio inestimabile di consensi, di cooperazioni, di forze morali che, in dati momenti, sarebbero decisive a nostro favore! Ma noi facciamo di peggio: noi allontaniamo dalla rivoluzione le stesse classi proletarie. Perché è chiaro che mantenendole nella aspettazione messianica del miracolo violento, nel quale non credete e per quale non lavorate se non a chiacchiere, voi le svogliate dal lavoro assiduo e penoso di conquista graduale, che è la sola rivoluzione possibile e fruttuosa……Sul terreno pratico, quarant’anni o poco meno di propaganda e di milizia mi autorizzano ad esprimervi sommariamente un’altra convinzione. Potrei chiamarla (se la parola non fosse un po’ ridicola) una profezia, facile profezia e per me di assoluta certezza. Vi esorto a prenderne nota. Fra qualche anno – io non sarò forse più a questo mondo – voi constaterete se la profezia si sia avverata. Se avrò fallito, sarete voi i trionfatori. Questo culto della violenza, violenza esterna od interna, violenza fisica o violenza morale – perché vi è una violenza morale, che pretende sforzare le mentalità, far camminare il mondo sulla testa (…), e che è ugualmente antipedagogica e contraria allo scopo – non è nuovo (…), nella storia del socialismo italiano, come di altri Paesi. E il comunismo critico di Marx e di Engels ne fu appunto la più gagliarda negazione. Ma, per fermarci all’arretrata Italia, che, come stadio di evoluzione economica, sta, a un dipresso, di mezzo fra la Russia e la Germania, la storia dei nostri Congressi, che riassume in qualche modo le fasi del Partito, (…) quella storia dimostra a chiare note come cotesta lotta fra il culto della violenza che pretende di imporsi col miracolo ed il vero socialismo che lo combatte, è stata sempre, nelle più diverse forme, a seconda dei momenti e delle circostanze, il dramma intimo e costante del partito socialista. Ma il socialismo, in definitiva, fu sempre il trionfatore contro tutte le sue deviazioni e caricature. (…) nella storia del nostro partito l’anarchismo fu rintuzzato, il labriolismo finì al potere, il ferrismo, anticipazione, come ho detto, del graziadeismo [nuova ilarità], fece le capriole che sapete, l’integralismo stesso sparì e rimase il nucleo vitale: il marcio riformismo, secondo alcuni, il socialismo, secondo noi, il solo vero, immortale, invincibile socialismo, che tesse la sua tela ogni giorno, che non fa sperare miracoli, che crea coscienze, sindacati, cooperative, conquista leggi sociali utili al proletariato, sviluppa la cultura popolare (senza la quale saremo sempre a questi ferri e la demagogia sarà sempre in auge), si impossessa dei Comuni, del Parlamento, e che, esso solo, lentamente, ma sicuramente, crea con la maturità della classe, la maturità degli animi e delle cose, prepara lo Stato di domani e gli uomini capaci di manovrarne il timone. (…) La guerra doveva rincrudire il fenomeno. La lotta sarà più dura, più tenace e più lunga, ma la vittoria è sicura anche questa volta. (…) Fra qualche anno il mito russo, che avete il torto di confondere con la rivoluzione russa, alla quale io applaudo con tutto il cuore (Voce – Viva la Russia!) …. il mito russo sarà evaporato ed il bolscevismo attuale o sarà caduto o si sarà trasformato. Sotto le lezioni dell’esperienza (…) le vostre affermazioni d’oggi saranno da voi stessi abbandonate, i Consigli degli operai e dei contadini ( e perché no dei soldati?) avranno ceduto il passo a quel grande Parlamento proletario, nel quale si riassumono tutte le forze politiche ed economiche del proletariato italiano, al quale si alleerà il proletariato di tutto il mondo. Voi arriverete così al potere per gradi… Avrete allora inteso appieno il fenomeno russo, che è uno dei più grandi fatti della storia, ma di cui voi farneticate la riproduzione meccanica e mimetistica, che è storicamente e psicologicamente impossibile, e, se possibile fosse, ci ricondurrebbe al Medio evo. Avrete capito allora, intelligenti come siete [ilarità], che la forza del bolscevismo russo è nel peculiare nazionalismo che vi sta sotto, nazionalismo che del resto avrà una grande influenza nella storia del mondo, come opposizione ai congiurati imperialismi dell’Intesa e dell’America, ma che è pur sempre una forma di imperialismo. Questo bolscevismo, oggi – messo al muro di trasformarsi o perire – si aggrappa a noi furiosamente, a costo di dividerci, di annullarci, di sbriciolarci; s’ingegna di creare una nuova Internazionale pur che sia, fuori dell’Internazionale e contro una parte di essa, per salvarsi o per prolungare almeno la propria travagliata esistenza; ed è naturale, e non comprendo come Serrati se ne meravigli e se ne sdegni, che essa domandi a noi, per necessità della propria vita, anzi della vita del proprio governo, a noi che ci siamo fatti così supini, e che preferiamo esserne strumenti anziché critici, per quanto fraterni, ciò che non oserà mai domandare né al socialismo francese né a quello di alcun altro paese civile. Ma noi non possiamo seguirlo ciecamente, perché diventeremmo per l’appunto lo strumento di un imperialismo eminentemente orientale, in opposizione al ricostituirsi della Internazionale più civile e più evoluta, l’Internazionale di tutti i popoli, l’Internazionale definitiva. Tutte queste cose voi capirete fra breve e allora il programma, che state (…) faticosamente elaborando e che tuttavia ci vorreste imporre, vi si modificherà fra le mani e non sarà più che il vecchio programma. Il nucleo solido, che rimane di tutte queste cose caduche, è l’azione: l’azione, la quale non è l’illusione, il precipizio, il miracolo, la rivoluzione in un dato giorno, ma è l’abilitazione progressiva, libera, per conquiste successive, obbiettive e subiettive, della maturità proletaria alla gestione sociale. Sindacati, Cooperative, poteri comunali, azione parlamentare, cultura ecc., ecc., tutto ciò è il socialismo che diviene. E, o compagni, non diviene per altre vie. Ancora una volta vi ripeto: ogni scorcione allunga il cammino; la via lunga è anche la più breve… perché è la sola. E l’azione è la grande educatrice e pacificatrice. Essa porta all’unità di fatto, la quale non si crea con le formule e neppure con gli ordini del giorno, per quanto abilmente congegnati, con sapienti dosature farmaceutiche di fraterno opportunismo. Azione prima e dopo la rivoluzione – perché dentro la rivoluzione – perché rivoluzione essa stessa. Azione pacificatrice, unificatrice. (…) Ond’è, che quand’anche voi avrete impiantato il partito comunista e organizzati i Soviet in Italia, se uscirete salvi dalla reazione che avrete provocata e se vorrete fare qualche cosa che sia veramente rivoluzionario, qualcosa che rimanga come elemento di società nuova, voi sarete forzati, a vostro dispetto – ma lo farete con convinzione, perché siete onesti – a ripercorrere completamente la nostra via, la via dei social-traditori di una volta; e dovrete farlo perché è la via del socialismo, che è il solo immortale, il solo nucleo vitale che rimane dopo queste nostre diatribe. E dovendo fare questa azione graduale, perché tutto il resto è clamore, è sangue, orrore, reazione, delusione; dovendo percorrere questa strada, voi dovrete fino da oggi fare opera di ricostruzione sociale. Io sono qui alla sbarra, dovrei avere le guardie rosse accanto… [Si ride], perché, in un discorso pronunziato il 26 giugno alla Camera: Rifare l’Italia!, cercai di sbozzare il programma di ricostruzione sociale del nostro paese. Ebbene, leggetelo quel discorso, che probabilmente non avete letto, ma avete fatto male [Ilarità]. Quando lo avrete letto, vedrete che questo capo di imputazione, questo corpo di reato, sarà fra breve il vostro, il comune programma. [Approvazioni]. Voi temete oggi di ricostruire per la borghesia, preferite di lasciar crollare la casa comune, e fate vostro il “tanto peggio, tanto meglio!” degli anarchici, senza pensare che il “tanto peggio” non dà incremento che alla guardia regia ed al fascismo. [Applausi]. Voi non intendete ancora che questa ricostruzione, fatta dal proletariato con criteri proletari, per se stesso e per tutti, sarà il miglior passo, il miglior slancio, il più saldo fondamento per la rivoluzione completa di un giorno. Ed allora, in quella noi trionferemo insieme. Io forse non vedrò quel giorno: troppa gente nuova è venuta che renderà aspra la via, ma non importa. Maggioranza o minoranza non contano. Fortuna di Congressi, fortuna di uomini, tutto ciò è ridicolo di fronte alle necessità della storia. Ciò che conta è la forza operante, quella forza per la quale io vissi e nella cui fede onestamente morrò uguale sempre a me stesso. Io combatterei per essa. Io combatterei per il suo trionfo: e se trionferà anche con voi, è perché questa forza operante non è altro che il socialismo. Evviva il Socialismo!» Turati aveva già dipinto il quadro non solo del passato ma anche del destino futuro autolesionista del socialismo italiano di quel periodo storico. Forse anche del nostro, in cui alcuni gruppi socialisti si ostinano a perseguire strategie massimaliste fini a se stesse se non addirittura autoreferenziali, con l’unica differenza che allora, quando la profezia non si era ancora avverata, tali posizioni riuscirono elettoralmente vincenti, adesso che la storia ha dato la sua dura lezione, esse restano inevitabilmente perdenti. Egli uscì sconfitto da quel congresso ma moralmente vincitore e diremmo oggi, anche con una certa cognizione di causa, persino storicamente trionfatore. Il suo gruppo dovette associarsi alla adesione del PSI alla III internazionale, che poi portò alla adozione del simbolo con la falce e il martello, per una mera questione tattica, per impedire un allontanamento della sua componente dal partito da parte del gruppo di Serrati dominante. Il partito vedeva crescere le adesioni ed i consensi ma si presentava sostanzialmente come una federazione di circoli sparsi, con pretese rivoluzionarie che non avevano né capo né coda, e soprattutto mancando del tutto di una Direzione rivoluzionaria unitaria tale da coordinare le iniziative di mobilitazione e di lotta su scala nazionale.
Le elezioni ci furono il mese successivo, nel novembre del 1919.
Le elezioni del 1919. La resa dei conti nel Paese. Carlo Felici il 7 gennaio 2019 su Avanti! Le elezioni politiche del novembre del 1919 furono cruciali per vari motivi, erano le prime del dopoguerra, quelle in cui finalmente il popolo italiano avrebbe potuto pronunciare un giudizio sugli eventi trascorsi e sulle forze politiche che si erano aspramente confrontate negli anni precedenti così tragici e traumatici. Inoltre esse consentivano di sperimentare per la prima volta un nuovo sistema proporzionale che avrebbe messo a dura prova le clientele e le spinte trasformistiche, premiando finalmente i grandi partiti di massa, che si erano dati una organizzazione su scala nazionale. Il Partito Socialista e quello Popolare, nato nel gennaio di quell’anno, erano evidentemente i maggiori che potessero aspirare a conquistare larghi consensi, in competizione tra loro, per raccoglierli presso le masse contadine ed operaie. L’autorità dello Stato era ai minimi del consenso, colpita duramente dalle manifestazioni dell’estate e in settembre, con l’impresa di Fiume, sull’orlo di una vera e propria sedizione rivoluzionaria che aveva anche una larga eco internazionale. Tali elezioni risultavano essere quindi una resa dei conti anche rispetto ai futuri assetti istituzionali del Paese. I socialisti affrontarono questa scadenza con una sicumera e una orgogliosa sicurezza a dir poco sconcertante, non attribuivano importanza decisiva all’esito elettorale, per non bruciare del tutto una evidentemente impossibile carta rivoluzionaria, ma non potevano certo smentire il congresso di Bologna in cui a larghissima maggioranza si era deciso di partecipare alle elezioni, pur con innumerevoli riserve. Per tenere buoni tutti e soprattutto per impedire altre divisioni, si decise di presentare un simbolo smaccatamente filosovietico, di cui il PSI non si libererà che dopo più di mezzo secolo: la falce e martello circondati da una spiga. Il programma elettorale sostanzialmente coincideva con un manifesto di condanna durissima della guerra ed in un atto di fede nei Soviet, ne citiamo alcuni passaggi: “Non è un voto che vogliamo da voi, è una promessa, un atto di fede. Votando per la scheda sulla quale è l’insegna, levata in alto, della Repubblica socialista del mondo, voi, proletari d’Italia, direte di voler muovere lotta diretta alla conquista della vostra emancipazione. Su quella insegna sta scritto: “Tutto il potere al proletariato. Chi non lavora non mangi” Insomma tutto era fuorché un programma riformista, ma, in compenso, il PSI, non esitò a presentare nelle sue liste candidati decisamente riformisti, conducendo una campagna elettorale impeccabile, soprattutto nel tener conto delle varie preferenze territoriali dei candidati. Ciò nonostante, l’estremizzazione del conflitto non mancò, spesso anche da parte dei socialisti stessi che non esitarono ad agire con veri e propri raid di disturbo e sabotaggio nei confronti dei loro avversari, i quali, ovviamente, non mancarono di reagire duramente anche in modo smaccatamente sproporzionato, come avvenne il 13 novembre quando un gruppo di fascisti irruppe durante un comizio socialista che si teneva in un teatro, sparando revolverate, uccidendo tre persone e ferendone otto. Nonostante gli innumerevoli incidenti, le elezioni, in ogni caso, si svolsero regolarmente e il governo, bisogna ammettere, con Nitti fece di tutto per garantirne la regolarità, astenendosi da interferenze o manipolazioni. L’affluenza comunque fu in calo rispetto all’anteguerra: il 56,6% contro il 60,4% del 1913. Il miglior commento del risultato delle elezioni ci giunge da Salvemini secondo il quale esse “rappresentarono esattamente lo stato d’animo del popolo italiano in quel momento.”. Risultato disastroso per i gruppi politici liberali e conservatori che avevano formato in precedenza e durante la guerra la maggioranza, ed estremamente favorevole a quei partiti che si erano opposti alla guerra e non erano collusi con la gestione corrotta e fallimentare della cosa pubblica. L’esito elettorale per i socialisti che raccolsero consensi sia tra i rivoluzionari che tra i riformisti, fu superiore ad ogni aspettativa: un milione e 835.000 voti, essi raddoppiarono i consensi rispetto alle elezioni precedenti e superarono la percentuale del 30%, triplicando il loro numero di deputati ed ottenendo il gruppo parlamentare più numeroso e forte del Parlamento, davanti solo ai Popolari che pur ottennero uno straordinario secondo posto con 1.167.000 voti raccolti soprattutto tra le masse rurali, nelle prima elezioni in cui si presentavano e portando in Parlamento ben 100 deputati.
I gruppi democratico-liberali ottennero, sommandoli tutti, solo 179 seggi in confronto ai 310 delle precedenti elezioni. Gli altri seggi furono distribuiti a radicali, repubblicani, socialriformisti e nazionalisti (soprattutto ex combattenti) tra cui uno sparuto gruppo di fascisti. Ma il paradosso di quella tornata elettorale fu grande, perché il sistema proporzionale che in teoria avrebbe dovuto favorire i grandi partiti di massa, poi, per un suo meccanismo particolare di tutela delle minoranze, limitò notevolmente la sconfitta degli avversari dei socialisti: i liberal-democratici, soprattutto nel Nord, nonostante lì la maggioranza socialista fosse schiacciante e fosse arrivata addirittura al 46,5% dei voti convalidati. Al Sud invece i risultati furono alquanto miserelli. In tre collegi meridionali i socialisti nemmeno presentarono le loro liste, in altri invece il consenso oscillò tra il 5% e il 9% con 3 deputati abruzzesi, 5 pugliesi, 2 in Campania e nessuno in Basilicata, Calabria e nelle isole. Già questo dà la misura di una velleità rivoluzionaria del tutto fuori dalla realtà, non avendo nella metà del paese alcuna forza politica sufficiente per realizzare un profondo e radicale mutamento, che si ha solo mobilitando le masse anche contadine. Solo il Nord era il punto di forza con il 71% dei consensi, ci si arrestava poi al Centro con il 19% e come si è detto, si sprofondava al Sud superando di poco il 9%. Analizzando poi i consensi raggiunti nelle varie regioni abbiamo le seguenti percentuali: Emilia-Romagna 60%, Piemonte 50%, Umbria 47%, Lombardia 46%, Toscana 43%, Marche e Veneto 33,5%, Liguria 31,5%, Lazio 25%, Puglie 18%, Il resto, nel Sud oscillava tra il 10% dell’Abruzzo e il 5% della Basilicata. Gli eletti furono, in ogni caso, ben assortiti tra massimalisti, riformisti e sindacalisti della CGDL e delle leghe contadine, molti furono anche i neoeletti, Serrati non si candidò, preferendo mantenere il ruolo di leader dalle “mani libere”. I massimalisti, in ogni caso, si assicurarono la maggioranza e questo non poco influì sui futuri lavori parlamentari, approssimativamente possiamo dire che tra i socialisti eletti vi furono 70 massimalisti, 60 riformisti e 26 tra incerti ondivaghi, o inclassificabili. Ci fu quindi un notevole stravolgimento rispetto al risultato congressuale di Bologna, tale in ogni caso da limitare fortemente il controllo riformista sulla rappresentanza parlamentare.
La tenuta dei riformisti, in ogni caso, possiamo dire fu quasi straordinaria, e dovuta a vari fattori, la fedeltà ai leaders tradizionali, tra i quali Turati, ed il legame ancora molto forte anche con i ceti medi, soprattutto nel Nord, esso però, nel cosiddetto “biennio rosso”, andrà irrimediabilmente perduto, come appunto temeva lo stesso Turati. Soprattutto perché a prevalere nel periodo post-elettorale sarà la linea oltranzista e massimalista che, se non spezzò definitivamente questa fiducia, la rese però sempre più fragile e politicamente inconsistente, non rappresentata cioè da adeguate iniziative parlamentari.
E i fascisti? Ebbene il blocco fascista nella città che aveva generato i Fasci di Combattimento, raggiunse solo 4657 voti, un risicatissimo risultato che però Mussolini seppe giustificare con la sua proverbiale retorica, dicendo: “La nostra non è una vittoria né una sconfitta, è una affermazione politica…siamo una esigua minoranza in confronto alle masse di cui dispongono gli altri partiti, ma una minoranza con la quale bisogna fare i conti, perché se è debole dal punto di vista quantitativo, è fortissima dal punto di vista qualitativo, e tutti i nostri avversari lo sanno…il nostro movimento politico…non è schedaiolo…giovanissimi come siamo e, in un certo senso desideriamo restare, dichiariamo che i risultati della consultazione attuale non ci hanno né sorpresi, né mortificati…La nostra battaglia continua.” In effetti i fascisti non se lo fecero dire due volte di battagliare, con altri metodi però rispetto a quelli “schedaioli”…Il 17 novembre, infatti, reagendo alla sconfitta e alla schiacciante vittoria socialista, un corteo fascista avanzò minaccioso verso la sede de l’Avanti! in via S. Damiano, fu allora che i fascisti vennero accolti con una bomba che ferì varie persone in maniera piuttosto grave, quindi il loro corteo proseguì verso piazza del Duomo dove un gruppo di socialisti stava tentando di assaltare il comitato dei Fasci di Combattimento nella Galleria Vittorio Emanuele, anche in questo scontro i feriti furono numerosi. Fu allora che una commissione composta da vari deputati socialisti tra i quali Treves, Turati e Serrati, si recò dal Prefetto chiedendo a gran voce lo scioglimento dei Fasci di Combattimento e della Associazione Arditi d’Italia. Le sedi fasciste furono allora perquisite e furono così sequestrate varie armi e munizioni, lo stesso Mussolini fu arrestato e messo in carcere, suscitando però le proteste dei principali quotidiani moderati: il Secolo e il Corriere della Sera, tanto che Mussolini fu presto scarcerato, allora infatti la mancata denuncia di armi non prevedeva l’arresto ma solo una ammenda pecuniaria. Gli scontri e i disordini però erano solo all’inizio, così come il famigerato “biennio rosso”...
Le conseguenze della Grande guerra. Inizia il biennio rosso. Carlo Felici il 9 gennaio 2019 su Avanti! Per capire bene la rabbia che animò gli scontri e le mobilitazioni del cosiddetto “biennio rosso” bisogna considerare le conseguenze di ciò che economicamente e socialmente determinò la Grande Guerra, la quale vanificò tutto lo sforzo di innovazione, progresso (sebbene a due velocità, una per il Nord e un’altra per il Sud) e riforme messo in atto da Giolitti nella prima decade del secolo XX. Il valore dei salari, specialmente per le categorie a reddito fisso, era sceso a causa dell’inflazione del 40%, colpendo, in particolare, i ceti impiegatizi. Al contrario, altri definiti “pescecani” si erano enormemente arricchiti con le commesse belliche all’industria e speculando sul rialzo dei prezzi di prima necessità, le loro fortune erano uno schiaffo in faccia a milioni di ex combattenti, di operai e di contadini e anche di semplici impiegati che costituivano allora la piccola e media borghesia. Si calcola che ben il 30% del reddito nazionale fu versato da queste categorie a titolo di prestito allo Stato per contribuire alla vittoria e allo sforzo bellico. Ma questi titoli furono falcidiati dall’inflazione, e i prezzi tornarono a salire. Da tutto ciò il malcontento e la rabbia crescente ed un odio che tracimava senza freni inibitori in persone abituate a convivere per più di tre anni con la violenza, con il sangue e con la morte imminente. Non abbiamo parlato molto delle masse rurali, specialmente nel Meridione, ma non solo, esse furono mobilitate al grido di “la terra ai contadini” e già dall’estate del 1919 questa mobilitazione portò all’occupazione di molte terre dal Lazio al Mezzogiorno. Ad incoraggiare questo fenomeno contribuì il decreto Visocchi del settembre del 1919, che dette ai prefetti la facoltà di autorizzare l’occupazione di terreni incolti per associazioni di contadini dette “università agrarie”. A guidare questo movimento non furono solo i socialisti, ma soprattutto i cattolici, con Guido Miglioli esponente di spicco del neonato Partito Popolare, fondato da Luigi Sturzo, in particolare nel cremonese dove all’occupazione si associava l’autogestione diretta della terra da parte dei coltivatori. Il clima dell’immediato dopoguerra era dunque fortemente rivoluzionario, ma rivoluzione non ci fu né poteva esserci se non nei sogni di un bolscevismo del tutto avulso dalla realtà, e vediamo perché. L’unico che allora avrebbe potuto condurre concretamente in porto una rivoluzione era un personaggio ammirato dallo stesso Lenin: D’Annunzio, che abbiamo avuto già modo di analizzare nelle sue spinte libertarie e rivoluzionarie a tutto tondo già dalla fine del secolo scorso. D’Annunzio però non era né un politico né un ideologo ed è già molto che si fosse deciso a compiere la sua opera con un grande sindacalista rivoluzionario come De Ambris che fu autore di una Carta del Carnaro che rappresenta tuttora quanto di più avanzato si possa concepire in termini sociali ed istituzionali: suffragio universale anche femminile, democrazia diretta, decentramento amministrativo, funzione direttiva ed autogestita delle associazioni dei lavoratori, divorzio, nessuna discriminazione sessuofobica: un concentrato di diritti sociali e civili mai visto al mondo nemmeno in Unione Sovietica o nella Comune di Parigi, il passo in avanti più rilevante nella conquista della democrazia in Italia dopo la Costituzione della Repubblica Romana del 1849. D’Annunzio divenne così per tutti allora “l’idolo, il nuovo Garibaldi”, non meno deciso nell’azione, anche se decisamente più avido di piaceri personali, del grande condottiero nizzardo. Teoricamente la sua rivoluzione avrebbe dovuto investire tutto il Paese, ma ad accorgersi di questo sogno impossibile credo fu lui stesso, per varie ragioni che riassumiamo in modo sintetico.
I due principali contendenti “rivoluzionari” in Italia erano allora poco più che parolai, Serrati predicava la rivoluzione sovietica in Italia ma mai avrebbe concesso armi al popolo e mai ostacolato l’azione dei socialisti riformisti, lo dimostra il fatto che nel 1919 nemmeno si curò delle elezioni. Mussolini che tanto si spendeva dalle colonne del suo giornale e tanto era ammirato per le sue qualità oratorie, il 7 ottobre si recò finalmente a Fiume dopo essere stato a lungo a guardare. Incontrò D’Annunzio e lo frenò per due ragioni, la prima è che da buon politico sapeva che l’esercito era più fedele nella sua maggioranza al re che al condottiero fiumano, la seconda è che mai gli avrebbe delegato il ruolo di guida nel marciare verso Roma. In secondo luogo, anche all’interno dello stesso movimento fiumano le spinte repubblicane, col passare del tempo, furono sempre più isolate e minoritarie, persino Marinetti, che spinse più di tutti l’acceleratore verso una svolta decisamente repubblicana, fu espulso dallo stesso Comandante che temeva una spaccatura profonda nella tenuta dell’esperimento fiumano, altri, invece, con spirito più smaccatamente nazionalistico, premevano per una decisa azione rivoluzionaria espansiva verso Trieste, con la velleità che tale intento avrebbe così fatto facilmente dilagare il contagio rivoluzionario fino a Roma, ma evidentemente, sebbene le armi ci fossero in abbondanza, mancavano gli uomini decisi a tale azione e chi poteva fornirne, anziché unire, divideva: Serrati e Mussolini andavano in direzione inversa, sia tra di loro, che tutti e due rispetto a D’Annunzio. Il colpo di grazia all’impresa fiumana furono poi le elezioni del novembre del 1919. L’apoteosi delle velleità parolaie di Serrati fu stigmatizzata dal suo intervento al XVI Congresso del Partito Socialista, quando egli ebbe a dire che il proletariato deve “ricorrere all’uso della violenza per la difesa contro le violenze borghesi, per la conquista del potere e per il consolidamento delle conquiste rivoluzionarie”..nei fatti, però, questa violenza fu esercitata solo nelle piazze ed in maniera sconclusionata e, come vedremo, anche in certi casi, criminale. Mai in modo organizzato e con un concreto e coordinato piano rivoluzionario di conquista del potere e sovvertimento radicale delle istituzioni allora vigenti. Le elezioni del 1919, infine, segnarono anziché una vittoria della classe operaia e lavoratrice uno stallo se non l’inizio stesso della sconfitta. Esse, infatti, non solo, come abbiamo visto, risultano depotenziate dal meccanismo proporzionale e dal suo riequilibrio nella distribuzione dei seggi, ma vedono l’inizio di una strategia di azione sempre più schizofrenica del Partito Socialista che, nella piazza è sgangheratamente rivoluzionario, mentre nel Parlamento è insufficientemente riformista. Non si afferma cioè pienamente né una azione profondamente rivoluzionaria dal basso per la conquista del potere, né una riformista tale da mutare le istituzioni in modo da recepire pienamente le spinte profondamente innovatrici in atto dal basso. Questo gran risultato elettorale quindi verrà presto vanificato, anche perché i due partiti che potrebbero esercitare un ruolo direttivo dopo le lezioni del 1919 sono profondamente divisi da questioni ideologiche e in particolare perché i cattolici sono profondamente avversi alle spinte rivoluzionarie e alle violenze di piazza dei socialisti. Le elezioni quindi, si rivelano come un ulteriore elemento di debolezza di un sistema fatiscente ed i cattolici non possono che, pur rinnegando alcune delle loro istanze programmatiche, forse più nate per fare concorrenza ai socialisti che per mero orientamento politico, rassegnarsi ad una politica conciliante di intesa con le forze liberali. Il paradosso più eclatante della posizione ambiguamente schizofrenica del Partito Socialista si avrà con la prima dichiarazione del suo gruppo parlamentare quando si trattò di giurare fedeltà alle istituzioni di allora rappresentate dalla monarchia: “Il Gruppo Parlamentare Socialista mentre allo stato attuale della situazione politica riconosce l’opportunità che i suoi rappresentanti subiscano il giuramento, imposto come mezzo di coercizione politica, delibera immediatamente di presentare una mozione per l’abolizione del giuramento stesso, tanto per i deputati quanto per tutti i funzionari dello Stato” Come dire…giuriamo…ma giuriamo di non voler giurare…una posizione da molti letta non solo come ambigua ma pure alquanto ipocrita. Non solo…ma quando entrarono le maestà reali, i deputati del PUS restarono seduti e quando finì la loro celebrazione, tutti loro gridarono “Viva il Socialismo!” Insomma non era proprio l’atteggiamento prudentemente riformista ma socialmente molto proficuo di Turati di prima della guerra.. Ma cosa accadde intanto nel Paese…nelle piazze?
Torniamo quindi nelle piazze a partire da piazza Montecitorio proprio all’uscita dei deputati socialisti, non ci fu evidentemente bagno di folla, ma scontro di folla con i nazionalisti che erano lì ad aspettarli, intervenne la polizia con una carica e da ambo le parti si ebbero feriti e contusi. Immediata fu la risposta della Camera del Lavoro che proclamò lo sciopero generale, il quale si estese a tutte le principali città italiane, degenerando in vari casi, in morti e feriti A Milano, in particolare, gruppi di operai si mossero verso il centro per esprimere sostegno e solidarietà al sindaco socialista Caldara, ma pretesero che dai balconi fossero tolte tutte le bandiere nazionali. Nella Galleria Vittorio Emanuele alcuni ufficiali in divisa vennero aggrediti, in via Ugo Foscolo un tenente degli Alpini venne percosso a sangue, altri tre tenenti: Giovanni Dinoi, Alcide Stringhini e Mario Traldi vennero aggrediti, percossi e feriti. Confluì poi un gruppo di anarchici provenienti da Porta Vittoria e, quando intervennero i Carabinieri, verso piazza del Duomo, esplosero i primi colpi di pistola che divennero una vera e propria sparatoria. Restarono a terra uccisi il carabiniere Luigi Cordola e due manifestanti. Davanti al monumento a Vittorio Emanuele II un gruppo di manifestanti assaltò una autopompa dell’esercito mandata lì a disperdere i manifestanti con gli idranti, uno dei soldati addetto alla manutenzione venne ferito gravemente. A Torino la scia di sangue che accompagnò lo sciopero culminò con l’uccisione di un giovanissimo studente: Pierino Del Piano descritta dal Corriere di allora. L’istituto Sommeiller stava per suonare la campanella di uscita, quando arrivò un gruppo di dimostranti che rincorreva gli ufficiali in fuga come in una caccia all’uomo. Due riuscirono a scamparla, un altro venne afferrato e pestato con i piedi. Probabilmente essi cercarono scampo nell’Istituto ed alcuni studenti andarono loro incontro, ecco la cronaca degli eventi riportata dal Corriere nelle parole del Capo d’Istituto: “A un certo punto fui avvertito che un gruppo di studenti, non so se rimasti fuori dalle lezioni sin dal mattino, o usciti da qualche parte secondaria, eludendo la sorveglianza del personale, si erano recati nel corso per curiosare ed erano subito venuti alle prese coi dimostranti. Costoro, appena riconosciuti, li avevano apostrofati dicendo: -Prima avete gridato viva l’Italia; ora i padroni siamo noi. Gridate ancora se siete capaci!-” Al che uno studente replicò, senza intenzione di provocare: “Non è delitto gridare viva l’Italia” Lo studente non fece in tempo a finire, che venne tempestato dai pugni. A quel punto, una parte degli studenti ripiegò verso l’edificio scolastico, passando attraverso una porta secondaria che venne prontamente chiusa, ma partirono dei colpi di pistola e ne seguirono altri. Lo studente Del Piano, di anni 19, fu quindi colpito mortalmente da una rivoltellata sparatagli a bruciapelo, mentre un altro: Bertozzi, fu ferito al dorso. Il Preside continuando con le sue dichiarazioni, escluse che colpi fossero stati sparati dall’istituto sia perché non era consentito entrarvi armati né alcuno si aspettava una sparatoria, sia perché sassi e colpi vennero indirizzati contro le finestre e pertanto ne vennero rinvenute prove all’interno. Particolarmente efferata fu l’aggressione subita dal colonnello Rosi, riferita dalla Gazzetta del Popolo. Il colonnello, tra l’altro, essendo sovrintendente all’Arsenale di costruzione, non aveva mai nascosto le sua simpatie per gli operai, era avanti con gli anni e se ne andava pertanto tranquillo e sereno per i fatti suoi. “..quando (sono parole della Gazzetta) fu accerchiato dai dimostranti che lo accoltellarono nel barbaro modo conosciuto, il colonnello cadde. Allora l’individuo che lo aveva ferito per il primo, una delle tante apparizioni patibolari di questi giorni, non contento di vedere il disgraziato ridotto in condizioni disperate, gli fu sopra come una belva, e continuò a tempestarlo sul corpo a colpi di bottiglia. Quindi gli sbottonò la giacca e gli rubò il portafogli” Nemmeno l’Avanti di quel periodo poté tacere sulle intemperanze dei dimostranti, ecco uno stralcio di un suo articolo: “Tutti gli ufficiali che erano trovati per la strada erano bastonati. Il gruppo dei dimostranti si è recato poi alla stazione, ha invaso questa e ha divelto i binari della linea Mantova-Modena bloccando il diretto di Milano. La folla poi ha voluto liberare i carcerati, ha quindi dato l’assalto alle carceri, liberando i detenuti ed appiccando poi fuoco all’edificio. Vi sono da lamentare due morti e diversi feriti..” Ma la guerra civile in corso a Mantova, in realtà, era ben più crudele di quanto descriveva la testata socialista..ad osservarla nei dettagli e non solo nelle grosse linee.
La cronaca del Secolo di Milano ce lo dimostra in maniera più dettagliata in un articolo del 7 dicembre: “Qualche drappello di soldati s’aggirava ancora guidato da graduati dell’esercito o della polizia, ma non da ufficiali ritirati dalla circolazione dato il colore “antimilitarista” impresso allo sciopero stesso. E uno di quei drappelli s’imbattè, in piazza Garibaldi, verso le 9 del 3 dicembre, con un centinaio di individui, parte di città e parte di campagna, muniti di randelli, di bandiere rosse, clamorosi di inni e provenienti dalla Camera del Lavoro dove si erano dati convegno. I cento inveirono contro i dieci armati: “Tornate dentro. Dite ai vostri ufficiali di uscire. Essi ci hanno condotto in trincea, noi li condurremo all’ospedale.” I militari avevano ricevuto ordine di non sparare, pertanto i dimostranti presero a fracassare i vetri del presidio e devastarono le ricevitorie daziarie. Da cento i dimostranti erano diventati più di mille quando arrivarono alla stazione ferroviaria, continua la cronaca: “Si trattava di fermare i treni. Di qui una sinfonia di randellate, insolenza, scrosci. Andavano in frantumi i vetri delle vetture, gli specchi, le lampade, i segnali ottici, i dischi del semaforo, gli apparati telefonici e telegrafici. Anche i bagagliai erano perquisiti. Con le busse venivano disarmati e allontanati i pochi ufficiali, carabinieri e soldati. Poiché due militari, presi dall’indignazione, si accingevano a sparare, i tenenti Monteforte e Quadrani accorsero per evitare l’eccidio, e come premio, ebbero in faccia colpi di randello dai dimostranti.” Alcuni ufficiali si rifugiarono in un ristorante, ma i dimostranti entrarono anche lì e, alle lamentele della proprietaria signora Righetti, che prometteva di dar loro quello che volevano, prima mangiarono e bevvero, poi sfasciarono tutto, andarono in cantina a seguitare, e uscirono che la cantina stessa era sommersa da una trentina di centimetri di vino, anche il proprietario che aveva osato protestare venne immancabilmente mandato all’ospedale. A Melzo, in provincia di Milano un socialista di nome Emilio Cremasco uccise un alpino che si era rifiutato di gridare “Viva Lenin” A Sarpiano (FI) si ebbe una rissa interna tra operai socialisti e nazionalisti e quando intervennero i carabinieri, cinque di essi furono feriti a coltellate, si ebbero due morti e molti feriti. Alle carceri di Mantova l’abbraccio tra leninisti e ladroni fu clamoroso e rasentò il comico, lasciamo anche stavolta la cronaca al giornale il Secolo: una cinquantina di dimostranti andò a liberare i detenuti, “I cinquanta scavalcarono il cancello di ingresso, tolsero le armi al corpo di guardia, s’impossessarono dei moschetti giacenti nei locali, ferirono il sottocapo delle carceri, quattro secondini e un sergente, non si impressionarono delle convulsioni da cui fu presa la moglie del sottocapo (che probabilmente ebbe un infarto), certa Ansaloni, che dopo poco morì per lo spavento” La cronaca del Secolo però prosegue in modo anche più grottesco: “Come sospinti dalla nostalgia del luogo, i gentiluomini forzarono quattro porte di ferro, spalancarono tutte le celle dando la libertà a 200 carcerati, in maggioranza ladri, ottenendo così, un notevole rinforzo per le riforme a cui stavano dando applicazione. Liberati e liberatori, che già in parte si conoscevano, si abbracciarono fraternamente al grido di “Viva Lenin” Taluni carcerati si accomiatarono d’urgenza e filarono benché sommariamente vestiti: precauzione inutile: i soldati e le guardie avevano già preso il loro posto…” Ci fu poi un assalto al Municipio dove un soldato di guardia, un sardo di nome Palazzolo venne ucciso, venne assalita la Posta e nella mischia morì uno dei passeggeri di un autocarro, il giornale cita che “anche i ragazzi maneggiavano i moschetti, tolti nella giornata ai militari; indossavano bandoliere e berretti”… “Viceversa cuccagna per gli scarcerati e liberatori. Non c’era che scegliere il luoghi del bottino: ogni servizio d’ordine mancava” Nemmeno un telegramma giunto la mattina del 4 alla Camera del Lavoro, recante la notizia della cessazione dello sciopero, venne preso sul serio, perché sospettato “apocrifo” dai massimalisti. Ad onor del vero, spicca in questo guazzabuglio, la trasparente onestà ed il coraggio del segretario della Camera del Lavoro, Dante Tartagnoli il quale, alquanto seccato dalle intemperanze e dal degenerare degli eventi, disse con molta franchezza ed a gran voce: “I ladri non hanno diritto di appartenere ad alcun partito. Io scindo la responsabilità degli organizzati dalle gesta della teppa. In ogni modo lo sciopero è finito. Tornate al lavoro” Come commentare? Solo con un.. Ipse dixit. Ma non era finita…perché una volta lasciata la Camera del Lavoro, nella Piazza Sordello, si ebbero ben quattro morti, c’è chi riferisce che i colpi partirono dai carabinieri, chi dai comizianti, fatto sta che tra i quattro ci rimise la pelle un povero bambino di nove anni che passava da quelle parti e un organizzatore che stava andando in Prefettura per far ritornare la calma. Un terzo morto era un altro ragazzetto di 14 anni che sparava dietro alcuni steccati e che probabilmente aveva sottratto l’arma a qualche militare. Alla fine della giornata, non poco ebbero da penare gli stessi deputati socialisti per sedare gli animi, esortando gli ultimi manifestanti a tornare a casa, dato che per la rivoluzione non era ancora ora. Fu così diramato un manifesto in cui si diceva testualmente che “la protesta sarebbe magnificamente riuscita se elementi estranei alla disciplina proletaria, certo ad essa nemici, non fossero intervenuti a portare la manifestazione a tale esasperazione in seguito alla quale dobbiamo piangere delle vittime”. Si chiudeva così tragicamente il 1919, ma tutto ciò non era che un prologo per altri capitoli ben presto destinati a cambiare colorazione…dal rosso al nero.
Il dito di Villari e la luna di Fiume. Carlo Felici il 4 novembre 2019 su Avanti! Quando uno storico di larga fama e dal passato illustre se non altro per il numero di pubblicazioni edite, inserisce nella sua ultima opera su Fiume e d’Annunzio il seguente brano, c’è da meditare parecchio: “Le forze occulte sconfitte a Fiume non sono una imperfezione, un caso della nostra storia. Sono la antica “Destra profonda” dell’Italia di cui, con angosciosa consapevolezza, Aldo Moro si accorse, chiamandola così nel 1977. Ne fu vittima un anno dopo. Molti difensori della legge e della democrazia fecero la sua fine.” C’è per questo da pensare quanto di ideologico ci sia nell’offrire un libro del genere alla lettura di un incauto cittadino dei nostri giorni e soprattutto quanto si possa contare sulla sua memoria corta. Moro, si sa, fu ucciso dalle Brigate Rosse che con tutto avevano a che fare, in particolare per la loro ideologia di una sinistra settaria e criminale, probabilmente ben manovrata da forze destabilizzanti infiltrate negli apparati dello Stato, piuttosto che con una fantomatica “Destra profonda”. Ma il libro, si capisce bene, dall’inizio nasce da un pregiudizio radicato nei confronti di uno dei pochi personaggi italiani che, tra Ottocento e Novecento, in campo letterario e non solo, ha avuto larga eco nel panorama internazionale, non solo in Europa, ma anche nel resto del mondo. Villari definisce d’Annunzio “un uomo privo di scrupoli, privo di vera gentilezza e di umana pietà” e conclude la presentazione del suo libro fatta di recente nella prestigiosa sede della Treccani, con l’espressione “corruttore del genere umano”. Si vede dunque già da ciò quanto poco la sua analisi possa corrispondere a quei due semplici parametri indispensabili che Tacito indicava per la correttezza del narrare la storia: “sine ira et studio”, ebbene in quest’ultima opera di Villari l’ “ira” c’è tutta e basterebbe già questo per renderla inattendibile. Ma la lettura conferma che, quanto meno, l’analisi dell’opera e dell’attività politica del Vate svolta anche piuttosto frettolosamente in questo libro, è alquanto parziale pure nello “studio” ed il suo vero intento forse, oltre alle vendite nell’occasione del centenario, è il rintuzzare disperatamente tutta una serie di pubblicazioni che vanno in direzione diametralmente opposta, riproponendo, con solo qualche documento in più, per altro non significativo, i soliti luoghi comuni della vulgata la quale da tempo esige che il Vate sia stato il precursore del Duce, anche per svolgere una sorta di propaganda preventiva affinché il fiumanesimo non possa innestarsi nel solco del cosiddetto populismo che si dà oggi per dilagante. Speriamo dunque che a Villari non venga in mente di fare di d’Annunzio anche un precursore di Salvini. Nel libro ci sono molte lacune, fin dall’inizio, quando si vuole far risaltare il nazionalismo del Vate associandolo alla guerra di Libia, tra l’altro menzionando persino Labriola, ma trascurando che anche lui ne fu a favore, saltando del tutto il rapporto di collaborazione che d’Annunzio ebbe con i socialisti all’inizio del secolo, il suo passaggio eclatante dalla destra alla sinistra in occasione del bombardamento di Bava Beccaris, per confinarlo infine in una sorta di ghetto guerrafondaio che chiama in causa anche Thomas Mann, il quale viene menzionato per alcune frasi al vetriolo contro il Vate, osservando che anch’egli fu nazionalista ma non militarista. Chissà se Villari ha letto la seguente dichiarazione di Mann agli albori della prima guerra mondiale: “Come avrebbe potuto l’artista, il soldato nell’artista, non lodare Dio per la caduta di un mondo di pace di cui era così sazio, così nauseato! Guerra! Quale senso di purificazione, di liberazione, d’immane speranza ci pervase allora!” Almeno il Vate nel suo interventismo acceso, evitò scrupolosamente di chiamare in causa l’Onnipotente! Eppure per Villari “D’Annunzio smaltando parole ricercate su patriottiche “verità” (che pochi anni dopo apparvero per quello che erano, povere e pericolose) aveva ignorato le ragioni democratiche della guerra, rendendo poetici e razionali un nazionalismo omicida e delle “stupidità” verbali senza precedenti.” Chissà perché, secondo tali presupposti, d’Annunzio avrebbe poi promulgato una Carta del Carnaro che è tra i documenti più democratici dell’epoca. Su questo Villari non si sofferma in alcun modo, né menziona mai il vero autore di quest’opera solo “perfezionata” dal Vate: De Ambris, Villari lo ignora del tutto, non lo nomina mai, né nel suo libro e tanto meno nella sua presentazione, eppure egli fu proprio, insieme a Corridoni, uno dei massimi esponenti dell’interventismo democratico. Ma gli svarioni storici, credo alquanto indegni di un “professore emerito”, non si limitano a ciò, Villari infatti scrive “il dato di fatto che la popolazione “italiana” di Fiume era minoritaria rispetto alle altre minoranze che la componevano”, eppure ci sono ancora i registri anagrafici della popolazione fiumana di quel periodo, persino quelli dell’archivio austro-ungarico che smentiscono seccamente che la popolazione italiana (senza virgolette) fosse minoritaria. Che poi questa maggioranza si fosse pronunciata per l’annessione all’Italia con un plebiscito del 30 ottobre del 1918, Villari anche in questo caso, lo ignora completamente. Ma non basta, il “professore emerito” prosegue nella sua livorosa invettiva contro d’Annunzio asserendo che “Il nomignolo Cagoia va, a mio parere, spiegato. Corrisponde esattamente alla volgarità coprofila di d’Annunzio, ma ha una assonanza voluta con Savoia. Quasi a volere accomunare il re a coloro che erano contrari all’ondata revanscista e nazionalista”. In realtà quel soprannome che dette a Nitti, il Vate lo spiega benissimo in un suo discorso: era il nome di un personaggio che pensava solo a campare durante la guerra senza prender parte e senza spostarsi dalla sua perdurante indifferenza ed inedia, curandosi solo del suo ventre, il termine deriva in forma dialettale da “lumaca”. Qui pertanto la denigrazione perdurante nel libro assume dimensioni quasi comiche. Come per altro risulta ridicolo attribuire a d’Annunzio la volontà di eliminare fisicamente Nitti, sulla base delle memorie di quest’ultimo, in cui egli racconta che un Ardito si sarebbe presentato da lui per ucciderlo, per poi, all’ultimo momento, vergognarsi tremante del fatto stesso e desistere da tale intento. Come se un Ardito che avesse davvero avuto tale missione da compiere, potesse pensare di vergognarsene all’ultimo momento.. non vi è per altro alcuna ulteriore testimonianza ad avvalorare tale fatto scaturito da un opportunistico vittimismo nittiano, se non quella della sua fervida fantasia. Villari specula anche sul fatto che i fiumani avrebbero accettato per ben due volte la proposta del “modus vivendi” mediante il plebiscito e d’Annunzio avrebbe in entrambe i casi annullato il responso, ma i fatti storici e la testimonianza di Umberto Toscanelli ci dicono che “il referendum non ebbe svolgimento regolare; gli autonomisti (cioè i seguaci di Zanella che voleva fare di Fiume uno Stato libero) si dettero da fare: i croati si dettero da fare, e da fare se ne dettero anche alcuni elementi venuti dall’Italia, purtroppo.” lasciandoci così intendere che in tanto “darsi da fare” i brogli erano incontrollabili. Si votava infine con il criterio della “pertinenza” che restringeva non poco il suffragio e che era estraneo alle norme del diritto italiano. Essa era infatti qualificante l’appartenenza dell’individuo al nesso comunale ed era distinta sia dal domicilio (sede principale dei propri affari ed interessi) sia dalla residenza (dimora abituale). Si acquisiva iure loci con la nascita, iure sanguinis per via paterna, per il matrimonio con un pertinente, o in conseguenza di speciali rapporti con le istituzioni comunali che comportavano l’obbligo della residenza nel territorio del Comune stesso. Quindi non pochi domiciliati e residenti restavano esclusi dalle votazioni. Tra l’altro, poco tempo dopo l’annullamento delle elezioni da parte di d’Annunzio, gli venne riconfermata la piena fiducia da parte del Consiglio Nazionale, consapevole che da lui dipendeva unicamente la pace e la sopravvivenza della città. Secondo i documenti riportati da Villari nel suo libro, l’impresa, soprattutto nella sua prima fase, sarebbe stata opera di vari congiurati che miravano ad un colpo di Stato reazionario per imporre una dittatura militare, e tutto ruoterebbe intorno al personaggio sul quale ci offre in lettura documenti inediti e che viene descritto come un bieco affarista, cioè Oscar Sinigaglia, ma chi era costui? A guardar bene la storia, egli tutto sembrerebbe fuorché come ce lo dipinge Villari: ebreo, volontario nella Grande Guerra, si meritò ben tre medaglie al valore, fu acceso patriota e sostenitore della causa fiumana, negli anni 30 riorganizzò l’industria siderurgica italiana e fu presidente dell’ILVA, strana sorte per un complottardo della “Destra profonda” che fu alla fine estromesso dalla vita pubblica italiana a causa delle leggi razziali. Ancor più strano se consideriamo che già nel 1908 egli si era distinto per l’assistenza alle vittime del terremoto di Messina e dopo la seconda guerra mondiale si prodigò moltissimo per aiutare i profughi giuliani e dalmati, meritandosi nel 1952 il titolo di Cavaliere del Lavoro, ad opera della Presidenza della Repubblica Italiana. Davvero un “reazionario” molto singolare! In buona sostanza cosa dimostrano questi documenti? Solamente che era in corso un tentativo per sostituire Nitti con un altro premier che avesse maggiori capacità nel sostenere le ragioni dell’Italia nell’immediato dopoguerra, che tale intento, se fosse stato messo in atto tempestivamente, avrebbe anche potuto portare ad un governo temporaneo di un militare con il compito di aprire una fase costituente nuova nel Paese in cui gli interessi dei lavoratori e dei reduci fossero maggiormente considerati, soprattutto per i sacrifici che essi avevano sopportato e per le promesse che erano state loro rivolte durante il conflitto, ma che erano state infine completamente rinnegate. A precisare lo scopo di questo intento rivoluzionario c’è un personaggio che identificare con la destra reazionaria sarebbe una completa assurdità: Giulietti, che era a capo del potente sindacato dei lavoratori del mare, il quale era tra i fautori di un governo, secondo le sue parole: “risolutore della questione sociale, assicurante a ognuno il frutto della sua opera e il necessario per vivere a chi è invalido, o non atto al lavoro, o ammalato o disoccupato”. Ad avvalorare che la via della forza non fosse ritenuta la principale vi è persino il resoconto che emerge in questi documenti di un dialogo tra Turati e Sinigaglia che cercava il suo sostegno per evitare uno scontro con le masse dei lavoratori rappresentate dal Partito Socialista. Un colpo di Stato esige tempestività e segretezza e questi indispensabili requisiti mancarono del tutto, lasciando stupito persino lo stesso Villari, il quale per altro ignora completamente il ruolo che ebbe la Massoneria in quel frangente, sia con Treves che con Torrigiani, prima nel promuovere l’impresa, poi nel frenarla. Ruolo per altro confermato da un autorevole storico della Massoneria come Aldo A. Mola in un suo recente articolo su Storia in rete. Ma Villari insiste con i luoghi comuni del caos fiumano che vide ostile la popolazione di quella città, sebbene a smentire queste panzane ci siano state allora dichiarazioni di illustri personaggi esteri e persino della stampa internazionale, ne prendiamo due, una tratta da una intervista ad un architetto americano presente allora a Fiume che asserisce nel periodo iniziale fiumano, l’8 ottobre del 1919: “Io dirò ai miei connazionali che se voi siete, o meglio, se voi potete sembrare rivoluzionari, lo siete come perfetti uomini d’ordine. Io ero stato qui nell’aprile e nell’agosto di questo anno. Fiume durante l’occupazione interalleata sembrava in istato d’assedio: c’era una folla in disordine, la città era sudicia e ogni cosa aveva un indefinibile carattere di provvisorietà. Ora tutto è regolato e pacifico e nulla è in balia del caso, che per solito contrassegna i periodi di transizione” E un’altra è di un giornalista inglese durante il periodo del Natale di sangue quando, piuttosto che contestare o ribellarsi contro d’Annunzio e i legionari come asserisce Villari, la popolazione si strinse disperatamente intorno a loro. Ecco cosa riferisce il corrispondente speciale del Times E. M. Amphlett, il 29 dicembre 1920 e sebbene la stampa inglese non fosse proprio “amica” dei legionari fiumani: “Ho letto con molta sorpresa sulla “Vedetta” di stamane che nei comunicati ufficiosi del governo italiano sugli avvenimenti di questi giorni la situazione è presentata in un modo estremamente contrario al vero, perché vi si afferma che la popolazione civile di Fiume si è ribellata due volte contro Gabriele d’Annunzio e che la sommossa è stata soffocata nel sangue. Una simile affermazione è falsa. E’ evidente che una tale relazione dei fatti è stata manipolata negli ambienti ufficiali, e ciò è molto male. Non v’è fondamento alcuno su quanto è stato scritto in tale relazione. Io sono addolorato della condotta delle autorità governative; al contrario, nella qualità di inviato straordinario del mio giornale, esprimo la mia incommensurabile ammirazione per la calma e la forza di animo dimostrati dai fiumani in questi giorni e per le dure prove sopportate da ciascuno per la causa di Fiume col più grande fervore ideale”. Evidentemente nella sua ricerca spasmodica di “documenti inediti”, Villari ha trascurato quelli che esistono da quasi cento anni, solo per avvalorare la sua tesi e screditare un periodo che ormai gli storici a larga maggioranza, non solo in Italia, ma anche all’estero, riconoscono ricco di fermenti innovativi e democratici. Villari preferisce invece tuttora difendere le ragioni di “uno Stato di diritto” che si immiserì non solo nella palese incapacità di tutelare gli interessi italiani e quelli “degli italiani” mutilati e reduci della guerra abbandonati alla disoccupazione e alla miseria, ma ebbe anche la feroce arroganza di bombardare ospedali, case di abitazione e gente inerme procurando morti e mutilazioni anche tra i civili, pur di mettere fine ad uno scandalo libertario che rischiava di dilagare in Italia ed in Europa. Tutto questo il dito dello “storico emerito”, un po’ rinsecchito nei suoi pregiudizi, ce lo indica come lecito con un “finalmente”. Ebbene, sappiamo che quando un dito indica la luna, anche se è evocata con il libro “La luna di Fiume” scritto dall’ “emerito” Lucio Villari, sicuramente è sempre il caso di guardare meglio la luna piuttosto che il dito, magari nella sua piena luce. Fu infatti “la luce di Fiume” la risposta che dette d’Annunzio a Clemanceau, il quale si faceva beffe di Orlando e degli italiani che secondo lui volevano Fiume come se fosse la “luna”. Tale risposta del Vate vale tuttora, proprio nel plenilunio di quella “quinta stagione” che tuttora ci chiama ad essere partecipi del suo splendore. “Dal fondo della poesia vengono tutte queste grazie a noi, dal fondo della poesia e della primavera: d’una primavera che sola qui s’apre, quinta stagione del mondo” G. d’Annunzio. Carlo Felici
Carlo, 100 anni, sopravvissuto a Cefalonia: «Quel referendum per dire no ai nazisti». Pubblicato lunedì, 04 novembre 2019 da Corriere.it. Compie 100 anni (oggi, 4 novembre 2019) un sopravvissuto dell’eccidio nell’isola greca di Cefalonia. È il 18 settembre 1943, avvio della mattanza dei militari italiani da parte delle truppe tedesche. Dopo violenti combattimenti e la resa, vengono passati per le armi circa 5.000 soldati della divisione Acqui. Sopravvivono in pochissimi (leggi qui la storia di un altro centenario sopravvissuto, Bruno Bertoldi). Carlo Santoro, ufficiale del 1° battaglione del 17° reggimento fanteria, è uno di loro. La sua memoria è ancora lucida e, aiutato dai suoi familiari, racconta a Corriere.it — da Campobasso, dove vive — quel giorno «in cui scampai alla morte per ben tre volte». Era il 23 settembre e la sera precedente «i tedeschi ci avevano assicurato che ci avrebbero portato con una nave sulla terraferma per essere sottoposti a un procedimento disciplinare da parte di un tribunale tedesco. Ma la camionetta su cui salimmo non arrivò mai in porto. Ci scaricarono invece in una casa colonica vicino al mare, a San Teodoro. Sentivamo le urla strazianti di altri soldati. Notammo subito la figura di un cappellano che era in mezzo a loro e pregava ad altra voce. Non fu difficile capire cosa sarebbe successo di lì a poco. Ci chiamavano a gruppi di quattro o otto militari, caricavano tutti su una camionetta poco distante e si eseguivano le fucilazioni. I corpi poi venivano buttati in una fossa comune, proprio nel luogo dove oggi sorge il cimitero dei caduti italiani.Quando fui chiamato la prima volta, non so perché, mi abbassai per allacciarmi le scarpe; allora il soldato tedesco chiamò un altro al posto mio. Tornai indietro e mi misi nella parte più distante del muro di cinta. Dopo un po’ arrivò di nuovo il mio turno. Prima di salire sulla camionetta mi avvicinai al cappellano e gli porsi il portafoglio. Mentre compivo questo gesto, ricordo esattamente che otto ufficiali marchigiani si misero a braccetto e cantando l’inno del Piave andarono volontari verso la morte. Tornai indietro di nuovo e fui chiamato per la terza volta. Insieme ai miei amici, i tenenti De Stefani, Cappelli e Onorato, ci accingemmo a salire sulla camionetta. Avevo appena appoggiato il piede sul predellino quando a un tratto, come un automa, mi girai su me stesso e, sotto la minaccia delle mitragliette, raggiunsi il prete. Io rimasi lì e gli altri, purtroppo, andarono verso la morte, verso la fucilazione. Il cappellano, che intanto continuava a pregare ad alta voce, capì che uno dei due militari tedeschi era piuttosto turbato». L’ex soldato della Acqui prosegue: «Allora gli si avvicinò pregandolo di sospendereCarlo Santoro le esecuzioni. Gli baciò persino le mani e questi si rivolse all’altro soldato dicendogli di sospendere le chiamate. Lui intanto si sarebbe recato al comando per avere ordini circa i superstiti. Sono stati i dieci minuti più lunghi della mia vita, furono interminabili. Era come se fino ad allora fossi rimasto in uno stato di totale incoscienza e di colpo avessi preso atto di quello che mi stava capitando. Quando il tedesco tornò disse al prete: “Il comando concede la grazia ai restanti”. Non potete immaginare cosa accadde: pianti, urla di gioia, incredulità. Mi accorsi intanto che ero sudatissimo e sentivo freddo, nonostante il sole. So che quella sera stessa la radio inglese annunciò che la Divisione Acqui a Cefalonia era stata sterminata». Il racconto di Carlo si ferma un attimo, poi riprende. «L’armistizio ci trovò impreparati. Con l’Italia i contatti erano in sostanza nulli, mentre sull’isola c’era un battaglione di soldati tedeschi che ci aveva dato un ultimatum: combattere con loro o contro di loro. Dopo alcuni giorni di colloqui il generale Gandin, che comandava la Acqui, rimise tutto nelle nostre mani. Ci fu un vero e proprio referendum. Non credo sia mai successo nella storia del nostro esercito. A parte qualcuno, nessuno di noi voleva cedere le armi al nemico. Decidemmo di combattere. Era il 15 settembre. I tedeschi iniziarono a sorvolare l’isola con gli Stuka, a bombardare e a mietere il panico tra la popolazione. La sera tra il 18 e il 19 settembre sbarcò a Cefalonia una nuova divisione tedesca di alpini. Il 21 settembre, che avrebbe dovuto essere il giorno della nostra ripresa, fu invece quello della disfatta. Ricordo che gli ufficiali e i soldati che si arrendevano venivano immediatamente passati per le armi. Il mio battaglione cercò di resistere il più possibile ma poi ci ritrovammo senza proiettili e vivere. Ricordo ancora il generale Gherzi, comandante di brigata, che mi guardò per dirmi: “Allora è finita?”. Poi andò via». Poco dopo «mi raggiunse nella baracca il tenente colonnello Francesco Dara, comandante del battaglione: mi abbracciò, mi baciò come un padre e pianse a dirotto. La mattina del 22 settembre sentimmo i tedeschi che gridavano verso di noi “raus! Raus! Uscite fuori!”. Solo all’ordine del nostro ufficiale uscimmo a mani alzate. Quella fu l’ultima volta che vidi i miei superiori. Caso volle che nelle vicinanze ci fosse una nostra auto su cui vennero fatti salire Gerzi e il colonnello Sebastiani, l’aiutante maggiore del generale. Ci dissero che dovevano essere portati al comando tedesco. Li vedemmo andare via e poco dopo sentimmo degli spari. Non ho mai saputo con esattezza cosa sia successo, ma credo che anche in quell’occasione, se non ci fosse stata l’auto, saremmo stati fucilati sul posto, assieme agli alti ufficiali». (Carlo Santoro poi venne deportato in un campo di prigionia in Germania assieme ad altri 500 mila soldati italiani — gli internati — che si rifiutarono di combattere con il nazismo esprimendo una scelta netta, quella del no. Al rientro in Italia si sposò con Lidia, dalla quale ha avuto due figlie, Adriana e Maria Vittoria. Successivamente ha lavorato come funzionario presso la prefettura di Campobasso, la città dove ha sempre vissuto. Solo a Lidia confidò quel che accadde a Cefalonia. Solo dopo che l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi accompagnò una delegazione di reduci al sacrario dei nostri caduti nell’isola greca, Carlo — che partecipò a quel viaggio — si decise a raccontare alle due figlie, e alla loro cugina Lidia, quei giorni terribili in cui la Acqui venne sterminata. Questo testo è stato raccolto dagli stessi familiari in tempi differenti. Alcune parole anche all’approssimarsi del centenario dell’ex soldato della Acqui)
· Erano arditi e scapigliati ma a San Sepolcro nacque il fascismo…
Erano arditi e scapigliati ma a San Sepolcro nacque il fascismo…Socialisti, massimalisti, sindacalisti, interventisti, reduci di guerra e dannunziani: volevano far scoppiare una rivoluzione, ma alla fine gettarono le basi per l’avvento del regime, scrive Paolo Delgado il 23 Marzo 2019 su Il Dubbio. All’adunata si presentarono in pochi: 300 secondo le più rosse stime, inclusi curiosi e giornalisti. La stampa presenziò ma scrisse pochissimo: un trafiletto sul Corriere della Sera, anche meno sulle altre testate. Nei decenni successivi, nell’apoteosi del regime, migliaia di fascisti tentarono di riportare indietro il calendario assicurando che c’erano anche loro, la sera del 23 marzo 1919, nei locali milanesi dell’Associazione nazionale commercianti ed esercenti in piazza San Sepolcro, messi a disposizione dietro pagamento di un regolare affitto dal presidente dell’Associazione, l’industriale ebreo e massone Cesare Goldmann. Il raduno doveva tenersi, secondo i progetti iniziali in un ben più capiente teatro ma le adesioni arrivate alla vigilia, nonostante l’organizzatore assicurasse che “fioccavano”, avevano consigliato di ripiegare su una sala più modesta per evitare il temuto effetto- vuoto. La realtà è che tra i gerarchi del ventennio pochissimi erano stati ‘ sansepolcristi’ e, di converso, pochi tra i convenuti all’adunata convocata da Benito Mussolini con due comunicati usciti sul suo giornale, Il Popolo d’Italia, il 2 e il 9 marzo, rimasero fascisti a lungo. A introdurre i lavori fu Ferruccio Vecchi, 25 anni, interventista nel 1915, poi ufficiale degli Arditi e fondatore, dopo la guerra dell’Associazione Nazionale Arditi d’Italia. Seguirono una quindicina d’interventi tra i quali quelli del futurista Filippo Tommaso Marinetti, allora di 43 anni, ma furono per lo più brevi comunicazioni d’adesione. I soli discorsi rilevanti li pronunciarono Mussolini, secondo il suo biografo Renzo De Felice non particolarmente in forma quella sera, e Michele Bianchi destinato a diventare due anni dopo il primo segretario del Pnf. A 36 anni Benito Mussolini, uno ‘ zingaro della politica’ come si definiva lui stesso in quel momento, era alla ricerca di una terza reincarnazione politica. Era irrotto sulla scena politica nazionale sette anni prima, quando al XIII congresso del partito socialista italiano, a Reggio Emilia, aveva guidato l’offensiva dei ‘ massimalisti’ contro i ‘ riformisti’ che fino a quel momento avevano tenuto in pugno le redini del partito, chiedendo e ottenendo le loro dimissioni. Nella nuova gestione del partito aveva ottenuto, giovanissimo, la direzione dell’Avanti! E si era imposto come il principale leader del socialismo italiano, adorato dalle masse operaie. Due anni dopo, con l’anarchico Errico Malatesta, aveva guidato le manifestazioni insurrezionali della ‘ settimana rossa’, nel giugno 1914 e allo scoppio della guerra si era subito schierato con i neutralisti. L’anno dopo, con un cambiamento drastico e repentino, era però passato al fronte opposto, quello dell’interventismo di sinistra, cercando di spostare sulla stessa linea la foltissima base del Psi. Aveva mancato il colpo. Gli operai e i contadini che lo avevano esaltato più di qualsiasi altro leader sino a quel momento lo avevano abbandonato e non gli avrebbero mai perdonato il tradimento, neppure nell’orgia di consenso generalizzato degli anni ‘ 30. Persa la direzione del quotidiano socialista, il futuro duce aveva fondato il suo giornale e si era affermato come leader dell’interventismo di sinistra, poi, tornato al fronte nel 1917, come esponente della linea più rigida dopo la disfatta di Caporetto. A guerra finita, era in cerca di un nuovo ruolo da giocare nella politica italiana e di uno strumento. Probabilmente i Fasci di combattimento, fondati a San Sepolcro un secolo fa, non dovevano essere nella sua visione quello strumento ma solo un mezzo per esercitare pressione e arrivare all’unificazione della composita area dell’interventismo di sinistra. Di certo il direttore del Popolo non aveva in mente un partito. L’adesione ai Fasci prevedeva la possibilità della doppia tessera e nell’articolo del 9 marzo aveva annunciato che nell’adunata del 23 ‘ sarà creato l’antipartito, sorgeranno cioè i fasci di combattimento che faranno fronte contro due pericoli, quello misoenista di destra e quello distruttivo di sinistra’. Né di destra né di sinistra, si direbbe oggi. Nel fascismo ‘ diciannovista’ confluivano tre correnti distinte, il socialismo rivoluzionario, che si incarnava allora nella Uil, il sindacato rivoluzionario e interventista i cui principali esponenti erano stati Filippo Corridoni, ucciso al fronte nel 1915, e Alceste De Ambris, segretario dal 1919, il futurismo e l’ “arditismo”. In guerra gli Arditi erano stati il corpo d’élite, esentati dagli obblighi della disciplina militare ma incaricati delle missioni più pericolose, dopo la guerra erano tra quelli che peggio si erano adattati alla fine del conflitto e si erano legati a Mussolini, anche se in realtà molti finirono poi per seguire D’Annunzio nell’impresa di Fiume o per schierarsi con gli Arditi del Popolo contro i fascisti. L’influenza più profonda era probabilmente quella del sindacalismo rivoluzionario. Alceste De Ambris non era tra i sansepolcristi e non aderì mai ai Fasci di combattimento, ma solo per l’incompatibilità con la carica di segretario della Uil. I punti programmatici del manifesto di San Sepolcro erano però ripresi dal programma della Uil e a stilare nei due mesi successivi il vero e proprio programma dei Fasci sarebbe stato proprio De Ambris. Era un programma molto radicale e di sinistra. I Fasci si volevano opporre «all’imperialismo degli altri popoli a danno dell’Italia e all’eventuale imperialismo italiano a danno di altri popoli». I fasci chiedevano il suffragio universale esteso alle donne con diritto di voto a partire dai 18 anni. Un’Assemblea nazionale per decidere la forma dello Stato, con obiettivo la repubblica. Una magistratura elettiva e indipendente dal potere esecutivo. Sul fronte del lavoro le richieste erano: orario di lavoro di otto ore, salario minimo, partecipazione operaia alla gestione delle industrie, terra ai contadini, un’imposta progressiva sul capitale come «espropriazione parziale di tutte le ricchezze», confisca di tutti i beni religiosi. Era un programma rivoluzionario non troppo dissimile da quello avanzatissimo che lo stesso De Ambris, che aveva seguito D’Annunzio a Fiume, avrebbe poi stilato nella Carta del Carnaro. Pur mantenendo altissima la polemica con i neutralisti, Mussolini mirava evidentemente a recuperare il rapporto perduto con la base operaia del Partito socialista. Quell’illusione svanì meno di un mese dopo. Il 15 aprile, in occasione dello sciopero generale indetto dai socialisti, gruppi di Arditi e futuristi assediarono la sede dell’Avanti!. Dalle finestre partì un colpo di fucile e uccise una guardia regia. Nel caos successivo Arditi e futuristi forzarono i cordoni di polizia, irruppero nella redazione e la devastarono. Secondo Mimmo Franzinelli ci furono anche due vittime. In ogni caso l’assalto fu la prima vera azione squadrista e segnò una svolta radicale: fino a quel momento negli scontri di piazza ci sia era limitati a usare i bastoni e i colpi d’arma da fuoco erano stati rarissimi. Gli Arditi invece impugnavano le armi e i fascisti avrebbero continuato a farlo nei due anni successivi. Alcuni “trofei” presi nel corso del saccheggio furono portati in omaggio a Mussolini, nella redazione del Popolo presidiata dagli Arditi. Le possibilità di ricucire un rapporto tra la sinistra interventista e le masse operaie, ammesso che esistesse ed è improbabile, furono cancellate quel giorno. I Fasci, sui quali peraltro secondo De Felice Mussolini scommetteva poco, furono un insuccesso. Alla fine dell’anno i Fasci costituitisi in Italia non andavano oltre i 30 con 870 iscritti sull’intero territorio nazionale, e in molte realtà l’attività era inesistente. Alle elezioni del 16 novembre, pur avendo in lista oltre allo stesso fondatore anche Marinetti e Arturo Toscanini, i Fasci non ottennero neppure un seggio. Gli operai milanesi, una volta resi noti i risultati elettorali, organizzarono un finto funerale per Benito Mussolini. A partire dalla seconda metà del 1920 e poi accelerando sempre più nel 1921 il fascismo cambiò strada. Sterzò decisamente a destra, lasciò cadere uno dopo l’altro i punti del programma sansepolcrista. La composizione della platea dei congressi fascisti rispecchiò il cambiamento: non più reduci, operai e piccola borghesia insoddisfatta ma agrari e industriali. San Sepolcro rimase un mito presente nei miraggi dei “fascisti rivoluzionari”, tra i quali l’esponente principale era Giuseppe Bottai. Nel nuovo fascismo, di destra e dominato dallo squadrismo, Mussolini non fu all’inizio il capo assoluto ma solo il leader più importante, condizionato tuttavia dai ras squadristi e guardato a volte con diffidenza. «Chi ha tradito, tradirà», dicevano i duri e in effetti Mussolini tradì, nei giorni dell’impresa di Fiume, l’uomo che era visto dallo squadrismo, come era stato per gli Arditi e per i sansepolcristi, il vero e principale punto di riferimento: Gabriele D’Annunzio.
Mario Gervasoni per “il Messaggero” il 21 luglio 2019. «Contro l'Europa che paventa, barcolla e balbetta, contro tutto e tutti noi abbiamo la gloria di dare il nome a questo anno di fermento e di tormento». L'anno in questione non è il 2019, come potrebbe sembrare dal giudizio sul Vecchio Continente, ma risale a quasi cento anni fa, e l'autore di queste parole non è Salvini, Boris Johnson o Orban, ma Gabriele D'Annunzio, nel suo proclama di Capodanno 1920 pochi mesi dopo aver occupato Fiume con un esercito di volontari, nel settembre 1919. E infatti oggi ricorrono analogie non con gli anni Trenta, come vuole la vulgata di chi conosce per sentito dire la storia, ma con lo spirito del 1919, quel «diciannovismo», come l'avrebbe chiamato Pietro Nenni, di cui impresa di Fiume fu uno dei momenti più alti. Per sprofondare completamente in quell'atmosfera è indispensabile leggere lo splendido libro di Giordano Bruno Guerri che, da massimo studioso di D'Annunzio, nonché da presidente della Fondazione Vittoriale, era la persona più adatta per scrivere questo che possiamo già definire uno dei migliori lavori storici sull'esperienza fiumana. E sprofondare è proprio la parola esatta perché, con un racconto in cui il narratore si pone quasi in mezzo agli eventi, ci fa scoprire quasi giorno per giorno l'impresa dell'Immaginifico. Fiume fu a tutti gli effetti una creazione del poeta guerriero, il Comandante, come prese a farsi chiamare: un'opera politica, militare e naturalmente estetica. Ma attenzione, se D'Annunzio era stato, nei suoi romanzi precedenti, oltre che nelle azioni belliche durante la Grande guerra, il creatore dell'estetica politica intesa come azione solitaria del Super Uomo nietzschiano, il D'Annunzio fiumano è però diverso, l'esperienza lo muta. È certo il Comandante, il Capo a cui i suoi seguaci si affidano religiosamente. Ma è anche al tempo stesso immerso nella folla cameratesca dei suoi soldati, e persino in quella degli operai quando, da responsabile politico della Reggenza, egli veste i panni del mediatore tra sindacati e imprenditori, prendendo la parte dei primi. Anche se D'Annunzio era poco affascinato dal mito russo-bolscevico, come invece diversi suoi compagni a Fiume, molti suoi discorsi, assieme alla celebre Costituzione, la Carta del Carnaro, che egli scrisse con il sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris, risuonano di accenni corporativi e socialisti nazionali: tanto che Fiume si può definire un tentativo di incontro tra il rosso del socialismo e il nero del nazionalismo. Benché il focus di Guerri sia puntato sul Comandante, il suo libro ci restituisce un'opera corale, in cui accanto al Vate si colloca una schiera di compagni d'azione, dai più stretti ai più distanti, fino a militanti caduti totalmente nell'oblio. E poi un brulichio di briganti, di ladri, di prostitute e di donne in cerca di emancipazione (a Fiume potevano girare con la gonna corta) e di grandi consumatori di cocaina, di cui faceva uso ed abuso lo stesso Comandante. E poi troviamo quasi gli anticipatori della new age, con una rivista, Yoga, sulla cui copertina campeggia una svastica, simbolo induista, ben prima che ne facesse uso distorto il nazismo. Un mondo anarcoide e libertario, in cui l'età media non superava i vent'anni, tenuto assieme dal culto del Comandante ma anche da un profondissimo sentimento di amore verso la nazione. Chiaro che fosse destinato a durare poco, cinquecento giorni, e a finire in maniera violenta, anche se con minore spargimento di sangue di quanto avrebbe potuto essere. Una rivoluzione nazionalista libertaria, quella di Fiume, da non confondere con il fascismo, che pure appoggiò inizialmente D'Annunzio per poi abbandonarlo al suo destino. Mussolini certo si ispirò, anche in celebri parole d'ordine, oltre che nelle ritualità politiche (il discorso al balcone!) a quanto aveva creato D'Annunzio: ma il modo in cui il Comandante esercitò il potere fu ben diverso da come lo avrebbe condotto Mussolini. «Io posso aver errato qualche volta, voi siete stati perfetti sempre», disse D'Annunzio ai suoi compagni dopo la disfatta. La parola di un grande leader.
Alba nera, un libro rievoca la nascita dei Fasci di combattimento un secolo fa. Sarà in edicola col Corriere, scrive venerdì 22 marzo Valerio Goletti su Secolo d’Italia. Il 23 marzo del 1919, un secolo fa, venivano fondati i Fasci di combattimento a piazza San Sepolcro a Milano. Un raduno, per dirla con Marinetti, di “bicchieri pieni di generosa rivolta”. Una platea ribollente di passioni, dove si fondevano le rivendicazioni degli arditi e il mito dell’azione rafforzatosi nelle trincee della Grande Guerra. Non a caso il futuro Duce del fascismo per prima cosa rivolse un omaggio ai figli d’Italia caduti per la Patria. Fu il passo iniziale dell’avventura che avrebbe condotto Benito Mussolini ad essere a capo di un regime abbattuto da una guerra sanguinosa. Un anniversario che il Corriere della sera ricorda con un libro, affidato alla cura del giornalista e intellettuale Antonio Carioti, che parte da San Sepolcro e ricostruisce le vicende del fascismo fino alla Marcia su Roma. Il libro si intitola “Alba nera“, la prefazione è firmata da Sergio Romano, e sarà venduto da domani al prezzo di 9,90 euro insieme al quotidiano. “Il mio intento era di fare un libro storico – spiega Carioti – tenendomi distante dal dibattito attuale sul possibile ritorno del fascismo, che francamente non vedo all’orizzonte. A mio avviso la forza del fascismo fu dovuta alla capacità di Mussolini di offrire alle masse l’elemento mitico: i fascisti erano l’avanguardia della nazione. Prendo le mosse dal passato socialista di Mussolini per arrivare poi al 1922. Questa è la prima parte del libro”. Segue una seconda parte dove il ragionamento sul fascismo continua attraverso il dialogo con gli storici, intervistati dallo stesso Carioti. Simona Colarizi spiega il suo punto di vista: Mussolini ebbe la capacità di sfruttare le aspettative delle classi medie realizzando un regime totalitario. Alessandra Tarquini si sofferma sulle varie componenti culturali del fascismo mentre Fabio Fabbri sottolinea come il fascismo abbia potuto godere dell’indulgenza di apparati che si sentivano minacciati dalla violenza dei socialisti. Marco Tarchi, infine, riprende la definizione di Sternhell del fascismo come sintesi ulteriore rispetto a destra e sinistra, specificando che più che essere anti-socialista il fascismo eleggeva a nemico principale il liberalismo. La terza parte è relativa ai documenti e raccoglie i discorsi e gli articoli di Mussolini dal primo apparso sul Popolo d’Italia fino al discorso di Napoli alla vigilia della Marcia su Roma. L’iniziativa editoriale del Corriere si colloca nel clima di vivace dibattito che di fatto sta riattualizzando il fascismo portando anche alla consapevolezza di un deficit di memoria e conoscenza che sicuramente va colmato più dalla ricerca storica che dalle battute e dagli allarmi dell’antifascismo di comodo.
· Galeazzo Ciano, una vita sbagliata in un tempo crudele.
Galeazzo Ciano, una vita sbagliata in un tempo crudele, scrive l'8 aprile 2019 Marco Valle su Il Giornale. Era il 1982 o il 1983. Poca conta. Ero a Roma con il barone Tomaso Staiti di Cuddia delle Chiuse — deputato aristocratico e anticonformista di un partito popolano e spesso conformista — indugiando in piazza del Popolo. Ci sedemmo da Rosati dove ci attendeva Pino Romualdi, il “padre nobile” della Fiamma e, allora, presidente dell’acciaccato vascello “tricolore”. I due iniziarono a discutere sulle solite, estenuanti, tediossime questioni di bottega missine. Poi, all’improvviso, Romualdi s’interruppe. Si alzò in piedi e salutò con deferenza un’elegante anziana signora che, casualmente, si era seduta accanto a noi. Tom, a sua volta, si capriolò in un perfetto baciamano. Era Edda Mussolini. Seguirono convenevoli, battute, pettegolezzi. Solite cose. Alla fine presi coraggio e mi presentai cercando di simpatizzare. “Signora Mussolini” dissi. Una stupidaggine. La figlia del Duce si sfilò gli occhialoni scuri e mi raggelò con lo sguardo. “Sono la contessa Ciano, giovanotto…”. Gli occhi, grandi e penetranti, erano quelli del padre. Magnetici, fulminanti. Tristi. In quel lampo di malinconica fierezza c’era tanto. C’era tutto. C’era la figlia preferita di Benito, la moglie irrequieta di Galeazzo, la “stella” della Roma gaudente d’anteguerra, la crocerossima del fronte, la vedova del fucilato di Verona. C’era, innominato ma presente, il nonno che aveva fatto — obtorto collo — ammazzare il padre dei suoi nipoti. Tacqui e ascoltai i “vecchi”. In silenzio. Quel pomeriggio sui tavolini di Rosati aleggiava un sussurro importante, imperdibile, di Novecento italiano. Con Edda, una donna centrifugata dalla Storia. Un episodio ormai lontano su cui riflettevo — quante domande quel pomeriggio avrei potuto porre alla contessa…. — leggendo l’ultima fatica del professor Eugenio Di Rienzo, “Ciano” (Salerno editore, ppgg. 696, euro 34,00) una monumentale biografia dedicata proprio a Galeazzo, conte di Cortelazzo, il “generissimo di regime”. Si tratta di un lavoro importante, centrale. Per più motivi. Il docente romano — grande storico e intelligenza libera e scintillante — attraverso la parabola di Ciano ha ricostruito, forte di un meticoloso lavoro d’archivio, ragioni, velleità e prospettive della politica estera dell’Italia fascista tra il 1930 e il 1943. Un percorso inedito e, spesso sorprendente, certamente innovativo: Di Rienzo, a differenza di De Felice, ridimensiona la portata e la validità dei diari di Ciano e le memorie di Dino Grandi — due operazioni auto-assolutorie, zeppe di falsificazioni e contraddizioni — e incrociando con maestria le fonti smonta la leggenda di un Ciano antitedesco e frondista. Al netto delle bizze da dandy e dalla sua immagine da “tanghero”, il figlio di Costanzo Ciano rimase una pedina di lusso, organica e sinergica, ai complicati disegni internazionali del potente suocero. Dal 1936, con la nomina di Galeazzo a ministro degli Esteri, tra i due s’instaurò un gioco delle parti punteggiato da continue doppiezze, ambiguità e sottigliezze, tutto teso a dissimulare la debolezza italiana — la minore delle grandi potenze del tempo — per ottenere dagli interlocutori di turno vantaggi e opportunità territoriali ed economiche. Nulla di nuovo a ben vedere: la politica revisionista mussoliniana altro non era che la riproposizione in chiave massimalista delle politiche “anfibie” — l’annoso tentativo d’essere il “peso determinante”, “l’ago della bilancia” etc — di Camillo Benso di Cavour e dei suoi successori post-unitari e le ambizioni, al netto della propaganda, erano limitate e abbastanza realistiche. Iniziò così una partita rischiosa e, inizialmente, vincente in Etiopia, in Spagna e anche nei Balcani ma poi sempre più difficile e alla fine tragicamente perdente. Negli anni del successo e del potere Galeazzo s’illuse spesso sulle sue capacità — non disprezzabili ma insufficienti — e sopravalutò il suo peso effettivo nelle architetture del regime atteggiandosi a “quasi duce”, ad erede simil-designato. Miraggi. Mussolini disprezzava — spesso a ragione, qualche volta a torto — il gruppo dirigente fascista e non prevedeva alcuna successione, nessun passaggio di testimone. Tanto meno a Galeazzo, a cui spettava il compito di rabbonire, rassicurare, informare ambasciatori e referenti internazionali o, al più, intrigare su stretto mandato in terra iberica o in Balcania. Poi, con l’avvicinarsi del conflitto, il rapporto (sempre sbilanciato) tra suocero e genero si fece ancora più stretto e lo spericolato minuetto si trasformò in una macabra “totendanz”. Come nota Di Rienzo, il Duce temeva la guerra e macchiavellicamente cercava d’evitare coinvolgimenti diretti nella speranza di un sempre più improbabile compromesso europeo. Sotto la regia di Mussolini, Ciano trimpellò perciò tra tedeschi, francesi, inglesi e Vaticano atteggiandosi con Berlino a germanofilo, con tutti gli altri come uomo della pace. Una serie di inganni (e tanti auto-inganni) che finirono per screditarlo — per gli anglo-francesi Ciano era un tipo inaffidabile, per i germanici un infido, un camaleonte — che si rovesciarono, poi, nel fatidico Diario in cui il “generissimo” si rappresentava come unico contraltare al bellicismo mussoliniano. L’ennesima bugia. Alla luce dei documenti italiani e stranieri il professore smonta minuziosamente il castello di carte del ministro e sottolinea le sue responsabilità nell’entrata in guerra — molto timida poichè certo, come il Duce, della sua rapida conclusione — e le sue colpe nella campagna di Grecia, un disastro militare e politico senza appello. Solo nel 1943, dopo El Alamein e Stalingrado, Galeazzo tentò, in una Roma ridotta in un verminaio di tradimenti e complotti, un ruolo autonomo giocando su tutti tavoli possibili: Vaticano, alleati, monarchia, dissidenza fascista. Un ruolo adatto per un Fouchè o un Talleyrand, non certo per il povero conte di Cortelazzo. Invischiato nelle sue trame, Galeazzo partecipò — sodale poco gradito dagli altri congiurati — al colpo di stato del 25 luglio. La fine del regime. Nulla andò come previsto e il vanesio “genero di regime” finì a Verona. Condannato a morte, abbandonato — nonostante i pianti e i ricatti di Edda — da un impotente Mussolini, l’11 gennaio 1944 venne fucilato alla schiena al poligono di forte San Procolo. Morì con dignità. Il coraggio fisico, almeno quello, non gli mancava.
· Gabriele D’Annunzio. Libertario, non libertino.
Le armi dell'esteta D'Annunzio erano anche quelle politiche. Patriottismo, passione adriatica e spirito conservatore sono le idee cardine del Vate. Anche nei giorni di Fiume. Francesco Perfetti, Sabato 05/10/2019, su Il Giornale. Un grande scrittore e drammaturgo francese, Romain Rolland - quasi suo coetaneo ma da lui tanto diverso al punto che, pur avendolo frequentato per qualche tempo, non riuscì mai ad amarlo né ad apprezzarlo - disse che in Gabriele D'Annunzio non v'era «nulla di un poeta, nulla di un artista» e aggiunse, con una punta di velenosa malizia, che gli «sembrava un addetto d'ambasciata molto snob». Al di là della cattiveria, tuttavia, la battuta di Rolland, depurata dalla sua carica dispregiativa, coglieva, almeno in un punto, nel segno. Che D'Annunzio, infatti - in realtà grandissimo poeta e animo d'artista, contrariamente al giudizio velenoso e semplificatorio di Rolland - fosse uno snob è fuor di dubbio. Ma era, egli, uno snob sui generis, capace di ironia, anzi di quell'autoironia che lo spinse ad adottare, per firmare certe sue celebri cronache mondane, lo pseudonimo «Duca Minimo», quasi certamente con allusivo riferimento alla sua bassa statura. Che, però - val la pena di rammentarlo - lo accomunava ad altri «grandi», a cominciare dal suo amato Napoleone. Lo snobismo di D'Annunzio era, in un certo senso, insito nella sua stessa natura, era, per così dire, una manifestazione plastica del suo narcisismo e del suo egocentrismo. Era uno snobismo che traduceva, quasi in una ideale autorappresentazione, quel culto per la bellezza al quale egli fu sempre devoto, da giovane e da anziano, da viveur e donnaiolo a letterato e uomo d'azione. La categoria di «esteta armato», introdotta alcuni anni or sono da Maurizio Serra in un saggio dedicato ad alcuni spiriti eterodossi dell'intellettualità europea a cavallo tra il XIX e il XX secolo, coglie assai bene l'essenza della personalità dannunziana. E, al tempo stesso, spiega la difficoltà di por mano alla stesura di un lavoro biografico esaustivo di una figura e di una personalità tanto sfaccettate e poliformi. Occorrono, per un'operazione del genere, equilibrio storiografico e sensibilità artistica, competenza letteraria e attitudine psicologica, oltre che, naturalmente, capacità ed eleganza di scrittura. La più recente (e, allo stato, la migliore e più suggestiva) ricostruzione biografica del poeta-soldato è stata scritta proprio dall'ambasciatore Maurizio Serra, il quale al suo «esteta armato» ha dedicato un corposo volume dal titolo L'Imaginifico. Vita di Gabriele D'Annunzio (Neri Pozza, pagg. 720, euro 25) che in Francia, dov'è stato originariamente pubblicato, ha ottenuto due prestigiosi riconoscimenti, il Prix Chateaubriand e il Prix dell'Académie des Littératures. Il pregio di questa biografia, frutto di anni di ricerche, sta nel tentativo, a mio parere ben riuscito, di non isolare, ovvero far prevaricare, all'interno della narrazione la figura del letterato o dell'artista rispetto a quella dell'eroe o del politico o, infine, anche del crepuscolare esiliato nella dorata e quasi rinascimentale residenza del Vittoriale. D'Annunzio, l'«esteta armato» D'Annunzio, è un caso unico nella cultura italiana del primo Novecento, non solo e non tanto per la poliedricità della sua persona - per quell'essere, insomma, al tempo stesso, poeta e artista, dandy e seduttore, condottiero e visionario politico - quanto per aver inscritto tutte queste sfaccettature della sua personalità, la personalità di un «poeta in azione», sotto l'insegna di una avventura continua e senza fine. Per Maurizio Serra, tuttavia, D'Annunzio non è affatto un avventuriero, bensì un «vero principe dell'avventura, precursore e fratello maggiore dei Lawrence d'Arabia, Saint-Exupéry, Malraux e Roman Gary». È un termometro, si potrebbe aggiungere, che registra gli stati febbrili di tutta un'epoca attraversata in tutti i campi culturali e politici da pulsioni rivoluzionarie, al di là del bene e del male, di ogni tipo e di ogni colore. Leggere D'Annunzio, e ricostruirne le vicende umane, alla luce di una ideologia politica o anche soltanto di una passione politica sarebbe del tutto fuorviante. Egli non fu mai un politico nel senso proprio del termine. Fu, semmai, un letterato che pensava alla politica, in tutte le sue possibili manifestazioni, con l'aristocratica supponenza di chi in essa vedeva uno strumento per soddisfare o, in qualche misura, esaltare il proprio narcisismo e la propria volontà di azione. Il cimentarsi, lui letterato e poeta, con le schermaglie politiche, prima, e con la guerra guerreggiata, poi, non era che un modo di mostrare, a se stesso prima che agli altri, di saper «osare l'inosabile». Era, ancora una volta, una manifestazione di quello snobismo aristocratico proprio dell'«esteta armato». Tuttavia, D'Annunzio passioni politiche ne ebbe. Il suo patriottismo, molto risorgimentale invero, era un sentimento sincero. Come sincera era la sua passione adriatica. In lui ci fu quello che Serra chiama «l'accecamento nazionalista degli intellettuali», proprio degli albori di un secolo battezzato dalla Grande Guerra, ma il suo nazionalismo non aveva nulla a che fare con quello delle organizzazioni politiche nazionaliste propriamente dette. Si trattava, piuttosto, di un nazionalismo che esprimeva un sentimento generalizzato all'epoca in diversi Paesi europei e in diversi strati sociali e che comunque, nel suo caso, non perdeva di vista il contesto internazionale. Assai più discusso e controverso è il rapporto di D'Annunzio con Mussolini e con il fascismo. L'immagine del poeta-soldato come «Giovanni Battista del fascismo» per troppo tempo e con troppa leggerezza è stata accreditata sia da una letteratura fascista o filofascista in cerca di quarti di nobiltà culturale, sia da una letteratura antifascista e anti-dannunziana appiattita sull'ideologismo democratico e pacifista e tutta tesa a creare una linea di continuità fra i rituali del fascismo-regime e quelli che si svilupparono a Fiume durante il periodo dell'impresa dannunziana. Che tra il poeta e il duce non corresse buon sangue, malgrado gli apprezzamenti reciproci e di circostanza che i due si scambiarono, è un dato di fatto. Come, pure, è un dato di fatto che il «politico» Mussolini cercasse di neutralizzare la paventata concorrenza politica del «poeta dell'azione», ovvero dell'«esteta armato». Quale fosse il reale sentimento del duce nei confronti del suo amico-nemico lo fa ben intendere una sua riflessione sui costi che il regime sopportava per onorare e tenersi buono il poeta: «D'Annunzio è un dente cariato che bisogna riempire d'oro». Sul rapporto fra D'Annunzio e il fascismo, il giudizio di Maurizio Serra è corretto ed equilibrato, oltre che pienamente condivisibile: «D'Annunzio alla fine si è schierato con il fascismo, obtorto collo, dopo averlo contrastato. Ma se ha accettato il regime in mancanza di meglio, è altrettanto vero che non è mai stato fascista, né con il cuore né con la ragione, e il suo rivale Mussolini seppe metterlo in condizioni di non nuocere, ricoprendolo di onori con l'intento manifesto di soffocarlo». Il capitolo che Serra dedica ai «cinquecento giorni» di Fiume, quelli che vanno dal pomeriggio del 12 settembre 1919 al Natale di sangue del 1920, è uno dei più coinvolgenti del suo volume, non solo per la ricchezza delle informazioni (a cominciare da quelle relative ai finanziamenti dell'impresa) e per la ricostruzione del «clima» della «città di passione», ma anche, e soprattutto, perché consente di rivedere alcuni giudizi largamente diffusi. Come, per esempio, quello relativo alla perfetta sintonia che ci sarebbe stata fra D'Annunzio e De Ambris sia sulla Carta del Carnaro, «il più originale e insieme il più equivoco dei documenti usciti dall'esperienza dei cinquecento giorni», sia sulla loro visione politica. Se l'ideologia dannunziana oscillava, secondo Serra, «tra l'internazionalismo dei principi e il nazionalismo delle azioni» era evidente che «D'Annunzio non condivideva le concezioni più radicali di De Ambris e ancor meno la prospettiva di trasformare, prima o poi, la Repubblica in Soviet», perché «nonostante le provocazioni, il gusto per la rivolta, il desiderio di apparire come protagonista di una nuova Europa, egli restava molto più un conservatore che un rivoluzionario». Anche se, potremmo aggiungere, il suo conservatorismo era proiettato verso il futuro.
«1919, Fiume città di vita», ottimo racconto della Storia in tv. Pubblicato venerdì, 27 settembre 2019 da Corriere.it. «La terra di Fiume è insanguinata di sangue fraterno», scriveva D’Annunzio il 25 dicembre 1920, «voi volete dare alla storia atroce d’Italia il Natale di sangue…». Il Vate concludeva la sua personale avventura nello stesso tono magniloquente con cui l’aveva iniziata, invocando il sacrificio dei martiri, la strage fratricida e una resistenza disperata e nobile: «Nessuno passerà, se non sopra i nostri corpi». Il 12 agosto 1920 D’Annunzio, Vate e Comandante, decise di trasformare il territorio fiumano in Stato indipendente, proclamandovi la Reggenza Italiana del Carnaro. Fra i primi atti, la promulgazione della Carta del Carnaro, una Costituzione di stampo libertario e socialisteggiante ispirata dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris. In essa era prevista la parità dei sessi, il voto alle donne, la facoltà di divorziare e la libertà di culto, l’uso di droghe. Nella città fiumana giunsero personalità del mondo politico e culturale, tra cui Arturo Toscanini e Guglielmo Marconi. Lo Stato Libero del Carnaro fu il primo a riconoscere la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa. «1919, Fiume città di vita» è un ottimo programma di Fabrizio Marini e Nicola Maranesi realizzato da Rai Storia in occasione dei 100 anni trascorsi da quell’impresa (ora su Rai Play). Ripercorre gli episodi epici di quei giorni grazie alla ricostruzione storica, alle interviste agli esperti, ai documenti d’archivio, alle fonti autobiografiche e a un viaggio che si snoda attraverso i luoghi simbolo della vicenda dannunziana: da Venezia a Monfalcone, da Ronchi a Cantrida, lambendo il Carso e Trieste, fino ai siti che ancora oggi a Fiume/Rijeka rievocano gli avvenimenti di allora. L’Impresa di Fiume, terminata con le «cinque giornate di Sangue del Natale 1920» e le cannonate della nave «Andrea Doria», indusse molti partecipanti ad entrare successivamente nel partito fascista e a simpatizzare per Mussolini.
UN FIUME DI POLEMICHE SUL “VATE”. Da Il Fatto Quotidiano il 12 settembre 2019. Per inaugurarla il Comune di Trieste guidato dal sindaco di centrodestra Roberto Dipiazza ha scelto una data simbolica: il 12 settembre, nel centenario dell’occupazione di Fiume, l’attuale Rijeka. E così la statua di Gabriele D’Annunzio, che guidò la spedizione, diventa un caso diplomatico. Perché il ministero degli Esteri della Croazia ha consegnato una nota di protesta verbale all’ambasciatore italiano Adriano Chiodi Cianfarani. Anche la presidente croata, Kolinda Grabar Kitarovic, condanna lo svelamento della statua definendolo su Twitter “inaccettabile” perché celebra “irridentismo e occupazione”. Per Kitarovic il monumento è “scandaloso”: la cooperazione croato-italiana “oggi è basata su valori che sono completamente contrari”, scrive. “Mina le relazioni amichevoli” – Nelle comunicazioni al diplomatico, il governo croato ha spiegato che “sebbene si sia trattato di una decisione delle autorità locali e non nazionali”, l’inaugurazione della statua, realizzata dallo scultore e medaglista Alessandro Verdi, come “il ricordo dell’anniversario dell’occupazione di Rijeka in alcune altre città italiane, non solo mina le relazioni amichevoli e di buon vicinato tra i due Paesi, ma è anche il riconoscimento di un’ideologia e di azioni che sono in profondo contrasto con i valori europei”. Nella nota, dunque, si fa anche riferimento ai 150mila euro stanziati dalla Regione Abruzzo per le celebrazioni del centenario della “Impresa di Fiume” decise dalla maggioranza guidata da Massimo Marsilio di Fratelli d’Italia.
Dipiazza: “Fu un grande italiano” – “Come sindaco di Trieste – è stata la reazione di Dipiazza su Facebook – ho sentito il dovere di omaggiare un grande italiano, un grande poeta, un grande letterato come Gabriele d’Annunzio, che ha vie, piazze e scuole che lo ricordano in tutto il Paese. Ricordiamo un grande italiano in una città che viene scoperta ogni giorno da tanti turisti che arrivano dall’Italia e da tutto il mondo. Continuiamo così perché siamo sulla strada giusta”. Una scelta quella della giunta di centrodestra guidata che nei mesi scorsi aveva provocato molte polemiche anche in città, sfociando in una raccolta firme online.
Contro la statua si è espresso anche il sindaco di Rijeka, Vojko Obersnel, che ha definito il poeta “un precursore dell’ideologia fascista” e condannato “fermamente” il monumento, la cui inaugurazione “non può essere intesa in altro modo che come una glorificazione dell’occupazione violenta di una città”. Per Obersnel l’amministrazione di D’Annunzio, durata sedici mesi, fu “un’epoca sanguinosa e difficile per Fiume che vide la rovina della propria economia e una degenerazione generale”. I legionari guidati dal poeta, entrati in una città libera e prosperosa, ha detto Obersnel, “imposero con la violenza il loro potere per terrorizzare la popolazione croata e non-italiana“.
E a Rijeka compare bandiera italiana. La stampa di Zagabria, tra l’altro, riferisce che nella notte sconosciuti anno innalzato la bandiera italiana sul Palazzo del Governatore, che durante l’occupazione della città contesa dall’Italia e dall’allora Jugoslavia venne usato da D’Annunzio come sua residenza. Sul posto è intervenuta la polizia, che ha rimosso la bandiera e ha spiegato che si trattava di quella del Regno d’Italia, non di quella attuale della Repubblica italiana. Sul posto sono stati rinvenuti anche dei volantini ma non ne è stato precisato il contenuto. Due giovani italiani, di 19 e 20 anni, sono stati intanto fermati questa mattina davanti allo stesso Palazzo, con delle bandiere italiane.
I manifesti del Veneto fronte skinheads. Alcuni manifesti inneggianti all’annessione di Fiume all’Italia sono invece stati affissi a Trieste, Verona, Padova e Bolzano dai neonazisti del Veneto fronte skinheads. A Trieste, in particolare, l’affissione è avvenuta sulla sede del consolato croato in piazza Goldoni. Le foto sono state pubblicate sul sito del quotidiano della minoranza slovena Primorski dnevnik. I manifesti, oltre alla foto di Gabriele D’Annunzio e la bandiera italiana, citano la frase che il poeta pronunciò entrando a Fiume alla guida di circa 2mila legionari: “Io soldato, io volontario, io mutilato di guerra, sento di interpretare la volontà di tutto il sano popolo d’Italia proclamando l’annessione di Fiume alla Patria. Quis contra nos?”.
UN FIUME DI POLEMICHE SUL "VATE". Giordano Bruno Guerri per il Giornale il 13 settembre 2019. Gli anniversari, in Italia, finiscono spesso per risultare più divisivi che unificanti, un'occasione per ripescare e ravvivare antiche fratture. Fu così per i 150 anni dell'Unità, quando si dovette ricordare ai celebranti in quale modo violentissimo fu imposta al Sud, con la sanguinosa repressione del cosiddetto «brigantaggio». Non è colpa degli italiani, piuttosto del modo in cui da noi viene bistrattata la storia. Si stenta e si tarda - di decenni, a volte di secoli - a fare i conti con il passato, rifugiandosi nei miti rassicuranti delle nozioni (poche) ricevute. Così, per esempio, la Controriforma passa senza dubbi per buona cosa, perché riportò la Chiesa di Roma un passetto più vicino a quel cristianesimo che doveva difendere e pose le premesse per un clero meno corrotto; ma in genere si trascura di informare che l'istituzione dell'Indice dei libri proibiti e l'occhiuta vigilanza controriformista su ogni attività culturale recise per sempre quell'arteria giugulare che nel Rinascimento aveva fatto dell'Italia il paese più colto e avanzato del mondo. Allo stesso modo, se ancora siamo qui a paventare un ritorno al fascismo per ogni ragazzotto ignorantello a braccio destro levato, è anche perché per decenni, dopo il 1945, chi deteneva le leve del potere politico e culturale ha preferito ignorarne le cause e gli sviluppi, limitandosi e sostenere la vulgata parzialissima di una borghesia che difendeva i propri interessi con la forza. Come dire, per descrivere l'universo, che è tanto grande. Non mi aspettavo dunque che il centenario dell'Impresa di Fiume passasse senza contrasti, quando ho pubblicato un libro sull'argomento e mentre preparavo varie manifestazioni per conoscere e capire meglio cosa accadde davvero nella «Città Olocausta», divenuta «Città di Vita» con un artificio retorico di Gabriele d'Annunzio. C'era da sciogliere soprattutto un nodo, già noto agli storici come fasullo ma ancora ben stretto nella vulgata: la convinzione che l'Impresa sia stata una prima prova, se non la genesi, del fascismo. Tutto ciò benché la Carta del Carnaro, scritta da d'Annunzio e dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris, sia una delle costituzioni più avanzate e democratiche del Novecento. Hanno abbattuto la tesi dell'impresa fascista, decennio dopo decennio, Nino Valeri, Renzo De Felice, Emilio Gentile, George Mosse, Michael Arthur Ledeen, Francesco Perfetti, Claudia Salaris, in questi giorni Maurizio Serra con il suo L'imaginifico (Neri Pozza). Il convegno che si è tenuto al Vittoriale dal 5 al 7 settembre (quasi trenta storici, per la prima volta anche croati) ha confermato in abbondanza questa direzione degli studi, rafforzandola. Certo, la vulgata, ovvero l'opinione popolare, è difficile da cambiare, si tratta di un'operazione lenta e faticosa, ma le decine di conferenze, commemorazioni, convegni che si sono svolti ovunque in questi mesi, andavano tutti in quella direzione; la Festa della Rivoluzione - così si è chiamata la settimana dannunziana a Pescara - ha avuto un enorme successo di pubblico, proprio in quella città natale di d'Annunzio che una giunta grossolana aveva voluto platealmente «dedannunzizzare»; e se il Vittoriale degli Italiani aumenta i visitatori ogni anno è anche per questo motivo. Qualche problema c'è stato a Trieste, ma non per la grande mostra «Disobbedisco», quanto perché qualche esponente della sinistra, ancora preda della propaganda mussoliniana, ha lanciato con scarso esito appelli e sottoscrizioni contro il progetto di onorare il Vate con una pacifica scultura meditativa nella bella piazza della Borsa. La statua verrà inaugurata oggi, omaggio a un grande poeta, irredentista per Trento e Trieste. Anche se molti si sono dimenticati che per quelle due città gli italiani fecero, nel 1915-18, la «Quarta guerra d'Indipendenza». Per il resto, convulsioni di fronte all'affermazione di un d'Annunzio non fascista si sono avute solo all'estrema sinistra (un articolo sul manifesto in puro stile anni Cinquanta) e soprattutto da parte di più o meno colti velleitari di estrema destra, rabbiosi di vedere togliere dalla storia del fascismo un pezzo tanto pregiato come d'Annunzio. Se ne faranno una ragione, se e quando arriveranno a capire la differenza tra patriottismo e fascismo. È più comprensibile, infine, la presa di posizione del sindaco di Fiume, che addirittura vede nell'impresa la genesi del nazifascismo: lì sono ancora vittime della vulgata titina, più recente di quella di Mussolini. La storia a volte procede a salti improvvisi, ma le revisioni sono sempre lente.
Aurora Vigne per il Giornale il 13 settembre 2019. Dopo le polemiche del Pd, ora anche la Croazia ha condannato la decisione della città di Trieste di erigere un monumento a Gabriele D'Annunzio. Nella nota consegnato oggi all'ambasciatore italiano a Zagabria, Adriano Chiodi, si legge che si tratta di una "decisione di autorità locali" e non dello Stato. Inoltre, sempre nella nota del Ministero degli Esteri croato si legge che "questo tipo di atteggiamento, assieme alla celebrazione dell'anniversario dell'occupazione di Fiume in diverse città italiane, infrange i rapporti di amicizia e di buon vicinato tra i due paesi e onora un'ideologia e un operato che sono profondamente contrari ai valori europei". La statua dedicata a Gabriele D'Annunzio nella centrale piazza della Borsa è stata inaugurata questa mattina. Si tratta di una scultura del bergamasco Alessandro Verdi e rappresenta il Vate seduto su una panchina che legge melanconico un libro. Una scelta quella della Giunta di centrodestra guidata da Roberto Dipiazza di dedicare al Vate un monumento nel cuore della città che ha provocato molte polemiche, sfociando anche in una raccolta firme online tra detrattori e sostenitori dell'idea del Vate. In prima linea, naturalmente, i paladini del politicamente corretto che definiscono "offensiva" la statua. Anche il giallista Veit Heinichen, che vive a Trieste, aveva sentenziato affermando: "Che senso ha? A che futuro porta il nostalgismo?". "Tutta l'Italia è piena di viali e scuole dedicate a D'Annunzio e tutte queste polemiche che ho sentito mi sembrano davvero incredibili" ha detto nel suo intervento il sindaco Dipiazza, aggiungendo che " con questa statua ricordiamo un grande italiano come ce ne sono stati tanti altri e dobbiamo essere orgogliosi di lui". Inoltre, c'è da ricordare che proprio quest'anno si ricorda il centenario dell'impresa di Fiume e la giunta comunale del capoluogo giuliano ha investito 290mila euro per un grande mostra su D'Annunzio, curata da Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione del Vittoriale. "Passeggiando in città con il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza. Mi ha indicato quelle di Joyce e Svevo. Così è venuta fuori l'idea di una statua per D'Annunzio" aveva spiegato Guerri a il Giornale.
Giampiero Mughini per Dagospia il 13 settembre 2019. Caro Dago, mi ero immaginato - Dio quanto sono stupido! - che qualcuno del nostro neonato governo rispondesse garbatamente ma nettamente al governo croato che ci sta squassando le balle perché a Trieste è comparsa una statua di Gabriele d’Annunzio che sta leggendo un libro con un gomito appoggiato a una pila di libri, una statua che bissa quelle già esistenti per le strade di Trieste e dedicate rispettivamente a James Joyce e a Italo Svevo. Il custode per antonomasia della memoria di D’Annunzio in Italia, ossia il mio amico Giordano Bruno Guerri, ha già detto che in quella statua non c’è la benché minima allusione aggressiva nei confronti della Croazia o comunque degli slavi che hanno vissuto al confine con l’Italia. Gli esponenti del governo croato dicono che è intimidatorio nei loro confronti l’avere piazzato la statua di D’Annunzio a Trieste nel giorno centenario della cosiddetta “Impresa di Fiume”, quando D’Annunzio e molti italiani al suo seguito (alcuni dei quali fra i migliori italiani di quel tempo) si scaraventarono in armi su Fiume e come se qualcuno da noi oggi apprestasse il bis di una tale impresa e di una tale conquista. Era quella un’epoca in cui la maggioranza degli abitanti di Fiume era italiana, semplice semplice. Da qui comincia il ragionamento, se vuole essere un ragionamento che onori la verità. Le cose sono poi andate, quanto al nostro rapporto con gli slavi di confine, nel modo che finalmente sappiamo dopo tre o quattro decenni di oblio: che nel secondo dopoguerra 300-400mila italiani vennero espulsi da quelle terre da cui si portarono una via solo una o due valige, non più che questo, e in Italia i ferrovieri comunisti scioperavano contro di loro da quanto erano “fascisti”. E a non dire il conto macabro degli infoibati, qualcuno di loro sì che era stato fascista ma la più parte - uomini e donne e ragazze - solo perché erano italiani. Mica sto dicendo tutto questo perché invoco una rivincita, ci mancherebbe altro. Il regime fascista fece delle porcherie durante il ventennio e il nostro esercito (di cui faceva parte mio padre) fece delle porcherie quando entrò nelle terre jugoslave. Quel che è stato è stato, ciascuno con le sue colpe, i suoi lutti e le sue memorie. E beninteso siano mille le occasioni di un confronto, di un dibattito, dove ciascuno esporrà la sua parte di verità. Di certo, noi non dobbiamo forzatamente chiedere scusa a qualcuno, o meglio sì: caso per caso. Non ci rompano però i coglioni se mettiamo un simil-D’Annunzio per le strade di Trieste. Quello è pienamente nel nostro diritto, nel diritto della nostra gente, nella memoria alta della nostra cultura. E se non fossero analfabeti, quelli che oggi proclamano una parola sì l’altra pure i diritti degli “italiani” avrebbero dovuto ricordarlo ai nostri amici croati. Garbatamente, ma nettamente.
Fiume e il silenzio della Farnesina. Francesco Maria Del Vigo, Sabato 14/09/2019, su Il Giornale. Può la commemorazione del centenario di un evento storico trasformarsi in un caso diplomatico internazionale? Se di mezzo ci sono l'Italia, la Croazia, Fiume e d'Annunzio e pure Di Maio sì. Specialmente se tutto il complicato contesto storico viene ridotto al sistema binario di fascismo e antifascismo. Sempre comodo per bagattelle elettorali e rigurgiti nazionalistici. Il centenario dell'Impresa fiumana, celebrato il 12 settembre, è stato, in un certo senso, più dannunziano del previsto. E, a renderlo tale, involontariamente, sono state sia le autorità croate che quelle italiane. Mentre Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale degli Italiani, inaugurava una statua del Vate a Trieste il capo di stato croato Kolinda Grabar-Kitar - da Zagabria - twitta inferocita: «Fiume era e rimane una parte fiera della Patria croata e il monumento scoperto oggi a Trieste che glorifica l'irredentismo e l'occupazione, è inaccettabile». Il presidente di uno Stato straniero che pontifica sulla statua di un poeta italiano in Italia. Una follia. Le vanno dietro altri esponenti politici croati e la celebrazione - della statua a Trieste e di una mostra sull'impresa a Fiume - diventa un caso. Il governo recapita persino una nota verbale all'ambasciatore italiano: «L'inaugurazione, come il ricordo dell'anniversario dell'occupazione di Rijeka in alcune altre città italiane non solo mina le relazioni amichevoli e di buon vicinato tra i due Paesi, ma è anche il riconoscimento di un'ideologia e di azioni che sono in profondo contrasto con i valori europei». Un ragazzino viene fermato e portato in questura per aver esposto un tricolore di fronte al palazzo del governo nella cittadina croata, un tempo sede delle truppe del Vate. A una pattuglia privata di aviatori abruzzesi che voleva commemorare l'impresa, viene impedito l'atterraggio in terra croata: «Ci hanno detto di tornare indietro e anzi gli italiani ci avevano detto che ci avrebbero intercettato, in pratica che saremmo stati avvicinati da due caccia militari croati e che in caso di mancato assolvimento all'ordine di tornare in Italia addirittura avrebbero potuto sparare». Tutto surreale. Tutto stupendo. Se non avessimo trascorso parte della giornata insieme a Giordano Bruno Guerri, avremmo giurato che era tutta una sua invenzione, una strategia di marketing - assolutamente dannunziana - per pubblicizzare il Vittoriale, il Vate e le sue opere. Una grande beffa postuma nel nome dell'orbo veggente. Invece, purtroppo, è tutto vero. Ma a stupire non è tanto la canea scatenata dalle autorità croate, quanto il silenzio di quelle italiane. Troppo impegnate ad accaparrarsi le poltrone dei sottosegretari per respingere al mittente una inaccettabile invasione di campo straniera. Se l'era sovranista è tramontata - ammesso che sia mai sorta - lo si vede anche dal punto di vista culturale. La Croazia attacca e l'Italia tace. Luigi Di Maio, neo ministro degli Esteri e dunque titolare del dicastero di competenza, non balbetta neppure un tweet. Troppo impegnato a giocare al risiko degli incarichi giallorossi. La Farnesina pare «abbia preso in mano la situazione». Noi abbiamo il dubbio che Di Maio stia ancora googlando «Fiume» per capire qualcosa di questa strana querelle fluviale. Ma poi dei corsi d'acqua non si occupa il ministero dell'Ambiente? Bocche cucite anche al ministero della Cultura. Franceschini è troppo impegnato a difendere la passerella di Zerocalcare e Saviano all'Aquila per accorgersi di ciò che sta succedendo e rilascia una dichiarazione ai limiti del surreale: «Non accettiamo interferenze, non si censura la cultura». Ottimo. Ma lo dica alla presidente croata, non al sindaco abruzzese. Intanto sotto il sole tiepido di Fiume, tra i cigolii delle gru di un porto arrugginito e l'odore di vecchie cime, l'Italia porta a casa un'altra figuraccia. Da qualche parte, nel frattempo, d'Annunzio se la ride: è rivoluzionario anche cento anni dopo. Riesce a far casino anche da morto.
Calcio, Gabriele D’Annunzio ideò anche lo scudetto: su, fate polemica pure su questo! Tano Canino venerdì 13 settembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Anche lo scudetto si deve a Gabriele D’Annunzio. Il simbolo del trionfo calcistico, quel riconoscimento che Eupalla, dio del pallone sgorgato dal pennino di Gianni Brera, cuce ogni anno sul petto dei nostri eroi della pedata, ha nel Vate il suo più che illustre ideatore. Ed è persino ovvio che ci sarà qualche imbecille pronto a fare polemica e gridare allo scandalo. Il centenario dell’impresa di Fiume, della Carta del Carnaro, di quel mix indistinto di libertà, strafottenze, indulgenze e intelligenze che portò qualche migliaio di giovanissimi a rispondere all’appello del Poeta-soldato e, quindi, a condividere tutti insieme l’antico ratafià che divenne “il liquore cupo che alla mensa di Fiume chiamavo “Sangue Morlacco”, ha quest’altra chicca da celebrare. E non di poco conto. Da onorare, infatti, c’è il simbolo dello sport italiano più amato. Perché è vero che anche D’Annunzio amava il calcio. Gioco che praticò sin da giovane e per tanto tempo. Almeno fino a quando in un contrasto non finì per rimetterci un dente. E, insomma, a Fiume, durante l’occupazione della terra irredenta che sarebbe infine sfociata nel fratricida Natale di sangue del 1920, l’instancabile poeta organizzò anche una partita tra militari italiani e civili. Proprio in quell’occasione, gli venne in mente di far cucire sulle maglie azzurre indossate dai militari non lo scudo sabaudo, ma quello scudetto tricolore. Non è chiaro come sia terminato quell’incontro. Ma è sicuro che le foto delle squadre in campo fecero il giro. Cosicché, pochi anni dopo, qualcuno degli organizzatori del campionato di calcio ebbe a ricordarsene e la decisione fu presa: la squadra che avesse vinto il campionato si sarebbe fregiata per l’anno successivo dello scudetto cucito sulla maglia. Lo scudetto di Gabriele D’Annunzio.
Trieste, inaugurata la statua di D’Annunzio nel centenario di Fiume. La Croazia: «Scandalosa». Pubblicato giovedì, 12 settembre 2019 da Corriere.it. Nemmeno il tempo di inaugurarla, che è già stata ribattezzata «la statua della discordia». A cento anni esatti dall’Impresa di Fiume, la figura di Gabriele D’Annunzio non smette di far discutere. Al centro delle polemiche, la decisione del Consiglio comunale di Trieste di dedicare al Vate un bronzo a grandezza naturale nella centralissima piazza della Borsa, presentato giovedì mattina. Realizzato dallo scultore bergamasco Alessandro Verdi, raffigura il poeta seduto a gambe accavallate, assorto nella lettura di un libro. L’iniziativa non ha mancato di suscitare il disappunto del governo croato, rinfocolando i mai sopiti contrasti legati all’eredità dell’esperienza legionaria nell’attuale Rijeka. L’ambasciatore italiano a Zagabria Adriano Chiodi Cianfarani si è quindi visto recapitare una nota ufficiale con cui il locale Ministero degli Esteri ha reso noto che «questo tipo di atteggiamento, assieme alla celebrazione dell’anniversario dell’occupazione di Fiume in diverse città italiane, infrange i rapporti di amicizia e di buon vicinato tra i due Paesi e onora un’ideologia e un operato che sono profondamente contrari ai valori europei». Dura anche la presidente Kolinda Grabar-Kitarovic, secondo cui la statua - definita «scandalosa» - mira a «celebrare l’irredentismo e l’occupazione» della città di Fiume, che «è stata e resterà una parte fiera della sua patria croata». Non ultimo, il sindaco della stessa Rijeka, Vojko Obersnel, ha definito D'Annunzio «un precursore dell'ideologia fascista», colpevole di aver «imposto con un'occupazione l'autorità italiana a Fiume». Un'epoca «sanguinosa e difficile per la città» a causa di legionari che «imposero con la violenza il loro potere per terrorizzare la popolazione croata e non italiana di Fiume». In difesa del Vate si è subito schierato il principale promotore della statua incriminata, il sindaco di Trieste Roberto Dipiazza: «Ho sentito il dovere di omaggiare un grande italiano, un grande poeta, un grande letterato - ha dichiarato. Non vedo perché si facciano polemiche per la statua di D'Annunzio che era uno scrittore italiano straordinario. Il Novecento ormai è storia e dobbiamo essere liberi di parlarne e ricordarne gli autori senza farci problemi. Poi da sindaco non credo di dover chiedere il permesso a nessuno». Sulla stessa linea Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani e curatore della mostra «Disobbedisco. La rivoluzione di D’Annunzio a Fiume 191-1920», aperta fino al 3 novembre nel capoluogo giuliano: «Serve una memoria condivisa sull'impresa di Fiume fra italiani e croati - ha detto a margine dell'inaugurazione -. Occorre riflettere insieme su quell'evento. Il fascismo si impossessò a posteriori dell'impresa di Fiume, iscrivendola nel mito della "vittoria mutilata", ma il fascismo non ebbe nulla a che fare con l'impresa di D'Annunzio. Ciononostante, la versione del duce è stata accettata in seguito anche dall'Italia repubblicana e democratica. Così come la versione di Tito dell'occupazione fascista viene accettata dalle autorità croate anche ora che il regime comunista è caduto. Una cosa è certa: la maggioranza dei fiumani come degli istriani era italofona e chiedeva esplicitamente l'annessione all'Italia».
Inaugurata statua di D'Annunzio. La Croazia: "L'Italia offende valori Ue". La statua dedicata a Gabriele D'Annunzio nella centrale piazza della Borsa è stata inaugurata questa mattina. Il Pd aveva cercato di bloccare la decisione del sindaco con una petizione. Ora arriva la condanna della Croazia. Aurora Vigne, Giovedì 12/09/2019, su Il Giornale. Dopo le polemiche del Pd, ora anche la Croazia ha condannato la decisione della città di Trieste di erigere un monumento a Gabriele D'Annunzio. Nella nota consegnato oggi all'ambasciatore italiano a Zagabria, Adriano Chiodi, si legge che si tratta di una "decisione di autorità locali" e non dello Stato. Inoltre, sempe nella nota del Ministero degli Esteri croato si legge che "questo tipo di atteggiamento, assieme alla celebrazione dell'anniversario dell'occupazione di Fiume in diverse città italiane, infrange i rapporti di amicizia e di buon vicinato tra i due paesi e onora un'ideologia e un operato che sono profondamente contrari ai valori europei". La statua dedicata a Gabriele D'Annunzio nella centrale piazza della Borsa è stata inaugurata questa mattina. Si tratta di una scultura del bergamasco Alessandro Verdi e rappresenta il Vate seduto su una panchina che legge melanconico un libro. Una scelta quella della Giunta di centrodestra guidata da Roberto Dipiazza di dedicare al Vate un monumento nel cuore della città che ha provocato molte polemiche, sfociando anche in una raccolta firme online tra detrattori e sostenitori dell'idea del Vate. In prima linea, naturalmente, i paladini del politicamente corretto che definiscono "offensiva" la statua. Anche il giallista Veit Heinichen, che vive a Trieste, aveva sentenziato affermando: "Che senso ha? A che futuro porta il nostalgismo?". "Tutta l'Italia è piena di viali e scuole dedicate a D'Annunzio e tutte queste polemiche che ho sentito mi sembrano davvero incredibili" ha detto nel suo intervento il sindaco Dipiazza, aggiungendo che " con questa statua ricordiamo un grande italiano come ce ne sono stati tanti altri e dobbiamo essere orgogliosi di lui". Inoltre, c'è da ricordare che proprio quest'anno si ricorda il centenario dell'impresa di Fiume e la giunta comunale del capoluogo giuliano ha investito 290mila euro per un grande mostra su D'Annunzio, curata da Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione del Vittoriale. "Passeggiando in città con il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza. Mi ha indicato quelle di Joyce e Svevo. Così è venuta fuori l'idea di una statua per D'Annunzio" aveva spiegato Guerri a il Giornale.
"Era estraneo a Trieste". Una raccolta firme contro la statua del Vate. Dopo le polemiche del Pd, una petizione per bloccare il monumento a D'Annunzio. Fausto Biloslavo, Mercoledì 12/06/2019, su Il Giornale. Le statue di Svevo, Saba e Joyce sì, ma quella di Gabriele d'Annunzio, il poeta guerriero, politicamente scorretto, assolutamente no. La chiamata alle armi per bloccare il Vate in forma bronzea a Trieste è una raccolta firme in rete con change.org. La miccia era stata accesa dal Pd locale e alimentata dalla solita schiera dell'intellighenzia politicamente corretta, compresi attori più o meno comici. Solo Claudio Magris ha osato non opporsi a spada tratta alla statua di D'Annunzio nel capoluogo giuliano. «La biografia letteraria e politica di D'Annunzio rasenta il ridicolo ed espone il buon nome dell'Italia al ludibrio mondiale, ma non è il questo il motivo principale della nostra contestazione: D'Annunzio era un aloglotto e totalmente estraneo alla città» sostiene Alessandro De Vecchi, promotore della petizione. E oltre un migliaio di persone gli vanno dietro nello sputtanamento del poeta guerriero, che nasconde una chiara discriminazione ideologica. La scultura rappresenta il Vate seduto su una panchina, in borghese, che legge melanconico un libro. L'opera è dello scultore bergamasco Alessandro Verdi. La statua troverà spazio nella centralissima piazza della Borsa. I detrattori di D'Annunzio sostengono che «la collocazione di fronte al palazzo della Camera di Commercio è offensiva». Alla vigilia della petizione, il Piccolo, quotidiano di Trieste, ha raccolto le voci dei soliti intellettuali, che alimentano il «niet» a D'Annunzio accusandolo, soprattutto, di essere stato un mangia slavi. Paolo Rumiz, giornalista e scrittore, ha addirittura sostenuto che gli irredentisti come «Nazario Sauro e Cesare Battisti a cui abbiamo dedicato scuole e vie, si rigireranno nella tomba di fronte alla presenza di quella statua». Peccato che Luigi, figlio del martire Battisti impiccato dagli austriaci, partecipò come legionario, al fianco di D'Annunzio, all'impresa di Fiume. Un altro intellettuale politicamente corretto, il giallista Veit Heinichen, che vive a Trieste, sentenzia bocciando la statua: «Che senso ha? A che futuro porta il nostalgismo?». Forse come tedesco non ha ben presente che quest'anno si ricorda il centenario dell'impresa di Fiume partita da Ronchi dei Legionari, ma che aveva uno snodo importante proprio a Trieste. Per questo motivo la giunta comunale del capoluogo giuliano ha investito 290mila euro per un grande mostra su D'Annunzio, che verrà inaugurata in luglio. Intitolata Disobbedisco è curata da Giordano Bruno Guerri, presidente della Fondazione del Vittoriale. La statua costa 20mila euro ed è nata «passeggiando in città con il sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza. Mi ha indicato quelle di Joyce e Svevo. Così è venuta fuori l'idea di una statua per D'Annunzio» ha spiegato Guerri a il Giornale. Per ora l'unico intellettuale triestino a non sparare a zero sul Vate in bronzo è Magris. «In questo caso il problema non è la statua, ma avere un giudizio chiaro e onesto su D'Annunzio che, pur avendo scritto tantissime cose anche illeggibili, è autore di alcuni capolavori riconosciuti da tutti e destinati a restare come pochi» ha dichiarato al Piccolo. Il Pd per bocca del capogruppo in comune, Giovanni Barbo, si oppone e propone, al posto del Vate, il pachistano Abdus Salam, premio Nobel per la fisica, che a Trieste ha già il Centro internazionale di Miramare intitolato a suo nome.
Fiume 1919-2019. Diari dalla Città di Vita. Andrea Scarabelli il il 20 settembre 2019 su Il Giornale.
12 settembre 1919. Esattamente un secolo fa, Gabriele d’Annunzio entrava in Fiume d’Italia, “disobbedendo” ai diktat di Società delle Nazioni e compagnia bella, inaugurando quella che Claudia Salaris ha definito, usando un’espressione che ha avuto molta fortuna, «festa della Rivoluzione». Il Vate aveva compiuto la Marcia di Ronchi febbricitante, e sempre febbricitante era entrato nella Città, realizzando un’Impresa annunciata giorni prima da parole irrevocabili, vergate a mano su carta intestata Ardisco non ordisco, quasi in un interiore conto alla rovescia: «Giovedì, nel pomeriggio sarò a Ronchi per partire verso il gran destino». Ancora ignaro del fatto che quella febbre, quel fuoco sacro, sarebbero rimasti accesi per cinquecento giorni, dando vita a un evento sacro e metastorico senza pari, in vista del Carnaro recitò la sua celebre “orazion picciola”. Così Edoardo Susmel ricorderà le atmosfere di quel discorso e il volto del Comandante, illuminato dal sole: «Era di un pallore mortale. La fronte, i radi baffetti, il mento erano incrostati di polvere; ma il suo occhio era vivo e la sua voce, dapprima lenta e fioca, diventò metallica, acuta, penetrante». Innanzi ai convenuti, quella voce proruppe: «Ufficiali di tutte le armi, vi guardo in faccia. La mia volontà usa porre dietro di sé l’irreparabile. Io scrissi ieri, sul punto di partire, a un compagno di fede e di violenza: “Il dado è tratto. Parto ora. Domattina prenderò Fiume con le armi”. Ora bisogna – m’intendete? – bisogna che io prenda la città. Sì, è vero, ho la febbre alta. Non so se il mio volto sia pallido o acceso. Ma certo in me arde un demone, il mio demone. E dal male non menomato mi sento, ma aumentato. La sbarra di Contrida è guardata dai moschetti e dalle mitragliatrici di tre Potenze. Spezzeremo quella sbarra. Io sarò innanzi: primo». Tra i narratori di quelle ore, concitate come poche altre, troviamo un giovanissimo cronista, che a onor del vero giunse nella Città Olocausta solo due giorni dopo, il 14 febbraio. Il suo diario, con il titolo Fiume, una grande avventura, è stato appena ripubblicato da Bietti, in una nuova edizione a cura di Daniele Orzati e con una densa postfazione di Anita Ginella dedicata all’autore, Carlo Otto Guglielmino, allora corrispondente del «Corriere Mercantile» di Genova – benché molti dei suoi reportage spediti al giornale fossero epurati, per via della censura intrapresa da Nitti (Cagoia, nell’indimenticabile definizione di d’Annunzio), nel timore che un’eccessiva informazione sui fatti fiumani potesse infiammare troppi animi… Cosa che, puntualmente, accadde.
Nel 1919 Guglielmino aveva diciotto anni, ma aveva già fatto in tempo a fondare il fascio futurista di Genova e tra l’altro – come ricorda Ginella – aveva provato a entrare in Fiume un mese prima della Santa Entrada, anticipando quell’autentico pellegrinaggio (Kochnitzky) che un pugno di mesi dopo avrebbe visto confluire nella Città di Vita artisti e rivoluzionari, letterati e sindacalisti, Arditi ed esteti. Come che sia, l’esito dell’operazione è documentato da una nota sul «Caffaro», pubblicata il 30 agosto: «I Futuristi genovesi – dinamicissima avanguardia di Genova industriale – pronti a qualunque sacrificio contro le sottili arti, le losche insidie e le aperte violenze di un governo che non rappresenta il forte popolo italiano, protestano per l’indegno trattamento usato dalla Questura Italiana al compagno Carlo Otto Guglielmino, arrestato perché diretto a Fiume e ricondotto a Genova alla stregua di un delinquente». Riuscirà a entrare nella Città di Vita, in modo piuttosto rocambolesco, nel settembre di quello stesso anno e nel corso della sua permanenza redigerà un diario, poi ripreso e rielaborato negli anni Cinquanta, una delle testimonianze più asciutte e antiretoriche dedicate all’Impresa. Lavorando nella Segreteria particolare del Comandante, ha modo di registrarne in presa diretta le sensazioni e i cambi d’umore, assistendo altresì a incontri epocali. Davanti a suoi occhi sfilano i grandi protagonisti del Novecento, da Marinetti e Mussolini a Toscanini e Marconi… Un piccolo aneddoto: quando il fondatore del Futurismo giunge a Fiume, vorrebbe arringare gli Arditi, ma d’Annunzio lo ferma. A meno che non reciti a lui – e solo a lui – La battaglia di Adrianopoli, meglio che taccia. «Parlo già troppo io» aggiunge il Vate, sarcastico.
Dalle pagine di Guglielmino emerge anche l’intensa e febbrile attività svolta dal Poeta, che lavora giorno e notte, tenendo discorsi, scrivendo proclami e occupandosi incessantemente di diplomazia. Così ad esempio annota, poco più di un mese dopo la Marcia di Ronchi: «Non so come d’Annunzio regga a tanto sforzo. Non va mai a letto prima di mezzanotte e si alza prestissimo. Scrive, riceve, visita i reparti, tiene discorsi. Mangia di regola nella camera da letto, facendosi portare un pasto leggerissimo. Non beve vino – se non in determinate occasioni – e poca acqua. Dopo ogni pasto si concede una tazza di caffè ed una sola sigaretta, che fuma a metà. Quando è costretto ad accettare l’invito dei reparti ed a mangiare alle loro mense, deve controllarsi: sa che basta un bicchiere di champagne a renderlo vivacissimo. Quando lavora nella sua camera indossa una vestaglia oppure, se fa freddo, il maglione grigio da aviatore». Collaboratore de «La Testa di Ferro. Libera voce dei Legionarii di Fiume», diretta da Mario Carli, Guglielmino ha anche modo di partecipare in prima persona a uno dei colpi di mano organizzati dal futurista Federico Pinna Berchet (il cui resoconto integrale è contenuto nel prossimo numero della rivista «Antarès – prospettive antimoderne», di prossima pubblicazione, tutto dedicato all’Impresa…), annotandone altri, dal furto di autocarri e mezzi militari al dirottamento di vari piroscafi, ovviamente senza colpo ferire, fino all’indimenticabile episodio dei “Cavalli dell’Apocalisse”. Ovvero quaranta cavalli sottratti dall’Ufficio Colpi di Mano e portati nella Città Olocausta. All’impresa segue un ultimatum: o verranno restituiti oppure il blocco della città verrà inasprito. D’Annunzio obbedisce, sennonché al posto dei quaranta purosangue sottratti, giovani e forti, ne rispedisce al mittente altrettanti vecchi e malconci – non prima di averli dipinti di bianco, rosso e verde.
Non mancano nemmeno piccoli aneddoti ed episodi riguardanti il Comandante, vero e indiscusso protagonista di Fiume, una grande avventura. Come una serata del 24 marzo, quando d’Annunzio entra nella Segreteria. In quell’immenso salone, affacciato sulla città e su un mare crepuscolare e sanguigno, quattro genovesi – Guglielmino, Mario Maria Martini, Giuseppe Canzini e Furio Drago – parlano della loro città. Quand’ecco che, improvvisamente, entra il Vate, straordinariamente euforico. Canzini si mette sull’attenti, ma gli viene fatto cenno di sedersi. D’Annunzio chiede notizie di Genova, dopodiché racconta di quando una sera, dopo l’inaugurazione del Monumento di Quarto, era riuscito a sgattaiolare lontano dagli ammiratori per compiere un giro notturno della città vecchia, verso il porto. «Non dimenticherò» mormora, leggermente commosso, «Porta Soprana immersa nel chiaro di luna. Le vecchie pietre sembravano fosforescenti. Il cielo che si vedeva al di là dell’arco era come uno specchio volto verso il mare, che quella sera doveva essere d’argento…». Dopodiché parla di Portofino, di quella piccola cresta sopra il faro, affacciata su due mari, da cui s’intravede da un lato la costa che da Camogli si estende sino a Genova e, dall’altro, il Golfo del Tigullio. Non c’è luogo, in Liguria, che lui ami di più. L’atmosfera è quasi sospesa, descritta da Guglielmino con toni lirici: «Il salone era pieno d’ombra e nessuno pensava ad accendere le luci per non rompere l’incanto di quel momento. Le mani di d’Annunzio tracciavano brevi parabole nell’aria, bianchissime. Fuori il tramonto si spegneva in toni sommessi. Il mare, dopo essere stato di porpora, ora era di un colore indefinibile, come una vecchia seta cangiante». Dopo una breve pausa, assorto in chissà quali meditazioni, d’Annunzio mormora: «Dovete difendere la vostra città da ogni contaminazione, dal troppo frettoloso piccone che non rispetta nessuna memoria del passato e dal cemento armato con il quale l’uomo costruisce in fretta ma dimenticando ciò che è bellezza, ignorando le armonie che si ottengono posando una pietra su l’altra, un marmo su un altro…». Il giovane protagonista di questa storia non sa ancora come quelle parole ispireranno molte delle battaglie giornalistiche che intraprenderà decenni dopo sulle colonne del «Corriere Mercantile» e de «La Gazzetta del Lunedì», finalizzate a difendere la sua Liguria dalla rapace e scellerata distruzione paesaggistica messa in atto nel secondo dopoguerra… Oppure il 2 aprile, quando il suo diario registra una passeggiata primaverile insieme al Comandante, vestito da Ardito e con il cappello all’alpina: «Disse che bisognava andare incontro alla primavera per farle festa; che ogni tanto occorre infiorare le armi perché se no diventano vecchie». Composta da Guglielmino e da altri genovesi, quel primo pomeriggio inondato dal Sole la colonna parte, al canto degli Arditi:
Se non ci conoscete
guardateci dall’alto,
siam fatti per la guerra
siam fatti per l’assalto…
Ad aprire la fila è d’Annunzio, descritto dal diciottenne con toni quasi metafisici: «A vederlo di dietro, con la giubba attillata, i calzoni ampi sugli stivali lucidi, procedere agile su per il sentiero pietroso, sembrava un ventenne. Quando la cima apparve vicina, si voltò a segnarcela e la sua figura, in quel punto, non aveva dietro a sé che il cielo; così incorniciato d’azzurro, stilizzato, con quel volto macerato, a qualcuno di noi parve un Santo guerriero che additasse un Paradiso». Un Paradiso annegato una manciata di mesi dopo nel sangue fraterno, per decreto dei “poteri forti” di allora. Un esito che, tuttavia, non basta a cancellare l’aura sacra di quell’esperienza, unica nel suo genere, apertasi un secolo fa, quando la colonna capitanata da d’Annunzio giunse nella Città liberata. Quando, come scrive Guglielmino meno di settantadue ore dopo quel fatidico 12 settembre, abbrivio di una vera e propria Quinta Stagione sul mondo, «ad un tratto, quasi una marea, si vide la gente avanzare, come impazzita. E nel silenzio esplose il rombo di tutte le campane che suonavano a martello, come quando il fuoco rugge e divora. Ed era veramente un incendio: stava avvampando il cuore della città».
D’Annunzio a Fiume, azione ambigua Libertaria, ma anche intollerante. Pubblicato giovedì, 12 settembre 2019 da Antonio Carioti su Corriere.it. L’impresa di Fiume si colloca in maniera ambigua nella storia del nostro Paese. Cento anni fa, il 12 settembre 1919, Gabriele d’Annunzio si mise alla testa di alcuni reparti militari ammutinati (i suoi «legionari») e occupò quella città della costa adriatica (oggi parte della Croazia con il nome di Rijeka), rivendicandone l’annessione all’Italia per via del fatto che la maggioranza degli abitanti nel centro urbano parlava la nostra lingua, anche se gli accordi del 1915 non prevedevano il suo passaggio sotto la sovranità del Regno sabaudo dopo la fine della Prima guerra mondiale. La conclusione del conflitto aveva visto infatti la dissoluzione dell’Austria-Ungheria, inizialmente non preventivata, e la nascita della Jugoslavia. Di conseguenza si era aperto un contenzioso tra Roma e Belgrado sul nostro confine orientale, in particolare su Fiume e sulla Dalmazia, che la conferenza internazionale di pace non aveva risolto. D’Annunzio cercò di sciogliere il nodo con la spada: in questo senso la sua azione ebbe un indubbio indirizzo nazionalista e imperialista, oltre che eversivo nei riguardi del governo in carica, guidato dal liberale di sinistra Francesco Saverio Nitti, e più in generale delle istituzioni parlamentari italiane e dell’ordine postbellico definito con il trattato di Versailles. Anche se all’epoca Benito Mussolini appoggiò l’impresa di Fiume soprattutto a parole e non mosse un dito quanto il successivo governo di Giovanni Giolitti, conclusa un’intesa con la Jugoslavia, sgombrò d’Annunzio dalla città con la forza nel dicembre 1920, oggi la destra di ascendenza neofascista rivendica l’avventura fiumana come parte della propria storia: la festa Atreju di Fratelli d’Italia le dedica una mostra che sarà inaugurata il 20 settembre, l’editrice Ferrogallico ha pubblicato il libro a fumetti Fiume o morte, a cura di Federico Goglio, mentre Eclettica propone il Poema di Fiume del padre del futurismo Filippo Tommaso Marinetti. Sul versante antifascista, in particolare da parte dell’Associazione partigiani (Anpi), forti critiche vengono invece rivolte alle celebrazioni di un’impresa letta come una premessa della dittatura. Sul piano storico il dibattito è più sfumato. Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale dannunziano e autore del recente libro su Fiume Disobbedisco (Mondadori), tende a valorizzare l’aspetto trasgressivo, libertario, movimentista e carnevalesco dell’impresa. Quindi a collegarla non tanto al fascismo, che pure da d’Annunzio mutuò riti e slogan, ma al Sessantotto, come una sorta di «festa della rivoluzione» (la definizione è della storica Claudia Salaris), lontanissima dal rigido culto della gerarchia e della disciplina vigente sotto il regime mussoliniano e anche dall’approccio compromissorio di Mussolini verso il potere costituito. C’è però anche chi, come Enrico Serventi Longhi nel libro Il faro del mondo nuovo (Gaspari editore), evidenzia un forte nesso di continuità fra legionari e camicie nere: a suo avviso lo squadrismo fu «per gran parte il frutto diretto della rielaborazione dell’esperienza fiumana», tanto che la «quasi totalità» di coloro che avevano seguito d’Annunzio «accettò di buon grado il processo di dissolvimento» dell’eredità di quell’avventura «dentro il processo storico di affermazione del fascismo». Tale giudizio può apparire esagerato, visto che legionari fiumani di rilievo, come Alceste De Ambris, si schierarono sul versante antifascista. Ma forse il punto più significativo è un altro. La componente antiautoritaria presente nel fiumanesimo, su cui insiste giustamente Guerri, non è di per sé incompatibile con uno sbocco totalitario. Anche lo squadrismo aveva componenti goliardiche (si pensi all’uso di far ingurgitare alle vittime il purgante olio di ricino). E comunque il vero nodo è la sacralizzazione della propria causa, un radicalismo che squalifica ogni dissenso. A tal proposito la stessa analogia con il Sessantotto, evocata da Guerri, è assai significativa. Proprio dalla contestazione giovanile nacquero infatti gruppi estremisti caratterizzati, oltre che dall’esaltazione della violenza, da una visione manichea e settaria della politica, che in gran parte contraddiceva lo spirito libertario delle origini. Anche il terrorismo delle Brigate rosse e di Prima linea si nutrì in parte dei fermenti sessantottini, proprio come lo squadrismo si era alimentato di quelli fiumani. Lo stesso mito della «Resistenza tradita», così popolare nell’ultrasinistra sorta dalla contestazione, assomiglia parecchio a quello dannunziano della «vittoria mutilata». Anche quando assume una forma trasgressiva, festosa e poetica, l’oltranzismo che attribuisce alla politica una dimensione di scontro tra il bene e il male sfocia generalmente nella delegittimazione dell’avversario, che si esprime magari attraverso la sua messa in ridicolo (si pensi al soprannome «Cagoia» che d’Annunzio usava per ingiuriare Nitti), e quindi nell’intolleranza. A quel punto il passo verso un atteggiamento liberticida non è poi così lungo.
D’Annunzio non fu mai fascista. Molti suoi «legionari» contro il Duce. In un libro edito da Mondadori lo storico Giordano Bruno Guerri ricostruisce le vicende dell’impresa di Fiume: uno spirito libertario che anticipa la rivolta del Sessantotto, scrive Paolo Mieli il 18 marzo 2019 su Il Corriere della Sera. Gabriele d’Annunzio con la sua levriera Crissa in visita a uno dei reparti di «legionari» con cui aveva occupato Fiume il 12 settembre del 1919. Le forze regolari italiane estromisero d’Annunzio dalla città durante le feste natalizie del 1920. L’impresa di Fiume fu una delle avventure più straordinarie del primo dopoguerra. Per sedici mesi (dal settembre 1919 al dicembre 1920) i «legionari» di Gabriele d’Annunzio occuparono la città adriatica dando vita ad una sorta di anticipazione del Sessantotto. Finché il capo del governo italiano, Giovanni Giolitti, pose fine con la forza a quell’esperienza nel cosiddetto «Natale di sangue». L’avventura fiumana suggestionò i contemporanei. Benito Mussolini ne trasse ispirazione per la successiva marcia su Roma, ma ebbe, nei confronti del «Vate» e dei suoi seguaci, un atteggiamento ambiguo. Lenin notò il carattere «rivoluzionario» dell’impresa dannunziana. Antonio Gramsci, evacuata Fiume, provò (inutilmente) a coinvolgere il poeta e i suoi reduci per contrastare le camicie nere che si accingevano alla presa del potere (nell’ottobre del 1922). Esce in libreria il 26 marzo il saggio di Giordano Bruno Guerri «Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920» (Mondadori, pagine 564, euro 28). Mussolini ebbe l’abilità di far dimenticare la propria doppiezza nel corso di quei «sedici mesi», di evidenziare la linea di continuità tra l’impresa dannunziana e la sua. E, nel delicatissimo triennio successivo alla conquista del governo, riuscì a tenere legato a sé d’Annunzio, vellicandone la vanità. In particolare nel momento più delicato: nelle settimane che seguirono il rapimento e l’uccisione di Giacomo Matteotti (estate del 1924), d’Annunzio divenne quasi un incubo per i fascisti. Quattordici anni dopo, il giorno successivo alla sua morte (1° marzo 1938), il Duce confidò a Galeazzo Ciano la convinzione che se d’Annunzio all’epoca dell’assassinio di Matteotti e della crisi che ne seguì «si fosse schierato contro», sarebbe stato «un pericoloso avversario perché aveva molto seguito nella gioventù». Ma in quella occasione d’Annunzio rassicurò personalmente Mussolini che non avrebbe mosso un dito contro di lui, raccomandandogli di «aver fede intiera» nella sua «lealtà e carità di patria». Per poi aggiungere: «Il mio silenzio e il mio lavoro sono oggi un esempio a tutti gli italiani; non l’uno sarà interrotto e non l’altro». Dopodiché, però, quando a fine luglio del 1924 le cose per il Duce sembrarono volgere al peggio, l’onorevole Tito Zaniboni dichiarò su «Il Mondo» che d’Annunzio aveva scritto in una lettera a un legionario di essere «molto triste di questa fetida ruina». E il poeta non smentì. Non voleva deludere Mussolini, ma neanche i suoi ammiratori che in quei giorni prendevano le distanze dal fascismo. Nato a Monticiano (Siena) nel 1950, lo storico Giordano Bruno Guerri, autore di molti libri importanti, è presidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani. In effetti a seguito dell’impresa fiumana il prestigio del poeta era altissimo, fa notare Giordano Bruno Guerri nello straordinario Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920, che sta per essere dato alle stampe da Mondadori. Molti erano convinti che l’autore de Il piacere potesse costituire un pericolo per il fascismo. Ernest Hemingway, in una corrispondenza dalla Svizzera per un giornale americano, scrisse: «In Italia sorgerà una nuova opposizione, anzi si sta già formando e sarà guidata da quel rodomonte vecchio e calvo, forse un po’ matto, ma profondamente sincero e divinamente coraggioso che è Gabriele d’Annunzio». Condivideva (a modo suo) questa opinione il generale Emilio De Bono, quadrumviro della marcia su Roma e ora capo della polizia, che nel dicembre 1922 invitò i prefetti a «controllare e reprimere tutte le organizzazioni legate al suo nome, a partire dalla Federazione dei legionari». Nell’aprile 1923 la Federazione, i sindacati di ispirazione dannunziana e l’Associazione arditi d’Italia si misero assieme nell’Unione spirituale dannunziana, con l’obiettivo dichiarato di resistere al fascismo e di fondare una costituente sindacale ispirata a quella costituzione utopistica che aveva preso il nome di Carta del Carnaro. In seguito, fa notare Guerri, fra l’estate e l’autunno una raffica di perquisizioni e di arresti fece naufragare il progetto. Fu del resto lo stesso d’Annunzio a mettere le cose in chiaro con Mussolini scrivendogli (il 15 maggio 1923): «Io non voglio essere aggettivato… Il nome dannunziano mi era già odioso nella letteratura, odiosissimo m’è nella politica». Un modo quasi esplicito per dirgli che, pur non mettendosi di traverso, non voleva essere strumentalizzato. L’unico intervento del poeta nella vita pubblica fu nello stesso 1923 la difesa della Federazione italiana dei lavoratori del mare (del suo vecchio sodale Giuseppe Giulietti) ad impedire che fosse inclusa nei sindacati fascisti. Nel 1924 l’Unione spirituale dannunziana assunse un atteggiamento sempre più apertamente antifascista: nel corso della crisi successiva all’uccisione di Matteotti, si unì all’opposizione dell’Aventino e tra l’8 e il 10 settembre convocò a Milano un Consiglio nazionale. Qui i reduci dell’impresa fiumana non confluiti nel fascismo presero quella che Guerri considera una «decisione estrema»: vista la volontà del Comandante di appartarsi dalla politica, dichiararono di ispirarsi al pensiero e non alla persona di d’Annunzio, «per il raggiungimento», dissero, «di quegli ideali, consacrati nella sua multiforme attività», di cui avevano fatto il loro «credo». Recuperando le «vecchie consuetudini dell’Ufficio colpi di mano», in pochi giorni, scrive Guerri, «i legionari trasformarono l’Unione spirituale in un’associazione clandestina, con depositi segreti, tessere anonime e una rete di cellule incaricate di sostenere le lotte operaie e tutte le forme di opposizione al regime». Ma era tardi. Troppo tardi. Le «leggi fascistissime» del 1925 «si abbatterono inesorabilmente anche sulla debole coalizione legionaria, di cui», ammette Guerri, «non abbiamo notizie certe se non nelle relazioni della polizia e nei rari opuscoli sequestrati durante la perquisizione delle sedi». Tra novembre e dicembre 1925 l’Unione — «ultima custode militante del fiumanesimo indipendente» — fu travolta dalla repressione. Nel frattempo d’Annunzio non si era ribellato alla svolta autoritaria di Mussolini. Anzi. Tra aprile e maggio del 1925 Mussolini promosse la trasformazione del Vittoriale in monumento nazionale. La generosità del Duce ebbe, secondo Guerri, un secondo fine: «Pagare per il Vittoriale era come ipotecarne l’abitante, che sarebbe divenuto “suo”… e per i più sprovveduti e i faziosi non ha mai smesso di esserlo». In realtà Mussolini «non coprì d’oro d’Annunzio che avrebbe potuto vivere più che bene con i diritti d’autore», bensì «spese per tenerlo occupato e — soprattutto — per cambiarne l’immagine pubblica legandolo al fascismo più di quanto non fosse». In questo clima di «circospetta vicinanza» maturò «una delle decisioni più controverse del Vate» che accettò di firmare il Manifesto degli intellettuali fascisti redatto da Giovanni Gentile (a cui si contrappose quello di Benedetto Croce, voluto da Giovanni Amendola) sottoscritto — tra gli altri — da Filippo Tommaso Marinetti, Curzio Malaparte, Luigi Pirandello, Giuseppe Ungaretti. In realtà, scrive Guerri, d’Annunzio non fu mai fascista. Ne è riprova il fatto che «fra gli oltre ventimila oggetti della sua casa non si trova un solo fascio o elemento che richiami il regime, se non relegato tra i doni che riponeva nel solaio». Parlava, il Vate, di «camicie sordide», mai di camicie nere; non celebrava le date sacre del regime e aveva quasi sempre parole di disprezzo per i gerarchi. Rispettava in Mussolini il demiurgo capace di realizzare «quel che a lui non era riuscito, una rivoluzione», ma sempre considerandolo «un uomo di gran lunga inferiore, umanamente e intellettualmente». Un uomo «tenuto a rendergli omaggio». Le sue lettere al Duce, «spesso citate a riprova di ammirazione e devozione», sono in realtà «un gioco di lusinghe e di minacce che più volte l’interlocutore non afferra» (come ha messo in luce una decina di anni fa Giampiera Arrigoni). D’altra parte l’impresa di Fiume era stata, certo, «un episodio del nazionalismo più consueto», ma aveva rappresentato soprattutto «una rivolta generazionale contro ogni regola costituita dal liberalismo, dal socialismo, dalla diplomazia tradizionale e dalle convenzioni». In questo fu, come si è detto all’inizio, un’anticipazione del Sessantotto. Dopo l’epilogo sanguinoso, però, la vicenda fiumana venne a tal punto inquinata dalla mitologia fascista da essere in seguito, dopo la caduta di Mussolini, «trascinata nell’oblio». Quasi per ritorsione. La rivoluzione fiumana, sostiene Guerri, è stata bollata come «precorritrice del regime», perché così aveva voluto Mussolini. Da Fiume Mussolini prese «la liturgia della politica di massa, sperimentata la prima volta dal Vate» che fu «il primo e ultimo poeta al comando nella storia dell’umanità»: «i discorsi dal balcone, il dialogo con i seguaci-fedeli, il culto per i caduti e le bandiere, il “me ne frego”, l’“a noi!”, le camicie nere e i fez degli arditi, Giovinezza, le marce, le cerimonie di giuramento, riti e miti». In realtà, ribadisce Guerri, ai tempi dell’impresa fiumana Mussolini aveva ingannato d’Annunzio, facendogli credere di essere dalla sua parte mentre tesseva trame con Giolitti. Poi, giunto al potere, il fascismo lasciò in soffitta l’essenza della rivoluzione fiumana, che era libertaria, e imboccò una strada tutta sua. Portando sulle spalle «l’indebito peso di una dittatura vicina solo per contiguità», chiarisce l’autore, il fiumanesimo verrà in seguito giudicato «in base a ciò che è avvenuto dopo e che sarebbe accaduto comunque»: i Fasci di combattimento erano stati fondati oltre sei mesi prima dell’ingresso del «Poeta guerriero» a Fiume; e avrebbero avuto la stessa evoluzione «anche senza l’esempio di d’Annunzio», il quale aveva dimostrato soltanto che «lo Stato liberale poteva essere sfidato — e vinto — con la forza». Mussolini fece proprio il saluto «eia eia alalà» — peraltro inventato da d’Annunzio molto prima del 1919, ma, secondo Guerri, non avrebbe mai accompagnato quell’esplosione di gioia con la frase che vi aggiunse il Comandante: «Viva l’amore!». E se molti legionari aderirono al fascismo, altri furono antifascisti, persino martiri dell’antifascismo o morti in esilio come l’altro uomo più importante della rivoluzione fiumana, Alceste De Ambris. «Si dimentica dunque», prosegue l’autore di Disobbedisco, «che Fiume fu anzitutto una “controsocietà” sperimentale in contrasto sia con le idee e i valori dell’epoca sia — e tanto più — con quelli del fascismo». Semmai da Fiume emersero caratteristiche che avrebbero dominato la scena un secolo dopo: la spettacolarizzazione della politica, la distorsione della realtà tramite la propaganda, la ribellione generazionale, l’avanguardia e la festa come mezzi di contestazione, la rivolta contro la finanza internazionale, il conflitto tra nazionalismi, i volontari che lasciano Paesi d’origine per combattere guerre globali, la libertà sessuale e di abbigliamento, il ribellismo e la trasgressione. Dopo il 1945 Fiume venne assegnata alla Jugoslavia di Tito. A difendere l’italianità di Fiume presso le potenze alleate, rimasero solo pochi politici locali, tra cui Riccardo Zanella. Tolto «il bavaglio» cui l’Italia fascista l’aveva costretto per vent’anni, l’autonomista Zanella cercò di presentare lo Stato libero come una «vittima del fascismo» alla stregua dell’Etiopia e dell’Albania. I rapporti con Tito, però, «erano troppo importanti per gli Alleati che gli avevano già negato Trieste». Era necessario offrirgli una contropartita e il leader comunista, che aveva unificato i partigiani serbi, croati e sloveni, poté presentarsi come il vendicatore delle violenze sopportate in guerra dagli slavi durante l’occupazione italiana. Dopodiché i «liberatori comunisti», scrive Guerri, «non furono meno feroci degli sconfitti nazifascisti» e quando entrarono a Fiume, il 3 maggio del 1945, diedero immediatamente inizio alla pulizia etnica. La repressione del dittatore Tito costò la morte di oltre seicento fiumani e l’esilio di altri trentottomila. Poi la Jugoslavia si adoperò a «cancellare metodicamente ogni traccia dell’identità italiana». Contemporaneamente l’Italia repubblicana escluse l’impresa di Fiume dalla galleria della storia nazionale. A commemorarla, al Vittoriale, restarono solo alcuni legionari «appesantiti e ingrigiti, con la medaglia di Ronchi appuntata sulla giacca». E man mano che morivano, quei raduni si fecero sempre più striminziti.
Bibliografia. All’impresa dannunziana del 1919-20 Pier Luigi Vercesi ha dedicato il saggio Fiume. L’avventura che cambiò l’Italia (Neri Pozza, 2017). Una visione complessiva delle vicende riguardanti la città adriatica si trova nel libro di Raoul Pupo Fiume città di passione (Laterza, 2018). Giordano Bruno Guerri ha pubblicato sul poeta i volumi D’Annunzio. L’amante guerriero (Mondadori, 2008) e La mia vita carnale (Mondadori, 2013). Importante anche la biografia di Lucy Hughes-Hallett Gabriele d’Annunzio (traduzione di Roberta Zuppet, Rizzoli, 2014). Da segnalare inoltre: Annamaria Andreoli, Il vivere inimitabile (Mondadori, 2000); Piero Chiara, Vita di Gabriele d’Annunzio (Mondadori, 1978).
FIUME IN PIENA. Giovanni De Luna per “la Stampa” l'11 settembre 2019. Il 1919 è il primo anno di pace dopo una guerra enormemente distruttiva. Troppe ferite impossibili da archiviare, troppi veleni ancora a intossicare un dopoguerra inquieto e tumultuoso. La situazione economica era allarmante. Lo sforzo bellico era costato un forte incremento del debito pubblico (nel 1913-1914 il deficit del bilancio dello Stato era di 214 milioni; nel 1918-1919 era arrivato alla cifra record di 23.345 milioni!); l' aumento dei prezzi e il reinserimento dei reduci - centinaia di migliaia di giovani che tornavano a casa con scarse prospettive di trovare un lavoro - alimentavano una rabbia sociale che sembrava incontenibile. Gli scioperi contro il carovita, nel giugno-luglio di quell' anno, con tumulti di piazza e saccheggi dei negozi, diedero la sensazione che la protesta potesse sfociare in una insurrezione generalizzata, alimentando la «grande paura» che il bolscevismo potesse avere successo anche in Italia. Gli avvenimenti russi del 1917 avevano infatti suscitato un' attesa «messianica» di rivolgimenti sociali. Di contro, tra i ceti medi, gli ufficiali inferiori di complemento, dopo aver assaporato l' ebbrezza dell' autorità e del comando, lasciavano a malincuore le trincee per ritornare a una vita quotidiana fatta di precarietà e incertezza. Erano convulsioni che rimbalzavano direttamente sulla politica. Le formule che avevano segnato l' età giolittiana erano tramontate e non c' era più una coalizione di partiti in grado di dare stabilità al governo, di gestire con lucidità la difficile transizione verso la pace. L' esecutivo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando, che pure godeva del prestigio derivante dalla vittoria sugli austriaci, cadde a causa delle difficoltà incontrate dalla delegazione italiana alla Conferenza di Parigi. Gli successe Francesco Saverio Nitti. Dopo l'approvazione di una legge elettorale che introduceva il sistema proporzionale, le Camere furono sciolte e si tennero le elezioni (16 novembre 1919): il vecchio blocco liberaldemocratico risultò ancora la forza politica più votata (con il 38,9% dei voti), conquistando però appena 179 deputati, quando in precedenza ne aveva 310. Si trattava di una perdita secca, che sanciva l' impossibilità di costituire una maggioranza restando all'interno del quadro politico, imperniato sui liberali, che aveva guidato il Paese per più di sessant'anni. La guerra aveva stabilito un nesso strettissimo tra la violenza e i comportamenti collettivi. Sembrava che tutti i nodi politici fossero da sciogliere affidandosi alle armi e all' uso della forza; si guardava con insofferenza alle formule della democrazia, al vecchio progetto giolittiano di «controllare» il conflitto politico, sradicandolo dalle piazze per riportarlo fisiologicamente nelle aule parlamentari. La stessa sfiducia circondava la possibilità che si potessero ristabilire normali relazioni diplomatiche tra Stati. Si cominciò a parlare di «vittoria mutilata», proprio in relazione all' insoddisfazione per come l' Italia veniva trattata alla Conferenza di pace di Parigi. La nostra delegazione si era impegnata nel tentativo di aggiungere alle conquiste territoriali già promesse dagli Alleati con il trattato di Londra anche la città di Fiume, in Dalmazia, abitata in prevalenza da italiani. La ferma opposizione delle altre potenze vincitrici indusse i nostri rappresentanti diplomatici addirittura a disertare per un breve periodo il tavolo dei colloqui. Per forzare la mano agli Alleati mettendoli di fronte a un fatto compiuto, il 12 settembre 1919 circa duemila tra «legionari» e volontari, guidati da Gabriele D' Annunzio occuparono Fiume. Lo stesso D' Annunzio assunse il comando della città, proclamandone l'annessione all' Italia. Era un gesto rivoluzionario, un' iniziativa militare illegale che lasciava presagire quello che sarebbe accaduto tre anni dopo, nel 1922: la rivoluzione che tutti si aspettavano dai comunisti e dai socialisti sarebbe venuta da destra, dai nazionalisti e dai fascisti. In quella fase, le istanze rivoluzionarie erano ancora magmatiche e confuse e intrecciavano motivi di entrambi gli schieramenti. A Fiume D' Annunzio varò una sorta di Carta costituzionale in cui si affermava, ad esempio, che «lo Stato non riconosce la proprietà come il dominio assoluto della persona sopra la cosa, ma la considera come la più utile delle funzioni sociali». L' avventura fiumana durò 15 mesi, provocò la caduta del governo Nitti che non era stato capace né di evitarla, né di reprimerla, e si concluse soltanto con il Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920, che assegnò alla città lo status di «città libera» (diventerà pienamente italiana nel 1924). D' Annunzio rifiutò di accettare quella soluzione; per costringerlo ad abbandonare la città fu necessario far intervenire l' esercito. Fiume fu bombardata e 18 gennaio 1921 D' Annunzio si arrese.
E LE LEGIONARIE ANTICIPARONO IL SESSANTOTTO. Mirella Serri per “la Stampa” l'11 settembre 2019. «Fiume è diventata un postribolo, ricetto di malavita e di prostitute più o meno high life», sosteneva indignato il presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti alla fine del 1919. Gli arditi, gli anarco-sindacalisti, i socialisti, i nazionalisti che avevano invaso Fiume, denunciava Nitti, ne avevano fatto un teatro di orge e festini a base di sesso e di cocaina. E responsabili erano soprattutto le donne di facili costumi. Il 12 settembre 1919, al seguito legionari di D' Annunzio arrivarono anche centinaia di signore e signorine la cui avventura fiumana non è mai stata raccontata: adesso viene ricostruita da Claudia Salaris nel volume Donne d' avanguardia (uscirà dal Mulino, che ora manda in libreria una nuova edizione ampliata di Alla festa della rivoluzione dedicato dalla Salaris all' impresa di Fiume). Le fanciulle che occuparono la città adriatica insieme con le milizie capeggiate da Guido Keller riflettevano le aspirazioni delle ultime generazioni femminili. Durante il conflitto mondiale le donne avevano sostituito in molti lavori gli uomini che si trovavano al fronte. E adesso si rifiutavano di rientrare tra le pareti domestiche. A Fiume arrivò un esercito di maestre, di crocerossine, di giornaliste, di scrittrici che crearono una «Città di vita», come la chiamò D' Annunzio , una «controsocietà» alimentata da progetti di ugualitarismo e di libertà.
Ma chi erano le legionarie? Erano donne spinte dal desiderio di indipendenza e di riconoscimenti, come la tredicenne Nada Bosich che lavorava alacremente per confezionare mostrine e indumenti per l' inverno, come la giornalista Bianca Flury Nencini che si occupava dei bambini fiumani, come Ebe Romano, autrice dell' Inno a Fiume, che preparava agli esami i giovanissimi soldati, o come la pianista Luisa Baccara che teneva concerti in piazza e che sviluppò con D' Annunzio la dipendenza dalle piste di «neve». O come la marchesa Margherita Incisa di Camerana che militava nei reparti di assalto. Le sostenitrici dell' impresa fiumana erano disseminate in tutta la Penisola, come la geniale Enif Robert, autrice con Filippo Tommaso Marinetti di Un ventre di donna in cui racconta la sua (immaginaria?) relazione saffica con Eleonora Duse. A Rapallo, dove il 12 novembre 1920 venne firmato il trattato internazionale che pose termine in modo drammatico alla vicenda fiumana, la Robert gettava volantini e compiva azioni provocatorie. La legionarie volevano varcare nuovi confini anche nell' ambito più intimo e privato. L' aristocratica Margherita Keller Besozzi, con lo pseudonimo di Fiammetta, fu la portabandiera delle richieste femminili in ambito erotico. «Avere il coraggio della propria sessualità e del proprio desiderio / Saper trovare l' UOMO», predicava, «prenderselo, avvincerlo, stordirlo, tenerselo / La donna di Fiume è la MADRE della donna moderna». Da vera provocatrice aggiungeva: «Sono giovane. / Fumo molte sigarette. / Me ne frego della crociata contro il lusso e porto sottovesti di seta. / Sono stata di molti uomini. / Lo confesso senza arrossire». Anche nell' abbigliamento le legionarie volevano eguagliare i maschi: indossavano casacche militari e portavano spadini sotto la giubba dove avevano ricamato: «O Fiume o morte». Le truppe del Comandante furono il laboratorio politico del Ventennio nero. Sperimentarono la politica di massa, il mito della romanità, il braccio teso e i saluti come «Eia, eia alalà», la canzone Giovinezza, il legame mistico tra la folla e il Capo. Lo spirito femminile, desideroso di libertà e di nuove regole, si rifletteva nella Carta del Carnaro, la costituzione dello Stato indipendente proclamato in attesa del ricongiungimento alla madrepatria, in cui era sancito il diritto di voto delle donne e il suffragio universale. Le legionarie pagarono anche con la vita la loro baldanza. Nel dicembre 1920, quando Fiume fu espugnata dall' esercito regolare italiano, pure le giacchette femminili si intrisero di sangue e tra le fanciulle vi furono vittime e mutilate. Ma della vicenda si perse la memoria. Non quella del gran circo fiumano che, secondo la Salaris, con la rivolta giovanile, le droghe, gli amori omo ed etero, e soprattutto con la richiesta femminile di emancipazione, anticipò la fantasmagoria ribelle degli anni Settanta.
D'Annunzio intendeva realizzare un ordine nuovo e non solo in Italia. Lo storico Gentile «liquida» la Carta del Carnaro e altre riforme. Ma il fiumanesimo era cosa seria. Giordano Bruno Guerri, martedì 20/08/2019, su Il Giornale. Non a caso derivante dalla parola volgo, per vulgata si intende la versione più diffusa di un'idea, di una concezione, di una teoria. E sradicare una vulgata erronea è uno dei compiti più difficili della storiografia e della comunicazione. La novità storiografica più rilevante del 2019, dunque, è che storici autorevolissimi stiano, giorno dopo giorno, abbattendo la vulgata di un d'Annunzio, e di un'impresa di Fiume, fascista. Per citarne solo alcuni, lo ha fatto Paolo Mieli recensendo sul Corriere della Sera il mio Disobbedisco. Cinquecento giorni di rivoluzione a Fiume. L'ha scritto di recente anche Raoul Pupo in una articolo sul Piccolo di Trieste, dopo averlo detto in un'altra conferenza al MuSa di Salò. In un'intervista al Giornale di Brescia e ancora al MuSa di Salò, nel ciclo di incontri organizzati da Roberto Chiarini, Emilio Gentile ha spiegato quanto di straordinario avvenne a Fiume nel 1920, e che d'Annunzio non fu mai fascista. Domenica scorsa, dunque, leggevo con piacere crescente l'articolo pubblicato da Gentile sul Sole 24 Ore. Il titolo, riferito a Gabriele d'Annunzio e certamente non dell'autore, era invitante quanto approssimativo: L'eroe disoccupato a caccia di emozioni. Il testo, invece, è ineccepibile quando spiega che «L'unico atto rivoluzionario compiuto in Italia nel 1919 fu l'impresa di Fiume». All'inizio, precisa Gentile, l'impresa non aveva scopi rivoluzionari, era una protesta contro la debolezza dimostrata dal governo nelle trattative di pace, che non assegnavano Fiume all'Italia. Il poeta-vate, «divenuto leggendario per le gesta compiute durante la guerra», voleva provocare la caduta del governo Nitti. Presto, però, «affiancato da una schiera di esaltati giovani legionari», creò un movimento che intendeva realizzare un «ordine nuovo» in Italia e poi nel mondo. Sarebbe stato detto «fiumanesimo». A questo punto ci si aspetterebbe che l'illustre storico racconti e spieghi qualcosa di quell'«ordine nuovo», i tentativi rivoluzionari con ambizioni mondiali non sono poi così frequenti, nella storia d'Italia. Invece Gentile conclude sibillino: «Fiume divenne luogo di straordinarie o strampalate velleità palingenetiche». La mia stima per lui non mi permette di credere che davvero abbia liquidato in quattro parole tutto quello che accadde a Fiume nel 1920: la Carta del Carnaro (rivoluzionaria in senso democratico), la Lega dei popoli oppressi (che anticipa di decenni il terzomondismo), il Nuovo ordinamento militare (che precedette di mezzo secolo un esperimento analogo di Mao Tse-tung). Voglio dunque credere che un caporedattore pazzo (ce n'è, ce n'è) per fare stare l'articolo nella pagina abbia tagliato qualche migliaio di battute nella quali l'autore dava un altro scossone alla vulgata, magari ricordando come ha fatto Paolo Mieli che i reduci fiumani dell'«Unione spirituale dannunziana» vennero perseguitati dal regime fascista, alla stregua di socialisti e comunisti. Purtroppo abbattere una vulgata è tanto più difficile quanto più è antica. Quella di d'Annunzio e di Fiume fascisti è quasi secolare, perché fu imposta da Mussolini per oltre un ventennio: la revisione storica è iniziata troppo tardi, e l'Italia democratica ha creduto e in questo caso - crede ancora al duce. È una vulgata che, per esempio, ha suggerito a (pochi) bravi cittadini di Trieste di sottoscrivere una petizione contro una statua pacificissima di d'Annunzio nella loro città. Pazienza, la statua verrà collocata, la mostra triestina dedicata all'impresa continuerà fino a novembre, un'altra se ne inaugurerà a Pescara l'8 settembre, nell'ambito di una settimana intitolata non a caso «La festa della rivoluzione». Libri sereni e seri escono uno dietro l'altro sull'impresa, e presto anche un'intera collana dell'editore Giubilei. C'è da credere, soprattutto, che darà un contributo decisivo il grande convegno internazionale «Fiume 1919-2019. Un centenario europeo tra identità, memorie e prospettive di ricerca». Si svolgerà al Vittoriale dal 5 al 7 settembre, per la prima volta anche con la partecipazione di numerosi storici croati. Ci vorrà ancora del tempo, ma la vulgata è destinata a scomparire. Del resto, c'è ancora molta gente assolutamente certa che l'incendio di Roma sia stato appiccato da Nerone.
Quell'impresa con cui d'Annunzio sognò un mondo libero e giusto. Alessandro Gnocchi, Sabato 13/07/2019, su Il giornale. Proprio all'ingresso di Disobbedisco. La rivoluzione di d'Annunzio a Fiume 1919-1920, la splendida mostra in corso a Trieste (Salone degli incanti, fino al 3 novembre) si viene inghiottiti da un treno metallico in stile futurista. Fuori, bulloni e acciaio. Dentro, velluto rosso e legno. Curata da Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale, l'esposizione è la più completa mai realizzata sulla Impresa di Fiume. L'avventura comincia nella prima sala dove è esposta la T4, la mitica automobile sulla quale il poeta guerriero giunse a Fiume per rivendicarne l'italianità e porre rimedio all'offesa della vittoria mutilata. Gli Alleati erano stati amici nella guerra e nemici nella pace, impedendo all'Italia di arrivare fino ai suoi confini storici e naturali. Duemila disertori, ai quali si uniscono volontari e avventurieri, trovano in Gabriele d'Annunzio il leader che cercano per impadronirsi di Fiume, all'epoca porto strategico nell'Adriatico. La città aveva cinquantamila abitanti, trentamila dei quali italiani. D'Annunzio, nella sua casetta rossa di Venezia, riceve i congiurati e accetta di guidare l'invasione. A bordo della T4, senza sparare un colpo, il 12 settembre 1919 il Vate entra a Fiume. Inizia così una vicenda entusiasmante ma ancora da capire, nonostante gli studi importanti di Renzo De Felice, Francesco Perfetti, Claudia Salaris e Guerri stesso (il suo Disobbedisco, che ha ispirato la mostra, è appena uscito per Mondadori). La vulgata infatti legge l'Impresa alla luce di ciò che accadrà in seguito e la cataloga alla voce fascismo o protofascismo. In realtà, ha spiegato Guerri nella affollata lectio magistralis di giovedì sera al Museo Revoltella, molti legionari confluirono nel fascismo. E molti altri furono perseguitati dal fascismo. La differenza tra fiumanesimo e fascismo è tutta nella Carta del Carnaro, la Costituzione scritta dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris e dallo stesso d'Annunzio. Guerri ha esposto a Trieste le prime pagine manoscritte con correzioni autografe. Nonostante siano poco scenografiche, hanno la stessa potenza delle uniformi di d'Annunzio, delle bandiere, dei gonfaloni o della testa dell'aquila bicipite, stemma municipale, decapitata dai legionari il 4 novembre 1919 e ritrovata nel 2017 da Federico Simonelli al Vittoriale. È nella Carta del Carnaro che la rivoluzione di d'Annunzio perde i connotati del nazionalismo puro e semplice, diventa globale e trasforma in legge l'aspirazione a una società più libera e giusta. Della Carta del Carnaro si conosce tutto. Eppure il manoscritto in mostra offre una correzione autografa illuminante. D'Annunzio pare incerto tra due definizioni del Carnaro: Repubblica, quella vincente, è scritta sopra a Confederazione. Il modello del poeta sono la Serenissima e la Svizzera dei Cantoni. Siamo lontani mille chilometri dal nazionalismo «romano e imperiale» degli anni Trenta. Nella rivista Yoga, voce dell'avanguardia più radicale del fiumanesimo, la questione è spiegata benissimo da Guido Keller e Giovanni Comisso: giusto riprendersi Fiume e possibilmente la Dalmazia ma lo spirito italico non conosce confini. Il nazionalismo, come il capitalismo, è una dottrina imposta dalle «razze del Nord» per soffocare la magnifica varietà delle città-stato italiane. Anche il Risorgimento finisce sotto accusa. Non perché fosse sbagliato in sé. Ma perché ha preteso di centralizzare tutto e di cancellare le antiche autonomie. Il fiumanesimo invece vuole preservarle e incoraggia la formazione di una società multietnica e multiculturalista. Questa minuscola correzione, da sola, vale il viaggio per vedere l'esposizione. Questa minuscola correzione, da sola, copre di ridicolo chi ha sollevato polemiche da analfabeti sulla opportunità di fare una mostra su Fiume e dedicare una statua a Gabriele d'Annunzio (che va ad aggiungersi a quelle di Saba, Svevo e Joyce). Gli analfabeti si tengano pronti. Guerri ha infatti annunciato in conferenza stampa che il prossimo progetto sarà un museo del fascismo a Salò. Significa colmare un vuoto inspiegabile o meglio spiegabile con la cappa di conformismo che ha quasi ucciso la cultura italiana. Di recente il Vittoriale ha restaurato migliaia di lastre fotografiche. Sono quindi inedite e documentano la vita di tutti i giorni di una città sotto assedio ma entusiasta. I discorsi in piazza, gli arditi, d'Annunzio che brinda con il famigerato cherry ribattezzato «Sangue Morlacco», la squadra di calcio in maglia azzurra con scudetto tricolore sul petto (sì, la maglia della nazionale italiana nasce a Fiume), lo Stato maggiore al completo con belle signore e d'Annunzio che fa le linguacce, tantissime donne, che avevano un posto d'onore non solo nel cuore di d'Annunzio. La Carta del Carnaro, infatti, concedeva loro non solo il suffragio ma anche la eleggibilità a qualsiasi carica. Quando si esce dal treno futurista alla luce abbagliante di una Trieste bella da straziare il cuore, ci si imbatte nella gigantesca bandiera donata a d'Annunzio nel 1916 dalla triestina Olga Levi Brunner. Il poeta le promise che, dopo la liberazione della città, avrebbe issato il vessillo sul campanile di San Giusto. Nel 1917 fu stesa sul corpo e sul feretro del maggiore Giovanni Randaccio. La bandiera insanguinata divenne un simbolo. Nel maggio 1919, d'Annunzio la dispiegò al Campidoglio come testimonianza dei caduti per annettere le terre adriatiche. A Fiume fu esposta più volte durante i discorsi pubblici del poeta. Infine, al termine dell'impresa, dopo il Natale di sangue del 1920, quando Giovanni Giolitti ordinò all'esercito di attaccare d'Annunzio, la bandiera fu srotolata per coprire i cadaveri dei legionari italiani uccisi dall'esercito regolare italiano. Ora, finalmente, la bandiera è tornata a casa.
Macchè fascista!, il "federalismo" lo inventò lui. Quell’utopia sociale chiamata Fiume. Niccolo Lucarelli il 25/07/2019 su Il Giornale Off. Su Gabriele D’Annunzio, poeta, soldato, pensatore, dandy, uomo politico a tempo perso, aleggia ancora oggi un’aura di leggenda, così come di controversa interpretazione letteraria e ideologica. Un dibattito mai sopito, che torna alla ribalta con l’occasione del centenario dell’Impresa di Fiume; Enrico Serventi Longhi – professore di Storia Contemporanea alla Sapienza di Roma -, ne propone una lettura inedita inquadrata nel contesto sociale e politico dell’Europa dell’epoca, sottolineandone gli elementi di novità, anche grazie allo studio di documenti mai esaminati prima, e chiarendone le distanze e le differenze con il Fascismo. Il faro del mondo nuovo (Gaspari Edizioni, 192 pagine, 18 Euro) è la sua ultima fatica letteraria che, lontana da ogni trionfalismo retorico, affidandosi al rigore storico, confuta pregiudizi e cattive interpretazioni del pensiero del Vate e, nel bene e nel male. Restituisce al lettore contemporaneo il significato di quei cinquecento giorni, anche analizzando le voci dei tanti militari che vi presero volontariamente parte. Il volume è anche un approfondito studio sull’organizzazione delle truppe e le motivazioni che le spinsero a fare causa comune con D’Annunzio. Alla base dell’esperienza fiumana, non c’era soltanto l’istintuale prevalere di sensazioni e apparenze sui concetti, la ragione e la morale, che Benedetto Croce rimproverava al Vate già nel 1904. L’importanza del lavoro di Serventi Longhi sta appunto nell’inquadrare l’impresa dannunziana a Fiume all’interno di un pensiero socio-politico innovatore, con l’accortezza storica di chiarire l’equivoco delle relazioni fra questa e il Fascismo: fu quest’ultimo che si appropriò di rituali, motti e concetti ideati da D’Annunzio, per accreditarsi agli occhi degli italiani con una base anche intellettuale e rafforzare il culto dell’italianità guerriera. Fu questa appropriazione che, nel corso dei decenni, ha avvalorata la tesi di D’Annunzio fascista, e a relegare l’Impresa di Fiume fra gli atti anticipatori del regime. Un’ottica errata e fuorviante, che oltretutto limita il più ampio punto di vista del Vate. A Fiume, D’Annunzio immaginò di costruire una società nuova, dando all’impresa non soltanto un carattere nazionalista, ma anche sociale, con l’obiettivo di ampio respiro di “rigenerare le istituzioni e la società italiana al di fuori dei partiti”, utilizzando Fiume come una sorta di laboratorio da cui far partire una vera rivoluzione. Di particolare interesse la rilettura che Serventi Longhi fornisce della Carta del Carnaro, la costituzione fiumana stesa da De Ambris ma corretta dallo stesso Vate, il cui intervento non fu puramente legato allo stile e alla grammatica, ma ebbe carattere sostanziale, perché lasciava da parte i riferimenti alla democrazia diretta e stemperava il concetto di autonomia locale con la vaga formula della “libertà comunale”, importante tassello della comunità nazionale, all’interno della quale l’istruzione doveva essere pubblica e gratuita per tutti, e che avrebbe dovuto fondere “l’insegnamento umanistico, artistico e tecnico entro i confini del culto della Nazione”; si ha quindi la compenetrazione fra istruzione scolastica e addestramento militare, già teorizzata prima della guerra, ma da nessuno tradotta in formula politica. Inoltre, grazie al ruolo riconosciuto alle corporazioni, le categorie produttive assumevano un ruolo importante all’interno dello Stato, una novità assoluta nell’Europa moderna, che poi il Fascismo tenterà senza molto successo di fare propria. Il bel volume di Serventi Longhi – accuratamente documentato e scritto con quell’asciuttezza di linguaggio che dovrebbe essere propria di qualsiasi storico -, contribuisce a fare chiarezza su una questione che ancora oggi divide l’Italia.
Niccolo Lucarelli. laureato in Studi Internazionali, è critico d’arte e di teatro per varie testate di settore, e saggista di storia militare per lo Stato Maggiore dell’Esercito. Svolge anche attività di curatore indipendente in Italia e all’estero.
Adriano Scianca per “la Verità” il 2 agosto 2019. Il centenario dell'impresa fiumana con cui, nel 1919, Gabriele D'Annunzio cercò di annettere all' Italia la città dalmata che, al termine della grande guerra, era stata assegnata al neocostituito Regno dei serbi, croati e sloveni, ha un non secondario effetto positivo: far riscoprire tutta una serie di eccezionali storie nella storia. Sono tantissimi, infatti, i libri sulla Reggenza del Carnaro - così si chiamava il mini Stato instaurato dal Vate - ultimamente ristampati da grandi e piccole case editrici, molto spesso scritti dai protagonisti di quell'epopea. E, fra di loro, si trovano fior di personaggi incredibili, con vite originalissime e percorsi umani e intellettuali che non sfigurerebbero in un film. Un caso tipico è quello di Giovanni Host-Venturi, di cui la casa editrice Aspis ha appena ripubblicato L' impresa fiumana. Già ideatore della Legione volontari fiumani, lui, che nella città dalmata ci era nato, fu tra i principali ideatori e organizzatori della marcia di Ronchi che portò all'occupazione di Fiume da parte del Vate. Ma la parentesi fiumana è solo una parte della avventurosa vita di Host-Venturi, che qualche anno dopo si ritroverà in Argentina a fare da consigliere a Juan Domingo Peron e a vivere in famiglia il dramma dei desaparecidos. Un uomo, quindi, che ha attraversato tutto il Novecento, vivendone sulla propria pelle tutti gli entusiasmi, gli eroismi, le tragedie e i dolori. Ma andiamo con ordine. Host-Venturi nasce a Fiume, il 24 giugno 1892. Il cognome originale è Host-Ivessich, cambiato durante la prima guerra mondiale perché gli austriaci fucilavano immediatamente i loro sudditi che combattevano per l' Italia, rifacendosi anche sulle famiglie. Alla grande guerra partecipa da volontario, con il grado di capitano degli alpini e poi degli arditi, guadagnandosi tre medaglie d' argento al valore. Dopo il conflitto sembra quasi naturale per lui, fiumano di nascita, partecipare all' avventura di D' Annunzio. Durante la reggenza dannunziana, l' ex combattente auspica un colpo di mano che si estenda a tutta l' Italia, fino a coinvolgere il re in persona. Ma il piano è nebuloso e velleitario: il poeta soldato preferisce seguire i consigli del più assennato Giovanni Giurati e lascia cadere le tesi radicali di Host-Venturi. Dopo il conflitto, aderisce al fascismo, prima con qualche intemperanza, poi, dopo la marcia su Roma, allineandosi alle direttive di Benito Mussolini, che chiedeva una Fiume pacificata e che non creasse problemi diplomatici con gli iugoslavi. Nel gennaio 1923 divenne capo della Milizia nazionale fiumana, dal 1925 al 1928 diresse la segreteria della Federazione fascista di Fiume e fu commissario straordinario di quella di Pola. Fu consigliere nazionale del Partito nazionale fascista e, dal 1934 al 1935, membro della Corporazione della previdenza e del credito; dal gennaio 1935 all' ottobre 1939, fu sottosegretario alla Marina mercantile presso il ministero delle Comunicazioni, di cui poi divenne ministro. Ostile all' ordine del giorno Grandi, aderì alla Repubblica sociale italiana, pur non ricoprendo cariche né posti di rilievo. Alla fine della guerra preferì abbandonare l' Italia. Come molti ex fascisti, sceglie il Sudamerica per rifarsi una vita. Argentina, nel suo caso. Ma non abbandona la passione per la politica. Così, nel 2013, il giornalista Giorgio Ballario, sul sito Barbadillo.it, ricostruiva questo nuovo capitolo della vita di Host-Venturi: «In una recente intervista a un quotidiano argentino, l' avvocato Leonardo Gigli, che durante la Seconda guerra mondiale aveva combattuto agli ordini di Host -Venturi, racconta che l' ex capitano degli arditi e comandante della Legione fiumana si era incontrato più volte con il presidente Peron, suggerendogli di creare delle zone franche industriali a Bahia Blanca e Rosario per favorire lo sviluppo economico del Paese. Un progetto che incontrò un certo gradimento nel governo peronista, anche se non venne mai concretamente realizzato». L' ex combattente - che nel 1976 aveva pubblicato presso Giovanni Volpe le sue memorie fiumane, ora ristampate da Aspis - morirà suicida a Buenos Aires, il 29 aprile 1980. Dietro il gesto estremo, probabilmente, il dolore per la sorte del figlio Franco. Nato a Roma nel 1937, Franco Host-Venturi era emigrato in Argentina col padre a soli undici anni. Secondo Ballario, Franco, conosciuto anche come Nino, «fin da ragazzo aveva militato nella Juventud Peronista e successivamente era confluito nelle Fap (Fuerzas Armadas Peronistas), una frazione guerrigliera attiva nei primi anni Settanta a Buenos Aires e nelle principali città argentine». Era un artista, pittore e vignettista, entrato a far parte del «Grupo Espartaco» (1959-1968), un movimento artistico argentino dalle forti connotazioni sociali. Franco Host-Venturi partecipò a mostre contro la guerra in Vietnam e per Ernesto Che Guevara. La sua ultima mostra fu un omaggio al Cordobazo, una insurrezione popolare avvenuta nel Paese nel 1969. Poi il primo arresto, nel 1972. Grazie all' amnistia del 1973 tornò in libertà, ma nel 1976, a Mar del Plata, fu sequestrato da una banda paramilitare. Dopodiché non se ne seppe più nulla. Fu il primo artista desaparecido in Argentina. «Anche io fui arrestata», ha ricordato qualche anno fa a Repubblica la moglie Mabel Greemberg, «ero incinta del secondo figlio che nacque in carcere, e non ha mai conosciuto suo padre». Per poi aggiungere, con tragico presentimento: «Forse me l' hanno buttato a mare da un aereo, ancora vivo». Nel 2004, l' allora sindaco di Roma, Walter Veltroni, promise di inaugurare una scuola alla memoria di Franco Host-Venturi. Non sappiamo che fine abbia poi fatto quel progetto.
D’Annunzio cento anni dopo Fiume. Influenzò Malraux, Mann, Pasolini. Pubblicato giovedì, 29 agosto 2019 da Pier Luigi Vercesi su Corriere.it. Stenderne i difetti al sole e attendere che con il tempo evaporino lasciando un’essenza feconda sul fondo, come accade per molti scrittori, filosofi e politici, con Gabriele d’Annunzio non funziona. Innanzitutto occorrerebbe una piazza d’armi per contenerli tutti, i difetti. In secondo luogo, operò per tutta la sua lunga esistenza per mostrarsi umanamente peggiore di quanto in realtà fosse. Era un intento dichiarato. Non voleva forse essere l’inimitabile? Il superuomo che lascia traccia di sé scandalizzando la borghesia provinciale che l’ha generato, prosperando sui grandi spazi, le speculazioni e gli intrallazzi inaugurati dalla freschissima Unità d’Italia? In un progetto di vita simile, o diventava (cinicamente) un novello San Francesco, ma i lombi che l’avevano generato gli avevano trasmesso altre impellenti necessità, o si modellava in proprio. Creava, appunto, Gabriele d’Annunzio. Ci riuscì forzando sempre il destino, come un Alfieri legato alla sedia che si costringe a non demordere, come una personalità disturbata che trae dai propri stati depressivi la forza inumana di dispiegare allo zenit la capacità creativa di cui era indubbiamente superdotato. Esce in libreria giovedì 5 settembre il libro di Maurizio Serra, «L’Imaginifico. Una vita di Gabriele d’Annunzio» (Neri Pozza, pagine 720, euro 25)Ma l’Imaginifico (con una «m» sola) è infinite altre cose, è un tassello ineludibile del mosaico novecentesco, anche se la prima metà della sua vita, quella più da rotocalco, l’ha vissuta nel secolo precedente. L’Imaginifico è il titolo della biografia, anzi, di Una vita di Gabriele d’Annunzio, come recita il sottotitolo, in libreria il 5 settembre per i tipi di Neri Pozza nel centenario dell’impresa di Fiume. L’autore è Maurizio Serra, diplomatico di carriera, raro esempio di intellettuale italiano di respiro internazionale incapace di farsi imbrigliare nelle combriccole provinciali. Nato a Londra nel 1955, Maurizio Serra è diplomatico e scrittore, autore di diverse opere di storia e di letteratura. Per anni ha studiato senza preconcetti il modello umano di «esteta armato» che ha infiammato l’immaginario europeo nei primi quarant’anni del secolo scorso. Il suo D’Annunzio sfugge così agli schemi rigidi di chi, di volta in volta, ne ha estrapolato l’esistenza di letterato, di esteta, di politico, di principe rinascimentale, di esiliato in riva a un lago dorato. L’Imaginifico di Serra è un fenomeno sociale, un modello antropologico, un fermento rivoluzionario paludato in epiteti medievaleggianti, una sedimentazione di Goethe e di Nietzsche. Senza di lui è impossibile comprendere i Lawrence d’Arabia, gli André Malraux, gli Antoine de Saint-Exupéry, la guerra di Spagna, il fascismo e l’antifascismo, il nichilismo in salsa occidentale. Persino, azzarda Serra, Thomas Mann o Pier Paolo Pasolini. D’Annunzio è il latino che si è posto al di là del bene e del male, pensiero calato dalle brume nordiche, reinventato però a modo suo. Nella mente di D’Annunzio, «il passato non val più nulla, né vale il presente. Il presente non è se non lievito». Il poeta fregia la bandiera del XIII reparto d’assalto della medaglia di Ronchi il 29 maggio 1920Quando smembrarono la Capponcina, la villa dove abitava presso Firenze, per saldare i suoi debiti, si rammaricò di non aver avuto l’opportunità di far avvampare nel fuoco, con le proprie mani, quel mondo già andato, su cui non avrebbe più calcato un passo. Fu dunque un immanente adolescente. La sua fu una vita vissuta perennemente allo stato nascente, ciò che si sperimenta nell’innamoramento, ma che poi, fortunatamente, si consolida in altro. Ciò che d’Annunzio non comprese fu la deriva in cui sarebbe stato trascinato dal fascismo e dal nazismo. La sopraffazione, il razzismo, l’abominio, la depravazione, che è un gioco da ragazzi estrapolare dalla sua opera, anche se simili comportamenti umani (al di là della propaganda facinorosa cui si lasciò andare nei confronti dei nemici politici) non gli corrispondevano. Ne I sette Pilastri della saggezza, il colonnello Lawrence ammonisce: «Tutti gli uomini sognano ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte nei polverosi recessi delle loro menti, scoprono al risveglio la vanità di quelle immagini. Ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi per sé e per gli altri, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti per attuarlo». Pensava a sé e svelava d’Annunzio, la cui opera è stata ufficialmente riposta nella soffitta del bric-a-brac, insieme alle imprese amorose e agli oggetti accatastati al Vittoriale, salvando nelle antologie scolastiche solo Alcyone (non se ne poteva fare a meno) e La figlia di Jorio (sfugge agli schemi dannunziani). Poi, come accade in Italia, chi ha tanti detrattori, per contrappasso accumula ciechi sostenitori. D’Annunzio, però, non è Fausto Coppi e Serra, stendendo i panni sporchi dell’Imaginifico, lo riporta alla luce del Sole.
· Mussolini campione di bluff?
Mario Ajello per il Messaggero il 13 dicembre 2019. Il mito di Roma e i gatti di Roma. La costruzione urbanistica e architettonica dell' Urbe come grande metropoli moderna, ma capace di essere ordinata e potente come era stata ai tempi di Augusto, e l' attenzione ossessiva al decoro quotidiano di questa città anche nei suoi dettagli più minuti. Mussolini dal suo studio di Palazzo Venezia mandava circolari, note, raccomandazioni su Roma a getto continuo, dava ordini e suggerimenti tecnici («Va tolto di mezzo quell' orrendo carciofo che deturpa l' estetica del centro della città per pubblicizzare il ristorante Piperno a Montecenci») e s' interessava quotidianamente al destino e alla vivibilità della Capitale come vetrina del regime e della nazione. Anche tramite sfuriate al governatore capitolino se gli accattoni che aveva detto di sloggiare restavano lì e se la colonia felina che infesta e deturpa il Foro di Traiano non veniva immediatamente rimossa. «Nonostante i miei solleciti, mi dicono che i gatti sono ancora lì, torno a pregarvi di provvedere subito alla rimozione, anche tagliando l' erba sotto i monumenti per impedire che i gatti tornino». Perfino su se stesso non era tenero, quando si trattava dell' Urbe: quando vedeva i manifesti Dux, se avanzo seguitemi affissi su edifici pregiati del centro, ne disponeva la rimozione istantanea.
L' APPROCCIO. Affinché il volto della città si presentasse al meglio, agli occhi dei cittadini e del mondo, Mussolini era insomma un pungolo, un martello. Questo approccio all' ordinaria amministrazione, che oggi verrebbe da definire invidiabile, s' intrecciava con una visione di grandezza e di messaggio universale che - dal Foro Mussolini all' Eur, dalla costruzione della città universitaria affidata al team di Piacentini a tutto il resto che durante il Ventennio trasformò straordinariamente la città facendola diventare la passione di Le Corbusier ha invitato da Massimo Bontempelli arrivò nel 34 a omaggiare i nostri architetti, oggetto di visita e di culto degli studiosi sovietici e dei migliori specialisti anglosassoni, coacervo di tradizione e modernità impensabile altrove - il Duce sintetizzava così: Roma è una parola chiara. Un segno che esprime un concetto preciso. Una delle forme del carattere: la forza cosciente. Questa epopea, che molto dovrebbe parlare all' oggi e speriamo che riesca a farlo, è raccontata in uno dei libri più completi e documentati su La Roma di Mussolini (Newton Compton). Opera di Paolo Sidoni, storico, documentarista, collaboratore dell' Istituto Luce, dell' Istituto studi storici europei, di BBC History Italia. E dall' immensa mole di carte d' archivio degli Anni '20 e '30 che l' autore ha consultato emerge, oltre al pensiero fisso di Mussolini su Roma che produsse leggi speciali e stanziamenti continui da parte del ministero dell' Interno e di quello dell' Economia per la Capitale e per l' agro romano, il ricorrente uso dell' aggettivo «moderno» da parte dei politici, dei tecnici, degli architetti, degli urbanisti intenti a riflettere e ad agire per questa città.
LA COMPETIZIONE. Roma doveva prepararsi, ecco quando si dice visione, alla modernità dello sviluppo demografico, della motorizzazione di massa, della competizione internazionale ad alto livello che era rappresentata, negli altri, dal monumentalismo in auge in Francia, in Unione Sovietica, negli Stati Uniti. Basti pensare che nel 1932 a Roma circolano 16.417 automobili ad uso privato, quasi il doppio rispetto al 27 e quasi sei volte di più rispetto al 22, e la costruzione della città moderna si coniuga anche al processo di motorizzazione che stava portando l' Italia negli Anni '30 ad occupare il quarto posto nella classifica dei Paesi europei dal punto di vista delle quattro ruote. La modernità - fatta di razionalismo, futurismo e grande inventiva - ha bisogno di spazio. Ma c' è anche la tradizione come stella polare della nuova Roma. Si è sempre parlato degli sventramenti, ma come scrive nel suo libro Sidoni: Il quadrilatero di nuove strade comprese tra Piazza Venezia, i Fori, il Colosseo, l' Arco di Costantino, i resti dei palazzi degli imperatori sul Palatino, il Circo Massimo, il Foro Boario, il Teatro di Marcello e il Campidoglio crea una passeggiata archeologica suggestiva come nessun' altra al mondo. Politica dello spettacolo? Non solo. E c' è un elemento importante in queste pagine. Che va ricollegato al credito personale e politico di cui Mussolini godeva nel mondo anglosassone. In parte la realizzazione della Roma fascista si deve al governo e alle banche americane. Una quota dei milioni di dollari versati dagli Usa all' Italia, dopo la prima guerra mondiale, andò a finanziare la municipalità di Roma. Linee di credito vennero offerte al Campidoglio per la realizzazione delle opere pubbliche di ammodernamento della città. Dell' eccellenza degli architetti, urbanisti e artisti coinvolti nella ricostruzione di Roma durante il fascismo, inutile dire: si tratta di Piacentini, Foschini, Brasini, Bazzani e dei più giovani come Libera, Ridolfi, Nervi, Piccinato, Mazzoni. Quando si trattò di organizzare nel '28 al Palazzo delle Esposizioni la mostra della Rivoluzione Fascista, in cui Roma voleva sintetizzare la sua forza creatrice, i curatori furono personaggi così: da Sironi a Prampolini, da Libera a Dottori, da Marcello Nizzoli a Mino Maccari, da Libera a Amerigo Bartoli.
LA SAPIENZA. L' eccellenza della Capitale troverà del resto una conferma dopo il fascismo nell' impossibilità per esempio di sbarazzarsi per motivi politici della sapienza di Piacentini, di Foschini e di altri come loro che avevano avuto un' idea di Roma e l' avevano messa in pratica. Non ci fu epurazione che seppe spegnere la sapienza. E non riuscì come si sperava la damnatio memoriae, anche se il Pci - nel momento stesso in cui accoglieva molti intellettuali che erano stati nel fascismo o con il fascismo - faceva per esempio scrivere all' Unità: Bisogna eliminare ogni simbolo del regime anche spandendo uno strato di catrame sui mosaici del Foro Italico e scalpellando via dal monolito la scritta Mussolini Dux prima di abbattere la colonna. Ancora qualcuno abbocca a questo delirio ideologico. Ma già da tempo i più attenti e più onesti conoscitori della materia, i veri studiosi insomma, e i cittadini consapevoli hanno laicamente constatato anche con un certo orgoglio non riconducibile a motivazioni politiche l' eccellenza edificatoria del Ventennio.
Salone del Libro: fuori Altaforte, casa editrice vicina a CasaPound. Pubblicato mercoledì, 8 maggio 2019 da Corriere.it. Altaforte fuori dal Salone del Libro di Torino. La decisione è arrivata alla vigilia della inaugurazione della buchmesse torinese e dopo una lunga giornata di trattative. Decisiva la posizione di Halina Birenbaum, sopravvissuta ad Auschwitz, scrittrice, traduttrice e poetessa, nata a Varsavia nel 1929, e oggi residente a Herzliya, in Israele. 90 anni, sulla presenza della casa editrice vicina a CasaPound non ha avuto dubbi fin dall'inizio: «O noi, o loro». Così come ha scritto anche il Treno della Memoria in un post su Facebook. Sergio Chiamparino, Chiara Appendino e Nicola Lagioia in diretta facebook hanno annunciato la decisione tutta politica, come ha precisato il presidente della Regione Piemonte, di tenere Altaforte fuori dalla buchmesse torinese. «È una scelta politica di cui ci assumiamo tutta la responsabilità non potevamo permettere che certe ideologie entrassero in un Salone fortemente orientato ai temi dell'antifascismo vista anche la coincidenza del centenario dalla nascita di Primo Levi». Birenbaum, intervistata dal Corriere Torino, aveva spiegato che sarebbe andata al Salone del Libro per portare la sua testimonianza ma che l'avrebbe fatto fuori dai padiglioni del Lingotto.«È un fatto molto grave. Con i fascismi con si scherza In genere si muore - le sue parole - Io ci sarò per testimoniare quella tragedia. In fiera ci sarà la casa editrice di estrema destra, e io a 90 anni, ultima sopravvissuta dei campi di sterminio, preferisco rimanere fuori. Spero che qualcuno capisca cosa significhi davvero questo mio gesto. E si faccia un esame di coscienza. E magari cambi idea». Così è stato. E proprio questa mattina, mercoledì 8 maggio, la Procura di Torino ha aperto un’inchiesta contro Francesco Polacchi, fondatore della casa editrice Altaforte. Il fascicolo è aperto per apologia del fascismo e Polacchi è stato iscritto sul registro degli indagati. L’inchiesta è partita dopo che il fondatore di Altaforte ha rilasciato alcune interviste in cui ha detto: «Sono fascista e Mussolini è un grande statista italiano». In un’altra occasione ha aggiunto: «L’antifascismo è il vero male di questo Paese». Il Comune di Torino e la Regione hanno depositato un esposto in Procura contro Polacchi per le sue esternazioni.
“MUSSOLINI? GRANDE STATISTA, LO DISSE PURE GANDHI”. Da “la Zanzara – Radio 24” l'11 maggio 2019. “Mussolini? E’ stato un grande statista, l’ha detto Churchill, quindi io non faccio che inchinarmi. Pure Ghandi disse qualcosa di molto positivo su Mussolini. Che sia stato uno dei più grandi statisti italiani è una cosa oggettiva, credo”. Lo dice a La Zanzara su Radio 24 l’assessore all’Istruzione della Regione Veneto Elena Donazzan. “L’economia con lui crebbe – continua - ci furono grandi opere infrastrutturali, ci furono tutte le azioni sociali…e pensate che non mi sono neanche fumata una canna”. “Trovo assurdo – dice ancora – dirsi fascista oggi. Poi qualche errore il Duce lo ha commesso, le leggi razziali su tutto. Ma resta nel mio cuore, resta nel cuore e nella testa della mia famiglia. Io vengo da una famiglia di militari che fecero la scelta di rimanere nel giuramento che fecero prima della guerra. E quindi io amo la mia famiglia prima di tutto. I partigiani? Come in ogni guerra civile che è forse la peggiore delle forme di guerra hanno fatto cose allucinanti, quando parliamo di partigiani rossi. Quelli bianchi erano tutt’altro, però si fa ancora fatica a distinguere tra partigiani bianchi e rossi”. Poi attacca i negozi che vendono cannabis legale: “Quello che propone Salvini l’ho già proposto io in Veneto. Questi negozi spacciano morte. E sono addirittura tutelati da questo perbenismo per cui se ho un negozio e si vende qualcosa vuol dire che non fa tanto male e posso andarlo a comperare anch’io. Questo è il meccanismo perverso dei negozietti aperti lì davanti a tutti con ragazzi che vanno e che vengono. Vanno proprio chiusi”. Volete chiudere un’attività economica: “Possiamo fare di meglio ed aprirne delle altre. La canna, la cannabis è una forma di evasione scelta da chi consapevolmente decide che si deve sballare e deve prendersi della droga. Chi si fa una canna è un coglione perchè non ha la forza né il coraggio di guardare in faccia le cose. Oggi ci sono i ragazzini che la mattina vanno a scuola con dentro lo zainetto e insieme all’astuccio hanno lo spinello. Tutti gli studi dicono che parti dallo spinello e puoi finire con droghe pesanti”. Ma nel campo della cannabis legale ci sono 10mila persone impiegate: “Le riqualificheremo. E’ come l’eternit. Sono attività che stanno facendo danni ai nostri giovani”.
Da Il Fatto Quotidiano del 20 aprile 2015. Mussolini campione di bluff. Le bugiarde vanterie del fascismo. Pubblicato venerdì, 05 aprile 2019 da Corrado Stajano su Corriere.it. Sembra un ritornello inestirpabile del modo di pensare di una certa comunità nazionale il titolo di questo libro di Francesco Filippi, Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo. Pubblicato da Bollati Boringhieri, con una prefazione di Carlo Greppi, lo studio di Filippi è di grande attualità. Non soltanto a causa delle balordaggini del presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani: «Mussolini? Fino a quando non ha dichiarato guerra al mondo intero seguendo Hitler, fino a quando non s’è fatto promotore delle leggi razziali, a parte la vicenda drammatica di Matteotti, ha fatto delle cose positive per realizzare infrastrutture nel nostro Paese, le bonifiche, altro». Francesco Filippi, «Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo», con prefazione dello storico Carlo Greppi (Bollati Boringhieri, pagine 131, euro 12) Una specie di Dizionario dei luoghi comuni, protagonista il fascismo, resiste da più di settant’anni in questa infelice Italia, la sua parte più incolta, almeno. Adesso, a causa degli anniversari — il 1919, la fondazione dei Fasci di combattimento in piazza San Sepolcro a Milano — e di un clima politico benevolo verso quel passato creato da Salvini, dalla sua Lega e da un governo autoritario e xenofobo che sembra voglia cancellare ogni spirito di uguaglianza e di umanità, il concetto di Mussolini, il dittatore buono del Novecento, viene riproposto con tutta la sua falsità. Aveva ragione Cesare Garboli quando nelle pagine del suo Ricordi tristi e civili, scriveva quasi vent’anni fa di un fascismo di ritorno, un fascismo che non si è mai sentito sconfitto? «Tristemente minacciosa è la rinascita o lo sdoganamento di un male forse geneticamente inseparabile dalla natura degli italiani (i quali, per atavica sindrome imperiale, si sentono fascisti non appena si sentono italiani)». Questo di Francesco Filippi non è un saggio militante, una lezione, piuttosto, sul nostro passato che non passa. L’autore del libro è un analista e anche un archivista. Con una documentata ricerca sa spiegare quel che accadde nel ventennio a chi non sa o non vuol sapere. Quante bufale, quante leggende, o meglio fake news, come si usa dire oggi, quante immeritate medaglie al valore sul petto del caporal maggiore dei bersaglieri Benito Mussolini. Diede la pensione agli italiani, si proclama. Peccato che i lavoratori ebbero diritto alla pensione dal 1919, con garanzie previdenziali fin dai tempi del governo Crispi, nel 1895. Debellò le paludi, si usa dire. Ma già prima della marcia su Roma furono venti i regi decreti che diedero vita ai consorzi di bonifica. Il duce seguitò nel lavoro fatto da altri nell’Italia unita. La propaganda, reboante, quella sì, fu il suo forte. Mussolini diede la casa agli italiani, si usa anche dire. Peccato che non sia stato così: la legge sulle case popolari è del 1903: Luigi Luzzatti, deputato della destra storica, ne ebbe il merito: i fascisti furono sempre abili nell’appropriarsi delle idee di chi li aveva preceduti, gli uomini della fragile democrazia, i politici dell’odiata «aula sorda e grigia» di Montecitorio. Su Mussolini urbanista, regista del piccone, non si sa se ridere o piangere. Basta leggere il saggio di Antonio Cederna sugli sventramenti degli anni del consenso. Donò agli italiani le autostrade? Ci si è dimenticati, scrive Filippi, dell’ingegner Piero Puricelli che nel 1921 ne ebbe l’idea. (Mussolini tagliò poi i nastri). Il Duce e i suoi gerarchi integerrimi? Una bugia grande e grossa. Ville, castelli, tangenti, ricchezze nate dal nulla, donazioni statali ingenti, un vivere poco sobrio, altro che liberazione dal «sistema corrotto dell’Italia liberale». I diritti sui possibili giacimenti petroliferi nella pianura padana e in Sicilia dell’azienda Sinclair Oil costarono forse la vita a Giacomo Matteotti che possedeva le prove della corruzione. Come dimenticare il famoso discorso del duce alla Camera del 3 gennaio 1925, dopo l’assassinio, l’anno prima, del deputato socialista e il fallimento politico dell’opposizione aventiniana: «Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere». Fu il vero inizio della dittatura. (Bellissimi i capitoli che Antonio Scurati ha scritto sul delitto Matteotti nel suo M. Il figlio del secolo). Un recente saggio di Mauro Canali e Clemente Volpini, Mussolini e i ladri di regime, è dedicato proprio alle ruberie dei gerarchi. L’economia, poi. Le imposte sempre più alte, l’utilizzazione delle riserve auree della Banca d’Italia, le ingenti spese fatte per la politica militare, la missione in Spagna contro il governo legittimo, la spedizione in Albania per ingrandire il regno, sono gli altri simboli del regime che, con l’occupazione feroce e costosa dell’Etiopia, non portarono certo benessere. «Italiani brava gente» è un altro slogan. Non fu così, in Libia, in Croazia, in Grecia. Ci siamo dimenticati i gas asfissianti usati in Etiopia — iprite, arsine, fosfene — e la micidiale bomba c-500-T, goccioline corrosive e mortali dall’odor di senape, che fece migliaia e migliaia di vittime innocenti? Il colonialismo italiano. La conduzione fallimentare della Seconda guerra mondiale, 472 mila morti militari e civili, la campagna di Russia con indosso leggeri cappotti autarchici e scarpe di cartone fabbricate così a causa di altre ruberie sono altri segni di un regime fallimentare e suicida. (Fondamentali i libri di Nuto Revelli per capire quale tragedia fu la ritirata di Russia). Mussolini condottiero? Fece una grande carriera militare al di là dei quadri di avanzamento. Inventò il grado di primo maresciallo dell’Impero che lo mise alla pari del pavido re, traditore dello Statuto del regno, che subì, con qualche flebile lamentela, anche quella diminutio. Alla rinfusa, poi, il mito della razza italiana, le «leggi razziste prima delle leggi razziali», Farinacci che a Cremona, con il suo «Regime fascista», creò un covo di miserabile antisemitismo, popolato da ignobili personaggi amati dai nazisti. «Il razzismo antiebraico», scrive Filippi, «che venne ufficializzato con le leggi razziali non fu il primo passo, ma solo una delle molte tappe del cammino razzista del totalitarismo italico». Uno dei temi più approfonditi nel Gran Consiglio del fascismo fu la necessità di una coscienza razziale. (I migranti sono diventati ora i nuovi ebrei?) Il duce amava gli italiani, si dice ancora. «Per il duce», scrisse Ciano nel suo diario, «la razza italiana è una razza di pecore. Non bastano 18 anni per trasformarla. Ce ne vogliono centottanta o forse centottanta secoli». Perché tanti decenni dopo è rimasta, in una parte della società, la peggiore, questa falsa idea del fascismo? La scuola non ha contribuito a spiegare ciò che allora accadde; una certa politica, anche oggi, accarezza quella visione del mondo; mancò una vera defascistizzazione che in Germania, anche se in ritardo, ci fu. Siamo così costretti a sentire baggianate che violano la storia, in un momento difficile e pericoloso per una società che avrebbe gli strumenti, le energie positive, per progredire. Ma ha bisogno di ponti di una limpida politica.
E Antonio Tajani elogia Benito Mussolini: "Ha fatto cose positive". Così il presidente del Parlamento Europeo intervistato a La Zanzara su Radio 24, scrive il 13 marzo 2019 La Repubblica. "Mussolini? Fino a quando non ha dichiarato guerra al mondo intero seguendo Hitler, fino a quando non s'è fatto promotore delle leggi razziali, a parte la vicenda drammatica di Matteotti, ha fatto delle cose positive per realizzare infrastrutture nel nostro paese, poi le bonifiche. Da un punto di vista di fatti concreti realizzati, non si può dire che non abbia realizzato nulla". Così il presidente del Parlamento Europeo, Antonio Tajani, a La Zanzara su Radio 24. E ancora: "Poi si può non condividere il suo metodo. Io non sono fascista, non sono mai stato fascista e non condivido il suo pensiero politico. Però se bisogna essere onesti, Mussolini ha fatto strade, ponti, edifici, impianti sportivi, ha bonificato tante parti della nostra Italia, l'istituto per la ricostruzione industriale. Quando uno dà un giudizio storico deve essere obiettivo, poi non condivido le leggi razziali che sono folli, la dichiarazione di guerra è stata un suicidio". Qualcosa dunque va salvato del fascismo, è stato chiesto infine a Tajani: "Certamente sì, certamente non era un campione della democrazia. Alcune cose sono state fatte, bisogna sempre dire la verità. Non bisogna essere faziosi nel giudizio. Complessivamente non giudico positiva la sua azione di governo, però alcune cose sono state fatte. Le cose sbagliate sono gravissime, Matteotti, leggi razziali, guerra. Sono tutte cose inaccettabili". Tra gli attacchi a Tajani, quello del leader dei Socialisti e democratici a Strasburgo: "Affermazioni incredibili da Tajani su Mussolini. Come può un presidente del Parlamento europeo non riconoscere la natura del fascismo? Abbiamo bisogno di chiarimenti rapidi". Lo scrive su Twitter Udo Bullmann dopo l'intervista di Tajani a La Zanzara su Radio 24. "Due ore dopo la lode a Mussolini, Tajani incontra Salvini e Meloni, gli italiani di estrema destra - aggiunge Bullmann - Dopo Orban è questo il profilo futuro del Ppe?". Si vergogni chi strumentalizza le mie parole sul fascismo! Sono da sempre un antifascista convinto. Non permetto a nessuno di insinuare il contrario. La dittatura fascista, le sue leggi razziali, i morti che ha causato sono la pagina più buia della storia italiana ed europea. E così il presidente del Parlamento Europeo interviene poco dopo su twitter: "Si vergogni chi strumentalizza le mie parole sul fascismo. Sono da sempre un antifascista convinto. Non permetto a nessuno di insinuare il contrario. La dittatura fascista, le sue leggi razziali, i morti che ha causato sono la pagina più buia della storia italiana ed europee".
Da “la Zanzara - Radio 24” il 13 marzo 2019. “Mussolini? Fino a quando non ha dichiarato guerra al mondo intero seguendo Hitler, fino a quando non s’è fatto promotore delle leggi razziali, a parte la vicenda drammatica di Matteotti, ha fatto delle cose positive per realizzare infrastrutture nel nostro paese, poi le bonifiche. Da un punto di vista di fatti concreti realizzati, non si può dire che non abbia realizzato nulla”. Lo dice a La Zanzara su Radio 24 il presidente del Parlamento Europeo Antonio Tajani, di Forza Italia. “Poi – aggiunge - si può non condividere il suo metodo. Io non sono fascista, non sono mai stato fascista e non condivido il suo pensiero politico. Però se bisogna essere onesti, ha fatto strade, ponti, edifici, impianti sportivi, ha bonificato tante parti della nostra Italia, l’istituto per la ricostruzione industriale. Quando uno dà un giudizio storico deve essere obiettivo, poi non condivido le leggi razziali che sono folli, la dichiarazione di guerra è stata un suicidio”. Qualcosa dunque va salvato del fascismo, chiedono i conduttori: “Certamente sì, certamente non era un campione della democrazia. Alcune cose sono state fatte, bisogna sempre dire la verità. Non bisogna essere faziosi nel giudizio. Complessivamente non giudico positiva la sua azione di governo, però alcune cose sono state fatte. Le cose sbagliate sono gravissime, Matteotti, leggi razziali, guerra. Sono tutte cose inaccettabili”.
Fascismo, Tajani rivaluta Mussolini: «Ha fatto tante cose buone», scrive mercoledì 13 marzo 18:08 la Redazione di Secolo D’Italia. «Mussolini? Fino a quando non ha dichiarato guerra al mondo intero seguendo Hitler, fino a quando non s’è fatto promotore delle leggi razziali, a parte la vicenda drammatica di Matteotti, ha fatto delle cose positive per realizzare infrastrutture nel nostro Paese, poi le bonifiche. Da un punto di vista di fatti concreti realizzati, non si può dire che non abbia realizzato nulla». Lo ha detto a La Zanzara su Radio 24 il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani.
«Mussolini? Ha fatto strade, ponti, edifici, impianti sportivi…». «Poi – ha aggiunto – si può non condividere il suo metodo. Io non sono fascista, non sono mai stato fascista e non condivido il suo pensiero politico. Però, se bisogna essere onesti, ha fatto strade, ponti, edifici, impianti sportivi, ha bonificato tante parti della nostra Italia, l’istituto per la ricostruzione industriale. Quando uno dà un giudizio storico deve essere obiettivo, poi non condivido le leggi razziali che sono folli, la dichiarazione di guerra è stata un suicidio».
Tajani avverte: «Nei giudizi non bisogna essere faziosi». «Qualcosa dunque va salvato del fascismo?», viene chiesto al presidente del Parlamento europeo. «Certamente sì, certamente. Mussolini non era un campione della democrazia. Alcune cose sono state fatte, bisogna sempre dire la verità. Non bisogna essere faziosi nel giudizio. Complessivamente non giudico positiva la sua azione di governo, però alcune cose sono state fatte. Le cose sbagliate sono gravissime, Matteotti, leggi razziali, guerra. Sono tutte cose inaccettabili», ha risposto Tajani.
Eurobufera su Tajani: «Ha elogiato il Duce: si scusi o si dimetta». E lui si scusa… Polemica sulle frasi del presidente del Parlamento Ue. Verdi e sinistra chiedono le dimissioni e Prodi lo bacchetta. Solo lo scrittore Antonio Pennacchi lo difende: «ha detto quello che disse Togliatti», scrive il 15 Marzo 2019 Il Dubbio. «Per Tajani non ho mai avuto nessunissima simpatia politica e non lo voterei neanche sotto tortura, ma sul Duce non ha detto niente di più di quanto dissero a suo tempo Sandro Pertini, nelle lezioni sul fascismo del ’ 35, e Palmiro Togliatti». Quella dello scrittore Antonio Pennacchi è l’unica – e inaspettata – voce in difesa di Antonio Tajani. Preso dal vortice semiserio della trasmissione La zanzara, il presidente del Parlamento si è infatti lasciato andare a giudizi decisamente assolutori nei confronti di Benito Mussolini: «Fino a quando non ha dichiarato guerra al mondo intero seguendo Hitler, fino a quando non s’è fatto promotore delle leggi razziali, a parte la vicenda drammatica di Matteotti, ha fatto delle cose positive per realizzare infrastrutture nel nostro paese, poi le bonifiche». Ma a parte il buon Pennacchi, le reazioni alle parole di Tajani sono state durissime. Tanto che il presidente dell’Europarlamento si è dovuto scusare pubblicamente: «Da convinto antifascista mi scuso con tutti coloro che possano essersi sentiti offesi. Non volevo in alcun modo giustificare o banalizzare un regime anti- democratico e totalitario». Le critiche più dure sono arrivate dai parlamentari europei. I Verdi e la sinistra della Gue hanno addirittura evocato le dimissioni. E Socialisti e Democratici, che hanno chiesto un passo indietro di Tajani, si sono riservati di “compiere ulteriori passi’. Il liberali di Guy Vehofstadt attaccano dicendo che cui Tajani «usa il Parlamento per la campagna elettorale». Infine Prodi: «Il peso della storia è sempre grande. La storia è la storia. E poi viene anche strumentalizzata».
Bufera su Tajani, scrive internationalwebpost.org il 15 marzo 2019. (Fonte AdnKronos) - Stanno diventando un caso le parole del presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, che a “La Zanzara” su Radio 24, parlando di Mussolini ha detto: "Fino a quando non ha dichiarato guerra al mondo intero seguendo Hitler, fino a quando non s’è fatto promotore delle leggi razziali, a parte la vicenda drammatica di Matteotti, ha fatto delle cose positive per realizzare infrastrutture nel nostro paese, poi le bonifiche". Quindi ha aggiunto: "Complessivamente non giudico positiva la sua azione di governo, però alcune cose sono state fatte. Le cose sbagliate sono gravissime, Matteotti, leggi razziali, guerra. Sono tutte cose inaccettabili". A nulla sono valse le precisazioni del numero due di Forza Italia, che in serata ha ribadito di essere "da sempre un antifascista convinto". Nel corso delle ore la polemica è divampata coinvolgendo diverse personalità. Come Carla Nespolo, presidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, che intervistata dall’Adnkronos definisce "disgustoso" il presidente del parlamento europeo. "Il fascismo ha fatto cose buone? Tajani lo vada a dire in Etiopia dove intere popolazioni, bambini, donne, uomini, del tutto innocenti, sono state sterminate dall’uso, voluto da Mussolini, dei gas - ha detto Nespolo -. L’aggressione all’Albania, alla Grecia e alla Jugoslavia? L’onorevole Tajani, lo ignora. Derubricare il delitto Matteotti come un semplice incidente di percorso in un cammino tutto sommato pacifico, è quanto di più disgustoso si potesse sentire". "I suoi argomenti - ha aggiunto la presidente Anpi - sono triti, superficiali e tipici di chi vuole giustificare un regime, il fascismo, che ha precipitato il nostro Paese nella seconda guerra mondiale, causa di milioni di morti". Per Nespolo poi "l’espressione: ’non sono fascista ma’... è tipica dei fascisti in doppio petto. Come Tajani a cui non si sa, se manca di più la conoscenza della storia o il rispetto per il proprio ruolo di dirigente di un continente, l’Europa, che ha recentemente e definitivamente ribadito le proprie radici antifasciste". Critiche sono state mosse in modo trasversale anche dal Pd e dal segretario di +Europa, Benedetto Della Vedova. Duro anche il capogruppo del M5S alla Camera, Francesco D’Uva: "Conta fino a 10 prima di parlare, cosi la prossima volta eviti di dire stupidaggini. Commenta la vicenda anche l’ex premier Romano Prodi: "Il peso della storia è sempre grande. La storia è la storia. E poi viene anche strumentalizzata - ha detto a Circo Massimo su radio Capital -. Quell’affermazione, che poi distingue guerra e non guerra, è molto discutibile. La guerra si era preparata da una politica precedente, non è che sia arrivata improvvisamente". Dopo la bufera, Tajani si è voluto scusare: "Da convinto antifascista mi scuso con tutti coloro che possano essersi sentiti offesi dalle mie parole, che non intendevano in alcun modo giustificare o banalizzare un regime anti-democratico e totalitario - ha affermato il presidente del Parlamento europeo-. Sono profondamente dispiaciuto che, malgrado la mia storia personale e politica, qualcuno possa pensare che io sia indulgente col fascismo". "Sono sempre stato convintamente antifascista - ha aggiunto Tajani - ho sempre ribadito che Mussolini e il fascismo sono stati la pagina più buia della storia del secolo passato, senza alcun distinguo. Mi sono sempre battuto contro ogni forma di dittatura o totalitarismo. Come ho detto con grande fermezza lo scorso ottobre in plenaria, l’Europa nasce dalla sconfitta del fascismo ed è l’argine più solido contro ogni totalitarismo".
TUTTE LE FAKE NEWS SU MUSSOLINI. Francesco Filippi per il “Fatto quotidiano” il 21 marzo 2019. Le fake news, modo moderno e accattivante per definire le bufale, sono una costante non solo nel mondo dell' informazione, ma anche nella storia. Diffondere notizie false sul passato ha lo scopo di mettere a confronto un tempo trascorso che si immagina felice con un presente che non piace: un uso distorto della storia per portare avanti critiche, più o meno fondate, all' attualità. Uno dei soggetti più usati per questo meccanismo perverso in Italia è sicuramente il fascismo: il passato totalitario del nostro Paese stimola da sempre sedicenti storici, specialisti del "si dice" o bugiardi consapevoli a produrre e diffondere le più svariate idiozie sui presunti meriti della dittatura in chiave critica nei confronti del presente. Quasi tutte le bugie, alcune delle quali nate già in epoca fascista, sono state già smentite dalla storiografia e non hanno alcuna rilevanza per il mondo accademico, ma spesso continuano a girare tra le schiere, oggi un po' più fitte e coraggiose, dei nostalgici. “Mussolini ha fatto anche cose buone” nasce dalla raccolta delle principali bugie che ancora girano attorno a lui e ai suoi. Ci si è affidati alla ricerca storica per smentire, una volta di più, le menzogne più grossolane, provando a comprendere da cosa, e perché, nascano queste leggende che ancora oggi avvelenano il dibattito pubblico. Sono molti i campi in cui si dice che il fascismo abbia primeggiato: nell' economia , ad esempio. Gli ammiratori del duce proclamano che "quando c' era lui" gli italiani erano ricchi e felici come non mai. Sono però gli stessi dati statistici raccolti sotto il ventennio a segnalare un peggioramento nella qualità della vita del Paese: la quantità e la qualità del cibo a disposizione della popolazione peggiorarono e gli embarghi internazionali causati dalla politica mussoliniana colpirono le possibilità di acquisto degli italiani. Alla vigilia della disastrosa guerra voluta dal duce il reddito medio di un italiano era un terzo di quello di un francese; appena un quinto di quello di un inglese. Le mitiche bonifiche , ancor oggi raccontate come un successo fascista, furono per lo più immensi cantieri pubblici che assorbirono risorse e che, alla prova dei fatti, non risolsero il problema delle paludi e delle terre malariche in Italia. Delle abilità guerriere del "nostro" si pensava che si fosse già detto e scritto tutto, ma è tutt' oggi diffuso il mito dell' animo guerresco e dell' onore fascista. Dati alla mano, si deve dire che il fascismo diede pessime prove di sé in tutti i teatri di guerra in cui si presentò. Le conquiste coloniali e imperiali, di cui ancora qualcuno anziché vergognarsi va fiero, furono occupazioni posticce, mantenute solo attraverso una sistematica opera di terrore. La "civiltà fascista", in Libia come in Etiopia, fu portata con gas, deportazioni e campi di concentramento. Per quanto riguarda i progressi sociali, un ventennio di dispotismo non è bastato a distruggere in alcuni l' idea che il fascismo fosse una specie di regime illuminato. Così ancor oggi c'è ad esempio chi crede alla bufala del voto fascista alle donne. Una vicenda che dimostra come funzionasse il modo mussoliniano di fare le cose: pressato dai movimenti femministi nel dicembre del 1925 il duce approvò la legge che diede ad alcune categorie di donne la possibilità di votare alle Amministrative. Dopo solo due mesi, nel febbraio del 1926, il Parlamento abolì le elezioni amministrative stesse. In questo, ironicamente, si realizzò una vera parità tra uomo e donna, privando tutti indistintamente dei diritti di rappresentanza. Alcune delle bufale sul duce sono antiche e consolidate, come quella dei treni che arrivavano in orario: in realtà ci si limitò a proibire la pubblicazione delle notizie che parlavano dei ritardi dei treni. Altre bugie invece sono modellate su sensibilità più moderne, come quella, piuttosto strampalata, che gira in rete e parla del duce che "diede pari diritti a uomini e animali" (sic!). Una bufala nata per far andare a genio il duce agli amanti degli animali, che però non ha alcun fondamento. Anzi, Mussolini impose una tassa sui cani da compagnia, considerati trastulli poco marziali per le famiglie italiche. Una delle bufale più recenti, nata sull' onda delle polemiche sui costi della politica e che strizza l' occhio al movimento ecologista, è quella che vuole Mussolini imporre ai propri ministri di andare in giro in bicicletta . Favola senza nessun fondamento, anzi: Mussolini arrivò a imporre una tassa sulle biciclette per stimolare l' acquisto di automobili. Fake news nuove, ma con uno scopo antico: usare strumentalmente la storia per ridare dignità a un passato totalitario. Il primo passo per riabilitare e rendere accettabili idee che costituiscono, senza sconti, una delle pagine più tristi della nostra storia.
Pasquale Chessa per Il Messaggero l'8 aprile 2019. «Mussolini ci ha dato le pensioni ha sconfitto la mafia ha messo i corrotti in galera pensava alle bonifiche, i politici di oggi pensano ai bonifici e comunque era un grande urbanista!»: frasi scelte nel magma del web, patetico florilegio della persistenza inattuale del mito del «Duce buonuomo», pagliaccesca rappresentazione di un fascismo perduto che si rifiuta di passare alla storia. Proprio la storia che continua a emettere le sue inappellabili sentenze, come ci rammenta il libro di Francesco Filippi che si è preso la pena di smentire, una per una, tutte le «idiozie che continuano a circolare sul fascismo». Non reggono il confronto con la ricerca storiografica la rassegna di bufale sul Duce che concede agli italiani un mese di stipendio in più, «la tredicesima», che inventa la «cassa d' integrazione», che debella la malaria Per i treni in orario, in effetti niente si sa dei ritardi, ma perché darne notizia era proibito! L' autore forse eccede nell' entusiasmo ideale, e un po' pasticcia sulle leggi razziali, cercando un legame diretto con le leggi razziste dell' Italia coloniale di inizio Novecento, trascurando così la specificità totalitaria dell' antisemitismo fascista. Un atto mancato. Perché c' è un tema storiografico non detto, infatti: fu davvero moderno il fascismo? O piuttosto non fu la modernità del Novecento a sostenere il fascismo e a spingere il totalitarismo. Proprio nei mesi del 1919 in cui Mussolini fonda i Fasci di combattimento a Piazza San Sepolcro a Milano, un altro Duce si aggira per il paese: Gabriele D' Annunzio, già Vate. Issato su una modernissima T4 di colore amaranto il Comandante alla testa dei suoi legionari, il 12 settembre, invade e occupa Fiume, citta adriatica contesa fra Italia e Jugoslavia. L' impresa ha tutti i crismi di una rivoluzione allo stato nascente. Ne è convinto persino Lenin. E un po' anche Gramsci. Filippo Tommaso Marinetti, l' inventore del Futurismo vede nell' impresa «i germogli elettrici della nuova nazione». D' Annunzio per 16 mesi inventa un nuovo Stato, dotato di una vera e propria costituzione, la Carta del Carnaro, fa nascere una nuova società politica, fonda giornali, crea riviste, tutto nel segno del futuro. Lo spontaneismo sociale degli stili di vita fa di Fiume un centro di libertà culturale e ideale. L' omosessualità per esempio è tutt' altro che bandita. A Fiume si può divorziare, libertà di cui profitterà il simbolo della modernità scientifica italiana, Guglielmo Marconi. Si può vivere in piena sintonia con gli ideali naturisti, come fa Guido Keller, nudista e vegetariano con un temperamento mistico, pansessualista praticante È questo tratto di modernità che guida la ricostruzione dell' impresa fiumana di Giordano Bruno Guerri. Il luogo comune di un fascismo modernista che si ispira a Fiume, sebbene ne copi slogan e parole d' ordine, emblemi e modi, viene smentita con un affascinante racconto dei fatti. D' altra parte D' Annunzio non fu mai fascista. Dopo Fiume, nonostante i nostalgici fiumani, raccolti nell' Unione Spirituale Dannunziana siano stati gli ultimi oppositori alla svolta autoritaria del regime con il delitto Matteotti, il Vate troverà un modus vivendi. E lo stesso Mussolini farà di tutto per fascistizzare il suo passato facendone un simbolo e un modello culturale per la nazione intera. Spiega tutto quel famoso quanto greve aforisma del Duce: «D' Annunzio è come un dente guasto: o lo si estirpa o lo si ricopre d' oro».
Gramsci, Rossi, Foa: hanno tanti nomi le infamie del fascismo, scrive Piero Sansonetti il 15 Marzo 2019 su Il Dubbio. Antonio Tajani ieri ha chiesto scusa per le frasi sul fascismo pronunciate mercoledì sera alla radio. Ha fatto benissimo. E ha dimostrato anche di essere una persona seria, che quando si accorge di avere sbagliato invece di sbraitare si corregge. Gramsci, Foa, Ernesto Rossi: hanno tanti nomi le infamie del fascismo. Antonio Tajani ieri ha chiesto scusa per le frasi sul fascismo pronunciate mercoledì sera alla radio. Ha fatto benissimo. E ha dimostrato anche di essere una persona seria, che quando si accorge di avere sbagliato invece di sbraitare si corregge. Non succede quasi mai nella politica italiana. Su questo piano Tajani è una piacevole eccezione. Cosa aveva detto di sbagliato? Dal punto di vista delle cose concrete, niente, dal punto di vista della politica tantissimo. Il problema è che Tajani è un politico, è il numero due di un partito molto importante, che ha governato tanti anni l’Italia, che rappresenta le posizioni liberali. E un politico, specialmente un politico di un certo prestigio, quando parla deve sapere che sta parlando da politico, né da storico – perché non ne sa abbastanza – né da uomo della strada – perché ne sa troppo. Tajani ha detto semplicemente che il fascismo prima delle leggi razziali e poi dell’alleanza con Hitler e poi della guerra (e a parte l’orrendo delitto Matteotti) aveva fatto delle cose buone per l’Italia. In particolare aveva realizzato molte opere pubbliche e aveva bonificato la pianura pontina. Vero o falso? Vero. Quindi uno potrebbe dire: ha ragione Tajani. Ci sono però due problemi, che Tajani avrebbe fatto bene a considerare, prima di rilasciare quelle dichiarazioni. Il primo è questo: dire che il fascismo ha fatto delle cose buone prima di favorire lo sterminio degli ebrei è una frase praticamente senza senso. E’ come dire che un serial killer, prima di iniziare ad uccidere aveva ottenuto ottimi risultati a scuola, specialmente in matematica. Il secondo problema è che un politico deve giudicare le cose con il metro politico. E il fascismo, prima ancora del 1938 ( data delle leggi razziali) e del 1939 ( data del patto d’acciaio col Fuhrer) aveva commesso i seguenti delitti: abolire la democrazia politica; manganellare e uccidere centinaia di militanti e dirigenti antifascisti ( non c’è solo Matteotti, per citare solo i nomi più famosi ci sono, ad esempio, Carlo e Nello Rosselli, Piero Gobetti e Giovanni Amendola); mettere fuorilegge i partiti antifascisti e i sindacati operai; abolire la libertà di stampa; cacciare dalle cattedre universitarie i professori che non giuravano fedeltà al Duce; istituire un tribunale speciale per i delitti contro il fascismo; imprigionare – o costringere a rifugiarsi all’estero – i principali dirigenti dei partiti liberali, socialisti, cattolici e comunisti e anche la maggior parte degli intellettuali. Per fare solo qualche nome di intellettuale, ricordiamo Antonio Gramsci, Ernesto Rossi, Vittorio Foa, Luigi Sturzo, Gaetano Salvemini. Possiamo pensare di mettere sullo stesso piano queste atrocità e alcune grandi opere pubbliche? Esiste un modo di bilanciare le azioni concrete di un governo e il suo profilo politico? Stalin ottenne dei grandi risultati. Anche Mao Tse Tung. Krusciov, pochi anni dopo avere invaso l’Ungheria e fatto impiccare Imre Nagy, sconfisse gli americani nella corsa allo spazio, mandando in orbita Juri Gagarin. Lo stesso Hitler, del resto, ancor prima della Notte dei Cristalli e dello sterminio, aveva iniziato a modernizzare la Germania. L’errore di Tajani è stato questo. E l’effetto del suo errore è stato tanto più grande per via della particolare situazione politica che c’è in Italia. Per la prima volta dopo più di 70 anni il governo non è nella mani di partiti che affondano le loro radici nella storia dell’antifascismo, di sinistra o di centro o di destra. I partiti tradizionali – cattolici, liberali, socialisti – sono tutti all’opposizione. Il governo è stato conquistato da una coalizione populista che non dà punti di riferimento. E che, almeno in alcune sue componenti – che sembrano anche le componenti prevalenti – ha stretto alleanze con i partiti dell’estrema destra europea. Il leader principale della coalizione, e cioè Matteo Salvini, si è divertito molte volte ad usare slogan della vecchia propaganda fascista. E’ chiaro che in questa situazione l’Italia è “osservata speciale”, in Europa e nel mondo. Il suo passato non gioca a suo favore. Il sospetto, o almeno il timore, del ritorno di vecchie suggestione fasciste, si aggira nelle cancellerie, nei parlamenti e nell’intellettualità europea. Un leader liberale come Antonio Tajani non può non essere consapevole di questa situazione. Specialmente per la funzione importantissima e delicatissima che svolge, in qualità di Presidente del Parlamento europeo. Per tutte queste ragioni sarebbe giusto e logico esercitare robustamente la virtù della prudenza. Non si tratta di mostrare le bandiere dell’antifascismo di maniera, che è roba vecchia, spesso falsa, quasi sempre inutile o insensata. Ma aprire qualche spiraglio alla nostalgia dell’orrore che fu il mussolinismo è puro autolesionismo. Non serve a nulla. Non serve a smitizzare – è sempre bene smitizzare i luoghi comuni – ma solo a confondere le idee, in un momento storico nel quale, peraltro, le idee sono già abbastanza ballerine.
Antonio Tajani, il ragazzo del Tasso che amò il Re e poi il Cavaliere…, scrive Paola Sacchi il 15 Marzo 2019 su Il Dubbio. L’accusa da sinistra di essere un pericoloso fascista, a causa del suo innamoramento giovanile per la monarchia, sembra ereditata dalla sua famiglia di militari (lui stesso è stato ufficiale dell’Aeronautica), Antonio Tajani se la porta appresso fin dagli anni di Liceo. Era il Tasso di Roma, dal quale poi si trasferì in uno più tranquillo, perché veniva sempre aggredito da frange di estremisti di sinistra. Non c’erano ovviamente tra gli aggressori compagni di scuola come il suo amico di una vita Maurizio Gasparri, ma neppure Paolo Gentiloni o Lucrezia Reichlin di sinistra, magari non moderatissima allora, ma con i quali, come lo stesso Tajani ha detto a Il Dubbio in un’intervista del luglio scorso, «almeno si poteva dialogare». Anni ’ 70, scontri a sangue tra rossi e neri. Ma quell’accusa ha continuato a inseguirlo, quasi come un’ombra, anche in epoche più vicine. Era il 21 dicembre del 1994, il giorno dopo Silvio Berlusconi, di cui Tajani fu a Palazzo Chigi il primo portavoce, sarebbe andato alle 13 da Oscar Luigi Scalfaro a dimettersi. Ma quella mattina segnò la caduta del Cav e con lui degli “dei” azzurri. Quel suo primo portavoce non era neppure deputato, seppur cofondatore, insieme con Gianni Letta, Marcello Dell’Utri e pochi altri di Forza Italia. Usciva dalla scuola del Giornale di Indro Montanelli. E come portavoce- giornalista, perché lui deputato non lo era e anzi non lo è mai stato e non era ancora nemmeno eurodeputato, con atteggiamento ben educato, come quei compagni di scuola che negli anni ’ 70 al Liceo venivano giudicati da chi era di sinistra di stile un po’ troppo grigio- borghese, si mescolò agli altri cronisti nella tribuna stampa. Riprese l’ascensore con loro, al termine della seduta. Ma a quel punto, una collega di sinistra abbastanza radicale che era nello stesso ascensore del malcapitato non si tenne più. E gli urlò in faccia: «Fascisti, carogne, tornate nelle fogne». Chissà se avrebbe fatto la stessa cosa magari qualche mese prima quando di sera per chiudere il pezzo era d’obbligo, come ora, sentire il portavoce del premier. Tajani rispose, adottando un ferreo autocontrollo un po’ militaresco, con un glaciale silenzio di fronte a quella piccola aggressione. L’Unità, allora diretta da Walter Veltroni, di cui chi scrive era allora inviato di politica, era ad esempio uno dei giornali che il portavoce di quel premier avversario politico richiamava tra i primi. Ma più forse per buona educazione anche politica che, come tutti i portavoce, per dare notizie. È stato educato anche alla scuola di Gianni Letta, il portasilenzi per eccellenza. Letta, il grande diplomatico, comunque uno “smoderato” non lo avrebbe mai sostenuto come stretto collaboratore del Cav, fino a diventare numero due di Fi, perché Tajani con il Cav si è sempre comportato come un soldato, non come altri più ribelli pretendenti al “trono” di Arcore. Ora chissà “l’eminenza azzurrina” Letta, il cui invito perenne con il mondo è di “mantenere comportamenti armonici”, forse di fronte alla bufera abbattutasi anche al parlamento europeo su Tajani dopo le dichiarazioni su Mussolini, starà pensando tra sé e sé secondo una sua frase di rito per sdrammatizzare eventi sgradevoli: «Così vanno le cose del mondo…». Ma non solo “il dottor Letta”, anche la stessa cancelliera Angela Merkel in questi anni di uno “smoderato” non sarebbe diventata amica fino al punto di ritessere attraverso di lui la trama dei rapporti con Berlusconi che al parlamento europeo una volta eletto si accinge a fare da federatore tra Ppe e sovranisti, nell’intento con lo stesso Tajani – che corre con lui alle Europee con l’obiettivo di tornare sullo scranno più alto dell’Europarlamento – di mettere un argine al rischio di una deriva antieuropeista. Da qui certe interpretazioni dei maligni, secondo le quali quelle dichiarazioni su Mussolini sarebbero volte a ingraziarsi partiti nazionalisti. Ma questi sono solo gossip che viaggiano sul web sul quale Tajani è stato sottoposto a una sorta di lapidazione, che ha unito la sinistra più radicale ai Cinque Stelle. Ma cosa ha detto, magari con l’eccessiva velocità della comunicazione alla radio, poi supportata da internet, di così micidiale? Un po’ le stesse cose del Cav alcuni anni fa. Anche allora ci fu una buriana. Che Mussolini avesse impiantato la prima vera forma di welfare Bettino Craxi lo ha detto anche alla sottoscritta nel libro “I Conti con Craxi” (Male edizioni di Monica Macchioni). Proprio Craxi, figlio di un avvocato prefetto antifascista. Quello stesso Craxi che ammise il Msi per la prima volta alle consultazioni nel 1983 e che Tajani (la più alta carica istituzionale ad averlo fatto finora, guida dell’unica istituzione elettiva della Ue) un paio di anni fa andò ad omaggiare sulla tomba di Hammamet. Il presidente del PE riconobbe coraggiosamente che quello dello statista socialista fu «un immeritato esilio». Donato Robilotta, socialista craxiano di ferro, oggi alla guida nel Lazio di Energie per l’Italia di Stefano Parisi, anche lui al Tasso con Tajani, a Il Dubbio dice: «Tajani ha detto quello che tutti pensano. Ma qui ormai sta prevalendo solo l’odio, in questo Paese non si ragiona più, non si studia». Ed essendo amico di Tajani rivela: «Monarchico certo in gioventù, ma guardate che si avvicinò anche ai socialisti, all’ala destra quella di Lagorio». Sostiene con Il Dubbio Stefania Craxi, senatrice di Forza Italia, vicepresidente della commissione Esteri, figlia di “Bettino” e fondatrice della omonima Fondazione: «Trovo davvero sorprendente che l’Italia a 70 anni di distanza non sia ancora capace di confrontarsi serenamente su quel periodo storico. Bettino Craxi disse: è ora di chiudere una pagina della nostra Storia, andiamo a piazzale Loreto a depositare dei garofani dove ci fu quell’orrenda barbarie e depositiamo dei fiori sempre a piazzale Loreto dove furono uccisi 15 partigiani socialisti. Craxi disse che era ora di farlo ormai 30 anni fa».
GALLI DELLA LOGGIA: ''I POLITICI FACCIANO IL LORO LAVORO E NON PARLINO DI MUSSOLINI''. MA QUANDO GLI STORICI FANNO I POLITICI, COME QUANDO LUI FU TROMBATO NEL 1992, POSSONO PARLARE DI STORIA? DAGONOTA il 23 marzo 2019. Allo storico Ernesto Galli della Loggia, intervistato nell'ultimo numero di ''Famiglia Cristiana'', viene chiesto cosa pensa dei politici che dicono ''Mussolini ha fatto anche cose buone''. Senza pensarci due volte, decreta: ''I politici dovrebbero cercare di fare bene il loro mestiere anziché occuparsi di cose di cui sanno poco o nulla''. Caspita! Quindi Antonio Tajani, presidente dell'Europarlamento con 25 anni di esperienza politica, non può avere un'opinione piuttosto blanda sul Ventennio (sì, ha detto cose che pensano in molti, anche molti storici, nonostante gli inevitabili strepiti di chi crede che il fascismo sia sempre in agguato e il solo nominare Mussolini sia in grado risvegliare il balilla che dorme in noi). Seguendo questo ragionamento, se uno volesse essere puntiglioso e settario come il buon Galli, dovrebbe ricordargli di quando nel 1992 si candidò con Massimo Severo Giannini nella disastrosa lista ''Sì Referendum'', che riunì i mejo intellettuali dell'epoca convinti che grazie al nuovo sistema delle preferenze avrebbero raccolto voti a palate, sull'onda del furore referendario cavalcato soprattutto da Mariotto Segni. Invece la lista prese lo 0,8% e non elesse un singolo parlamentare, pur avendo uno slogan acchiappante, che oggi definiremmo grillino: ''I partiti non possono cambiare nulla. I referendum sì. Vota Sì Referendum. Le persone al posto dei partiti." Attenzione, non populista, ma ''plebiscitario'', come oggi Galli descrive con certa superiorità ''chi vorrebbe tutti i giorni un referendum a colpi di clic al computer, dell'uno vale uno, del salto dei corpi intermedi'', sempre nell'intervista a ''Famiglia Cristiana''. Insomma, i politici possono fare solo i politici ma senza esprimere opinioni, gli storici possono fare quello che gli pare. Tipo votare la Raggi e poi pentirsene quasi subito, per poi passare a difendere Salvini nel caso Diciotti. Ma se uno storico si mette a fare il politico, poi di che può parlare?
Alessandro Gnocchi per ''il Giornale'' il 23 marzo 2019. Antonio Tajani, presidente del Parlamento europeo e vicepresidente di Forza Italia, nei giorni passati ha rilasciato una dichiarazione su Mussolini nel corso della trasmissione La Zanzara di Giuseppe Cruciani, su Radio24. Ecco le parole esatte: «Fino a quando non ha dichiarato guerra al mondo intero seguendo Hitler, fino a quando non s' è fatto promotore delle leggi razziali, a parte la vicenda drammatica di Matteotti, ha fatto delle cose positive per realizzare infrastrutture nel nostro Paese, poi le bonifiche». Tajani, per aver detto una ovvietà, è stato attaccato da ogni parte e, infine, si è scusato. Il 20 marzo è scesa in campo la Società italiana per lo studio della storia contemporanea (Sissco) con un comunicato tanto prudente (Tajani non è mai nominato) quanto duro nella sostanza: «Ciò che è emerso dalle sue parole (del presidente del Parlamento europeo, ndr) è il tentativo di avvalorare una lettura del tutto parziale del fascismo, volta a evidenziarne alcuni specifici aspetti come per sottrarlo a una più complessiva comprensione del fenomeno storico e alle, successive, valutazioni di ordine politico e civile». La Sissco lamenta inoltre la politica culturale che ha indebolito «la rilevanza della coscienza storica nella scuola e nella società», favorendo «questa pericolosa deriva». Il comunicato ha finito per dividere la Sissco. Marco Gervasoni, in passato membro del direttivo, ha lasciato la Società. Professore di Storia contemporanea all' università del Molise e di Storia comparata dei sistemi politici alla Luiss di Roma, Gervasoni spiega al Giornale: «Sono uscito perché ultimamente mi sembra prevalere l' aspetto politico, giustamente tenuto in secondo piano nel passato per evitare spaccature. La Sissco ha fatto anche cose eccellenti, come prendere posizione contro la legge Fiano». Cosa c' è che non va nel comunicato, dunque? Secondo Gervasoni «ci sono tre punti estremamente controversi. Il primo. Di storia possono parlare solo gli storici e in particolare solo quelli appiattiti sull' antifascismo ma non sull' anticomunismo. Il secondo. A parte che Tajani ha detto il vero, nessuno prima di lui ha avuto l' onore di un comunicato che lo sconfessasse. Penso, ad esempio, ai negazionisti delle Foibe. Terzo. Il passaggio sulla eliminazione della storia appare strumentale se non si aggiunge chi l' ha voluta: il ministro Valeria Fedeli e non l' attuale governo». A osservare la vicenda dall' esterno viene il dubbio che diventi sempre più difficile giudicare liberamente il fascismo dal punto di vista storico. «Rispetto ai tempi della Intervista sul fascismo di Renzo De Felice, era il 1975, certamente è così. Un tempo si distingueva nettamente tra fascismo e nazismo. Oggi assistiamo alla nazistificazione del fascismo. Significa che il fascismo si incammina a incarnare il Male assoluto. Ma sarebbe meglio tornare a distinguere».
Francesco Perfetti per ''il Giornale'' il 23 marzo 2019. Non si sa neppure, in realtà, quanti e chi fossero stati i «sansepolcristi» cioè coloro che presero parte alla riunione dalla quale in quella domenica, primaverile ma piovosa, del 23 marzo 1919 prese vita il movimento fascista. La cifra più alta, a parte quanto si legge in alcuni rapporti di polizia che parlano di 300 persone, è quella indicata da Margherita Sarfatti nella biografia apologetica Dux pubblicata nel 1926. La storica amante e collaboratrice di Mussolini parla di una «modesta adunata» di 155 persone «riunite in una mediocre sala presa in affitto da un' associazione di piccoli commercianti, in un palazzo fuori mano della vecchia Milano, nella malinconica piazza del Santo Sepolcro: simbolico nome di catacomba». Dal canto suo Giorgio Alberto Chiurco in una minuziosa e cronachistica Storia della rivoluzione fascista elenca 119 nominativi. La cifra più bassa è, paradossalmente, di Mussolini che parla di sole 54 persone riferendosi, però, a coloro che «presero solenne impegno ad essere fedeli ai principi fondamentali del movimento». Quale che sia il numero esatto dei partecipanti rimane il fatto che Mussolini dovette scegliere quella sala come ripiego. Nelle sue intenzioni, infatti, la convocazione di interventisti e combattenti lanciata dal Popolo d' Italia già da metà marzo, avrebbe dovuto avere luogo presso il teatro Dal Verme, uno dei maggiori di Milano con una capienza di circa duemila persone. All' ultimo momento, però, visto il numero esiguo delle adesioni e lo scarso interesse per l' avvenimento da parte di personalità di rilievo, Mussolini si mise alla ricerca di un locale più idoneo alle dimensioni dell' assemblea. Lo trovò grazie a Cesare Goldmann, presidente del Circolo degli Interessi Industriali e Commerciali, un entusiasta interventista triestino di idee democratico-radicali, che mise a disposizione una sala. Fu così che un originale ed eterogeneo manipolo di individui che rivendicavano l' eredità dell' esperienza bellica, contestavano il sistema istituzionale e demonizzavano le scelte economico-sociali del dopoguerra si ritrovò in una sala non troppo grande, stipata, rumorosa, calda di fiati per discutere del futuro del Paese e dare vita a un nuovo movimento politico. L' avvenimento dovette apparire insolito e strano ai soci e frequentatori del circolo ospitante tant' è che, a quanto si racconta, molti di essi si affacciarono incuriositi, spesso per pochi minuti, sulla porta della stanza. Accadde anche che un negoziante di calzature, fermatosi sulla soglia ad ascoltare l' intervento di Mussolini, venisse scambiato per un personaggio illustre, il senatore Luigi Mangiagalli, il cui nome venne inserito tra i sansepolcristi. Cosa che, in seguito, salito il fascismo al potere, il celebre clinico, ormai fascista, si guardò bene dallo smentire. Presiedette la riunione un personaggio singolare, il capitano degli Arditi, Ferruccio Vecchi, un combattente pluridecorato, futurista e compagno inseparabile di Filippo Tommaso Marinetti. Di lui si raccontavano cose incredibili. Per il fisico asciutto e snello, il volto triangolare e scavato con baffetti e pizzetto, assomigliava a uno dei moschettieri creati dalla fervida penna di Alexandre Dumas. Quel giorno, di sera, mentre gli altri congressisti se ne erano andati, si attardò nella saletta e, insieme con alcuni amici arditi, estratto un pugnale e conficcatolo su un gagliardetto, pronunciò un giuramento solenne: «Siamo pronti a difender l' Italia! Siamo pronti a uccidere e morire!». A loro si unì un altro congressista, il cremonese Roberto Farinacci, che, con fare ammiccante, mostrò agli amici, sollevando il calzone della gamba sinistra, una rivoltella infilata nella giarrettiera. Il più illustre dei partecipanti all' adunata fu il fondatore del futurismo, Marinetti, il quale prese la parola dopo che Mussolini ebbe presentato, fra applausi vibranti, tre dichiarazioni, di sostegno alle richieste morali e materiali dei combattenti, di supporto alle rivendicazioni territoriali italiane, di impegno a sabotare le candidature politiche dei neutralisti. Anche un altro esponente dell' arditismo, Mario Carli, che in seguito avrebbe fondato e diretto il quotidiano L' impero, intervenne nella seduta antimeridiana portando l' adesione di personalità del mondo della cultura che non erano potute intervenire, dal giornalista e scrittore ebreo goriziano Enrico Rocca al pittore fiorentino Ottone Rosai. Proprio arditi e futuristi, ex combattenti o interventisti, furono il nucleo dei sansepolcristi, ma non mancarono repubblicani, socialisti, sindacalisti rivoluzionari, anarchici. Renzo De Felice ha suddiviso l' eterogeneo mondo dei sansepolcristi in due categorie: la «vecchia guardia» interventista rivoluzionaria che già nel 1914-15 aveva dato vita ai Fasci d' azione rivoluzionaria e una seconda componente, fatta di «trinceristi» e di ex combattenti, fra i quali rientravano, per l' appunto, arditi e futuristi. Un' assenza eclatante alla riunione del 23 marzo fu quella di un nome mitico del rivoluzionarismo italiano, Alceste De Ambris che avrebbe, però, contribuito a stilare il programma dei fasci di combattimento pubblicato qualche mese dopo sul quotidiano Il Popolo d' Italia e che sarebbe poi diventato antifascista. Peraltro, le linee fondamentali del programma dei costituendi Fasci di combattimento le enunciò lo stesso Mussolini nel suo secondo intervento nella seduta pomeridiana: scelta repubblicana, abolizione del Senato, suffragio universale esteso alle donne, rappresentanza diretta degli interessi. Nello stesso intervento egli si dichiarò avverso ad ogni tipo di regime dittatoriale: «Noi siamo decisamente contro tutte le forme di dittatura, da quelle della sciabola a quella del tricorno, da quella del denaro a quella del numero; noi conosciamo solo la dittatura della volontà e dell' intelligenza». Le cose, com' è noto, andarono diversamente a riprova del fatto che il fascismo delle origini fu diverso da quello poi realizzato. Ha scritto Cesare Rossi, all' epoca uno dei più fidati collaboratori di Mussolini in seguito coinvolto nello scandalo seguito al delitto Matteotti, che la riunione del 23 marzo 1919 fu «trascurabile dal punto di vista numerico e qualitativo» e che «un terzo almeno dei suoi aderenti in seguito passò all' antifascismo». In effetti, come avrebbe dimostrato la ricerca storica a cominciare da Renzo De Felice, la riunione di piazza San Sepolcro più che la nascita di un partito fu l' occasione, nel clima torbido dell' immediato dopoguerra, per l' incontro di persone eterogenee che si ritrovarono attorno a un programma genericamente orientato a sinistra che esprimeva le istanze di tutto il rivoluzionarismo non inquadrato nelle file del partito socialista. Non è un caso che la stampa, con la sola eccezione del quotidiano mussoliniano, facesse passare sotto silenzio l' avvenimento. Lì, nella piccola sala del palazzo milanese, non venne, insomma, fondato un partito vero e proprio, ma venne, piuttosto, lanciato un movimento che solo due anni più tardi avrebbe assunto le caratteristiche di una struttura partitica. Eppure, non a torto, la data del 23 marzo 1919 avrebbe assunto un valore simbolico nella auto-rappresentazione «mitologica» del fascismo.
«TAJANI HA DETTO IL VERO PROPRIO COME TOGLIATTI: MUSSOLINI FECE DEL BENE» di Massimiliano Scafi per “il Giornale” il 16 marzo 2019. «Le bonifiche, l' Iri. E il consenso? Ce le siamo dimenticate le masse a Piazza Venezia? Dov' erano gli oppositori? Insomma, tutta questa polemica su Antonio Tajani mi sembra una fesseria».
Dunque secondo lei è stato solo un po' incauto?
«Incauto? Ma de che stamo a parla'? Ha detto la verità! Ha detto che il fascismo è stata una dittatura, che ha preso il potere con un colpo di Stato e che non c' era la libertà. E che ha realizzato pure qualcosa di buono; e ha ragione, perché non è possibile che in un regime che dura vent' anni ci siano soltanto aspetti negativi. Lo scrive anche Mao Tse-tung nel Libretto rosso: non c' è niente di totalmente benigno o maligno».
Però, nella sua veste di presidente del Parlamento europeo...
«E che c' entra? Ripeto, è una polemica sul nulla, non mi fate incazzare».
Clic. Antonio Pennacchi sbatte il telefono. Prima di interrompere la comunicazione, l' autore di Canale Mussolini e Il Fasciocomunista, ora in libreria con Il delitto di Agora. Una nuvola rossa, ha fatto in tempo a difendere Tajani con una certa energia.
«Per lui non ho mai avuta nessuna simpatia politica e non lo voterei neanche sotto tortura, è un monarchico e fosse per lui al Quirinale tornerebbero i Savoia. Però in fondo non ha detto niente di più di quanto dissero a suo tempo Sandro Pertini, che da Mussolini è stato mandato al confino a Ventotene e, nelle lezioni sul fascismo del '35, Palmiro Togliatti».
Quindi lo assolve?
«Certo. Tajani, ha confermato un complessivo giudizio negativo del fascismo, una dittatura anche violenta e brutale culminata nelle leggi razziali, nel delirio di onnipotenza, in guerre di aggressione».
Ha detto pure che nel Ventennio sono state fatte delle buone opere pubbliche.
«E allora? Ha ragione. Il fascismo è arrivato al potere con la forza, poi lo ha conservato perché negli anni successivi ha dato risposte concrete ai bisogni delle masse su modernizzazione, lavoro, risanamento del territorio, quindi ha avuto consenso. Queste sono cose da dire. Mai mentire ai ragazzini, figuriamoci ai popoli».
Un consenso che comunque non è mai stato verificato e quantificato in elezioni libere e democratiche...
«No, però lo si può quantificare al contrario, per sottrazione. Quanti erano i fuorusciti?
Trentamila. E i confinati? Altri trentamila. Poi aggiungiamo quelli della rete occulta del Pci, antifascisti vari e arriviamo a centomila. Moltiplichiamo per dieci? Un milione di oppositori. E gli altri 41 milioni di italiani? Tutti con il Duce? Attenzione, non sono calcoli miei, c' è un' intera storiografia sul consenso».
Era una dittatura, non c' era una stampa libera, e per lavorare negli uffici pubblici. Non pensa che la gente magari avesse paura ad esporsi?
«Quanti gesti di ribellione ci sono stati? Quante scritte sui muri? Dia retta, la maggioranza del Paese ha accettato passivamente il fascismo».
Ma dopo le leggi razziali, il declino...
«Gli ebrei in Italia erano una minima minoranza e alla stragrande maggioranza degli italiani non fregava niente di loro. Il crollo arriva con le guerre o meglio con le sconfitte e soprattutto con i bombardamenti del 1943. Fino ad allora il consenso era di massa, non era stato costruito con la macchina della propaganda. Il Minculpop entra in campo solo nel 1934-35».
Tajani ha chiesto scusa.
«Dovrebbero scusarsi i teorici del neoantifascismo, come li ha definiti Franco Cardini. Un fenomeno pericoloso perché nasconde il vero e provoca nei giovani una reazione che li può portare a diventare fascisti se, crescendo, scoprono che il Duce alcune cose positive le aveva fatte».
PERSINO PERTINI ELOGIÒ BENITO «TRASFORMÒ PALUDI IN CAMPI» di Gianluca Veneziani per “Libero Quotidiano” il 16 marzo 2019. Anche lui, l' acerrimo nemico del fascismo, vittima e "carnefice" di Mussolini, alla fine dovette riconoscerlo: il regime aveva fatto ottime cose tra opere pubbliche e bonifiche. Era il 23 marzo 1984 quando Sandro Pertini, in un' intervista rilasciata a Carlo Gregoretti di Epoca e intitolata "Rapporto sulla fame nel mondo. Conversazione con Sandro Pertini", diceva testualmente: «Mussolini progettò la bonifica pontina e riuscì a far crescere il grano dove c' erano paludi e malaria. Fu una grande opera, sarebbe disonesto negarlo. Ricordo che il mio amico Treves era preoccupato: Sandro, mi diceva, se questo continua così siamo fregati». In questa dichiarazione, riportata più di recente dallo scrittore Antonio Pennacchi, l' autore di Canale Mussolini e dell' appena edito Il delitto di Agora (Mondadori), nel volume Fascio e martello. Viaggio per le città del duce (Laterza), emerge la consapevolezza dello straordinario sforzo di riqualificazione agraria della Pianura Pontina portato avanti dal Duce, con la sua trasformazione da palude in terra fertile; e appare anche la constatazione di quanto quella e altre opere fossero, per il regime, ragione di consenso da parte degli italiani; un consenso non estorto con la forza ma figlio della bontà del lavoro svolto. Tanto da mettere in difficoltà negli anni '30 qualsiasi oppositore («se questo continua così, siamo fregati»). Quando senti ora il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani dire le stesse cose («Mussolini ha fatto delle cose positive per realizzare infrastrutture nel nostro Paese, poi le bonifiche. Da un punto di vista di fatti concreti, non si può dire che non abbia realizzato nulla»), non trovi nulla di cui scandalizzarti, non solo perché quelle frasi sono coerenti con la verità storica, ma anche perché le avrebbe condivise pure uno, come Pertini, che antifascista lo era molto più e molto prima di Tajani. E parliamo dello stesso partigiano socialista che diceva «Io mi vanto di aver ordinato la fucilazione di Mussolini» (dopo il tentato accordo tra fascisti e partigiani nella sede dell' arcivescovado di Milano il 25 aprile '45, fu proprio la parola del futuro presidente della Repubblica a far fallire la trattativa), lo stesso che ribadiva: «Il fascismo va combattuto con tutti i mezzi, senza porsi il problema di ciò che è legale o illegale». E ancora, parliamo di quel Pertini che aveva passato tutto il Ventennio tra fughe all' estero, condanne al confino, lunghe detenzioni in carcere, evasioni dalla prigione e lotta contro il nazifascismo, di quell' uomo considerato dal regime «elemento pericolosissimo per l' ordine nazionale». Ebbene, proprio lui, ebbe l' onestà intellettuale di riconoscere che del fascismo non si doveva buttare via tutto perché nel Bene fece cose tanto grandi come nel Male: il Duce che si macchiò della vergogna delle leggi razziali e della sciagurata alleanza con Hitler, fu anche colui che rese salubri, attraverso un sistema idraulico all' avanguardia, 140mila ettari di terra nell' agro pontino e 6 milioni di ettari in tutta Italia. E che, anche per questo, fu (a lungo) amato dagli italiani. Ricordarlo è un atto di libertà e verità. Scusarsi, come ha fatto poi Tajani temendo di aver preso uno scivolone, un gesto che non rende giustizia alla storia, a Mussolini e nemmeno a Pertini.
E Mussolini inventò il fascismo: un libro del «Corriere» 100 anni dopo. Pubblicato domenica, 24 marzo 2019 su Corriere.it. La Grande guerra terminò nel novembre del 1918, ma negli imperi sconfitti dell’Europa centro-orientale divenne rapidamente guerra civile. Scoppiò in Germania, dove il governo socialdemocratico dovette combattere per qualche mese contro le formazioni comuniste della Lega spartachista. Scoppiò in Baviera, dove gli insorti crearono una repubblica socialista che divenne sovietica il 6 aprile 1919 e fu annientata in un bagno di sangue nei primi giorni di maggio. Scoppiò in Ungheria, dove la Repubblica liberale, nata dalla dissoluzione dell’Impero asburgico, divenne in breve tempo la Repubblica dei Consigli del comunista Béla Kun, che sopravvisse dal 21 marzo ai primi di agosto del 1919, mentre la guerra civile russa sarebbe durata sino al 1° novembre 1920. La copertina di «Alba nera» di Antonio Carioti in edicola con il <Corriere» (pp. 448, euro 9,90 più il prezzo del quotidiano)Gli ingredienti di queste guerre civili sono quasi sempre gli stessi: un esercito demoralizzato e frustrato, una casta militare e una classe politica che non perdevano occasione per attribuirsi a vicenda le responsabilità della sconfitta, un proletariato incollerito e affamato, infine l’esistenza ormai di un modello (lo Stato nato in Russia dalla rivoluzione d’Ottobre) che sembrava offrire un nuovo futuro alle masse popolari delle democrazie europee. Non è sorprendente che in Paesi duramente provati dal conflitto esistessero le premesse per una guerra civile. È meno facile comprendere perché una guerra civile sia stata combattuta anche in un Paese che dalla Grande guerra era uscito vincitore. L’Italia aveva vinto, ma presentava almeno due anomalie. In primo luogo il suo Partito socialista si era opposto al conflitto. Mentre quelli degli altri belligeranti avevano adottato una linea patriottica, il Psi, dopo molti estenuanti dibattiti, aveva adottato la formula «né aderire né sabotare». La decisione non era piaciuta a un socialista, Benito Mussolini, che dirigeva dal 1912 il giornale del partito (l’«Avanti!») e che aveva cercato di servirsene, nei mesi che precedettero la dichiarazione di guerra italiana nel maggio 1915, per agitare le acque della politica italiana con una battaglia interventista. Fondò un altro giornale («Il Popolo d’Italia»), fu espulso dalla casa madre e divenne il più fiero avversario del suo vecchio partito, soprattutto quando la maggioranza del Psi vide nella rivoluzione bolscevica il modello a cui avrebbe ispirato la sua strategia. Una seconda anomalia italiana, dopo l’inizio a Parigi dei negoziati per il trattato di pace, fu la diffusa convinzione che gli Alleati stessero privando il Paese del suo legittimo dividendo. Gli accordi di Londra, firmati con gli Alleati nell’aprile 1915, avevano promesso all’Italia, tra l’altro, una parte della Dalmazia: prospettiva ragionevole quando la regione apparteneva all’Impero austro-ungarico, ma molto meno ragionevole dopo la creazione di un nuovo Stato, la Jugoslavia, che era nato per riunire le popolazioni slave del Sud. La frase «vittoria mutilata», coniata dalla fantasia di un poeta (Gabriele d’Annunzio) per un testo grondante retorica che apparve sul «Corriere della Sera» del 24 ottobre 1918, divenne la parola d’ordine di un nazionalismo deluso e bellicoso, di cui il movimento fascista riuscì a prendere la guida. La guerra civile cominciò nel 1919 e terminò con la formazione di un governo presieduto da Benito Mussolini alla fine di ottobre del 1922. Come ogni guerra civile, anche quella italiana ebbe fasi alterne, in cui gli attori obbedivano alla logica della opportunità e della convenienza, spesso raccogliendo lungo la strada amici e compagni che avrebbero modificato il loro programma originale. Ma l’espressione non piacque al regime fascista e, per ragioni non troppo diverse, ai partiti antifascisti. Né l’uno né gli altri volevano usare una definizione che sembrava collocare i due campi su uno stesso piano. La fine del regime permise l’apertura degli archivi e restituì agli storici la libertà di indagare e giudicare, ma fu necessario attendere il libro di Claudio Pavone Una guerra civile (Bollati Boringhieri, 1991) perché l’espressione venisse usata, almeno, per le vicende del periodo fra il 1943 e il 1945. Oggi il libro di Antonio Carioti permette di estendere questa definizione a una buona parte degli avvenimenti che precedettero la marcia su Roma. Il libro si compone di tre parti. La prima è una scrupolosa cronaca dei maggiori avvenimenti italiani di quegli anni, dalla fondazione del movimento fascista a Milano in piazza San Sepolcro, nel marzo del 1919, alla formazione del governo Mussolini nell’ottobre del 1922. Il lettore vi troverà le numerose vicende che agitarono il Paese quando il fascismo divenne un partito armato e le sue squadre si scontrarono spesso nelle città e nelle campagne con gli «Arditi del popolo ». La seconda è composta dai dialoghi che l’autore ha avuto con alcuni studiosi della storia italiana della prima metà del secolo scorso: un panorama della storiografia in cui è sempre presente il ricordo dell’opera ancora indispensabile di Renzo De Felice. E la terza, infine, è un’antologia di articoli e conferenze di Mussolini: da Audacia!, l’editoriale del primo numero del «Popolo d’Italia» con cui il suo direttore auspicò l’intervento dell’Italia nel conflitto, al discorso che pronunciò nel Teatro San Carlo di Napoli, quattro giorni prima della marcia su Roma, di fronte a un pubblico nel quale sedeva anche Benedetto Croce.
Fascismo, dopo 100 anni Benito Mussolini non è ancora morto, scrive il 23 Marzo 2019 Alessandro Giuli su Libero Quotidiano. Cento di questi anni: tanto è durata sinora la coda del fascismo eterno che gli italiani non hanno ancora finito di scaraventarsi addosso l' un l' altro. Un secolo esatto ci separa dal 23 marzo del 1919, quando Benito Mussolini fondò il suo partito in piazza San Sepolcro a Milano, esattamente nell' intersezione tra il cardo e il decumano dell' antica città romana che dopo molti decenni avrebbe preteso il primato morale della nazione. Se siamo ancora qui, a parlarne e scriverne, non è soltanto perché andiamo matti per gli anniversari a cifra tonda. È che la nostra memoria si fa sempre meno selettiva e sbiadisce nell' indistinto, sicché oggi torna utile rivangare nelle pozzanghere del Novecento per trovarvi il parallelo definitivo con la realtà presente e le presunte reincarnazioni di quell' epoca. Un giochino azzardato in varie circostanze dagli altrettanto eterni cantori della resistenza, spesso devoti al "fascismo dell' antifascismo" di pasoliniana memoria. E così, dal "fanfascismo" degli anni Settanta al populismo contemporaneo passando per il craxismo degli Ottanta e il berlusconismo dei Novanta, insistiamo a non capirci o a non volerci intendere sui fondamentali.
GIUDIZIO LIQUIDATORIO. Per l' accademia e per gli annali della Repubblica il fascismo è morto e sepolto e storicizzato, come disse nientemeno che Silvio Berlusconi l' anno scorso in un lampo di lucidità preelettorale. Eppure, mentre i trapassati annuiscono invano dall' oltretomba, il catalogo dei viventi insiste nel giudizio liquidatorio e nell' allarme sul nuovo regime in vista, oppure bascula tra la damnatio memoriae (il lauraboldrinismo che voleva rimuovere gli obelischi del duce, per dirne una) e l' imitazione grottesca delle pose mussoliniane ancora in voga in certe residuali catacombe nere. Esempio banale. Nel 1995, dopo aver professato per una vita la dottrina missina del «non rinnegare e non restaurare», Gianfranco Fini s' illuse di potersi sedere alla tavola dei giusti espellendo il fascismo, dall' oggi al domani, come un calcolo renale (copyright Marcello Veneziani); i commensali finsero di credergli. A distanza di oltre un ventennio, un liberale berlusconiano come Antonio Tajani si fa spellare vivo per aver ammesso che il fascismo qualcosa di buono deve pur averlo fatto: «Fino a quando non ha dichiarato guerra al mondo intero seguendo Hitler, fino a quando non s' è fatto promotore delle leggi razziali, a parte la vicenda drammatica di Matteotti, ha fatto delle cose positive per realizzare infrastrutture nel nostro Paese, poi le bonifiche». Dal "male assoluto" al "bene relativo", da Fini a Tajani, il passo delle oche può essere breve ma in mezzo c' è un mondo di equivoci e dismisure. La verità, posto che ve ne sia una, potrebbe annidarsi nelle parole di Fabrizio De André: «Ma c' è amore un po' per tutti / e tutti quanti hanno un amore / sulla cattiva strada». Sostituite "amore" con "fascismo" e troverete l' autobiografia della nazione italiana, non necessariamente nell' accezione di Piero Gobetti che la stigmatizzò come illiberale nell' intimo delle sue fibre. Se il fascismo sta ancora qui, ora, di fronte a noi, è perché fu totalitario nel senso della totalità onnicomprensiva del meglio e del peggio in circolazione. Vado a spanne: il patriottismo romanocentrico risorgimentale, il sindacalismo rivoluzionario, il massimalismo interventista dei socialisti mussoliniani prima della Grande Guerra, il reducismo post bellico, il dannunzianesimo fiumano libertario e sovietizzante, il movimentismo della prima ora (sansepolcrismo), la benedizione liberale di Benedetto Croce fino al 1925, l' esiziale clericofascismo di rito lateranense (punto di non ritorno), il mussolinismo marmoreo dai primi anni Trenta, il successivo colonialismo in linea con quello dello Stato liberale e quello demo-europeo, l' anarcofascismo di Berto Ricci (quello della seconda ondata), il razzismo all' italiana, il bellicismo cialtronesco e germanofilo, la guerra, il 25 luglio, Badoglio e Salò e piazzale Loreto con il crepuscolo sanguinario degli idoli e dei feticci. Più tutto ciò che è stato appena omesso o dimenticato, tipo le fascistissime poesie di Pietro Ingrao e i perfetti saluti romani di Eugenio Scalfari o i matrimoni in stile coloniale alla Indro Montanelli.
LA FORMULA DI ECO. Una totalità, appunto, in cui non c' è salvacondotto alcuno per gli sconfitti né un paradiso dove i vincitori possano finire "con tutte le scarpe", per dirla con il fascista Luigi Pirandello. Quando Umberto Eco coniò la formula dell' Urfascismo, il fascismo perenne che come un archetipo platonico precede ogni sua forma storica e le sopravvive, eravamo nel 1995 e Matteo Salvini aveva appena smesso di frequentare Il pranzo è servito" di Davide Mengacci su Rete4. Oggi, con il duce dei leghisti tricolori in sella alla nazione, Eco persisterebbe come altri nell' affibbiare l' infame etichetta agli avversari del momento piuttosto che scavare nella genealogia domestica. Invece Giampiero Mughini, intellettuale antifascista con molti fiocchi, ha appena fatto rieditare il suo più bel libro A via della Mercede c' era un razzista (dedicato a Leonardo Sciascia, ora per Marsilio ma nel 1991 Rizzoli) in cui ritrae l' interprete del più miserabile fra i razzismi, quello biologico, anzi bovino: quel Telesio Interlandi che fu, sì, maestro di Giorgio Almirante alla Difesa della Razza ma al tempo stesso con il suo Quadrivio fornì alimento e protezione e copertura ideologica per il fiore dell' intellettualità comunista e liberale del Dopoguerra: Dino Terra, Umberto Barbaro, Alberto Moravia, Eugenio Montale, Vitaliano Brancati Con queste premesse, davvero ci interroghiamo sul coefficiente di pericolo insito nelle cinghiemattanze canore di CasaPound? E proprio a causa della comune labilità mnemonica, quando non della mala fede, chi si ricorda più che prima del 4 marzo i fascisti del terzo millennio venivano indicati dai media come un partito lì lì per dare la scalata alla democrazia? Non hanno toccato l' un per cento nelle urne. E tuttavia c' è Salvini che per giunta s' è messo in società con l' algoritmo della Casaleggio e la democrazia diretta dei Cinque stelle. Roba forte, che autorizza paragoni spericolati e incendia perfino la buona fede di mansueti intellettuali altrimenti temprati nello scetticismo metodico. Ma questo è il "fascismo percepito": nella migliore delle ipotesi una variante dell' Urfascismo per l' èra del riscaldamento globale. E al riguardo, un secolo prima di Putin e Visegrad, aveva già colpito nel segno Oswald Spengler con il suo Tramonto dell' Occidente (1918) in cui fu deposto il vaticinio sul nuovo cesarismo a venire: «La potenza informe nelle mani di singoli individui che controllano dispoticamente le forze e gli uomini di questo mondo interiormente dissolto e crepuscolare», come chiosò il suo traduttore Julius Evola.
L' EPOCA DEI MATTEI. Da Cesare a Salvini il passo stavolta è enorme. Prima c' è un' infinità di Cesari assieme al Veltro dantesco, a Cola di Rienzo, Carlo Emanuele I, Napoleone e via così nella voluttà di scendere sino ai tempi ultimi del popolo che azzanna le élite decadute. Sempre con l' ombra di Mussolini e dei suoi antifascisti del giorno dopo, del democristianfascista Mario Scelba a scrivere leggi antifascistissime dal Viminale nel 1947-53. Poi la guerra fredda con la Balena bianca scudocrociata e il rosso il Pci moscovita: perni di un arco costituzionale impermeabile ai vinti. Quindi Craxi disegnato da Forattini su Repubblica con indosso gli stivaloni lucidi e Berlusconi a ribaltare gli schemi maltrattando il sonno dei comunisti fuoriusciti dalle macerie del Muro di Berlino nella veste dei sinceri democratici. Oggi siamo nell' epoca dei Mattei, Renzi e Salvini: un principato caduto a sinistra e un altro che sorge nel consueto non-luogo della topografia politica emerso dalla disintegrazione delle vecchie certezze. A entrambi, figli illegittimi di una prassi cesaristica senza dottrina, tutt' al più si addicono i pensosi richiami che Giuseppe Bottai disseminò nelle sue memorie, Vent' anni e un giorno, splendidamente curate da Giordano Bruno Guerri per Bur: «C' era già in lui, per così dire, qualche cosa di "mussoliniano" L' esercizio rappresentativo del potere può avere portato ciò a una perfezione studiata, voluta, all' arte, all' artifizio. Ed è allora che il mussolinismo, inteso nella sua accezione più elementare, diviene una seconda natura, ma è dalla sua vera natura che deriva di prima mano. La persona, insomma, era già un personaggio». Facebook prima di Facebook. Sto dando anch' io del fascista a Salvini? O non piuttosto del salviniano che se si ferma è perduto? E non più di quanto Renzi fu renziano, Berlusconi berlusconiano e Craxi craxiano. Da Platone in poi si sa che in democrazia la plebe ha bisogno dell' uomo forte di cui innamorarsi e disfarsi, come nell' andare e riandare d' un moto ondoso attratto inesorabilmente dallo scoglio che finirà per travolgere. Bottai l' aveva presentito in corso d' opera e, prima di scivolare nella parte del vile, offrì un antidoto: «Considerando le difficoltà obbiettive d' un opposizione ad agire efficacemente» escluso «l' eterno, monotono, superato riferimento ai concetti di destra e sinistra, invocavo un' opposizione per linee interne: creiamo a noi stessi la nostra opposizione». Non è più il fascismo in sé a toccare nel profondo ogni italiano, è l' Urfascismo in me. Cento di questi anni (e un giorno). Alessandro Giuli
TELESIO INTERLANDI E “LA STORIA DI UN LIBRO POCO PIACIONE”. Stenio Solinas per il Giornale il 21 marzo 2019. Uscito una trentina di anni fa per la Rizzoli, A via della Mercede c'era un razzista, di Giampiero Mughini, torna ora in una più elegante veste grafica per Marsilio (253 pagine, 18 euro), accompagnata da una lunga nota introduttiva dell'autore stesso il cui titolo dice tutto: «Storia di un libro poco piacione». Si trattava e si tratta di un volume matrioska, più libri nascosti all'interno di ciò che formalmente li conteneva, la biografia di Telesio Interlandi, il più dimenticato e il più maledetto dei giornalisti italiani del Ventennio, il direttore di La difesa della razza, il quindicinale corifeo delle leggi razziali del 1938, il portavoce dell'antisemitismo più infame. Interlandi però era stato fra le due guerre anche il direttore di Tevere e di Quadrivio, quotidiano il primo, settimanale di arte e cultura il secondo, dove avevano collaborato le firme più brillanti dell'epoca, da Brancati a Moravia, da Pirandello a Soldati, da Cardarelli ad Alvaro, a Delfini. Interlandi però era stato anche un intellettuale appassionato di arte e di letteratura, amante di ogni avanguardia, difensore dell'architettura razionalista, traduttore dal russo di AleKsandr Blok e i suoi giornali, i libri da lui scritti (Pane bigio aveva inaugurato la carriera di editore di Leo Longanesi), la sua stessa persona erano stati parte viva di quella Roma che fra il caffè Aragno, cenacolo dell'intellighentia del tempo, il Teatro degli Indipendenti di Anton giulio Bragaglia dove ogni rappresentazione diventava un avvenimento, le grandi gallerie d'arte che proponevano e esponevano opere fatte apposta per turbare il sonno dei placidi borghesi, si era rivelata un terreno fertile di idee, progetti, esperimenti che la inserivano a pieno titolo nella cultura europea del tempo. Una volta letto il libro, insomma, ciò che ne emergeva ne emerge- non è tanto o solo la vita di un uomo condannato in seguito al ludibrio perpetuo per il suo razzismo, sorta di sepolto vivo a cinquant'anni per le sue idee nefaste, ma una specie di continente sommerso, di Atlantide sconosciuta eppure esistita e ben diversa da quella raccontata dalla retorica antifascista che, a fascismo caduto, aveva preso il posto della retorica fascista, e per la quale tutto era stato solo conformismo, gusti provinciali, nessuna cultura, nessuna fede, se non un opportunismo più o meno mascherato, un doppiogiochismo più o meno virtuoso all'insegna di un antifascismo integerrimo, ma così ben nascosto che, è il caso di dire, pressoché nessuno al tempo se n'era accorto. Stava e sta qui «lo strano caso di Telesio Interlandi» che fa da sottotitolo al libro. Come e perché un intellettuale del genere aveva potuto immergersi sino al collo nella fogna del razzismo biologico? Davvero tutti quelli che solo in seguito lo avrebbero maledetto potevano dichiararsi puri e senza colpa? Bastava l'abiura, sia pure contorta, in stile Guido Piovene, la scusante della giovane età, in stile Vitaliano Brancati, il negare, in stile Il Mondo di Panunzio, il diritto di parola a Interlandi perché lui l'aveva negata agli ebrei, per considerare il caso chiuso? Nel 1991, l'anno di uscita di A via della Mercede c'era un razzista, i saggi sul fascismo di Renzo De Felice avevano ormai fatto scuola, nonostante un iniziale fuoco di sbarramento e tutta una storiografia revisionista aveva in seguito provveduto a dare un'immagine più giusta della cultura fascista fra le due guerre: la riconsiderazione del futurismo; l'avventura novecentesca delle riviste, le arti figurative e l'architettura; gli sbandamenti e i ripensamenti ideologici, fecondi e a volte drammatici, di scrittori quali Felice Chilanti, Fidia Gambetti, Elio Vittorini, Massimo Bontempelli, Curzio Malaparte, Alberto Savinio. Un libro del genere, quindi, sarebbe dovuto cadere in un terreno propizio, l'occasione per un sereno esame di coscienza, per un'analisi senza pregiudizi di cosa fosse stata veramente l'Italia fascista. Scrive Mughini nella sua introduzione ad hoc per questa nuova edizione, che Panorama, il settimanale per cui lavorava, lo accusò di aver «sfumato le ragioni del fervore ariano e antisemita di Interlandi» e gli suggerì di trovare in futuro protagonisti che «moralmente e stilisticamente ne valessero davvero la pena». Sul Sole 24 ore e su Repubblica Andrea Casalegno e Nicola Tranfaglia scrissero in sostanza che Interlandi era stato solo «un opportunista cinico» e che, nel «salvarlo», l'autore non rendeva una buona causa all'antifascismo e all'antirazzismo... Tirato in 12mila copie, il libro ne vendette intorno alle 8mila, cifra più che ragguardevole e che dimostra come spesso i lettori siano più intelligenti dei critici chiamati a illuminarli. Trent'anni dopo, mi sbaglierò, ma sarà come trent'anni prima, nel senso che non è cambiato culturalmente niente, pur se in superficie, politicamente, sembra essere cambiato tutto. Il libro si venderà, ma la classe dei colti farà come lo struzzo nel migliore dei casi, darà il calcio dell'asino nel peggiore, l'accusa di fascista che chiude la questione. Scrive Mughini che a lui «fare l'Avvocato delle Cause Vinte» non l'ha mai appassionato: «Ti trascini dietro un grande pubblico osannante, un pubblico cui paiono sublimi le affermazioni degne della terza elementare. Il fascismo era un'ignobile dittatura. La mafia fa veramente schifo. È molto meglio essere onesti che corrotti. Sono delle ovvietà a leggere le quali di solito mi appisolo». Ho l'impressione tuttavia che il punto sia un altro e ha a che fare con l'assenza di una memoria condivisa della storia d'Italia, l'abiura, è il caso di dire, della propria memoria come atto fondante della nuova Italia nata dalle rovine di quella che c'era stata prima, il fascismo visto come un pozzo nero da coprire perché infetto e la cui acqua però infettò solo i fascisti e non gli italiani che la bevvero... Al suo posto ci siamo inventati un'Italia antifascista sentimental-consolatoria, quella che già nel 1946 Italo Calvino tratteggiò da par suo sull'Unità trasformando l'Otto settembre nell'Odissea, ovvero «il mito del ritorno a casa: il dover tornare a casa su mezzi di fortuna, per paesi irti di nemici. È la storia degli Otto settembre, la storia di tutti gli Otto settembre della Storia». Un'interpretazione suggestiva, non fosse che Ulisse e i suoi intraprendono il loro viaggio verso casa al termine di una guerra vittoriosa in terra altrui, il solo Ulisse si salva e di Otto settembre, purtroppo, la Storia conosce solo il nostro. Anni dopo, Luigi Comencini la codificherà nel suo magistrale Tutti a casa: «Colonnello, è successa una cosa incredibile, i tedeschi si sono alleati con gli americani e ci stanno sparando addosso» diceva concitato al telefono il tenente Innocenzi, con la faccia di Sordi. Per esorcizzare il dramma ci andavamo specializzando nella farsa. Nel tempo è diventata una seconda pelle. Così, da settant'anni ormai viviamo in un'Italia tarantolata dall'ansia politico-ideologica di negare il fascismo e dalla realtà effettuale delle cose che ogni due per tre la costringe a ricordarlo, una negazione trasformatasi in seguito in giudizio etico, una rilettura manichea che ha di fatto reso monco quanto incomprensibile un percorso nazionale e l'idea stessa dell'Italia come nazione, trasformandoci in un Paese che sputava su se stesso e sempre e comunque si assolveva di ogni colpa e di ogni responsabilità. Solo che senza la pietas per le ragioni dei vinti e senza un reale esame di coscienza quanto a quelle dei vincitori non si costruisce un Paese, ma solo la sua caricatura. Che sia quest'ultima ad aver trionfato, trasformando l'Italia in un Paese senza -senza dignità, senza un progetto, senza una comunità d'intenti, senza un'identità storica lo testimonia il paradosso di un neofascismo di ritorno, o di risulta, fate voi, -crani rasati e caccia grossa all'immigrato- i cui rappresentanti un giovane neofascista dei miei tempi avrebbe preso a calci nel sedere. Specularmente, anche l'antifascismo si è trasformato nella sua caricatura. È divenuto un puro fonema, la testa di turco buona per ogni occasione, il randello con cui il politicamente corretto colpisce tutto ciò che non gli piace, dal populismo alle regole grammaticali. È l'estrema deriva del de-pensamento, l'illusione nominalistica di chi pensa che agitando un fantasma metta in mora la realtà. Dice Mughini che, a trent'anni di distanza, non cambierebbe una virgola di ciò che allora scrisse. Ha ragione, e del resto è scritto benissimo. Ma non si illuda. Glielo metteranno di nuovo in conto.
Fascismo, Scalfari rivela: "Io, balilla e poi nei Giovani fascisti". Il fondatore di Repubblica racconta la sua storia personale durante il fascismo: "Venni espulso per un articolo", scrive Claudio Cartaldo, Domenica 24/03/2019 su Il Giornale. Il racconto del suo passato Eugenio Scalfari lo fa nell'ormai puntualissimo articolo della domenica mattina su Repubblica. Tema del giorno: il presunto ritorno del fascismo. L'ex direttore del quotidiano ha messo nero su bianco la sua giovinezza tra le fila del regime del Ventennio. "Il mio fascismo-bambino cominciò quando ero Balilla a sei anni", scrive il fondatore di Repubblica. Scalfari parte proprio dalla sua esperienza giovanile per discutere del ritorno in auge dei movimenti neofascisti e - soprattutto - dell'affinità (presunta) di Salvini con certe destre. Un secolo fa, infatti, nascevano i Fasci di combattimento a piazza San Sepolcro a Milano. Un avvenimento ricordato anche dai movimenti di estrema destra che in tutta Italia si sono radunati per commemorare la data. "Non posso nascondervi - ricorda Scalfari - che quel fascismo segnò in qualche modo la mia storia personale di bambino e poi di giovane ed è rimasta una fase della mia vita che ha molto significato". Tutto iniziò "quando ero Balilla a sei anni. I Balilla erano l'organizzazione dei bambini dai 6 ai 14 anni. Un corpo scelto dei Balilla era quello dei 'moschettieri' che avevano in dotazione un giocattolo che raffigurava in modo perfetto un fucile 91 che era il fucile normale della Fanteria". Poi "a 14 anni si diventava avanguardisti e naturalmente anche io lo diventai. Gli avanguardisti il sabato uscivano con la loro divisa, giacca e pantaloni grigioverdi e cinturone alla vita". Infine, a 17 anni, "scattava il passaggio dagli avanguardisti ai Giovani fascisti; quelli che frequentavano le Università in qualunque facoltà fossero erano denominati Giovani fascisti universitari". È qui che il giovane Scalfari interrompe la sua "storia" nel fascismo. "Personalmente - racconta - scrivevo su alcuni giornali fascisti, tra i quali soprattutto Nuovo Occidente e Roma Fascista. Il giornalismo politico cominciò ad attrarmi fin da allora e lo praticai con molta soddisfazione. Tuttavia durò poco più di un anno, alla fine del quale fui chiamato dal vicesegretario generale del partito fascista e da lui espulso dal Guf (Gioventù universitaria fascista), per un articolo in cui criticavo alcuni gerarchi che secondo le voci in circolazione si erano appropriati illecitamente di molti milioni di lire speculando sulla costruzione dell'Eur. Queste notizie erano state da me scritte in un articolo di fondo su Roma Fascista e questa fu la causa della mia espulsione dai Guf".
Difendo Scalfari fascista. All'epoca lo erano tutti. Come lui pure Bocca, Biagi, Napolitano e Ingrao, scrive Paolo Guzzanti, Domenica 29/10/2017 su Il Giornale. Voglio difendere Eugenio Scalfari da quest'accusa idiota di essere stato fascista da giovane, per cui Paolo Flores D'Arcais direttore di Micromega intende processarlo. Non lo faccio soltanto per Scalfari, ma per la verità storica e per la nostra dignità collettiva e contro l'ipocrisia. Io il fascismo non l'ho vissuto perché ero bambino, ma la questione riguarda Scalfari e tuti quei ragazzi giovani e brillanti che erano non soltanto fascisti, ma strafascisti e che soltanto anni dopo hanno militato in campo avverso, basti citare Giorgio Napolitano e Pietro Ingrao che venivano dai Guf fascisti. Ma restiamo su Scalfari da cui mi divide quasi tutto, tranne il grande affetto e la riconoscenza che gli devo per avermi fatto sperimentare il mondo facendo di me un giornalista. Qualche settimana fa ci incontriamo nella piccola libreria antiquaria di via Pie' di Marmo, a due passi dal Pantheon. Eugenio è un po' indeciso se ammettere o no di riconoscermi, poi cede e ne nasce un dialogo indimenticabile, almeno per me.
«Sei molto cambiato» dice lui.
«Anche tu, benché ti veda spesso in televisione».
«E che cerchi?».
«Cerco - dico io - libri sulla Roma del 1943».
«Ah, il 1943! Sai, io allora non ero fascista».
«Ah no?»
«No! - dice con fierezza - Io ero fa-sci-sti-ssimo».
«Be' - commento - lo hai raccontato e scritto con grande lealtà. Hai anche raccontato del tuo compagno di banco al liceo di Sanremo Italo Calvino che ti scrisse di essere diventato comunista».
«Ah, Italo! Be', grazie tante: per lui tutto era facile. Lui dietro casa aveva le montagne e per sfuggire alla guerra se ne andò per la montagna».
«A combattere da partigiano, come ha raccontato in molti libri».
«Sì, vabbè, ma il punto è che per Italo era facile: esci dalla porta posteriore della tua casa, e c'è la montagna. Io invece nel 1943 stavo a Roma e dietro casa avevo il Vaticano. Così me ne andai in Vaticano».
«Per sfuggire ai fascisti?»
«Ma no, come ti ho detto ero fascista. Solo che ero di leva e non volevo partire militare. Così mi andai a nascondere in Vaticano».
«Anche Giorgio Bocca ha raccontato di essere stato un gran fascista e di aver urlato a piazza Venezia Duce scioglici le mani».
«Ma lo eravamo tutti».
«Lo eravate per convinzione o perché era obbligatorio esserlo?»
«Ma eravamo tutti fascisti ferventi, pazzi per il fascismo e per Mussolini».
«Io ricordo un giorno in cui arrivasti in redazione e gettasti sul tavolo un libro che avevano scritto su di te».
«Lo ricordo: Il cittadino Scalfari.
«Sì e dicesti: in questo libro si sostiene che io sia stato fascista, monarchico, liberale, radicale, socialista, comunista e alla fine democristiano. Poi aggiungesti: ed è tutto vero».
«Questo non me lo ricordo. Comunque ero fascista e su questo non ci sono dubbi».
Qui finisce il racconto del nostro dialogo in libreria. Quel dialogo non dimostra niente di particolare salvo che i giovani intellettuali fino all'inizio della guerra, anzi fino all'inizio della sconfitta erano tutti fascisti convinti, spesso fanatici fino e oltre l'imbarazzo. I pittori della scuola romana salvo Mario Mafai che aveva una sposa ebrea lituana, e comunque soltanto dopo le leggi razziali del 1938 erano tutti fascistissimi, e poi divennero quasi tutti comunisti. Faceva eccezione Carlo Levi, il noto autore di Cristo si è fermato ad Eboli che fu antifascista da subito e visse separato dalla comunità dei pittori italiani che erano tutti esaltati dal fascismo.
In quel dialogo in libreria ho anche chiesto a Eugenio Scalfari: «E tu come te la sei cavata con gli ebrei tuoi conoscenti?».
«Nulla di particolare rispose amici erano e amici restarono, non cambiò nulla fra di noi».
Scalfari sposò Simonetta De Benedetti, figlia di Giulio, il mitico direttore della Stampa per vent'anni. Simonetta De Benedetti, scomparsa da qualche anno, era ebrea e dunque tecnicamente anche le figlie di Eugenio sono ebree. Ma lui attraversò il buio infernale delle leggi razziali (che estromettevano gli italiani ebrei da molte attività ma che non avevano nulla a che vedere con le persecuzioni nazionalsocialiste in Germania) senza per questo perdere la fede di giovane fascista, fino al crollo del regime. Giorgio Bocca scrisse di essere diventato antifascista soltanto quando vide in quali condizioni le forze armate italiane erano scese in guerra, ma il distacco degli intellettuali e il loro passaggio all'antifascismo si compì soltanto con la vittoria militare alleata e la guerra civile che vide schierati contro i nazisti anche uomini di estrema destra come Edgardo Sogno Rata del Vallino, Medaglia d'Oro al valore militare per la Resistenza. Credo che uomini anche spropositatamente intelligenti e colti com Paolo Flores D'Arcais (la cui moglie Anna gli aveva affibbiato amorevolmente il soprannome di «frittatino» in quanto «testa d'uovo sfranta») sono ossessionati dalla banalissima ed evidentissima verità che tutti gli antifascisti seri conoscono da sempre: la «meglio gioventù» italiana e fino alla guerra civile successiva all'armistizio, era fascista per delirante passione rivoluzionaria che era tipica di quell'epoca e soltanto di quell'epoca che accomunava tutti gli intellettuali poi diventati in seguito comunisti e socialisti, salvo coloro che avevano scelto, come Nenni, Togliatti e Saragat, l'esilio o la galera come Giancarlo Pajetta, Sandro Pertini e Antonio Gramsci. Paolo Flores e la corrente di pensiero robesperriana, anzi saintjustiana, fragile e intransigente, dovrebbero farsene una ragione e chiedersi che cosa e chi sarebbero stati loro se fossero nati un quarto di secolo prima e avessero avuto vite simili a quelle di Scalfari, Bocca, Fellini, Flaiano, Biagi, Montanelli, Malaparte, Zangrandi, Ingrao, Napolitano e tutto lo stato maggiore che proveniva dalla fascistissima Cinecittà, in un mondo intelligentissimo cui partecipavano creature geniali, fasciste e non fasciste. Giorgio Bocca partigiano ammazzò un prigioniero tedesco per poter andare a dormire senza preoccupazioni. E noi? E io? E lui Paolo Flores «Frittatino» d'Arcais? Nulla da dichiarare come disse Oscar Wilde ai doganieri americani salvo la propria genialità?
"Tangentopoli nera", dalle carte segrete di Mussolini arriva la verità sulla corruzione del Ventennio fascista. Le mazzette giravano sotto il Regime, mentre la propaganda inneggiava all'austerità, scrive il 16/10/2016 AdnKronos. Quando c’era Lui, il Duce, non solo i treni arrivavano in orario, ma si poteva lasciare aperta la porta di casa, perché l’ordine e la legalità erano così importanti da valere persino il sacrificio della libertà. L’immagine di un potere efficiente e incorruttibile, costruita da una poderosa macchina propagandistica, ha alimentato fino a oggi il mito di un fascismo onesto e austero, votato alla pulizia morale contro il marciume delle decrepite istituzioni liberali. Ma le migliaia di carte custodite nei National Archives di Kew Gardens, a pochi chilometri da Londra, raccontano tutta un’altra storia: quella di un regime minato in profondità dalla corruzione e di gerarchi spregiudicati dediti a traffici di ogni genere. Dalle carte segrete di Mussolini arriva la verità sulla corruzione, la faida interna al partito fascista, le ruberie, i ricatti e gli scandali nell'Italia del Ventennio. A raccontarla due studiosi Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella nel saggio "Tangentopoli nera", ora in uscita per Sperling e Kupfer (pagg. 252, euro18). Il primo, saggista, è esperto di archivi anglosassoni; il secondo è un giornalista investigativo, specializzato nella storia segreta italiana. Così, si scopre che, a Milano, il segretario federale del Fascio, Mario Giampaoli, e il podestà Ernesto Belloni si arricchiscono con le mazzette degli industriali e con i lavori pubblici per il restauro della celebre Galleria, coperti dall’amicizia col fratello di Mussolini. Il ras di Cremona, Roberto Farinacci, conquista posizioni sempre più importanti tramite una rete occulta di banchieri, criminali e spie. Diventa così il principale antagonista del Duce, che a sua volta fa spiare i suoi maneggi. Lo squadrista fiorentino Amerigo Dumini tiene in scacco il governo con le carte -sottratte a Giacomo Matteotti dopo averlo assassinato- che provano le tangenti pagate alle camicie nere dall’impresa petrolifera Sinclair Oil. Utilizzando i documenti della Segreteria particolare di Mussolini e quelli britannici desecretati di recente, gli autori ricostruiscono, con lo scrupolo degli storici e il fiuto degli investigatori, l’intreccio perverso tra politica, finanza e criminalità nell’Italia del Ventennio. E attraverso alcune storie emblematiche che si dipanano col ritmo di una "spy story", vengono mostrati i meccanismi profondi e mai completamente svelati delle ruberie, delle estorsioni e degli scandali sui quali crebbe, in pochi anni, una vera e propria "Tangentopoli nera". Ma i misteri continuano ad essere tanti. Ad esempio quelli dei documenti scomparsi a Roma il 10 giugno 1924: si tratta delle carte della borsa di Matteotti, sottratte da Amerigo Dumini, militare a capo della squadraccia che sequestrò e uccise il politico antifascista. Saranno usati come arma di ricatto contro Mussolini e poi seguiranno Dumini nelle sue peregrinazioni nel mondo. "A oltre 90 anni dal delitto - spiegano all'Adnkronos i due autori - quelle carte continuano ad essere irreperibili, malgrado decenni di ricerche in Europa e in America, da parte di storici e studiosi. Ma è innegabile che, al giorno d'oggi, siano custodite negli archivi segreti del Naval Intelligence Department, a Londra, e in quelli del Federal Bureau of Investigation e del Dipartimento di Stato statunitense, a Washington". Inglesi e americani, dunque, gli alleati.
· La pagina nera dei giudici complici sulle leggi razziali.
La pagina nera dei giudici complici sulle leggi razziali. Molti di coloro che supportarono l’odioso razzismo antiebraico non si pentirono mai e fecero in seguito una brillante carriera anche nell’Italia repubblicana. Guido Neppi Modona il 2 luglio 2019 su Il Dubbio. La pagina nera. Recentemente il Capo dello Stato, nella sua qualità di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, riferendosi all’inchiesta in corso sugli impropri contatti tra consiglieri del CSM, magistrati e soggetti politici in tema di nomina dei capi di importanti uffici giudiziari, ha parlato di «un quadro sconcertante e inaccettabile», portatore di «conseguenze gravemente negative per il prestigio e l’autorevolezza» non soltanto del CSM, ma dell’intero ordine giudiziario. Non è purtroppo la prima volta che all’interno della magistratura, che pure ha scritto pagine luminose nella risposta giudiziaria al terrorismo rosso e nero, alla criminalità di stampo mafioso e alla dilagante corruzione, si sono manifestate deviazioni dai compiti istituzionali, ad esempio assecondando scelte e soggetti politici in vista di vantaggi di carriera o incarichi presso organi esterni alla magistratura. Vorrei oggi ripercorrere gli atteggiamenti dei magistrati nei confronti delle leggi razziali antiebraiche del 1938, atteggiamenti nei quali si sostanza una delle più gravi forme di connivenza con il potere politico fascista e di deviazione dai compiti istituzionali di rendere giustizia.
1) In grande maggioranza i magistrati rimasero silenti. E’ un dato ampiamente condiviso che sino al 1943 l’atteggiamento della popolazione italiana nei confronti della legislazione antiebraica del 1938 fu di sostanziale indifferenza. Nella stragrande maggioranza gli italiani voltarono semplicemente la testa dall’altra parte, come se la cosa non li riguardasse, come se non si trattasse di amici, colleghi, concittadini con i quali avevano da sempre convissuto senza fare caso alla religione professata. Eppure la persecuzione dei diritti era stata efficacissima e spietata, volta a privare progressivamente gli ebrei della capacità giuridica, a precludere lo svolgimento di qualsiasi attività lavorativa, a isolarli da qualsiasi rapporto sociale, sino a condannarli a vere e proprie forme di morte civile. Salvo rarissime eccezioni, nel quinquennio dal 1938 al 1943 non furono espresse pubblicamente critiche alle misure contro gli ebrei. Al contrario non pochi esponenti della cultura, accademica e non, si spesero in entusiastiche manifestazioni di adesione e approvazione delle leggi e della propaganda antisemita, anche su riviste specializzate quali Il Diritto razzista, La difesa della razza, Razza e civiltà. E’ altrettanto noto che per oltre quaranta anni dopo la caduta del fascismo un diffuso processo di rimozione ha nascosto sotto un impenetrabile velo di oblio la persecuzione degli ebrei nel quinquennio 1938- 1943: tutto il male dell’infamia razzista è stato proiettato sul periodo della Rsi, sulla deportazione e l’eliminazione degli ebrei nei campi di sterminio nazisti, sino a cancellare dalla memoria collettiva l’essenziale funzione preparatoria svolta dalle italianissime leggi antiebraiche del 1938. Per quanto riguarda in particolare il mondo della giustizia, gli atteggiamenti dei giudici nei confronti della persecuzione antiebraica sono tra le pagine più opache della storia della magistratura italiana. Pur essendo raggiunti in prima persona dalla pervasività e capillarità delle interdizioni antisemite, i magistrati rimasero inerti, “figure silenti” come sono stati definiti in una documentatissima ricerca sul ruolo dei giuristi in occasione delle leggi antiebraiche del 1938. Tra la fine del 1938 e l’inizio del 1939, in concomitanza con l’entrata in vigore della legge fondamentale per la difesa della razza italiana dalla “contaminazione ebraica”, il ministro della giustizia Arrigo Solmi chiede a tutti i magistrati una dichiarazione di non appartenenza alla razza ebraica al fine di verificare la «purezza razziale dell’intero apparato» . A partire dal mese di gennaio 1939 14 magistrati vengono dispensati dal servizio e altri 4 chiedono di essere messi a riposo per non subire l’onta della dispensa d’ufficio. Così da un giorno all’altro scompaiono dai loro uffici 18 magistrati, ma non risulta che alcuno dei circa 4200 magistrati allora in servizio abbia pubblicamente manifestato solidarietà nei confronti dei colleghi rimossi dal servizio. Tutto continuò come se nulla fosse successo. I magistrati rimasero silenti allora e, per quanto possa apparire paradossale, continuarono a rimuovere l’infamia delle leggi razziali anche dopo la caduta del fascismo. Molti magistrati hanno pubblicato nel periodo repubblicano, per lo più in forma autocelebrativa, memorie che coprono anche gli anni del fascismo, ma in nessuna di quelle che ho consultate ho trovato cenni alle leggi razziali antiebraiche. Il processo di rimozione e di manipolazione del razzismo antiebraico è emblematicamente rappresentato da ciò che ha lasciato scritto un magistrato durante il regime e poi nel periodo repubblicano. Sofo Borghese, giudice militare nei tribunali di guerra e poi nel Tribunale militare di Milano anche nel periodo della Rsi, pubblica nel 1939 e nel 1940 due ampi saggi sul Monitore dei tribunali (“Razzismo e diritto civile”, “Razzismo e diritto penale”), nei quali sostiene tra l’altro che «gli ebrei rappresentano il pericolo maggiore per la nostra razza». Lo ritroviamo giudice del Tribunale di Milano, autore nel 1949 di un commento pubblicato sul Foro italiano dall’inquietante titolo “Considerazioni in materia di leggi e anti- leggi razziali”, ove trova tra l’altro modo di affermare: che «la campagna razziale non fu mai sentita in Italia, dove non è mai esistito un problema ebraico», che «la massa degli italiani ebbe a ribellarsi sin dall’inizio alla immorale campagna razzista», che le leggi del dopoguerra volte a reintegrare i diritti patrimoniali dei cittadini dichiarati di razza ebraica hanno creato in favore degli ebrei una «posizione di privilegio per gli effetti sostanziali, procedurali e tributari». Conclude che «non resta che augurarsi una oculata revisione legislativa, che attenui la portata di disposizioni che per eliminare alcune ingiustizie ( il corsivo è nostro) aprono la via ad altre».
2) Non tutti i magistrati rimasero silenti: “Il diritto razzista” e il Tribunale della razza. La pubblicazione nel 1939 della nuova rivista Il diritto razzista offre a numerosi alti magistrati, senza esserne richiesti né sollecitati, l’occasione perfetta per esternare la propria fede razzista. Tra coloro che inviarono “vibranti” messaggi di adesione ai contenuti e alle finalità della rivista figurano: il primo presidente onorario della cassazione Alessandro Marracino, i presidenti di sezione della cassazione Ettore Casti, Antonio Azara, Domenico Rende, Salvatore Messina, Guido Mirabile, Oreste Enrico Marzadro, Francesco Saverio Telesio, il consigliere di cassazione Ernesto Eula, il primo presidente Alfredo Cioffi e i procuratori generali di corte di appello Pietro Pagani e Alfredo Janniti Piromallo, Emanuele Piga, presidente della magistratura del lavoro, Adolfo Giaquinto, procuratore generale e poi primo presidente della corte di appello di Roma. In tempi e per periodi diversi, alcuni fecero parte del comitato scientifico e del comitato di redazione, altri pubblicarono sulla rivista articoli più o meno ferocemente antisemiti, tra cui Mario Baccigalupi, giudice del Tribunale di Milano, teorizzatore in una voluminosa monografia del rinnovamento razziale nel pensiero giuridico. Oltre a queste spontanee manifestazioni filo- razziste, alti magistrati svolgono funzioni nel c. d. tribunale della razza, istituito nel 1939 per esprimere parere sulla facoltà del ministro dell’interno di dichiarare la non appartenenza alla razza ebraica anche in difformità delle risultanze degli atti dello stato civile. Ne fecero parte i consiglieri di cassazione Gaetano Azzariti, in qualità di presidente, Antonio Manca e Giovanni Petraccone; capo di gabinetto del presidente fu Giuseppe Lampis, anch’egli consigliere di cassazione. Tra le richieste di non appartenenza alla razza ebraica numerose sono quelle – si parla di più di cinquanta – di chi intende dimostrare di essere il frutto di una relazione adulterina della madre ebrea con un appartenente alla razza ariana. Il nuovo organismo favorì un vero e proprio mercato delle “arianizzazioni”, alimentato da una schiera di faccendieri e truffatori, di funzionari corrotti e di avvocati di bassa lega. Assolutamente esemplari dei rapporti di continuità tra il regime e l’ordinamento repubblicano sono le vicende dei magistrati che svolsero funzioni presso il tribunale della razza. Assai noto è lo straordinario cursus honorum del presidente Azzariti, nominato giudice della Corte costituzionale dal Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi nel 1955 e poi eletto presidente dai suoi colleghi nel 1957; Manca e Lampis vennero eletti giudici della Corte dai loro colleghi della cassazione nel 1953 e nel 1955, il primo rimase in carica sino al 1968. Sembra cioè che l’avere esercitato funzioni presso il tribunale della razza sia stato considerato nel periodo repubblicano titolo di merito per essere nominato dal Presidente della Repubblica o eletto dai colleghi della cassazione giudice della Corte costituzionale.
3) I conti con il razzismo antiebraico sono tuttora aperti. In definitiva, sulla base delle ricerche sinora effettuate, risulta che i magistrati che a vario titolo hanno pubblicamente aderito al razzismo antiebraico sono poco più di una ventina. Non molti, ma quasi tutti posti ai vertici della piramide giudiziaria, e quindi in grado di esercitare una notevole influenza all’interno di una struttura rigidamente gerarchica quale era allora la magistratura. Anche alcuni tra i più compromessi con il razzismo antiebraico o con la RSI hanno poi continuato ad occupare posizioni di vertice nel periodo repubblicano. Sono già stati menzionati Azzariti, Manca e Lampis, ai quali, per non fare torto a nessuno, si possono ora aggiungere, a titolo di esempio: Luigi Oggioni, già consigliere di cassazione della Rsi, poi primo presidente della cassazione dal 1959 al 1962, nominato nel 1966 giudice della Corte costituzionale dal Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, ne diviene vice- presidente nel 1975 e rimane in carica sino al 1978; Ernesto Eula, procuratore generale e poi primo presidente della cassazione dal 16 ottobre 1954 al 26 giugno 1959; Antonio Azara, procuratore generale e poi primo presidente della cassazione dal 12 novembre 1952 al 17 gennaio 1953, senatore per la Democrazia cristiana e ministro della giustizia nel governo Pella del 1953; Sofo Borghese, presidente di sezione e poi procuratore generale della cassazione dal 7 agosto 1981 al 6 gennaio 1983. Sono ormai trascorsi più di ottanta anni dalle leggi razziali del 1938, ma il fatto che magistrati, per definizione custodi dei diritti di tutti i cittadini e del principio di eguaglianza, siano stati assertori del razzismo antiebraico mi sembra un accadimento talmente grave da imporre ulteriori sforzi di ricerca. Per verificare ad esempio, attraverso l’esame dei fascicoli personali dei magistrati interessati, se siano rintracciabili elementi che accomunino le varie manifestazioni di connivenza con il razzismo antiebraico. Altrettanto inquietanti sono, nel periodo repubblicano, la costante rimozione del passato razzista in occasione delle nomine degli alti vertici della magistratura e, più in generale, il dato che le ricerche più approfondite sul ruolo svolto dai giuristi a sostegno delle leggi razziali vedono la luce solo negli anni duemila. Nuove ricerche su quelle nomine ai vertici della magistratura e alla Corte costituzionale che oggi ci paiono così scandalose sono premessa indispensabile per chiudere i conti non solo con il razzismo del regime fascista, ma anche con la troppo lunga rimozione nel periodo repubblicano, sia all’interno della magistratura che nella società civile. Il che è tanto più utile e necessario nell’attuale momento storico, in cui anche nella società italiana tornano a circolare i germi nefasti di nuove forme di razzismo e la ricerca di nuovi capri espiatori.
· Il Fascismo filo-islamista.
Italo Balbo fascista filo-islamico «I libici diventino italiani». Pubblicato martedì, 09 luglio 2019 da Gian Antonio Stella su Corriere.it. «Noi avremo in Libia non dominatori e dominati, ma italiani cattolici e italiani musulmani, gli uni e gli altri uniti nella sorte invidiabile di essere gli elementi costruttori di un grande potente organismo, l’Impero fascista». Rileggere oggi le carte di Italo Balbo, che riaffiorano in gran parte inedite e sorprendenti dalle scartoffie dell’Archivio centrale dello Stato proprio in questi tempi così complicati nei rapporti tra l’Italia e il Sud del Mediterraneo, è un’esperienza imperdibile. A partire soprattutto dai rapporti fra l’allora governatore della Libia e quella che lui stesso, in una relazione a Mussolini «sulla incorporazione delle province libiche al regno d’Italia e sulla concessione di particolare cittadinanza italiana ai libici mussulmani», definisce una terra «geograficamente parte integrante della penisola». La Quarta Sponda, appunto. Il libro curato da Mirco Modolo, Nuove fonti per la storia d’Italia. Per un bilancio del «secolo breve» (De Luca Editori d’Arte, pagine 336, euro 48)C’è di tutto, in quelle carte riordinate da Margherita Martelli. Come due telegrammi del Duce al quadrumviro ferrarese nel corso della trionfale «Crociera Aerea del Decennale» negli Stati Uniti e in Canada. Nel primo, a metà luglio, si congratula per l’arrivo da Reykjavík a Cartwright, in Canada («Tutto il popolo italiano ha vibrato di spontaneo entusiasmo stop») e ironizza: «Vedo che ti attieni rigorosamente fascisticamente alla mia consegna: massima disciplina in aria=minima dispersione di energie in terra. A noi!» Nel secondo è infastidito dall’eccesso di accoglienze tributate al «Neo-Colombo» («formidabile ambasceria/ d’italiana diplomazia», diceva un fumetto de «Il Balilla») via via che appariva nei cieli con la sua flottiglia di idrovolanti: «Devi ridurre al minimo cioè a quanto è voluto dalla cortesia internazionale la mole delle manifestazioni che ti si preparano». Insomma, «Il tuo non est un volo sportivo. Fallo intendere et se non lo intendono piantali tutti senza indecisioni…» Intimazione seguita, quattro mesi dopo, dalla scelta di spedire il «Maresciallo dell’Aria» (decisione inaspettata, a leggere una lettera di Giuseppe Bottai, incredulo, all’«amico Italo») come governatore in Libia. Ed è qui la parte più interessante degli incartamenti su Balbo messi finalmente a disposizione degli storici, (assieme a un’enormità di altri documenti sepolti da decenni nei depositi o solo oggi desecretati) per il progetto Nuove fonti per la storia d’Italia, ideato e diretto da Eugenio Lo Sardo e a cura di Mirco Modolo. L’insistenza dell’«avio-governatore» sulla necessità politica di coinvolgere gli arabi nell’edificazione di una Libia italiana e fascista. Punto primo: il rispetto. «Debbo francamente riconoscere che il governo dell’epoca per affrettare la venuta di famiglie italiane sul Gebel cirenaico e guadagnar tempo per le piantagioni, autorizzò l’occupazione dei terreni prima ancora che l’Ufficio Fondiario ne effettuasse l’indemaniamento», scrive il 24 aprile 1935. Un problema, per i rapporti con i locali. Più importante ancora però, prosegue, è il rispetto della cultura locale: «L’insegnamento arabo e quello religioso è adeguato alle necessità: scuole italo-arabe, scuole coraniche, moschee sono aperte nei principali centri e agglomerati di popolazione». Certo, aggiunge, lui non è d’accordo sulla richiesta libica di istituire «una scuola secondaria per giovani arabi. Sono decisamente contrario alle esagerazioni compiute da qualche nazione nel campo dell’istruzione degli indigeni perché penso che un eccessivo elemento culturale potrebbe far sorgere sentimenti di indipendenza. Ma qualcosa bisogna fare; non è possibile lasciare aperte agli arabi solamente le scuole elementari…». La settimana successiva torna alla carica in una lettera al Duce: «Mio Capo!». Ce l’ha coi metodi di Rodolfo Graziani, che secondo lui in Cirenaica ha «esagerato». Lo giudica «un soldato coloniale d’eccezione», ma con «gravi deficienze negli affari civili». Per carità, non è «opportuno e neppure possibile, senza grave ed irreparabile danno, sconfessare improvvisamente» il suo operato, ma occorre una svolta sia sugli indennizzi per i terreni di fatto requisiti sia sul piano culturale. «Ti proporrò», avverte il Duce, di «fondare una scuola araba religioso-amministrativa». Vacci piano con la «facoltà teologica», gli risponde Mussolini: «Massima ponderazione». Lui si spinge oltre. E nella scia dello stesso dittatore che nel 1936 a Tripoli, a cavallo, ha levato la «spada dell’Islam» tuonando che «L’Italia fascista intende assicurare alle popolazioni musulmane della Libia e dell’Etiopia la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta e vuole inoltre dimostrare la sua simpatia all’Islam e ai Musulmani del mondo intero», arriva nel 1937 a proporre di dare ai libici addirittura la cittadinanza italiana. Certo, spiega la bozza, occorrono dei requisiti: almeno 21 anni di età, la fedina penale candida, la terza elementare… Ma è una «cittadinanza italiana piena». Non fu forse lo stesso capo del governo, sottolinea Balbo con qualche malizia, a dire loro «Mussulmani di Tripoli della Libia! Diffondete queste mie parole in tutte le case delle vostre città e nei vostri paesi fino alle ultime tende dei pastori»? Non fu lui a impegnarsi? «Voi sapete che io sono un uomo parco nelle promesse, ma quando prometto mantengo». E loro «sono in attesa». Problemi religiosi zero: «Il governo non ha mai favorito in Libia alcuna forma di proselitismo religioso inteso a convertire i mussulmani ad altra fede», dice il governatore l’anno dopo in una conferenza a Roma su La politica sociale fascista verso gli Arabi della Libia. «Anzi, ha manifestato il suo interessamento a favore del culto islamico intervenendo generosamente, con elargizioni cospicue, per restaurare vecchie moschee e costruirne di nuove, anche nei territori desertici, dove le popolazioni nomadi sinora non avevano mai potuto genuflettersi all’Onnipossente in un sacro recinto». Insomma, insisterà con parole che oggi appaiono stupefacenti, «rispettoso delle tradizioni indigene, il governo italiano ha tuttavia mantenuto in vita tali scuole coraniche alle dipendenze delle autorità religiose delle zavie, affinché nessuno potesse pensare che si volesse sottrarre i bimbi arabi ai tradizionali insegnamenti religiosi». Certo, contro quelle aperture c’è chi, ai piani alti del regime, storce il naso. Tanto più che quella conferenza romana, tenuta proprio una manciata di giorni dopo l’annuncio delle leggi razziali contro gli ebrei fatto da Benito Mussolini il 18 settembre a Trieste, pare una presa di distanza. Lui, più o meno in contemporanea, risponde ai dubbiosi con sei fogli dattiloscritti («Chiarimenti alle obiezioni mosse al progetto») dove spiega che occorre «saldare in un’unica compagine» Italia e Libia come aveva fatto la Francia con l’Algeria, e tranquillizza il Duce e i suoi gerarchi su tre punti. Uno è sulla poligamia, non prevista per la penisola: «Gli effetti della cittadinanza sono limitati al territorio della Libia ed estesi soltanto a quello dell’Africa orientale italiana». Il secondo sulla concessione ai libici del diritto di voto: «È escluso che possa sorgere qualsiasi preoccupazione giacché l’Istituto elettoralistico non esiste più nemmeno nel Regno». Sic! E il terzo nodo, quello razziale? Tranquilli, risponde Italo Balbo, «giacché la progettata riforma (…) lascia la differenza tra l’elemento metropolitano e quello locale, nel seno del quale poi distingue la popolazione mussulmana (alla quale soltanto si dirige il progettato beneficio) dall’altra parte della popolazione di razza ebraica alla quale non viene concesso». Parole terribili. Il tutto con una riga di sottolineatura: niente equivoci, l’Italia era e restava razzista. Soprattutto verso gli ebrei. La fedeltà al regime, al di là dei distinguo, era confermata. Morirà un paio di anni dopo. In volo. Abbattuto nel cielo di Tobruk, «per errore», dagli stessi italiani. Racconterà Silvio Bertoldi in Camicia nera che il Duce commentò a modo suo: «Un bell’alpino, un grande aviatore, un autentico rivoluzionario. Il solo che sarebbe stato capace di uccidermi».
· Ma chi l'ha detto che il fascismo non ha fatto cose buone?
Cultura, economia, amministrazione, scienza Studiosi serissimi rivalutano il Ventennio. Luigi Mascheroni, Giovedì 27/06/2019 su Il Giornale. Mai come negli ultimi tempi si è parlato così tanto del rapporto tra fascismo e antifascismo. Fino alla noia, se pensiamo che siamo nel 2019. Che però è il centenario della nascita dei Fasci di Combattimento. Sul tema - caldissimo sia nei media che nella società civile - si spendono i migliori editorialisti (ieri sul Corriere della sera Ernesto Galli della Loggia ha dedicato un lungo pezzo al monopolio della Sinistra sull'antifascismo), i politici dell'intero ventaglio parlamentare (che si danno reciprocamente del «fascista»), gli intellettuali democratici (ossessionati da un ritorno «strisciante» del fascismo, il cui fantasma ha rovinato anche l'ultimo Salone del Libro di Torino), i romanzieri (chissà se lasceranno che Antonio Scurati vinca il premio Strega con un romanzo su Mussolini), gli antagonisti dell'ultrasinistra (Matteo Salvini è un fascista a prescindere) e gli storici, i quali - in modo più serio - tendono a escludere paragoni irriverenti fra la dittatura di Mussolini e l'attuale governo. Soprattutto, da noi, sembra impossibile affrontare con le dovute sfumature di giudizio il capitolo «colpe» e «meriti» del Regime. Sulle prime, non ci sono discussioni: il fascismo ne ha commesse abbastanza per essere condannato in eterno, dall'omicidio Matteotti alle leggi razziali fino alla guerra in cui ha trascinato il Paese. La controversia è invece sui secondi, i meriti. Qui, al di là di pamphlet «a tesi» che sfruttano l'onda polemica del momento, come quello recente di Francesco Filippi («Mussolini ha fatto anche cose buone». Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo, Bollati Boringhieri), il confronto dovrebbe rimanere aperto. E invece, ultimamente, è pressoché impossibile avanzare anche solo l'ipotesi che il fascismo, dietro la sua maschera più violenta e intollerante, possa aver avuto volti o espressioni diverse. Lo scorso anno la grande mostra Art Life Politics: Italia 1918-43 curata da Germano Celant alla Fondazione Prada di Milano dimostrò - se ce n'era bisogno - lo spettacolare livello di gusto, stile e creatività durante il Ventennio nel campo delle arti: pittura, scultura, design, arti applicate, grafica, architettura, urbanistica... L'Italia, visitando l'esposizione, ne usciva come una nazione straordinaria, per genio e talento. Ma lo spettro delle innovazioni portate dal fascismo sembra molto più ampio delle «belle arti». Oggi sostenerlo sembra una bestemmia, o una provocazione. Ma solo pochi anni fa si poteva ancora affrontare l'argomento.
Firenze, 2012. Palazzo Strozzi propone la mostra Anni '30. Arti in Italia oltre il fascismo (a cura di un gruppo di studiosi al di sopra di ogni sospetto). È la celebrazione della «battaglia artistica di grande vivacità» combattuta in un decennio-chiave del nostro '900, «vitale, aperto alla scena internazionale e introduttivo alla nostra modernità», come dimostrano gli oltre cento capolavori esposti di decine di artisti, da Sironi a de Chirico, da Carrà a Rosai, da Morandi a de Pisis. Non solo. Accanto alla mostra (che vuole raccontare «la via italiana alla modernità») la Fondazione CESIFIN della Cassa di Risparmio di Firenze organizza una serie di conferenze, scandite nei mesi a cavallo tra 2012 e 2013, in cui sono invitati alcuni fra i migliori specialisti delle proprie discipline per «rileggere» il Ventennio fascista.
Bene. Ora quegli interventi, in un primo tempo fatti circolare solo fra i relatori, vengono pubblicati col titolo Fascismo e modernizzazione (Passigli) a cura di Giuseppe Morbidelli, docente di Diritto amministrativo all'Università «La Sapienza» di Roma. Ed ecco sfilare Emilio Gentile sul rapporto tra cultura e politica; Fabio Merusi sulla tutela del paesaggio e i beni culturali (la legge Bottai, poi imitata in molti altri Paesi); Alessandro Petretto sull'economia e su come fu affrontata la crisi del '29; Sandro Rogadi sui progressi dell'agricoltura e l'impresa delle bonifiche; Renzo Costi sulla legge bancaria del '36; Francesco Perfetti su Gentile e la riforma della Scuola; Emanuele Severino sulla «rivoluzione» tecnologica; Pierluigi Ciocca sul capitalismo e la finanza...L'idea suggerita è che accanto alle «egregie cose» messe in mostra a Palazzo Strozzi, in quegli anni anche in campo culturale, amministrativo, economico, tecnologico, scientifico e sociale ci fu una tensione che non venne mai meno. «Ma anzi - come scrive Morbidelli nell'introduzione - raggiunse livelli di eccellenza anche in una lettura comparativa con ciò che avveniva negli altri Paesi». Grazie a una dittatura sui generis (vuoi per la presenza di uno spazio culturale non occupato dalla fascistizzazione, oppure appositamente lasciato libero, vuoi per la presenza di vaste aree di agnosticismo o per una certa elasticità di cui era intriso lo Stato fascista) l'Italia di Mussolini fu capace di importanti politiche di modernizzazione.
L'elenco dei successi è lungo, dal Nobel di Luigi Pirandello (1934) in giù: la grande letteratura di Bontempelli, Alvaro, Montale, Gadda, Buzzati, Moravia, Pavese, Vittorini, Luzi... La vivacità incredibile dell'editoria e delle riviste. L'impresa dell'Enciclopedia Treccani. I risultati scientifici cui pervennero i «ragazzi di via Panisperna» con Fermi e Majorana in testa. I successi dell'industria aeronautica, automobilistica (la Fiat) e navale che si compendiavano nei voli transoceanici o nei molti primati di velocità. La visione «oltremodo lungimirante dei processi economici che ebbe ad inverarsi in una serie di misure incisive quanto innovative» (la legge istitutiva dell'IMI o dell'IRI, divenuto poi un istituto per la politica industriale che costituì un modello anche per il New Deal di F.D. Roosevelt, o la legge bancaria del 1936 che introdusse una disciplina di forte tutela del risparmio).
Il fascismo fu un regime dispotico e violento. Cieco dal punto di vista politico (l'alleanza con Hitler) ma non incapace. L'accordo tra gli studiosi, quelli che conoscono bene la Storia e non si fanno accecare dalla faziosità ideologica, in questo senso è piuttosto solido. E i dati non mancano, come dimostrano le lectio magistralis raccolte per volontà dello stesso patron della casa editrice, Stefano Passigli (già docente di Scienza politica all'università di Firenze e senatore dell'Ulivo...), sotto il titolo Fascismo e modernizzazione. Solo da qui può partire una discussione non prevenuta.