Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
ANNO 2019
FEMMINE E LGBTI
DI ANTONIO GIANGRANDE
ITALIA ALLO SPECCHIO IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2019, consequenziale a quello del 2018. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
IL PARLAMENTO EUROPEO HA 40 ANNI.
L'EURO HA 20 ANNI. CERCANDO L’ITALEXIT.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA E GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
INDICE PRIMA PARTE
LA POLITICA ED I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
INDICE SECONDA PARTE
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
INDICE TERZA PARTE
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
INDICE QUARTA PARTE
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
INDICE QUARTA PARTE
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
INDICE QUINTA PARTE
LA SOCIETA’
PAURE ANTICHE: CADERE IN UN POZZO E CHI CI E' GIA' CADUTO.
STORIA DEI BOTTI DI CAPODANNO.
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
A CHI CREDERE? LE PARTI UTILI/INUTILI DEL CORPO UMANO.
INDICE SESTA PARTE
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
INDICE SESTA PARTE
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
INDICE SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
SETTIMA PARTE
CHI COMANDA IL MONDO:
FEMMINE E LGBTI.
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Premessa. La Dittatura della Censura.
Comandano loro!
Maschi e femmine sono diversi, non solo nel sesso, ma nel cervello.
Burrneshe: le donne uomini dell'Albania.
Non è un paese per Miss…Italia.
Le Baby Miss.
Affidati alla sinistra.
La soppressione della famiglia. Le donne come «bene comune». Un’idea di Platone ripresa da Marx.
Il Male è Donna.
Donne al Volante…
Donne Spaziali.
La Mafia è femmina.
Pippi calzelunghe e la libertà dagli stereotipi.
Le "Eroine" da protesta.
Le streghette influencer.
La Verità in tv è femmina. Roberta Petrelluzzi; Franca Leosini; Federica Sciarelli.
Montecitorio Beach.
La donna non è più tanto comunista!
La vita delle groupie.
Donne, giornaliste, non di sinistra. Quindi da massacrare sui social.
Il Palo della Discordia.
Dio ci salvi dalle femministe in discoteca.
Il Concertone non è femmina.
Il Decalogo antisessista. La nave è femmina, anzi neutra: le rotte «corrette» della grammatica.
Donna, piangi che fa bene.
La mia grassezza.
La cellulite è femmina.
Le Borse che le donne non vogliono.
Vecchia a chi? Le Perennial.
Cavie predestinate.
Cure riparative della Devianza? Essere diversi non è una malattia.
Né uomo, né donna. Il terzo genere.
I cosiddetti "asessuali".
I Transessuali.
Il problema del Gender.
Comanda Vladimir Luxuria.
Madre e Padre e non Genitore 1 e Genitore 2.
Il Sesso freddo e l’educazione sessuale 2.0
Sadomaso e trasgressioni.
Mai dire "Puttana".
Mai dire…Spogliarelliste.
Mai dire Porno Star.
Fare sesso con il coniuge è un diritto.
Quando le donne si sposano tra loro (e non è per amore).
Le donne che parlano di sesso.
L’Italia dei Tabù. Il sesso è solo vintage.
Professione “Love Giver”.
Basta Femmine urticanti. 3D fatto su misura.
Ode alla menopausa.
Il rapporto sessuale è femmina.
Realdo Colombo. L’Uomo che ha scoperto il clitoride.
La femmina. Nei secoli infedele.
Gelosia, quando il tormento diventa una malattia.
Sesso animale.
La famiglia naturale animale.
Il Sonno è femmina.
I Rapporti Gay in politica.
Non è un paese per gay. Non è un paese per etero.
E’ un paese per Gay.
I fumetti sono gay.
La tv è gay. Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay.
Il sesso della moda è Gay.
L’omosessualità.
L’omocittadinanza.
Tutto il mondo è lesbo.
La violenza di genere e la disparità di trattamento.
Donne che odiano le donne.
Il potere delle Femmine.
Il Femminismo e le leggi.
Il Femminismo in Vaticano.
Liberté, egalité. E décolleté. Libera Tetta in libero Stato.
Femmine, Islam e denaro.
La circoncisione e l'infibulazione.
Il Perineum-sunning.
Chi comanda il Mondo? Le femmine! Il potere di disporre dei figli, fino al potere di ucciderli.
Femmine, non madri.
Aborto. A Verona i Prolife anche per la Famiglia tradizionale: la sinistra contro.
Mai più Festa del Papà.
La funzione delle femmine. La sinistra si ribella.
Donne e sinistra: il modello è l'Islanda o lo Yemen?
Perché le donne vivono più degli uomini?
La Donna in Giappone.
Naturist Cleaners (ovvero Pulitrici Naturiste).
Lo Squirting.
Alla ricerca del Porno.
I Porno Incestuosi.
Il Metoo comincia presto.
La Donna e l’Utero in Affitto.
Aborto clandestino, migliaia di donne ancora oggi rischiano la vita.
L’Uomo stressato.
La Guerra al Maschio.
Violenza sessuale su minore. Mai dire…stupro.
Stupri che non lo erano…
Quell’arma segreta di guerra: gli abusi sessuali sugli uomini.
Il Bullismo non ha genere.
Tutti contro Michael Jackson.
La Parità di Genere.
Daniela Aschieri. Quando le donne superano l’uomo.
Mamme ad ostacoli.
La Mamma Femminista.
Il futuro è donna? Sì, ma anche il passato. Le cattive ragazze del cinema muto.
Mostra del cinema di Venezia: scandali e follie.
Cannes delle femministe.
L’Oscar LGBTI.
Hollywood Sadomaso.
Revenge Porn. Dagli al Maschio.
Gli Uomini vanno rieducati…
Ipocrisia ideologica: Chi a favore di chi? I Comunisti contro i LGBT e viceversa.
Lo Sport e le femmine.
Le sacerdotesse del MeToo vogliono uccidere il Tango.
Il potere del Gay Pride.
Media, intrattenimento e LGBTI.
Il Gay Pride cattolico.
Intersex. C’è una “I” in LGBTI.
Misoginia. L'Iper Femminile.
Il Taglio dei Maschi.
Accuse di molestie sessuali: "Metodo Iene" o "Metodo Brizzi"?
La nuova piaga sociale: il finto stupro con ricatto.
Fondi antiviolenza: un business?
Cacciati di Casa.
Le regole per l’assegno di divorzio.
FEMMINE E LGBTI
· Premessa. La Dittatura della Censura.
LA DITTATURA DELLA CENSURA. Gli Stati Uniti impongono la loro economia, le loro regole e la loro cultura. Tenuto conto che negli Stati Uniti la fazione LGBTI detta i comportamenti a loro congeniali, il cui contrasto lede il politicamente corretto, i pappagalli europei emulano e scimmiottano tali scelte di vita, facendoli passare per normali.
Non fa più scandalo, anzi è politicamente corretto adottare ogni comportamento deviante, ma fatto passare per normale e progressista, adottato nelle trame dei film.
Coppie gay o multietniche o relazioni poliamorose non devono mancare nelle serie televisive americane, affinchè la cultura LGBTI statunitense prenda largo oltreoceano.
Ecco perché in Italia ci sono polemiche ideologiche sulla fiera dell’ovvietà.
Ci sono cose che tutti pensano, ma che sono vietate dire.
A Crotone i giovani della Lega pubblicano un manifesto per l’8 marzo in onore della donna.
Una manifestazione di stima per la donna ed una denuncia contro i comunisti ipocriti.
I sinistri, sentendosi toccati, hanno reagito, facendo una questione di Stato. Qualcuno, addirittura, facendone questione territoriale retrograda. Sì, ma le offese ai meridionali, per i sinistri non contano.
Anche il buon Salvini, da buon comunista, ha rinnegato l’ovvietà.
Tutti rinnegano le loro idee. I comunisti, invece, rimangono sempre fedeli alla loro ideologia di potere: usando ed abusando di tutte le minoranze, assoggettandole e strumentalizzandole ai loro fini.
Quasi la totalità dei media con il ditino alzato del moralizzatore si è parata contro il manifesto, , del quale ognuno ha dato una sua personalissima interpretazione femministica, senza, peraltro, quasi nessuno di loro, aver pubblicato pari pari il volantino stesso.
Max Borg per movieplayer.it il 22 novembre 2019. La Apple ha cancellato la premiere di The Banker, prevista per questa sera all'interno dell'AFI Film Festival, a causa di accuse di molestie nei confronti di una persona legata alla storia vera che ha ispirato il film. Il lungometraggio di George Nolfi, che la Apple ha acquistato durante l'estate e farà uscire nelle sale americane il 6 dicembre - in vista degli Oscar - prima di renderlo disponibile sulla piattaforma Apple TV+, racconta le vicende di Bernard Garrett Sr. (Anthony Mackie), un uomo di colore che negli anni Sessanta assunse un uomo bianco per fare da prestanome per la sua attività nel settore finanziario. Suo figlio, Bernard Garrett Jr., è stato accusato di molestie dalle sue due sorellastre minori, le quali sostengono che lui abbia avuto comportamenti scorretti con loro mentre vivevano nella stessa casa. Le due donne hanno anche contestato la veridicità cronologica del film, dove Garrett Sr. vive felicemente con la prima moglie da cui in realtà aveva già divorziato. In seguito a queste accuse, la proiezione festivaliera di The Banker è stata annullata e il credit di Garrett Jr., inizialmente menzionato come co-produttore, è stato completamente rimosso dai materiali pubblicitari, e presumibilmente egli non sarà più parte integrante dell'attività stampa insieme ad Anthony Mackie e Samuel L. Jackson. Garrett Jr. e Nolfi, il quale sarebbe stato all'oscuro della faccenda fino a una settimana fa, non hanno rilasciato dichiarazioni. La Apple, dal canto suo, ha commentato così le accuse mentre annunciava la cancellazione della premiere: "Abbiamo acquistato il film alcuni mesi fa perché eravamo commossi dalla sua storia, divertente ed educativa, sul cambiamento sociale e sull'alfabetismo finanziario. Settimana scorsa ci sono state rese note delle preoccupazioni legate al film. Noi e chi ha lavorato al progetto abbiamo bisogno di tempo per indagare sulla cosa e decidere quale sia l'opzione migliore per il futuro."
Lo show di Victoria’s Secret è ufficialmente annullato: il brand travolto dalle accuse di sessismo. Pubblicato venerdì, 22 novembre 2019 da Corriere.it. Ora è ufficiale: lo show annuale di Victoria’s Secret, programmato sempre nel mese di novembre, non si farà nel 2019, come annunciato da L Brand, rivenditore del marchio. Lo spettacolo che ha decretato il successo di tante modelle, da Adriana Lima a Gigi Hadid, fino a Gisele Bundchen, nel quale le top hanno sfilato in passerella con ali da «angelo» e in lingerie, è stato annullato definitivamente. Un po’ per colpa del social, visto che l’evento messo in scena dopo il 20 novembre andava in televisione soltanto un mese dopo, e il pubblico non aspettava di vederlo in tv , ma accedeva a Instagram per seguirlo tramite dirette e immagini, e un po’ per il calo delle vendite e i problemi interni al brand (vedi anche nuovo amministratore delegato). Quando è stato chiesto a Stuart Burgdoerfer, numero uno finanziario di L Brand, se ci sarà qualche evento in prossimità del Natale, lui ha dichiarato: «No, lo comunicheremo ai clienti. Pensiamo che sia importante far evolvere il marketing di Victoria’s Secret». La serata magica degli «angeli» non è più redditizia ed è stata tolta dal programma. Perché dal 2001, da quando esiste lo show, gli spettatori televisivi americani sono calati in maniera vertiginosa, passando da 12 milioni a 3,3. Non solo. Il marchio perde in termini di business: la lingerie preziosa e tutta pizzo che ha decretato la fortuna dell’azienda ha lasciato il posto ai completini intimi sportivi e sobri, simili a quelli che si possono comprare a prezzi più competitivi da altri brand. Senza dimenticare la polemica che ha travolto l’ex direttore marketing di Victoria’s Secret Ed Razek (anche presidente di L Brand), accusato di sessismo e body shaming, che si è dimesso dopo aver detto che gli standard della società non potevano includere modelle curvy e transgender (ora non è più così, dato che la trans brasiliana Valentina Sampaio è stata messa sotto contratto). Insomma, finisce un’era di «angeli» in passerella. Bisognerà trovare altri mezzi di comunicazione per promuovere i prodotti. Le prime voci dell’annullamento dello spettacolo sono trapelate quest’estate, nei primi giorni di agosto, quando l’angelo Shanina Shaik si è fatta sfuggire la notizia dello stop durante un’intervista. La 28enne aveva detto: «Sfortunatamente quest’anno non ci sarà uno show. Sono un po’ delusa perché non è qualcosa a cui sono abituata. Di solito durante il periodo estivo faccio le prove come “angelo”». Ma al tempo il marchio contattato dai media non aveva confermato o commentato la notizia. Ora è ufficiale: Victoria's Secret cancella lo show natalizio. ''Vogliamo che il nostro messaggio si evolva''.
Dopo le voci circolate questa estate arriva anche la conferma da parte del CFO di L Brands (azienda proprietaria di Victoria's Secret) Stuart Burgdoerfer: lo show natalizio del 2019 del marchio di intimo statunitense è stato cancellato. Una decisione figlia di un nuovo concetto di bellezza inclusiva, del calo delle vendite e delle critiche sempre più numerose. La Repubblica il 22 Novembre 2019. Sarà un Natale senza angeli quello del 2019. Nessun sacrilegio: stiamo parlando degli angeli di Victori'a Secret, brand di intimo statunitense tra i più amati al mondo che per il 2019 ha decisio di cancellare il fashion show faraonico con il quale ogni anno dal 1995 presenta nel periodo natalizio le sue collezioni. La notizia era trapelata già la scorsa estate e a farsela sfuggire era stata proprio una delle modelle di VS, Shanina Shaik, durante un'intervista nella quale aveva dichiarato: "Sfortunatamente lo show di Victoria's Secret non ci sarà quest'anno. È qualcosa a cui non sono abituata perché ogni anno in questo periodo mi alleno per essere pronta a fare 'l'angelo'". Ebbene, quest'anno niente angeli e niente show. La conferma arriva direttamente da Stuart Burgdoerfer, CFO di L Brands, l'azienda proprietaria di Victoria's Secret: "Comunicheremo con i nostri clienti, ma nulla di simile, come magnificenza, al fashion show". Uno spettacolo trasmesso in TV in tutto il mondo che ogni anno colleziona centinaia di milioni di telespettatori e che ha contribuito a lanciare la carriera di modelle come Adriana Lima e Alessandra Ambrosio o come le più recenti Gigi e Bella Hadid e Kendall Jenner forgiando contemporaneamente un'idea di bellezza così esclusiva che le modelle che vi partecipano vengono chiamate, appunto, "angeli di Victoria's Secret". Perché dunque cancellarlo? Perché è tempo di "evolvere il messaggio della compagnia". Un messaggio che era stato riassunto in tutta la sua cruda intransigenza dall'ex Chief Marketing Officer, Ed Razek, in un'intervista per Vogue dell'anno scorso nella quale, interrogato sulla possibilità di avere modelle transgender e plus size nello show, aveva risposto: "No, non credo dovremmo perché lo show è una fantasia. È uno spettacolo di intrattenimento di 42 minuti. Questo è quello che è. È l'unico nel suo genere e qualsiasi altro marchio di moda lo farebbe suo in un minuto, compresi quelli che ci criticano". Parole che nel 2019, in una società che ha imparato a rifiutare canoni estetici rigidi e che sta definendo una nuova idea di bellezza inclusiva, hanno avuto un effetto boomerang devastante. Nel giro di 12 mesi Victoria's Secret ha ingaggiato una modella trans, una con la taglia 46 (che non sarà plus size ma è lontana dalla forma fisica generalmente esatta ai casting di VS), ha accompagnato alla pensione Ed Razek e ora ha cancellato anche lo show simbolo del suo successo commerciale. Un successo commerciale che ha cominciato a venire meno negli ultimi due anni (nonostante il marchio americano resti leader indiscusso dell'intimo) e che rappresenta la vera motivazione di un cambiamento di rotta così veloce e radicale: quando la curva delle vendite comincia a guardare verso il basso, un buon management corre ai ripari prima che la situazione precipiti. Soprattutto in un mondo che corre velocissimo e nel quale indignazione e boicottaggi rimbalzano senza possibilità di scampo sui social network. Se si aggiunge che le critiche a Victoria's Secret stavano cominciando ad arrivare anche dalle stesse modelle come Karlie Kloss (che ha abbandonato il marchio per protesta verso il messaggio che trasmette) o Doutzen Kroes (che ha firmato una lettera aperta per invitare il brand a difendere le sue modelle dalle molestie sessuali sul set) era inevitabile aspettarsi dei cambiamenti.
La rivista ospita le tesi del fisico sessista. Rivolta degli scienziati. Alessandro Strumia fu allontanato dal Cern per aver detto che la "fisica è fatta dagli uomini, non dalle donne". Ora rilancia, tra le polemiche. Elena Dusi il 04 novembre 2019. E lui insiste. Alessandro Strumia, 50 anni, professore di fisica all'università di Pisa, un anno fa si alzò a un convegno al Cern sulla parità di genere e lasciò tutti a bocca aperta, dichiarando che "la fisica è stata costruita dagli uomini", le donne si lagnano per nulla perché "non è vero che sono discriminate" e nella scienza "non si entra con un invito". Come se non bastasse: "Gli uomini preferiscono lavorare con le cose, le donne con le persone". Ci sono "differenze nei sessi già nei bambini, prima che l'influenza sociale intervenga" e via stereotipando. La gragnola di critiche non ha piegato Strumia, che oggi rilancia. Durante quest'anno ha trasformato le sue tesi scombinate in grafici ed equazioni sul numero delle donne ricercatrici e su quanta carriera fanno e ha perfino trovato una rivista scientifica disposta a pubblicare il suo "Questione di genere in fisica fondamentale". Si tratta di Quantitative Science Studies, un giornale nato da pochi mesi, non certo di primo piano, ma comunque affiliato alla casa editrice del Mit di Boston (il prestigioso Massachusetts Institute of Technology). La rivista è sottoposta alla revisione dei pari (all'approvazione cioè da parte di altri scienziati) e ha promesso diritto di replica ai detrattori. L'articolo per il momento è stato approvato, ma non pubblicato. Il fisico pisano - carattere polemico e testardo, lo descrive chi lavora con lui - l'ha pubblicato intanto sul suo blog, come una sorta di rivalsa. La rivista americana Science ha subito registrato le polemiche, dedicando al fisico nostrano uno speciale sul suo sito Sciencemag e citando uno dei pari autori della revisione: il testo di Strumia, dice, è pieno di "difetti" e "affermazioni non dimostrate". Un anno fa, dopo l'improprio intervento, Strumia perse l'affiliazione al Cern. Il centro Ginevra diretto da Fabiola Gianotti si dichiarò "gravemente offeso" e tagliò ogni rapporto. Stessa cosa fece il nostro Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn), tirato in ballo con frasi da querela: Strumia aveva infatti partecipato a un concorso Infn vinto, fra gli altri, anche da due donne che - sostiene lui - non meritavano un punteggio superiore al suo. L'università di Pisa si era limitata a una sanzione etica, lasciando intatta la cattedra e il gruppo di ricerca. Strumia, quando non si accanisce sulla questione di genere, è infatti un fisico teorico stimato. Ha un progetto di ricerca europeo da 1,8 milioni di euro che resta inquadrato a Pisa. La cifra. per questa disciplina, è di tutto rilievo. A Speranza Falciano, nel sentire tutto questo, cadono le braccia. A 65 anni la scienziata, membro della giunta dell'Infn, una vita trascorsa agli esperimenti del Cern, sperava che certi pregiudizi fossero relegati al passato. "La carriera scientifica è dura e impone sacrifici" racconta. "Le donne hanno risultati migliori all'università e al dottorato. Poi spesso rinunciano. Sanno che dovranno farsi strada in un mondo quasi tutto maschile e che la scelta della carriera potrebbe pesare sulla vita privata". Ci sono decine di anni di sforzi e di studi davvero approfonditi, per superare il problema. "La questione della disparità delle donne nella scienza esiste" conferma Falciano. "Ed è ora di risolverla, non di fare polemiche inutili e dannose".
Leonard Berberi per il “Corriere della sera” il 4 novembre 2019. L'amministratore delegato di McDonald' s Steve Easterbrook è stato licenziato a causa di una relazione consensuale con una propria dipendente finendo però per violare le regole interne. In una nota ufficiale il board della più grande catena mondiale di fast food ha spiegato che l' ad uscente si è comportato con «scarso giudizio» dal momento che il codice etico proibisce di frequentare colleghi che abbiano un rapporto di lavoro - diretto o indiretto - con l' interessato. Easterbrook, britannico di 52 anni, negli ultimi tempi era riuscito a migliorare i conti e la reputazione del colosso. In una e-mail interna il dirigente - salito al vertice il 1° marzo 2015 dopo essere stato Chief brand officer - ha ammesso la relazione e concesso che è stato un errore. «Considerati i valori della compagnia concordo con il consiglio che è il momento di farmi da parte». Secondo l'Associated Press il board ha deciso venerdì di allontanare l'amministratore delegato dopo un'indagine interna e i dettagli di quella che per ora sembra una separazione consensuale saranno resi noti oggi quando l'azienda depositerà i documenti richiesti dagli organi federali americani in materia di trasparenza. McDonald' s ha aggiunto che non saranno forniti dati sul flirt. Il consiglio di amministrazione ha sostituito Easterbrook con il 51enne Chris Kempczinski, attuale presidente di McDonald's Usa, che ricoprirà il doppio incarico di ad e presidente. Easterbrook - divorziato e padre di tre figli - era stato apprezzato per gli interventi in un'azienda che negli ultimi anni aveva perso quote di mercato non soltanto negli Stati Uniti, ma anche nel resto del mondo. Dieci mesi dopo aver preso in mano le redini McDonald's ha chiuso uno dei peggiori anni della sua storia. Nei mesi successivi le azioni sono quasi raddoppiate arrivando - come calcola Cnbc - a 193,94 dollari, segnando quindi un +96%. Tra le ragioni di questo aumento del valore gli analisti che seguono il fast food elencano il restyling - anche tecnologico - dei ristoranti, introducendo i chioschetti per ordinare direttamente attraverso un monitor con il menu digitale. Ma le sfide non sono state superate. Una su tutte: convincere i consumatori più giovani a tornare nei suoi fast food. Per questo Easterbrook aveva insistito molto sugli investimenti in tecnologia, arrivando a raggiungere accordi commerciali con alcune delle più famose applicazioni per la distribuzione degli alimenti Uber Eats e DoorDash, oppure acquisendo società specializzate nell'intelligenza artificial. Alla fine del 2018 McDonald' s contava 37.855 ristoranti (il 95% in franchising) in oltre cento Paesi e impiega circa 210 mila persone. L'anno scorso i ricavi hanno toccato i 21,03 miliardi di dollari, più del Pil della Bosnia ed Erzegovina. Il passaggio di consegne al vertice - ha aggiunto il consiglio di amministrazione nella nota - «non è legato in alcun modo ai risultati operativi e finanziari della compagnia».
Felice Manti per “il Giornale” il 5 novembre 2019. L'amore vince su tutto tranne che sui codici etici delle aziende? Li chiamano no fraternization policy, e sembra di sentirli, i capoccia degli uffici del personale, arringare i neo assunti: do not fraternize with your colleagues. E non si parla di relazioni extraconiugali, scappatelle, rapporti mordi e fuggi o extramarital affairs. Quelli sono quasi quasi tollerati, perché l' amore - quello vero - sballa i rapporti, scatena invidie e soprattutto mette in discussione l' autorità del capo. In America le nuove streghe si chiamano gossip, backstabbing (pugnalare alle spalle) e pillow talking, le conversazioni a letto dopo il rapporto sessuale, quando non ci sono più filtri e si confessano i segreti (di lavoro) più inconfessabili. E quindi molte aziende cercano di cautelarsi. Nella liberal Silicon Valley chi lavora per Facebook o Google deve comunicare ai manager eventuali love contracts: l' idea è evitare i famigerati «conflitti di interessi». C' è un codice da rispettare, tipo chiedere - una e una volta sola - di uscire insieme. In caso di no, ogni altra insistenza è considerata molestia. È il frutto amaro del #MeToo. Secondo chi ha vissuto un love affair in ufficio l' amore al lavoro è un guaio perché alimenta l' incostanza, la cattiveria e la morbosità, ma soprattutto «ruba» almeno un' ora al giorno di produttività, trascorsa invece a spiare gli spostamenti del partner. Secondo un'altra ricerca di Glassdoor almeno un terzo degli intervistati tra uomini e donne (il 37 per cento) ha avuto una storia con un/una collega, uno su 10 ammette di avere fatto l' amore sul posto di lavoro (mentre uno su cinque ci ha pensato), quasi la metà sogna di avere una relazione con un/una collega anche se dopo si sentirebbe almeno in imbarazzo. E in Italia? Non ci sono (ancora) casi come quello del ceo di McDonald' s Stephen J. Easterbrook che ha perso il posto perché ha una relazione (stabile) con una sua dipendente, o come il top manager Intel Brian Krzanich, fatto fuori perché aveva nascosto un flirt tra le scrivanie. Ma si può condizionare l' amore vero a una firma? Si può silenziare il cuore in nome di un codice etico? Probabilmente no, anche se forse la verità è molto più triste: passiamo più tempo in ufficio che a casa. E questo ha rovinato più matrimoni di quelli che ha salvato.
Alessandra Menzani per “Libero” il 3 novembre 2019. In un futuro non troppo lontano fare l'amore con il proprio partner potrebbe diventare un' operazione asettica come chiamare l' ascensore o accendere il forno a microonde. Con un pulsante per dire sì o no all' amplesso. Andiamo bene. Per carità, i più pigri potrebbero trovare questa nuova opzione tecnologica estremamente vantaggiosa, pratica e al passo con i tempi, meno maleducata per mandare in bianco il compagno o la compagna. Ma per fortuna al mondo esiste ancora qualcuno che si parla e si tocca. Oggi, lo sappiamo, è diventato obsoleto rivolgersi la parola, fastidioso ordinare al ristorante con la voce, tanto c' è un tablet che lo fa per te, comunicare con il collega verbalmente ma farlo con un messaggio WhatsApp. Le uniche cose rimaste tangibili erano il cibo e le attività carnali. Invece, ecco l' idea di una coppia di quarantenni dell' Ohio, Jenn e Ryan Cmich, che hanno presentato un dispositivo per "facilitare" il sesso con il partner. Un pulsante, praticamente, per fare capire al compagno se si è disponibili o meno. Una specie di semaforo per essere chiari perché evidentemente è troppo faticoso guardarsi in faccia, fare battutine spinte, figuriamoci altri approcci più "tattili" (siamo nell' era del MeToo): meglio schiacciare un tasto.
QUALCHE PROBLEMINO. Evidentemente i due signori hanno non pochi problemi a letto se sono arrivati a partorire una trovata simile con cui, visti i tempi, faranno soldi facili a palate. L' evoluzione contemporanea della "copula programmata", di cui esiste una lunga letteratura, si chiama "LoveSync". Il dispositivo è composto da due bottoni da lasciare in giro per la casa, idealmente sul comodino di lui e sul comodino di lei. Quando uno dei due è - diciamo - infoiato, preme il bottone ovviamente nella speranza che il suo approccio abbia un seguito. Se l' altro vede il pulsante illuminato e condivide la voglia di amplesso, clicca ed è fatta. Se invece non ne ha voglia, ciao. Forse questa trovata ha senso tra due persone che si conoscono poco e non sono (ancora) andate a letto insieme. È una diavoleria stucchevole anche se la ratio è chiara: evitare quell' imbarazzo che si prova nel dare il due di picche, o soprattutto nel riceverlo, evitare di disturbare il compagno con approcci in quel momento non graditi.
LA ZONA GRIGIA. Siamo tutti d' accordo che la paura del rifiuto è un sentimento comune a tutti, forse da qui ha origine l' idea. Spiegano gli inventori del dispositivo: «Nelle coppie c' è una "zona grigia", anche piuttosto ampia, fra "facciamo sesso" e "no, dormiamo e basta", perché magari vorremmo farlo, ma non abbastanza da compiere il primo passo e rischiare di sentirsi dire di no». Secondo loro, «LoveSync contribuisce a togliere un po' di pressione, un po' di stress, perché se entrambi i bottoni sono illuminati allora c' è chiaramente il consenso di tutti e due i partner». Sommessamente vorremmo dire che quando c' è il consenso di lui, si vede, ma andiamo avanti. «Il bottone leva a tutti e due il peso di essere, o dover sempre essere, quello che fa il primo passo», aggiungono. C'è anche la possibilità di premere il proprio bottone più volte e più a lungo, allargando la finestra di tempo entro la quale il partner può rispondere. Jenn e Ryan ritengono la loro start up perfetta per «quelli che sono usciti dalla "fase luna di miele", che fra figli, lavoro, stanchezza e tutta la vita che si mette in mezzo, hanno normalmente rallentato la loro attività sessuale», perché «vi farà capire che ci sono molte più possibilità di fare l' amore di quelle che pensavate». LoveSync ha avuto abbastanza successo: ha raccolto quasi 22mila dollari nella raccolta fondi su Kickstarters, la più nota piattaforma di crowdfunding del mondo, l' obiettivo per partire era stato fissato a quota 7500. Dunque è stato prodotto e spedito agli acquirenti. Il prossimo passo? Qualcuno che faccia sesso al posto vostro quando non avete voglia. Poco ci manca.
Da ilfattoquotidiano.it il 3 novembre 2019. Alcuni ragazzi hanno sfilato per le vie di Lucca, dove è in corso fino al 3 novembre il Lucca comics & games (uno dei più importanti appuntamenti europei per gli appassionati di fumetti e videogiochi) travestiti da soldati dell’esercito nazista. Il gruppo ha curato i costumi in tutti i dettagli e si è presentato con tanto di finto carro armato, fascia con la svastica al braccio e bandiere con le croci celtiche in mano. L’esibizione però non è piaciuta a tutti e ha scatenato una animata discussione tra i presenti. Un visitatore, in particolare, si è rivolto al gruppetto (impegnato a soddisfare le richieste di selfie e foto di altri partecipanti al festival). “Vergognatevi – ha detto loro – il nazismo non è un gioco. Questa è apologia del nazismo, che è vietata”. La scena, ripresa in un video, è stata diffusa dal gruppo social Welcome to Favelas e in poche ore ha fatto il giro del web. Il Comune di Lucca e Lucca Crea, che organizza il festival, hanno diffuso un comunicato congiunto in cui “prendono le distanze e condannano il comportamento dei due ragazzi”. Comportamento definito “offensivo non solo per il festival e tutto il suo pubblico, ma soprattutto per la memoria storica del nostro territorio”. L’accaduto – specificano ancora, “non ha nulla a che vedere con il festival, né con le community cosplay, né con alcuna rievocazione storica. Nessun evento della manifestazione, nessun partner, nessuna attività collaterale è coinvolta in questo gesto dei due ragazzi”. Intanto la Questura di Lucca ha avviato un’indagine e sta valutando se i due ragazzi abbiano commesso un reato.
Londra, addio a "signore e signori". Neutralità di genere a teatro. Pubblicato domenica, 03 novembre 2019 da Corriere.it. Dopo la metropolitana e gli autobus di Londra anche i teatri si apprestano a sposare la neutralità di genere. Così il classico «Signore e signori per favore prendete posto, lo spettacolo sta per cominciare» cederà il passo a un generico «benvenuti» o un semplice «buonasera». È la raccomandazione di Equity, il sindacato degli attori e degli intrattenitori, che nelle nuove linee guida incoraggia i teatri ad adottare «una terminologia neutra per le chiamate collettive, sia in platea che nel backstage». Questo per mettere a proprio agio le persone «non binarie» che non si identificano né con un genere né con l’altro. Equity consiglia anche di non complimentarsi mai con un attore o un’attrice «in merito alla voce, all’abbigliamento o alla bellezza». La prima ad adeguarsi sarà Royal Shakespeare Company che ha assicurato la revisione di «tutti gli annunci e della segnaletica» oltre all’introduzione di servizi igienici neutrali». «Ci sforziamo di creare un ambiente accogliente per i trans e le persone fluide» ha aggiunto il portavoce del teatro. Anche il National Theatre ha promesso di correre ai ripari al più presto. Tuttavia, per adesso, rimarrà il classico «signore e signori». Stessa linea per la Royal Opera House che ha intenzione di «prendere in seria considerazione le linee guida di Equity. Nina Burns, co-proprietaria dei Nimax Theatres nel West End di Londra , ha assicurato di aver già optato per un annuncio politically correct come «buonasera» o «benvenuti». Nel 2017 la società Transport for London aveva deciso di eliminare la frase «Good morning ladies and gentlemen» per un più inclusivo «Hello everyone», («Salve a tutti»).Ironica la chiusa del Sunday Times che riporta la notizia: «Ma su come dovrebbe essere rinominata la commedia di Shakespeare I due gentiluomini di Verona le linee guida di Equity tacciono».
Da ilmessaggero.it il 3 novembre 2019. Maria De Filippi va su tutte le furie a Tu si que vales. Durante l'esibizione Pietro, un uomo che si presentava ironicamente come capace di leggere le mani, non ha conquistato il pubblico, visto che nessuno ha riso dopo la sua prima performance. Insistendo al centro del palco ha fatto una richiesta particolare: «Vorrei una vergine qui con me» e a quel punto Maria è sbottata. Già durante la lettura della mano a Teo Mammuccari il giudice gli aveva fatto fare una figuraccia, dicendo che quello che stava dicendo non corrispondeva alla realtà, così il concorrente per "riprendersi" ha fatto l'insolita richiesta. La De Filippi lo ha interrogato stupita facendogli notare che la sua affermazione era fuori luogo. Sempre per provare a fare il simpatico Pietro ha aggiunto che non solo la ragazza in questore doveva essere illibata ma c'era bosogno di una certificazione, così Maria è esplosa: «Per me lei può uscire subito. Dopo la certificazione, può uscire. Quando uno dice che vuole una vergine con una certificazione deve uscire. Ma come le viene in mente? Ma questo è fuori». Subito dopo la conduttrice si è alzata per lasciare lo studio, aggiungendo che sarebbe rientrata solo dopo che il concorrente fosse andato via. In studio è calato il gelo e anche un visibile imbarazzo sulla faccia degli altri giudici. Zerbi si è rivolto a Pietro invitandolo a lasciare lo studio: «Hai pensato di fare lo spiritoso ma è andata male. Secondo me la cosa più bella che puoi fare è chiedere scusa e andare via. Fidati». Rientrata in studio Maria non è riuscita a trattenere la sua disapprovazione e ha chiuso la storia affermando: «Si è autocertificato come un coglione ed è uscito».
Caserta, cartelli pubblicitari sessisti: esplode la polemica ad Aversa. “Te la diamo gratis la patata acquistando due polli”. La frase incriminata è accompagnata dalla foto di una donna a seno semiscoperto. Ignazio Riccio, Lunedì 04/11/2019, su Il Giornale. Ha provocato la reazione stizzita di molti internauti il cartellone pubblicitario fatto affiggere nella città di Aversa, in provincia di Caserta, da una nota braceria locale. Sul social network si è scatenata una violenta polemica che ha coinvolto anche le istituzioni locali. Nel manifesto c’è scritto: “Te la diamo gratis la patata acquistando due polli”. Oltre alla frase, la foto di una donna con il seno semiscoperto, che ha fatto indignare il popolo di Facebook, offeso per la pubblicità di natura sessista. In tanti hanno commentato l’immagine, definita squallida e volgare e sono in molti a richiedere la rimozione del cartellone. Il sindaco di Aversa Alfonso Golia ha parlato di “messaggi desolanti, equivoci, che vanno stigmatizzati e condannati”. Anche l’esponente della maggioranza in consiglio comunale Elena Caterino ha bollato l’iniziativa come inopportuna e ha fatto sapere che si rivolgerà alla polizia municipale. “Bisogna agire in fretta – ha detto la rappresentante politica – contro questa affissione vergognosa e sconcertante”. Da parte loro i titolari della braceria hanno fatto sapere che non c’era alcuna intenzione di offendere le donne, ma si trattava semplicemente di una pubblicità ironica e innocua.
Alessandro Gnocchi per ''Il Giornale'' il 29 ottobre 2019. Questa è l'epoca del vittimismo, dell'eufemismo, dell'ossessione per le politiche dell'identità: sessuale, razziale, etnica. Ogni minoranza, reale o sedicente, invoca il riconoscimento della propria diversità e indica il nemico oppressore: il bianco, laureato, ricco e conservatore. Il privilegiato dei privilegiati. Ogni critica è vissuta come un insulto. Dunque stop alle critiche. Dover calibrare le parole. Avere la paura di parlare chiaro. Essere espulsi dal dibattito pubblico per una opinione. Sono fatti all' ordine del giorno nel regime di psico-polizia creato dal politically correct, una ideologia in aperta opposizione alla libertà. Questo nuovo ordine mondiale, a metà tra 1984 e Il racconto dell' ancella, è raccontato dallo scrittore americano Bret Easton Ellis in Bianco (Einaudi, pagg. 268, euro 19), un libro che sfugge a ogni categoria. In parte autobiografia, in parte pamphlet, è forse il romanzo-memoir di come si perde la libertà di parola: prima un po' alla volta, e poi tutta insieme in un colpo solo. Ellis è un simbolo per alcune generazioni di lettori. Maestro nell' indagare e descrivere la superficie, per svelare il vuoto sottostante, ha scritto romanzi definitivi per chi aveva 15 anni nel 1986 (anno della prima edizione italiana di Meno di zero, Pironti editore) e venti nel 1991 (anno di American Psycho). Meno di zero era il ritratto perfetto della Generazione X: solitudine scintillante, freddezza, nichilismo. American Psycho celebrava, a modo suo, la fine dell' edonismo ma lasciava intuire anche l' inizio di qualcos' altro: il desiderio di essere approvati, il terrore dell' anonimato nell' epoca della comunicazione, quello di mostrarsi per quello che si è, la schizofrenia indotta da questo stile di vita. Tutta roba che ha trovato realizzazione compiuta nella società dei like, della connessione e delle amicizie virtuali che ci illudono di essere in intimo contatto con un' infinità di amici. Proprio il mondo descritto in Bianco dove sembra affermarsi un nuovo tipo di dittatura: «Sembriamo aver fatto pericolosamente ingresso in un tipo di totalitarismo che in realtà aborre la libertà di opinione e punisce chi si rivela per quello che è davvero». La superficie, quindi. Ellis, per farci vedere lo scivolare sempre più veloce verso la censura e l' autocensura, prende in esame i film, i divi, i presidenti americani, le cene. La cultura di massa. La superficie. Si parla di American Gigolò, Shampoo, Weekend, Carrie. Si esamina l' immagine pubblica di Richard Gere, Tom Cruise, Charlie Sheen, Kayne West. Pochissimi gli scrittori citati, ci sono David Foster Wallace, Jonathan Franzen, Stephen King, Jay McInerney. La carrellata si intreccia con la biografia dell' autore e la genesi dei romanzi più famosi. Questa è l'epoca del vittimismo, si diceva all' inizio. Ma è anche l' epoca degli eroi della «libertà» che stanno sempre dalla parte giusta, quella che non ha bisogno di essere difesa. Sono sempre in prima linea nelle battaglie già vinte, naturalmente fingendo di esporre il petto al plotone d' esecuzione. Sono a favore della libertà d' espressione, soltanto la loro. Sono a favore della democrazia, soltanto se comandano loro. Forti del consenso scontato, gli eroi della «libertà» perdono la testa. Sempre più narcisi, sempre meno capaci di osservare, sviluppano un fiuto eccezionale per l'applauso. Mettono sempre le mani avanti per far capire quanto sono intelligenti. Prima di lasciarsi andare alla pura demagogia, precisano di detestare chi parla alla pancia del Paese, che espressione infelice, ti fa capire subito che considerano la gente alla pari della merda. Invitano la plebe a restare umana, a spalancare la porta al diverso. Ma spalancatela voi, vigliacchi. No, loro vivono in case del centro blindate come casseforti. La porta devono spalancarla i poveracci, in quartieri così lontani che non ci arriva neanche l' autobus. Sono coccolati da televisioni, festival, editoria: è tutto dovuto, per carità, sono le coscienze democratiche della società civile. Infatti denunciano il familismo amorale, a meno che la famiglia non sia la loro, il degrado del dibattito politico, che hanno condotto in solitudine per 70 anni, il fascismo strisciante, di cui hanno adottato i metodi, il razzismo esplicito, che fomentano con l' ossessione per le politiche dell' identità (sessuale, razziale, etnica). Il prezzo della loro costante indignazione è fissato dal mercato che spesso dicono di disprezzare. In nome della libertà d' opinione, censurano a tutto spiano chiunque non la pensi come loro: «Rifiutare quelli che non la pensano come te ora non era più una forma di protesta e di resistenza ma si era trasformato in una forma infantile di fascismo». Stiamo parlando dell' America di Ellis ma è vero anche in Italia. Ellis critica con ferocia i saputelli che ritengono (e non si sa perché) di essere migliori dei «rozzi» sostenitori di Donald Trump: «La Sinistra sembrò mutare in qualcosa che non avevo mai visto in vita mia: un partito intriso di superiorità morale, intollerante e autoritario che era distaccato dalla realtà e mancava di qualsiasi coerenza ideologica». Ci sono episodi molto divertenti. L' incontro casuale con l' artista Jean-Michel Basquiat nel bagno di un ristorante che si chiude con una sniffata in compagnia. Il boss di Hollywood che ha paura di essere sorpreso dalla moglie mentre risponde agli sms di Steve Bannon, eminenza grigia di Trump. Le litigate con i vecchi milionari «progressisti». L'intervista con un Quentin Tarantino scatenato. Le nottate in macchina con Kanye West. Chi cercherà in Bianco un saggio sistematico sul politicamente corretto non lo troverà. Ellis non dimentica mai di essere un artista. Rivendica infatti il culto per l' estetica e lo oppone al moralismo. Il moralista giudica l'opera per il suo contenuto ideologico. L'artista valuta le qualità stilistiche. Quando prevale il giudizio morale? A parere di Ellis, quando l' arte è diventata irrilevante per la società: «Tutti devono essere uguali, e avere le stesse reazioni di fronte a qualunque opera d' arte, movimento o idea, e se uno si rifiuta di unirsi al coro di approvazione verrà accusato di essere un razzista o un misogino. Questo è ciò che accade a una cultura quando non gliene frega più niente dell' arte». Lo scrittore è finito al centro di moltissime polemiche soprattutto per i suoi tweet troppo schietti. Da omosessuale se la prende con le immagini stereotipate dell' omosessuale sensibile e perseguitato. Le politiche dell' identità sono riduttive e conducono in fondo a un vicolo cieco: «Avallano l' idea che gli esseri umani siano essenzialmente tribali, e che le nostre differenze siano inconciliabili, cosa che naturalmente rende impossibili l' accettazione della diversità e l' inclusione». Da scrittore se la prende con i santini dei colleghi morti specie David Foster Wallace, ricordando come l' autore de La scopa del sistema fosse un fan di Ronald Reagan e Ross Perot, un critico letterario feroce, un artista «insincero» e infine «un paraculo». Insomma: «Lo scrittore più sopravvalutato della nostra generazione» e insieme un genio irrisolto. Sono opinioni schiette interpretate però come azioni criminali dai chierici del politically correct.
Dylan Dog sposo gay: è l’ultima vittima del politicamente corretto. Davide Ventola giovedì 31 ottobre 2019 su Il Secolo d'Italia. Come far risollevare le vendite di un fumetto in crisi? Facciamolo diventare gay. L’ultima vittima del politicamente corretto è il povero Dylan Dog. Da indagatore dell’incubo a indagatore della banalità, è un attimo. E oggi non c’è niente di più banale e trito che cavalcare il tema delle nozze gay. Peccato, perché il papà di Dylan Dog, Tiziano Sclavi, aveva costruito il successo del suo personaggio sull’irregolarità. Il genere horror era sempre stato un pretesto per ribaltare schemi e luoghi comuni. Il vero incubo del nostro eroe erano la noia e la banalità. Mai Sclavi sarebbe scivolato su un tema così inflazionato. Forse non è un caso che l’albo in questione non porti la sua firma. Il povero Dylan Dog con questa deriva “politically correct” affoga nella banalità luogocomunista. A Lucca Comics hanno preparato una grande operazione di marketing per il fumetto in questione. Nell’albo n. 399, Oggi sposi l’Indagatore dell’Incubo decide di sposarsi con il suo amico Groucho. Nelle intenzioni degli autori, il numero speciale sarebbe una riflessione sulla forza dell’amore in tutte le sue forme. Per festeggiare il matrimonio, la Sergio Bonelli editore ha realizzato un apposito cofanetto, la Dylan Dog Wedding Box. Conterrà la versione “regular” di Oggi sposi, una versione variant con copertina bianca (venduta anche separatamente), una versione variant con copertina nera (disponibile solo nel box) e una nuova versione con colorazione “pop” di “Finché morte non vi separi”, l’albo n. 121 che celebrava il decimo compleanno dell’Indagatore dell’Incubo e il suo primo matrimonio. Sempre all’interno della box, i lettori troveranno la partecipazione nuziale, una speciale fialetta di bolle di sapone (gadget immancabile nei matrimoni moderni) e un anello di fidanzamento (ben noto a tutti i fan della serie). Operazioni commerciali legittime, ma che cosa c’entra con l’inno all’amore? Anche i fumetti invecchiano. Perdono il loro vitalismo e finiscono per imbolsirsi. Più che “Oggi sposi” sarebbe stato più appropriato un cartello appeso al numero 7 di Craven Road: “Chiuso per lutto”.
Statue con slip «per non offendere la sensibilità del pubblico». Bufera contro l’Unesco. Pubblicato martedì, 29 ottobre 2019 da Corriere.it. La gaffe risale a più di un mese fa, ma è stata raccontata solo di recente dalla stampa francese. Il 21 e 22 settembre, per le giornate mondiali del Patrimonio, l'Unesco ha chiesto all'artista visivo Stéphane Simon di esporre delle opere nella sede parigina dell'organizzazione internazionale. Il 47enne francese ha accettato, scegliendo per la rassegna due statue nude a grandezza naturale, parte del suo progetto «In Memory of Me». Quando gli organizzatori dell'evento hanno visto le nudità delle opere d'arte sono rimasti perplessi e alla fine hanno deciso di coprire il sesso dei modelli con slip e perizoma. Il motivo? «Non offendere la sensibilità del pubblico». Dopo che il settimanale «Le Point» ha denunciato in un editoriale «la spiacevole sorpresa», il web si è scatenato prendendo di mira l'Unesco e l'uso eccessivo (e ridicolo) del politicamente corretto.
DIVISI DALLA GNOCCA. Valeria Costantini per il “Corriere della sera - Edizione Roma” il 18 ottobre 2019. Finisce nella bufera la sagra della «Gnocca migliore» di Formello. Un titolo «sessista e volgare» commenta Michela Califano, consigliera regionale Pd, quello scelto per la gara di cucina di gnocchi in programma domenica 20 ottobre nel comune laziale. La festa è promossa dalla Proloco di zona, già protagonista a febbraio di un' altra polemica infuocata: uno dei carri della sfilata di Carnevale era stato infatti allestito a forma di gommone con finti migranti e cartelli tipo «no pago affitto» o «vogliamo wifi». Ora la nuova bagarre. «È un riferimento maschilista poco edificante per bambini e famiglie e, visto che l' evento è patrocinato dal Comune, chiedo al sindaco di sospenderlo», la richiesta dell' esponente dem della Pisana. «Il nome della manifestazione è offensivo per le donne», la stessa linea del Pd di Formello. Alla levata di scudi, la Proloco ha fatto un passo indietro ritirando la locandina, senza mancare di sottolineare di non aver pensato di «indurre in malevole interpretazioni - spiega -. Riconosciamo la leggerezza nell' esecuzione dello slogan e prendiamo le distanze da qualunque interpretazione sessista, poiché lontano dalle intenzioni dell' associazione».
Ecco le "soldatine" di plastica: il trionfo del politically correct. Negli Stati Uniti, una nota fabbrica di giocattoli ha cominciato a produrre soldatini di plastica al femminile. Tutto è partito dalla lettera di una bimba di 6 anni che chiedeva alla società: "Perché ci sono solo soldatini maschi?". Gianni Carotenuto, Domenica 15/09/2019, su Il Giornale. Vivian Lord è una bambina americana di 6 anni che quest'estate si è fatta regalare una manciata di soldatini di plastica. Dopo averci giocato per un po', ha chiesto a mamma e papà: "Perché ci sono soltanto soldati maschi?". I genitori della piccola, sorpresi dalla strana domanda della piccina, hanno cercato su Google scoprendo che non ne esistevano. Di qui il secondo "colpo di genio" della piccola Vivian: "Scriviamo una lettera a chi li fa? Voglio le soldatine". Stanno arrivando. Come scrive il sito Taskandpurpose, questa settimana la società di e-commerce BMC Toys ha annunciato di stare sviluppando un nuovo plotone con quattro donne dell'esercito che saranno disponibili a Natale il prossimo anno. Jeff Imel, rappresentante dell'azienda, ha raccontato di stare accarezzando da tempo l'idea di produrre soldatini al femminile. L'estate scorsa, un ex marine gli aveva chiesto di farlo. Imel ci ha pensato per un po'. Infatti, disegnare e produrre un giocattolo nuovo di questo tipo ha un costo considerevole. E non sapeva se ci fosse abbastanza domanda. Poi, però, è arrivata la lettera della piccola. Che l'ha convinto a mettere da parte anche i dubbi "storici" sull'opportunità di mettere in commercio "soldatine", dato che alla metà del XX secolo - periodo a cui si ispirano la maggior parte dei soldatini fabbricati in tutto il mondo - le donne non potevano entrare nell'esercito. I nuovi stampi per le "fantesse" - si dirà così? - saranno pronti a breve. Accontentando così la piccola Vivian. Il contingente al femminile sarà composto certamente da un capitano che porta una pistola e un binocolo. Altri tre modelli sono in fase di progettazione: una donna in piedi (e una piegata) che sparano con il fucile e un'altra in ginocchio con un bazooka. In tutto, il set sarà formato da 24 pezzi con quattro diverse pose. La madre della piccola ha raccontato di avere parlato di questa possibilità con alcune donne dell'esercito, ricevendo in cambio complimenti e pacche sulle spalle. Intanto, la piccola Vivian non vede l'ora di far combattere le sue "soldatine". Spareranno meglio degli uomini?
Per non offendere i gay il college mette al bando le gonne. In Inghilterra un college ha imposto alle studentesse il divieto di indossare la gonna per combattere la discriminazione nei confronti di chi ha maturato incertezze sulla propria identità sessuale. Federico Giuliani, Domenica 08/09/2019 su Il Giornale. In Inghilterra una scuola ha imposto alle studentesse il divieto di indossare la gonna per combattere la discriminazione nei confronti degli omosessuali e, più in generale, di chi ha maturato incertezze sulla propria identità sessuale. Siamo a Lewes, nell'East Sussex, dove il nuovo regolamento della Priory School, ripreso da numerosi media britannici, ha fatto il giro del mondo. Il college ha infatti proibito l'uso della gonna all'interno dell'istituto e imposto l'uso di un'uniforme di genere neutro per tutti gli studenti: pantaloni lunghi per ragazzi e ragazze. Quella che appare come una follia, spiegano dal college, è in realtà un avanzato programma di educazione (obbligatorio) contro le piaghe del bullismo e dell'omofobia. In nome del progresso, e costo di ostacolare la libera educazione familiare, gli studenti della Priory School si sono visti imporre un obbligo alquanto bizzarro.
Una decisione che fa discutere. Lo scorso venerdì, immaginando che qualche alunna potesse trasgredire il regolamento, all'ingresso dell'istituto era presente una nutrita schiera di poliziotti con il compito di rispedire a casa le ragazze che avevano trasgredito la norma e osando presentarsi ai cancelli scolastici con la pericolosissima gonna. Ma le ragazze respinte non hanno solo dovuto subire lo smacco di essere escluse dalle lezioni. Già, perché la direzione dell'istituto ha scritto e spedito una lettera alle famiglie delle inadempienti in cui chiedeva spiegazioni sull'assenza ingiustificata delle figlie, che presumibilmente andranno incontro a qualche sanzione scolastica. Nonostante le pressioni di una discreta fetta della società, i vertici della Priory School restano inflessibili: “L'uniforme neutra è il miglior modo per garantire l'uguaglianza”.
SE DIRE ''UOMO'' È DIFFAMAZIONE. Francesca Bernasconi per Il Giornale il 3 settembre 2019. Il prossimo 18 settembre dovrà comparire davanti ai giudici, per difendersi dall'accusa di "campagna di molestie mirata". La colpa di Kate Scottow, 38 anni e madre di due figli, è stata quella di definire "uomo" l'attivista transgender Stephanie Hayden. Nel dicembre dello scorso anno, tre agenti di polizia erano piombati a casa di Kate, a Hitchin, nell'Hertfordshire in Inghilterra, e l'avevano portata in commissariato, davanti agli occhi dei dei figli, una bimba autistica di 10 anni e un bambino di 20 mesi. Ma, prima di essere interrogata, la donna era stata detenuta per sette ore in una cella di sicurezza. La donna è accusata di essersi rivolta alla Hayden chiamandola secondo la sua identità biologica e non quella percepita dal transessuale. Non solo. Secondo l'accusa, la 38enne avrebbe anche usato i social per "molestare, diffamare e pubblicare tweet oltraggiosi e diffamatori" nei confronti dell'attivista. Tutte accuse negate con forza dalla Scottow, che ha ammesso solamente di essere convinta che un essere umano "non può realmente cambiare sesso". Niente da fare. Come ricorda la Verità, il giudice aveva infatti deciso di emettere un'ingiunzione provvisoria, intimando alla donna di non pubblicare più sui social nessuna informazione sulla Hayden che facesse "riferimento a lei come un uomo" e nessun post che facesse riferimento alla sua "precedente identità maschile". Dopo la vicenda e l'arresto della donna, è stata avviata un'indagine, conclusasi il 21 agosto con la formulazione delle accuse, da cui la 38enne dovrà difendersi, tra qualche settimana. Accuse del genere non sono nuove in Gran Bretagna, dove già il marzo scorso un'altra donna era stata accusata di "transofobia". Lei, però, non aveva dovuto affrontare il processo, perché il giudice aveva stabilito il non luogo a procedere. Situazione diversa per la Scottow, che dovrà affrontare un processo, colpevole di aver chiamato "uomo", una persona diventata donna.
LA PATATA NON HA MAI AMMAZZATO NESSUNO. Da "ilfattoalimentare.it" il 21 agosto 2019. Da alcuni anni l’azienda Amica Chips ha deciso di impostare la comunicazione pubblicitaria di alcune linee di prodotti sulla figura della ex porno star Rocco Siffredi e di doppi sensi non troppo originali. Una lettrice ha deciso di rivolgersi all’Istituto di autodisciplina pubblicitaria per segnalare il contenuto e le ricadute di questi spot. Di seguito pubblichiamo il botta-risposta tra la lettrice e l’Iap.
Gentile IAP, sto segnalando questo spot di Amica Chips con Rocco Siffredi per via dei riferimenti sessisti, che gioca su doppi sensi che reggono l’intera pubblicità, come evidenziato in modo goliardico anche da siti in rete dove sono anche riportati versione integrale e ridotte dello spot in questione. Come si può vedere, le allusioni e i doppi sensi a “patate” e “pacchetto” hanno evidenti intenzioni, più che tangibili, volgari e sessiste, la solita vulgata maschilista, formato spot, che riscuote ancora tanto successo nell’italietta di provincia e soprattutto in quell’Italia dove, guarda caso, fatica a sradicarsi questo pessimo fenomeno culturale stile califfo. Questa pubblicità è piena di simboli di questa portata: tante donne, uomini pochi e infatti solo ad uno, un ragazzo, verbalmente, si rivolge l’attore nella parte finale come fosse l’unico soggetto in mezzo a tanti oggetti di scena (le donne) con la frase più che esplicita ed evidente: “sempre dritto, il pacchetto!” Questo linguaggio, apparentemente scherzoso e innocuo, si impone invece a manifestare un “diritto sul campo” del maschio sulla donna, dal “pacco sempre dritto”, viene avallato il consenso di tanta ignoranza davvero fuori tempo. Inoltre, questa versione subdola (dunque ancor più pericolosa) e appena un po’ corretta di quello spot vergognoso, già ritirato in passato che ricordiamo tutti, non ha niente di educativo neanche per i minori i quali “apprendono” una cultura, ripeto, di stampo culturale sessista e a dir poco retrogrado, un voluto modello culturale da perpetrare alle giovani generazioni: ai giovani e piccoli spettatori maschi si “insegna” come trattare il genere femminile. così come le giovani donne che trasversalmente apprendono, come vorrebbero certi ricchi signori, quale sarà il loro ruolo nel mondo, ridendo e scherzando: patate erano e patate rimarranno, l’associazione è d’obbligo. Non bastano i delitti continui a fermare questa cultura da mentecatti (una media di 120 donne uccise ogni anno) dobbiamo pure subirla in modo trasversale attraverso simili pubblicità che mantengono quegli stessi giornalisti che apparentemente si schierano contro la violenza di genere, ridicolmente e a volte anche un po’ al limite. Voglio anche segnalare questa intervista dell’imprenditore Alfredo Moratti, il cui nome e protagonismo Ë stato dedicato al prodotto menzionato di amica chips, apparsa in rete solo due giorni dopo una a mia puntuale segnalazione a la7 e ad alcuni organi preposti per conoscenza della cosa (Giulia Buongiorno, Ordine dei giornalisti). Nella video intervista pubblicata su questo sito che potete confrontare l’imprenditore di amica chips fa alcune affermazioni su questa stessa campagna pubblicitaria: “… Visto che la patatina non è un prodotto che serve ma è un prodotto banale, un prodotto di divertimento… e abbiamo capito benissimo…”. “Questa idea (di usare come testimonial Rocco Siffredi) è venuta ad una agenzia anni fa, io sono molto sincero… ero un po’ contrario perché collegare o andare in simbiosi con un prodotto alimentare ad un personaggio di questo tipo ci vuole coraggio…”. “… Stiamo ripetendo questa esperienza che speriamo sia positiva ma già dalle voci che si sentono in giro “spaccherà”…” A poco serve il commento “riparatorio” dell’azienda sulla propria pagina ufficiale facebook del 15 luglio di Alfredo’s is back (il giorno dopo una mia segnalazione via mail agli organi preposti) del testimonial Siffredi che esclama “Mi piacciono le patatine. E non è un doppio senso”; una pezza, ed evidentemente peggiore del buco. Inoltre troverete una serie di commenti negativi estrapolati dalla pagina ufficiale Facebook di Amica chips, con precise argomentazioni da parte di numerosissimi utenti a sfavore dello spot menzionato, messe ovviamente in secondo piano e strategicamente oscurate, con a ciascuno dei quali relativa risposta e giustificazioni inconsistenti, copia incollata e sempre identica, da parte dei gestori della medesima pagina.
Di seguito la risposta con il parere del Comitato di Controllo dell’Iap: La ringraziamo per la segnalazione. Desideriamo informarla che il Comitato di Controllo ha ritenuto che il telecomunicato in questione non presenti profili di contrasto con le norme del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale. L’organo di controllo ha verificato che la programmazione dello spot esclude la fascia oraria di protezione specifica per i minori, che per legge è quella compresa tra le 16:00 e le 19:00, nonché la diffusione in prossimità di programmi esplicitamente rivolti ai minori. È certamente lecito dubitare del buon gusto della scelta pubblicitaria operata dall’inserzionista. Tuttavia, non è attribuita al Giurì o al Comitato di Controllo la competenza di dover giudicare del cattivo gusto della comunicazione quando – come nel caso segnalato – non siano ritenuti violati i livelli di guardia posti dal Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale a tutela dei consumatori-cittadini e della pubblicità in generale, per ragioni attinenti al contenuto dei messaggi. Il caso pertanto è allo stato concluso.
La replica della lettrice. Gentili membri dello IAP, Non penso che un Consiglio direttivo (“l’organo che fissa le direttive generali dell’attività e formula ed aggiorna le norme del Codice”), composto da 18 uomini, su 24 membri, possa stabilire parametri su cosa sia lesivo per l’immagine della donna. Inoltre vi è un potenziale conflitto di interessi in quanto molti dei membri stessi rappresentano i committenti delle pubblicità da sdoganare. Saluto i membri dello IAP con un tributo alla loro “imparzialità”. Patrizia S.
SAPETE CHE IN AMERICA NON SI PUÒ PIÙ DIRE ''PET''. Camilla Tagliabue per il “Fatto quotidiano” il 22 giugno 2019. America, il Paese della libertà, ma non troppo: come il cinema, la tv e le università, anche l' editoria è minacciata dalla dittatura del politicamente corretto, che espunge dalla pagina tutto ciò che è considerato sconveniente. Così è capitato a Francesca Marciano, scrittrice e sceneggiatrice (già David di Donatello per Maledetto il giorno che t' ho incontrato di Carlo Verdone), che sta lavorando a una raccolta di racconti, in uscita nel 2020 con Penguin Random House.
Signora Marciano, le hanno censurato qualcosa?
«Indubbiamente c' è un incremento della vigilanza: in una similitudine in cui mi riferivo al canto dei gabbiani che risuonano come alla chiamata del muezzin, mi è stato chiesto di togliere il riferimento al muezzin e di evitare la parola moschea perché vanno usati con cautela. Altro esempio: uno dei personaggi di una festa si presenta vestito "con una gonna leopardata come Gloria Gaynor", nota cantante afroamericana. Bene, ho dovuto togliere il riferimento a lei perché l' idea che un uomo, per di più bianco, si travesta da nero è percepito come poco rispettoso. O ancora: parlo di un abito, una gonna indiana del Rajasthan. Mi è stato detto di non descriverla così perché si tratta di appropriazione culturale. È lo stesso problema che stanno affrontando stilisti e designer che si ispirano ad altre tradizioni (vedi Carolina Herrera, accusata dal segretario alla Cultura del Messico di aver copiato indebitamente i capi dei nativi americani). Tutto ciò che riguarda altre culture è inappropriato».
Il primo degli argomenti sensibili è la religione, soprattutto musulmana.
«Sì, insieme all' etnia e ad alcuni aggettivi come "grasso". Ma la parola inutilizzabile che più mi ha sconvolto è pet, animale domestico. Stupefatta, ho cercato su Google; un articolo consigliava addirittura il sinonimo: animal companion, compagno animale».
Cioè "pet" offenderebbe la dignità animale?
«Apparentemente è così; è chiaro che poi possiamo ignorarlo. Però qualcuno, più di uno in America, pensa che quell'espressione qualifichi l' animale come proprietà, mentre companion dà l' idea della convivenza con esso, senza specificare alcun padrone o possesso».
Dopo il #MeToo parlare di donne è più complicato?
«Io personalmente non mi sono mai imbattuta in censure su questo. Forse, inconsciamente, sono politicamente corretta in quanto donna: scherzo. Però mi è stato chiesto di modificare una frase in cui un uomo, che amava una ragazza più giovane, sognava di averla tutta per sé: in inglese il verbo own, possedere, è malvisto e fraintendibile. Sono vent' anni che scrivo per questo editore americano, e sempre con la stessa editor, che è molto più allarmata di un tempo. Il politicamente corretto rischia di trasformarsi in censura. Da parte degli artisti c' è la paura che chiunque possa distruggerti un lavoro se, anche un singolo dettaglio, viene considerato politicamente scorretto».
Ma a chi giova allora tutta questa correttezza?
«Io per prima credo nell' importanza e nel peso delle parole: eliminare le espressioni discriminatorie è un primo passo per estirpare le discriminazioni reali. Trovo inaccettabile nominare le persone in base alla loro nazionalità, come "il filippino", "la rumena" Dire "il bangla", per designare il negozio gestito da una persona del Bangladesh, è poco rispettoso, così come parlare di persone di colore o no. Però c' è un limite a tutto».
Chi stabilisce il limite etico? E a che diritto o titolo?
«Questo è il punto spinoso. In Italia però non siamo allo stesso livello di paranoia.
Ci arriveremo?
«No, non credo. Abbiamo un carattere diverso, siamo più tolleranti ed elastici».
Altri aneddoti censori?
«Una agente si è sentita rifiutare un manoscritto perché il protagonista era un misogino e quindi impubblicabile. Peccato che il romanzo fosse ambientato nel V secolo in Persia! Spesso c' è mancanza di cultura: tutto va contestualizzato; altrimenti rischiamo di cancellare la storia».
Il sesso resta un tabù? Penso agli amori loliteschi o alle minoranze Lgbt.
«C' è una politica di enorme rispetto per le minoranze. Ma il limite è sottile, oltre si sfocia nella bigotteria. I giovani, però, non si sorprendono delle censure: ci sono nati dentro».
A Hollywood, sul set, hanno introdotto la figura del "garante del sesso": c' è un corrispettivo nell' editoria?
«Non saprei: non credo che il problema sia il sesso in sé, ma la discriminazione o quello che è giudicato tale. Ad esempio, un bianco non può scrivere di un nero o di un messicano E si arriva al paradosso: noi scrittori dobbiamo inventare storie, ma solo quelle che riguardano noi stessi. Come se un uomo non potesse scrivere di donne: quindi cancelliamo Emma Bovary, Anna Karenina e gran parte della letteratura? È ridicolo, se non pericoloso».
Francesco Giubilei per Nicolaporro.it l'1 luglio 2019. Ci risiamo. Per l’ennesima volta scatta la censura rossa nei confronti di pensatori, giornalisti, professori, uomini di cultura non allineati al pensiero progressista, questa volta a farne le spese è Marco Gervasoni, professore di Storia contemporanea all’Università degli Studi del Molise, editorialista de Il Messaggero e volto noto del mondo conservatore italiano. Il gravissimo crimine di cui si è macchiato Gervasoni è aver espresso sul suo profilo Facebook una personale opinione sul caso Sea Watch scrivendo: “Ha ragione Giorgia Meloni la nave va affondata” per poi aggiungere provocatoriamente “quindi Sea watch bum bum, a meno che non si trovi un mezzo meno rumoroso”. Il post non è passato inosservato e ha suscitato la reazione di Loreto Tizzani, presidente dell’Anpi Molise, che ha definito le parole di Gervasoni indicative “di una visione del mondo e dei diritti umani a dir poco sconcertante” per poi aggiungere “ciò che li rende assolutamente vergognosi è il fatto che ad usarli sia un docente universitario, e per di più un docente di storia: la categoria cioè di coloro che avrebbero l’alto compito di educare le giovani generazioni instillando in loro conoscenza, competenza, etica. Senza dimenticare il rigore di analisi e di acquisizione di dati che dovrebbe costituire il necessario bagaglio operativo di chi si avvicini allo studio della storia”. L’attacco dell’Anpi nei confronti di Gervasoni è grave per due motivi: anzitutto perché vuole colpire le legittime opinioni personali di un professore espresse al di fuori del contesto universitario, in secondo luogo perché, se a esprimere opinioni politiche è un docente con idee progressiste (cosa che avviene quotidianamente), è considerato non solo giusto ma anche doveroso, se a farlo è un conservatore scatta la censura. Gervasoni non ha manifestato il suo pensiero sul caso Sea Watch all’interno di un’aula universitaria, in quel caso sarebbe stato giusto intervenire (anche se quando la politica viene portata nelle aule universitarie dai professori di sinistra nessuno dice nulla) ma lo ha fatto sui propri social network esprimendo un’opinione che si può non condividere, si può definire sopra le righe, ma rientra nell’ambito della normale dialettica democratica. Un “affronto” ritenuto sufficiente per mettere in discussione le sue capacità didattiche: “ci si chiede dunque cosa e come potrà insegnare ai propri studenti”. Non credo sia necessario conoscere il curriculum di Gervasoni per rendersi conto della sua preparazione, basterebbe leggere un qualsiasi suo libro o articolo ma la stessa attenzione dell’Anpi a indignarsi, chiedere dimissioni o licenziamenti, non viene dedicata a leggere e conoscere la produzione editoriale dei conservatori. Ci chiediamo cosa sarebbe accaduto se Gervasoni non fosse un professore ordinario ma un ricercatore o un associato? Per il semplice fatto di aver espresso un’opinione personale non allineata, ne avrebbe risentito la sua carriera accademica nell’ambito di una visione dell’università basata sul concetto di egemonia culturale della sinistra teorizzato da Gramsci che, come scrive lo stesso Gervasoni, sembra “avere come modello di libertà l’Urss”. Arriviamo così alla richiesta di provvedimenti contro Gervasoni: “comportamenti così gravi, soprattutto per i possibili effetti negativi sugli studenti dal punto di vista umano e didattico, siano adeguatamente valutati dall’Università”. Nelle Università italiane martoriate da occupazioni abusive, scandali sui concorsi e le nomine, strutture carenti e insufficienti, qualità della didattica sempre più bassa, il post di Gervasoni di certo non avrà nessun effetto dal punto di vista umano (!?) e didattico sugli studenti mentre da ormai molti anni le conseguenze di atteggiamenti censori sono devastanti per la libertà di pensiero di professori e studenti nelle università che alcuni non vorrebbero come un luogo di confronto, dialogo e scambio di opinioni ma di indottrinamento al pensiero unico.
«Incita al femminicidio». T-shirt in vendita al Carrefour scatena l’indignazione del Pd. Pubblicato sabato, 26 ottobre 2019 da Corriere.it. Ha scatenato le proteste del Pd e indignazione sui social una t-shirt in vendita da Carrefour. Sulla maglietta compaiono in un riquadro un uomo e una donna stilizzati in cui lei urla nell’orecchio di lui, e sotto la scritta “problem”. Nel riquadro accanto c’è solo l’uomo con il braccio teso perché ha cacciato la donna, buttata giù fuori dal riquadro a testa in giù e la scritta “solved”. Duro l’attacco della senatrice dem Monica Cirinnà che ha postato la foto della maglietta su Twitter attaccando duramente l’azienda. «Se una donna parla troppo, meglio liberarsene? Gravissimo, specie in un paese in cui la violenza contro le donne è notizia di ogni giorno . Chiariscano, o dovrò buttare la mia tessera» ha scritto Cirinnà. «È gravissimo che un’azienda produca magliette che incitano al femminicidio. Ancora più grave che una nota catena di supermercati si metta a disposizione per distribuirle», le ha fatto eco la senatrice Pd Valeria Fedeli. «Attrazione per idioti. Ma davvero succede al @CarrefourItalia?», ha commentato la cantante Paola Turci. Carrefour in una nota ha spiegato che «le due unità poste erroneamente in vendita in un unico punto vendita di Roma, appartengono a un lotto che non avrebbe dovuto essere commercializzato». La catena di supermercati ha anche fatto sapere che «a seguito della segnalazione ricevuta nella giornata di ieri tramite social, Carrefour Italia ha immediatamente provveduto al ritiro delle magliette e contemporaneamente avviato una indagine interna per comprendere le dinamiche dell’accaduto. In questo modo è stato immediatamente chiarito che quanto accaduto è un mero errore materiale nel rifornimento di quel singolo punto vendita». Carrefour Italia infine «si scusa con tutti coloro che si sono sentiti offesi dai contenuti della maglietta», contraria ai «principi di inclusione e rispetto» che l’azienda promuove sul territorio italiano.
Violenza sulle donne, maglietta shock da Carrefour: "La ritirino, incita al femminicidio". La replica: un errore. Sulla t-shirt si vede una donna che precipita spinta da un uomo, dopo una discussione. E si legge la scritta "problema risolto". La protesta del Pd. Fedeli: "Deve essere subito bloccata e ritirata dal mercato". Cirinnà: "L'azienda sposa questo messaggio?". La risposta della società: "Avevamo già tolto dal mercato quelle maglie, indagheremo su quanto accaduto". La Repubblica il 26 ottobre 2019. Due figure stilizzate: un uomo e una donna. Discutono (si vede lei che parla animatamente). Poi la donna precipita, evidentemente spinta da lui, che ha il braccio teso. E sotto si legge l'incredibile scritta in inglese: problem solved, problema risolto. Tutto questo disegnato su una maglietta azzurra in vendita nei supermercati Carrefour. A far esplodere il caso - provocando poi le scuse dell'azienda - sono alcune parlamentari del Partito democratico. Monica Cirinnà, incredula, posta la foto della maglietta. E twitta: "Ho appena visto questa maglietta in vendita al Carrefour. Se una donna parla troppo, meglio liberarsene? L'azienda sposa questo messaggio? Gravissimo, specie in un paese in cui la violenza contro le donne è notizia di ogni giorno. Chiariscano, o dovrò buttare la mia tessera". Dure critiche dalla ministra della Famiglia Elena Bonetti. Che in un post su Facebook scrive: "Magliette come questa sono purtroppo ovunque in vendita nel web, in Italia e non solo, a testimonianza di una cultura inaccettabile e dilagante di violenza sulle donne. È una battaglia difficile che vinceremo solo se sapremo affrontarla insieme, in prima persona. Il cambiamento sta a noi, nelle nostre parole, nei gesti. E anche nei nostri acquisti". Interviene anche la senatrice dem Valeria Fedeli, capogruppo in commissione diritti umani. "È gravissimo che un'azienda produca magliette che incitano al femminicidio. Ancora più grave che una nota catena di supermercati si metta a disposizione per distribuirle". E ricorda: "In un Paese dove ogni 72 ore una donna viene uccisa, la mercificazione di una tragedia di queste dimensioni è un fatto intollerabile". Infine chiede l'immediato stop alla vendita e alla produzione: "L'azienda Skytshirt fermi subito la produzione e Carrefour Italia ritiri immediatamente il prodotto dai propri negozi". E Valeria Valente, presidente della Commissione femminicidio: "Vi pare normale che in un Paese dove viene uccisa 1 donna ogni 2 giorni si possa mettere in vendita una t-shirt del genere?". "La questione è culturale e investe chiunque, aziende comprese", dice Francesco Laforgia di Leu. Per Laura Boldrini la maglietta è "vergognosa". La parlamentare dem ringrazia "tutte le persone che si sono mobilitate per farla ritirare". Cinzia Leone (M5S) chiede che "episodi del genere non si ripetano più". Mentre la Casa internazionale delle donne invita a mandare una mail di protesta alla catena di supermercati per ottenere il ritiro del prodotto.
La replica dell'azienda: "È stato un errore". E Carrefour - contattata da Repubblica - fa sapere che erano state messe in vendita solo due di quelle magliette in un unico supermercato a Roma e per un errore, perché quel prodotto era già stato ritirato mesi fa. E aggiunge che è stata avviata un'indagine interna per capire come mai siano state esposte quelle due t-shirt, comunque ritirate già ieri dopo una segnalazione sui social. "Per noi - si legge poi in una nota - l'impegno contro la violenza sulle donne è un valore centrale, come testimoniano numerose iniziative a sostegno di organizzazioni no profit impegnate su questi temi".
Stefano Rizzuti per fanpage.it il 26 ottobre 2019. Sulla maglietta sono ritratti un uomo e una donna. Nel primo riquadro i due discutono animatamente e lei sembra urlare. Nel secondo riquadro, invece, lei non c’è più, probabilmente buttata giù dall’uomo che sembra averla spinta. La maglietta, in vendita al Carrefour, è al centro delle polemiche politiche, scatenate dalla senatrice del Pd, Monica Cirinnà, che ha condiviso una foto della t-shirt su Twitter. Nella maglietta blu si legge nel primo riquadro la scritta ‘problem’, nel secondo la scritta ‘solved’, quando la figura femminile viene spinta giù dall’uomo. A far partire la polemica, come detto, è Monica Cirinnà: “Ho appena visto questa maglietta in vendita al Carrefour. Se una donna parla troppo, meglio liberarsene? L’azienda sposa questo messaggio? Gravissimo, specie in un paese in cui la violenza contro le donne è notizia di ogni giorno. Chiariscano, o dovrò buttare la mia tessera”. Alle proteste della senatrice Pd seguono quelle di Valeria Fedeli, ex ministro dell’Istruzione e senatrice dem: “È gravissimo che un'azienda produca magliette che incitano al femminicidio. Ancora più grave che una nota catena di supermercati si metta a disposizione per distribuirle. In un Paese dove ogni 72 ore una donna viene uccisa, la mercificazione di una tragedia di queste dimensioni è un fatto intollerabile. L’azienda Skytshirt fermi subito la produzione e Carrefour Italia ritiri immediatamente il prodotto dai propri negozi”. Si unisce alle critiche anche Valeria Valente, presidente della commissione Femminicidio: “Vi pare normale che in un Paese dove viene uccisa 1 donna ogni 2 giorni si possa mettere in vendita una t-shirt del genere? La violenza contro le donne vive una vera e propria escalation: basta con questi attacchi sessisti, tanto più subdoli perché mascherati da una macabra ironia”, scrive su Twitter postando la foto della maglietta. Sempre dal Pd, commenta anche Alessia Morani: “Al Carrefour vendono questa maglietta. Io credo sia una vergogna in un paese in cui il femminicidio è un dramma. Mi auguro che immediatamente venga ritirata dalla vendita”.
Azzurra Barbuto per “Libero quotidiano” il 28 ottobre 2019. "Ho una figlia bellissima, ma anche una pistola, una pala e un alibi perfetto", "ti avevamo detto di prendere un mojito e non un marito", "frequento solo gente per bere", "salva un maiale, mangia un vegano", "a mali estremi, bevi e rimedi", "ogni uomo ha il diritto di fare quello che vuole lei". Sono alcune delle frasi che appaiono stampate sulle magliette in vendita sia online che in numerosi negozi della penisola. Le compriamo, le sfoggiamo, ci suscitano una risata, eppure mai nessuno si è sognato di fare il processo ad una di queste t-shirt accusandola di incitare all' omicidio, o all' alcolismo, o alla violenza. L' unica vera e indiscutibile colpa di simili indumenti è che risultano di cattivo gusto e non andrebbero indossati neanche come pigiama, quantunque si vada a letto da soli o al massimo in compagnia del proprio gatto. Tuttavia, tacciare chi li veste, li produce o li vende di esortare al femminicidio più che da malpensanti è da folli. Come può infatti una scritta demenziale impressa sul cotone istigare al compimento di un brutale assassinio?
LA FURIA DELLA CIRINNÀ. È bastato che la senatrice del Pd Monica Cirinnà postasse su Twitter la fotografia della maglia inquisita, in cui appare un omino che spinge una sagoma femminile che gli urla nell' orecchio, perché deflagrasse l' ennesima polemica di stampo sessista. Cirinnà scorge insulti al gentil sesso persino mentre spinge il carrello al supermercato e si imbatte in un prodotto che peraltro ha il suo corrispettivo al femminile: una sposa che si libera dello sposo con uno spintone e la frase "problema risolto". Dovremmo forse ritenere che tale vignetta rappresenti un invito rivolto alle mogli a fare fuori i mariti? O si tratta piuttosto di una asserzione ironica, mirante a strappare una risata? Non è plausibile pensare che la signora insoddisfatta della sua vita coniugale una volta intravista la maglietta in questione torni a casa e accoltelli il coniuge, poiché indotta alla realizzazione del delitto da una specie di straccetto demoniaco. Se ammettessimo codesta circostanza, un domani potremmo ritrovarci un imputato per omicidio che giustifica il suo atto tirando in ballo una t-shirt innocente pescata sul bancone del mercato, come se egli non avesse avuto capacità di intendere e di volere, come se non fosse un soggetto in grado di discernere e di riconoscere il sarcasmo, eccellente o pessimo che sia, secondo i gusti personali, dal momento che ciò che diverte me non per forza deve divertire anche te.
PRETESE ASSURDE. Siamo alle solite, insomma. Il neo-femminismo lagnoso, che mira a fare delle donne vittime perfette del sistema, della società, degli uomini, seguita a cogliere ogni fantomatica pretesa per piagnucolare, per additare qualcuno, per prendersela e dirsi offeso, anzi oltraggiato. Questo tipo di femminismo è un insulto a tutto il nostro genere. Dovremmo essere innanzitutto noi ad emanciparci dal ruolo di martiri. Tuttavia, sembra che ci piaccia, e pure tanto. Dovremmo chiedere di essere trattate come gli uomini, né meglio né peggio, eppure noi davanti alla maglietta del Carrefour ci stracciamo le vesti, i maschi invece se leggono la scritta "meglio un moijto che un marito" si fanno una risata. Qualche giorno fa ha suscitato un pandemonio un titolo di Repubblica sul web: "Prima passeggiata al femminile per le due astronaute della Iss". Gli utenti si sono proclamati indignati dal maschilismo dei giornalisti, i quali hanno soltanto riportato una notizia, ossia che per la prima volta nella storia due donne, Christina Koch e Jessica Meir, si sono avventurate nello spazio senza colleghi maschi (rimasti a guardare), uscendo dalla stazione spaziale internazionale per un intervento tecnico alle batterie durato 7 ore e 17 minuti. Non era accaduto prima per la mancanza di tute e protezioni delle taglie adeguate. Persino la Nasa ha festeggiato l' evento definendolo "HERstory", ossia "storia di lei". Intanto, dall' altra parte dell' oceano Atlantico, ovvero in Italia, si deplorava la fallocrazia di Repubblica nei confronti delle misere astronaute maltrattate.
Marco Pasqua per il Messaggero il 28 ottobre 2019. «La famiglia è uomo e donna. Si chiama normalità». E' uno dei commenti firmati, oggi, su Facebook, dal social media manager della Federazione pugilistica italiana. Commenti venuti all'attenzione del Gay Center, che, con il suo portavoce chiede l'intervento del ministro dello Sport, Vincenzo Spadafora. Postando un articolo del "Primato nazionale", di fatto house organ di Casapound (che titola "La Consulta boccia l'omogenitorialità: le coppie gay non sono famiglie"), l'addetto-giornalista della Federazione pugilistica, sul suo profilo Facebook,: "Attaccateve a stoc...". E, ancora: «A un bambino servono una madre e un padre. Io non discrimino nessuno, ma sono contro la società del "è bono tutto". Saluti romani». «E' indegno che un dipendente di un ente pubblico possa usare espressioni di questo tipo - dice il portavoce del Gay Center, Fabrizio Marrazzo - offendendo, tra l'altro, le famiglie Glbt e le persone omosessuali. Chiediamo al ministro Spadafora, che è da sempre attento al tema anche in quanto ex Sottosegretario alle Pari opportunità, di intervenire contro queste affermazioni e valutando la rimozione di questo dipendente dal suo incarico. Commenti di questo tipo non sono tollerabili».
L'intervento di Vittorio Lai, presidente Fpi. «Abbiamo appreso - scrive Lai in una nota - da un comunicato stampa diffuso in tarda serata di un post attribuito a un nostro dipendente che contempla affermazioni discriminanti e a tratti anche offensive nei riguardi di chi vive la propria condizione umana nel pieno consesso civile. Nel rappresentare l’intera Federazione, atleti e dirigenti in qualità di presidente della FPI e unitamente a tutto il mondo pugilistico italiano prendo nettamente e con decisione le distanze da tali affermazioni e soprattutto da tali comportamenti discriminatori. Preciso che la Federazione Pugilistica Italiana è da sempre impegnata con testimonianze e attività di sensibilizzazione a tutela della famiglia e dei valori umani di tutti. Da sempre abbiamo messo in atto campagne sociali a favore dell’integrazione, a favore della difesa delle donne, a tutela delle vittime di ogni violenza, anche psicologica. Nei confronti del bullismo e del cyberbullismo realizziamo con periodicità incontri, dibattiti con testimonial di grande spessore. Non possiamo sentirci coinvolti in dichiarazioni personali che non appartengono alla mission di questa Federazione e del Pugilato. Valuteremo immediatamente la posizione del nostro dipendente e prenderemo i provvedimenti più opportuni. Sia ben chiaro, infine, che questo accadimento non frenerà le nostre campagne sociali nel processo di divulgazione dei valori e principi che sono alla base della nostra disciplina.
“Donne in vetrina per rilanciare turismo”. La proposta shock del consigliere leghista. Pubblicato venerdì, 20 settembre 2019 da Corriere.it. Durante l’esternazione, in commissione Sviluppo economico del consiglio regionale, c’è chi ha pensato a uno scherzo di pessimo gusto. Ma quando Roberto Salvini, esponente pisano della Lega, già sindacalista alla Piaggio di Pontedera ed ex fondatore del partito dei cacciatori, ha ripetuto più volte che per rilanciare il turismo termale ci vogliono anche le «donne in vetrina» come fanno in Olando e in altri paesi dell’Ue, è scoppiato il putiferio. O meglio le polemiche sono esplose poco dopo quando i consiglieri e le consigliere hanno riascoltato le parole del collega immortalate anche in un video pubblicato su Facebook dalla vice capogruppo in consiglio regionale del Pd, Monia Monni che ha detto di essere «indignata e disgustata» per la proposta della Lega. L’esternazione di Salvini, ascoltata prima delle contestazioni da un silenzio glaciale, descrive in gergo toscano che cosa cerca il villeggiante medio. «Un “briaone” (ubriaco fradicio ndr) va a cercare la cantina – spiega il leghista – ma non c’è solo il “briaone”, c’è anche altra gente che cerca altre cose». Che cosa? Semplice le donne in vetrina, come in Olanda. «Ce lo vogliamo togliere il prosciutto dagli occhi – esorta il Salvini pisano -. Io sono stato vent’anni alle fiere in Germania, in Francia in Austria. Troviamo anche noi le donne da mettere in vetrina. Come si sfruttano le terme? Gioco e…». A questo punto iniziano le prime contestazioni. Ma Salvini non fa marcia indietro. «Non facciamo i benpensanti. Che cosa è Firenze sui viali? E Montecatini? E Viareggio?». Le reazioni contro la proposta di Roberto Salvini sono durissime. E non soltanto da parte dell’opposizione, delle associazioni delle donne e dei singoli cittadini indignati, ma anche dalla Lega. Che prima diffonde una nota nella quale scrive di prendere le distanze «dai contenuti e dai toni del consigliere che ha parlato esclusivamente a titolo personale», poi per bocca del commissario leghista Daniele Belotti annuncia di aver dato mandato alla capogruppo leghista Elisa Montemagni di sospendere il consigliere Salvini. Nella nota, diffusa in mattinata, la Lega scriveva di essere «in prima linea per difendere dignità e diritti della donna, sotto tutti i punti di vista, familiare, sociale e lavorativo». «Il consigliere regionale – continua la nota - è fuori linea anche sulla legalizzazione della prostituzione. Siamo a favore della riapertura delle case chiuse, ma guardiamo al modello svizzero ed austriaco, quindi senza vetrine, col chiaro scopo di garantire più sicurezza nelle nostre città, eliminare il degrado nelle aree teatro di prostituzione da strada, stroncare radicalmente l’indegno sfruttamento delle donne da parte di organizzazioni criminali, prevenire malattie a trasmissione sessuale e far emergere l’enorme ed incontrollata evasione fiscale, garantendo, in tal modo, entrate tributarie miliardarie per lo stato italiano».
Dall'articolo di La Repubblica il 20 settembre 2019. (…) "È fortunata, perché è sopravvissuta, tante donne vengono uccise", dice Vespa. E aggiunge: "Se avesse voluto ucciderla l’avrebbe uccisa". Parole che potrebbero essere intese come se l'aggressore si fosse voluto fermare in tempo, mentre dal racconto di Lucia appare chiaro che l'omicidio non c'è stato perchè con la forza della disperazione lei riesce a scappare. "Il tono dell’intervistatore tra risolini, negazioni, battutine è semplicemente intollerabile. Questo non è giornalismo, questa è spazzatura", scrive l'associazione "Non Una Di Meno". "Mi vergogno profondamente che non siano stati ancora presi provvedimenti per questa intervista indegna. Vespa ha offeso tutte le donne vittime di violenza, che vivono in un paese misogino, sessista e patriarcale", attacca su Facebook Beatrice Brignone, segretaria di Possibile. "Siamo nel 2019 e ancora dobbiamo assistere alla colpevolizzazione delle vittime, come nei processi di 50 anni fa, con l'aggravante che tutto questo accade in televisione e attraverso un servizio pubblico, che noi cittadini paghiamo", commenta un altro utente. Aggiunge "Lettera Donna": "Quando Lucia descrive la sua relazione con Fabbri come "poco più che un flirt", Vespa chiosa: "Diciotto mesi sono un bel flirtino però, eh". Poi mostra le immagini della donna pestata dopo l’aggressione: "Certo che l’aveva ridotta piuttosto male, ma posso chiederle di cosa si era innamorata?". "Ma era così follemente innamorato di lei da non volerla dividere con nessuno se non con la morte?". Vespa ha però scelto di replicare alla ricostruzione: “Sono sorpreso e indignato - ha affermato il giornalista - da alcune reazioni alla mia intervista di ieri sera alla signora Lucia Panigalli. Se c'è una trasmissione che dalle sue origini si è fatta portavoce della tutela fisica e morale delle donne vittime di violenza questa è Porta a porta. Abbiamo invitato la signora proprio perché il suo caso è clamoroso e allo stato la legislazione non è in grado di proteggerla in maniera adeguata. È gravissimo che si voglia estrapolare una frase da un dialogo complessivo di grande solidarietà e rispetto. La risposta migliore a queste calunnie sono i ringraziamenti che abbiamo ricevuto dalla signora e dal suo avvocato”. La Rai ha anche fatto sapere che l’avvocato Giacomo Forlani, legale della signora Panigalli, "ha ringraziato Bruno Vespa per la sensibilità mostrata nei confronti di un caso umano. La frase su cui si sono concentrate le speculazioni, per le quali si è immediatamente scusato, è frutto di un’affermazione assolutamente involontaria, pronunciata nel contesto di una serata dedicata alla difesa delle donne".
Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 20 settembre 2019. «È fortunata, perché è sopravvissuta, tante donne vengono uccise». È una delle frasi su cui è scivolato Bruno Vespa nel corso dell' intervista a una donna vittima di tentato femminicidio, trasmessa martedì scorso su Rai1. Alle proteste di Fnsi e Usigrai, si è aggiunto ieri l'Ordine dei giornalisti: «In seguito alla segnalazione di una privata cittadina», il conduttore sarà ora «sottoposto al rituale procedimento disciplinare». Sulle barricate pure la politica. Il M5S annuncia un esposto all' Agcom, Leu in Vigilanza. Tanto da costringere l' ad di Viale Mazzini a stigmatizzare l' accaduto. «Condivido la forte contrarietà suscitata dai toni dell' intervista», precisa Fabrizio Salini in serata, «considero la difesa e la tutela dei diritti delle donne un principio imprescindibile e indiscutibile della Rai, su cui non sono mai tollerabili equivoci». Parole che fanno trapelare tutta l' irritazione per la leggerezza con cui troppo spesso la tv pubblica tratta la cronaca nera. «La Rai e tutte le sue strutture - a cominciare da Porta a Porta - devono aderire alla linea editoriale dell' azienda che condanna fermamente la violenza», avverte Salini. Era stata la stessa vittima, Lucia Panigalli, a confessare all' Ansa tutto il suo disagio per il trattamento riservatole. Maturato a mente fredda. «Mi hanno profondamente offesa il tono e i modi usati da Vespa nel corso della trasmissione. Mi sento offesa anche a nome di tutte le donne che non sono state "fortunate" come me». Parole che, dopo una prima ondata di polemiche, scatenano la condanna delle Commissioni pari opportunità della Fnsi. Che insieme all' Usigrai si chiede «come sia possibile che la Rai tolleri una tale, distorta, tossica rappresentazione della violenza contro le donne», in «palese violazione del contratto di servizio » e del codice deontologico.
Identico il giudizio della politica. «Su temi così delicati e sulla sofferenza delle persone, quelli che svolgono il difficile compito di informare devono avere la massima attenzione e delicatezza», dice la vicepresidente M5S della Camera Maria Edera Spadoni. Mentre la dem Valeria Valente, presidente della Commissione d' inchiesta sul femminicido, esorta: «L' intervista è stata gestita male. È arrivato il momento di richiamare i giornalisti ai valori contenuti nel Manifesto di Venezia, la carta per la corretta informazione sulla violenza di genere che la Fnsi ha varato due anni fa». Ma Vespa si difende: «Credo sia la prima volta in assoluto che un giornalista viene criminalizzato a causa di una trasmissione per la quale viene al tempo stesso ringraziato dall' avvocato della sua presunta vittima». A cui rinfaccia: «Alla fine della trasmissione la signora Panigalli mi ha ringraziato con molta cordialità».
Da "il Giornale" il 20 settembre 2019. «Mi sono dimesso il 23 gennaio 2016 dalla Federazione nazionale della stampa per il carattere violento, pretestuoso e settario delle sue polemiche nei miei confronti. Il mio giudizio si rafforza alla luce dell' incredibile dichiarazione di oggi. Credo sia la prima volta in assoluto che un giornalista viene criminalizzato a causa di una trasmissione per la quale viene al tempo stesso ringraziato dall'avvocato della sua presunta vittima».
La solita ghigliottina del politicamente corretto cala su Artsmedia. Marco Lomonaco il 18/07/2019 su Il Giornale Off. “Non posso stare senza la Fi”. Anche alle donne piace la Fi”. Sono queste alcune delle frasi usate dall’agenzia Artsmedia per la campagna di comunicazione social della Fidelis Andria, squadra di calcio militante in serie D, per lanciare gli abbonamenti alla prossima stagione. Peccato che, dopo poco tempo dal lancio della campagna, è scattata la mordacchia anti-sessista di certi giornali che non si sono astenuti dai soliti commenti di circostanza. Di seguito le parole della presidente del CAV (Centro Anti Violenza) Patrizia Lomuscio comparse in un commento al post della Fidelis targato Arsmedia: “Ho chiesto immediatamente alla società di cambiare la pubblicità, altrimenti mi vedrò costretta, in qualità di presidente del centro antiviolenza ma anche donna, tifosa da anni, a segnalare alle autorità competenti. Non mi sento rappresentata da questo tipo di pubblicità”. L’agenzia però, come ovvio, non voleva offendere nessuno e a passare per sessista non ci sta. Il CEO di Artsmedia Giuseppe Inchingolo ha infatti precisato in mattinata al Giornale OFF che: “Le immagini con la scritta ‘Non posso stare senza la Fidelis’ o ‘Anche alle donne piace la Fidelis” sono state volutamente tagliate perché l’idea dietro la campagna è che l’amore per la squadra sia talmente grande da non poter essere contenuto in un post social”. Facendo questo, come quando un immagine da caricare sui social risulta troppo grande per essere contenuta nel rettangolo o nel quadrato a disposizione, risulta sformata o addirittura, come in questo caso, tagliata. “L’invito che la campagna di comunicazione fa è il seguente – precisa Inchingolo – Uscire dai social, che non possono contenere l’amore per la Fidelis, e andare allo stadio a tifare!”. Un amore così grande non può essere contenuto nei social, non per niente l’hashtag della campagna abbonamenti 2019/2020 è #amoresenzafine. Ora, sarà forse perché Artsmedia collabora fra gli altri con Luca Morisi, spin doctor di Matteo Salvini, nella comunicazione leghista che la loro campagna per la Fidelis Andria è stata bollata da subito come sessista a causa di un gioco di parole? Il sospetto è più che legittimo a questo punto, viste le ampie spiegazioni che l’agenzia ha fornito alla stampa in seguito alla polemica. Polemica che per altro, non esiste, come non esiste sessismo in questo caso: ad esistere piuttosto è una campagna di marketing e un gioco di parole a supportarla. Ma se anche ci fosse l’intento di “giocare” con le parole: c’è qualcosa di sbagliato nel riconoscere tramite un post, un pubblico omosessuale femminile ad una squadra di calcio? O l’amore per il calcio è prerogativa solo di alcune categorie di persone?. Assolutamente no. Quindi se anche ci fosse stata la volontà di giocare su questi aspetti, che cosa ci sarebbe di male? Forse l’unica cosa inquietante di tutta questa storia è che la mannaia dell’anti sessismo è calata ancora una volta su chi non rientra nei canoni belli ed educati del politicamente corretto, su professionisti che sanno fare il loro lavoro e, non per niente, partecipano alla campagna del primo partito Italiano.
Velletri, il paese che "boldrinizza" il linguaggio. La giunta di Velletri approva un provvedimento "boldriniano" che mette al bando il linguaggio sessista dalla modulistica e dalle comunicazioni ufficiali. Fratelli d'Italia: "Di questo passo cambieranno anche l'inno nazionale". Elena Barlozzari e Alessandra Benigenetti, Giovedì 18/07/2019 su Il Giornale. “Sindaco, sindaca? A me non importa, quello che conta è che sia una persona per bene”. La signora che abbiamo davanti, una velletrana doc che porta sul viso i segni dell’esperienza, proprio non riesce a capire quale sia il problema. “È nel linguaggio signora”, proviamo a rilanciare. Nulla, ci guarda disorientata, scrolla le spalle e si congeda con un sorriso. Difficile spiegare, soprattutto agli over sessanta, quello che sta succedendo in città. Una vera e propria rivoluzione linguistica con cui, prossimamente, dovranno fare i conti tutti i cittadini (anzi, meglio dire gli individui, per non far torto a nessuno) che si troveranno a dialogare con l’amministrazione locale. Sarà allora che si accorgeranno dei cambiamenti introdotti dalla delibera di giunta di Velletri approvata lo scorso lunedì. Un provvedimento dal sapore “boldriniano” che mette al bando il linguaggio sessista dalla modulistica e dalle comunicazioni ufficiali. “Il linguaggio – si legge nelle premesse – rappresenta uno strumento fondamentale per diffondere una cultura paritaria”. Alla classica (e un po’ cacofonica) declinazione di qualifiche professionali ed incarichi istituzionali al femminile (la sindaca, l’assessora, l’architetta, la medica e via dicendo) si accompagnano anche altre novità. “Leggendo le linee guida balzano all’occhio delle trovate tragicomiche”, spiega Chiara Ercoli, consigliera comunale di Fratelli d’Italia con una discreta allergia per le quote rosa. “Noi donne non abbiamo bisogno della corsia preferenziale”, mette subito le mani avanti. Ecco allora qualche esempio di “linguaggio rispettoso dell’identità di genere”: evitare l’uso delle parole uomo e uomini in senso universale, meglio scrivere “diritti dell’umanità” piuttosto che dell’uomo; parlando di popoli, invece, la formula consigliata è, ad esempio, “il popolo romano” anziché “i romani”; per quanto riguarda la coppia oppositiva “uomo/donna” la nuova regola è quella di dare la precedenza al femminile. Ma non finisce qui. Dalla modulistica comunale spariranno anche parole di uso comune che, mettono in guardia gli estensori della delibera, celerebbero in realtà stereotipi e pregiudizi sessisti. Tra queste spiccano “signorina”, perché identificare una donna rispetto al proprio stato civile sarebbe discriminante, ed anche “fraternità, fratellanza e paternità” quando si riferiscono ad entrambi i generi. Se la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, ha definito gli accorgimenti lessicali alla stregua di una “criminalizzazione dell’uomo”, la Ercoli si domanda: “Per presentarci alle prossime elezioni, noi di Fratelli d’Italia dovremo cambiare il nome?”. “Di questo passo – rilancia – sostituiranno l’inno nazionale con la Traviata”. Dubbi legittimi in quest’epoca di cambiamenti. “Dite alla Ercoli di non preoccuparsi – ribatte il sindaco dem Orlando Pocci – nessuno ha delle simili pretese”. Lui, in realtà, il giorno dell’approvazione della delibera non c’era neppure, e nel palazzo qualcuno sussurra che non ne sposi a pieno i contenuti. “La mia assenza – smentisce – non significa che io non condivida la delibera, se poi in fase di applicazione emergeranno delle storture siamo pronti a rivederla, niente è immodificabile, solo il Vangelo”. Tanto clamore per nulla, insomma. E poi, si smarca, “abbiamo solamente anticipato la direttiva della Bongiorno”. Il riferimento è al provvedimento siglato dal ministro della Pubblica Amministrazione e dal sottosegretario con delega alle Pari Opportunità Vincenzo Spadafora, che dispone di “utilizzare in tutti i documenti di lavoro termini non discriminatori”. “Le parole sono importanti, soprattutto nell’epoca dei social-network, dove persino esponenti politici di primo piano come il ministro Salvini utilizzano un linguaggio palesemente discriminatorio”, aggiunge Sara Solinas, presidente della commissione Pari Opportunità del Comune di Velletri, richiamando quel “sbruffoncella” usato dal numero uno del Viminale per apostrofare Carola Rackete. Per lei il decalogo anti-sessista è un passo in avanti verso l’inclusione delle donne nel mondo del lavoro. E, in fondo, si difende: “Dire diritti dell’umanità non stravolge nemmeno troppo la lingua comune”.
“IO CE L’HO PROFUMATO”. Alessandro Gonzato per “Libero Quotidiano” l'1 luglio 2019. È uno scandalo! Razzisti! Sessisti! Ma ve le immaginate le reazioni delle anime belle della Sinistra se alcuni mitici spot televisivi del passato venissero messi in onda oggi? Negli anni '80 e '90 ce n' erano di formidabili: erano incisivi, semplici ma per questo molto efficaci. Si trattava di gag legate alla réclame. Altri tempi, altra tivù. Ora i politici di Sinistra, soprattutto certe signore di quella sponda, farebbero a gara per farli bloccare. L' Agcom, l' autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni, sarebbe presa d' assalto.
Come potrebbero non gridare allo scandalo, le finte perbeniste, di fronte allo spot delle caramelle Mental? «Io ce l' ho profumato» diceva un signore meridionale vestito di tutto punto voltandosi verso una donna imbarazzata. «L' alito...», chiariva l' uomo, «ce l' ho profumato con Mental. Perché Mental profuma l' alito... E che avevi capito?». L' onorevole di turno, meglio se con qualche alta carica della Repubblica, come minimo presenterebbe un' interrogazione parlamentare per chiedere conto al ministro competente di questa gravissima offesa alla dignità delle donne.
Non la passerebbero liscia nemmeno gli autori dello spot dello spazzolino Rapident, in cui una piacente signora accettava di farsi mordere il collo dal Conte Dracula solo dopo che questi si era lavato i denti accuratamente: ah, la violenza sulle donne! E quelle casalinghe che si facevano in quattro per pulire il bagno con Mastrolindo? No, quello era schiavismo.
Oggi si scatenerebbe un putiferio. Assisteremmo a una ridda di dichiarazioni al vetriolo, fioccherebbero i comunicati stampa: basta svilire il ruolo della donna! Che la doccia e la vasca da bagno se la puliscano gli uomini! Chi non ricorda la pubblicità dei preservativi Control? «Di chi è questo?» chiedeva un corrucciato professore che entrando in aula ne aveva trovato una confezione sul pavimento. «È mio», «è mio», «è mio», rispondevano uno dopo l' altro studenti e studentesse. Svergognati!
I paladini e le paladine radical chic avrebbero di che indignarsi a vanvera anche sul fronte razzismo, dicevamo. Nino Manfredi, a lungo testimonial della Lavazza, sfotteva gli aborigeni che dicevamo «Labazza», con la "b". Gli omoni neri con l' anello al naso lo perseguitavano in salotto, in giardino, erano dappertutto e gli fregavano sempre la tazzina di caffè.
Lui gli faceva il verso: è del tutto evidente che oggi qualche mente eccelsa darebbe dell' intollerante al compianto attore. E lo spot dei cioccolatini Sperlari? I magi, in attesa della nascita di Gesù, nella loro tenda ne mangiavano uno dopo l' altro fino a finirli. E dunque cosa portare al bambinello? Trovata geniale di Baldassare, quello nero: «Mazzo di fiori!». Ci sembra di sentirli i tromboni di sinistra: «È una vergogna sfottere i venditori di rose! Fermate questa pubblicità xenofoba!».
C' era poi la coppia italiana, marito e moglie, che viaggiava a bordo di un autobus scalcinato, tra beduini e capre, guidato da un africano: «Turista fai da te?» gli chiedeva il conducente africano. «No Alpitour? Ahi ahi ahi!».
Qualcuno di sicuro avrebbe da ridire anche sull' omino delle caramelle Tabù (era un fumetto tutto nero coi guanti bianchi) che alla fine dello spot, per reclamizzare la variante del confetto, se ne usciva canticchiando: «Ta-ta, ta-tabù, anche bianco...».
La bellissima Kelly Hu, conosciuta come Kaori, nello spot del formaggio Philadelphia, non faceva che dire: «Poco, poco», «tanto, tanto»: insomma, la giapponesina veniva derisa da quei razzistacci dei padroni di casa dove lei prestava servizio. Se torniamo ancora più indietro negli anni è impossibile non pensare a Calimero e al suo «Ava come lava». Il simpatico pulcino, rivolgendosi a una giovane che faceva il bucato diceva: «Non trovo la mia mamma perché sono piccolo e nero». La risposta, oggi, provocherebbe un terremoto: «Tu non sei nero, sei solo sporco». La ragazza lavava Calimero con Ava, e lui ne usciva di un bianco abbagliante.
· Comandano loro!
Marta Cartabia è la presidente della Corte Costituzionale, la prima volta di una donna. Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi e Sabino Cassese. Ha 56 anni, da otto alla Consulta: era vicepresidente di Giorgio Lattanzi. Con l’elezione del nuovo presidente della Corte costituzionale, avvenuta stamattina, comincia una nuova stagione al palazzo della Consulta. Il nome designato dai 14 giudici (lei ha lasciato la scheda bianca), dopo essere circolato con tanta insistenza, è stato quello di Marta Cartabia, attuale vicepresidente, 56 anni, da otto alla Consulta. Sarà la prima donna a sedere sullo scranno più alto della Corte, quarta carica dello Stato, un segnale storico. Giorgio Lattanzi, ormai ex presidente, ha lasciato il palazzo lunedì dopo nove anni di permanenza (e oltre due di presidenza), sostituito dal giudice Stefano Petitti. Le alternative maschili erano gli altri due vicepresidenti: Aldo Carosi, che ha la sua stessa anzianità di giudice costituzionale (sia a lui che a Cartabia restano dove mesi) e Mario Morelli, in scadenza di mandato a novembre 2020. La continuità con la gestione Lattanzi sarà la conseguenza di un’impronta data dal presidente emerito divenuta pressoché indelebile, oltre che largamente condivisa tra i giudici. Non solo per le significative pronunce in tema di diritti che hanno segnato la giurisprudenza costituzionale (tra le più recenti quelle sul fine vita e sul cosiddetto ergastolo ostativo), ma per l’apertura che la stessa Corte ha voluto fare verso l’esterno. Un allargamento di visuale andata oltre il palazzo della Consulta, estendendosi alla società su cui le decisioni dei giudici hanno riflessi concreti. I “viaggi” nelle scuole e nelle carceri sono l’emblema concreto di un coinvolgimento nella realtà del Paese dal quale difficilmente si potrà tornare indietro, e che continuerà con la nuova presidente.
Corte Costituzionale. Marta Cartabia eletta presidente, per la prima volta una donna. Giovanna Ranieri l'11 Dicembre 2019 su Il Corriere del Giorno. Docente di diritto, ha 56 anni. Napolitano la nominò alla Corte costituzionale nel 2011. Il suo mandato sarà breve per soli nove mesi. Molto apprezzata anche da Mattarella, ha la passione per il rock: “Ho rotto un cristallo, spero di fare da apripista. Spero di poter dire in futuro, come ha fatto la neopremier finlandese, che anche da noi età e sesso non contano. Perché in Italia ancora un po’ contano”. Una donna arriva per la prima volta nella storia repubblicana al vertice della Consulta. I giudici della Corte Costituzionale hanno eletto al vertice la giurista cattolica Marta Cartabia, 56 anni , sposata e madre di tre figli, originaria della provincia di Milano, è tra i più giovani presidenti che la Consulta abbia mai avuto. Arrivata alla Corte nominata dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, dal 2014 è stata vicepresidente, Cartabia è docente di diritto costituzionale all’Università Bicocca di Milano e vanta un profilo internazionale denso di studi e pubblicazioni. Allieva di Valerio Onida, Marta Cartabia si laurea con lui che poi diventerà presidente della Corte costituzionale nel 1987, all’Università degli studi di Milano, discutendo una tesi sul diritto costituzionale europeo. Alla Corte costituzionale, è arrivata nel 2011, diventando la terza donna eletta dopo Fernanda Contri e Maria Rita Saulle ed è una dei giudici costituzionali più giovani della storia della Consulta. A volerla, a soli 48 anni, come dicevamo, era stato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che ne apprezzava l’attività di autrice e studiosa particolarmente impegnata sulla tematica dell’integrazione dei sistemi costituzionali europei e nazionali, così come nella materia dei diritti fondamentali nella loro universalità. Di lei ha grande stima anche l’attuale Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella: i due condividono l’esperienza di giudici costituzionali per alcuni anni, in cui sono anche vicini di casa, nella foresteria della Consulta. Anni fatti anche di qualche cena insieme in un ristorante romano, “un pò come studenti fuorisede“, come racconterà poi lei stessa in un’intervista. Ha sempre condiviso le grandi responsabilità che le sono state attribuite, con la famiglia: “Penso che questo duplice aspetto della mia vita mi aiuti a mantenere un pizzico di equilibrio“, ha dichiarato recentemente. Ed è riuscita a trovare spazio anche per i suoi tanti hobby. Ama tutte le attività all’aperto, in particolar modo jogging e trekking . Annovera una grande passione per la musica, ma non solo quella classica, che l’ha vista essere un’habitué delle prime della Scala a Milano, ma anche quella “rock”: quando corre con le cuffie nelle orecchie, la carica le arriva dalla canzoni dei Beatles. Il sarà un mandato breve che durerà soltanto nove mesi poichè scadrà il 13 settembre del 2020, essendo stata nominata alla Consulta il 13 settembre del 2011 e l’incarico di giudice costituzionale non può durare più di nove anni. Alla Consulta è relatrice di importanti sentenze su questioni controverse e che spaccano l’opinione pubblica. Come quella sui vaccini, con la quale la Corte ha stabilito che l’obbligo di farli non è irragionevole, bocciando il ricorso della Regione Veneto. O quella sull’Ilva, che dichiarò incostituzionale il decreto della Presidenza del consiglio dei Ministri del 2015 che consentiva la prosecuzione dell’attività di impresa degli stabilimenti, nonostante il sequestro disposto dall’autorità giudiziaria dopo l’infortunio mortale di un lavoratore. Marta Cartabia, Docente di Diritto Costituzionale dal 2008 all’Università Bicocca di Milano, ha insegnato e fatto attività di ricerca in diversi atenei in Italia e all’estero, anche negli Stati Uniti. “Ho rotto un cristallo spero di fare da apripista. – sono state le sue prime parole – Spero di poter dire in futuro, come ha fatto la neopremier finlandese, che anche da noi età e sesso non contano. Perché in Italia ancora un po’ contano“. Come esperto, ha fatto parte di organismi europei, come l’Agenzia dei diritti fondamentali della Ue di Vienna. La scorsa estate, poco prima della nascita del Governo Conte bis, la Cartabia aveva sfiorato un altro record, infatti il suo nome era circolato negli ambienti politici ed istituzionali che “contano” come possibile premier di un governo di transizione, e se il Pd ed il M5S non avessero formato un maggioranza di governo imprevedibile, sarebbe stata la prima donna nella storia italiana a ricoprire l’incarico di presidente del Consiglio. Ancor prima si era pensato anche a lei come ministro del governo Cottarelli, prima dell’avvento del Governo Conte 1 (“gialloverde” formato da M5S e Lega). La prima ad inviare le proprie congratulazioni alla neo-presidente della Consulta è stata proprio una donna, la vicepresidente della Camera Mara Carfagna di Forza Italia: “Esprimo le mie congratulazioni e felicitazioni alla nuova presidente della Corte costituzionale. La scelta dei giudici infrange i pregiudizi di genere“. Anche l’ex-deputato del Pd. David Ermini attuale vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, si è complimentato: “È una bella notizia che ci sia stata l’unanimità e che per la prima volta una donna ricopra un incarico così importante“.
A destra più spazio alle donne. Anna Paola Concia il 12 Dicembre 2019 su Il Riformista. La nuova Presidente della Corte Costituzionale, Marta Cartabia, ha la mia età. Molte cose mi distanziano da lei, soprattutto su temi legati ai diritti civili e ai diritti delle donne. È una conservatrice, ma di Presidenti conservatori ne abbiamo avuti moltissimi. Mi auguro che in questo importantissimo ruolo sappia far prevalere una cultura laica, una cultura costituzionale direi, come è d’obbligo. Vorrei, però, soffermarmi su alcuni aspetti che evidenziano la sua nomina. Il primo, quello che balza agli occhi: è la prima donna nella storia della Consulta a ricoprire quel ruolo. Molto tardivamente, dopo 63 anni, ma è accaduto. Cosa è accaduto? Che nella ricerca delle competenze necessarie si è guardato anche nel vastissimo universo delle competenze femminili. Mi pare un passo avanti. Non è stata eletta “in quanto donna”, ma perché si è avuto il coraggio di guardarle, di cercarle le figure femminili. È una studiosa molto competente sui temi del diritto internazionale e comparato. Come ha evidenziato il Prof. Cassese sul Corriere della Sera, in tempi bui di sovranismo e crisi del mondo globale è una buona notizia. E veniamo al terzo punto, ai mie occhi interessante: negli ultimi anni abbiamo visto assumere ruoli istituzionali e di leadership politica solo donne conservatrici, di centro destra, e non solo in Italia: Maria Elisabetta Alberti Casellati, di Forza Italia, Presidente del Senato, Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia e ora Marta Cartabia, conservatrice, alla Consulta. E allora diciamocelo che la sinistra italiana ha un grande problema con la leadership femminile. Diciamocelo care amiche e amici di sinistra. Perché così, invece di lamentarci contro il destino cinico e baro, dobbiamo rivolgerci alla forze di sinistra che oltre a “propagandare” la parità di genere nelle istituzioni e nella politica, non guardano a quel vasto universo delle competenze femminili. E se la sinistra lo facesse, avremmo molte più donne progressiste e laiche a ricoprire ruoli istituzionali e politici. Perché le chiacchiere, cara sinistra, stanno a zero, e risulta un po’ fastidioso il vostro esultare per l’elezione a Premier della Finlandia di Sanna Marin. Cospargetevi il capo di cenere, invece.
Donne al potere: ora mancano Quirinale, Palazzo Chigi e il “Corriere”. Biagio Castaldo il 12 Dicembre 2019 su Il Riformista. Grandi entusiasmi e sensazionalistici titoli di giornale hanno accolto la nomina della giurista Marta Cartabia, prima donna alla presidenza della Corte Costituzionale. Ma il primato di Cartabia riporta sull’etichetta la data di scadenza “entro e non oltre il 13 settembre 2020”. La sua nomina alla Consulta risale al 2011 e l’ufficio di giudice costituzionale non può durare per tutti i membri più di nove anni. Una sfortunata tempistica che si inserisce però armoniosamente nella puntata “Ok, ma non troppo” da sempre riservata alle donne al potere. Basta scorrere gli elenchi dei vertici delle maggiori cariche dello Stato per rendersi conto della totale assenza di donne elette alla Presidenza della Repubblica e al Consiglio dei Ministri, sebbene gli ultimi cinquant’anni abbiano visto una progressiva apertura delle alte schiere istituzionali. Risale al 1976 la nomina della prima donna alla carica di ministro, quella di Tina Anselmi, ministra del Lavoro durante il governo Andreotti, il primo con l’astensione del Pci. Un grande traguardo, specie se si pensa che nello stesso anno Adelaide Aglietta diventò la prima donna segretario di partito, quello Radicale. Se non fosse che il suo mandato sarebbe potuto vacillare al primo sguardo languido o “peccato disonorevole”, legittimati dall’allora vigente diritto d’onore, abrogato solo nel 1981. C’è da dire che Tina Anselmi ha fatto da apripista a una stagione più rappresentativa in politica. Checché ne dica Giorgio Carbone su Libero, Nilde Iotti non era «un’emiliana brava in cucina e a letto», ma la prima donna a capo della presidenza della Camera dei deputati nominata nel 1979 e in carica fino al ’92. Comunista, tre legislature, il più lungo mandato a Montecitorio, ma a vent’anni dalla morte, sarà ancora ricordata come «esuberante e prosperosa». Il primato del ministero dell’Interno appartiene invece a Rosa Iervolino Russo che entra al Viminale nel 1996, e pochi anni più tardi, nel 2001, si attesta pure come prima sindaca di Napoli. Menzione d’onore, poi, per Letizia Moratti che incarna una serie di primati: nel ’94 è stata la prima donna nominata alla Presidenza Rai, incarnando un altro ideale di donna tra le varie “signorine Buonasera”, e poi prima sindaca di Milano nel 2006 scommettendo sul progetto dell’esposizione universale e assicurandolo alla sua città. Nel ’95 è la Radicale Emma Bonino la prima donna italiana alla Commissione europea, mentre nel 2016 Virginia Raggi è la prima sindaca di Roma, e anche la più votata nella storia. A Palazzo Madama bisogna aspettare il 2018 per assistere all’elezione per la Presidenza del Senato di Maria Elisabetta Alberti Casellati, che è risultata la candidata più votata dal 1987. Facile notare come le candidature di donne si risolvano spesso in veri e propri plebisciti, sebbene anche in magistratura si registrino ritardi e primati. Ci sono voluti ben quindici anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione per vedere affermato il principio di uguaglianza fra i sessi nell’accesso alle cariche. È Letizia Martino, a soli 27 anni, a diventare la prima magistrata nel 1964, arrivando seconda al concorso, tra i pregiudizi per cui «una donna poteva educare, ma non giudicare, specialmente gli uomini». La presenza femminile a capo delle procure d’Italia è ancora un tabù, specie nelle grandi città che continuano ad essere presidiate da uomini, mentre a capo dei Tribunali italiani la presenza femminile si insidia solo nel 2007 con Livia Pomodoro a Milano, Sabrina Gambino a Siracusa e Valeria Fazio a Genova. Anche il mondo dell’informazione manca della guida di una donna: fu Daniela Brancati la prima donna a dirigere un telegiornale a diffusione nazionale, Ida Colucci alla direzione Tg2 e Concita De Gregorio a dirigere L’Unità nel 2008. Quando vedremo una donna a capo del Corriere della Sera o di Repubblica?
Giovanna Vitale per “la Repubblica” l'11 dicembre 2019. Non serviva l'elezione di una socialdemocratica 34enne a premier della Finlandia per provare l' arretratezza della sinistra italiana rispetto a quella di altri paesi europei. Al Nazareno sono mesi che la "questione femminile" cova sotto la cenere: da quando Paola De Micheli ha annunciato le sue dimissioni da vicesegretaria per fare il ministro dei Trasporti e il presidente dem Paolo Gentiloni è stato designato commissario Ue. Due posti al vertice del Pd che Nicola Zingaretti dovrebbe ora assegnare ad altrettante donne per tenere fede alla promessa parità di genere negli organismi dirigenti inserita, prima, nella sua mozione congressuale e poi, anche, nel nuovo Statuto del Pd. «Cambiato dopo 12 anni proprio su input di Nicola, che ha pure reintrodotto la conferenza nazionale delle donne dem azzerata e sostituita da Renzi con il contestato Dipartimento alla famiglia», ricorda la sottosegretaria Francesca Puglisi, coordinatrice di Towanda dem, l' associazione che da anni combatte per tingere di rosa il cielo sopra il Pd. «Adesso però gli alibi sono finiti: gli strumenti ci sono e bisogna usarli». Aspettare non si può più, concorda De Micheli: «È un tema dirimente per un grande partito come il nostro ». Se infatti in Finlandia i leader delle quattro formazioni di centrosinistra che sostengono il governo sono tutte donne, in Italia non ce n' è nemmeno una. Con un' aggravante. Nel Pd il gruppo di testa è interamente maschile: segretario, vice, presidente (ora vacante), capigruppo in Parlamento. E cambiare gli assetti non sarà facile. A cominciare dalla governance del Nazareno. Dove Andrea Orlando ha deciso di restare, rinunciando a una poltrona da ministro, a patto di conquistare i galloni di vicesegretario unico. E pure la presidenza femminile, a un certo punto, è sembrata vacillare. Raccontano che un paio di mesi fa Maurizio Martina e Pietro Bussolati siano andati dal sindaco di Milano Beppe Sala per proporgli di succedere a Gentiloni. Un modo per testimoniare apertura a mondi diversi da quelli della Ditta (il primo cittadino non è neanche iscritto) e attenzione per i territori. Sala aveva pure dato una disponibilità di massima. Solo che poi si è temuta la rivolta delle donne e ci hanno ripensato. Virando su altre ipotesi. In pole adesso ci sarebbe l' eurodeputata Irene Tinagli: economista esterna al partito molto apprezzata a Strasburgo come capo della commissione Econ che fu di Gualtieri. Se dovesse declinare, sono già pronte le alternative: l'ex ministra Roberta Pinotti (che però sconta l'appartenenza alla corrente di Franceschni, accusata di aver già fatto il pieno) e la deputata 37enne Lia Quartapelle. E c'è anche chi pensa alla scrittrice Chiara Gamberale, che porterebbe una ventata d' aria fresca. Di sicuro, quando dopo il voto emiliano l' assemblea nazionale si riunirà per eleggere la nuova presidente, potrebbero essere gli uomini a sentirsi discriminati, visto che gli attuali vice sono entrambe donne: Anna Ascani e Debora Serracchiani. Un epilogo ormai scritto. Pena l' esplosione di un malumore complicato da gestire. «Una donna presidente del Pd mi pare il minimo - sbotta Marianna Madia - anzi dirò di più: sarebbe l' ora di finirla con i ruoli esecutivi affidati quasi sempre agli uomini, penso per esempio alle partecipate come pure al Pd. E' mai possibile che il centrodestra, che ha una leader come la Meloni, debba essere più avanti del centrosinistra?».
Finlandia, è la 34enne Sanna Marin la premier più giovane del mondo è figlia di due madri. Il Riformista il 9 Dicembre 2019. I socialdemocratici finlandesi hanno scelto Sanna Marin, attuale ministro dei Trasporti, come nuova leader del partito e futura premier del Paese al posto del dimissionario Antti Rinne. Con i suoi 34 anni, Martin, che si prevede sarà confermata premier in Parlamento in settimana, è destinata a diventare la premier più giovane del mondo, alla guida di una coalizione di cinque partiti, tutti guidati da donne.
Al suo fianco avrà le altre due personalità di spicco della coalizione di larghe intese: Li Andersson, 32 anni, leader della sinistra radicale, e Katri Kulmuni, 34 anni, numero uno del Centro. Se si sommano le età delle tre leader fanno giusto 100 anni. Marin ha spesso partecipato a gay pride, in compagnia della figlia Emma Amalia Marin, avuta con Markus Räikkönen. Marin ha dichiarato che essere figlia di una famiglia arcobaleno è una caratteristica fondamentale della sua personalità e della sua ideologia, motivo per il quale in passato è stata spesso impegnata in difesa dei diritti omosessuali. Sanna Marin sarà la più giovane capo dell’esecutivo nella storia del Paese nordico e il suo governo vedrà le donne in maggioranza. “Abbiamo un sacco di lavoro davanti a noi per restaurare la fiducia, ma sapremo essere il collante e il motore della coalizione”, ha detto Marin dopo aver vinto ieri sera lo scontro al vertice dell’Sdp per la candidatura contro il capogruppo parlamentare Antti Lindman. Rinne si è dimesso la scorsa settimana dopo che gli alleati di governo gli avevano ritirato la fiducia per il modo in cui aveva gestito lo sciopero dei dipendenti delle Poste. “Abbiamo molto lavoro da fare per ricostruire la fiducia”, ha detto Marin dopo essersi imposta, di misura, nella votazione all’interno del partito. E poi ha minimizzato la questione dell’età’: “non penso mai alla mia età o al mio genere, penso alle ragioni per le quali sono entrata in politica e per le quali abbiamo vinto il sostegno dell’elettorato”. I socialdemocratici sono stati il partito con il maggior numero di voti alle elezioni di aprile, e dallo scorso giugno Rinne guidava un governo di coalizione. La Finlandia al momento è presidente di turno della Ue.
Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 16 dicembre 2019. E nel frattempo, per uno di quei paradossi che rendono la post-politica misteriosa e sorprendente, Forza Italia, o quel che ne resta, è comunque diventato il partito non si dirà più femminista, ma certo quello in cui le donne hanno fatto più strada e più si danno da fare. Così si può leggere il protagonismo politico e istituzionale di Mariastella Gelmini e Anna Maria Bernini, saldamente alla guida dei gruppi parlamentari, e la scelta di Jole Santelli come candidata governatrice nella turbolenta Calabria; ma in questo senso va soprattutto l' ormai aperta dissidenza, se non l' eresia di Mara Carfagna che con la sua neonata frazione, "Voce libera", sia pure muovendosi a stop and go sembra procedere sul piano inclinato di una scissione, per forza di eventi connotata in rosa. Più in generale, e con il dovuto sconcerto, colpisce come l' interminabile dissoluzione del berlusconismo vada in scena all' insegna di una sempre più accentuata presenza di figure femminili al comando o ad esso aspiranti. Per cui se dentro Forza Italia sono donne a definire il perimetro della maggioranza e dell' opposizione interna, e se un' altra figura decisiva, Licia Ronzulli, detiene fin troppo gelosamente l' agenda del Cavaliere, sul piano famigliare e aziendale (Mondadori) le scelte decisive restano in mano a Marina Berlusconi; così come, per quanto riguarda il potere cortigiano, sia pure con l' andirivieni che caratterizza le peripezie dei vari cerchi magici da Palazzo Grazioli alle varie ville è da tempo che la neo-sardina Francesca Pascale si è fatta soggetto politico autonomo, per giunta orientata sul tema dei diritti di genere. Niente male come esito del più conclamato maschilismo della storia repubblicana! E forse non c'è nesso fra la crisi terminale e l' accentuata presenza di donne; o forse sì. Sta di fatto che la preponderanza rosa si è imposta senza particolari lamentazioni e rivendicazioni, come per caso o necessità di auto-trasformazione, o per arcano ribaltamento, nemesi o scherzo della storia, o vai a sapere. Ora, anche senza fare troppo gli schifiltosi, per la verità non paiono così rilevanti le ragioni politiche che in nome di una linea moderata, liberale, riformista, europeista, e via generizzando, spingono Carfagna e qualche altra anima in pena fuori dal centrodestra a trazione Salvini. Sono tempi aridi di idealità e progetti, e al momento è difficile appassionarsi all' eventuale, ma ancora negato ricongiungimento con Renzi. Magari c' entrerà qualche bega in Campania. E però: chi mai avrebbe immaginato dieci anni fa, al culmine del ciclo storico berlusconiano, che la fiaba della «ministra più bella del mondo» sarebbe proseguita con una specie di ribellione che bene o male - e come in nessun altro partito - mette in discussione il potere di un uomo, anzi di un presidente addirittura auto-proclamatosi per statuto «a vita»? Quando Carfagna - era il 2008 - fu imposta senza grandi esperienze alla guida delle Pari Opportunità (!) parve un gesto di arroganza così maschile che apriti cielo; e infatti la vita pubblica si popolò di fanta-intercettazioni, riandarono video di sconsolante frivolezza tele-pomeridiana, calendari osé vorrei ma non posso, a parte gli oltraggi in piazza e alcune trascurabili poesie satiriche di Camilleri. Sono cose vecchie, ma forse ricordarle oggi insegna qualcosa. Fu proprio un complimento un po' scemo di Berlusconi a Carfagna, nella serata dei Telegatti, a scatenare la prima lettera che Veronica scrisse a Repubblica . Si stava in realtà concimando il campo per la più spaventosa serie di scandali, non c' è dubbio; ma anche per il dispiegarsi di vicende che di riffa o di raffa avrebbero per la prima volta messo in causa il patriarcato, "il Sultanato" (titolo di un' opera di Vanni Sartori, massimo scienziato della politica), la satrapia o le allegre ingenuità di un maschio, ultimo capo onnipotente che fra galanterie e patologie, scuola quadri per veline, vampirismi minorenni, gare di burlesque, cene eleganti e bustarelle olgettine, ad un certo punto - se non ora quando? - riuscì a chiamare in piazza contro di sé migliaia di donne, dalle ragazzine alle nonne, dalle Femen alle monache. E ora? Ora boh. Ora sulle rovine stanno in piedi delle donne. Ora tutto è sempre possibile.
· Maschi e femmine sono diversi, non solo nel sesso, ma nel cervello.
Zeina Ayache per scienze.fanpage.it il 18 ottobre 2019. I ricercatori della Caltech hanno scoperto che esistono rare cellule cerebrali che sono uniche nei topi maschi e altre uniche invece nei topi femmine. Queste cellule specifiche in base al genere sono state trovate in una regione del cervello che governa sia l'aggressività che i comportamenti di accoppiamento. Vediamo insieme cosa significa e come gli esperti sono giunti a questa conclusione. Partiamo con il dire che esistono diverse tipologie di cellule all'interno del cervello, ad esempio ci sono i neuroni che trasmettono segnali e le cellule gliali che supportano le funzioni neurali, spiegano gli esperti. Per quanto tutte queste cellule contengano lo stesso insieme di geni o genoma, i tipi di cellule differiscono nel modo in cui esprimono quegli stessi geni. Per capirci, immaginiamo il genoma come un pianoforte a 88 tasti. Ogni cellula non utilizza tutti gli 88 tasti. Pertanto, il sottoinsieme di chiavi che "riproduce" la cellula determina il tipo di cellula stesso. Analizzando il comportamento dei neuroni nei cervelli dei topi maschi e dei topi femmine, gli esperti hanno osservato che la loro stimolazione è in grado di indurre gli animali ad essere più aggressivi, anche in assenza di minacce. Diversamente, una debole stimolazione induce i topi ad accoppiarsi. Tutto ciò avviene nell’ipotalamo, un’area fondamentale del nostro cervello. Nello specifico, gli esperti con il loro studio sono riusciti ad identificare 17 diverse tipologie di cellule del cervello, alcune delle quali sono più abbondanti nei maschi, mentre altre lo sono nelle femmine. Già si sapeva che l’espressione delle cellule era differente tra maschi e femmine, ma per la prima volta gli esperti sono riusciti a scoprire che esistono proprio cellule specifiche in base al genere nel cervello dei mammiferi. Lo studio, intitolato “Multimodal Analysis of Cell Types in a Hypothalamic Node Controlling Social Behavior”, è stato pubblicato su Cell.
Francesco Rigatelli per “la Stampa” il 29 ottobre 2019. Per anni direttore di Neurochirurgia al Gemelli e ordinario alla Cattolica di Roma, Giulio Maira, 75 anni, è «senior consultant» all' Humanitas di Milano e autore del libro «Il cervello è più grande del cielo» (Solferino), quasi un romanzo sull' organo più importante e misterioso.
Professore, lei dubita che l' Intelligenza Artificiale possa replicare la coscienza?
«Sì, le ricerche in atto possono far pensare che il cervello sia replicabile, ma in realtà le nuove tecnologie raggiungono obiettivi di calcolo importanti e tuttavia specifici. Altra cosa sarebbe riprodurre una mente completa, dotata di coscienza. E' la sfida di molti scienziati, che si domandano come mai non sia possibile, visto che, in fondo, il nostro cervello è fatto di materia proveniente dal pulviscolo di stelle successivo al Big Bang. Solo che ci sono voluti milioni di anni per diventare ciò che siamo. Certo che, anche senza la coscienza, il fatto che una macchina, nel 2045, possa raggiungere la capacità di calcolo di tutta l' umanità pone grandi interrogativi etici».
Questa coscienza così irreplicabile che cos' è?
«Un insieme di consapevolezza, giudizio, senso morale, creatività ed empatia: tutte capacità difficili da trasformare in algoritmi. Le macchine possono simulare queste facoltà, ma la loro creazione autentica resta improbabile. Certo, si rischia di arrivarci vicino e, dunque, l' importante è che l' Intelligenza Artificiale sia utilizzata per migliorare la vita umana e non per portare al comando il computer. Non a caso l' Ue ha posto delle regole sul suo sviluppo».
E l' intelligenza cos' è invece?
«Se la coscienza è la mente che riflette su se stessa, l' intelligenza può essere considerata la mente operativa, il frutto del ragionamento».
Si può dire, dunque, che è più importante essere coscienti che intelligenti?
«Naturalmente, anche perché l' intelligenza non esisterebbe senza la coscienza. E' importante pure la creatività, forse la caratteristica più umana assieme alla memoria. Gli animali, infatti, si muovono soprattutto secondo logiche di sopravvivenza, mentre gli uomini decidono in base a una serie più vasta di motivazioni e emozioni».
Nella vita si può diventare più coscienti o intelligenti?
«Fin da bambini la mente è dedicata a imparare dal mondo. Una capacità che si attenua con gli anni, ma non finisce mai. Le reti neurali sono in continua espansione, soprattutto se coltivate leggendo, dialogando, imparando materie e lingue nuove e anche facendo sport. Il cervello lavora pure di notte, quando nel sonno resetta la memoria e seleziona quella a lungo termine».
E la differenza tra mente femminile e maschile? Cosa ha capito in tanti anni?
«Il cervello femminile è un mondo meraviglioso e, a mio parere, più vivace di quello maschile, ma esistono differenze tra i due che non vanno negate. E' vero che hanno in comune il 99% dei geni, ma quell' 1% è fondamentale, perché, per esempio, tra il cervello di Einstein e quello della scimmia c' era solo l' 1,2% di differenza. Il cervello femminile ha un po' meno neuroni, ma più connessioni: tendenzialmente, dunque, la razionalità è maggiormente maschile e la creatività più femminile. La donna, invece, ha più neuroni nell' area del linguaggio e dispone di un ippocampo, l' area che contiene i ricordi, più grande. Inoltre l' amigdala femminile, che gestisce emozioni e paure, è collegata più a funzioni verbali, mentre quella maschile all' attività fisica: questo ha una spiegazione evoluzionistica, perché l' uomo cacciava e lottava e la donna cresceva e rassicurava la prole».
Uno schema ancestrale può arrivare fino a oggi?
«I nostri geni non si modificano da milioni di anni, al massimo si sono sviluppati altri centri del cervello, ma va chiarito che un meccanismo biologico di base non giustifica, oggi, comportamenti sociali sbagliati. L' uomo contemporaneo è pienamente in grado di superare con la razionalità e la cultura l' istinto elementare, che pure esiste nelle reazioni ad ansie e paure. Ecco perché persone con minori strumenti culturali possono essere più esposte a simili stimoli».
Quali sono i misteri ancora da risolvere sul cervello?
«E' l' unico organo che non ha solo funzione meccanica, ma parti delicatissime vicine alla coscienza, come il talamo o il tronco dell' encefalo. A stupire di più è che ogni notte questa coscienza praticamente scompaia e si risvegli al mattino, rigenerata. Come nasca e quale rapporto abbia con la materia del cervello resta un mistero.
Altro punto interrogativo è come sia davvero la realtà fuori di noi: tutto il mondo infatti, come diceva Sherrington nell' Ottocento, potrebbe essere un telaio incantato, immaginato dalla mente nella sua scatola buia grazie agli impulsi elettrici che le arrivano dai sensi. Infine, l'Intelligenza Artificiale e l'utilizzo di chip aprono grandi interrogativi etici».
Di quali si tratta?
«Della prima abbiamo parlato e dei secondi bisogna sapere che ne esistono già di sperimentali per trasferire l' attività mentale o i ricordi su computer. Usati in modo sbagliato potrebbero eliminare la memoria e condizionare gli individui».
· Burrneshe: le donne uomini dell'Albania.
Burrneshe: le donne uomini dell'Albania. La tradizione delle burrneshe, o vergini giurate, è vecchia di sei secoli, ma ancora viva nelle valli albanesi. Si tratta di donne nate in una famiglia senza progenie maschile e che, da adolescenti, rinunciano per scelta o per obbligo al matrimonio e alla maternità e conducono una vita da uomini. Acquisendone onori e oneri, libertà e diritti che in quei luoghi alle donne sono spesso negati.
Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Una burrnesh (plurale burrneshe), detta anche vergine giurata, è una donna di un paese balcanico, in genere l'Albania oppure il Kosovo, che si veste come un uomo e viene considerata come tale nella società. Tra i suoi privilegi, si ricorda quello di fumare e consumare alcolici. La figura della burrnesh è riconosciuta dal diritto tradizionale di quei luoghi, il Kanun. In sostanza il Kanun riconosce alle donne che scelgono lo stato di burrnesh di acquisire i doveri e buona parte dei diritti giuridici che tradizionalmente, nelle società patriarcali, vengono attribuiti alle figure maschili. Nella società albanese di un tempo, una donna non aveva il diritto di vivere da sola. Per farlo lo stesso, aveva in alcuni casi la possibilità di modificare il proprio status davanti alla gente del paese, sottoponendosi ad una cerimonia in presenza degli uomini più influenti del villaggio (in genere 12 uomini anziani). Durante la cerimonia, era prevista una vestizione ed il taglio di capelli. La ragazza doveva fare voto di castità. Si presuppone che in genere che la scelta di diventare burrnesh fosse dettata da necessità familiari legate alla scomparsa di un capofamiglia. In mancanza di un erede maschio la necessità di non disperdere il patrimonio poteva portare alcune donne ad assumere su di sè la responsabilità del ruolo maschile proprio attraverso il giuramento di conversione, ma le ragioni per un cambio del genere potevano essere molteplici:
mancanza di figli maschi in famiglia;
morte di componenti maschi in famiglia;
rifiuto di un matrimonio da parte della ragazza;
lesbismo non dichiarato.
Attualmente nelle aree interessate si contano pochi casi di burrneshe esistenti, ma in passato il fenomeno era più diffuso. La tradizione risale a circa sei secoli fa: è in fase di ritiro ed è oramai completamente estinta in Serbia. Anche se non è più praticata nei paesi di lingua albanese, vivono in quella zona ancora parecchie burrneshe anziane. La figura della burrnesh viene talvolta citata come esempio, nelle controversie sugli studi di genere, della differenza tra sesso e genere: infatti, pur restando geneticamente donna, viene di fatto attribuita al genere maschile. Una burrnesh è la protagonista del film Vergine giurata di Laura Bispuri, tratto dal romanzo omonimo di Elvira Dones.
“Diresti mai che sono donna?” Lali, l’ultima vergine giurata. Marco Negri , Marianna Di Piazza , Roberto Di Matteo su it.insideover.com il 2 febbraio 2019. (Durazzo, Albania) Accende una sigaretta davanti al suo bicchiere pieno di Rakia. Poi inizia a raccontare. “È accaduto tutto in modo naturale. Sono andata da mio padre e gli ho detto: ‘Voglio tagliarmi i capelli, da ora in poi non li lascerò più crescere’. Così ho fatto il mio giuramento e da quel momento sono una burrnesha“. Diana Rakipi aveva 17 anni quando ha deciso di cambiare per sempre la sua vita e diventare Lali. È bastato un colpo di forbici ai lunghi capelli scuri e la promessa fatta alla famiglia: niente matrimonio né figli. Diana sarebbe diventata l’uomo di casa. “Fin da quando ero piccola mi vestivo come un ragazzo e giocavo solo con i maschi. Era una cosa naturale per me”.
Essere burrnesha. Pensa, agisce e si veste come un uomo. E come tale è riconosciuto dalla società in cui vive. Può bere, fumare, usare armi e prendere decisioni. La burrnesha (dalla parola burr- uomo, declinata al femminile) è una donna solo sui documenti di identità. “Guardami – ordina Lali dopo aver posato la Rakia – diresti mai che sono una femmina?”. Voce profonda, viso segnato dal tempo e basco militare sempre in testa, Lali è una delle ultime burrneshe rimaste in Albania. Nelle zone montuose nel Nord del Paese, al confine con Kosovo e Montenegro, molti aspetti della vita quotidiana sono ancora oggi regolati da vecchi rituali e da un antico codice medievale, il Kanun di Lekë Dukagjini. Secondo le prescrizioni del codice, il ruolo della donna è strettamente circoscritto.”Le Montagne Maledette. Qui, lo dicono le antiche leggi, la donna è solo l’ombra dell’uomo, il contenitore del suo seme, un otre fatto per sopportare. Ma la donna può anche sparare col fucile, bere grappa ed essere trattata da pari a pari: basta che diventi uomo”, si legge in Vergine giurata della scrittrice albanese Elvira Dones. Così, per godere dell’indipendenza e delle libertà concesse agli uomini, molte giovani in passato hanno fatto voto di castità e rinunciato alla propria identità femminile. E dal “giuramento di conversione”, spesso fatto davanti ai capi del villaggio, non si poteva più tornare indietro. “Ogni burrnesha ha una storia diversa – racconta Lali -. Se in una famiglia ci sono solo figlie, alla morte del padre, una di loro dovrà prendere il suo posto. Ma c’è anche chi ha scelto di essere una vergine giurata per scappare da un matrimonio combinato. Io invece ho perso mio fratello e, senza accorgermene, sono diventato quello che sono”.
L’ultima burrnesha. Lali fischietta mentre guarda il mare di Durazzo in tempesta. “Ho fatto questa scelta per essere libero“, ammette. E i ricordi tornano subito alla sua infanzia. Nata al nord, nella cittadina di Tropoja, all’età di 8 anni Diana si è trasferita con la sua famiglia nella cittadina sulla costa albanese. Lì, poco più che adolescente ha fatto il suo giuramento. “Giocavo a calcio e indossavo i pantaloncini come un ragazzo, ma avevo i capelli lunghi. Tutti mi chiedevano se fossi maschio o femmina così ho deciso di tagliare la mia chioma ondulata e non mettere più in imbarazzo mio padre. Poco prima era pure morto mio fratello. Diventare burrnesha è stato naturale“. “Essere una burrnesha significa essere una ‘donna forte’ per via del giuramento a cui teniamo fede – afferma fiero Lali -. Siamo donne di natura, ma il nostro senso del dovere è superiore a quello degli uomini. Le donne normali invece non possono essere delle burrneshe: sono sposate e hanno figli”. Ora che Lali non lavora più, trascorre le giornate in compagnia degli amici. Si ritrovano al bar a fumare, bere Rakia e giocare a carte. “Quando cammino per la città mi chiamano ‘signore’. Perché dovrei contraddirli?”, ci domanda. Carattere duro e aggressivo, a prima vista Lali può intimidire chi si avvicina. Ma dietro ai suoi modi di fare un po’ burberi, si cela un grande amore per la sua famiglia e rispetto per il prossimo, come vuole la tradizione albanese. Diventare burrnesha significava diventare un uomo a tutti gli effetti e questo comportava grandi rinunce. Niente matrimonio, nessun figlio o rapporto sessuale. “Ho due sorelle più piccole alle quali sono molto legato – racconta Lali -. Hanno sempre rispettato la mia decisione e io non ho mai sentito alcuna mancanza. Loro hanno dei figli che mi chiamano "zio" e per me è normale così”. Se infatti c’è chi si è pentito della scelta, Lali si dice “felice di quello che sono diventato. Ho mantenuto la promessa fatta da giovane a mio padre. Tornando indietro rifarei tutto, è nella mia natura”. “Quando mi guardo allo specchio, vedo me stesso – confessa -. Sarei potuta diventare un’attrice con i miei capelli lunghi, ma ho scelto un’altra strada. Sono un esempio per il popolo albanese e sento un grande vulcano dentro di me”.
Burrnesha oggi. Sono poche le vergini giurate rimaste oggi in Albania. Anche se il Kanun continua ad avere grande importanza nelle zone rurali del Paese, l’usanza è quasi del tutto scomparsa. “C’è qualche ragazza che al giorno d’oggi vuole diventare vergine giurata. Secondo me però il tempo delle burrneshe è finito: ora il Kanun non ha più tutto il valore che aveva all’epoca – spiega Lali -. Il mio consiglio alle giovani albanesi è di studiare e avere una buona educazione. Solo così si può diventare qualcuno senza soffrire come abbiamo fatto noi”.
· Non è un paese per Miss…Italia.
Miss Myanmar fa coming out: «Io lesbica in un Paese dove l'omosessualità è illegale». Pubblicato martedì, 10 dicembre 2019 da Corriere.it. La finale della 68esima edizione di Miss Universo che si è disputata nella notte tra l'8 e il 9 dicembre ad Atlanta sarà ricordata non solo per il trionfo di Zozibini Tunzi, prima sudafricana nera a vincere il concorso di bellezza, ma anche per la partecipazione di Swe Zin Htet. Pochi giorni prima della finalissima, l'attuale Miss Myanmar ha svelato di essere lesbica, diventando la prima partecipante alla competizione apertamente gay. Da ora in poi la 21enne intende usare la sua fama per aiutare la comunità LGBTQ, specialmente nel suo Paese d'origine, dove essere omosessuali è ancora un crimine.
Da “la Repubblica” il 10 dicembre 2019. La sudafricana Zozibini Tunzi, 26 anni, capelli cortissimi afro e pelle nera, è stata incoronata Miss Universo 2019, la più votata tra le 90 ragazze in gara. Diritto delle donne all' autodeterminazione, orgoglio afro, cannoni di bellezza che devono cambiare sono stati i temi al centro della cerimonia di premiazione negli Stati Uniti, ad Atlanta. In 68 anni di concorso, è la prima volta che una regina di bellezza nera vince il titolo mondiale. Una giuria femminile di 7 componenti ha assegnato il secondo posto alla concorrente portoricana Madison Anderson e il terzo alla messicana Sofìa Aragòn. «Sono cresciuta in un mondo in cui una donna come me, con il mio tipo di pelle e di capelli non è mai stata considerata bella», ha detto la Tunzi nel suo ultimo discorso prima della chiusura del voto, novità di questa edizione. «Credo che sia giunta l' ora del cambiamento», ha insistito Miss Sudafrica tra applausi fragorosi, aggiungendo che «la cosa più importante che le ragazze devono imparare è la leadership, l' autodeterminazione. Non è che non vogliano farlo ma la società le ha etichettate. Eppure le donne sono gli esseri più potenti al mondo». In vista della sua partecipazione alle finali di Miss Universo, la giovane aveva lanciato un' iniziativa per sensibilizzare gli uomini a prendere posizioni contro i femminicidi.
Da Miss Mondo a Miss Universo, le vincitrici del 2019 sono nere. Pubblicato lunedì, 16 dicembre 2019 da Corriere.it. L'ultima reginetta di bellezza eletta nel 2019 è Miss Mondo. Il concorso di bellezza che si è svolto a Londra il 14 dicembre ha decretato più bella del mondo, posando la corona sulla testa della giamaicana Toni-Ann Singh, 23 anni, modella e psicologa laureata all'università statale della Florida. Dopo la vittoria Toni-Ann ha twittato: «A quella bambina di St. Thomas, in Giamaica e a tutte le ragazze di tutto il mondo dico: per favore, credi in te stessa. Sappi che sei degna e capace di realizzare i tuoi sogni. Questa corona non è mia ma tua. Hai uno scopo». Non è la prima volta che la vittoria va a una Miss della Giamaica — è già accaduto 1963, 1976 e 1993 —, ma per la prima volta sia Miss Usa, che Miss Teen Usa, Miss America, Miss Universo e Miss Mondo (appena eletta) sono tutte donne nere. Ecco le altre modelle con lo scettro e la fascia del 2019.
Da fanpage.it il 16 dicembre 2019. La giamaicana Toni-Ann Singh è stata incoronata Miss Mondo 2019 durante la manifestazione che si è tenuta sabato sera a Londra. La nuova Miss ha subito espresso la volontà di usare il proprio titolo per contribuire a un "cambiamento sostenibile" per ciò che riguarda la condizione di donne e bambini: "Voglio contribuire a un cambiamento che sia sostenibile, quindi, se si parla di donne, c'è bisogno che facciamo il possibile affinché i loro figli e i figli dei loro figli abbiano un differente valore di vita" ha detto la modella. Questo, insomma, è il pensiero che Miss Mondo ha espresso quando le è stato chiesto il valore della bellezza in un contesto, quello mondiale, che ha visto affermarsi con forza il #MeToo e la richiesta sempre più forte di pari diritti per le donne. Toni-Ann Singh ha 23 anni ed è nata a St. Thomas in Giamaica, è laureata in Psicologia e Studi di genere all'Università della Florida. "A quella bambina di St. Thomas, in Giamaica e alle ragazze di tutto il mondo dico: per favore, credi in te stessa. Per favore sappi che sei degna e capace di realizzare i tuoi sogni. Questa corona non è mia ma tua. Hai uno SCOPO" ha scritto la nuova Miss Mondo sui suoi social postando la foto che la vede incoronata. L'anno appena trascorso, Toni-Ann Singh lo ha passato in aspettativa, in attesa di iscriversi a Medicina: "Credo di rappresentare qualcosa di speciale, una generazione di donne che vuole portare avanti il cambiamento del mondo" ha spiegato in una giro di domande prima dell'incoronazione.
Il podio di Miss Mondo 2019. Abbracciando i genitori, poi, ha spiegato che la sua famiglia è la cosa più importante: "Va bene celebrare cose come la bellezza e attributi come l'esperienza di Miss Mondo, ma questo è molto meglio". Toni-Ann Singh – che è la quarta giamaicana a ottenere questo riconoscimento – ha ricevuto la corona direttamente dalle mani di Vanessa Ponce de Leon, la messicana che si aggiudicò il titolo nel 2018: al secondo e al terzo posto si sono classificate, rispettivamente, Miss Francia e Miss India.
Miss Mondo 2019, la gioia della reginetta che arriva seconda e abbraccia la rivale. Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 da Corriere.it. È inconfondibile, la gioia forzata di chi arriva secondo. È normale che si interpreti il suo abbraccio come un tentato soffocamento del vincitore, l'urlo di gioia come un grido di dolore. Quindi delle due l'una: o Miss Nigeria è una formidabile attrice, oppure è una «seconda scelta» davvero rara. Perché l'altra sera a Londra, nella serata della finalissima di Miss World 2019, quando hanno annunciato il nome di chi si era aggiudicato lo scettro, a guardare le reazioni delle finaliste sul palco sembrava avesse trionfato lei: Nyekachi Douglas, 21 anni, nigeriana, un metro e 84 di altezza per un buon 47 di piede, una modella che come Miss River State era arrivata direttamente dalle regioni paludose del Delta del Niger, con un vestito verde alla conquista del mondo. All'annuncio, Nyekachi Douglas ha spalancato la bocca immensa, e con una felicità che sembrava incontenibile ha abbracciato la rivale Toni-Ann Singh, Miss Giamaica, che la guardava attonita e piangente. Era lei la prima, lei Miss Giamaica aspirante medico, e non Miss Nigeria di professione modella che aveva visto sfumare all'ultimo metro l'occasione di una vita. I commentatori sui social e in tv, dagli Stati Uniti all'Africa, hanno passato al setaccio la felicità dimostrata dalla seconda. E nessuno ha trovato uno sbaffo di falsità, una traccia di delusione nel suo volto al settimo cielo. Su Twitter c'è chi ha trasformato l'immagine di Nyekachi vincente-sconfitta in una cartolina di buon anno: «Nel 2020 quando un vostro amico o un'amica comincerà una nuova attività o avrà successo per qualcosa che è anche la vostra passione, siate la sua Miss Nigeria». La Nigeria è un Paese di quasi 200 milioni di abitanti, il più popoloso dell'Africa, quello con il Pil più grande. Un mosaico di mille facce, ricchezze, contraddizioni: è il Paese delle ragazze di Chibok, le studentesse rapite da Boko Haram molte delle quali non sono ancora tornate a casa dopo quasi sei anni di prigionia. Ma è anche la terra dove è cresciuta Njideka Akunyili Crosby, straordinaria visual artist trentaseienne che oggi vive e lavora prevalentemente negli Stati Uniti. La sua opera forse più famosa è un quadro, una scena di ballo realizzata con pittura e collage: I refuse to be invisible è il titolo, che potrebbe essere anche il manifesto di quest'Africa orgogliosa e consapevole che esce dai confini e dai cliché. «Mi rifiuto di essere invisibile»: lo dice in fondo l'Africa della scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie, «femminista totale» che vive tra l'America e la natia Nigeria e che può permettersi di dire: «La mia casa è dove si trova la mia collezione di scarpe». Che siano cento o un paio, che siano polverose infradito perse in uno slum di Lagos o le numero 47 sul palco di Miss Mondo. Nere e visibili: c'è anche una sorellanza speciale, di genere e di pelle, nella nuova generazione delle Miss Top. Per la prima volta nella storia, le cinque corone di Miss Universo, Miss Mondo, Miss Usa, Miss Teen Usa e Miss America sono tutte sulle teste di donne nere. Miss Universo è una sudafricana, Miss Mondo è una nera giamaicana. E la sua numero due, Nyekachi Douglas, ha dato prova di come si possa vincere perdendo.
M.Lo. per “il Messaggero” il 14 dicembre 2019. La rivoluzione della bellezza. Le afro-americane per la prima volta con le fasce dei più importanti concorsi da miss. E usano la corona per parlare al mondo di violenza di genere, razzismo, diversità e stereotipi. Belle e impegnate, hanno rovesciato l'immagine e il linguaggio dei concorsi di bellezza. Gli scettri di Miss Usa, Miss Teen Usa, Miss America e ora anche Miss Universo sono andati a donne di colore ma anche in prima linea nelle battaglie contro le discriminazioni. La nuova Miss Universo, Zozibini Tunzi del Sud Africa, è un'attivista nella lotta contro la violenza di genere. Un'altra barriera è venuta giù. Non sono lontani i tempi in cui dai concorsi di bellezza non c'era spazio per le donne di colore. Fino a 50 anni fa la bellezza era solo bianca. Nel 1977 Janelle Commissiong fu la prima Miss Universo di colore. Nel 1983 Vanessa Williams fece storia con il titolo di Miss America, nel 1990 fu la volta di Carole Anne-Marie Gist con la corona di Miss Usa, mentre nel 1991 Janel Bishop fu la prima Miss Teen Usa afro-americana. Mai era successo però che nello stesso momento le reginette dei quattro concorsi di bellezza fossero tutte di colore. L'ultimo trionfo è quello della sudafricana Zozibini Tunzi, eletta l'altro giorno ad Atlanta, Georgia, dove si è tenuta la finalissima di Miss Universo. Modella e laurenda in pubbliche relazione all'Università di Cape Town, 26 anni, Zozibini ha sbaragliato le altre 89 concorrenti. «Questa notte si è aperta una porta», ha scritto su Instagram la prima Miss Universo del Sud Africa che conta 2,3 milioni di follower. «Ho avuto l'onore di essere la prima ad attraversarla. Mi auguro che ogni giovane possa credere nel potere dei sogni e vedere la sua faccia riflessa nella mia». Zozibini ripete sui social che la sua missione è quella di rompere gli stereotipi della bellezza. «Io credo nell'inclusione», aveva scritto lo scorso ottobre, indossanto la Buhle crown, realizzata da un brand di gioielleria. «Le donne hanno molte sfaccettature proprio come l'arcobaleno, non siamo unidimensionali. Siamo di tutte le forme, dimensioni e sfumature. Abbiamo in comune il fatto di essere potenti e di essere regine». Tunzi ha creato una piattaforma per la lotta alla violenza di genere. Ha dedicato la sua campagna sui social per combattere gli stereotipi di genere. Difende la bellezza naturale e incoraggia le donne ad amarsi così come sono. «La società per molto tempo ha identificato la bellezza con uno stereotipo di razza. Il bello è bianco. Ora, anche se lentamente, stiamo andando verso una nuova stagione in cui le donne come me, trovano un posto nella società e finalmente possono immaginare di essere considerate le più belle del mondo». Quale messaggio si dovrebbe trasmettere alle ragazze oggi? «La leadership. È una cosa che è mancata nelle giovani e nelle donne per molto tempo, perché è così che la società ha etichettato le donne. Le donne sono gli esseri più potenti al mondo e dovrebbero avere maggiori opportunità. La cosa più importante è farsi spazio nella società e cementarlo». Quest'anno anche la prima concorrente lesbica a Miss Universo, la 21enne Miss Myanmar Swe Zin Htet, che ha fatto coming out a pochi giorni dal concorso. Soprannominata Superman dai suoi fan, Htet ha raccontato che con la sua partecipazione sperava di aiutare a cambiare gli atteggiamenti anti-Lgbtq. Miss Irlanda Fionnghuala O'Reilly come professionista alla Nasa voleva combattere lo stereotipo secondo il quale «la scienza non è roba da donne».
Miss Italia, sinistra contro sovranisti. I consiglieri Rai grillini e piddini protestano, FdI è favorevole allo show. Laura Rio, Martedì 27/08/2019 su Il Giornale. In questo miscuglio di colori, in questa confusione politica dove non esistono quasi più confini, su una questione destra e sinistra continuano a dividersi nettamente: il corpo delle donne. Come cinquant'anni fa, femministe e anti femministe a darsi battaglia. E qual è il terreno di scontro più acceso? Miss Italia, ovviamente... la più nota esposizione di lato a e lato b. Da quando la Rai sovranista-grillina ha accettato di riportare a casa la sfilata di bellezze, si sono sprecate le polemiche. Ultimi a intervenire alcuni consiglieri Rai che, probabilmente rientrati dalla ferie, hanno deciso di scrivere le loro rimostranze all'ad Salini dopo molti giorni dall'annuncio ufficiale. La grillina Beatrice Coletti, la piddina Rita Borboni e Riccardo Laganà hanno protestato alcuni giorni fa per questa scelta che «ripropone un'operazione giustamente interrotta perché legata a stereotipi femminili vetusti». Si riferiscono alla decisione dell'allora presidente Rai Anna Maria Tarantola di cancellarla dal palinsesto, che decretò il passaggio su La7. I tre consiglieri, oltre a protestare perché la scelta non è stata sottoposta al Cda, collegano anche la manifestazione ai «numeri impressionanti di violenza sulle donne resi noti dal Censis perché in Italia le donne vengono valutate solo per il loro aspetto fisico dando credito alla possibilità che si possa trattare solo di un oggetto che si può buttar via». Le tesi del terzetto sono state riprese dalla senatrice Pd Valeria Valente, presidente della commissione femminicidio e dal combattivo deputato Michele Anzaldi. A breve giro di social, è arrivata la risposta da destra. Isabella Rauti, responsabile Pari opportunità di Fratelli d'Italia: «Bene ha fatto la Rai a riportare sulla tv di Stato Miss Italia. E risultano sterili le polemiche imbastite da una sinistra che pretende di avere il copyright sui diritti delle donne». «Che c'entra - si chiede la Rauti - la bellezza delle donne con la violenza?» Parla di «retorica neofemminista sessantottina» anche il deputato FdI Federico Mollicone. Patrizia Mirigliani, la patron del concorso alle polemiche da tempo non fa più caso: «Siamo criticati da quando siamo nati come concorso, ma non c'è niente che possa scalfire una nave che da 80 anni va regolarmente in porto». E le insinuazioni su una sua vicinanza alla Lega? «Non faccio politica. Il concorso si è fatto ed è andato in tv con ogni tipo di governo». In ogni caso, con una maggioranza rossa, la kermesse non sarebbe mai tornata su Raiuno, neppure per festeggiare gli 80 anni... Appuntamento, per la serata finale, il 6 settembre. In conduzione Alessandro Greco, uno che ha sposato una Miss. Nel frattempo destra e sinistra hanno un vero terreno di scontro su cui confrontarsi...
MISS ITALIA 2019, FINALE. Vincitrice e diretta: è la ripescata Carolina Stramare. Emanuele Ambrosio 07.09.2019 su Il Sussidiario. Finale Miss Italia 2019 su Rai 1: diretta del concorso di bellezza condotto da Alessandro Greco. Podio Carolina Stramare, Serena Petralia e Sevmi Fernando.
Miss Italia 2019 diretta finale. Le Miss storiche premiano Caterina Di Fuccia. Miss Eleganza è la numero 37, Miriam Melluso, nominata da Silvana Giacobini. Samanta Togni si occupa di Miss Sorriso, che per lei è Sevmi Tharuko Fernando (62). Miss Cinema risponde al nome di Cosmary Fasanelli (57), almeno secondo Caterina Murino. Simona Quadarella porta ad Alessandro Greco la busta più importante, quella più attesa. Simona sta conoscendo il successo grazie ai suoi risultati nel mondo dello sport. Come lei non si arrende di fronte agli insuccessi, così l’augurio è che nemmeno le Miss lo facciano. Vedi quello che è successo a Carolina Stramare, che è stata ripescata e poi ha vinto contro ogni aspettativa. Fuori le rivali Sevmi Tharuko Fernando e Serena Petralia. (agg. di Rossella Pastore)
Torna in gara Carolina Stramare. Chiara Bordi e Paola Torrente sono le protagoniste dello spazio finale di Miss Italia 2019. Una si è distinta per via della sua disabilità, l’altra per il suo essere curvy. E’ poi la volta di un’altra Miss, Giulia Salemi, a cui spetta il compito di annunciare Miss Social. “I social vanno utilizzati nella giusta maniera”, esordisce Giulia, “bisogna essere naturali. La mia è stata una crescita organica naturale, ci tengo a sottolineare questo”. La scelta della Salemi è ricaduta su “una ragazza che sa veicolare messaggi”: “Ho guardato il suo Instagram, questa ragazza sa scrivere, sa comunicare, ho letto una dedica che ha scritto a sua madre e stavo per mettermi a piangere”. La bella in questione è Miriam Melluso e a lei va la fascia di Miss Social. Quanto al titolo principale, le tre Miss in gara sono impegnate con le “domande scomode”. Al duo composto da Serena Petralia e Sevmi Tharuka si è aggiunta Carolina Stramare (03), tornata a competere grazie alla giuria del ripescaggio. (agg. di Rossella Pastore)
Polemica in giuria. Isolde Kostner è una delle sciatrici italiane più premiate della storia. Isolde porge a Greco una busta scottante, quella che contiene i nomi delle ultime 2 Miss a essere selezionate. Isolde ha parole incoraggianti per loro: “Nello sport ho avuto più delusioni che soddisfazioni. Quando lo racconto, nessuno mi crede. Come si superano? Ponendosi nuovi obiettivi dopo ogni gara. Gli obiettivi, da atleta, è facile trovarli, perché ci sono le gare, ma è facile anche per queste ragazze che sono giovani”. Serena Petralia (20) e Sevmi Tharuka (17) sono ufficialmente sul podio. Per le altre 78 ragazze c’è ancora speranza, ma il verdetto è affidato alla giuria del ripescaggio. Polemica tra Lorena Bianchetti e Caterina Balivo: “Basta con questa ipocrisia, Miss Italia la vince la più bella”, protesta la Balivo mentre Lorena parla di “portamento”. “Io ho fatto Miss Italia, non sapevo camminare, non sapevo fare niente. Ho imparato dopo”. (agg. di Rossella Pastore)
Monologo di Tosca D’Aquino. La giuria di Miss Italia 2019 è chiamata a ripescare una delle eliminate. Ognuna ha la sua preferita, per questo già litigano. In attesa di scoprire chi sceglieranno, si passa alla gara più importante. Sono solo dieci le Miss rimaste in gara, e ognuna di loro è chiamata a presentarsi. Greco annuncia la prossima prova: “Per i malpensanti, che credono che le Miss siano solo un involucro, abbiamo progettato una prova speciale con Sergio Assise”. Che in fin dei conti non è una vera e propria prova: le dieci finaliste sono chiamate a dire nome e titolo, niente di più. Ma anche ascoltare le loro presentazioni aiuta molto. Già solo il loro modo di porsi la dice lunga sulla loro attitudine a muoversi sul palco. Una che sicuramente sa farlo è Tosca D’Aquino, simpatica e riflessiva nel monologo sulla forza delle donne. (agg. di Rossella Pastore)
Il concorso che cambia la vita. Dopo un lungo stacco pubblicitario, Miss Italia 2019 riprende dai ringraziamenti. Il primo a essere citato è Valerio Zoggia, sindaco di Jesolo, insieme al presidente Invent Sante Bortoletto: “Grazie per la squisita ospitalità”, dice Greco, “grazie per la vostra compartecipazione”. La busta per la terza scrematura la porta Novella Calligaris, prima fra gli atleti italiani a vincere una medaglia olimpica nel nuoto e attualmente giornalista di Sky. Dopo aver raccontato la sua esperienza in vasca, Novella cede la busta al conduttore, ed ecco le Miss che accedono alle fasi finali. Tra loro, anche le superfavorite Giada Pezzaioli (17) e la Miss dalla pelle scura, Sevmi Tharuka (62). La parola passa alla Miss storica Roberta Capua: “E’ tutta un’attesa, tutta un’adrenalina e tutta una mancanza di consapevolezza. Il concorso ha cambiato per sempre la mia vita. In quel momento vivevo l’attimo, non mi rendevo conto”. (agg. di Rossella Pastore)
I consigli di Milly Carlucci. “Nella notte di Jesolo esplode la forza di Benji&Fede”. Alessandro Greco introduce così il duo pop più famoso d’Italia. Qualche problema tecnico fa tardare la loro esibizione. Si parla di pochi istanti, ma il conduttore è costretto a ripresentarli. Al momento musicale segue quello ginnico, e poi, in rapida successione, il momento ballo. Tra le Miss ancora in gara fa capolino Milly Carlucci, a cui le protagoniste fanno alcune domande. Ce n’è una in particolare, la numero 31, che le chiede come si diventa conduttrici. “Ci vuole quel qualcosa in più, ma in realtà è un insieme di tante cose”. Dalla professionista alla donna, con la domanda sulle molestie sessuali. “Ne ha mai subite, in questo mondo?”. Milly dice di no: “Sono stata fortunata”. (agg. di Rossella Pastore)
Le professioniste dello sport. Prima prova per le aspiranti Miss Italia 2019. Sulle note di Say a Little Prayer, le aspiranti reginette fanno il loro tradizionale ingresso in studio indossando gli abiti da sposa. Dopo la sfilata, Alessandro Greco si rivolge a Gina Lollobrigida: “Non c’era il televoto, quando tu partecipasti a Miss Italia”. E Gina racconta: “Sì, c’era la giuria. Io ero molto timida. Era la mia prima volta davanti a un grande pubblico, ero imbarazzata. Partecipai per poter fare per la prima volta un viaggio in macchina. Non avevo neanche il vestito adatto. Avevo fatto cucire apposta un costume coi pantaloncini”. Poi fa ridere tutti: “C’era una fisarmonica in palio e io speravo di vincerla”. Dopo l’attrice, tocca alle professioniste dello sport, o meglio a quelle del calcio. Anche Alice Sabatini, Miss Italia 2015, è una promessa del basket, e sul palco dimostra quello che sa fare. (agg. di Rossella Pastore)
L’assurda esperienza di Manila ed Eleonora. Miss Italia 2019 va avanti per la maggior parte delle candidate reginette. Si tratta di una prima scrematura, in attesa di quelle più consistenti che arriveranno più tardi. E non è nemmeno detta l’ultima parola: “Una di voi”, precisa Greco, “può tornare in gioco grazie alla scelta che farà la giuria del ripescaggio”. Il conduttore interpella subito le ex belle: “Siete d’accordo col televoto?”. Carlotta Maggiorana, Miss Italia 2018, prende subito la parola: “Sono tutte bellissime, ognuna ha una caratteristica che la differenzia”. Al suo commento segue quello di Manila Nazzaro, Miss Italia 1999: “Ma noi come abbiamo fatto a vincere?”, si chiede ironica Manila. Eleonora Pedron, che trionfò nel 2002, racconta: “Ero insieme a Manila nel 1999. Non vinsi. Mi presentai qualche anno più tardi e arrivai prima”. Stessa storia per Manila: “Nel 1996 ero con Denny, la vincitrice di quell’anno. Mi presentai nel 1999 e vinsi io”. Parola di nuovo ad Alessandro Greco, che incoraggia tutte: “A un certo punto ci sarà il ripescaggio, quindi ragazze non demordete”. (agg. di Rossella Pastore)
La “vecchia” Miss Italia. A bordo campo siedono le bellezze “storiche” di Miss Italia. Si va da Alice Rachele Arlanch, Miss Italia 2017, ad Anna Zamboni, Miss Italia 1969. Ed è proprio la Zamboni a prendere la parola: “Ai tempi era più facile atterrare sulla Luna che avere il coraggio di essere belle. Partecipare al programma era diverso da quello che può essere oggi. Per esempio, noi dormivamo con i nostri genitori, mentre loro adesso non possono neanche vederli”. Anna e le altre “ex belle” eleggeranno la Miss delle Miss, un titolo speciale introdotto in occasione dell’80esimo compleanno. Dopo di loro, fanno il loro ingresso in studio Caterina Balivo, Lorena Bianchetti, Eleonora Daniele, Giulia Salemi, tutte in qualità di componenti della giuria d’onore. (agg. di Rossella Pastore)
La favorita. Giada Pezzaioli è una delle ragazze favorite di Miss Italia 2019. Eletta da poco Miss Puglia, Giada potrebbe fare l’en plein conquistando anche la corona più ambita. La Pezzaioli non è nuova alle dinamiche del mondo dello spettacolo. A 25 anni, infatti, è già stata protagonista dei gossip per via della sua relazione con Giovanni Conversano. La bella Giada ha rubato il cuore dell’ex tronista di Uomini e Donne, che in passato è stato fidanzato anche con Serena Enardu. Giada è una delle 80 Miss che questa sera sfileranno a Jesolo. Solo una di loro conquisterà il titolo di più bella d’Italia, grazie al pubblico a casa a cui spetta il giudizio risolutivo. Sarà il televoto, infatti, a decretare la vincitrice. Miss Italia è stato il trampolino di lancio di star come Cristina Chiabotto, Anna Valle, Martina Colombari e Francesca Chillemi. Giada sarà una di quelle che “hanno avuto successo”? (agg. di Rossella Pastore)
Il sogno di Giada Pezzaioli. Tra le Miss in carica per la corona di Miss Italia 2019 c’è anche la già nota Giada Pezzaioli. Nonostante sia già un volto noto del mondo dello spettacolo e abbia già molte esperienze televisive, la 25enne ha deciso di mettersi alla prova in una sfida per nulla semplice. Al settimanale Diva e Donna ha però specificato le motivazioni di questa scelta: “Ora che ho realizzato il sogno di diventare mamma, sono felice di poter avere un’occasione nello spettacolo. Indossare la corona sarebbe un grande orgoglio e in futuro mi piacerebbe diventare conduttrice.” ha ammesso la Pezzaioli che al suo fianco in questa bellissima avventura ha il suo compagno e papà di suo figlio Enea: Giovanni Conversano. Che Giada possa arrivare fino alla fine di questo lungo percorso? (Aggiornamento di Anna Montesano)
Miss Italia 2019, Cristina Chiabotto non ci sarà. Tanti gli ospiti che calcheranno il palco della 70esima edizione di Miss Italia. Tra questi, però, non ci sarà chi questa ambita fascia l’ha vinta solo alcuni anni fa: stiamo parlando di Cristina Chiabotto che avrebbe dovuto essere in studio ma che invece non ci sarà. A svelarlo, in un post su Instagram, è proprio lei. “2004….tutto è cominciato da qui. – ha esordito la Chiabotto, postando anche uno scatto del momento in cui fu incoronata – Rivivo in ogni istante il sogno della mia vita. Purtroppo non riuscirò ad essere presente questa sera, ma il mio cuore batte al solo pensiero”. Tra i commenti dispiaciuti di alcuni fa, spunta anche quello di Tiziano Ferro che ricorda come, all’edizione 2004 di Miss Italia “io ero l’ospite musicale! (Aggiornamento di Anna Montesano)
Miss Italia 2019, il dress code delle ospiti. C’è grande attesa per la finale di Miss Italia 2019 che andrà in onda questa sera su Rai1. Alessandro Greco conduce la 70esima edizione della gara di bellezza italiana che, a quanto pare, avrebbe quest’anno imposto un particolare dress code alle ospiti. A svelarlo è Blogo che scrive “la produzione della kermesse avrebbe imposto – o fortemente suggerito, scegliete voi la definizione più corretta – il dress code alle ospiti. In particolare, l’invito sarebbe stato rivolto alle miss storiche che costituiranno una folta giuria chiamata ad eleggere la sua preferita fra le 80 concorrenti in gara.” Sarebbe dunque stato chiesto loro di non indossare abiti scollati e o con spacchi molto evidenti. Una richiesta particolare che potrebbe anche creare un po’ di discussione. (Aggiornamento di Anna Montesano)
Miss Italia 2019, Alessandro Greco alla conduzione. Padrone di casa di questa finale di Miss Italia 2019 è Alessandro Greco. Il conduttore ha detto sì al programma e alla conduzione di questa finalissima in corsa e dopo il no di Antonella Clerici (“avvisata troppo tardi per fare una cosa come piace a lei”) e questa sera si prepara a calcare l’importante palco di Rai1 oltre quello del concorso di bellezza che compie 80 anni. Quella di questa sera sarà una festa, non ha dubbi Greco che parla della proclamazione della vincitrice ma anche 80 anni di storia da raccontare e celebrare così come è da celebrare la bellezza che è cambiata dalle prime edizioni del concorso e lo stesso conduttore ha spiegato: “La bellezza italiana è cambiata […] è diventata meno ostentata, una bellezza più fiera, che tende a una autoaffermazione certamente esteriore ma che lasci trasparire il bagaglio bellissimo che la donna può esprimere…”. In base a questa sua dichiarazione, quale sarà la Miss Italia 2019 che incarnerà proprio il cambiamento di questi anni? (Hedda Hopper)
Miss Italia 2019, chi sarà la vincitrice della finale? Cresce l’attesa per la finalissima di Miss Italia 2019, il concorso di bellezza che quest’anno festeggia 80 anni. Un anniversario davvero speciale siglato dal ritorno in Rai dello storico concorso che andrà in onda venerdì 6 settembre 2019 su Rai1. A condurre il concorso Alessandro Greco con la complicità di Tosca D’Aquino. L’edizione numero 80 del concorso si preannuncia davvero rivoluzionaria con una serie di novità che riguardano proprio le fasi della gara. Alla finale arriveranno 80 ragazze, proprio come gli anni del concorso, ma a differenze delle altre edizioni quest’anno ci sarà un’inaspettata possibilità anche per le aspiranti Miss eliminate. Da 80, infatti, solo in 2 arriveranno alla fase finale a cui si aggiungere una terza aspirante vincitrice che sarà ripescata tra le 78 concorrenti eliminate. A decidere chi sarà la “miss eliminata” a rientrare in gioco sarà una giuria di qualità composto da solo donne: Elisa Isoardi, Caterina Balivo, Eleonora Daniele e Lorena Bianchetti e dalla madrine Gina Lollobrigida.
Miss Italia 2019, ospiti e novità: da Milly Carlucci a Peppino Di Capri. La finale di Miss Italia 2019 sarà una grande festa, non solo dedicata alla bellezza, ma anche alla musica e all’intrattenimento. Diversi gli ospiti che si alterneranno sul palcoscenico: a cominciare da Milly Carlucci, la regina del sabato sera di Raiuno, pronta a rispondere alle domande delle Miss, mentre ospiti musicali Fausto Leali, Peppino Di Capri e Benji e Fede. Un’altra novità del concorso numero 80 di Miss Italia è l’assenza di una giuria tecnica. La reginetta più bella d’Italia, infatti, non sarà votata da nessuna giuria, ma soltanto dagli italiani. Spetterà al pubblico da casa, tramite il televoto, votare la Miss 2019. Il concorso di Miss Italia non è tale senza una polemica.
Miss Italia 2019, la polemica: Sevmi Tharuka Fernando e le accuse degli haters. In queste ore, infatti, una aspirante Miss in corso è finita nel mirino degli haters per via del colore della pelle. Si tratta di Miss Veneto Sevmi Tharuka Fernando, che sui social è stata accusata semplicemente per le sue origini cingalesi. “Tu non rappresenti i canoni di bellezza italiana, non meriti di partecipare a Miss Italia” ha scritto un hater alla aspirante Miss numero 62, nata e cresciuta in Italia ma con origini dello Sri Lanka. Le critiche hanno fatto stare male la ragazza come ha raccontato a Fanpage: “Ho avuto un ripensamento sulla mia partecipazione quando mia mamma ha pianto per le critiche. Ma ora sono qui, non si torna indietro”. A starle vicino in questo delicato momento Denny Mendez, la prima Miss di colore: “mi è stata molto vicina. È stato incredibile, lei è la prima ragazza di carnagione scura a vincere Miss Italia ed è stato un grandissimo sostegno. Mi auguro che queste idee cambino, non si può andare avanti così in un Paese multietnico, troppe persone starebbero male”.
Chi sono le 80 finaliste di Miss Italia 2019?
Ecco i nomi e numeri delle finaliste del concorso di Miss Italia di quest’anno: N.1 ALESSANDRA BOASSI N.2 CHIARA SAVINO N.3 CAROLINA STRAMARE N.4 CECILIA BERNARDIS N.4 CECILIA BERNARDIS, N.5 JENNIFER PAVESI, N.6 ELISA CHECCHIN, N.7 MARIALAURA CACCIA, N.8 GIULIA LEONARDI, N.9 VIRGINIA AVANZOLINI N.10 CHIARA GORGERI, N.11 LEILA ROSSI, N.12 GIULIA CIARLANTINI, N.13 FRANCESCA PERSIANI, N.14 FLAVIA NATALINI, N.15 ANGELA ETIOPE, N.16 CHRISTINE FEGATILLI, N.17 GIADA PEZZAIOLI, N.18 ANNALISA ALFIERI, N.19 MARIA ZITO, N.20 SERENA PETRALIA, N.21 BENEDETTA CASCIANO, N.22 GIORGIA PIANTA, N.23 ALICE MOCENNI, N.24 SOFIA SILVANA PLESCIA, N.25 SUSANNA GIOVANARDI, N.26 GIULIA NORA, N.27 SIMONA VIOLA, N.28 LETIZIA SANTULLO, N.29 ILARIA DEL VESCOVO N.30 ILARIA PETRUCCELLI, N.31 MARIA TERESA CORSO, N.32 MARIANNA MONTAGNINO, N.33 SOFIA RACCANELLO, N.34 SABRINA BALDI, N.35 LINDA VOLPI, N.36 ERICA FILOSA, N.37 MYRIAM MELLUSO, N.38 MARIKA SETTE, N.39 MARTINA PAGANI, N.40 IZABELA LAMALLARI, N.41 JENNY STRADIOTTO, N.42 FRANCESCA LICINI, N.43 GAIA FOGLINI, N.44 CHIARA FILIPPI, N.45 FLORIANA RUSSO, N.46 GAIA MARINI, N.47 CLER BOSCO, N.48 MATILDE CECCHI, N.49 ALESSIA DEL REGNO, N.50 LAURA TORTORICI, N.51 VALENTINA MURA, N.52 IRYNA NICOLI, N.53 ALESSIA ORLANDI, N.54 ANGELICA CAMPANELLA, N.55 MARIA GABRIELLI, N.56 LUCILLA NORI, N.57 COSMARY FASANELLI, N.58 IDA BILANCIA, N.59 ANGELA SETTE, N.60 JESSICA GENOVA, N.61 MARIAGRAZIA DONADONI, N.62 SEVMI THARUKA FERNANDO, N.63 GIORGIA VITALI, N.64 FRANCESCA TRAMICE, N.65 CATERINA DI FUCCIA, N.66 MARIA CAMPANIELLO, N.67 ANTONIETTA MOLLICA, N.68 GIULIA VITALITI, N.69 ERICA CESTE, N.70 ALESSIA PASQUALON, N.71 ELEONORA MEZZANOTTE, N.72 GIULIA D’ORLANDO, N.73 ALESSIA LAMBERTI, N.74 CATERINA MARTELLI, N.75 EMILY BOLOGNESI, N.76 TERESA ANNA FUSCO, N.77 VALENTINA PESARESI, N.78 FEDERICA FONISTO, N.79 GRETA BIANCHI, N.80 LUCREZIA TERENZI
Miss Italia 2019: chi è Carolina Stramare, la vincitrice. La ventenne lombarda, eletta con il 36% delle preferenze, era stata eliminata e poi ripescata dalla giuria. Tutto sulla finale di Miss Italia, condotta da Alessandro Greco. Panorama il 7 settembre 2019. Segni particolari: bellissima. È Carolina Stramare, 20 anni di Vigevano, la vincitrice di Miss Italia 2019. La giovane lombarda è stata eletta durante la finalissima dell’edizione numero ottanta del concorso - andata in onda venerdì 6 settembre - passando da ripescata di lusso (per merito della giuria) a prima Miss Italia eletta esclusivamente grazie al televoto. Ecco il meglio e il peggio della serata condotta da Alessandro Greco.
Miss Italia 2019, ha vinto Carolina Stramare. Eliminata quasi subito e ripescata grazie alla "giuria di qualità" - formata da Eleonora Daniele, Caterina Balivo, Giulia Salemi (scelta in extremis dopo il forfait di Elisa Isoardi) e dalla madrina della serata, Gina Lollobrigida - Carolina Stramare, che era arrivata alla finale con la fascia di Miss Lombardia, è stata poi eletta dal pubblico con il 36% delle preferenze. Come lei, anche Miriam Leone nel 2008 era stata ripescata dalle compagne e poi aveva vinto Miss Italia. Nata a Genova il 27 gennaio 1999, Carolina è alta 1,79, ha occhi verdi e capelli castani, è diplomata al liceo linguistico, frequenta un corso di formazione grafica e progettistica all’Accademia di Belle Arti di Sanremo. Lavora come modella da crica tre anni e segue l'attività di famiglia: il nonno paterno, circa settant'anni fa, aprì un negozio d'arredamento in Liguria, gestito dal padre. La Stramare pratica equitazione a livello agonistico (salto ad ostacoli) dall’età di nove anni e nuoto. Fidanzata con Alessio Falsone, un calciatore con la passione per l’equitazione, ha dedicato la vittoria alla mamma, che ha perso un anno fa. "Per me oltre che una madre era un'amica vera e nonostante la sua assenza, la sento vicina. Sono fermamente convinta che la forza che mi accompagna ogni giorno da un anno a questa parte sia tutta merito suo", ha spiegato.
Il meglio e il peggio della finale di Miss Italia 2019. Cosa resta della finale di Miss Italia 2019? Senza dubbio la cofana cotonata di Gina Lollobrigida che "impalla", come si dice tecnicamente, il momento della proclamazione della vincitrice. Il che, diciamolo, fa parecchio ridere se non fosse che quello è il fotogramma più atteso della serata (quello che entra negli annali del concorso). Un po' è colpa della regia disattenta (e ingiustamente massacrata sui social), un po' sicuramente dell'ora tarda visto che Alessandro Greco ha congedato i telespettatori all'1.40 del mattino: soliti orari da sequestro di persona, insomma, che piacciono ormai solo ai tele-nottambuli e ai dirigenti di rete che così possono gongolore per lo share alto (più si allunga il brodo, più la percentuale sale).
Così, il ritorno di Miss Italia su Rai 1 dopo sei anni di assenza è stato visto da 2.679.000 telespettatori con il 19,6%, numeri sicuramente buoni ma non clamorosi, considerando la controprogrammazione praticamente assente. Sul resto della serata, che dire: dimenticabile. Al netto delle polemiche sullo "sfruttamento" della figura femminile, di cui si dibatte da decenni senza arrivare a una conclusione, resta che lo show Miss Italia appare ogni anno di più anacronistico e polveroso. Se poi si farcisce la finale con decine di ospiti - tra cui molte donne dalle storie sicuramente importanti ed emozionanti - si possono cogliere i buoni propositi degli autori ma la noia resta latente. Il carico da novanta ce lo mette l'eterno déjà vu, a cominciare dai "quadri" visti e stravisti - con balletti imbarazzanti stile televendite di Non è la Rai - e i momenti imbarazzati come le interviste delle finaliste ai personaggi famosi. “Vorrei chiedere a Milly Carlucci da quanto sta con suo marito e se l’ha mai tradito”, domanda una ragazza alla conduttrice, che risponde senza fare un plissé. Nel 2019, di grazia, ancora queste banalità? L'impressione complessiva sa di occasione mancata e del resto preparare uno show celebrativo per gli 80 anni del concorso in un mese e mezzo, era un'impresa titanica. Alessandro Greco ce la mette tutta per provare a dare ritmo - che siano big o mediani, la Rai dovrebbe trattare meglio i suoi artisti e Greco, bistrattato un anno fa con la chiusura ingiusta di Zero e Lode, poi richiamato in corsa all'ultimo minuto, merita più continuità lavorativa - ma anche lui pare travolto dagli eventi di una serata a tratti surreale. L'errore di base? Sforzarsi a tutti i costi di nobilitare una semplice gara tra bellezze spacciandola per un maxi casting attraverso cui scovare il talento delle ragazze. Se un talento ce l'hanno, avranno tutto il tempo di dimostrarlo, come hanno fatto in passato tante ex miss (vincitrici e non), da Roberta Capua a Caterina Balivo, da Caterina Murino a Miriam Leone. Tutto il resto è incomprensibile ipocrisia.
Miss Italia: vince Carolina Stramare. Eletta con il televoto, ha ottenuto il 36% di preferenze. Si è imposta su Sevmi Fernando e Serena Petralia. Nella giornata della finale arriva la critica dell'ex presidente della Camera Laura Boldrini: "La Rai vuole fare i concorsi per le ragazze? Bene, faccia quelli per regolarizzare il personale precario che lavora in azienda, altro che quelli di bellezza". Silvia Fumarola il 07 settembre 2019 su La Repubblica. Miss Italia 2019 è Carolina Stramare, eletta con il 36% delle preferenze, arrivata come Miss Lombardia. Vent'anni anni, occhi verdi felini, chioma castana era data come favorita. Nata a Genova, vive a Vigevano, ha perso la mamma a luglio dell'anno scorso, e dal palco ha ringraziato i nonni materni, seduti nel PalaInvent di Jesolo, che la applaudivano. La nuova reginetta di bellezza era stata esclusa nelle precedenti fasi di votazione, ma è stata ripescata dalla giuria delle 'Miss storiche', che poteva riportare in finale una concorrente. Poi ha deciso il televoto, il popolo sovrano, vero protagonista dell'ottantesima edizione del concorso di bellezza. Una maratona televisiva in diretta su Rai1 - era il ritorno in Rai, dopo sei anni su La7 - che si è chiusa all'una e mezza di notte. Dalle 80 finaliste si è passati a 40, quindi a 20, 10 e infine a due, Sevmi Tharuka Fernando (Miss Rocchetta Bellezza Veneto), al centro degli insulti razzisti, e Serena Petralia, Miss Sicilia, alle quali si è aggiunta con il ripescaggio Stramare.
Tre ventenni. La votazione definitiva del pubblico ha premiato lei, la bella miss Lombardia, che sfiora il metro e ottanta di altezza. Studia grafica all'Accademia di Belle Arti di Sanremo, lavora come modella, dice di avere un debole "per le persone dagli occhi buoni e sinceri". "Eravamo tutte e 80 bellissime, tutte con qualcosa di particolare. Ringrazio la giuria del ripescaggio", ha commentato. "Miss Italia è un'esperienza unica e la porterò sempre nel cuore. A chi dedico la vittoria? Alla mia mamma, che sicuramente ha sempre un occhio per me" . Carolina spera che il titolo sia un volano per la sua professione nella moda, anche se si è specializzata nel design, guardando a un possibile sbocco lavorativo nell'azienda di famiglia nel settore dell'arredamento. Ma non chiude a altre opportunità nella tv o nel mondo del cinema. Una curiosità: anche Miriam Leone, considerata una delle Miss Italia più belle di sempre, (oggi è una delle attrici più richieste), nel 2008, fu ripescata. "Nella vita mai dire mai" dice Carolina Stramare, che pratica equitazione a livello agonistico (salto ostacoli) da circa otto anni, ed è una vera sportiva: "Nuoto, è lo sport più completo per mantenersi in forma e quando le giornate lavorative mi appesantiscono un po' mi piace andare a correre per scaricare la tensione. Adoro gli animali, specialmente i cavalli, per questo, anche nei giorni in cui non ho lezione amo passare parte della mia giornata al maneggio, strigliare i cavalli e seguire i bambini più piccoli". Altra passione "i viaggi, che sono i regali migliori e i soldi spesi meglio. Amo passare il mio tempo libero con la famiglia, con le amiche e col mio fidanzato". Maratona televisiva infinita (che ha raccolto una media di 2 milioni e 700mila spettatori pari al 20% di share), Miss Italia è tornata in Rai e i social sono impazziti. Tra le miss "storiche", ospiti sul palco tipo commissione di esame, mancavano quelle che, a furor di popolo, sono considerate le più belle: Miriam Leone e Anna Valle. Madrina della serata Lina Lollobrigida, 92 anni, eroica, più tonica degli spettatori del palazzetto a cui Greco urlava in continuazione "Forza pubblico!" per sollecitare gli applausi. L'organizzatrice del concorso Patrizia Mirigliani difende Miss Italia fino alla fine, dicendo che "la bellezza è importante, è un'opportunità in più. Le donne hanno tante possibilità, il mondo nelle loro mani. Studiano, si laureano".
Tutto vero. Però in questo spettacolo extralarge, con battibecchi esilaranti (Caterina Balivo versus Lorena Bianchetti: "Qui si giudica la bellezza, e basta!"), le ragazze per la prova di portamento sfilano ancora in abito da sposa. Sui social c'è chi protesta e chi ironizza. Lo show è un patchwork. Greco il maratoneta ricorda il patron del concorso Enzo Mirigliani e di Fabrizio Frizzi, storico conduttore di Miss Italia. Seduta su una poltrona rossa, Carlotta Maggiorana, Miss Italia 2018, aspetta il momento in cui restituire la corona. Nella giornata della finale arriva la critica dell'ex presidente della Camera Laura Boldrini: "La Rai vuole fare i concorsi per le ragazze? Bene, faccia quelli per regolarizzare il personale precario che lavora in azienda, altro che quelli di bellezza". Gli autori mettono insieme campionesse delle sport, archeologhe, Eleonora Daniele incontra la mamma di Giordana di Stefano, uccisa dal compagno con quarantotto coltellate. L'aveva denunciato per stalking. Sul palco centinaia di scarpe rosse, simbolo della battaglia contro la violenza sulle donne. Poi la musica, Fausto Leali, Benji e Fede, Peppino di Capri, Tosca fa un monologo che purtroppo non fa ridere. Milly Carlucci, più atletica delle concorrenti, viene data in pasto alle domande delle ragazze. Un'intrepida chiede alla conduttrice se sia mai stata molestata, la risposta ovviamente è no. Greco dà lezioni di vita: "La donna deve mandare messaggi chiari agli uomini che ci provano". Ci vorrebbe Isabella Ragonese che nei panni della professoressa Isabetta Ragonelli, faceva il tutorial nel programma di Serena Dandini: "Si può fare/non si può fare". Un'altra miss domanda se il marito l'abbia mai tradita. La lady di ferro Carlucci ride: "Lo uccido".
CAROLINA STRAMARE ELETTA MISS ITALIA, 2^ LA SICILIANA SERENA PETRALIA. Il Tempo (ITALPRESS) il 7 Settembre 2019. Carolina Stramare è Miss Italia 2019. La ventenne di Vigevano (PV), è la vincitrice dell'edizione numero 80 del Concorso. E' stata eletta in diretta su Rai 1, nella trasmissione condotta da Alessandro Greco dal PalaInvent di Jesolo, con il 36% delle preferenze. In finale con il numero 3, Carolina e' nata a Genova il 27 gennaio 1999. Alta 1,79, occhi verdi e capelli castani, è diplomata al liceo linguistico, frequenta un corso di formazione grafica e progettistica all'Accademia di Belle Arti di Sanremo. Lavora come modella e pratica equitazione a livello agonistico. Carolina ha vinto 'in rimonta': eliminata in un primo momento dal televoto è stata poi ripescata dalla giuria presieduta da Gina Lollobrigida. Seconda classificata la siciliana Serena Petralia, 20 anni, da Taormina. Aveva conquistato il titolo di Miss Sicilia a Noto, ereditando la corona che nella scorsa edizione fu della messinese Elisabetta Lucchese. Terza la veneta di origini cingalesi Sevmi Fernando, in gara con il numero 62. Con Carolina Stramare, la Lombardia conquista il titolo per l'undicesima volta nella storia del Concorso. Ultima prima di lei Rosangela Bessi, che aveva conquistato la fascia 29 anni fa, nel 1990. Assieme alla Sicilia la Lombardia e' la Regione che ha collezionato il maggior numero di titoli. Seguono il Lazio con 10, il Veneto con 6, il Friuli e la Calabria con 5, il Piemonte, la Toscana e le Marche con 4, la Campania con 3, l'Emilia Romagna, la Liguria, la Sardegna e l'Umbria con 2, la Puglia e l'Abruzzo con una sola miss.
Miss Italia 2019, la vincitrice è Carolina Stramare. Pubblicato sabato, 07 settembre 2019 da Corriere.it. Miss Italia 2019 è Carolina Stramare, ventenne, già Miss Lombardia, modella, che forse adesso riuscirà a prendere il coraggio per leggere Mia madre è un fiume, il romanzo di Donatella Di Pietrantonio che le ha lasciato in eredità sua mamma Cristina, morendo l’anno scorso, con le sue note a margine. Occhi verdi, capelli castani, una taglia quaranta per 179 centimetri di altezza, è stata ripescata dalla giuria tecnica in chiusura di programma. Auguri! La trasmissione su Rai Uno era cominciato come doveva. Con l’omaggio del conduttore Alessandro Greco a due uomini che sono stati importanti per il concorso, come un papà e un fratello maggiore: lo storico patron Enzo Mirigliani e Fabrizio Frizzi, per tante volte conduttore della kermesse che ieri ha compiuto 80 anni davanti alla madrina Gina Lollobrigida, appena poco più grande (92 anni), splendente in giallo canarino. L’edizione che doveva essere più populista (era l’unica in cui la vincitrice doveva essere espressione esclusiva del televoto da casa) non ha perso la sua vocazione trasversale: raccontare come cambiano le ragazze italiane (la maggior parte delle partecipanti all’edizione 2019 è iscritta all’università, fa sport anche a livello agonistico, se non studia lavora, un paio sono mamme, una ha genitori cingalesi, un’altra ha la madre ucraina). Così come non ha smesso di essere bersaglio delle critiche. E hai voglia a essere forte, come raccomandò Enzo Mirigliani quando cedette il testimone a sua figlia Patrizia, la predestinata che lo accoglieva bambina con il tutù per mostrargli quanto fosse brava. «Sono voluta tornare in Rai, dopo una bellissima esperienza con La7 durata sei anni, perché sapevo che mio padre avrebbe voluto così per gli 80 anni. Alle polemiche siamo abituati». Forse non si aspettava gli attacchi delle donne, ultima la deputata eletta con Leu Laura Boldrini, che su Twitter ha scritto: «La Rai vuole fare i concorsi per le ragazze? Bene, faccia quelli per regolarizzare il personale precario che lavora in azienda, altro che quelli di bellezza». Come se tutti i mali della tivù pubblica dipendessero da una kermesse che occupa una sola serata nel palinsesto della rete ammiraglia e di cui l’azienda paga solo il conduttore, il regista (interno alla Rai) e un autore. Ma si sa, nel bene o nel male, purché se ne parli. E anche quest’anno il concorso è arrivato con i suoi record: un milione e 100 mila ragazze iscritte al concorso dal 1946 a oggi: diecimila solo nel 2019. Le Miss di adesso, ottanta, nascondevano altrettante storie. Quella delle gemelle omozigote messinesi Angela e Marika Sette, che qualche giorno fa hanno ottenuto un permesso speciale per andare a Milano a fare il test di accesso a Medicina: Angela vorrebbe diventare neurochirurga, Marika chirurga plastica. Questa è l’edizione di Maria Zito, 21 anni, di Montescaglioso (Matera), laurea triennale in Architettura urbanistica al Politecnico di Milano, un’adolescenza da dimenticare con occhiali, apparecchio ai denti, busto ortopedico e compagni allenati a tormentarla. C’è Sevmi Tharuka Fernando, italianissima di Villanova Camposampiero, nel Padovano, con fidanzato leghista, bersagliata dagli haters (i genitori hanno chiesto di votarla ai 111 mila della comunità cingalese). E c’è la tennista professionista Susanna Giovanardi, romana, che tra uno Slam e la corona di Miss ammette di preferire il primo. Unica vincitrice certa, prima ancora che si chiudesse il televoto, era una: Teresa Bellanova, neoministra delle Politiche agricole, bella come ogni donna capace e preparata, che sta bene qualsiasi cosa indossi.
ANSA il 7 settembre 2019. La lombarda Carolina Stramare, 20 anni, in gara con il numero 3, è la vincitrice del concorso Miss Italia 2019. Nella finale di Jesolo, trasmessa in diretta da Rai 1, Stamare, di Vigevano (Pavia), si è imposta su su Serena Petralia, 20 anni, siciliana di Taormina, e Sevmi Fernando, 20 anni, di Padova, che con lei costituivano la terza finalista. Carolina Stramare era in gara con la fascia di Miss Lombardia. La nuova reginetta della bellezza era stata esclusa nelle precedenti fasi di votazione, ma è stata ripescata dalla giuria delle 'Miss storiche', che poteva riportare in finale solo una concorrente. È questa la prima volta che Miss Italia, giunta alla 80/a edizione, ha visto la scelta della vincitrice esclusivamente con il televoto. Le fasi di votazione sono state 4: dalle 80 finaliste si è passati a 40, quindi 20, 10 e infine due, Sevmi Fernando e Serena Petralia, alle quali si è quindi aggiunta con il ripescaggio Stramare. La votazione definitiva del pubblico ha premiato la miss lombarda. Miss Italia 2019 ha occhi verdi e capelli castani, porta la misura 40 e ha il 41 di scarpe. E' nata il 27 gennaio 1999, a Genova. Diploma di liceo linguistico, iscritta attualmente ad un un corso di formazione di grafica e progettistica all'Accademia delle Belle Arti di Sanremo, lavora da circa tre anni come modella.
Giuseppe Candela per Il Fatto Quotidiano il 7 settembre 2019. Habemus Miss Italia 2019: Carolina Stramare. Lo storico concorso, tornato su Rai1 dopo sei anni per celebrare i suoi 80 anni, ha scelto la nuova reginetta di bellezza. Una ragazza di 20 anni, nata a Genova ma vive a Vigevano, 179 centimetri di altezza, con i suoi occhi verdi e capelli castani ha conquistato pubblico e giuria. La concorrente numero 3 è stata incoronata dalla madrina della serata Gina Lollobrigida, era stata inizialmente eliminata e poi ripescata dalla giuria. La Stramare, che succede a Carlotta Maggiorana, è diplomata al liceo linguistico e frequenta un corso di formazione grafica e progettistica all’Accademia di Belle Arti di Sanremo, lavora anche come modella e pratica equitazione a livello agonistico. La ragazza ha superato in finale la numero 20 Serena Petralia, proveniente da Taormina, e la miss numero 62 Sevmi Tharuka Fernardo. Quest’ultima, nata a Padova da genitori originari dello Sri Lanka, si è classificata al terzo posto e nei giorni scorsi era finita al centro della scena per gli insulti razzisti ricevuti sui social network. Il concorso nelle scorse settimane è stato preceduto da numerose polemiche da parte dei consiglieri del Cda, poche ora prima dell’evento l’ex presidente della Camera Laura Boldrini ha nuovamente tuonato contro Miss Italia: “La Rai vuole fare i concorsi per le ragazze? Bene, faccia quelli per regolarizzare il personale precario che lavora in azienda, altro che quelli di bellezza”. Un concorso che fatica ad avere un senso, dal punto di vista televisivo, nel 2019: superato a desta e sinistra da veline e wanna be fashion blogger. E’ più probabile ottenere una forma di visibilità e una occasione televisiva con qualche migliaia di follower su Instagram che non dopo un passaggio en passant in tv, seppur su Rai1. Miss Italia trasmesso sulla prima rete del servizio pubblico “one shot” a inizio settembre non sembra un dramma televisivo, le chiavi di lettura in questo caso superano però i confini del piccolo schermo. Il tempo a disposizione, poco più di un mese, non ha reso l’impresa semplice. La scenografia si mostra imponente, l’orchestra fa la sua figura ma è la regia a indebolire la resa mostrandosi traballante e fuori tempo, capace di mancare momenti clou della serata in maniera sorprendente. La serata, a tratti piacevole, alla lunga ha evidenziato i suoi limiti, ha aggiunto troppi ospiti slegandoli dal racconto, allungando la durata e proclamando la vincitrice addirittura all’una e quaranta minuti. Una celebrazione, quella degli 80 anni dell’evento, che avrebbe meritato un racconto migliore, magari con l’aiuto delle teche e il ricordo dei momenti cult. Provare a inserire tutto in una sola serata, senza una attenta selezione, ha favorito un minestrone dal sapore amaro. La serata è stata comunque vista da 2.679.000 telespettatori con il 19,6%. Ascolti positivi per l’evento con lo share favorito dalla chiusura a notte fonda. Lo scorso anno, quando Miss Italia andava in onda su La7, aveva ottenuto 802.000 spettatori con il 5,77% di share. Dati non paragonabili trattandosi di reti differenti. Alessandro Greco è giunto alla conduzione in extremis dopo i rifiuti dei volti di punta di Rai1. Mostra sul campo ancora qualche residuo di troppo degli “anni 90”, una tendenza alle freddure eccessiva ma si tratta di un professionista che ha saputo gestire una serata non semplice. Difetti che potrebbe superare sul campo con un impegno più lungo. A Miss Italia una spalla comica o femminile in studio lo avrebbe aiutato a rifiatare: usare Tosca D’Aquino fuori campo non ha tolto, ma nemmeno aggiunto. In giuria Elisa Isoardi dà forfait e viene sostituta, senza una chiara ragione, dalla prezzemolina Giulia Salemi. La scelta di affidarsi al trio Bianchetti, Balivo, Daniele fa molto “squadra Rai”, un modo anche per lanciare i programmi in partenza nei prossimi giorni. Gina Lollobrigida, la sua storia, quello che rappresenta: nulla è stato valorizzato. Miss Italia ha l’alibi di averci provato e di averlo fatto con poco tempo a disposizione, per ora senza riuscirci. Adesso tutto dipenderà dalla Rai: Miss Italia continua o finisce qui?
Andrea Parrella per Fanpage.it il 7 settembre 2019. Anche la finale di Miss Italia 2019 ha avuto il suo battibecco. Nel torpore di una serata che non si è distinta per un particolare dinamismo, ci hanno pensato Lorena Bianchetti e Caterina Balivo a smuovere un po' le acque, in un momento in cui la serata sembrava inesorabilmente destinata a concludersi senza colpi di scena. Oggetto della disputa tra le due conduttrici, rispettivamente alla guida di "A sua immagine" e "Vieni da me", è stato un tema eterno che ha animato le discussioni all'interno e attorno a Miss Italia, vale a dire il dissidio tra la bellezza pura e l'importanza che le ragazze partecipanti al concorso posseggano anche qualità ulteriori rispetto al criterio estetico. Discorso che vede la sua rappresentazione massima nella boutade sul desiderio di pace nel mondo, caro vecchio adagio divenuto il motto dell'aspirante miss per antonomasia. A tirare in ballo la questione è Lorena Bianchetti, che prova ad esprimere un'idea lontana dalla centralità del mero dato estetico per la valutazione di una aspirante miss. "Miss Italia non la vincerà la più bella, non conta solo la bellezza," ha detto la conduttrice, trovando immediatamente opposizione da parte di Caterina Balivo, che di Miss Italia ne sa qualcosa avendo preso parte al concorso anni fa, e che respinge la tesi della Bianchetti, interrompendola e inalberandosi: "Basta con questa ipocrisia. Miss Italia lo vince la più bella. Non le abbiamo sentite parlare". La collega, che si percepisce attaccata, reagisce provando a spiegarsi e sottolineando come oltre ai lineamenti possano contare eleganza e portamento come criteri di rilievo, argomentazione che trova il favore dello stesso conduttore Alessandro Greco. Ma Caterina Balivo non ne vuole sapere: Quando fui io a partecipare a Miss Italia, vinse una ragazza che all'epoca era più bella di me. Il portamento e l'eleganza arrivano dopo. Finita la trasmissione tutti amici, oppure l'alterco sarà durato anche dietro le quinte?
Emiliana Costa per Leggo.it il 7 settembre 2019. Miss Italia, la domanda shock della miss a Milly Carlucci: «Tuo marito ti ha mai tradito?». La risposta spiazza tutti. Ieri sera è stata eletta Miss Italia 2019. Si tratta della bergamasca Carolina Stramare. Ma durante la serata c'è stato un momento di forte imbarazzo, nel corso dell'intervista da parte della miss in gara a Milly Carlucci. Dopo le prime sfilate delle concorrenti, alcune miss hanno avuto l'opportunità di intervistare la conduttrice di Rai1. Ma alcune domande l'avrebbero messa in forte imbarazzo. Se una miss le ha chiesto se avesse mai ricevuto «molestie sessuali sul lavoro» e Milly ha risposto di no «forse perché mi vedono molto severa», un'altra le ha posto la fatidica domanda sui tradimenti: «Suo marito l'ha mai tradita?». Gelo in studio. Milly Carlucci, incredula, ha replicato ironica: «Lui a me? No, lo uccido». Il momento di imbarazzo non è passato inosservato su Twitter. «Adesso capisco perché finora non avevano mai fatto parlare le miss», scrive ironico un utente. E ancora: «Ma puoi chiedere a Milly Carlucci se ha le corna?». Tra gli utenti, c'è anche chi ha criticato la risposta della conduttrice: «'Lo uccido?' Se lo avesse detto un uomo apriti cielo». E ancora: «Sono stata tradita tante volte e non l'ho mai pensato». Al momento la conduttrice non avrebbe replicato, ma la domanda imbarazzante della miss ha spiazzato davvero tutti.
Stefania Cigarini per Leggo il 12 settembre 2019. Quando sei una fan sfegatata di Eros Ramazzotti e ti arrivano i suoi complimenti sul tuo profilo privato, inaspettatamente. Capita, se sei Carolina Stramare, neo Miss Italia: «Non ci potevo credere, si è congratulato per il titolo».
E tu che hai fatto?
«Gli ho detto che ho persino una frase di Mamarà tatuata sulla caviglia destra: Voglio solo vederti sorridere, voglio solo vederti così. Era la preferita di mamma».
Eros come ha commentato?
«Non ci posso credere, mi ha detto, era contentissimo, mi ha invitato ad un suo concerto».
Un appuntamento?
«Nooo, sono fidanzata. Lo adoro come cantante, ma sarebbe un po’ troppo maturo per me».
Inizia così, con una carrambata e la sincerità che dichiara tutti i suoi vent’anni, la visita di Miss Italia a Leggo.
Partecipando ad un reality saresti diventata famosa più velocemente, ci hai pensato?
«Me ne hanno proposti diversi, ma non sentivo di poter gestire una situazione così, mostrarmi a 360 gradi, ero vulnerabile».
Titoli?
«Grande Fratello, Uomini e Donne, Temptations Island».
Ora ti senti più forte?
«Più decisa, consapevole. Ha contribuito il dolore per la morte di mamma, l’anno scorso, che mi ha fatto crescere».
Cosa vuol dire Miss Italia oggi?
«Una competizione che va molto oltre l’estetica. Si premiano personalità, competenze, basi già solide e indirizzate».
Le polemiche sulla tua vittoria?
«Il voto popolare fa piacere, ma è soggettivo; il parere della giuria interna è oggettivo, rispecchia i canoni del Concorso. E chi meglio di Gina Lollobrigida poteva saperlo».
Il ripescaggio?
«Porta bene, a Miriam Leone, Miss Italia 2008, è andata più o meno così. E sta facendo una gran carriera».
È un modello?
«Certo, ma anche Martina Colombari, che ho conosciuto, è bellissima, umile, elegante. Mi ha fatto i complimenti».
Altri riferimenti?
«Kasia Smutniak, l’attrice, è fine, elegante, posata. Anche lei completa».
Le critiche?
«Me ne faccio una ragione. In questo periodo cerco di leggere e di non immagazzinare. Tivù ne guardo poca. Faccio più attenzione ai social, è normale alla mia età».
Social?
«Tanto affetto e poche critiche, davvero. Più che altro alcuni mi hanno spiegato perché avrebbero preferito la loro Miss a me. Ma ci sta, si tratta di gusti personali».
Gelosa delle altre?
«No, sono la prima a notare una bella ragazza. A fare comunella».
Il fidanzato Alessio, otto mesi insieme.
«La mia seconda storia importante, è stato il mio primo supporter a Miss Italia, quasi un manager. Ed è paziente con i miei difetti».
Un esempio?
«Sotto pressione divento nervosetta, da un nonnulla faccio un tragedia».
Come cambierà la vostra vita ora?
«Vorrei che la sua non cambiasse molto, è impegnato nella ristorazione insieme alla famiglia e ora allena una squadra di calcio, è stato un giocatore professionista»
Quale squadra?
«...»
Non ricordi una cosa del genere?
«Non nei dettagli (ride), insomma so che è impegnato il martedì e il giovedì sera. Sto facendo una gaffe vero? È che dal 27 agosto sono stata impegnata con il Concorso, non posso ricordare tutto (ride)».
Tuo nonno ha dichiarato in una intervista che non hai “mai fatto marachelle". Non può essere vero.
«Ho avuto genitori attenti, però una volta ... »
Una volta?
«Ho tamponato un’auto in sella ad un motorino in centro a Vigevano, la mia città».
Non un granché.
«Sì, ma all’epoca non avevo la patente e il motorino l’avevo preso a prestito, per così dire, al mio fidanzato. Senza che lo sapesse. Un bel casino».
Come è finita?
«Diego, il mio ex fidanzato era, ed è, molto responsabile. Ha rimediato. Non ho quasi mai parlato di lui, ma è stata la mia prima storia importante, cinque anni. Anche una figura un po’ paterna, gli devo molto. Ci siamo sentiti per i complimenti».
Il tuo futuro?
«Vuoi che ti dica le solite frasi con le quali ce la caviamo noi miss? Tipo figli, famiglia?»
Dimmi quello che vuoi.
«Vivere il mio anno da Miss, con gli impegni e le sfide che comporta. Poi vorrei continuare a fare la modella. E tra vent’anni mi vedo accasata, con affetti radicati».
Il mestiere di modella.
«Ci sono molti preconcetti come vita spericolata, tabù alimentari. A me non è mai successo nulla del genere. Lavoro con marchi iper-professionali, mai avuto nulla da recriminare. È un mestiere che ha i suoi pro e i suoi contro come ogni professione. È stancante, ma mi piace moltissimo e spero di farlo a lungo».
#metoo, che idea ti sei fatta?
«È una questione di scelte, sei tu che costruisci il tuo futuro. Io non ho mai avuto problemi. È vero anche che possono esserci caratteri più fragili o vulnerabili. Comportamenti inappropriati in questo senso sono inaccettabili».
LA CURIOSITA' Carolina ha undici, tra i quali la rima di Mamarà di Ramazzotti (foto), il nome della mamma, la data di nascita del papà, il collare del cane, una farfalla, una rosa, la frase Amo te, una luna dietro l’orecchio, un serpente sulla nuca.
Massacrato di insulti il fidanzato di Miss Italia. Secondo i fan della reginetta di bellezza, Alessio Falsone non sarebbe all'altezza di una Miss e sui social lo ricoprono d’insulti. Lui, però, si difende davanti alle telecamere. Ludovica Marchese, Domenica 15/09/2019 su Il Giornale. Non c’è modo di scappare ai leoni da tastiera che, spesso guidati dall’invidia e dall’insoddisfazione, individuano ogni giorno un nuovo bersaglio. Ne è stato vittima anche il fidanzato di Miss Italia 2019, Carolina Stramare, che è stato letteralmente preso di mira dagli hater invidiosi della sua storia d’amore con la ragazza più bella d’Italia. Si tratta di Alessio Falsone, ha 27 anni, è di Milano e gioca a calcio come attaccante. Dai tratti mediterranei e con un fisico statuario, è indubbiamente un bel ragazzo. Tuttavia, in tantissimi, dopo aver visitato il profilo Instagram della Miss, hanno giudicato il giovane troppo brutto per stare con lei. I commenti sono scattati sotto un post in cui i due fidanzati si scattano un selfie insieme e la ragazza dedica ad Alessio un verso di Domenico Modugno: “Tu si ‘na cosa grande...”. “Ma perché ragazze così belle si accontentano di così poco?”, si è chiesto qualcuno, mentre altri le hanno addirittura consigliato di mollarlo. Infatti, la maggior parte dei follower Instagram di Carolina è convinto che la fama la porterà a lasciare il fidanzato e a trovarsi un compagno ben più ricco e famoso. E ancora: “Per me è più bella lei”, “Bocciato lui, promossa lei a 10 voti punto”, “Potresti avere tutti ai tuoi piedi: perché proprio lui?”, “Sei bellissima, mi dispiace dirlo ma Alessio non è alla tua altezza”. Al fianco di tanti insulti, però, ci sono altrettanti commenti di utenti che difendono Alessio Falsone, sottolineando come i due formano una bellissima coppia. Tra i commenti si legge: “Lui non assolutamente è brutto, la vostra è solo invidia! Viva l’amore!”, “Magari ci fossero dei brutti così in giro!”, “Se per voi lui è brutto io cosa dovrei fare?”, “Sono entrambi stupendi, ma perché la gente deve sempre criticare?” e “Non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace”. Sta di fatto che, durante la partecipazione a Storie Italiane, Alessio Falsone ha voluto replicare per le rime. “Davanti a questi insulti sorrido. È inutile dare importanza agli invidiosi o alle cattiverie delle persone che non conosco e che per me non hanno nessun valore. Poi se dovessi rispondere metterei in difficoltà lei, invece è il suo momento. Non ho paura che ora che è diventata Miss Italia possa lasciarmi. Io conosco bene Carolina e la sua parte più profonda, le sue debolezze, i suoi pregi. So chi sono, so quanto valgo, ho le spalle larghe e non sono così insicuro. Stare insieme a lei non era già facile prima comunque, lei probabilmente è la ragazza più bella di Milano, di Pavia, di Vigevano, i luoghi che frequentiamo noi. Non puoi prendertela se qualcuno la guarda, perché per strada si girano anche i sassi. Deve essere lei a non mettermi in difficoltà”, ha raccontato Alessio nel salotto televisivo di Rai 1.
Alberto Dandolo per Oggi il 15 settembre 2019. Gessica Notaro dopo aver partecipato a Ballando con le Stelle è corteggiatissima dalla tv. A Cologno Monzese gira voce che la bella Gessica abbia rinunciato al Gf Vip dicendo no ad una grossa offerta economica. Si sussurra che il Biscione le avesse offerto la cifra record di 100 mila euro per partecipare come concorrente alla prossima edizione del noto reality. Carolina Stramare è stata eletta a furor di popolo Miss Italia 2919. La bellezza di questa statuaria ventenne lombarda ha infatti messo d'accordo tutti ed ora per lei si prospetta una sfavillante carriera televisiva. A Milano gira voce che abbia già trovato un agente: trattasi del potente Alex Pacifico che tra i suoi assistiti annovera anche Giulia Salemi, giurata nella ultima edizione del concorso di bellezza.
"A Miss Italia mi hanno interrotta": le frecciatine (velenose) di Giulia. L'ex concorrente del Grande Fratello Vip si è lasciata andare ad un lungo sfogo con i follower, dopo essere stata "bacchettata" a Miss Italia 2019. Serena Granato, Domenica 08/09/2019, su Il Giornale. L'80° edizione della kermesse di bellezza più ambita del Bel Paese, Miss Italia, ha visto trionfare la 20enne Carolina Stramare, già Miss Lombardia. A far discutere sulla puntata che ha decretato la vittoria della Miss nata a Genova, di Vigevano e diplomata al Liceo Linguistico sono state, in particolare, le simpatiche gaffe e i piccoli battibecchi registratisi in studio, che hanno contribuito a segnare il successo ottenuto dalla serata-evento. Come i botta e risposta avuti tra il conduttore Alessandro Greco, che in puntata non è riuscito a ricordare tutti i nomi delle concorrenti-Miss, e l'ex gieffina Giulia Salemi, la quale ha voluto destinare un messaggio di ringraziamenti ai suoi fedeli sostenitori su Instagram e, al contempo, commentare i piccoli "scontri" avuti con Greco in diretta. "Un Miss Italia da sogno. È stata davvero un'emozione pazzesca -ha esordito Giulia Salemi nella descrizione del suo ultimo post condiviso su Instagram- tornare da Miss a Giurata, aver scelto insieme a delle grandi professioniste della televisione italiana una Miss da ripescare e averle dato un'altra chance, che le ha permesso di Vincere #MissItalia e realizzare il suo sogno, mi rende estremamente felice. Sono molto grata a Patrizia Mirigliani, Miss italia e Rai 1, lo staff, gli autori per questa bellissima opportunità. Nonostante io non abbia vinto, mi sono ritrovata su quel palco dopo 5 anni e ancora non mi sembra vero". L'ex protagonista del Grande Fratello Vip prosegue, poi, alludendo ai botta e risposta avuti a Miss Italia 2019 con Alessandro Greco: "Ho cercato di trasmettere la forza, positività, grinta e determinazione alle ragazze... anche se spesso i miei messaggi sono stati interrotti venivano dal mio cuore ed erano dedicati a tutte le ragazze che sono state eliminate, perché so bene come ci si sente in quel momento dove senti di avere “perso”, ma comunque, spero di essere arrivata (oltre al power c’è molto, ma molto, di più). Sono comunque molto felice, perché mi state scrivendo cose bellissime e avete capito e centrato il punto di ciò che volevo esprimere e mi state dando sostegno e forza come sempre... È solo l’inizio. Grazie a tutti e un in bocca al lupo a tutte le Miss di ieri sera, never give up ('Non mollate mai', ndr)! @missitalia".
Giulia Salemi da Miss a giurata. Giulia Salemi, terza classificata a Miss Italia 2014, ha eletto Miss Social 2019 e, incalzata sulle concorrenti-Miss, è risultata a quanto pare prolissa e il suo continuo uso di anglicismi sembra non aver entusiasmato il conduttore della kermesse di bellezza. "Sono focus su queste ragazze che sono veramente power", ha dichiarato l'ex fidanzata di Francesco Monte nel corso della diretta. Parole a cui Greco ha ribattuto alzando un po' il sopracciglio: "Ma questa è Miss Italia e non Miss Inghilterra! Focus? ...Power?".
Miss Italia, Caterina Balivo a brutto muso contro la Bianchetti: "Basta con questa ipocrisia". Libero Quotidiano il 7 Settembre 2019. Piccola tensione (che però non è passata inosservata) tra Caterina Balivo e Lorena Bianchetti durante la finale di Miss Italia andata in onda venerdì 6 settembre su Rai 1 e che ha visto vincere Carolina Stramare. Le due conduttrici, rispettivamente di Vieni da me e A sua immagine, si sono scontrate sull'eterno tema della bellezza delle Miss, ovvero se per prevalere conti più il puro aspetto estetico o altre qualità. "Miss Italia non la vincerà la più bella, non conta solo la bellezza", ha infatti detto Lorena Bianchetti trovando l'immediata opposizione della Balivo (peraltro ex partecipante al concorso) che si è inalberata: "Basta con questa ipocrisia. Miss Italia lo vince la più bella. Non le abbiamo sentite parlare". Insomma, il gelo in diretta faceva venire la pelle d'oca.
Laura Boldrini vede Miss Italia e frigna: attacco senza precedenti alla Rai. Libero Quotidiano il 7 Settembre 2019. Laura Boldrini, con il solito spirito femminista, contesta il ritorno in Rai del concorso di Miss Italia. Scrive L'ex presidente della Camera: "La Rai faccia i concorsi per regolarizzare le precarie, altro che quelli di bellezza". Non è la prima volta che la Boldrini si scaglia contro il concorso di bellezza vinto quest'anno da Carolina Stramare con il 36% delle preferenze. La ventenne di Vigevano (Pavia), è la vincitrice dell’edizione numero 80 del concorso, che quest'anno si è svolta a PalaInvent di Jesolo e in diretta su Rai 1 nella trasmissione condotta da Alessandro Greco. La nuova reginetta di bellezza ha vinto "in rimonta": eliminata in un primo momento dal televoto è stata poi ripescata dalla giuria presieduta da Gina Lollobrigida. Seconda classificata Serena Petralia, con il numero 20, terza la veneta di origini cingalesi Sevmi Fernando, in gara con il numero 62. Come lei, anche Miriam Leone nel 2008 era stata ripescata dalle compagne e poi aveva vinto Miss Italia.
Miss Italia, Patrizia Mirigliani durissima contro Laura Boldrini: "Come bestemmiare in Chiesa". Libero Quotidiano il 7 Settembre 2019. Come tutti gli anni, le critiche - futili - colpiscono Miss Italia. Per esempio attacca Laura Boldrini, e chi sennò, la quale ha pontificato affermando che la kermesse non dovrebbe andare in onda su Rai 1, ovvero la televisione pubblica, perché le ragazze ne uscirebbero mortificate. Il consueto delirio, insomma. E alla Boldrini così come alle altre critiche, ha deciso di replicare Patrizia Mirigliani, la patron del concorso: "Essere costretti a difendersi da attacchi di chi non conosce Miss Italia e che, nonostante gli inviti, non viene a vedere il concorso è assurdo". E ancora, la Mirigliani ha aggiunto: "Alcune critiche ci feriscono perché sono ingiuste, immotivate. La mercificazione del corpo delle Miss è un concetto che non ci appartiene, né ora né mai. Chi sostiene questo riferendosi a Miss Italia è come se bestemmiasse in chiesa", ha concluso. Insomma, Laura Boldrini colpita e affondata pur senza venir mai citata.
Mollicone: “Miss Italia un grande successo, un bene averla difesa”. Andrea Giorni domenica 8 settembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Abbiamo intervistato Federico Mollicone, deputato per FDI capogruppo in commissione Cultura e commissario di Vigilanza Rai, sul grande successo televisivo di Miss Italia. Mollicone ha difeso sin da subito la messa in onda di Miss Italia su Rai 1, andando anche a Venezia durante le sessioni del concorso, contro la sinistra che ha chiesto l’annullamento perché il concorso sarebbe denigratorio nei confronti della figura femminile.
Grande successo di Miss Italia, con punte di 25% di share. Che sta a significare?
«Nonostante le prediche sull’antieconomicitá di Miss Italia, è un format che convince gli italiani, praticamente “nazionalpopolare“, “strapaesano“. Chi di noi non lo ha mai visto almeno una volta? Il ritorno della messa in onda sui canali del servizio pubblico, scelta che abbiamo sempre difeso, è un bene per l’azienda e i suoi conti. Complimenti a Mirigliani e De Santis, che hanno tenuto duro nonostante le difficoltà e gli attacchi».
Mollicone, la sinistra ha accusato Miss Italia di mercificare le donne…
«I soliti “luogocomunisti“. Miss Italia rappresenta il meglio dello spettacolo italiano, un autentico fenomeno di costume che convince da decenni i telespettatori. Il politicamente corretto cerca come al solito di imporre la sua mentalità, il pensiero unico. Nel ’68 predicavano la libertà per le donne. Le ragazze, infatti, sono libere di esprimere il proprio talento e la propria bellezza. Le concorrenti hanno infatti manifestato proprio per la propria libertà di competere, mentre i vari sinistroidi femministi come Boldrini e Anzaldi cercavano di limitare la sfera della libertà personale secondo la propria visione ideologica. Le pari opportunità sono tali solo secondo il metro di giudizio della sinistra. Il deputato dem ha tirato in ballo persino pendenze giudiziarie degli organizzatori, smentite poi, per mettere in discussione la qualità artistica e la messa in onda».
Da Miss Italia provengono alcune delle migliori protagoniste dello spettacolo italiano, come Colombari o Leoni. Banalmente, la sinistra è sempre più lontana dal paese reale.
«Almeno, a differenza del governo, a Miss Italia gli italiani hanno potuto votare, e lo hanno fatto in massa. Il presidente Mattarella ci rifletta».
Cambia il governo. Cosa cambierà in Rai?
«Sarà un periodo ad alta tensione, con riflessi sulla geografia interna e, quindi, sulle nomine. Per noi, in ogni caso, cambia poco perché ci posizioniamo fieramente sui banchi dell’opposizione nella commissione di Vigilanza. Ci auguriamo che siano rispettati i valori del pluralismo del servizio pubblico e l’indipendenza del Consiglio d’amministrazione. Riconosciamo nell’AD Salini un dirigente la cui azione è sempre stata nel segno della terzietá nella gestione della più grande azienda culturale della Nazione, ma continueremo a vigilare attentamente sull’operato del management».
Eleonora Pedron, orgoglio Miss Italia: "Che palle le critiche dei politici. Non dimentico cosa mi disse Frizzi". Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 26 Agosto 2019. La storia della cultura occidentale è cominciata con un concorso di bellezza: tre divinità, Era, Atena e Afrodite, erano in gara e Paride scelse di affidare a quest’ultima il pomo di più bella, originando la guerra di Troia e permettendo che venisse concepita l’Iliade. Devono esserselo dimenticato i censori accecati dall’ideologia, le femministe per partito preso che, in occasione di ogni Miss Italia, gridano alla mercificazione del corpo della donna. E hanno alzato ancora più la voce quest’anno, dato che il concorso di bellezza, alla sua 80ma edizione, tornerà sul servizio pubblico (andrà in onda su RaiUno il 6 settembre). Ma a questa visione riduttiva del programma si oppone chi miss è stata e mai si è sentita donna-oggetto, come Eleonora Pedron, reginetta di bellezza nel 2002. Pedron, tre membri del cda Rai sostengono che a Miss Italia «le donne vengono valutate solo per il loro aspetto esteriore, mercificando il loro corpo», un fatto inopportuno mentre crescono le violenze sulle donne. E intanto Michele Anzaldi del Pd chiede un voto contro la decisione di riportare il programma in Rai. Sbagliano?
«Che due p… queste polemiche, chi critica il programma forse non ha nient’altro da dire. Miss Italia è l’esatto opposto della mercificazione della donna: è un evento raffinato ed elegante, in cui si riscopre la dimensione del romanticismo, del sogno, della favola. Altroché sfruttamento e volgarità. Metterlo in relazione ai femminicidi è poi follia totale. D’altronde, Miss Italia fa parte della tradizione del Paese: guardarla è un rito familiare, che si consuma nel focolare domestico, in cui tutti, grandi e piccini, si divertono a indovinare chi sarà la vincitrice».
Perché allora, secondo lei, scattano puntualmente agli attacchi a Miss Italia? C’è più moralismo o più invidia, da parte di alcune donne?
«Credo che quanti creano polemica lo facciano con l’unico scopo di schierarsi, darsi un tono e ottenere visibilità. Ma sbagliano completamente il bersaglio. I costumi da bagno delle partecipanti sono tutto fuorché provocanti: non si è mai visto a Miss Italia un perizoma o un seno mezzo scoperto. Sono costumi castigati quasi da nuotatrice olimpica».
Il ritorno in Rai aiuterà gli ascolti del programma che negli ultimi anni, su La 7, erano scesi sotto il milione di telespettatori?
«La Rai è come la casa di Miss Italia, il suo luogo naturale, ed è bello che vi torni una cosa antica, che lì è sempre stata seguitissima. Questo ritorno al futuro, a mio avviso, sarà anche vantaggioso per gli ascolti».
Lei che ricordi ha della Miss Italia vinta 17 anni fa?
«Fu non la mia prima, ma la mia seconda Miss Italia. Avevo già partecipato tre anni prima, nel 1999. Fu papà a incoraggiarmi a riprovarci, ci teneva, ma purtroppo si spense a pochi mesi dalla mia seconda partecipazione. Decisi di rimettermi in gioco come un omaggio a lui, altrimenti non lo avrei mai fatto. E alla fine vinsi. Ricordo quell’esperienza come un grande campo scuola in cui entrai in contatto con ragazze che arrivavano da un contesto molto diverso dal mio. Venivo da un piccolo paese in Veneto, Camposampiero, e se non avessi fatto Miss Italia forse sarei rimasta lì. Quel concorso fu il mio secondo passaggio verso la maturità, dopo il primo traumatico, la perdita di papà».
Quell’anno venne proclamata reginetta da Fabrizio Frizzi. Cosa le disse al momento della vittoria?
«Una sua frase mi resterà indelebile: “Miss Italia è la Favola e l’Eleganza in sé”. Aveva colto alla perfezione lo spirito di quella manifestazione. Dopo siamo diventati amici, è stato anche il padrino di mai figlia. Sono stata l’ultima reginetta da lui proclamata prima di un’assenza durata dieci anni. Quando tornò alla conduzione mi volle con sé nel programma. La chiusura di un cerchio».
Quest’anno Eleonora Pedron che ruolo avrà a Miss Italia?
«Farò parte della giuria. E mia figlia guarderà il programma da casa. Ha dieci anni, ma mi dice che un giorno piacerebbe anche a lei partecipare. Magari darà seguito alla tradizione familiare: mamma e figlia entrambe vincitrici, come è già capitato a Marisa Jossa e Roberta Capua». Gianluca Veneziani
· Le Baby Miss.
Baby Miss, boom di concorsi in Italia. Il Garante: “No a sfruttamento”. Le Iene l'11 dicembre 2019. I concorsi di bellezza under 14 che hanno come protagoniste le Baby Miss dovrebbero essere vietati. Lo dice il Garante per l’infanzia e l’adolescenza, secondo cui “i bambini vanno protetti da ogni forma di sfruttamento che possa essere pregiudizievole per il loro benessere”. Vestitini carini, ombelico di fuori, con tanto di glitter, trucco (non da bambine) e sfilate con una mano sul fianco. Sono tutti momenti dei concorsi di bellezza under 14 che nascono per prima negli Stati Uniti e poi si diffondono in tutto il mondo e sembrano spopolare anche in Italia. Vi abbiamo parlato in questo servizio delle piccole reginette di California durante un Baby Miss Americano. Quando abbiamo chiesto a una bambina di 6 anni cosa volesse diventare da grande, ci ha risposto: “Una superstar”. Insomma, vi abbiamo anche fatto vedere come i genitori imbottiscono queste mini superstar di energy drink e bustine di zucchero per “tenere sveglie” le piccole dive. Una realtà per quale l’autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza in Italia si oppone: “I bambini vanno protetti da ogni forma di sfruttamento che possa essere pregiudizievole per il loro benessere”, spiega il Garante Filomena Albano. Durante queste gare, delle quali vi abbiamo parlato nel servizio di sopra, si fanno tanti sacrifici sia da parte dei genitori, ma soprattutto da parte delle bambine: cappelli pieni di lacca, trucco pesante e finti sorrisi sul viso. Sacrifici che portano di sicuro soddisfazioni ai genitori, ma che possono generare rischi psicologici per nulla scontati. Come ad esempio: un bambino potrebbe crescere con l’idea che l’aspetto fisico è l’unico valore che conta. L’ordinamento italiano offre soluzioni: l’autorità giudiziaria può infatti intervenire là dove ci sono violazioni dei diritti dei bambini.
Baby-Miss. Concorso in Colpa. Veronica Cursi per “il Messaggero” il 9 dicembre 2019. Pantaloncini fucsia attillati, rossetto rosso, ombelico di fuori. Janet, 4 anni, percorre la passerella ondeggiando. La mano su un fianco, fa una giravolta, poi si ferma e lancia baci al pubblico come una star. La mamma dice che il suo «è un dono» e che quello dei concorsi di bellezza è «un'opportunità», «si fanno tanti sacrifici per mandarla avanti, per assicurarle visibilità». Perché quella delle competizioni di bellezza per bambini, tanto diffusi negli Stati Uniti - al punto da ispirare nel 2006 il film Little Miss Sunshine - sono ormai una realtà anche da noi. Gare spesso organizzate a livello locale, pubblicizzate anche sui social, fatte di eventi nei centri commerciali e nei locali di provincia, che promettono lavori nelle agenzie specializzate o sulle passerelle di moda. Le adesioni sono sempre più numerose, come i sogni e le aspirazioni di questi genitori. In Francia nel 2013 è stata approvata una legge che mette al bando questo concorsi e in Italia qualche tempo fa venne lanciata una petizione sul web per fermare questo mercato dei bambini. Una situazione sui cui ora anche l'autorità garante per l'infanzia e l'adolescenza pone l'accento: «È necessario ricordare che esiste la Convenzione Onu sui diritti dei minori - spiega il Garante Filomena Albano- E che i bambini vanno protetti da ogni forma di sfruttamento che possa essere pregiudizievole per il loro benessere. L'ordinamento italiano offre dei rimedi: la valutazione sulla condotta dei genitori o di chi esercita la responsabilità è infatti affidata all'autorità giudiziaria, che può intervenire laddove ci siano delle violazioni dei diritti dei bambini». Sofia, Erica, Rubina. Sono loro l'esercito di reginette in miniatura: vanno dagli 1 ai 14 anni a seconda della categoria (baby, junior, teenager). Alcune non sanno ancora leggere o scrivere ma sfilano come delle professioniste ricoperte di tulle e strass, in abiti da Lolita spesso cuciti a casa da nonne e zie orgogliose che applaudono in platea. Perché queste gare - per molti genitori - sono un investimento sul futuro. Partecipare non costa molto (la quota va dai 10 ai 50 euro) ma il budget da considerare è un altro: trasferte, corsi di portamento, book fotografici, eppoi vestiti, trucco e parrucchiere: tutto fatto in casa. «Arrivo anche a spendere 1000 euro», confessa una mamma. E il mercato dei social scorre parallelo. «Ballerina e fotomodella, 4 anni, seguimi»: è la scritta che compare sul profilo Instagram di questa piccola miss, due titoli in carica, 265 seguaci, ancora troppo pochi per una carriera da baby influencer. Ma ci si può lavorare. Sulla sua pagina scorrono foto e video delle sue performance, selfie in pelliccia, sfilate in mini abiti da sposa. È la mamma a gestire la sua pagina social. Crystel, 6 anni, bambolina bionda, ci tiene a far sapere che è pazza «di mascara e illuminante per il viso». Di anni ne ha qualcuno in più e anche di follower: 365. Ha vinto diverse fasce ed è testimonial di alcuni marchi abbigliamento per bimbi. Anche nel suo profilo pubblico scatti professionali, pose ammiccanti in pantaloncini di pelle. Baby Miss Spettacolo, baby Top Model, Miss Principessa. Vengono giudicate per look, portamento, presenza scenica: «Meglio farle cominciare con concorsi più piccoli - spiega l'organizzatrice di una di queste competizioni - Così abbiamo più tempo per insegnargli come devono entrare e uscire, essere preparate per i concorsi veri». «Tania si diverte moltissimo, devo sostenerla», ripete una mamma soddisfatta. «Oggi il lavoro più difficile in questo campo è proprio arginare certe madri - spiega Francesca Ambrosetti, titolare dell'agenzia di modelle Zoe Factory - Arrivano cariche di aspettative ed è difficile spiegargli che certe foto in mutande e reggiseno a 11 anni non si possono fare, certe pose provocanti sono da evitare. Ci sono bimbette trascinate qua e là per fare casting, le senti dire mangia questo, non mangiare quello: a una certa età questo deve rimanere un gioco, non un lavoro». E i rischi psicologici non vanno sottovalutati: «Un bimbo che cresce con l'idea che l'immagine sia tutto penserà sempre al corpo come a un valore essenziale - spiega Giovanni Martinotti, professore di Psichiatria all'università D'annunzio di Chieti - Il culto dell'estetica porta, tra gli altri, a disturbi del comportamento alimentare comuni sia nei maschi che nelle femmine. Molti genitori pensano di realizzare i propri sogni attraverso i bambini riversando su di loro desideri frustrati. Ma il risultato è che un domani molti di questi piccoli cresceranno altrettanto insoddisfatti».
· Affidati alla sinistra.
Dove c'è l'affare li ci sono loro: i sinistri.
La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.
I mafiosi si inventano, non si combattono.
L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.
Accoglierli è umano, andarli a prendere è criminale.
L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.
Toglierli ai genitori naturali e legittimi è criminale.
Affidati alla sinistra. Alesandro Bertirotti l'1 luglio 2019 su Il Giornale. È tutta questione di… sporcizia. Certo, rimanere sconcertati di fronte a notizie come queste è il minimo. Anche il Cristo esprime parole durissime quando si riferisce a coloro che avrebbero osato “scandalizzare” i bambini. E dice, al tempo stesso, che per entrare nel Regno dei Cieli occorre farsi, appunto, come bambini. Questi sono i due concetti dai quali parto per il ragionamento che segue, perché penso siano non solo concetti cristiani ma appartenenti alla sensibilità che l’Occidente credeva di aver conquistata e mantenuta. Non siamo nuovi in Italia a notizie del genere, perché sono sicuro che molti di voi ricorderanno esattamente quello che è stato scoperto sul Forteto di Firenze. E potete trovare ancora materiale in rete, oltre a questo. Ma abbiamo di più, e cioè la presenza di una organizzazione a delinquere contro la famiglia tradizionale, la figura paterna per avvantaggiare famiglie alternative, ossia omosessuali et similia (anche bisessuali, tanto non fa male un po’ di creatività…), come si evince da questo articolo ulteriore. Coloro che conoscono la legge Cirinnà sulle unioni civili sanno perfettamente che penalizza qualsiasi unione eterosessuale a vantaggio di quelle omosessuali, perché ovviamente questo significa voti, per quella sinistra che appoggia da sempre la creatività evolutiva. È ovvio, mi riferisco alla creatività che ghettizza, attraverso le manifestazioni come il Gay Pride, i circoli con tessera Arci e altre amene iniziative ricreative. Quindi, possiamo sostenere che per la sinistra la famiglia tradizionale è qualche cosa da superare, desueto, démodé e quindi reazionario. Un padre che fa il padre, amando una madre che fa la madre, con la colpa di essere eterosessuali, sono sicuramente inadatti all’educazione dei figli. Ecco perché è utile organizzare il peggio possibile, per condurre questi bambini ad un vero e proprio lavaggio del cervello, con sevizie psicologiche e fisiche. Io sono convinto che non tutta la sinistra sia in queste condizioni, almeno la poca che ancora pensa, e che non sia piegata all’ideologia di qualche multinazionale. È anche vero che gli esponenti politici attuali non hanno rivolto nessuna attenzione a quanto sta uscendo fuori da questa scandalosa storia emiliana. E non si sono assolutamente recati in Emilia, magari con qualche dichiarazione di condanna, preferendo, giustamente secondo loro, imbarcarsi per difendere bambini, famiglie, padri e madri del tutto normali, ma poveri ed immigrati. È evidente, che esiste una normalità che a loro piace, e che magari proviene dal mare. Mentre la normalità di una Emilia che lavora duramente è assolutamente da evitare, visto che si inventano persino storie per sottrarre i bambini alle proprie famiglie, e attraverso un interessantissimo giro di denaro, affidarli a famiglie creative. In questo caso, il termine “creative” è sinonimo di delinquenti, almeno queste sono le accuse. Vedremo se ci sarà un rinvio a giudizio e dunque un giudizio. Intanto, “la politica progressista per il bene dell’umanità intera” (locuzione che esprime tutto l’amore possibile per la povera gente…) prende il sole in Sicilia e se ne frega dei criminali che alimenta in patria. Cosa dovremmo pensare di tutto ciò?
"Angeli e Demoni", si allarga l'inchiesta: indagati altri due sindaci dem. Il Pd emiliano elogiava l'esperienza della Val d'Enza tanto da promuovere in quei luoghi "un incontro pubblico della commissione, per ascoltare il territorio e condividere azioni di sistema". Bignami: "Il Pd c'è dentro fino al collo". Costanza Tosi, Martedì 02/07/2019 su Il Giornale. Il Partito democratico finisce nell'occhio del ciclone nell’inchiesta sul business degli affidamenti dei minori. Non solo Andrea Carletti nel registro della pm si aggiungono altri due uomini del Pd. Paolo Colli e Paolo Burani, ex sindaci di due comuni nel reggiano, Montecchio e Cavriago. Anche loro adesso sono indagati per abuso d'ufficio. Proprio come lui, il primo cittadino di Bibbiano - Carletti, appunto - finito agli arresti domiciliari che, come scritto nell'ordinanza del tribunale di Reggio Emilia, era "pienamente consapevole della totale illiceità del sistema (…) disponeva lo stabile insediamento di tre terapeuti privati della Onlus Hansel e Gretel all'interno dei locali della struttura pubblica della Cura". Il tutto in "costante raccordo" - si legge sempre - con Federica Anghinolfi, la donna paladina delle coppie gay che dava in affido i bambini anche a donne omosessuali a lei legate. A collegare i due nomi c'è anche una certa familiarità con il mondo della sinistra. Se il sindaco era politicamente legato al Pd, anche la responsabile del servizio sociale integrato dell'Unione di Comuni della Val d'Enza non sembra essere sconosciuta a quell'ambiente, vista la sua partecipazione - per esempio - alla festa dell'Unità di Bologna del 2016. "Il Pd c'è dentro fino al collo", dice senza esitazioni Galeazzo Bignami, di Forza Italia, parlando di quello che considera uno "scandalo in salsa rossa". Eppure, dopo i 18 arresti disposti dal Gip, a sentire le dichiarazioni degli esponenti del Partito democratico sembra quasi che il sindaco sia una sorta di pecora nera nel sistema del welfare della Regione. "Ciò che sta emergendo dall'operazione dei carabinieri ha contorni che, se confermati, sarebbero di una gravità inaudita", ha detto l'assessore rosso alla Sanità dell'Emilia-Romagna, Sergio Venturi. "In quel caso è chiaro che la Regione si troverebbe ad essere parte lesa". Sulla stessa linea anche il segretario regionale del Pd Paolo Calvano e il capogruppo democratico in Regione Stefano Caliandro che, in una nota congiunta, hanno dichiarato: "Se quei fatti fossero confermati, la Regione sarebbe parte lesa e in quanto tale in sede giudiziaria va presa in considerazione anche la costituzione di parte civile". Il Partito democratico sembra quindi lavarsene le mani. Si dissocia dal sindaco e lo disconosce. Spulciando tra i resoconti della Regione Emilia, però, spunta un incontro che fa discutere. Era il 2015 quando in commissione parità venivano ascoltati Federica Anghinolfi e il primo cittadino Carletti. "Ero consigliere regionale quattro anni fa, vennero e ci portarono quel sindaco e la responsabile del progetto come esempio in Regione di un sistema virtuoso di tutela dei bambini", racconta l'onorevole Bignami al Giornale.it. In tale occasione Federica Anghinolfi parlò proprio di "creare sul territorio un centro specialistico sul trattamento dei minori vittime di violenza insieme all'Asl di Reggio Emilia". La consigliera Yuri Torri, di Sel, invitava addirittura l'ente a "intervenire per mettere a sistema l’esperienza sviluppata in Val D'Enza in questo anno e a formalizzare dei protocolli". E fu proprio in quell'occasione che emerse anche che il numero di abusi su minori segnalati sul territorio era troppo alto. Ma in Commissione, Luigi Fadiga, Garante per l’infanzia e l' adolescenza dell' Emilia Romagna, a tal proposito spiegò che "l' errore più grave sarebbe etichettare l'area, perché il fenomeno non è certo circoscritto, nel reggiano semmai c'è stato il coraggio di denunciare e intervenire". E non tardò l’appoggio dell’Anghinolfi che aggiunse: “È stata molto importante”, disse, “la volontà di proseguire l'ascolto delle giovani vittime anche dopo aver raccolto un numero apparentemente sufficiente di informazioni”. Insomma, solo pochi anni fa, la sinistra emiliana elogiava i metodi della Val d'Enza tanto da promuovere in quei luoghi "un incontro pubblico della commissione per ascoltare il territorio e condividere azioni di sistema", come si legge negli atti. Oggi, invece, si dichiara "parte lesa" e fa finta di non sapere. "Federica Anghinolfi partecipava continuamente a incontri con la sinistra - fa notare però Bignami - E quello è l'esempio che il Pd ci portava". Un modello che si è rivelato un incubo. Un modello che non va certamente seguito ma condannato. “Siete stati voi, il caro Partito democratico, a rendere potente questa gente sfuggendo al vostro controllo, nella migliore delle ipotesi…” aggiunge Bignami in un video sulla sua pagina Facebook. Un controllo a cui, i responsabili degli orrori compiuti ai danni dei bambini, sono sfuggiti proprio sotto i loro occhi. Sotto gli occhi disattenti degli uomini del Pd. Come è possibile che nessuno nell’amministrazione locale del Partito democratico sia riuscito a scovare le falle di questo sistema? Sarebbe stato sufficiente non farsi sfuggire i numeri. Numeri, peraltro, riportati nei bilanci dell’Unione. Sarebbe bastato controllare quanti erano i bambini che, negli ultimi anni, erano stati dati in affido dai servizi sociali e, magari verificare anche gli importi degli assegni erogati dai centri di assistenza per minori. Come ha fatto Natascia Cersosimo, consigliere comunale del Movimento 5 stelle nell'Unione Comuni Val d'Enza. Fu lei a chiedere, a seguito di una proposta di aumentare di 200mila euro i fondi a favore delle strutture di accoglienza per minori, i documenti che giustificassero tale richiesta. Dai documenti era tutto chiaro. Chiaro e allarmante. Dal 2015 al 2018 il numero degli affidi era aumentato in maniera sorprendente. Come scrive Paolo Pergolizzi su Reggiosera.it, “i bambini dati in affidamento erano zero nel 2015, 104 nel 2016, 110 nel 2017 e 92 nei primi sei mesi del 2018”. Quindi dal 2015 al 2016 cento bambini sono stati dati in affido e, negli anni a seguire, il numero era in costante crescita. Ma c’è di più. Tutti i numeri erano in aumento. “Le prese in carico per violenza sono state 136 nel 2015, poi 183 nel 2016, fino alle 235 del 2017 e le 178 del primo semestre 2018. In sostanza, se si fosse arrivati fino a fine anno, si potrebbe dire che nel 2018 sarebbero state praticamente triplicate rispetto a tre anni prima”, scive sempre Reggiosera.it. Di conseguenza a crescere erano anche i soldi pubblici destinati all’assistenza dei minori. Più affidi, più soldi. “Si passa dai 245.000 euro del 2015, ai 305.000 euro del 2016, fino ai 327.000 euro del 2017 e, infine, a una proiezione di spesa di 342.000 euro nel 2018. Stessa cosa per quanto riguarda le spese necessarie per gli incontri con gli psicologi: dai 6.000 euro del 2015 ai 31.000 del 2017, fino ai circa 27.000 del primo semestre 2018”. Ma se le cifre destavano sospetto, gli amministratori locali della zona interessata si giustificavano e mettevano le mani avanti. Nel documento ufficiale sulla gestione dei servizi avevano scritto infatti: “I dati di grave maltrattamento ed abuso della Val d'Enza, superiori alla media regionale, non sono ascrivibili ad un fenomeno locale specifico, ma sono in linea con i dati mondiali dell'Oms e di importanti organizzazioni internazionali come Save the Children e Terre des Hommes. Tali dati dimostrano l'essenzialità di un lavoro di rete efficace e qualificato, in linea con le ottime - ma ampiamente disattese - linee guida regionali sul tema”. Un confronto, che a dirla tutta, non regge proprio. O, per meglio dire, aggrava la situazione. Infatti, con questa dichiarazione, si sostiene che i dati sugli abusi fossero in linea con quelli forniti da Ong internazionali operanti in territori di guerra o in Paesi in via di sviluppo. Non proprio una condizione ideale per un comune italiano.
Francesco Borgonovo per “la Verità” il 2 luglio 2019. La piccola Katia adesso è più al sicuro. La sua storia è forse la più straziante fra tutte quelle - orribili - che compongono l' inchiesta «Angeli e demoni» riguardante gli abusi su minori a Bibbiano, in provincia di Reggio Emilia. Una storia che, probabilmente, le lascerà addosso segni indelebili. Questa bambina è stata tolta ai genitori nel 2016 e affidata successivamente a una coppia di donne, Daniela Bedogni e Fadia Bassmaji, che si sono unite civilmente nel giugno del 2018. Le «due mamme» avrebbero dovuto prendersi cura della piccina e invece, a quanto risulta dalle carte dell' inchiesta, la vessavano e maltrattavano. Un trattamento che, come ha scritto la Gazzetta di Reggio, «ha portato il giudice Luca Ramponi a togliere subito l' affidamento alla coppia, prescrivendo il divieto di avvicinamento a più un chilometro dalla bimba oltre al divieto di comunicare con lei». Questa vicenda contribuisce a fare luce sull' aspetto ideologico del sistema bibbianese, legato al mondo Lgbt. Leggendo quanto è accaduto alla povera Katia, non si può non pensare a ciò che scriveva un sacerdote modenese, don Ettore Rovatti. Egli ebbe a che fare con un caso per certi versi simile a quello reggiano, avvenuto anni fa nel Modenese e raccontato da Pablo Trincia nel libro-inchiesta Veleno (Einaudi). Di fronte agli assistenti sociali che ingiustamente toglievano i figli a famiglie magari difficili ma non colpevoli di abusi, don Ettore disse: «C' è una mentalità dietro a tutto questo armamentario giuridico. Cioè, la famiglia ha torto sempre. Lo Stato ha sempre ragione. Questa gente vuole distruggere la famiglia, così come il comunismo voleva distruggere la proprietà privata». Ecco, queste parole ci risuonano in testa mentre cerchiamo di ricostruire la storia di Katia. La bimba, dicevamo, è stata tolta ai genitori naturali e affidata a una coppia di lesbiche. Le quali poi, assieme alla psicologa Nadia Bolognini, avrebbero tentato di inculcare «nella minore la convinzione di essere stata abbandonata e maltrattata presso la famiglia di origine». L' avrebbero insomma indotta a credere di essere stata abusata e molestata dai genitori naturali. A quanto pare, però, era tutto falso. Come scrive il giudice per le indagini preliminari di Reggio Emilia, «tra tutti i bimbi monitorati dalle indagini e dati in affido dai servizi sociali della Val d' Enza, Katia è apparsa quella con meno problematiche e totalmente estranea [...] a situazioni di abuso sessuale».
A maltrattarla realmente, pare, erano invece le «due mamme». La piccina viene affidata a loro grazie a una delle protagoniste principali dell' inchiesta, ovvero Federica Anghinolfi, 57 anni, dirigente del Servizio di assistenza sociale dell' Unione Comuni Val d' Enza. Secondo il giudice, sarebbero «la sua stessa condizione e le sue profonde convinzioni a renderla portata a sostenere con erinnica perseveranza la causa dell' abuso da dimostrarsi a ogni costo». Già: la Anghinolfi è a tutti gli effetti un' attivista Lgbt. Nel 2014, la nostra fu intervistata dal Corriere della Sera per magnificare l' affido arcobaleno. In quell' occasione spiegò: «Non è per forza il genere che definisce la figura paterna, ma il ruolo: è il genitore "normativo", quello che dà le regole. Mentre la figura materna è calda, "accuditiva"». In un' altra intervista, risalente al 2016, sosteneva che «in questo Paese è ancora troppo forte l' idea della famiglia patriarcale padrona dei figli». Di affido gay la Anghinolfi ha parlato nel maggio 2018 durante un convegno intitolato «Affidarsi. Uno sguardo accogliente verso l' affido Lgbt», organizzato dall' Arcigay mantovana e sponsorizzato da Comune e Provincia di Mantova (sul caso, la Lega nord ha presentato un' interrogazione al Comune lombardo). Sapete chi altro partecipò all' incontro mantovano? La signora Fadia Bassmaji, presentata come «promotrice progetto Affidarsi e affidataria». La Bassmaji e la Anghinolfi vengono definite dal giudice «persone assai attive nella difesa dei diritti Lgbt». Ma non condividevano solo la militanza ideologica. Nelle carte dell' inchiesta si legge che Fadia e Federica «risultavano avere avuto in passato tra loro una relazione sentimentale». Riepilogando: la Anghinolfi, dirigente dei servizi sociali, dà in affidamento una bimba alla Bassmaji, sua ex compagna che si è unita civilmente a un' altra donna, Daniela Bedogni. Non solo: «La sorella della Bedogni», spiega il giudice, «è risultata anche lei una "intima amica" della Anghinolfi». Ed è proprio attorno alla figura della Bedogni che emergono i particolari più inquietanti. Costei, sostiene ancora il Gip reggiano, «si dimostra instabile e del tutto convinta del proprio ruolo essenziale [...] di natura "salvifica" a favore della minore», cioè della piccola Katia. In alcune intercettazioni ambientali, la Bedogni si esprime con «urla deliranti in cui manifestava il proprio odio contro Dio con ininterrotte bestemmie di ogni tipo alternate d' improvviso a canti eucaristici». In altre occasioni dà luogo a «interi colloqui con persone immaginarie», a «deliri improvvisi in cui [...] immagina situazioni inesistenti» e poi, ancora, «sproloqui di ogni tipo, sempre intervallati da bestemmie e canti eucaristici». Il giudice dettaglia: «In totale evidenza di squilibrio mentale, mentre si trova da sola in auto, urla ininterrotte bestemmie, instaura veri e propri discorsi con soggetti immaginari di cui imita le voci». È a costei che è stata affidata Katia. E infatti i problemi non hanno tardato a manifestarsi. In un' occasione, per esempio, la bimba viene letteralmente «sbattuta fuori dall' auto» della Bedogni «sotto la pioggia battente», mentre la madre affidataria le grida: «Porca puttana vai da sola a piedi... Porca puttana scendi! Scendi! Non ti voglio più! Io non ti voglio più scendi! Scendi!». È per via di episodi di questo tipo che Katia è stata tolta alle «due mamme». Ma lei non è la sola bimba affidata a una coppia lesbica grazie alla Anghinolfi. Un' altra ragazzina viene affidata a Cinzia Prudente, amica di vecchia data dell' assistente sociale. Anche con la Prudente la Anghinolfi ha avuto una storia sentimentale. Di più: le due donne, nel 2011, hanno acquistato una casa insieme, di cui pagano ancora il mutuo metà per una, anche se nell' abitazione vive la Prudente assieme a sua moglie Paola. Secondo il giudice, sapendo che la Prudente era in difficoltà economiche, la Anghinolfi le avrebbe fatto ottenere un assegno da 200 euro mensili per il mantenimento della ragazzina in affido, anche se il suo unico impegno consisteva «nel passare un paio d' ore con la ragazza circa un paio di volte al mese per prendere un caffè insieme e fare una chiacchierata». Vantaggi economici avrebbero ottenuto anche la Bedogni e compagna, che percepivano un «contributo forfettario mensile doppio» rispetto alla cifra (620 euro) corrisposta agli altri affidatari. Qui, però, la sensazione è che più dei soldi, più di tutto, conti l' ideologia: la fissazione di voler dare in affido i bambini a coppie arcobaleno. Anche se poi li maltrattavano.
“Io accusato di omofobia per togliermi il figlio e darlo a una coppia gay”. "Mi dissero che io ero omofobo. E che dovevo cominciare ad abituarmi alle relazioni di genere". Costanza Tosi, Lunedì 01/07/2019 su Il Giornale. Da un lato bambini traumatizzati, plagiati dagli psicologi e strappati dall'affetto dei loro cari. Dall'altro i loro genitori che non si danno pace. Tutte vittime di una rete di donne e uomini disposti a tutto, come si legge nelle carte dell'inchiesta "Angeli e demoni". Ma non solo. Incontriamo un uomo - che ci chiede di restare anonimo e che chiameremo Michele - che inizia a parlarci. La sua odissea inizia nel 2017, quando gli vengono strappati i figli per darli in adozione a una coppia gay. Tutto inizia con una denuncia per maltrattamenti (adesso archiviata dal tribunale di Reggio Emilia) fatta dalla sua ex moglie. I servizi sociali della Val D'Enza cominciano a monitorare la famiglia, come ci racconta lo stesso uomo: "Venivano a controllare in continuazione. Mi contestavano che la casa non fosse idonea a far vivere i miei figli. Mi hanno detto che la camera dei bambini era troppo pulita, quasi che loro non avessero mai dormito in quella stanza. I giocattoli erano riposti nell'armadio e anche questo a loro non tornava. Cercavano sempre delle scuse, a volte banali". Ispezioni assidue e incontri continui. Gli assistenti stilavano lunghe relazioni, spesso fantasiose, secondo Michele. Relazioni che però non corrispondevano alla realtà dei fatti in quanto falsificavano gli eventi. Tra le righe delle relazioni infatti ci sarebbero racconti di fatti che però non sarebbero mai avvenuti. Mese dopo mese, anzi, i servizi sociali aggiungevano ulteriori dettagli per creare la figura del "papà cattivo", un pretesto - per gli inquirenti - per togliere i bambini al genitore e affidarli alla madre che, dopo essere andata via di casa, viveva con la sua nuova compagna. Michele doveva quindi diventare l’orco cattivo, il padre violento sia con i figli che con la moglie. “Un giorno - racconta Michele a ilGiornale.it - mentre mi stava per salutare, mio figlio ha iniziato a piangere perché non voleva andare con la madre. Io non riuscivo a capire, ma siamo riusciti a calmarlo e tutto si è sistemato. Poi è andato via con lei". Ma non solo. Poco dopo Michele scopre dei dettagli agghiaccianti, nelle relazioni dei servizi sociali: "Scopro che Beatrice Benati, che aveva redatto la relazione, nel raccontare i fatti scriveva: 'I bambini si riferivano al padre, insultandolo'. Lì ho capito che c’era qualcosa di strano. Perché avrebbero dovuto scrivere una cosa per un'altra? A che scopo? Ancora oggi me lo chiedo". Il 15 giugno del 2018 Michele viene convocato dagli assistenti sociali. Incontra Federica Anghinolfi e Beatrice Benati (oggi agli arresti domiciliari) che gli comunicano che non potrà più vedere i suoi figli se non “in forma protetta una volta ogni 21 giorni.” La motivazione? "Lei è omofobo!", gli spiega la Anghinolfi, responsabile dei servizi sociali, e attivista Lgbt. "Io ero sconvolto, non volevo crederci - spiega Michele- Chiesi spiegazioni e mi dissero che io ero omofobo. E che dovevo cominciare ad abituarmi alle relazioni di genere". Adesso, dopo un anno, Michele pensa solo ai suoi figli, soprattutto al più piccolo. A causa delle pressioni psicologiche e dei traumi subiti durante il percorso di allontanamento dal padre ora il bambino soffre di problemi psichici. "Sta soffrendo molto, questa situazione lo sta distruggendo e io ho le mani legate. Ha degli atteggiamenti preoccupanti, me lo hanno detto anche le insegnati di scuola - sospira Michele, che fa fatica a parlare e ha la voce rotta dal dispiacere - Dice spesso che non sa che farsene della sua vita, che vuole morire". Sono questi i pensieri di un bambino allontanato dalla propria famiglia. Pensieri che nessuno dovrebbe mai fare. Soprattutto un bambino.
· La soppressione della famiglia. Le donne come «bene comune». Un’idea di Platone ripresa da Marx.
Le donne come «bene comune». Un’idea di Platone ripresa da Marx. Pubblicato mercoledì, 22 maggio 2019 da Corriere.it. «Abolizione della famiglia!». Era una delle accuse rivolte spesso agli obiettivi del comunismo. Marx ed Engels intendono reagire, nel secondo capitolo del Manifesto: «Persino i radicali più avanzati — commentano ironicamente — si scandalizzano per questo vergognoso proposito dei comunisti». Alla storia della famiglia borghese e al disvelamento della sua effettiva realtà è dedicata perciò una parte consistente di quel capitolo programmatico: non è un cenno marginale, è un aspetto rilevante della visione del comunismo che i due autori prospettano. L’addebito, strettamente connesso all’accusa di voler abolire la famiglia, è di propugnare la «comunanza delle donne»: «È ridicolo — scrivono i due — lo sdegno altamente morale dei nostri borghesi per la presunta comunanza ufficiale delle donne, dei comunisti (der Kommunisten: cioè propugnata e/o praticata, dai comunisti)». Il filologo e storico Luciano Canfora Dicendo «presunta» implicano una presa di distanze da tale «comunanza», ma la loro risposta è soprattutto una ritorsione: è la famiglia borghese che pratica la «comunanza delle donne». «I nostri borghesi, non contenti di avere a disposizione le mogli e le figlie dei proletari, per non parlare della prostituzione ufficiale, trovano un grande diletto nel sedursi reciprocamente le loro stesse mogli». La via d’uscita, scrivono, è «l’abolizione degli attuali rapporti di produzione»: «solo così — proseguono — scompare anche la comunanza delle donne, che deriva da tali rapporti, cioè la prostituzione ufficiale e quella non ufficiale» (inatteso scatto moralistico, che pone sullo stesso piano adulterio e prostituzione). Il logo del Festival è Storia, in programma a Gorizia dal 23 al 26 maggio. Però la «comunanza delle donne» viene poi recuperata, sia pure in sede di ritorsione polemica: «Il matrimonio borghese è in realtà la comunanza delle mogli. Tutt’al più si potrebbe rinfacciare ai comunisti che essi, al posto di una comunanza delle mogli ipocritamente occultata, vogliono instaurarne una ufficiale, palese». Da questa inattesa svolta dialettica si dovrebbe evincere che ha un fondamento «rinfacciare» ai comunisti che essi intendono instaurare tale «comunanza». Qui parrebbe perciò prodursi una singolare incrinatura del ragionamento, visto che, poco prima, s’è parlato di «presunta» aspirazione dei comunisti alla «comunanza delle donne». Ma la contraddizione i due autori la risolvono (quantunque il testo risulti comunque poco chiaro) ponendo in contrapposizione la cattiva «comunanza» praticata dai borghesi (il cui perbenismo familiare ha due facce: lo «scambio» delle mogli tra borghesi e l’utilizzo ricattatorio delle donne proletarie) alla buona «comunanza» proclamata apertamente, quella appunto che i borghesi «rinfacciano» ai comunisti. Tale buona «comunanza» discende culturalmente dalla koinonía gynaikôn («comunanza delle donne») ipotizzata da Platone, nel quinto libro della Repubblica, per la sua città ideale: modello che fu trasportato di peso da Tommaso Campanella nella sua utopica Città del Sole. Si tratta di una visione arretrata e arcaica: un arretramento rispetto alla tradizione letteraria e filosofica sette-ottocentesca di «amore libero», recepita in forma simpatetica e quasi pedantesca da Charles Fourier (peraltro l’unico «utopista» per il quale Marx manifesta rispetto!). Si può osservare che nel concetto stesso di «comunanza delle donne» è insito un punto di vista dispoticamente maschile, che «reifica» l’oggetto della comunanza. Ed è ciò che Aristofane mette in rilievo, con l’arma del grottesco, nella commedia Le donne all’assemblea popolare che ha di mira esattamente la proposta platonica «codificata» nel quinto libro della Repubblica. In quella commedia, è una donna, Prassagora, che legifera in senso comunistico. Essa mette subito in chiaro che, nell’attuazione della messa in comune dell’eros, le donne avranno l’iniziativa e la prevalenza. Affinché gli spettatori ridano della trovata platonica, Prassagora-Aristofane stabilisce anche una regola: che le «vecchie» avranno la prelazione rispetto alle «giovani» nel fruire liberamente degli uomini (norma che determina un parapiglia quando, nel seguito della commedia, si tenta di metterla in pratica). Prassagora-Aristofane crea, insomma, regole in forza delle quali sono gli uomini che vengono «messi in comune» da parte delle donne. Lo fa per far «saltare» la proposta platonica (che fece scandalo e che, secondo Aristotele nel secondo libro della Politica, fu peculiare proposta del solo Platone). Ma non è il solo risultato che ottiene: oltre a far risaltare la difficoltà insita in tali «comunanze», mira a smascherare, capovolgendola, l’impostazione «maschiocentrica» di Platone (rimasta viva in tutta una tradizione che giunge fino a quella pagina di Marx). E sembra quasi voler affidare a una protagonista «eroica» (Prassagora) il messaggio di una vera ed egualitaria comunanza. Archiviato lo scoglio della comunanza, resta il fatto che la parte più viva e importante delle pagine del Manifesto sul tema della famiglia è la denuncia dell’ipocrisia classista con cui la borghesia pratica e difende questa istituzione. La denuncia racchiusa in quelle pagine trova riscontro non soltanto nella narrativa precedente, coeva e successiva all’anno simbolo 1848 (basti pensare alla sezione dei Miserabili di Victor Hugo intitolata «Fantine»), ma anche e soprattutto nelle più recenti ricerche di storia della famiglia: in particolare su «classe operaia e forme familiari» nella rivoluzione industriale. Questo tema, rispetto al quale le Chiese mostrarono insensibilità, fu affrontato nel 1993 da Wally Seccombe in un saggio, Famiglie nella tempesta, apparso anche in italiano qualche anno più tardi; nonché in tutta la serie di studi sulla Histoire de la famille che è merito delle «Annales» aver rilanciato e imposto.
· Il Male è Donna.
LA SCIAGURA È DONNA. Silvia Truzzi per il “Fatto quotidiano” il 7 ottobre 2019. Ripetiamo spesso che all' antica Grecia, di cui amiamo definirci eredi, dobbiamo tutto. La cultura, l' idea di democrazia, la storiografia, la filosofia, la scienza, il teatro Lungo elenco a cui Eva Cantarella - grecista e giurista - aggiunge anche alcuni aspetti, "legati al loro modo di intendere il rapporto tra generi".
Professoressa, il libro s' intitola "Gli inganni di Pandora". Era la Eva dei greci?
«In realtà Pandora ha una storia ben peggiore. Nella Genesi si dà conto della nascita di Eva, la compagna di Adamo, creata da una sua costola, destinata a tenergli compagnia: dunque in posizione subalterna. Per renderci conto di quale sia la sorte destinata a Pandora dobbiamo tornare a Prometeo, reo di aver rubato il fuoco agli dèi, consentendo agli uomini lo sviluppo della civiltà. Per punirlo (e con lui l'intera umanità che beneficia del furto) gli dèi creano Pandora, un prodotto artigianale fatto di terra e acqua. Tutti gli dèi le fanno dei doni: è bellissima e seducente, ma ha anche un'indole ambigua, un cuore pieno di menzogne e discorsi ingannatori».
Il risultato è la prima donna.
«Che era "un male così bello" - kalon kakon, come la definisce Esiodo - da renderla inevitabilmente "un inganno al quale non si sfugge". E infatti gli uomini cominciano a conoscere l'infelicità, perché Pandora - spinta dalla curiosità che da allora "è femmina" - apre il famoso vaso che contiene tutte le calamità del mondo. Sul fondo rimane solo Elpis, la speranza. Dopo l'arrivo di Pandora, all'umanità non resta che quella».
Il libro parte dal racconto mitico ma poi passa al pensiero logico, che però è ugualmente scoraggiante.
«Nel Corpus Hippocraticum - in cui sono raccolte opere mediche di varia attribuzione - si leggono cose incredibili. Del corpo delle donne, specie dei loro organi interni, i medici allora sapevano ben poco: la dissezione dei cadaveri comincia solo nel II secolo. Quindi si basano sul sangue mestruale. C'è chi dice che ne hanno troppo, dato che lo espellono con le mestruazioni, e chi pensa invece che proprio per questo ne abbiano meno degli uomini. La cosa su cui tutti erano d'accordo è che nei corpi femminili il sangue iniziava ad accumularsi nell'utero con la pubertà, all'arrivo della quale le ragazze dovevano assolutamente sposarsi. Se non lo facevano il sangue, non trovando una via di uscita, provocava sintomi simili a quelli dell'epilessia».
Platone, nel Timeo , parla dell'utero come di un organo "vagante". Ce lo spiega?
«Lo dicono in molti, e ci crede anche Platone. Ma Platone aveva un rapporto speciale con le donne. Per gli uomini greci era abituale avere rapporti amorosi e sessuali anche con altri uomini: il rapporto "pederastico", con un ragazzo tra i 13 ei 17 anni circa, era parte integrante della formazione del cittadino greco. Nel corso della loro vita quindi essi avevano sia rapporti che noi chiameremmo omosessuali sia rapporti etero (parole che peraltro contestualizzate in Grecia non hanno alcun senso). Ma a Platone le donne non interessavano minimamente e a dir la verità ne aveva un'opinione tutt' altro che lusinghiera. Come dimostra, ad esempio, la sua celebre teoria sulla reincarnazione, secondo la quale al momento della morte, coloro che avevano vissuto bene, sarebbero tornati all' astro dal quale erano discesi. Ma quelli che avevano vissuto male "sarebbero trapassati in natura di donna; e se neppure allora avesse smesso la loro malvagità, si sarebbero tramutati ogni volta in qualche natura ferina, a seconda delle cattive inclinazioni che si fossero ingenerate in lui" (Timeo, 42, b-c). Ma torniamo all'utero vagante, da cui eravamo partiti . Secondo gli ippocratici se il sangue restava troppo a lungo nell'utero senza poter raggiungere la vagina (nelle giovani vedove, ad esempio, o per lontananza dei mariti) poteva accadere che andasse alla ricerca di organi più umidi, in altre parti del corpo come il cuore o i polmoni».
Oreste viene processato per l'uccisione della madre.
«Ma viene assolto. Nell’Orestea di Eschilo (la tragedia che vieta la vendetta, segnando la nascita del diritto), il primo tribunale ateniese, creato da Atena per giudicare Oreste, lo assolve perché "non è la madre la genitrice, ma il padre". Un'opinione evidentemente condivisa dalla maggioranza degli ateniesi».
I greci avevano perfino dubbi sul fatto che le donne contribuissero a fare i figli!
«Aristotele però ammetteva che avessero un ruolo. Secondo lui il sangue era il cibo che, se non espulso dall' organismo, veniva elaborato dal calore corporeo. Ma la donna, avendo un calore corporeo minore, non poteva compiere l'ultima trasformazione, grazie alla quale, negli uomini, il sangue diventava sperma. E dato che la riproduzione aveva luogo quando il seme maschile "cuoceva" il residuo femminile, il contributo femminile era quello passivo della materia».
Viviamo il tempo della fluidità: la Mattel mette sul mercato una Barbie che può essere maschio o femmina. Che ne pensa?
«Intanto voglio dire che esistono anche le situazioni intermedie, che sono naturali e non mostruosità. Però trovo pericoloso responsabilizzare bambini piccoli rispetto a questioni esistenziali così importanti.
Sono passati millenni, ma certi retaggi restano: qual è il peggiore?
«Quelli legati alla cura e alla maternità, il concetto di proprietà della donna che sta alla base dei femminicidi. E poi il fatto che le donne che non vogliono figli si devono giustificare: è uno stigma sociale che trovo insopportabile».
· Donne al Volante…
DONNE AL VOLANTE, PERICOLO COSTANTE. Rachel Premack per it.businessinsider.com il 25 agosto 2019. Le compagnie automobilistiche americane credono che un tipo di manichino di prova femminile sia sufficiente a effettuare test per garantire che le donne non muoiano in incidenti automobilistici. E questo manichino è alto 1,52 metri e pesa 50 kg. È incredibilmente lontano dalla costituzione di una donna americana media. Secondo il National Center for Health Statistics, questa in realtà pesa 77 kg ed è alta quasi 10 centimetri in più del manichino da test. Le vittime donne di incidenti stradali hanno il 73% di probabilità in più di morire o subire un grave infortunio in un incidente automobilistico, secondo un nuovo studio dell’Università della Virginia. Questo al netto di tutti i diversi fattori nel corpo di un passeggero, del modello di auto e di se il passeggero indossi o meno una cintura di sicurezza. Sarah Holder di CityLab ha scritto per la prima volta dello studio il 18 luglio e ha sottolineato che il manichino che non è realmente rappresentativo è probabilmente la causa della probabilità significativamente maggiore che le donne rimangano uccise o menomate in un incidente automobilistico. I manichini da test maschili, che rappresentano l’unico modello che è stato ampiamente utilizzato fino al 2003, quando fu introdotto il manichino femminile da 50 chili, sono molto più rappresentativi della popolazione maschile, hanno detto i ricercatori a CityLab. “Costruttori e designer erano tutti uomini”, ha detto a ABC News nel 2012 il Dr. David Lawrence, direttore del Centro per la prevenzione degli infortuni, presso l’Università statale di San Diego. “Non gli è passato neanche per la testa che avrebbero dovuto progettare manichini anche per gente diversa da loro. Bene, abbiamo superato questo. ” Il bisogno di un manichino di test sia maschile che femminile nasce semplicemente dai “modi in cui uomini e donne sono diversi biomeccanicamente”, ha detto a CityLab Jason Forman, uno dei principali scienziati del Center for Applied Biomechanics di UVA e autore di uno studio.
· Donne Spaziali.
Gaia Scorza Barcellona per repubblica.it il 18 ottobre 2019." La Nasa festeggia la passeggiata nello spazio di Christina Koch e Jessica Meir. E' la prima volta che nello spazio si avventurano due donne, uscite insieme per un intervento all'esterno della Stazione spaziale internazionale. L'attività extraveicolare (Eva) - come è chiamata in gergo tecnico - per loro era stata programmata a marzo, ma la Nasa aveva dovuto annullarla quattro giorni prima per problemi legati all'equipaggiamento: non si erano trovate tute della giusta misura. Una delle due disponibili di taglia media non era pronta per l'occorrenza. Una svista, certo, ma forse anche la riprova di una mancata routine. Così due giorni fa Meir ha indossato la tuta giusta ed è comparsa su Twitter commentando: "sarà molto più spettacolare una volta passato il portellone". Il traguardo era vicino, e nessuna "passerella" nello spazio in vista a sminuire l'evento. Oggi Koch e Meir sono uscite alle 11.38 per trascorrere diverse ore (dalle 5 alle 6,5) aggiustando l'unità di ricarica delle batterie che si è guastata lo scorso fine settimana. Un'operazione in orbita non è mai banale, ma a rendere ancora più speciale la passeggiata spaziale di oggi è stata la stessa Nasa che l'ha definita "HERstory", lasciando che gli altri quattro membri dell'equipaggio restassero a guardare dalla Iss. All’ora X la prima ad aver messo naso fuori è stata Koch, a bordo da sette mesi e pronta a segnare il record di 300 giorni consecutivi per una donna in una singola missione, seguita da Meir munita di borsa con gli attrezzi per fare la riparazione. "E' vero festeggiamo, ma molti di noi vorrebbero che diventasse una cosa normale", ha commentato in diretta Tracy Caldwell Dyson, astronauta Usa con tre passeggiate nello spazio alle spalle, effettuate nel 2010 durante l'Expedition 21. "La nostra passeggiata di sole donne si sta compiendo oggi!", ha scritto l'agenzia spaziale americana nel messaggio dedicato all'impresa. E anche il profilo Twitter della Stazione spaziale internazionale ha condiviso l'evento: "Venerdì 18 ottobre è un giorno storico: la prima passeggiata spaziale tutta al femminile!". Fino ad ora non era mai accaduto che due donne si avventurassero sole nello spazio e chi ama seguire le operazioni che la Nasa trasmette in streaming da lassù può ben dire che faceva un certo effetto sentire solo voci femminili fuoriuscire dai microfoni per ragguardare puntualmente sulle operazioni in corso. Alle comunicazioni brevi e concise delle due astronaute in orbita, si aggiungeva quella di Stephanie Wilson, a coordinare la passeggiata dalla sala di controllo Nasa. Per l'occasione è stato creato l'hashtag #AllWomanSpacewalk e poco prima dell'uscita il capo della Nasa Jim Bridenstine ha promesso di nuovo che l'agenzia si impegnerà perché "un uomo e una donna" vengano spediti sulla Luna (o su Marte) nella prossima missione. Cinquant'anni fa a sbarcare sul nostro satellite naturale per la prima volta furono due uomini. Stesso primato mantenuto nelle passeggiate spaziali: dei 227 astronauti che possono dire di averle fatte solo 14 sono donne. La prima fu la cosmonauta russa, Svetlana Savitskaya, uscita dalla stazione spaziale Salyut 7 dell'Urss nel 1984, vent'anni dopo il primo "spacewalker" Alexei Leonov. Jessica Meir (Nasa) e Christina Koch fanno parte dell'equipaggio della Expedition 61 al cui comando dal 1 ottobre è l'astronauta italiano Luca Parmitano, che resterà in orbita fino a febbraio. Con loro a bordo della Stazione spaziale internazionale ora ci sono anche Andrew Morgan (Nasa), Alexander Skvortsov (Roscosmos), Oleg Skripochka (Roscosmos). Oggi Koch e Meir sono uscite alle 11.38 per trascorrere diverse ore (dalle 5 alle 6,5) aggiustando l'unità di ricarica delle batterie che si è guastata lo scorso fine settimana. Un'operazione in orbita non è mai banale, ma a rendere ancora più speciale la passeggiata spaziale di oggi è stata la stessa Nasa che l'ha definita "HERstory", lasciando che gli altri quattro membri dell'equipaggio restassero a guardare dalla Iss. All'ora X la prima ad aver messo naso fuori è stata Koch, a bordo da sette mesi e pronta a segnare il record di 300 giorni consecutivi per una donna in una singola missione, seguita da Meir munita di borsa con gli attrezzi per fare la riparazione. "E' vero festeggiamo, ma molti di noi vorrebbero che diventasse una cosa normale", ha commentato in diretta Tracy Caldwell Dyson, astronauta Usa con tre passeggiate nello spazio alle spalle, effettuate nel 2010 durante l'Expedition 21. "La nostra passeggiata di sole donne si sta compiendo oggi!", ha scritto l'agenzia spaziale americana nel messaggio dedicato all'impresa. E anche il profilo Twitter della Stazione spaziale internazionale ha condiviso l'evento: "Venerdì 18 ottobre è un giorno storico: la prima passeggiata spaziale tutta al femminile!". Fino ad ora non era mai accaduto che due donne si avventurassero sole nello spazio e chi ama seguire le operazioni che la Nasa trasmette in streaming da lassù può ben dire che faceva un certo effetto sentire solo voci femminili fuoriuscire dai microfoni per ragguardare puntualmente sulle operazioni in corso. Alle comunicazioni brevi e concise delle due astronaute in orbita, si aggiungeva quella di Stephanie Wilson, a coordinare la passeggiata dalla sala di controllo Nasa. Per l'occasione è stato creato l'hashtag #AllWomanSpacewalk e poco prima dell'uscita il capo della Nasa Jim Bridenstine ha promesso di nuovo che l'agenzia si impegnerà perché "un uomo e una donna" vengano spediti sulla Luna (o su Marte) nella prossima missione. Cinquant'anni fa a sbarcare sul nostro satellite naturale per la prima volta furono due uomini. Stesso primato mantenuto nelle passeggiate spaziali: dei 227 astronauti che possono dire di averle fatte solo 14 sono donne. La prima fu la cosmonauta russa, Svetlana Savitskaya, uscita dalla stazione spaziale Salyut 7 dell'Urss nel 1984, vent'anni dopo il primo "spacewalker" Alexei Leonov. Jessica Meir (Nasa) e Christina Koch fanno parte dell'equipaggio della Expedition 61 al cui comando dal 1 ottobre è l'astronauta italiano Luca Parmitano, che resterà in orbita fino a febbraio. Con loro a bordo della Stazione spaziale internazionale ora ci sono anche Andrew Morgan (Nasa), Alexander Skvortsov (Roscosmos), Oleg Skripochka (Roscosmos). La prima donna a volare nello spazio è stata la cosmonauta sovietica Valentina Tereskova, che nel giugno 1963 ha effettuato 49 orbite terrestri nel corso di quasi tre giorni di missione. La prima astronauta americana è stata Sally Ride nel 1983 con lo Space Shuttle. La prima italiana è Samantha Cristoforetti, che con la missione "Futura" del 2014-2015 sulla Iss ha stabilito il record femminile di permanenza nello spazio in un singolo volo, 199 giorni, poi superato dalla statunitense Peggy Whitson.
· La Mafia è femmina.
LA CAMORRA È FEMMENA. Vincenzo Iurillo per "il Fatto Quotidiano” il 28 giugno 2019. Il ruolo apicale delle donne dei clan di camorra a Napoli è ben riassunto in una frase del pentito Mario Lo Russo. Sentito dai pm il 12 settembre 2016 per riferire sui capi dell' Alleanza di Secondigliano, a una domanda sul clan Licciardi, Lo Russo risponde: "Erano diretti da Maria Licciardi". Il salto di qualità è compiuto: le signore della camorra non svolgono più una funzione di supplenza degli uomini del clan in situazioni d' emergenza - omicidio, latitanza prolungata o cattura del boss di riferimento - ma assumono in prima persona i pieni poteri. "Maria Licciardi era indiscutibilmente il capo del suo clan, riconosciuta da tutti in quanto tale, sia interni che esterni", riassume il Gip di Napoli Roberto D' Auria che ha firmato l' ordinanza di 126 misure cautelari. Duemila pagine frutto di una inchiesta di 'sistema' - pm Ida Teresi, procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli - che la Direzione distrettuale antimafia della Procura di Napoli ha avviato nel 2012 annodando i fili dei rapporti tra alcuni dei clan più potenti della città, i Contini, i Mallardo e i Licciardi. Un patto di sangue e di affari. L' Alleanza di Secondigliano. A rappresentare i Licciardi a quel tavolo dove si decideva la spartizione dei territori e le missioni di terrore c' era Maria "a Piccerella", la sorella di Gennaro Licciardi “a scigna” (la scimmia), morto in carcere a Voghera nel 1994 dopo aver fondato il clan che ha tuttora la sua roccaforte nella Masseria Cardone, all' interno del quartiere di Miano, periferia nord di Napoli. Anche Maria ha conosciuto la prigione, a Benevento, nei primi anni 2000. E se una volta erano le donne a portare all' esterno le imbasciate e gli ordini degli uomini detenuti, nel suo caso è esattamente il contrario. Dalle conversazioni registrate in carcere, si scopre che è il marito "ad assumere le redini del clan sotto la costante direzione della moglie". Maria Licciardi fu catturata dopo due anni di latitanza, e anche stavolta si è data alla fuga, gli investigatori non sono riusciti a rintracciarla all' alba del maxi blitz. Sono invece finite in carcere le tre sorelle Anna, Maria e Rita Aieta, mogli di Francesco Mallardo, Edoardo Contini e Patrizio Bosti, e Rosa Di Nunno, moglie di Salvatore Botta. A tutte è stato riconosciuto il ruolo di capo all'interno dell'Alleanza. "Le donne avevano un ruolo rilevante sia per i collegamenti con il sistema penitenziario, sia per la capacità di assumere decisioni e di pretenderne il rispetto" ha spiegato il procuratore capo Giovanni Melillo.
Il potere di Maria "la Scimmia". L' autorevolezza di Maria Licciardi si evidenzia nella vicenda del debito di gioco di 15mila euro contratto dal figlio minorenne di un tale P. R. "Li prendiamo tranquillamente quello tiene i soldi", dicono tra loro i creditori. Non è così. L' uomo stenta a onorare le pendenze. E chiede a Maria "a scigna" (l' altro suo soprannome) un intervento per ottenere una dilazione. La storia emerge da una intercettazione ambientale. T. - E quell' altro, il figlio di P. R. - (inc) poi si rivolge a Maria "la scimmia" non li tiene a tanto alla volta ma quello è sbagliato invece di prenderlo e dirgli: scornacchiato, hai giocato? Non devi pagare a questi? Invece si rivolge a quella e ora vediamo dai 1.300 a 1.000 al mese ma che stai dicendo? () sta pieno di debiti a piangere da Maria: ma quella dice; tu giochi? Quando hai vinto ti hanno dato i soldi? E quando perdi paghi. S. - Sono cose di gioco Alla fine, anche grazie a Maria Licciardi, si troverà un accordo per una dilazione a 2.000 euro mensili. "Il rispetto per la donna era massimo - scrive il giudice - tanto che, sebbene il suo operato non fosse condiviso, comunque le richieste da lei avanzate trovavano fattiva realizzazione", per via dell' intesa di ferro tra i Licciardi e i Contini. Come nel caso del pagamento di un credito. Maria Licciardi si rivolge a Peppe, uno dei Contini. L' ordine è chiaro. La vittima va minacciata, e se necessario bastonata a sangue. "Sto aspettando a questo cornuto - esclama l' esattore - ma penso che abbusca dopo Ha detto Peppe. Se non ti dà i soldi picchialo". Anche stavolta il debitore proporrà una rateizzazione. Dovrà discuterla con Maria Licciardi in persona.
La dura legge delle sorelle Aieta. Per una estorsione da un miliardo quando la moneta era la lira, Anna è stata recentemente condannata in primo grado a 13 anni. Maria, con lo sconto di pena del rito abbreviato, se l' è cavata con 8 anni. Mentre di Rita Aieta parla così un pentito, Alfredo De Feo: "Dico subito che è persona che comanda nel clan Contini ed ha anche voce in capitolo sulle mesate (gli stipendi agli affiliati del clan, ndr). Ricordo per esempio che tolse la mesata per alcuni mesi ad uno, perché la moglie non l' aveva salutata rispettosamente". Sono sgarri che vanno puniti in qualche modo. Dovette intervenire il nipote dell' uomo su Ettore Bosti, il figlio di Rita, per far ripristinare lo stipendio allo zio.
Maddalena Oliva per “il Fatto Quotidiano” il 28 giugno 2019. Nella camorra non esiste Famiglia senza famiglia di sangue. Lo ha ricordato l' ultima relazione semestrale della Dia: "La presenza di parenti all' interno della catena di comando conferma la centralità della famiglia quale strumento di coesione. È in questo contesto che le donne assumono, sempre più spesso, ruoli di rilievo nella gerarchia dei clan, in assenza dei mariti, o coi figli detenuti". A Napoli, scompaiono i capi carismatici, e mogli e figlie ne prendono il posto. Oggi Maria Licciardi, ieri Pupetta Maresca. Ma è da tempo che le donne a Napoli partecipano alle attività illegali. La loro presenza, attiva, è radicata nella storia della camorra (e della città). A partire dall' Ottocento, e poi nel mondo del contrabbando di sigarette. Raccontava il boss dei Quartieri Spagnoli, Mario Savio: "Le contrabbandiere avevano un' abilità particolare perché riuscivano a stringere tra le cosce le valigie usate come banchetto per le sigarette e a camminare, tenendole nascoste sotto i gonnoni, con passo normalissimo, sfilando davanti ai finanzieri". Capacità organizzativa, gestione degli affari, le vediamo complici nel fiancheggiare e spalleggiare i loro uomini, o pronte ad assalire in difesa dei propri parenti. "Capesse", trafficanti di droga, usuraie, assassine, oltreché mogli, madri, sorelle, amanti. Secondo i dati raccolti da Anna Maria Zaccaria, dell' Università Federico II , sulle donne detenute per camorra, 1 su 3 risulta essere moglie o compagna di un capoclan: è quindi il legame sentimentale/coniugale a connotare la loro appartenenza. Nel 45% dei casi, ricoprono un ruolo di "gregaria", prima ancora che di pusher o di corriere (29%) o di leader (25%). A dimostrazione dello sfruttamento, o meglio della valorizzazione, della capacità femminile di fare rete. C' è un mondo che pare averlo capito, e messo a Sistema, molto più velocemente di quello che, parallelo, gli corre di fianco.
TACCO 12 E ARROGANZA: LA ‘NDRANGHETA ORA E’ FEMMINA. Alessia Candito per il Venerdì-la Repubblica il 30 aprile 2019. Outfit all’ultima moda, borse e occhialoni griffati, piglio da donne in carriera. E arroganza. Si presentano davanti ai giudici chiamati a decidere se spedirle dietro le sbarre, fresche di messa in piega e su tacco 12. Sono le professioniste di fiducia della ‘ndrangheta. Sono sempre più spregiudicate e per i clan sempre più necessarie. Se nell’immaginario collettivo la donna di ‘ndrangheta assomiglia ad una signora vestita di nero, magari anche baffuta, sempre sottomessa ai maschi di famiglia, nella realtà è invece tutt’altra cosa. Oggi mostrano un volto del tutto nuovo. Ma è solo un aspetto della loro trasformazione. «La donna ha sempre avuto un ruolo importante nella criminalità organizzata calabrese» dice il comandante della Squadra Mobile di Reggio Calabria, Francesco Rattà. «Sono sempre state loro a tessere i fili della vendetta, a innescare o comporre conflitti anche sanguinosi, a crescere le nuove generazioni di affiliati. Oggi stanno solo rivendicando un ruolo fuori dalle mura domestiche».
La ‘ndrangheta non è una monade. I cambiamenti sociali toccano le corde intime dell’organizzazione e spesso chi la governa è bravo a cavalcare l’onda, se non ad anticiparla. Mentre aziende, ordini professionali e pubblica amministrazione continuano a storcere il naso di fronte a donne in posizioni apicali, la ‘ndrangheta da tempo ha imparato a cercare commercialiste, avvocate, consulenti, esponenti delle istituzioni. Insomma, in linea con i tempi che cambiano. La filosofia è stare al passo, aggiornare le avanguardie della malavita. E poi chi potrebbe mai pensare che l’organizzazione criminale che più si è raccontata in termini di machismo e tribalismo possa affidare proprio alle donne le vite e le fortune dei propri affiliati? Gli esempi ormai si contano a decine, perché anche nel mondo dei clan il ruolo della donna è questione di classe e di rango. «Non facciamoci ingannare: le signore della ‘ndrangheta, non sono la faccia presentabile del crimine organizzato» sottolinea il procuratore aggiunto giunto della Dda di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo. «Spesso sono le menti nascoste di un sistema criminale di cui custodiscono i segreti ed alimentano i rancori. La loro parola condiziona le scelte che contano, dando vita a faide cruente e guerre infinite. Oggi assumono ruoli di comando, non limitandosi più ad occupare quelli di “supplenza”. Non è più consentito pensare di poter contrastare i fenomeni criminali di tipo mafioso, sempre più estesi e sofisticati, senza aver compreso che la forza delle mafie va ricercata nella capacità di rinnovare valori deviati, che proprio le donne contribuiscono a rendere forti e condivisi». Per molto tempo però la forza, il potere e l’influenza delle donne sono state sottovalutate. Maria Serraino, divenuta negli anni Settanta la regina di piazza Prealpi e dello spaccio di cocaina ed eroina a Milano; sua nipote Marisa Merico, ex principessa del narcotraffico e del contrabbando di armi, boss di San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria; Aurora Spanò, condannata a 23 anni come capo del suo clan; Ilenia Bellocco, che a forza di irripetibili bestemmie faceva rigar dritto gli affiliati. Sono sempre state considerate eccezioni alla regola. Ma in realtà dentro e fuori dai clan, il pallino del potere mafioso, degli affari e delle strategie criminali è sempre più nelle mani delle donne. Ne era perfettamente consapevole quella che gli inquirenti considerano la “criminologa dei clan”, Angela Tibullo, arrestata nell’agosto scorso a Reggio Calabria, e dopo qualche mese confinata ai domiciliari.
Per diventare la “regina della penitenziaria”, a soli 36 anni, non avrebbe esitato a corrompere medici e periti per strappare scarcerazioni per i suoi assistiti, confezionare insieme a loro referti ad hoc, trasformare agenti penitenziari in postini e informatori. In cambio, offriva serate in compagnia di escort o denaro. Molto denaro. «Per invogliarmi mi spiegò che l’ultimo perito che aveva ricompensato si era “fatto la Pasqua“ con quello che aveva ricevuto e, probabilmente, si era fatto pure l’estate» ha raccontato agli inquirenti uno dei professionisti che non si è piegato. Volto noto dei salotti televisivi locali e nazionali, di fronte alle telecamere, la Tibullo si mostrava come seria e posata professionista. Quello che ha colpito gli investigatori durante le intercettazioni sono stati i toni e i modi. «Questa carta qua» diceva ad uno dei boss che grazie a lei sperava in una scarcerazione «costa diecimila euro». E con i loro familiari, tutti affiliati di alto rango, parlava da pari a pari, con l’arroganza di chi si sente indispensabile e con la familiarità della persona di fiducia. Stessa confidenza che ha sempre mostrato con il boss Matteo Alampi l’avvocata Giulia Dieni. Un tempo legale di grido e gran frequentatrice di salotti e locali cittadini, poi travolta da un’inchiesta antimafia e finita nella polvere. I giudici l’hanno condannata in primo grado e in appello per aver permesso al boss, all’epoca detenuto, di mantenere il pieno controllo del suo clan, come delle aziende in teoria sequestrate. In cambio di soldi, gioielli, regali. In altre parole, sostengono i giudici, era diventata “la portavoce” di Alampi. Se uno degli affiliati veniva convocato dal legale, per tutti il significato era chiaro: «Ti vuole parlare Matteo...», spiega uno di loro intercettato. «Ma nella società» dice un investigatore «si stenta ancora a credere che una donna possa volutamente scegliere di ricoprire questo ruolo». Sarà per questo che l’avvocata Giulia Dieni continua a esercitare la professione? Non è dato sapere. Di certo, contro di lei, il suo Ordine non si è affrettato a prendere provvedimenti. Al contrario, ha fatto scadere i termini per decidere sulla sospensione cautelare dall’esercizio della professione senza arrivare ad un verdetto. L’avvocato incaricato di relazionare sul caso ha sostenuto di avere troppo poco tempo per esaminare i documenti e comunque di aver bisogno di carte ulteriori. La sezione distrettuale di disciplina forense si è limitata a prenderne atto. Risultato? L’avvocata Dieni, condannata per i rapporti ambigui con i propri clienti, ha continuato ad entrare e uscire da carcere per parlare con i detenuti, frequentare le aule giudiziarie, trattare con i parenti. Prima dell’arresto, era una professionista di grido anche Roberta Tattini. Figlia della buona borghesia bolognese, per anni è stata una consulente finanziaria molto nota in città. Poi, alla sua porta ha bussato il boss Nicolino Grande Aracri, «il capo di giù, di Cutro, il sanguinario» raccontava lusingata. «È gente che ha i segni delle pallottole addosso. Ieri mi sono sentita importante». Il patriarca le ha chiesto una mano per sistemare una serie di affari e lei non si è tirata indietro. Anzi, la considera una grande occasione. «Fulvio, mi sta dando un’opportunità! È un affare e guadagno un milione di euro» dice al marito, che tenta inutilmente di metterla in guardia. Ma lei si sente tranquilla, nonostante sia consapevole dei rischi. «Siete uomini d’onore» la ascoltano dire gli investigatori. «Voglio il vostro migliore avvocato a difendermi, perché ho paura che con il mio sto dentro vent’anni. Invece voi mi tirate fuori». Aspettative infrante da una condanna definitiva a 8 anni e 8 mesi.
· Pippi calzelunghe e la libertà dagli stereotipi.
Grazie Pippi Calzelunghe, ci hai insegnato la libertà. Cinquant’anni fa andava in onda per la prima volta la serie tv. Angela Azzaro il 24 Agosto 2019 su Il Dubbio. Ognuno di noi deve ringraziare uno scrittore o una scrittrice, un pittore, un poeta o una regista che con una sua opera, un suo personaggio, una sua intuizione non solo ci ha emozionati, ma ci ha cambiato la vita. È quello che è successo per molte donne nel mondo quando hanno letto Pippi Calzelunghe di Astrid Lindgren, la scrittrice svedese morta nel 2002 all’età di novantacinque anni. È grazie alla sua fantasia che milioni di bambine nel mondo hanno potuto identificarsi con un personaggio femminile libero, ribelle, felice. Un personaggio rivoluzionario. Invece delle solite principesse, principi azzurri, baci, rane e ranocchi, piomba nell’immaginario collettivo una bambina magica e autonoma, capace e determinata, circondata da strani animali che considera la sua famiglia. Il romanzo viene pubblicato nel 1945. Lindgren si inventa la storia di Pippi Calzelunghe per la sua bambina, e costretta a letto da una caviglia rotta la mette per iscritto. Quasi venti anni dopo, nel 1969, è il momento della serie tv che consacra definitivamente il romanzo, la storia e la scrittrice. Capelli rossi legati in due code laterali, lentiggini, sorriso smagliante, scarpe enormi e calze lunghe, Pippi conquista da subito anche il pubblico italiano. Vive sola in una casetta sull’isola di Gotland con – come recita la bellissima sigla italiana – un cavallo a pois neri e la scimmia, che chiama signor Nilson. Il padre è un pirata dei mari del Sud. Le sue assenze non sono motivo di tristezza, come non crea nessun problema la mancanza della madre. Anzi, è forse proprio questa la scelta vincente. Per essere autonoma, libera e felice Pippi si deve liberare dal modello materno, stare lontana anche dal padre, da prendere a piccole dosi, e costruire da sola una nuova vita. Lindgren è stata pubblicata in oltre cento Paesi e tradotta in circa settanta lingue. Ma nella sua vasta e preziosa produzione non c’è solo la ragazzina ribelle. Ci sono una marea di personaggi e di avventure, alcuni dei quali diventano altrettante serie tv: L’isola dei gabbiani, Karlsson sul tetto, Emily. Sono tutte storie che raccontano un’infanzia in cui bambini e bambine stanno sullo stesso piano, giocano allo stesso modo, amano ugualmente l’avventura. Lindgren smonta gli stereotipi, distrugge i ruoli e con Pippi Calzelunghe compie il miracolo: costruire una storia di libertà da cui non si può tornare indietro. Ben prima che in Italia venisse pubblicato il saggio Dalla parte delle bambine di Elena Gianini Belot- ti, la scrittrice svedese spezza le catene di un immaginario dogmatico e stereotipato e dice alle bambine di tutto il mondo: anche voi potete sognare, anche voi potete fare le magie, anche voi potete salire sugli alberi, anche voi potete vivere da sole, anche voi… Ma non lo dice solo alle bambine. Lo dice anche ai bambini. Anche loro liberati da fardelli e ruoli, possono sprigionare la propria immaginazione. Non è un caso che Stieg Larsson, l’autore della trilogia Millennium, poi proseguita da un altro scrittore, facesse spesso riferimento a Lindgren. Uomini che odiano le donne, primo romanzo della trilogia, non poteva che essere scritto da un uomo che aveva messo in discussione se stesso e la propria identità anche grazie alle sue letture. La protagonista Lisbeth Salander che si vendica dell’uomo che la ha violentata si ispira a Pippi Calzelunghe. La trilogia è piena di riferimenti e lo stesso Larsson ammise la filiazione. Lisbeth è una Pippi dell’era digitale, una ribelle di oggi alle prese con un mondo poco fiabesco e molto violento. Eppure del personaggio di Lindgren conserva la determinazione, l’indipendenza, la voglia di raggiungere i propri obiettivi. Anche lei vive sola, non si arrende mai, neanche quando tutto sembra precipitare. Millennium è una bellissima trilogia, un affresco in alcuni casi addirittura profetico sulle contraddizioni del mondo occidentale. Ma è soprattutto un inno alla libertà femminile. Anche il protagonista maschile della trilogia, Mikael Blomkovist, si ispira al quasi omonimo giovane detective di Lindgren, e per prenderlo in giro lo chiamano come lui, Kalle. Un altro bel libro, un’altra bella storia. Oggi non ci resta che sperare che le nuove generazioni di bambini e bambine leggano il romanzo e vedano la serie tv. Molte cose sono cambiate ma l’immaginario collettivo è forse l’ambito più restio a registrare i mutamenti identitari e sociali. Per quello Pippi Calzelunghe resta ancora oggi il manuale delle ragazzine ribelli, delle ragazzine che vogliono giocare, divertirsi, stare all’aria aperta, sperimentando tutto quello che il mondo offre. L’arte della libertà si impara fin da piccole e il personaggio di Pippi Calzelunghe è il miglior esempio che si possa augurare anche alle bambine di oggi.
· Le "Eroine" da protesta.
Costanza Cavalli per “Libero Quotidiano” il 13 agosto 2019. Sono serviti nove agenti per arrestare Lyubov Sobol, 31 anni, professione avvocato: tre donne e sei uomini col volto coperto dal passamontagna, i mitra imbracciati. Sono entrati negli uffici di Mosca dove Sobol lavorava, hanno buttato giù la porta, l' hanno ammanettata e fiondata in un furgone con i vetri oscurati. L' operazione è stata filmata dalla stessa Sobol, collaboratrice e allieva di Alexei Navalny, il dissidente russo più in vista, avversario del presidente Vladimir Putin. È la seconda volta, in agosto, che la donna finisce dietro le sbarre: le autorità, per evitare che parlasse in pubblico alla più grande manifestazione antigovernativa che si sia tenuta in Russia da otto anni a questa parte, da lei organizzata, l' hanno trattenuta per alcune ore con la mezza accusa che stesse preparando un «azione provocatoria». Sobol, che nel 2011 diede vita alla "Fondazione anticorruzione" e che dal 2017 conduce un programma di attualità e politica sul canale Navalny Live, seguito da mezzo milione di persone, è una delle molte eroine dei popoli che negli ultimi tempi stanno affollando le pagine dei notiziari mondiali. Al loro confronto, l' accigliatissima sedicenne salvamondo Greta Thunberg e la capitana Carola Rackete sono due pallide caratteriste. Ma soprattutto, fra i ribelli disposti a pagare di persona per qualche ideale, non c' è traccia di uomini. Ricordate l' anonimo studente cinese che nel 1989 sfidò disarmato e a piedi i carri armati a Tien An Men, Jan Palach che nel 1969 si diede fuoco a Praga? Oggi più niente: se cercate su Google "ribelli fino alla morte", l' unica voce che esce, per due pagine e mezzo, è Gino Santercole, cantante del gruppo "I ribelli" che negli anni Sessanta fece parte del Clan di Celentano.
Partendo dal facile, cioè in terra russa, il 27 luglio Olga Misik, 17 anni, ha fatto scalpore quando, durante una manifestazione, si è seduta davanti agli agenti in tenuta anti-sommossa: a gambe incrociate, maglietta bianca e scarpe da ginnastica slacciate, ha aperto il libretto della Costituzione russa e si è messa a leggere l' articolo 31, poi il 29 e dopo anche il 3: «A ciascuno sarà garantita la libertà di espressione e di parola, i cittadini avranno il diritto di riunirsi pacificamente e senza armi, tenere assemblee, incontri e manifestazioni». Ha detto: «Volevo spiegare agli agenti che la gente si era radunata pacificamente, senza armi, e quindi legalmente». Anche lei è stata arrestata, insieme con altri mille manifestanti, e trattenuta per ventiquattr' ore. Olga Misik ha dichiarato che lo spettro del carcere non la fermerà e che continuerà a sfilare lungo le vie di Mosca: «Non è un prezzo così alto da pagare per i diritti e le libertà».
Più a sud, a 4.800 chilometri di distanza, si trova Riyad, capitale dell' Arabia Saudita: qui, undici donne, attiviste che si erano battute per il diritto alla guida prima che il divieto fosse abolito - tra le quali Eman Al-Nafjan, autrice del blog Saudiwoman, sul quale scrive di diritti delle donne e di altre questioni sociali - sono state mandate a giudizio per «attività coordinate e organizzate volte a minare la sicurezza, la stabilità e l' unità nazionale del Regno»: tre di loro sono state rilasciate lo scorso marzo, le altre, da quasi un anno, sono ancora in carcere. Nei Paesi di religione islamica molte donne sono uscite allo scoperto e combattono per diritti e libertà: Masih Alinejad, 42 anni, iraniana, da cinque anni pubblica quotidianamente un video sulle violenze subite dalle donne che non coprono in capo. Alinejad è una giornalista, vive a New York dal 2009 per evitare di finire in carcere, ha fondato il movimento "Mercoledì bianchi", il giorno in cui le donne vengono invitate a togliersi il velo in segno di protesta. La sua pagina Facebook ha oltre un milione di follower. «Voglio dire alle politiche occidentali, alle turiste e alle atlete che vengono nel mio bellissimo Paese e dicono di indossare l' hijab in segno di rispetto per la nostra cultura», scrisse su Twitter lo scorso aprile, «che chiamare una legge discriminatoria "parte della nostra cultura" è un insulto alla nostra nazione». A inizio anno l' avvocato iraniana 56enne Nasrin Sotoudeh è stata condannata a 33 anni e 148 frustate per aver difeso decine di donne che protestavano contro l' imposizione del velo. «È colpevole di propaganda contro lo Stato», scrisse la magistratura, di «istigazione alla corruzione e alla prostituzione» e di «essere apparsa in pubblico senza hijab». È nel carcere di Evin da giugno 2018.
La capostipite contemporanea delle ribelli è la pakistana premio Nobel per la Pace Malala Yousafzai: era il 2009, aveva dodici anni e diventò celebre per il blog Diary of a Pakistani Schoolgirl (Diario di una studentessa pachistana) che curava per l' emittente britannica Bbc, nel quale documentava la realtà del regime dei talebani. Tre anni più tardi, un gruppo di uomini armati fermò il pullman su cui Malala stava tornando da scuola e le sparò. I talebani rivendicarono l' attentato: «La ragazza è simbolo degli infedeli e dell' oscenità», dissero. Malala, dopo un intervento chirugico in cui le vennero rimossi frammenti di proiettili dal cranio, sopravvisse. Nel 2014, a 17 anni, è stata la più giovane a ricevere il premio di Stoccolma. Malala ora ha 22 anni, studia a Oxford filosofia, politica e economia.
Greta e Carola non fanno un buon servizio alle donne che si caricano della responsabilità di svegliare notiziari e coscienze: sono ottimi fenomeni di marketing, facili da impugnare e da brandire, e non sembrano dispiaciute che questo accada. Il meccanismo donna-giovane-coraggiosa è appetitoso: una ragazza è più difficile da contestare e da sbeffeggiare, in questi anni l' immaginario del riscatto sociale è femmina; inoltre, nel mondo occidentale la figura psicologica della donna è legata alla purezza e alla verità (il cristianesimo ha metà dei suoi fondamenti in Maria Vergine) mentre il maschio è un voltagabbana, o è corrotto o ha segreti. Si crede più facilmente a Giovanna d' Arco che a Giulio Cesare, se dovessimo scegliere vorremmo affidarci a lei. Nel mondo islamico, fatte salve le differenze di etica, l' effetto non è molto diverso: se una donna alza la testa e ottiene un uditorio sostanzioso, meglio internazionale, ottiene una eco molto di più che un uomo. Ma basta che funzioni, ci andrebbe benissimo un mondo salvato dalle ragazzine.
· Le streghette influencer.
TREMATE, LE STREGHETTE SON TORNATE. Emanuela Grigliè per “la Stampa” il 27 giugno 2019. Sognano il successo di Chiara Ferragni e molto meno il matrimonio. Subordinano la maternità alla realizzazione personale. Vivono il sesso e soprattutto il piacere come un diritto acquisito, masturbazione compresa, senza sensi di colpa. Faticano a distinguere la vita virtuale da quella reale. Sono le primissime giovani donne veramente libere, grazie alle battaglie delle nonne femministe di cui ignorano le imprese e che anzi guardano con una certa diffidenza. Lo spaccato sulle adolescenti metropolitane italiane viene da una ricerca del Consultorio del Minotauro, nato a Milano nel 2012, e a cui si rivolgono circa 100 famiglie l'anno. Nei primi anni l' attenzione degli specialisti del centro si è concentrata soprattutto sui maschi (oggi l' adolescenza è sposata molto in avanti, va dalla prima media fino all' inizio dell' università) e sul fenomeno molto maschile dei ragazzi «ritirati» che colpisce oggi in Italia, si stima, almeno 100mila teenager che scelgono di rinchiudersi nella loro stanza. La domanda successiva è stata chiedersi come, di fronte a una figura maschile (anche paterna) sempre più evanescente, sia evoluta la costruzione del sé nella loro coetanee. «Allevate da mamme transizionali, con nonne che hanno vissuto le grandi battaglie femministe, le adolescenti di oggi ritengono ovvie le conquiste delle due generazioni precedenti e danno per scontato che un ruolo pubblico non è prerogativa dei maschi. Sono le più determinate e le più brave negli studi», ci spiega Elena Paracchini, psicologa del Minotauro. «Non solo non sono più disposte a occupare il ruolo della compagna che sta un passo indietro, ma neanche lo vivono con senso di colpa, che è stato pedagogicamente eliminato. Sono state cresciute perché non si vergognino, siano sicure di sé e desiderose di prendersi tutto quello che possono». Altro grande tema che ha molto shakerato le loro esperienze è stata la convivenza esistenziale tra fisico e virtuale, in un mondo in cui tra l' altro il senso di comunità, soprattutto nelle città, è scomparso. «Hanno sviluppato il loro sé sociale non nel piccolo gruppo degli amici, ma in rete», aggiunge Paracchini. «Le ragazze si muovono con disinvoltura sui social, soprattutto su Instagram, il meno controllato dai genitori. Mettono una cura pazzesca nell' addomesticare e vendere la loro immagine, sono delle artiste. Un tempo le teenager erano impacciate davanti all' obiettivo, oggi sanno cogliere il loro aspetto migliore. Si costruiscono un' immagine virtuale che si sovrappone a quella reale. La loro vita è una sfilata continua. Cambiano però i riferimenti estetici. Basta modelle anoressiche, oggi i tratti della seduttività sono ostentati. Non per piacere al maschio, ma per il consenso delle altre femmine. Chiara Ferragni è il modello forte, non solo bella, ma intraprendente, che sa tenere testa agli uomini». La realizzazione professionale è una priorità. «Nei loro discorsi la maternità non viene esclusa a priori, ma viene dopo la realizzazione di sé. E non è più un compito mio in quanto femmina ma condiviso alla pari col padre. L' altare non è più la meta». Essere indipendenti è il mandato che ricevono dalle loro madri, che in generale vengono promosse come efficacia genitoriale. E che in molti casi hanno saputo insegnare alle figlie che il piacere sessuale è un diritto legittimo. A complicare le cose Internet, con fenomeni pericolosi come il sexiting e il dating on line in grande crescita. «I primi rapporti sessuali avvengono in media all' inizio del liceo. Ma spesso da relazioni che nascono online. Se un tempo gli annunci per trovare un partner erano roba per sfigati, oggi le app di incontri sono usate da tutti. Il problema è che gli adolescenti sono sì grandi conoscitori della tecnologia ma anche molto ingenui, non si rendono conto dei rischi che corrono quando si scambiano foto sessualmente esplicite». Oggi le ragazze dichiarano di attraversano molto spesso un periodo saffico. «Lo fanno con molta spavalderia e facilità a differenza di quelle ragazze che si sentono di avere una diversa identità sessuale - spiegano i ricercatori del Minotauro -. Abbiamo capito che succede un po' perché oggi la società lo permette, ma soprattutto per ottenere popolarità nel gruppo». Per quel che riguarda l' attivismo politico, i dati sono ancora pochi. Interessano i temi ambientali, come già i Fridays for Future e Greta Thunberg insegnano. Ma non è un caso che siano soprano le giovani donne oggi a essere in prima fila quando si c' è da battersi per il cambiamento. Del resto lo diceva già, tra le altre cose, il (controverso) libro Cheap Sex: The Transformation of Men, Marriage, and Monogamy del sociologo Mark Regnerus, uscito negli Usa lo scorso anno. Si sta radicalizzando un abisso tra le nuove generazioni nei due sessi: le donne più istruite e politicamente per l' innovazione, i maschi conservatori. Chiusi nelle loro camerette.
· La Verità in tv è femmina. Roberta Petrelluzzi; Franca Leosini; Federica Sciarelli.
Roberta Petrelluzzi: età, altezza, peso, marito e figli. Scrive il 26 aprile 2019 Caffeina Magazine. Roberta Petrelluzzi non è sempre stata votata alla televisione. Il suo primo amore, infatti, è stato la scienza, che l’ha portata a laurearsi in Biologia e, successivamente, a accettare un contratto da ricercatrice nel dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università La Sapienza di Roma. L’esordio sul piccolo schermo è stato il frutto di un incontro propizio tra circostanze favorevoli e talento: una selezione fortunata l’ha incoraggiata ad abbandonare camice e microscopio e, da un giorno all’altro, si è trovata catapultata negli studi di una neonata Raitre. E dagli inizi come programmista regista nelle trasmissioni regionali del Lazio si è ritrovata a indossare i panni di autrice e a firmare programmi come La posta del cittadino, Roma città-anticittà e In pretura, precursore di quella che sarebbe diventata una delle colonne portanti del palinsesto del terzo canale. Aldo Grasso ha parlato di lei come uno dei «tre volti dolenti di Raitre», simpatica etichetta che il critico ha pensato di attribuire a quel triumvirato delle signore della cronaca nera in cui, oltre a lei, figurano le ormai altrettanto iconiche Franca Leosini e Federica Sciarelli. Nel 1987 Un giorno in pretura diventa una trasmissione di prima serata e il 18 gennaio del 1988 inizia il suo lungo percorso sulla terza rete nazionale. Da semplice funzione di controllo sull’andamento della giustizia, il programma si trasforma in un grande affresco della realtà italiana. Le aule giudiziarie vengono coperte a 360 gradi dalle telecamere del programma: si passa da quelle pretorili a quelle di tribunale fino alla Corte di assise. Sono moltissimi i processi ripresi e trasmessi dal programma nel corso degli anni. Tra i tanti quello a Erich Priebke per l’eccidio delle Fosse Ardeatine, il processo nodale dell’era Tangentopoli, quello a Sergio Cusani, senza dimenticare le pagine più cupe della cronaca nera nazionale come i processi relativi alle vicende del Mostro di Firenze, ai sequestri Celadon e Soffiantini, all’omicidio di Marta Russo, al serial killer della Liguria Donato Bilancia, e i processi sulla Strage di Erba e sul Delitto di Avetrana. Negli anni di Un giorno in pretura, Roberta Petrelluzzi ha realizzato anche altri programmi che meritano di essere ricordati. Tra questi La valle del Torbido, un film inchiesta del 1993 sulle estorsioni nella Locride; Taxi Story, un mix di racconti dal vivo e ricostruzioni filmate di vicende realmente accadute a taxisti romani e napoletani; Ale`…oh…oh Roma – Inter con gli ultras tifosi ultrà della Roma e dell’Inter seguiti prima, durante e dopo la finale della Coppa UEFA 1990-1991. Sui social l’hanno innalzata a icona contemporanea ma lei, che ha un rapporto di amore e odio con la tecnologia, non si è sicuramente montata la testa. E ha incassato i numerosi complimenti ricevuti solo come riconoscimento della sua fatica professionale. In un’intervista a Tvblog, ha parlato di questa incoronazione a regina del web come di ‘’un segno dei tempi presenti, nei quali anche un’illustre, normale, banale signora può diventare icona’’. “Raccontiamo la realtà all’Italia. – ha detto la conduttrice parlando di Un giorno in pretura – Nei processi, quando ad esempio si narrano fatti di sangue, emergono le parti più profonde degli esseri umani. Ciò porta i telespettatori a discutere, perfino litigare in famiglia davanti alla televisione. La nostra formula è l’unica possibile per rendere un processo leggibile”. La conduttrice e regista Roberta Petrelluzzi è nata ad Adrara San Martino (Bergamo), il 1° gennaio 1944. È alta 160 centimetri per un peso di circa 65 chili. La vita privata della conduttrice è avvolta dal totale riserbo. Sul web non si trova alcuna notizia su mariti, compagni e figli.
Maledetta Avetrana. “Storie maledette” riparte da qui. Il caso di cronaca più mediatizzato d’Italia nelle mani di Franca Leosini diventa un genere a sé, scrive Andrea Minuz il 12 Marzo 2018 su "Il Foglio". “La lettura dell’Italia si può fare attraverso il delitto”, dice Franca Leosini che riparte da Avetrana e non ha mai scritto un romanzo, anche se molti editori glielo chiedono, anche se “per ogni storia che porto in video è come se ne avessi scritto uno”. Il romanzo c’è già. “Storie maledette” non è solo un programma fatto di interviste, ma il grande romanzo italiano a puntate che racconta pulsioni, trasformazioni e perennità di questo paese, delle sue strutture sociali, della sconfinata, profonda provincia che pensiamo di conoscere ma che non conosciamo mai davvero. Nella complessa geografia del delitto italiano (Novi Ligure, Cogne, Erba, Garlasco, Perugia) Avetrana è anzitutto il punto di non ritorno del cortocircuito tra informazione, cronaca, spettacolo; perfetta sintesi di giustizialismo, voyeurismo e ferocia dei talk-show. Qui i media non arrivarono dopo ma costruirono un’indagine parallela culminata nell’annuncio del ritrovamento del cadavere di Sarah Scazzi in diretta su “Chi l’ha visto”. Il delitto a sfondo familiare si trasformava definitivamente in reality. Ci sprofondammo tutti con un orrore via via sempre più grottesco e i negozi del Rione Sanità che vendevano il “vestito di carnevale di Zio Michele”. Un’“epopea baraccona”, come l’ha definita Franca Leosini nella prima puntata di domenica. Pensavamo di averne avuto abbastanza di Sarah, del diario, del cellulare, di Sabrina, “Zio Michele”, Cosima, Ivano. Invece è stato come entrare ad Avetrana per la prima volta. Orchestrati dentro un doppio racconto, quello di Sabrina Misseri e di sua madre Cosima Serrano, Franca Leosini intreccia i fatti come in un confronto all’americana costruito sulla parola. Al delitto ci accompagna per gradi, anzi per grandi cerchi concentrici che delineano il quadro logico-passionale degli eventi, l’ambiente, i personaggi. Perché “la forza di ‘Storie maledette’ non è il delitto ma il percorso”, come dice Leosini. La cronaca ha fretta. Lei no. C’è il preludio, lo sguardo dall’alto sul teatro dell’azione come nel romanzo dell’Ottocento, poi l’affondo sui dettagli: i “devoti sms”, i capelli bianchi di Cosima che “non vuole essere schiava della tinta”, i “crateri di cellulite” delle signore di Avetrana massaggiate da Sabrina che ha un alibi a forma di “cordon bleu” divorato di corsa il giorno del delitto e rigorosamente pronunciato “Gordon blé”. Ogni puntata lascia dietro di sé una scia di “meme” e tormentoni rilanciati in rete dai “leosiners”. Ma alla fine appare riduttivo spiegare il suo successo coi tailleur colorati, il linguaggio desueto, il piglio contemporaneamente empatico e freddo della conduzione. Casomai, in una televisione fatta di format costruiti su casting, montaggio e ospitate gratis, “Storie Maledette” è uno dei pochi programmi che punta tutto sulla scrittura. C’è la tragedia con Sabrina che rievoca i compagni di scuola che la sfottevano per la peluria ed entravano in classe con le lamette, ma ci sono anche dialoghi che sembrano usciti dalle migliori pagine della nostra commedia, non a caso detta “all’italiana” perché quasi sempre moriva qualcuno: “Nei 4.500 sms a Ivano lei appare come una questuante dell’amore”, incalza Leosini; “sì, ma avevo anche la promozione coi messaggi gratis”. Siamo davvero dalle parti di Billy Wilder. “Se tornassi indietro non farei neanche un’intervista”, dice a un certo punto Sabrina, “però così avrebbero detto che di Sarah non me ne fregava niente”. Sintesi formidabile di come le dicerie di Avetrana siano solo la versione in scala ridotta di quelle nazionali. “Il delitto di Avetrana si è compiuto in una profonda campagna secondo un modo familiare cioè contadino”, scriveva Giorgio Bocca, “ma tutti gli italiani lo hanno sentito come proprio, a smentita che la società italiana moderna abbia perso i suoi fondamenti contadini”. Ce ne siamo ricordati anche il 5 marzo.
Franca Leosini, fredda analista dei delitti, ma icona dell’empatia. I leosiners (i fan della giornalista e conduttrice) amano l’enfasi retorica consacrata alla vittima, ma amano ancor più il personaggio, vagamente démodé eppure affascinante, scrive Aldo Grasso il 12 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". È tornata Franca Leosini con le sue «Storie Maledette» per dedicare due puntate all’omicidio di Sarah Scazzi, la giovane di Avetrana uccisa a 15 anni il 26 maggio 2010. Lei si definisce un’instancabile indagatrice di anime, narratrice di persone che cadono nel buio della coscienza: «Capire, dubitare, raccontare: mai come in questo caso i miei verbi, quelli che frequento di più, come scelta narrativa, etica e di rigore, si sono confermati importanti». Anche in Dino Buzzati c’era sempre questa tensione al tragico attraverso il patetico (ogni delitto che raccontava era patetico, letteralmente un’esplosione di sofferenza), questo bisogno di tradurre l’angoscia più cupa dell’esistenza in un teatro del quotidiano. Per questo la sua scrittura cercava continuamente una mediazione estetica per non cedere al dolorismo, per non assecondare la nostra morbosità nei confronti dell’orrore. Qual è lo stile di Franca Leosini? Uno stile, per altro, ormai così riconosciuto che le ha meritato un invito al Festival di Sanremo di Claudio Baglioni (la gag è stata alquanto modesta, in verità). La Leosini è una sgobbona, bisogna ammetterlo: prima di incontrare Sabrina Misseri e Cosima Serrano, cugina e zia della vittima, condannate all’ergastolo e recluse nel carcere di Taranto, la giornalista napoletana ha studiato tutte le carte del processo. Poi scrive, scrive e in trasmissione legge tutto (più radio che tv): è il suo modo di fare letteratura, anche se ho molti dubbi sulla tenuta stilistica della sua prosa, piena di barocchismi («ardori lombari», «bipede sgualcito»), e sul suo marcato sociologismo (il vero colpevole è sempre il contesto). I leosiners (i suoi numerosi fans) amano l’enfasi retorica consacrata fatalmente alla vittima, ma amano ancora di più il personaggio, vagamente fuori moda eppur affascinante, fredda analista dei delitti eppur icona dell’empatia.
Classica eppure modernissima, la giornalista e conduttrice di «Storie maledette» è diventata un’icona sui social network, scrive Chiara Maffioletti l'11 marzo 2018 su "Il Corriere della Sera". Il suo programma, «Storie maledette», è in onda dal 1994: e questa sera torna in onda alle 21.25 su RaiTre. Ma solo negli ultimi anni, quelli dei social network, la giornalista e conduttrice è diventata un fenomeno cult. Tutti la amano, tutti la commentano. Il suo stile — impeccabile — è diventato, nel suo essere senza tempo, il segreto della sua modernità. Lontana dai social eppure mai così presente, protagonista, Leosini è oggi un’icona. Dopo essere stata anche guest star al cinema — nella commedia «Come un gatto in tangenziale» —, e al Festival di Sanremo (dove è stata protagonista di una gag con Claudio Baglioni — Franca Leosini è pronta a tornare in onda. «Lo ammetto: la tv, la fiction e il cinema mi corteggiano. Ma non partecipo mai ai talk show, con tutto il rispetto per i colleghi che fanno un lavoro meraviglioso, faticoso, spesso quotidiano. E sono così cari da accettare i miei no. Al cinema ho detto sì al film di Riccardo Milani perché, al di là della grande amicizia che mi lega a Paola Cortellesi, ero me stessa. Non ho mai voluto, invece, interpretare ruoli». E a proposito dell’affetto straordinario del pubblico, ha fatto sapere che «mi riempie il cuore e mi dà tanta forza di lavorare». Il suo programma riparte con due puntate dedicate al delitto di Avetrana, all’omicidio di Sarah Scazzi, a Sabrina Misseri e alla madre Cosima. «Ho letto 10 mila pagine di processo, dalla prima all’ultima parola. Sul piano personale e professionale, ogni storia che racconto è un percorso umano, giudiziario e ambientale faticosissimo: non cerco la verità, che è compito di inquirenti e magistrati, cerco di capire, a volte arrivando a una verità che non è sempre quella storica e processuale. Penso che la storia dell’Italia si possa leggere anche attraverso i delitti». A gratificarla è soprattutto «l’affetto dei ragazzi, che seguono la trasmissione con amore e con grande attenzione al linguaggio, una responsabilità enorme per chi fa questo mestiere».
Franca Leosini: ecco chi è la giornalista di Storie Maledette, star sui social, scrive "Popcorntv.it". Franca Leosini, giornalista e conduttrice di Storie Maledette, è seguitissima sui social e ha anche un gruppo di fan che si fa chiamare Leosiners. Fredda e distaccata ma precisa e pungente: ecco chi è Franca Leosini, giornalista e conduttrice tv, diventata un vero e proprio idolo sui social tanto da avere anche un suo esercito di fan che si è ribattezzato Leosiners. Sono tantissimi i personaggi che Franca Leosini, nel suo programma Storie Maledette, in onda dal 1994 tutte le domeniche in prima serata su Raitre, ha intervistato: tra questi anche Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all'ergastolo per l'uccisione di Sarah Scazzi.
Chi è Franca Leosini. Una delle prime curiosità sul conto di Franca Leosini è legata alla sua data di nascita, eh sì perché secondo alcune biografie ufficiali la nota giornalista sarebbe nata nel 1949, anche se nell'annuario dei giornalisti è riportato 1934. Nonostante questo, la Leosini è nata a Napoli il 16 marzo e il suo cognome è Lando, Leosini è il suo cognome, invece, da coniugata.
Franca Leosini: carriera. Nel 1974 Franca Leosini ha conseguito il tesserino da giornalista pubblicista, regolarmente iscritta presso l'albo della Campania. Fin da piccola è sempre stata una grande studiosa e appassionata della lingua italiana e così dopo il diploma ha scelto di proseguire gli studi e di laurearsi in Lettere Moderne. Il suo primissimo lavoro è stato presso l'Espresso, collaborando per il settore della cultura, e subito ha cominciato ad occuparsi non solo di interviste ma di vere e proprie inchieste. Nel 1974, inoltre, la Leosini si è occupata dell'inchiesta denominata Le zie di Sicilia, in cui Leonardo Sciascia ha accusato le donne dello sviluppo della mafia. Non tutti lo sanno ma Franca Leosini, per un periodo, è stata anche direttrice di Cosmopolitan e ha curato la terza pagina de Il Tempo.
Franca Leosini: le frasi. Franca Leosini è considerata una vera e propria superstar sul web. In tantissimi, infatti, su twitter non perdono occasione non solo di farle i complimenti ma anche di esaltare il suo operato, le sue interviste e il suo modo di parlare, ciò che più incanta gli internauti. Basti pensare che su Facebook esiste una pagina intitolata Le perle Franca Leosini, che conta oltre 8mila like, in cui vengono riportati tutti i suoi tormentoni, come: «Questo lo dice lei».
Curiosità su Franca Leosini. Franca Leosini, nel 2013, è stata eletta come icona gay della serata romana Muccassassina. Franca Leosini a DM: «Ho studiato 10 mila pagine di processo per intervistare Sabrina e Cosima Misseri. Detesto la parola femminicidio», scrive mercoledì 7 marzo 2018 Mattia Buonocore su "Davide Maggio". “Era un puntino tenue sulla mappa di Puglia, Avetrana. Fino a quando, alla fine di agosto del 2010, una ragazzina che ha i capelli biondi come spighe di grano, improvvisamente, scompare”. Con queste parole Franca Leosini inizia il suo racconto del caso Scazzi, la triste vicenda di cronaca nera che ha toccato l’Italia intera. Le interviste a Sabrina e Cosima Misseri terranno banco nel nuovo ciclo di Storie Maledette, al via domenica 11 marzo in prima serata su Rai3. DavideMaggio.it ha incontrato Franca Leosini.
Cosa dobbiamo aspettarci dalla nuova stagione di Storie Maledette?
«Di vederlo. Io non faccio mai anticipazioni, è una cosa che definirei anche di cattivo gusto. Nel senso che è una trasmissione che va vista, seguita. Per fortuna viene seguita con grande amore, il che mi gratifica molto. E mi gratifica moltissimo il fatto che sia seguita da fasce sociali completamente differenziate, difformi, e soprattutto sia seguita dai ragazzini. I leosiners sono dei ragazzini e questa è una cosa straordinaria perchè il mio non è un varietà, la mia è una trasmissione impegnativa. I ragazzi purtroppo stanno perdendo l’uso del linguaggio a furia di stare su twitter e di scrivere messaggini; mi dicono che seguono Storie Maledette perchè a loro piace il linguaggio. C’è sicuramente un linguaggio non povero, e noi siamo dei modelli, chi ci ascolta ci imita. Così come ci imitano come siamo vestiti, ci imitano anche con il linguaggio. Questa è una cosa che mi gratifica. E’ una trasmissione difficile la mia».
In questo ciclo di puntate si parlerà del caso Scazzi.
«Saranno due puntate, con due protagoniste che sono Sabrina e la madre. Diciamo che il Professore Coppi, che è l’avvocato principe, mi ha fatto studiare diecimila pagine di processo. Gli editori, che sono sempre così gentili con me, mi sollecitano a scrivere libri ma io scrivo un libro ogni volta che faccio una storia maledetta. E’ un lavoro anzitutto molto capillare di studio del processo, della psicologia dei personaggi, della cultura dell’ambiente e anche diciamo proprio del luogo; dico e ripeto, è molto importante la cultura del posto. Una lettura del paese si potrebbe fare anche attraverso i delitti, perchè tante cose si verificano in una parte di Italia e in un’altra no? Tornando al mio lavoro, io faccio poche puntate, con grande disperazione dei miei direttori proprio perchè è ogni puntata è una struttura narrativa, un grande romanzo – parliamoci chiaro – del quale io sono l’autore unico. E’ un lavoro molto complesso, d’altronde la cosa che mi gratifica è che l’apprezzamento c’è».
E’ un’anomalia il fatto anche di avere due ospiti conosciute.
«Ho avuto tanto riscontro – la parola successo la rifuggo, preferisco parlare di risultati, quando mi dicono: “sei una donna di successo”, dico: “ho avuto dei risultati mai successo” – con casi assolutamente sconosciuti. Un caso come quello Scazzi è quasi una vicenda del secolo, per il retrogusto di questa storia».
Va in onda nella prima serata della domenica.
«E’ una scelta del direttore. Io avrei preferito un’altra serata, logicamente è il direttore che sceglie e io sono un soldato di Rai3».
Tu sei anche molto legata alla seconda serata.
«Ho amato molto la seconda serata, ma ci sono dei casi talmente forti che sai… A suo tempo – Storie Maledette ha 20 anni – quando andai da Guglielmi a dire: “Vorrei fare Storie Maledette”. Lui mi disse: “Il titolo mi piace vediamo cosa ci metti dentro”. Ci ho messo dentro Storie Maledette. Lui voleva già da allora la prima serata e io mio sono battuta per la seconda serata. Ci sono dei casi che sono veramente molto forti, romanzati».
Tuo marito cosa ti ha detto quando gli hai detto: “Mi accompagni a Sanremo”?
«Lui è molto carino con me. E’ stata un’occasione per stare insieme perchè oltretutto lui vive a Napoli. A suo tempo, mi ricordo ci furono le targhe alterne. Una mia amica mi disse: “come va con tuo marito?”. Le risposi: “Ci vediamo a targhe alterne quindi è stata anche un’occasione per stare insieme”».
Il fatto di essere una donna ti aiuta nel tuo lavoro.
«Forse noi donne abbiamo quel sesto senso in più, quella capacità di capire anche le debolezze che gli uomini non individuano o non accettano».
Si parla molto di donne in questo periodo.
«Purtroppo ora è diventato un argomento di grande attualità, giustamente ora presente sul mercato delle idee, dei sentimenti e dei progetti. Logicamente la violenza sulle donne ha radici antiche ed è indubbiamente aumentata nel momento in cui le donne hanno cominciato a scegliere per la loro vita, per il loro destino. Le donne vivevano quello che era il ricatto economico, logicamente hanno raggiunto un’indipendenza che le consente di scegliere per il destino delle coppie. Purtroppo le liti nascono sempre dal rifiuto di una donna di accettare il progetto dell’uomo, bisognerebbe educare l’uomo prima di educare la donna. Ad esempio se c’è un termine che detesto è femminicidio perchè dico che la donna è anzitutto è persona, quindi non è femmina. Non si dice maschicidio».
"Al supermercato so quando entro ma non quando esco, faccio selfie tutto il giorno". Franca Leosini torna su Rai3 con una nuova stagione di Storie Maledette con un doppio appuntamento domenicale dedicato alle interviste di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, scrive il 7 marzo 2018 Sebastiano Cascone su “Il Sussidiario”. Franca Leosini torna, su Rai3, al timone di Storie Maledette, dall’11 marzo con tre puntate, le prime due, dedicate all'omicidio di Avetrana e intitolate "Sarah Scazzi: quei venti minuti per morire", con le interviste esclusive a Sabrina Misseri e la mamma Cosima Serrano: "L’omicidio di Avetrana fa parte della cultura e della storia giudiziaria e umana di un Paese. Ma è stata anche una vicenda televisiva, che ha diviso nella passione del giudizio. Con i risvolti umani e le inquietudini che si è portata dietro" ha confessato la giornalista al settimanale Tv Sorrisi e Canzoni in edicola questa settimana. La conduttrice napoletana sceglie con scrupolosa attenzione le storie dei protagonisti che vuole intervistare per dare un occhio totale della realtà dei fatti: "La parola importante è “rispetto”. Anche per i loro errori. Mi accosto a questi personaggi non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitare nel baratro di una storia maledetta. Sono persone come noi, può succedere a tutti: ci sono momenti in cui la consapevolezza si smarrisce. Il limite tra giusto e sbagliato è gelatinoso… Queste persone accettano di scendere con me nell’inferno del loro passato".
LA SCELTA DELLE STORIE E DEI PROTAGONISTI. Franca Leosini ha rivelato, per la prima volta, l'iter, per la scelta delle storie dei vari protagonisti: "Scrivo a mano una lettera in carcere alla persona che vorrei incontrare. È importante che veda la mia calligrafia, per stabilire subito un rapporto umano. Poi sento l’avvocato, che ha sempre un breve ruolo nella puntata perché ci sono problemi tecnici che deve risolvere. Quanto a me, cerco di non far capire quello che penso: il mio ruolo è doverosamente super partes". Poi, inizia il complicato percorso dei permessi fino all'incontro con l'intervistato, della durata di un giorno, per creare il giusto feeling. Da lì, passano tre quattro mesi per "studiare gli atti del processo, scrivere dalla prima faccio anche un lavoro di solfeggio, proprio come su uno spartito musicale: intonazione della voce, pause, all’ultima parola, creare la struttura narrativa". Un lavoro che richiede, quindi, tempo e la giusta concentrazione per mettere a punto un prodotto qualitativamente alto che non delude le aspettative degli affezionati telespettatori. Il segreto? Non anticipare mai le puntate ai diretti interessati per rendere il tutto più fluido e naturale possibile.
L'AMORE DEI LEOSINERS. Franca Leosini, recentemente ospite del Festival di Sanremo per una gag molto divertente con Claudio Baglioni, ha un folto seguito di fedelissimi sulla rete che non perdono una puntata di Storie Maledette. La giornalista è orgogliosa di un consenso trasversale che abbraccia diverse generazioni: "Al supermercato so quando entro ma non quando esco. L’ultima volta non sono riuscita a comprare neanche un pomodoro, perché ho fatto selfie tutto il tempo. Ma lo faccio con gioia. Oltre che un piacere, è un dovere dare al pubblico tempo e attenzione". I Leosiners sono un gruppo molto numeroso che, compatto, scalpita per la messa in onda delle nuove attesissime puntate (eccezionalmente alla domenica sera): "Siamo dei modelli e siamo imitati per come ci comportiamo. Se abbiamo un linguaggio che non è povero, trasmettiamo quella ricchezza a chi ci ascolta. E la cosa che mi gratifica è che i “leosiners”, che sono giovani e di tutte le estrazioni, amano quel linguaggio".
Leosini, racconto luci e ombre dell'omicidio Scazzi. Torna Storie Maledette da domenica 11 marzo su Rai3, scrive Angela Majoli il 9 marzo 2018 su "Ansa". "Capire, dubitare, raccontare: mai come in questo caso i miei verbi, quelli che frequento di più, come scelta narrativa, etica e di rigore, si sono confermati importanti". Instancabile indagatrice di anime, scrupolosa narratrice di persone che cadono nel buio della coscienza, Franca Leosini torna con la 16/a edizione di Storie maledette, domenica 11 marzo in prima serata su Rai3, e dedica due puntate all'omicidio di Sarah Scazzi, la giovane di Avetrana uccisa a 15 anni il 26 maggio 2010. Prima di incontrare Sabrina Misseri e Cosima Serrano, cugina e zia della vittima, condannate all'ergastolo e recluse nel carcere di Taranto, la giornalista napoletana ha "studiato 10 mila pagine di processo: non faccio cronaca - spiega - svolgo un percorso che va in profondità nella storia dei protagonisti della vicenda e nell'ambiente in cui si è svolta. Ho disegnato un pannello che affonda le radici non solo nella realtà umana dei personaggi, ma anche nell'humus circostante. La cronaca non ha tempo, mentre io vado in verticale". Pur avendo incontrato Sabrina e Cosima separatamente, "perché altrimenti si sarebbero influenzate a vicenda", Leosini ha creato però "una sceneggiatura nella quale interagiscono", intrecciandone le testimonianze. "E' stato molto difficile non soltanto studiare gli atti, ma anche ricostruire la storia, vederne i risvolti, con luci e ombre, perché è una vicenda particolarmente complessa per la molteplicità e la poliedricità dei personaggi. C'è Sarah, questa creatura sottile come un gambo di sedano, con i capelli biondi come spighe di grano, che a un certo punto scompare. Ci sono Sabrina e Cosima, ma c'è anche Michele Misseri (marito di Cosima, ndr), una figura terza ma anche il motore mobile della vicenda, che parla un linguaggio tutto suo, il misserese. E poi c'è Ivano (che sarebbe stato il movente della gelosia di Sabrina nei confronti della cugina, ndr), trascinato in una storia in cui non ha responsabilità ma ha un ruolo da protagonista. E poi la madre di Sarah". Due puntate per raccontare "un delitto di cui si sa tanto e poco nello stesso tempo, perché ne esistono tante versioni", sottolinea Leosini, convinta che "il senso di una storia possa nascondersi nei dettagli. La verità storica e quella processuale non sempre coincidono: i miei interlocutori parlano liberamente, ma io devo sempre tener presente gli atti. Le sentenze in democrazia si discutono, ma bisogna rispettarle". Il nuovo ciclo di Storie maledette avrà una terza puntata, "mentre la quarta è caduta - spiega la giornalista - perché il protagonista, un uomo, mi ha chiesto le domande in anticipo. Ma io non patteggio mai nulla: tutto deve essere vero, spontaneo, anche se poi si interviene con il montaggio. E così ho preferito annullare l'incontro, pur avendo lavorato tantissimo". Un lavoro preparatorio che passa anche per il solfeggio dei testi, abitudine 'svelata' dagli stessi redattori del programma: "Per me la parola conta moltissimo, vivo la prosa come musica, ecco perché - spiega Leosini - solfeggio i testi", raccolti in un librone che è diventato una leggenda. Solfeggiato era anche il copione del suo intervento sul palco di Sanremo, accanto a Baglioni: "Quando Claudio lo ha visto, non riusciva a crederci. E' stata un'esperienza straordinaria, ho avuto commenti talmente lusinghieri che Sting, a confronto - dice ridendo - si è rivelato un dilettante". Quella 'maglietta fina' di Questo piccolo grande amore trasformata in 'storia maledetta' ha rafforzato l'affetto del pubblico per la giornalista, osannata dal web, adorata dai 'leosiners' che sono soprattutto giovani: "E' una responsabilità, uno stimolo, una motivazione in più. Il successo? E' una parola effimera. Forse la gente mi ama perché, al di là del mio impegno, sente che sono una persona semplice".
"Con Cosima e Sabrina vi racconto la verità sull'inferno di Avetrana". Stasera a «Storie Maledette» il colloquio in cella. «Ma i pedofili mai: non voglio mostri», scrive Paolo Scotti, Domenica 11/03/2018, su "Il Giornale". Si dice che prima d'indagare sui misteri altrui ci si debba interrogare sul proprio. E l'enigma che avvolge Franca Leosini inesorabile investigatrice delle anime nere di Storie maledette (da stasera alle 21,20 su Raitre) - è: come può una garbata signora provare interesse per i mostri che intervista? «Le mie non sono interviste ma incontri. E quelli che incontro non sono mostri ma uomini caduti nelle tenebre del male».
Signora Leosini: stasera lei avvicinerà Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano, entrambe all'ergastolo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Cosa prova di fonte a persone simili? Curiosità? Rabbia? Pietà?
«Innanzitutto rispetto. E poi, spesso, compassione. I delitti non si giustificano mai. Però si devono interpretare. Capire è un dovere. Io non sono un pubblico ministero. Sono un'indagatrice dell'anima».
Insomma la pensa come Papa Francesco, che ai carcerati disse «Potrei essere al posto vostro».
«Esattamente. Un cuore di tenebra batte nel petto di ciascuno di noi. Non m'interessa il criminale in quanto tale: è l'uomo, che voglio indagare. Il mostro assoluto no: per questo non ho mai incontrato un pedofilo».
Ma loro perché l'incontrano? Un'estrema speranza di riabilitazione? Un insperato processo d'appello?
«Un po' tutte queste cose. Certo: loro sanno che ne avranno un restauro d'immagine. Chi accetta di scendere con me nell'inferno del passato, spera di gettare un ponte fra sé e la società nella quale, prima o poi, è destinato a ritornare».
E lei? Non prova alcuna inquietudine, neppure un po' di malessere, dopo essersi immersa in queste storie?
«Le vivo come psicodrammi. Dopo aver conosciuto la Misseri e la Serrano non ho chiuso occhio. La verità è che il callo non lo fai mai. Quando Mary Patrizio spiegò nei dettagli come uccise il figlio di cinque mesi, ricorsi a tutto il mio coraggio per non scoppiare a piangere».
Da Angelo Izzo a Patrizia Gucci a Pino Pelosi. Quanti di loro si dichiarano innocenti e quanti ammettono la colpa?
«Diciamo metà e metà. La verità vera non sempre coincide con quella processuale. Per ottenerla talvolta pongo domande durissime. I miei amici si stupiscono che io non riceva come risposta un cazzotto in faccia».
E le risposte sono davvero sincere? Mai dubitato d'essere ingannata, forse strumentalizzata?
«Una volta sola, con una donna molto celebre. Ma io sono ferratissima: studio per mesi tutti gli atti processuali, solo per Avetrana diecimila pagine di faldoni. Non gliela feci passare liscia».
E non teme di sottoporre i suoi spettatori al fascino del male? O di rendere i suoi ospiti degli eroi negativi?
«Quel fascino lo ha già abbondantemente esercitato la cronaca nera, che il male lo strumentalizza in innumerevoli programmi, da mattina a sera. Io cerco invece di capirlo. C'è una bella differenza».
I suoi incontri favoriscono in queste persone una presa di coscienza? Magari l'inizio di una redenzione?
«Ecco la mia soddisfazione più grande! Con molti di loro resto in contatto epistolare: Quante cose ho capito di me e di quel che ho fatto, mi scrivono. Fabio Savi, il capo della banda della Uno Bianca, mi scrisse d'essersi profondamente pentito. Ma mi chiese di non parlarne, e io mi astenni. Ho fatto cose troppo terribili perché possa permettermi di dire pubblicamente che ne sono pentito».
«Storie Maledette», Franca Leosini torna in tv e Twitter impazzisce per lei, scrive il 12 marzo 2018 “Il Corriere della Sera”. Ci sono “gli ardori lombari” dell’incauto giovanotto. E “l’immobile geografia del mistero”. E c’è soprattutto lei, Franca Leosini. Che a “Storie maledette” ripercorre uno dei delitti che più hanno sconvolto l’opinione pubblica degli ultimi anni, quello di Avetrana. Intervista in carcere Cosima Serrano e Sabrina Misseri, ma a conquistare il web è il modo, in cui la conduttrice racconta la vicenda e interpella le due. Così Ivano Russo diventa “l’incauto giovanotto”, e Sabrina “sentimentalmente genuflessa”.
Animazioni, vignette, su Twitter Franca Leosini diventa subito una star. Franca Leosini e le sue metafore su Sarah Scazzi. Sul web è trionfo, scrive lunedì 12 marzo 2018 "Il Secoloditalia.it". E’ stato un ritorno in grande stile quello di Franca Leosini su Raitre con le sue Storie maledette. La puntata di esordio del programma ha avuto al centro il giallo di Avetrana con le interviste a Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all’ergastolo per l’omicidio di Sarah Scazzi. Il segreto del successo della Leosini sta nel suo modo sarcastico e arguto di porre le domande. “Mi accosto a questi personaggi – ha spiegato lei stessa – non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitare nel baratro di una storia maledetta”. Sui social i fan si sono scatenati nel commentare la puntata e soprattutto il linguaggio usato dalla giornalista, che già nell’introdurre il tema ha fatto ricorso alle sue celebri metafore: “Quando scompari misteriosamente in un giorno d’estate, subito hai diritto a una biografia. Anche se hai solo 15 anni, se sei sottile come un gambo di sedano e ti chiami Sarah”. E ancora: “Era un puntino tenue sulla mappa di Puglia, Avetrana. Fino a quando, alla fine di agosto del 2010, una ragazzina che ha i capelli biondi come spighe di grano, improvvisamente, scompare”.
Storie Maledette: dagli «ardori lombari» ai «crateri di cellulite». Ecco le frasi cult della Leosini sul caso Scazzi, scrive lunedì 12 marzo 2018 Giovanni Rossi su "Davide Maggio". Franca Leosini torna a parlare e far parlare. Nella prima puntata del 2018 di Storie Maledette la giornalista ha intervistato Sabrina Misseri e Cosima Serrano, in carcere per la morte di Sarah Scazzi. E nella lunga intervista in onda ieri sera su Rai 3 (di cui è stata trasmessa solo la prima parte) la Leosini ha sfoderato una serie di espressioni che conferma, ancora una volta, come il suo stile così arzigogolato sia un marchio di fabbrica in grado di catalizzare l’attenzione del pubblico. Ecco quindi una rassegna delle frasi “cult” pronunciate da Franca Leosini nel corso della prima puntata di Storie Maledette 2018.
La frase emblema della serata è quella in cui Franca chiede a Sabrina Misseri come ci si sente ad essere rifiutate durante un approccio sessuale: “L’incauto giovanotto, mentre - frenando i suoi ardori lombari – s’inforcava le mutande, come si giustificava con lei?”.
Poco prima la giornalista aveva stuzzicato Sabrina – secondo lei “sentimentalmente genuflessa” -, per farsi dire che tra lei e Ivano ci fosse qualcosa in più di una semplice amicizia: “Lei praticava massaggi a Ivano Russo, ma sembra che a muovere le mani con efficacia felicemente terapeutica fosse anche Ivano Russo su di lei”.
E ancora, non riuscendosi a spiegare il successo riscosso da Ivano tra le ragazze di Avetrana, Franca dice che “Brad Pitt in confronto sembra un bipede sgualcito”. Il giovane viene definito anche: “A portata di cazzeggio”. Poi, rivolgendosi a Sabrina, parlando della sua presunta ingenuità, le confessa: “Lei è proprio una babbalona. Ma perché chiacchierava tanto?” .
Sul suo rapporto con il “Delon” di Avetrana, Franca chiede alla galeotta: «Flaiano ha scritto “i grandi amori si annunziano in un modo solo: appena lo vedi dici chi è questo stronzo?”. Con Ivano a lei è accaduto questo, Sabrina?».
Altra perla della serata è quella relativa alla professione di estetista svolta dalla Misseri all’epoca dei fatti. Franca Leosini vuole sapere: “Al di là di spianare crateri di cellulite sulle cosce delle signore di Avetrana, lei che faceva?”.
E sempre su tale argomento si lascia andare a una considerazione: “Oggi anche per spremere una foruncolo ci vuole un master”.
La giornalista definisce l’intera vicenda una “epopea baraccona”, e parla delle voci di paese come di “becera chiacchierologia”. Arriva addirittura a rabbrividire per il congiuntivo sbagliato usato da Sarah Scazzi sulle pagine del suo diario: A proposito del diario della vittima, quando Sabrina Misseri sembra mentire sulle intenzioni che l’avrebbero spinta a leggerlo, Franca Leosini chiede elegantemente: “Mi permette di dubitarne?”. La giornalista ironizza su un colorito diverbio via sms tra Sabrina e Ivano e lo descrive come “uno scambio di opinioni di alto livello”, poi chiosa con un “Del senno di poi sono piene le fosse” davanti al pentimento della Misseri per aver rilasciato troppe dichiarazioni al tempo dei fatti. Non mancano nemmeno le similitudini religiose: “Dopo 40 giorni, 40 come una buia Quaresima, c’è un primo, clamoroso colpo di scena che scompagina l’immobile geografia di quel mistero”.
Franca Leosini intervista Sabrina Misseri e le sue citazioni conquistano il web. La prima puntata della nuova edizione di Storie Maledette è stata dedicata al delitto di Avetrana, scrive Giuseppe D'Alto, Esperto di Tv e Gossip, su "it.blastingnews.com" il 12 marzo 2018. Dopo il duetto canoro conClaudio Baglioni a Sanremo, #franca leosini è tornata protagonista della prima serata di Rai 3 con #storie maledette, con uno dei casi più dibattuti e controversi della cronaca italiana: il delitto di Avetrana. La giornalista ha riferito di aver studiato diecimila atti processuali prima di intervistare Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all’ergastolo per la morte di Sarah Scazzi. Dopo averle incontrate non ho chiuso occhio, ha riferito a Il Giornale. La Leosini ha riavvolto il nastro ed ha provato a ripercorrere passo dopo passo con la Misseri quella tragica estate di otto anni fa. ‘Era un puntino tenue sulla mappa di Puglia, Avetrana.
Fino a quando, alla fine di agosto del 2010, una ragazzina con i capelli biondi come spighe di grano, improvvisamente, scomparve‘. L’eleganza e la raffinatezza con la quale la conduttrice ha affrontato il delicato argomento hanno reso ancora più affascinante narrazione e intervista. La giornalista è passata con eleganza da un linguaggio forbito a quello più popolare per trattare argomenti più intimi e stimolare l’interlocutrice.
Frasi e citazioni sono diventate virali. Frasi e sottolineature che sono diventate subito virali sul web, con Storie Maledette che ha conquistato rapidamente la topic trend di Twitter. Facendo riferimento all’attività di estetista della Misseri, la Leosini ha sarcasticamente affermato: Oggi anche per un foruncolo sembra ci voglia il master. In riferimento al flirt della cugina di Sarah con Ivano la conduttrice ha citato Flaiano: I grandi amori si annunziano in un modo solo: appena lo vedi dici chi è questo stronzo? Sul rapporto con il ragazzo, la Leosini si è soffermata a lungo nel corso della prima parte dell’intervista con Sabrina: Lei praticava massaggi a Ivano Russo, ma sembra che a muovere le mani con efficacia felicemente terapeutica fosse anche Ivano Russo su di lei.
Io e Sarah vittime di bullismo. La descrizione dell’incontro in auto della Leosini è stato definito un capolavoro dai numerosi seguaci di Storie Maledette: L’incauto giovanotto, mentre frenando i suoi ardori lombari s'inforcava le mutande, come si giustifica con lei? Dall’altra parte Sabrina ha spiegato che Sarah era la sorella che non aveva mai avuto ed ha rivelato che entrambe sono state vittime di bullismo. ‘Lei si fidava di me e frequentando amici più grandi stava iniziando a credere di più in se stessa’. La Misseri ha ammesso di aver sbagliato a rilasciare tante interviste dopo la scomparsa della cugina.
Oggi non lo rifarei. Cosima Misseri si è soffermata sul rapporto con Sarah Scazzi ed ha spiegato che quando era piccola giocava con lei: Ho smesso di farlo quando mi ha detto che voleva essere adottata.
Franca Leosini e le sue “pillole”, Storie Maledette sul caso Avetrana è un grande evento tv La giornalista fa ritorno in tv trattando uno dei casi di cronaca più torbidi degli ultimi anni. Le interviste a Sabrina Misseri e Cosima Serrano diventano il teatro per le proverbiali perle della conduttrice, che come al solito trovano nei social un’immediata valvola di sfogo per innumerevoli citazioni, scrive il 12 marzo 2018 Andrea Parrella su "Fan page". Il ritorno di Storie Maledette in televisione era, probabilmente, uno degli appuntamenti più attesi di questa stagione televisiva. E si è confermato un evento. Franca Leosini, al netto della sua apparizione a Sanremo, era assente da diversi mesi dal piccolo schermo con nuove indagini sui casi di cronaca italiani più eclatanti degli ultimi anni. E l'attesa è stata soddisfatta con una puntata interamente dedicata al delitto di Avetrana, che vede condannate Sabrina Misseri e Cosima Serrano all'ergastolo per l'omicidio volontario di Sarah Scazzi e Michele Misseri ad 8 anni di reclusione per soppressione di cadavere e inquinamento di prove. La prima puntata della nuova stagione di Storie Maledette, concentrata per buona parte sull'intervista a Sabrina Misseri, è andata in onda su Rai3 domenica 11 marzo, confermando l'amore eterno instauratosi tra Franca Leosini e il suo pubblico. "Era un puntino tenue sulla mappa di Puglia, Avetrana. Fino a quando, alla fine di agosto del 2010, una ragazzina che ha i capelli biondi come spighe di grano, improvvisamente, scompare", questo l'incipit che caratterizzava lo spot promozionale apparso sulle reti Rai nei giorni scorsi, una premessa che prometteva benissimo.
Il frasario della conduttrice del programma si è arricchito di altri aforismi precocemente citati su Twitter dai tantissimi utenti che seguono la trasmissione televisiva di Rai3 riproponendo, con fare devoto, le costruzioni sintattiche elaborate, forbite e ficcanti della giornalista napoletana. L'account ufficiale della trasmissione riprende quella che probabilmente è stata la frase più richiamata della serata, quella con cui la Leosini descriveva l'incontro sessuale tra Sabrina Misseri e Ivano: Non seconda è la smorfia inorridita della Leosini nel leggere alcuni passaggi del diario di Sarah Scazzi e soffermarsi, in particolare, su un congiuntivo sbagliato. Qualcuno tira in ballo un riferimento politico piuttosto telefonato ("severo ma giusto", direbbe qualcuno) di questi tempi. E tra le tante pillole di Leosini emerse in serata non possono mancare i messaggi di piena e completa ammirazione per la personalità e l'aplomb di una delle conduttrici più apprezzate del piccolo schermo. Con un piccolo colpo di scena, che non era stato preventivato da molti, la puntata non si chiude con la terminazione del racconto, visto che ci sarà una seconda puntata di Storie Maledette sul caso di Avetrana, in onda domenica 18 marzo 2018, come prontamente Rai3 pochi secondi dopo la sigla finale. Con qualche reazione scomposta…
Perché "Storie Maledette" è ormai un evento tv. Non c'è dubbio che Storie Maledette abbia assunto, negli ultimi anni, i caratteri di un programma in cui il personaggio alla conduzione rischia di essere prevaricante rispetto alle vicende e ai protagonisti stessi delle storie maledette raccontate. Si può spiegare forse con questo pericolo, oltre che con l'enorme mole di studio che richiede una trasmissione come Storie Maledette, la parsimonia nelle apparizioni tv di Franca Leosini e il numero esiguo di puntate per singola stagione del programma. Tutti elementi che contribuiscono a rendere una trasmissione televisiva un grande evento.
Franca Leosini e "Storie maledette". Le sue frasi cult fanno impazzire i Leosiners. La conduttrice torna sui Rai Tre con le sue interviste garbatamente sconvolgenti ed è subito leosiners-mania, scrive Adalgisa Marrocco il 12/03/2018 su "Huffingtonpost.it". Grande ritorno televisivo per Franca Leosini, che ha aperto la nuova stagione di Storie Maledette, nella prima serata domenicale di Rai Tre, tornando al 2010 e al delitto di Avetrana. La conduttrice televisiva ha infatti intervistato Sabrina Misseri e Cosima Serrano, condannate all'ergastolo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Un ritorno attesissimo, quello della Leosini, divenuta vera e propria star del web, oltre che del piccolo schermo, grazie al suo stile elegante ma incisivo, e alla capacità di affrontare personaggi e casi di cronaca sconvolgenti con una compostezza che le impedisce di scadere nel sensazionalismo e nella TV urlata. Un atteggiamento che non ha mancato di procurarle l'adorazione di Facebook, Twitter e degli altri social network, anche in chiave affettuosamente ironica (emblematica la pagina Uccidere il proprio partner solo per essere intervistati da Franca Leosini). Anche stavolta Franca non ha tradito le attese e la prima puntata di Storie Maledette si è rivelata una miniera: Cosima "dimostra una modernità insospettata" e sembra "una donna del 3000"; Ivano, talmente bello che "Brad Pitt al confronto sembra un bipede sgualcito", "frena i suoi ardori lombari" con Sabrina, una "babbalona" che racconta un po' troppo in giro le sue faccende più intime. E quando la ragazza ripercorre i pensieri che la attraversavano nelle drammatiche ore dell'omicidio di Sarah, arrivando ad ipotizzare un fantomatico rapimento, Franca la incalza: "Neanche Avetrana fosse la Locride dei sequestri degli anni '70...". Finezze linguistiche e argomentazioni simili a colpi di fioretto che hanno scatenato la reazione social dei cosiddetti leosiners.
Franca Leosini e le sue frasi di culto, oltre 1 milione 800 mila spettatori. Grande attesa e grande esordio per il programma condotto da Franca Leosini: «Storie maledette» è stato visto da oltre 1 milione 800 mila spettatori (7,5% di share), scrive Renato Franco il 12 marzo 2018 su “Il Corriere della Sera”. Franca Leosini è tornata con la sua testa cotonata, gli occhi che guardano dritto per dritto, il suo lessico che mette in crisi gli accademici della Crusca, figurati un ergastolano, la sua capacità di raccontare il morboso in modo profondamente lieve. Domenica sono andate in scena le intervista a Sabrina Misseri e a sua madre Cosima Serrano che hanno raccontato la loro verità sull’omicidio di Sarah Scazzi. Grande attesa e grande esordio: Storie maledette è stato visto da oltre 1 milione 800 mila spettatori (7,5% di share, ampiamente sopra la media di Rai3 che è al 6,1%). Successo anche sui social, per quel che vale (il programma che genera maggiori discussioni non è detto che sia il più visto): la prima puntata è stata al primo posto dei programmi più commentati dell’intera giornata con oltre 132 mila interazioni.
Alla fine Sabrina si è pentita. Franca Leosini ha spiegato così il suo approccio ai casi che racconta: «La parola importante è rispetto. Anche per i loro errori. Mi accosto a questi personaggi non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitare nel baratro di una storia maledetta». Ma a rapire, come al solito, è il suo registro lessicale capace di pescare tra espressioni come «ardori lombari» ma non disdegnare di pronunciare parole come «cazzeggio». Le sue frasi sono già di culto: «Oggi non si prenderebbe a schiaffoni per aver scritto questi messaggi?»; «Oltre a spianare i crateri di cellulite sulle cosce delle signore di Avetrana, che vita faceva?»; «Flaiano ha scritto “i grandi amori si annunziano in un modo solo: appena lo vedi dici chi è questo stronzo?”. Con Ivano a lei è accaduto questo, Sabrina?»; «Lei praticava massaggi a Ivano Russo, ma sembra che a muovere le mani con efficacia felicemente terapeutica fosse anche Ivano Russo su di lei»; «L’incauto giovanotto, mentre frenando i suoi ardori lombari s’inforcava le mutande, come si giustifica con lei?». Gioco, partita, incontro.
Storie Maledette, Sabrina Misseri e Cosima Serrano: ascolti record per la prima puntata. Franca Leosini, Storie Maledette: enorme successo per la prima parte dell'intervista a Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Le espressioni della giornalista rilanciate sui social, scrive il 13 marzo 2018 Emanuela Longo su "Il Sussidiario". Storie Maledette, il programma di Franca Leosini, è tornato in onda, in prima serata su Rai 3, domenica 11 marzo 2018, con un'intervista esclusiva rilasciata da Sabrina Misseri e Cosimo Serrano, le due donne coinvolte in uno dei casi di cronaca nera più eclatanti degli ultimi anni, l'omicidio di Sarah Scazzi, avvenuto ad Avetrana. Come riporta Wikipedia, "il 21 febbraio 2017, la Corte suprema di cassazione ha definitivamente riconosciuto colpevoli e condannato all'ergastolo per concorso in omicidio volontario aggravato dalla premeditazione Sabrina Misseri e Cosima Serrano". L'intervista di Franca Leosini ha ottenuto i favori di pubblico e critica e l'entusiasmo dei cosiddetti "leosiners", la fascia di pubblico giovane che segue Storie Maledette e che riporta fedelmente le frasi cult della giornalista sui social network. E il ritorno di Franca Leosini sul piccolo schermo è stato premiato anche dagli ascolti: la prima puntata della nuova edizione di Storie Maledette è stata seguita da 1.855.000 telespettatori con uno share pari al 7.5%. (Aggiornamento di Fabio Morasca)
LE DICHIARAZIONI DI STEFANO COLETTA. Un «fenomeno televisivo», così viene definita Franca Leosini dal direttore di Raitre Stefano Coletta. Soddisfatto per i numeri registrati dal suo Storie Maledette, Coletta ha fatto i complimenti alla giornalista e conduttrice, diventata una superstar sul web. «La perizia d'indagine e la narrazione costruita su un appassionato linguaggio letterario fanno di Franca Leosini un fenomeno televisivo. Dietro l'ottimo dato di ascolto di Storie Maledette, si nasconde una platea istruita, prevalentemente femminile e fortemente interattiva». Il programma ha fatto infatti registrare 132 mila interazioni sui tre principali social network, classificandosi al primo posto tra le trasmissioni televisive più commentate in rete. C'è grande soddisfazione a Raitre per i risultati complessivi raggiunti nel 2018, infatti è considerata «saldamente la terza rete generalista». (agg. di Silvana Palazzo)
PROFESSIONALITÀ INECCEPIBILE PER IL WEB. A Storie Maledette, Franca Leosini ha intervistato Sabrina Misseri, tornando quidi sul caso dell'omicidio di Sarah Scazzi. A colpire, oltre alle parole della Misseri, è stata la grande professionalità e il carattere fermo e deciso della Leosini. Tanti i commenti d'apprezzamento per la conduttrice: "Un racconto reso unico dalla professionalità ineccepibile della Leosini. - scrive una telespettatrice sui social dedicati alla nota trasmissione - Con le giuste parole e l'appropriato pathos si è materializzata la vita breve Della piccola Sarah. Il "babbalona" detto più volte a Sabrina è arrivato come un rimprovero fatto ad una figlia, che ha sbagliato e non può più tornare indietro. [...] In attesa di domenica io oggi guarderò nuovamente la puntata di ieri. Dalla tanta maestria si può solo imparare. Grazie" (Aggiornamento di Anna Montesano)
GRANDE SUCCESSO PER LA LEOSINI. Franca Leosini con il suo stile elegante e dissacrante insieme, è tornata ieri in occasione del nuovo ciclo di puntate di Storie Maledette, su RaiTre. Un appuntamento oltremodo atteso non solo per la sua collocazione nel prime time (scelta del direttore di rete, come specificato dalla stessa Leosini in una recente intervista al blog DavideMaggio) ma anche per il calibro delle protagoniste, ben due, intervistate: Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Saranno due le puntate dedicate al delitto di Avetrana nel corso delle quali la padrona di casa, dal carcere di Taranto, ha ripercorso le tappe che hanno portato alla morte di Sarah Scazzi, rispettivamente cugina e nipote delle due intervistate, entrambe condannate nei tre gradi di giudizio all'ergastolo. La doppia intervista ha visto Sabrina e la madre Cosima intervistate separatamente in due differenti sale. Una scelta anche questa voluta fortemente dalla Leosini per non farle influenzare nel corso dei loro racconti-ricordi. Protagonista assoluta è stata però Sabrina, alla quale è stata dedicata gran parte della prima puntata di Storie Maledette dedicata al delitto Scazzi. A farla da padrona non sono state tanto le lacrime che in più occasioni hanno rigato il viso della giovane Misseri, oggi trentenne, quanto piuttosto il linguaggio forbito, misto allo stile classico che la signora Leosini ha portato in tv e che in qualche modo contrastavano con il lessico semplice e a tratti insicuro di Sabrina e della madre. Messa in piega come sempre impeccabile, tailleur sartoriale scuro ed elegante e quasi una sorta di tenerezza che ha dimostrato in certi passaggi dell'intervista a Sabrina: la Leosini è andata avanti spedita, con frasi pungenti, altre capaci finanche di strappare un sorriso nonostante lo scempio di un delitto che ha spezzato la vita di una 15enne innocente che, come ricordato nell'esordio dalla stessa giornalista, fa ora parte della schiera degli angeli.
STORIE MALEDETTE DI FRANCA LEOSINI: SUCCESSO TV E SOCIAL. Un successo atteso e meritato, quello segnato ieri sera dalla prima parte dell'intervista a Sabrina Misseri e Cosima Serrano realizzata da una magistrale Franca Leosini nella sua trasmissione Storie Maledette. Il pubblico e i numerosi leosiners hanno premiato ancora una volta la signora del giornalismo italiano, che con la sua eleganza e le sue frasi diventate oggi già virali, ha segnato un ottimo risultato in termini di ascolto tenendo incollati al piccolo schermo 1.855.000 telespettatori con una share media del 7.5%. Un risultato senza dubbio migliore rispetto a quello che era stato registrato nell'esordio della passata stagione, quando l'intervista a Rudy Guede, condannato per il delitto di Perugia, aveva invece interessato 1.459.000 con share del 5.32% nonostante il clamore. Enorme anche l'interazione social che ha permesso di far volare la prima puntata di Storie Maledette direttamente in cima alle tendenze dei programmi più commentati dell'intera giornata, con oltre 132 mila interazioni. Ad appassionare saranno certamente state quelle domande così prive di pregiudizio, lo stesso che Sabrina ha invece più volte denunciato. Sua premura quello di fornire al telespettatore un ritratto visto da un'angolazione inedita rispetto a quello emerso dalle pagine di cronaca nera. Non è un caso se proprio a proposito della sua trasmissione la Leosini aveva commentato, come spiega TvZap: "La parola importante è rispetto. Anche per i loro errori. Mi accosto a questi personaggi non per giudicare, ma per capire. Capire cosa è successo nella loro vita per farli precipitare nel baratro di una storia maledetta". Qual è il ritratto che la giornalista ha tracciato di Sabrina? Come da lei ribadito nel corso della puntata, certamente quello di una ragazza "insicura e fragile", ma anche "sentimentalmente genuflessa" a Ivano Russo, il tutto condito da frasi ironiche durante la lettura dei loro sms le cui espressioni non sono passate inosservate dagli spettatori, subito rilanciate sui principali social in attesa del secondo capitolo.
Leosini fa il record con Avetrana: “Affronto le storie con equidistanza”, scrive il 13/03/2018 Michela Tamburrino su "La Stampa". Un fenomeno televisivo quello di Franca Leosini, capace di catalizzare l’interesse del pubblico, di strappare audience alla concorrenza anche di casa e di tracciare una linea netta su come si fa televisione d’inchiesta. Storie maledette raccoglie il 7.53% di share, quasi 1,9 milioni di telespettatori (e punte dell’11% di share e 2 milioni) e segna il record di ascolto del programma dal 2014, domenica su Rai 3 in prima serata. Una platea, la sua, istruita, prevalentemente femminile e fortemente interattiva. Il programma va fortissimo sui social network, è il commentato del giorno in Rete. Merito di Leosini che è un’icona e non solo nell’universo spinoso della giudiziaria. Conducesse Sanremo probabilmente il successo sarebbe lo stesso, tanto è entrata nell’affezione del telespettatore generalista. «Merito» anche delle protagoniste della prima puntata di domenica sera, al centro di una storia che prenderà due appuntamenti. Dall’altra parte del tavolo siede Sabrina Misseri, giudicata colpevole d’aver ucciso la cuginetta Sarah Scazzi. Per gelosia, per amore. Con lei, condannata anche la madre Cosima che per una felice intuizione di sceneggiatura è stata posta ad interagire con la figlia ma in lontananza.
Ma perché questa storia ha tanto catturato l’interesse della gente? Forse perché Leosini ha dato una lettura diversa della vicenda mettendo in luce le crepe dell’inchiesta e confrontando la verità processuale con la verità possibile?
«Io affronto sempre le storie che tratto con grande equidistanza, per rispetto del protagonista e per rispetto del pubblico. Un dovere morale per una professionista come me che sa valutare le conseguenze di un processo. Bisogna anche dire che esistono eventi di cronaca che diventano storia. Questo attiene alla realtà dei personaggi e all’ambiente in cui i fatti avvengono. Luoghi che si fanno paesaggi dell’anima».
Come Avetrana, un piccolo centro che rimanda un po’ Peyton Place, oppure?
«Se dovessimo fare un parallelo italiano, parlerei di Cogne, per l’intensità dei personaggi». Archetipi tragici che si muovono in un universo malato. «Nella prima puntata ho descritto l’ambiente, il paese che da luogo gentile si trasformerà in capitale del pettegolezzo. Nella seconda puntata la figura del padre di Sabrina, Michele Misseri, esploderà. Per la prima volta intervisterò una collega giornalista, la vostra Maria Corbi che per lavoro è stata molto addentro alla storia che narriamo».
Franca Leosini, soddisfatta degli ascolti?
«Sono molto contenta per la rete anche perché avevamo contro concorrenti di peso: Fazio, Giletti e la partita Napoli-Inter». Perchè i protagonisti delle Storie maledette si fidano di lei così tanto? «Perchè affronto con loro la fatica del ricordo».
Intervista. Sciarelli a caccia della “verità” in Tv. Massimiliano Castellani venerdì 26 aprile 2019 su Avvenire. Il 30 aprile 1989, Rai 3 trasmetteva la prima puntata di “Chi l’ha visto?”, una delle trasmissioni più longeve e seguite del palinsesto, specie negli ultimi 15 anni con la conduzione della giornalista. Federica Sciarelli, dal 2004 conduttrice dello storico programma di Rai 3 “Chi l’ha visto?”. In un oceanico palinsesto, in cui si naviga un po’ tutti a vista come naufraghi diretti all’isola dei noiosi, c’è una sola trasmissione Rai (sul 3) che insiste e resiste: èChi l’ha visto?. Una resistenza civile (condivisa dal 93% degli utenti) che va avanti dai tempi di Angelo Guglielmi direttore di Rai3. La prima storica puntata di Chi l’ha visto? infatti andò in onda trent’anni fa: il 30 aprile 1989. In principio, alla conduzione c’era l’inedita coppia Donatella Raffai-Paolo Guzzanti, poi, tranne l’avvocato Luigi Di Majo, solo donne al comando: Giovanna Milella, Marcella De Palma, Daniela Poggi. E dal 13 settembre 2004, fu la prima volta sotto l’egida carismatica e pasionaria di Federica Sciarelli. Romana (classe 1958), ma di origini napoletane, che la rendono costantemente solare e combattiva. Giornalista d’assalto, «ero una “pierina” ai tempi del Tg3: unica donna della redazione politica, con la fortuna di avere Sandro Curzi direttore e grande maestro». Inviata di Samarcanda per Michele Santoro e poi da quindici anni a questa parte «non ha più mollato l’osso», come dicono i suoi più stretti collaboratori. L’osso è lo studio di via Teulada, quello delle ricerche a tappeto dei casi di persone scomparse, dei misteri insoluti in un Paese che si nutre di mistero.
Un «Romanzo popolare», cito Guglielmi, più che una trasmissione la sua. Ma come si spiega questo enorme successo che ha toccato l’apice nelle quindici stagioni “sciarelliane”?
«Me lo spiego nel fatto che non siamo un programma di sola cronaca ma che nel tempo è stato capace di raccontare l’Italia reale a un pubblico che spesso riconosce nella vicenda trattata qualcosa che potrebbe riguardarlo o che riguarda il suo vicino. E quello che si vede a casa tutti i mercoledì, in prima serata fino a mezzanotte, è solo una parte del lavoro che, sette giorni su sette, con turni anche massacranti, portiamo avanti con una redazione (una ventina di persone tra interni e inviati) composta da professionisti e persone sensibili ad ogni singolo caso, ad ogni storia umana che scoviamo o che ci viene segnalata».
Ha detto «raccontiamo l’Italia», ma in questi anni quanto è cambiato il Paese?
«Il nostro è un osservatorio molto attento. Quando sono arrivata a Chi l’ha visto? era un’Italia in piena crisi economica in cui scomparivano prevalentemente padri di famiglia, e nove volte su dieci si trattava di suicidi. Oggi abbiamo un caso di violenza quotidiana sulle donne, e a volte manca il tempo e il respiro in trasmissione che subito ne accade un altro... Siamo passati dalle scomparse a quelli che con il “caso Claps” abbiamo sdoganato come «omicidi con occultamento di cadavere». E io non mi stanco mai di ripetere ai telespettatori: guardate che le donne, le ragazze non se ne vanno mai via volontariamente di casa, che una mamma non lascia mai i suoi figli da soli per sparire nel nulla...»
Ha citato l’omicidio della 16enne di Potenza Elisa Claps, il caso che forse ha fatto cambiare direzione al programma.
«Vero. Ricordo Filomena Claps che si arrabbiò moltissimo quando la polizia mostrò l’identikit che simulava l’invecchiamento della figlia. “Elisa me l’ha uccisa Restivo!” gridava disperata. Io ho raccolto quel grido materno, mi sono letta tutti gli atti come faccio spesso anche alla domenica a casa da sola - e da madre e giornalista che si assume sempre le sue responsabilità ho attaccato duramente Danilo Restivo, avvertendo i miei dirigenti: se la trovano viva, allora io vado a casa e cambio mestiere... I resti della povera Elisa vennero ritrovati nel sottotetto della chiesa della Santissima Trinità di Potenza. Fu uno strazio, mi consola la bellissima amicizia con la famiglia Claps, una delle tante famiglie delle vittime con cui si è stabilito un rapporto di reciproco affetto che va avanti ben oltre il video».
L’idea che si ha dal video del salotto di casa è che Chi l’ha visto? sia un po’ una “casafamiglia” alla quale rivolgersi per chiedere aiuto.
«Noi ci occupiamo di quei casi che per la mole di lavoro che hanno carabinieri e polizia a volte non ce la fanno a seguire più di una settimana e quindi simpaticamente le stesse forze dell’ordine dicono ai famigliari: “rivolgetevi alla Sciarelli”. Sul lungo periodo è normale che si crei un rapporto di tutela con chi ha bisogno di essere ascoltato. Non dimenticherò mai la lettera scritta a mano che mi inviò il papà del calciatore Denis Bergamini che si chiudeva con un tenero e disperato: “Chi può, se non voi, interessarsi alla morte di mio figlio?”».
Bergamini, passato per il “calciatore suicidato”, grazie anche a voi si è scoperto essere un omicidio ancora irrisolto, anche per colpa dei tanti depistaggi. E quelli, non mancano mai, a cominciare dall’assassinio di Ilaria Alpi, forse una delle maggiori “vittorie” della trasmissione.
«Per Ilaria Alpi abbiamo sperimentato con successo il “metodo Chi l’ha visto?” che parte dal mio principio cardine: meglio morire sparato che in ospedale... Perciò chiesi a Chiara Cazzaniga, giornalista che conosce perfettamente la lingua araba di prendersi tutto il tempo ma di trovare un somalo “buono” che parlasse e in grado di scagionare quel povero Hashi Hassan che si è fatto 17 anni di carcere da innocente. Quando a Londra Chiara scovò Gelle che confermò l’innocenza di Ashi è stato un momento liberatorio, come l’abbraccio con Adriana Alpi, la mamma di Ilaria, che per me è stata più di un’amica».
Una rivincita contro i depistatori di professione con i quali lei si scaglia coraggiosamente contro, anche in diretta.
«Beh - sorride - ho rimesso al suo posto anche l’attentatore di papa Wojtyla, Ali Agca, quando si intromise con le sue bugie sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Stando a stretto contatto con le famiglie come la Orlandi o quelle della piccola Denise Pipitone che da anni rivendicano il “corpo” delle loro figlie non posso tollerare che qualcuno, in maniera criminale, sparga menzogne riaccendendo le speranze di chi soffre già tanto per una verità che non arriva...»
«Verità», sembra la parola guida nell’esercizio della sua professione di giornalista.
«Sì, la verità prima di tutto. A volte mi rendo conto di essere particolarmente passionale ma come faccio a non scaldarmi quando mi trovo di fronte all’omicidio del bambino di Cardito. Ma come è possibile mamma... se tuo figlio viene picchiato come fai a non metterti in mezzo e a gettarti nel fuoco per lui? Parto da casa e arrivo alla scuola, perché non accada più che un insegnante non denunci se vede arrivare in classe un bambino pieno di lividi come accadeva al piccolo Giuseppe che è morto per le botte che gli dava il patrigno, e la sua sorellina è ancora viva per miracolo».
Avvertiamo forte la sua emozione quando si occupa di bambini, le è mai capitato di piangere in diretta?
«Cerco di tenere botta, ma non è facile trattenere le lacrime quando ripenso alla fine di Tommaso Onofri: il giorno prima del ritrovamento del suo corpicino ero stato a trovare la mamma a Parma... È dura quando affronti in diretta drammi come quello di Sarah Scazzi o dei fratellini di Gravina, Ciccio e Tore, che sono morti laggiù, in fondo a un pozzo. Per difendere i diritti dei più piccoli abbiamo subito anche l’assalto di quelli di Casa Pound che in una manifestazione picchiavano dei ragazzini».
In questi quindici anni, ha mai pensato di gettare la spugna?
«No, perché il seguito e il calore del pubblico mi dà energia e così mi riprendo dal prosciugamento settimanale. Poi scarico tutte le tensioni accumulate facendo sport, footing, palestra, pattinaggio artistico. Il poco tempo libero che ho dal lavoro, lo passo con mio figlio, Giovanni Maria. Farà il giornalista? È iscritto a Scienze Politiche, spesso mi sorprende con delle informazioni che gli arrivano molto prima... Ha un grande senso della notizia e poi è cresciuto a pane e tv, da piccolo quando mi vedeva leggere il Tg pensava parlassi a lui e diceva: “Oh, ma mamma ma non mi rispondi?”».
Quando ha capito che la Sciarelli è diventata un icona pop.
«Forse quando sono andata ospite a Sanremo. Dietro le quinte volevo farmi dei selfie con i miei cantanti preferiti e con grande sorpresa ho scoperto che invece erano loro che chiedevano di fotografarsi con me. Ron mi è venuto incontro e mi fa: “Sei il mio mito. Ma lo sai che tutti i mercoledì sera mi siedo sul divano e vedo Chi l’ha visto? con la mia mamma...»
· Montecitorio Beach.
“BENVENUTI A MONTECITORIO BEACH”. Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 3 luglio 2019. Le sette di un pomeriggio torrido. Fuori la colonnina di mercurio segna 36 gradi. Nell' emiciclo della Camera, nonostante l' aria condizionata, si bolle. «Presidente», chiede la parola Federico Mollicone, non autorizzato e perciò subito zittito. «Presidente!» insiste però l' onorevole di Fratelli d' Italia sfilandosi la giacca in modo plateale. «Si comporti seriamente, si rivesta!» intima Ettore Rosato dallo scranno più alto. Ma il deputato è irremovibile: «In ossequio alle pari opportunità e alla par condicio» urla a dispetto del blackout imposto, «chiedo che quello che vale per l' uomo debba valere anche per le donne, in special modo per quelle colleghe che si presentano in aula come se andassero in uno stabilimento balneare a chiedere due sdraio e un ombrellone». È un' orazione in onore del decoro perduto quella pronunciata giovedì scorso a microfoni spenti ma voce tonante abbastanza per svelare, all' improvviso, ciò che tutti hanno notato ma nessuno osato finora denunciare: la scostumata piega dei costumi nelle più alte istituzioni della Repubblica. Dove ormai impazzano canottierine e trasparenze, minigonne e ciabattine da mare, in una sorta di Montecitorio-Beach che poco lascia all' immaginazione e tanto alla nostalgia. Degli austeri tailleur di Nilde Iotti o le calze coprenti di Tina Anselmi, pure d' estate. Senza scomodare storie d' altri tempi, il fatto è che se alla Camera i maschietti hanno l' obbligo di indossare la giacca (e al Senato pure la cravatta) al gentil sesso è lasciata libertà di scelta. Spesso, ultimamente, un po' abusata. Non sono poche le deputate che azzardano abiti succinti, scollature da balera, nudità varie. Tutte documentate nel portfolio di scatti rubati che riempiono le chat degli onorevoli. C' è quella in sottoveste multicolor e quella in body di pizzo, una con mutanda in vista sotto i pants bianchi e l' altra così attillata che gli esplode il décolleté. «Una roba indecente», rincara Mollicone che ha pure postato qualche scatto su Fb: «Quando l' altra sera, alla decima ora di votazione e un caldo da morire, mi sono visto passare accanto una collega in sottoveste da mare svolazzante non ci ho visto più e sono partito». Strappando gli applausi di parecchi colleghi e il sorriso divertito di Michele Anzaldi. Racconta il piddino: «Ogni giorno sull' aria condizionata è una battaglia: noi deputati chiediamo di abbassare la temperatura perché siamo coperti dalla testa ai piedi, le deputate di alzarla perché sono nude. E i poveri commessi in mezzo, senza saper che fare». Un tema sentito pure dalle donne. Tant' è che adesso la forzista Giusy Versace ha deciso di promuovere una raccolta di firme trasversale per chiedere ai questori della Camera di «richiamare le deputate al decoro e al rispetto dell' Aula». E se non dovesse funzionare, «pretenderemo che venga previsto una sorta di dress code » perché «quanto si vede in questi giorni è francamente inaccettabile: ci sono luoghi, come il Parlamento, dove il rispetto per l' istituzione impone decoro anche nell' abbigliamento ». Concorda la leghista Simona Bordonali, sempre in giacca anche a 40 gradi: «Si nota che manca attenzione nel vestirsi: le gonne sono spesso troppo corte, le magliette scollate. Ci vorrebbe un po' di buon senso in più». O forse, banalmente, di comune pudore.
Camera, le deputate svestite in posa da selfie e i colletti in pizzo portati da Nilde Iotti. Pubblicato sabato, 06 luglio 2019 da Candida Morvillo su Corriere.it. Guardando la foto della deputata con le gambe accavallate su una poltroncina del Transatlantico, gonna inguinale e sandalo a stiletto rosso fuoco, sarebbe bigotto tornare con la memoria alle foto in bianco e nero di Tina Anselmi che, nel giorno in cui diventa la prima donna della nostra Repubblica a giurare da ministro, spicca fra uomini in grisaglia con un vestito a maniche lunghe e abbottonato fino al collo; o a Nilde Iotti che fa il suo ingresso all’Assemblea Costituente in un contegnoso abito dal colletto in pizzo bianco, il massimo della rispettabilità per una ragazza di origini modeste che, fino a un attimo prima di quel 1946, pedalava da partigiana. Erano tempi in cui il Corriere dell’Informazione scriveva: «È giunta la primavera, anche se gli onorevoli costituenti non se ne avvedono, perché, se c’è un luogo dove il tramutare delle stagioni non si avverte, questo è Montecitorio. Ma ecco: un giorno, la più giovane deputatessa, Teresa Mattei, è comparsa con una giacca azzurro cupo e sul risvolto recava una splendida rosa purpurea. Fra i petali di quella rosa, era nascosta la primavera». È anacronistico prendere quella rosa purpurea a misura dei mutati costumi, oggi che il cambio di stagione è annunciato dalle foto postate dall’onorevole di Fratelli d’Italia Federico Mollicone e sono scollature, schiene scoperte, sottovesti a vista, ciabattine da mare, un «Montecitorio Beach» contro il quale la deputata azzurra Giusy Versace raccoglie firme, invocando un decalogo rosa del decoro. Invece, risalire all’inizio degli anni Duemila aiuta a capire quando, come e se, qualcosa è cambiato nel look al femminile di Montecitorio e, in definitiva, nel modo in cui le donne amano rappresentare se stesse e la propria idea di libertà. Prendete la frase seguente: «Una volta, noi deputate non potevamo entrare sbracciate e senza calze, invece, oggi, sembra di stare al Twiga». L’ha pronunciata adesso Daniela Santanchè, una che il Twiga lo possiede e che, per prima, si era fatta notare per una camicetta audace solo nel rosso squillante, per i tacchi 12 che, ai suoi piedi, avevano fatto irruzione in parlamento, accolti con Oooh di rimprovero. Gabriella Carlucci, altra adepta dello stesso stile, chiederà: «Devo rinunciare alla mia personalità per fare politica? Devo essere brutta?». Era la rottura di un argine, dell’idea per cui le donne necessitavano di confidare sulla castigatezza come patente d’autorevolezza. Rosy Bindi non ci stava e replicava: «Ma per favore, non capovolgiamo le cose: sono loro che discriminano noi per imporre uno stereotipo di bellezza». Perderà Rosy, ormai è chiaro. Perderà passando per la forzista Elvira Savino, detta «La Topolona» per gli abiti fascianti, e passando le deputate Pd presto finite in titoloni stupiti perché amavano lo stiletto, come se il tacco fosse di destra, la ballerina di sinistra. Era ancora vivido il ricordo di Irene Pivetti, che presiedendo la Camera nei suoi severi tailleur e foulard pastello, non faceva presagire che, fuori di lì, l’avremmo vista svestita da Catwoman. Erano anni, in generale, in cui ci si abbigliava ancora secondo l’occasione e non come a essere costantemente pronte per un selfie su Instagram. «Non è sciatteria, è moda», ha sentenziato ora al Corriere la deputata dei 5 Stelle Maria Pallini. E c’è, nelle sue parole, un intero mondo: quello di certi fieri neofiti della politica che confondono il restare puri col vestire come gli pare. C’è uno spirito dei tempi che, da sprezzo della forma, si fa sprezzo del ridicolo. Mollicone ne fa un tema di «rispetto per l’Aula e pari opportunità». Ed è parità invocata al rovescio: non «più canottiere per tutti», ma «più giacche per tutte». Ci è almeno risparmiato che i deputati invochino il diritto a scoprire i bicipiti nell’austera aula. Spiega il piddino Michele Anzaldi: «Sull’aria condizionata è una battaglia: noi deputati chiediamo di abbassarla perché siamo coperti dalla testa ai piedi, le deputate di alzarla, perché sono nude». Fra le donne, c’è chi è insorta a difesa degli abiti discinti. In fondo, il regolamento della Camera non prevede, per loro, obbligo di giacca come per gli uomini. Ingenui padri e madri della patria devono aver pensato che fosse superfluo imporre il buon gusto per norma. Per la pentasellata Valentina Corneli, la crociata in corso è «un attacco alle donne». La collega di partito Angela Ianaro accusa Mollicone di esporre le deputate agli insulti maschilisti degli haters. Anche l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, che pure non va in aula in minigonna, stigmatizza una polemica «che prende di mira le donne». Veniamo, nel nostro piccolo, dal MeToo e uno degli esiti è che, ormai, tutto si butta sul sessismo. Ci si chiede, in teoria, se le deputate siano libere o no di scoprire le gambe, ma in realtà, ci si chiede se si può ancora criticare una donna su una scelta che ne tocchi la libertà senza essere zittiti con l’accusa di sessismo.
«Sì alle camicette scollate»: le deputate contrattaccano sul look. Pubblicato giovedì, 04 luglio 2019 da Fabrizio Caccia su Corriere.it. «Io non sono una vamp nè un’egocentrica...», s’indigna via sms la portavoce dei Cinquestelle Valentina Corneli, 33 anni, abruzzese di Giulianova. In verità, s’indignò parecchio già nel maggio scorso, quando Dagospia titolò “Una maggiorata in maggioranza”, pubblicando le foto di un suo intervento in Aula in cui sfoggiava un generoso décolleté. Reagì con rabbia: «Il mio aspetto fisico è l’ultima cosa a cui hanno fatto caso le persone che ho incontrato durante il mio percorso». E così, anche oggi che alla Camera il tema è tornato d’attualità - visto che la deputata Fi Giusy Versace sta raccogliendo firme per chiedere al presidente Roberto Fico di richiamare le colleghe «a un abbigliamento più idoneo» e il collega di FdI Federico Mollicone ha addirittura postato su Fb delle foto rubate di parlamentari in stile Montecitorio beach - la Corneli parte al contrattacco: «Non è vero che non c’è decoro in Aula come vogliono far credere loro, questo attacco alle “donne” di Montecitorio è esagerato... E mi spiace che sia stata proprio una donna a incentivare una forma mascherata di sessismo, che, con il clima di strisciante regressione che stiamo vivendo, è piuttosto inopportuna...Io sono un’esteta, quindi amo le cose belle, vestire bene ed in modo femminile, ma di certo non riuscirei ad essere volgare - o superficiale - nemmeno se lo volessi. Inoltre, nella vita, credo di aver dimostrato che l’aspetto fisico era l’ultima cosa che avevo da “mostrare”. Mi sono laureata a 23 anni con la media del 30 e lode, a 25 anni ero già avvocato... Despicit et magnos recta puella deos, diceva Orazio: una bella donna non si cura neppure degli dei. Ovviamente non firmerò la petizione della Versace e, anzi, mi auguro che venga ritirata».
Durissima, la Corneli. Ha firmato invece la petizione Patrizia Prestipino, del Pd, malgrado un’altra foto rubata la ritragga seduta in Transatlantico con una gonna che sembra cortissima: «Suvvia - dice - lo sanno tutti che nei divanetti del Transatlantico si sprofonda, perciò finisce che la gonna si accorcia. Ma quella della foto era quasi sopra al ginocchio! Poi s’è seduta pure Alessia Morani, con una gonna lunga quanto la mia e un collega, passando, ci ha gridato per scherzo: “A scosciate, copritevi!!!”. La verità è che se sei sciatta, sei sciatta sempre, anche se ti copri. A me, invece, piacciono pure le camicette scollate: ieri, per esempio, avevo una camicetta di seta rossa e quando ho visto Mollicone gli ho detto: Metti anche me nella black list?».
Federico Mollicone, a proposito, non ci sta a passare da «fustigatore di costumi» e si è già scusato con le colleghe di cui ha postato le foto su Fb: «Quelle immagini le avevo ricevute da altri e le ho subito cancellate. Ma volevo porre un problema di pari opportunità: perchè noi maschi dobbiamo portare la giacca, mentre per le femmine non ci sono regole?». Ed ecco infine passare, in Transatlantico, Annaelsa Tartaglione, 30 anni, di Forza Italia, ex miss Molise: «Che volete da me? Vesto un tubino rosa accollatissimo, lungo fino quasi alle caviglie e di un marchio a buon prezzo. Un mio commento su come vestono le onorevoli? Non mettetemi in difficoltà con le colleghe». Federico Mollicone, a proposito, non ci sta a passare da «fustigatore di costumi» e si è già scusato con le colleghe di cui ha postato le foto su Fb: «Quelle immagini le avevo ricevute da altri e le ho subito cancellate. Ma volevo porre un problema di pari opportunità: perchè noi maschi dobbiamo portare la giacca, mentre per le femmine non ci sono regole?».
Cari maschi giusto che il sesso forte si metta una giacca. Claudia Terracina il 4 luglio 2019 su Il Dubbio. Sarebbe assurdo costringere ragazze e signore a un look con braccia e piedi coperti in pieno solleone. Per fortuna sono lontani i tempi in cui il dress code veniva dettato da leader e segretari di partito. Cari maschi. Alla Camera dei deputati come in spiaggia? Non sia mai! L’onorevole di Fratelli d’Italia, Federico Mollicone si indigna e compila un post che fa appello al comune senso del pudore. Non tanto per rispetto verso l’Istituzione, quanto per par condicio nei confronti degli onorevoli uomini costretti alla tortura della giacca in tempi di canicola. Ma, si badi bene, non al nodo scorsoio della cravatta, obbligatoria solo in Senato. Insomma, parrebbe pura invidia nei confronti delle signore. E che sarà mai qualche centimetro di pelle al vento per piedi smaltati, braccia nude, décolleté e ginocchia in mostra. Va detto, per la verità, che anche l’ex presidente della Camera, Pier Ferdinando Casini, rivolse un appello accorato alle colleghe per bandire sandali e infradito. E pure la ex presidente Boldrini fu aspramente criticata per essersi presentata con un paio di zatteroni a una udienza papale. Questione di opportunità, certo. Le deputate però non ci stanno e rivendicano il diritto di vestirsi a proprio piacimento. E che sarà mai qualche centimetro di pelle esposto? Per fortuna sono lontani i tempi in cui il dress code veniva dettato da leader e segretari di partito. Come dimenticare il regolamento imposto da Berlusconi alle ‘ sue’ onorevoli, che diventò un pezzo di storia del costume perché fu adottato anche per le famose ‘ cene eleganti’? Tubino nero, tacco 12, sempre truccate. Ma quel salire e scendere per le scale dell’emiciclo si trasformò presto quasi in una passerella del varietà. E allora signorine e signorine passarono ai pantaloni, anche se al tacco non rinunciarono mai. Memorabili le calzature di Daniela Santanché che spesso e volentieri si incastravano nei sampietrini di piazza Montecitorio, costringendola a piroette scomposte. Solo Giorgia Meloni, allora figura emergente di An, e, ora, guarda caso, capo riconosciuto di Fratelli d’Italia, quindi anche dell’onorevole Mollicone, rifiutò la divisa berlusconiana. «Mi avete visto osservò caustica – con la mia altezza, si fa per dire, farei ridere con tacchi vertiginosi e minigonna!». Ma adesso, per la verità, spesso sfoggia dei veri trampoli. Quindi, abbia pazienza, onorevole Mollicone, sopporti i sandali e quel po’ di pelle esposta, purché non si ecceda. Non siamo più ai tempi di Cicciolina, che, appena eletta nelle file dei radicali, non disdegnava qualche esibizione delle sue grazie per deliziare i colleghi. I costumi si sono evoluti e il Parlamento è un po’ lo specchio della società italiana. E l’abbigliamento viene usato anche per lanciare messaggi politici. Vedi i cappelli rosa ‘ pussycat’ inalberati dalle donne americane per manifestare contro il sessismo di Trump. O, per tornare a casa nostra, i jeans bipartisan, sfoggiati da donne deputate di tutti gli schieramenti per protestare contro quelle sentenze che negavano la violenza sessuale se la vittima indossava i jeans. Le onorevoli forziste ostentarono camicie e sciarpe bianche per ribadire la non procedibilità contro il Cavaliere. E le colleghe di sinistra, la scorsa estate, sfoggiarono magliette rosse in segno di solidarietà con i migranti bloccati in mare dagli altolà di Salvini. Ma in estate non ci sono messaggi politici. Solo un gran caldo. Perciò, onorevole Mollicone, un po’ di tolleranza. Sarebbe assurdo costringere ragazze e signore a un look con braccia e piedi coperti in pieno solleone. E pazienza se i deputati uomini devono sempre indossare giacca e camicia. Insomma, sono o non sono il sesso forte?
Da Libero Quotidiano il 4 luglio 2019. Fa discutere il caso sollevato da Federico Mollicone, deputato di Fratelli d'Italia, che sul suo profilo Facebook ha denunciato come alcune deputate si presentino alla Camera in abiti assai poco istituzionali per affrontare il grande caldo. "Benvenuti a Montecitorio Beach", esordiva sui social Mollicone. E sulla vicenda, ora, interviene anche Vittorio Sgarbi. Lo fa su Twitter, ricordando come "a sdoganare l'abbigliamento da spiaggia in ambito istituzionale, ci aveva già pensato l'ex presidente della Camera, Laura Boldrini, in udienza dal Papa". Il riferimento del critico d'arte è a quando, nel luglio del 2017, la fu presidenta della Camera si presentò dal Pontefice in ciabatte. Non il massimo, effettivamente.
Lettera di Melania Rizzoli a Dagospia il 4 luglio 2019. Caro Dago, non erano proprio delle ciabatte, dai. I tuoi titoli sono sempre un po' maligni, a volte strafottenti e spesso denigranti. Quello di ieri sulla Boldrini dal Papa era quasi offensivo. L'hai definita addirittura una "gattara"! Hai esagerato, e la Presidente della Camera non avrà di certo gradito. Tu hai sparato sul tuo sito la notizia che la Laura nazionale si è presentata al cospetto del Santo Padre in ciabatte. Io ho osservato bene le foto, inclusa quella ingrandita dei suoi piedi con le unghie laccate di rosso carminio, e non erano affatto infilati in volgari pantofole, ma in un paio di sandali con la zeppa, dai quali straboccavano gli alluci. Laura Boldrini evidentemente quel giorno voleva distinguersi, perché nessuna mai prima di lei si era presentata ad una udienza privata dal Papa con le estremità pedestri in bella vista. Nessuna figura istituzionale ha mai osato tanto, nessuna presidente o parlamentare, nessuna leader o moglie di leader, ma nemmeno la più ignorante delle signore del popolo. Ma come si può? Come si fa a presentarsi così? Va bene essere di sinistra, va bene pure essere anticonformisti, ma una presidente della Camera, a mio parere, un minimo di stile deve esibirlo, per dare l'esempio, e soprattutto per la dignità e l'autorità del suo ruolo, e per dare almeno l' impressione di conoscere, applicare e rispettare le regole. Non mi riferisco a quelle del "bon ton" di Lina Sotis, ma quelle del buon senso. La Boldrini infatti, da tempo aveva fissato in agenda quell'appuntamento in Vaticano, e quello non è stato quindi un evento improvviso ed inaspettato che non le ha lasciato il tempo di cambiarsi. No, lei ha proprio scelto quei sandali per presentarsi di fronte a Bergoglio, forse pensando di assumere un look informale e non istituzionale, forse per esibire confidenza con lui, o forse per ignorare volutamente l' etichetta ed allinearsi alla semplicità esibita dal Santo Padre. Ma santa donna, come si fa ad entrare nelle sacre stanze del rappresentante della Chiesa così conciata? É mancanza di stile? È mancanza di rispetto? È disprezzo del politicamente corretto? È non avere idea delle regole ferree del Vaticano? No, secondo me è solo puro provincialismo, genetico, radicato ed irrecuperabile. Eppure quando Laura Boldrini ha fatto visita alla moschea di Roma, alla faccia di tutti i valori di libertà delle donne da lei spesso proclamati, si è presentata con il velo in testa per coprire i capelli, simbolo di femminilità e di sensualità da velare. Va bene, direte voi, come gli uomini mettono la kippah in sinagoga, le donne in moschea si coprono il capo. Ma dove è scritto che in udienza dal Papa si scoprono i piedi? Cioè, la paladina del politicamente corretto è rispettosissima quando fa visita al mondo islamico, e sprezzante o sciatta quando si presenta davanti al più importante rappresentante della Chiesa cattolica? Sorvolo su completo azzurro con camicetta di seta a fiori giallina che completava il look della Boldrini, con il bordo dei pantaloni afflosciato sulle rigide zeppe dalla forma squadrata, e che comunque mi ha lasciato esterrefatta. Eh sì, caro Dago, penso proprio che la Boldrini abbia bisogno di un'amica, di quelle che conoscono le regole, di quelle che si "vestono" e non si "coprono", e che la mattina dia una sbirciata all'agenda della Presidente, per poi tirare fuori dall' armadio gli abiti adatti alla giornata, o portarla un pomeriggio in giro per negozi per acquistare capi decenti, adatti al ruolo istituzionale che ricopre. Sarebbe molto più importante, e molto più utile della sua ufficio stampa, che è sempre alle sue spalle e le sussurra di sorridere appena si accende una telecamera, e che con lei tenta quotidianamente un'operazione simpatia inutile ed impossibile da realizzare, soprattutto se si ha poca dimestichezza con la ferocia dei media. Perché le interviste e le video riprese della Boldrini restano 30secondi nei telegiornali, e si guardano distrattamente, mentre le foto sono perenni, e quelle immagini fanno il giro dei siti ed immortalano per sempre le tue glorie e le tue miserie. In questo caso la foto della Boldrini nello studio di Papa Francesco ha rivelato tutto il suo provincialismo, tutto il cattivo gusto, e forse avrà anche ridotto di poco l'antipatia che la accompagna come un'aura, perché ha provocato in rete molta ilarità e molti commenti divertiti e maligni, incluso il tuo. "Sono onorata di essere stata ricevuta in udienza da Papa Francesco. Le sue parole sono state, come sempre, fonte di ispirazione", ha scritto la Presidente della camera in un tweet al termine del suo incontro, ma la vera fonte di ispirazione avrebbe dovuto averla non parlando con Bergoglio, ma soltanto osservandolo, perché lui, nonostante il caldo rovente di Roma ed i tre strati di paramenti che è costretto ad indossare, non ha mai esibito un paio di sandali francescani, che probabilmente nemmeno possiede. Insomma caro Dago, quelle che tu chiami ciabatte, calzate dalla Boldrini, erano irrispettose per la persona e per la sacralità del luogo, vanno bene per la spiaggia di Rimini, non per i pavimenti di marmi pregiati di San Pietro, ed indossarle di fronte al Papa è stata una grave caduta di stile e una ennesima brutta figura per la prima rappresentante della Camera dei Deputati. E permettimi di aggiungere, che se lo stile non è innato, lo si può apprendere, imparare od imitare con un minimo di gusto, di cultura e di frequentazioni. Per cui, la domanda che mi faccio è questa: ma chi frequenta la Boldrini? Cari saluti Melania Rizzoli
· La donna non è più tanto comunista!
Nicola Zingaretti e Pd umiliati dalle donne alle urne, il documento e la rabbia delle compagne. Filippo Facci su Libero Quotidiano 4 Giugno 2019. Solo una donna su dieci ha votato Partito democratico per il Parlamento Europeo, mentre Lega e Movimento Cinque Stelle sono gli unici che hanno eletto più donne che uomini. E non ce ne saremmo neanche accorti, se alcune donne del Pd non si fossero messe a rognare nella loro bacata convinzione di dover essere corporazione, categoria, quota, donne in quanto donne. È stata La Stampa, in una sua rubrica titolata «Il calendario delle donne», a dare notizia dell' analisi realizzata da You Trend sul voto delle italiane: ne scaturisce che il Pd ha fatto eleggere 12 uomini e 7 donne, quasi la metà, mentre sette italiane su 10 si sono astenute o hanno votato Lega; quest' ultima ha eletto 15 donne e 14 uomini, i Cinque Stelle 8 donne e 6 uomini. E attenzione, il sistema elettorale per le Europee è un proporzionale vecchia maniera, con tanto di preferenze, quindi non si può neanche incolpare una maschia casta dei nominati o dei listini fallocrati: sono proprio gli elettori - termine neutro - ad aver deciso di votare o non votare tizia e caia. E attenzione, ancora: per la prima volta si votava con un meccanismo che garantiva la «parità di genere» (espressione che merita le virgolette a vita) e il risultato è che il partito di Salvini, nonostante la presenza anche di soggetti pochissimo femministi, è riuscito a garantire una parità numerica più di altre forze che ammiccavano specificamente al femminismo progressista. Sono dati. Il risultato, ora, è una prevedibile cagnara progressista, con varie piddine che perpetuano l' errore storico di considerarsi anzitutto «donne» prima che politici o esseri umani asessuati, quindi meritevoli o meno di un voto. L' elezione di caia, o la sua trombatura, è sempre l' indice della maturità civile di un Paese o di un partito: non è mai l' indice del fatto che caia sia stata recepita come immeritevole o invotabile o cretina. Non viene mai in mente che una donna la quale sia ritenuta una brava politica, in potenza, se non riesce a fare politica come meriterebbe, è perché forse tanto brava non è: che poi è lo stesso discorso che si fa per gli uomini.
«ASSEGNAZIONE». La candidata trombata Francesca Puglisi, per esempio, è una specialista nell' incolpare la questione sessuale in caso di sconfitta: lo fece anche alle scorse politiche. Aveva dato vita a «Twanda», una rete di donne interne al partito (immaginate se qualcuno facesse una rete di soli uomini) per poi ritrovarsi tre maschi candidati alle primarie, un segretario maschio e un presidente maschio. E ora una maggioranza di uomini eletti alle Europee. Lei era candidata, e ha preso 11mila voti, ma non sono bastati: eppure sono stati voti dati dalla gente, qual è allora il complotto? «I maschi si pianificano le carriere a tavolino e lasciano alle donne il compito di eliminarsi a vicenda, questo accade perché non riusciamo a fare gioco di squadra hanno vinto gli uomini messi in posizione blindata o le donne che sono state perennemente in televisione». Divertente questa idea che gli uomini non cerchino di eliminarsi a vicenda, e tra loro si vogliano tutti bene. La soluzione, comunque, secondo la Puglisi o le puglisi, è sempre quella: l' assegnazione di ruoli importanti. La parola è proprio «assegnazione», che implica delle nomine rigorosamente non elettive per valorizzare il «genere». E perché assegnare proprio a lei, o a una donna, un ruolo importante? Perché è una donna, in quest' ottica. Punto.
RUOLI. Un risultato che lascia intendere che determinate assegnazioni a donne di ruoli importanti, in altri partiti, siano state fatte con lo stesso criterio: perché erano donne, non perché meritevoli più di altri uomini e più di altre donne. La Puglisi - che stiamo prendendo ad archetipo - si è messa poi a rielencare una serie di auspicabili provvedimenti pro-donne (congedi parentali retribuiti, parità di salari, tutela delle madri) dimenticando o non sapendo che i temi più importanti per chi ha votato, sempre secondo You Trend, sono restati comunque la sicurezza, l' immigrazione e il lavoro, temi che a quanto pare - dai dati - hanno attratto l' attenzione di entrambi i sessi in maniera abbastanza omogenea. Quindi il problema è a monte, diciamo.
LE QUOTE. Un'altra candidata progressista non eletta, Mila Spicola, ha spiegato invece che «i gangli del potere sono maschili, se il leader è femminista, le donne possono anche ottenere dei ruoli, ma se il leader è poco sensibile alla parità non c' è da sperare in nulla. Per una donna candidarsi è l' unico modo per avere rilievo in questo partito». Come se fosse poco. Come se Giorgia Meloni si fosse fatta largo, e avesse fondato un partito, a forza di assegnazioni e benemerenze di uomini illuminati. Che poi non si tratta di negare l' evidenza: un certo maschilismo, in Italia, permane in politica come in molti altri settori. Ma in molte professioni le donne hanno raggiunto la parità o la preponderanza senza mai quote o «assegnazioni»: le quali, spesso, per le donne, sono state una più o meno consapevole umiliazione. Le quote - come gli incarichi - restano basate sul fatto che ad assegnarle sono perlopiù uomini, è vero. Ma per banale che sia dirlo, il potere non si assegna: si prende. Il resto è fuffa, o decisione di mettere «tot donne» in lista a manciate, quote-emancipazione, calcoli prettamente maschili che spesso sono valsi anche per l' assegnazione dei ministeri. Dove qualche ministra, non di rado, si è limitata a opporre un clientelismo femminile a quello maschile. Filippo Facci
· La vita delle groupie.
Sesso, droga e ribellione: la vita delle groupie, tra palco e backstage. Pubblicato giovedì, 18 luglio 2019 da Corriere.it. Muse, amanti, mogli. Fan accanite, pronte a lasciare casa e famiglia pur di immolare la propria vita per una rockstar di turno. Ragazze giovani e attraenti. Entrare nel mondo delle groupie significa scoprire le mille maschere di queste donne, capaci con il loro spirito libertino di rivoluzionare i costumi sociali e le mode di un ventennio, disposte a tutto per un breve momento di celebrità. A raccontare le loro vicende è la giornalista musicale Barbara Tomasino nel saggio «Groupie, ragazze a perdere», edito da Odoya, pubblicato per la prima volta nel 2003 e ripubblicato oggi, a 50 anni da Woodstock. Un viaggio attraverso gli anni Sessanta-Settanta-Ottanta, nato dalla curiosità di conoscere il fenomeno nella sua complessità. «Ho iniziato a documentarmi e, anche grazie all’uscita del film Almost Famous di Cameron Crowe, mi si è aperto un mondo. La storia delle groupie fa parte della storia del rock, racconta la musica da un’angolazione diversa, molto più interessante e profonda di quanto si pensi. Ci permette di dare uno sguardo dal buco della serratura del backstage», spiega Tomasino al Corriere della Sera, che nella seconda parte del libro — dopo l’introduzione — ci regala un affresco delle vite delle protagoniste del fenomeno, da Marianne Faithfull — un’artista a tutto tondo, una musa, un’apparizione per la sua bellezza — a Nancy Spungen, che ebbe una storia travolgente e ridicola al contempo con Sid Vicious. La copertina del romanzo autobiografico pubblicato nel 1969 da Jenny Fabian con Johnny Byrne. La scrittrice, che da giovane fu una delle più celebri «accompagnatrici» di rockstar, nel libro raccontava le sue relazioni con alcuni dei nomi più celebri del rock anglosassone. Non è un caso se Gail, una groupie poi moglie di Frank Zappa, disse: «La musica era l’altare, i musicisti erano gli dei e le groupie le più alte sacerdotesse». La loro, infatti, continua l’autrice, «era una scelta di libertà, di ribellione, di divertimento, di godere appieno la propria giovinezza con la colonna sonora più entusiasmate che sia mai stata scritta. Non c’era molto spazio per le donne nel mondo del rock e i favori sessuali erano la prima moneta di scambio per queste ragazze che volevano fare parte di una scena selvaggia ed entusiasmante». Il sesso nella vita delle groupie era fondamentale e la competizione tra ragazze era molto agguerrita. Pamela Des Barres «Era uno stile di vita selvaggio e tutti volevano fare parte della festa anche perché sapevano che non sarebbe durato per sempre. Il rock è roba da giovani, non puoi spingere sul pedale dell’acceleratore all’infinito perché poi ti schianti. Molte vite infatti si sono bruciate», ricorda. Le groupie condividevano – in linea di massima – gli stessi eccessi delle rockstar di turno, erano una figura chiave della «vita quotidiana» durante il tour: «Procuravano droghe, abiti alla moda, anche altre ragazze se necessario per soddisfare i capricci dei musicisti». Ma — sottolinea Tomasino — da queste esperienze potevano anche nascere «rapporti teneri, di amore talvolta, di amicizia, di profonda comprensione…solo una groupie poteva capire le frustrazioni e le inquietudini di una rockstar in tour. Come diceva Zappa, se non hai delle groupie che ti girano intorno, allora non stai facendo sul serio». Questi erano gli anni Sessanta e Settanta. Quali caratteristiche accomunavano queste donne? «Look impeccabile, energia vitale e uno sguardo pigramente malinconico, forse l’aspetto che rendeva le groupie più belle ancora più sexy, come nei casi di Pamela Des Barres, Catherine James, Sable Starr. Con il passare degli anni, però, il termine groupie ha assunto un significato dispregiativo perché c’è stato «un ritorno al conservatorismo e al bigottismo in tutto il mondo occidentale, dagli Stati Uniti all’Italia. Anita Pallenberg, da groupie e fidanzata di Brian Jones, diventò una delle più famose «donne dei Rolling Stones». Ha avuto due figli da Keith Richards Il neo-femminismo di oggi in molti suoi aspetti mi sembra una retroguardia piuttosto che un’avanguardia per i diritti delle donne», chiarisce Tomasino ed evidenzia: «Il movimento #Metoo ha portato a galla comportamenti e fatti che sfociano nel penale e vanno assolutamente perseguiti e puniti, ma il tema si è poi allargato a una sorta di moderna caccia alle streghe volta a rovinare carriere e persone. Oggi un qualsiasi atteggiamento di un musicista verso una groupie verrebbe tacciato di sessismo, persino violenza, mentre all’epoca era la normalità». Certo, «non voglio dire che quello non fosse (e tutt’ora per certi versi è) un ambiente maschilista dove l’ego dell’uomo aveva sempre la meglio, perché è così. Ma queste donne nella maggior parte dei casi sapevano a cosa andavano incontro e non gli importava, non perché fossero sottomesse, ma perché avevano scelto di vivere quella vita, una scelta profondamente femminista a mio avviso. Poi le relazioni balorde, con minorenni, al limite dell’abuso psicologico, non si contano». Come si conciliano — quindi — modernità e spirito libero con l’accettazione della sottomissione? «Oggi siamo libere, lavoriamo, cresciamo i figli (se ne abbiamo), viaggiamo, abbiamo una vita sociale fuori dalla famiglia, insomma siamo entrate nella modernità, eppure scendiamo a compromessi con l’altra metà del cielo ogni giorno e quando – in alcuni casi – proviamo ad affermare la nostra femminilità veniamo subito etichettate», conclude l’autrice. «Oggi una donna non può essere sexy, appariscente, disinvolta, non può mostrare senza veli la propria personalità anche complessa, deve più che altro essere magra, rassicurante, dai contorni perfetti, dentro e fuori, perché la complessità oggi spaventa e disturba. Davvero questa è un’epoca di libertà sociali e conquiste per le donne rispetto ai selvaggi anni ’60? Non lo so, vorrei rifletterci. Certo, oggi tutto è cambiato e prevale un terribile effetto nostalgia: come diceva Lester Bangs in «Quasi Famosi», anno 1973, «il rock è morto, sei arrivato giusto in tempo per il rantolo finale». Amen. Il CBGB (detto anche CBGB’s o CB’s), il rock club situato nel Lower East Side di Manhattan all’indirizzo 315 di Bowery street a New York. Aperto ufficialmente il 10 dicembre 1973, era un locale dedicato a musica country, blues e bluegrass, ma diventò universalmente famoso come punto di riferimento del punk statunitense.
· Donne, giornaliste, non di sinistra. Quindi da massacrare sui social.
Donne, giornaliste, non di sinistra. Quindi da massacrare sui social. Francesco Storace venerdì 31 maggio 2019 su Il Secolo D'Italia. La notizia è femmina. Ma se è firmata da una giornalista di destra – anzi, basta semplicemente non essere schierata a sinistra – non si può. È clandestina. È da linciare, quella donna, da odiare sul web. Ce ne sono due nel mirino, adesso, di croniste che mettono l’informazione avanti a tutto, persino se stesse. E per questo vanno massacrate. Per loro non si mobilita l’ordine dei giornalisti, la federazione della stampa e nemmeno Laura Boldrini. Anzi. Due giornaliste molto diverse tra loro. Una, Manuela Moreno, lavora al Tg2 – odiato pure lui – e va a prendere notizie anche in Svezia, anche se sgradite. L’altra è Francesca Totolo, la cui colpa principale è informare sul Primato Nazionale. Donna e di CasaPound, disprezzarla diventa un dovere.
Della Sharia non parlare…Manuela Moreno va in Svezia e realizza un servizio sul fallimento dell’integrazione di un paese fino a pochi anni fa considerato un modello. In quel paese l’emergenza immigrazione ha portato il governo ad una retromarcia rispetto alla politica delle frontiere aperte. La presenza della sharia confermata da testimoni diretti e oculari. Il primato per le violenze nei confronti delle donne in tutta Europa. Accade che Salvini riprenda il servizio sui social e Il Fatto si scatena. L’ambasciata svedese si offende e chiede spiegazioni…. Persino il comitato di redazione del Tg2 – anziché prendere le difese di una collega da un’ingerenza poco diplomatica – si permette di ignorare le fonti di informazione dirette della cronista. Sul web gli insulti non si contano. Eppure ne avevano già scritto anche altre testate. Persino Il Fatto, e anche La Stampa, Il Foglio. E ne aveva parlato Piazza pulita de La7. Crocifissa solo lei.
…e nemmeno delle Ong. Francesca Totolo, dal canto suo, è stata assediata dai follower del sinistrume nostrano per aver pubblicato la foto qui sotto di “disperati” che scendono dai barconi delle ong, si fanno selfie, contano soldi, inscenano balletti a bordo, con tagli di capelli perfetti, etc. Pure Milena Gabanelli ha dovuto ammettere sul Corriere della Sera – ha ricordato la Totolo – che i “migranti” appartengono alla “classe media” del proprio Paese di origine e che “le persone emigrano dai Paesi dove il reddito consente di affrontare le spese di viaggio”. Ebbene, questa considerazione ha scatenato l’iradiddio sulla rete. Anche qui, come nel caso della Moreno, la medesima riflessione fatta da altri non vale la lapidazione se la fa chi non è di sinistra. Di più: Francesca Totolo ha anche scoperto chi di è distinto di più nel linciaggio via social: “La medaglia dei commenti più “amorevoli” viene vinta, senza ombra di dubbio, da P.R., follower attivissimo di Laura Boldrini, che proprio qualche ora prima pubblicava un tweet contro “l’odio online che si riversa sulla donne”. Già, ci sono donne e donne. Quelle del politicamente corretto, per le quali si insorge al primo sussurro. E quelle che fanno informazione non conforme, abbandonate agli hater che imperversano sulla rete. Ma c’è pure chi non intende tacere su questa vergogna. Anche per questo serve il Secolo d’Italia.
· Il Palo della Discordia.
Michela Proietti per “Sette - Corriere della Sera” il 24 novembre 2019. Ora si scopre che persino Boris Johnson, nel suo appartamento a Shoreditch — minuziosamente descritto dal newsmagazine Air Mail — avrebbe avuto un palo da pole dance. Durante il suo mandato da sindaco di Londra l’attuale primo ministro inglese si sarebbe intrattenuto piu di una sera a casa con la ballerina Jennifer Arcuri. La notizia ha indignato ma al tempo stesso incuriosito e rilanciato una domanda: il fascino della pole dance e davvero intramontabile? La stessa domanda era nata qualche anno fa sulla scia dell’ossessione di Sophia Coppola per il genere: in The Bling Ring Emma Watson oscillava intorno a un montante e lo stesso avveniva in Somewhere, dove le gemelle Karissa e Kristina improvvisavano all’Hotel Chateau Marmont una seduta a domicilio, eppure senza riuscire a ridestare l’annoiatissimo cliente interpretato da Stephen Dorff. Ora la rinascita della pole dance passa dallo sport e rivendica un ruolo a parte, che nulla ha a che vedere con la lap dance: il nome corretto e pole gymnastic e consiste nell’unione di movimenti mutuati dalla ginnastica e l’uso di elementi tipici della pole dance, come il palo. Per Simona Nocco, presidente della Federazione italiana pole dance, «e adatta sia alle donne che agli uomini, riesce a rassodare e tonificare il corpo, potenzia i muscoli e migliora la postura». Che il confine tra allusione sessuale ed esercizio fisico sia ancora sfumato ne ha dato una dimostrazione l’esibizione di Damiano David, il cantante dei Maneskin, che due anni fa si e esibito sul palco di X-Factor con una pole dance al limite del trasgressivo.
Il segreto di J. Lo. Eppure, dietro a una esibizione del genere, c’e una accurata preparazione. La pole dance e difficile. Sembrare un professionista nel giro di pochi mesi e ancora piu complicato: la ballerina e coreografa Johanna Sapakie ha formato il cast di Hustlers - Le ragazze di Wall Street, il film nelle sale dal 7 novembre con Jennifer Lopez, e ha sottoposto la popstar a sedute propedeutiche di climbing e spinning. I risultati pero sono stati straordinari: l’uscita trionfale di J.Lo alle ultime sfilate milanesi, in cui ha potuto indossare lo stesso jungle dress di 20 anni fa, ha mostrato al mondo gli eleva- ti standard di tonicita raggiunti. Tutto merito della pole dance? La trainer americana non ha dubbi: «Stare avvinghiati a un palo e cercare di non cadere mette in gioco muscoli che neppure si sospetta- va di avere». Titolare dello studio newyorchese Body&Pole, Johanna Sapakie ha svelato ad Harper’s Bazaar che ballare la pole non significa essere perfetti, ma sen- tirsi bene con se stessi, liberi e sexy. «Spero che il film riesca a mandare in frantumi i pregiudizi», spiega Sapakie, «penso che ci sia un malinteso generale, la pole dance non e piu solo nei club, ma ora c’e un’asta anche nelle case delle mamme che vogliono allenarsi per ritrovare la forma fisica dopo il parto. Mi auguro che J. Lo ne parli durante le interviste e che la gente cominci a capire che e uno sport per tutti».
Chi sono le allieve. In Italia ogni giorno aprono nuove scuole: Valeria Bonalume, due volte campionessa di pole dance e insegnante internazionale, nel suo sito valeriabonalume.it istruisce su come e dove avvicinarsi a que- sto sport. Se all’inizio doveva specificare la differenza tra pole e lap, ora non occorre piu. «C’e maggiore consapevolezza», dice, «appena inizio la mia esibizione e chiaro che il gesto sensuale e messo in ombra da quello atletico». Crescita interiore, forza, positivita: sono questi i benefici psicologici regalati da una seduta di pole dance, ai quali si sommano quelli fisici. La pole e un allenamento to- nificante, ma che agisce anche sul- la flessibilita, la coordinazione, la grazia e la fluidita dei movimenti: la muscolatura intera e impegnata nello sforzo, con un focus su ad- dominali, spalle e braccia. «E una disciplina sportiva a tutti gli effetti, un mix fra ginnastica e danza», spiega Giada Accorti, performer e insegnante alla Milan Pole Dance Studio, a Milano. «Il corpo e tutto coinvolto: spalle, trapezio, dorsali, glutei, pettorali, addominali. E all’inizio le braccia fanno malissimo». L’aspetto sensuale e secondario, ma non del tutto assente: la pole dance e particolarmente amata dalle manager che ritrovano una femminilita un po’ dimenticata e usano l’allenamento come un rimedio antistress e un antidoto alla timidezza. Secondo gli esperti aiuta a migliorare consapevolezza e autostima, a sviluppare coscienza di se e su questa scia, qualche anno fa, anche la Cambridge University ha offerto ai suoi studenti lezioni di danza privata scontate per com- battere lo stress. «Basta provarla per innamorarsi», continua Giada Accorti. «Bisogna solo vincere quel senso di imbarazzo nel dire: “sono iscritta a un corso di pole dance”. Le donne in Italia si censurano per timore del giudizio maschile».
Lo scontro politico. Sul terreno della pole dance si consuma anche lo scontro politico. La scrittrice femminista statunitense Ariel Levy nel libro Female Chau- vanist Pigs – manifesto contro la cultura raunch, intesa come quella ostentatamente sexy – ha defini- to la pole dance come la resa del femminismo a una visione fallocentrica. Nel 2016 e addirittura accaduto che il London Abused Women’s Centre si sia ritirato da una marcia contro la violenza sulle donne perche nel corteo avrebbe sfilato anche una palestra di pole dance. Oggi la prospettiva appare rovesciata: il femminismo di terza ondata, che cerca l’inclusione e il rispetto delle scelte delle donne piuttosto che la denuncia di comportamenti che sostengono il maschilismo, ha tentato di riabilitare la pole dance come una attivita che va nella direzione di una autodeterminazione e di una scelta individuale. La trainer inglese Wendy Saunt, che nel 2013 ha fondato Pole Prive, servizio di corsi a domicilio, ha spiegato al Telegraph come le sue allieve abbiano dai 18 ai 50 anni, con un nucleo forte fatto di professioniste trentenni. «Le donne hanno fatto un ottimo lavoro di redefinizione della pole, ma non hanno saputo comunicar- lo», spiega. «Le mie clienti ricercano l’empowerment attraverso la costruzione di forza e fiducia. Non penso che sia denigrante iscriversi a un corso di pole, anzi e una doppia sfida, fisica e mentale».
· Dio ci salvi dalle femministe in discoteca.
Dio ci salvi dalle femministe in discoteca. Simona Bertuzzi per “Libero Quotidiano” l'8 maggio 2019. Sono donna e indosso i tacchi ma non mi sentirei meno donna se non li portassi. La premessa è personale e doverosa perché in questa faccenda di provincia l' antico dibattito "tacchi a spillo o ballerine" ha preso la mano a tutti quanti ed è scivolato in un attimo nel trito diverbio misogini contro femministe. Un meToo alla romagnola come non se ne vedevano da tempo e di cui forse non c' era bisogno. Il fatto è accaduto in una discoteca di Marina di Ravenna di nome Matilda. Week end di primavera, il solito giro di clienti e l' estate che chiama e cerca novità. Ci vuole il guizzo, qualcosa che sparigli le carte, e faccia balzare dalle sedie la clientela mortificata dall' ultima coda d' inverno. Dunque i gestori s' inventano un' iniziativa promozionale un tantino provocatoria: offrono biglietti a un euro a tutte le donne che si presentino all' ingresso entro la mezzanotte indossando scarpe col tacco. Delle novelle cenerentole da discoteca pronte a calcare le piste e a farsi notare. A rinforzare il "bonus ballerina" la foto della solita modella in minigonna che svetta e posa su tacchi a spillo da urlo. La notizia si diffonde in un attimo. Nei bar dei ragazzetti e persino al circolo dei vecchi non si parla d' altro, hai sentito al Matilda? Qualcuna sorride dell' iniziativa e sgomita tra la folla in trampoli e calze a rete, io ho i tacchi, io ho i tacchi fatemi entrare. Molte altre invece girano i tacchi che non hanno e fuggono via indignate. Naturalmente la faccenda non si chiude nel piazzale del locale ma si trascina in un attimo sul web. E lo inonda e lo infiamma scatenando due opposte fazioni, sostenitori e detrattori del décolleté e della gonna corta con quel carico da novanta in più che è il solito veleno social. La femminista incazzata chiede: «Almeno vi rendete conto di quanto sia misogina e squallida la condizione che avete imposto? Sempre ammesso che questa cosa sia legale...le donne dovrebbero mettere i tacchi per corrispondere a qualche ideale di femminilità insulso e risalente al medioevo?». L' omaccione di turno, che evidentemente non è un genio e non brilla per finezza, le risponde alla sua maniera: «Non pagate e vi lamentate? Mettetevi i tacchi e divertitevi invece di presentarvi in discoteca con quelle cazzo di ballerine che sembrate delle balene con le scarpette da arrampicata». Replica a puntino la signora piccata: «Voi avrete a che fare con balene in ballerine noi abbiamo a che fare con uomini senza neuroni». Qualcuno fa notare che le donne coi tacchi resistono un battito di ciglia e tornano a casa dopo un' ora. Qualche altro che il dress code è sempre esistito. «Senza giacca non entri in certi ristoranti. E anche per le donne ci sono posti che richiedono l' abito lungo». Addirittura esiste un dress code per le università: niente jeans tagliati e infradito a lezione o in sede d' esami... sarà sessismo anche quello? Ma poi il livello precipita spaventosamente in un baratro di banalità da bar che neanche nel dopopartita. Ed è duro risalire la china: allora vale tutto signori, scrive il tizio di turno alla tastiera, «anche offrire l' ingresso gratis a chi l' abbia lungo (oddio) non meno di venti centimetri». Seguono foto di scarpe con la punta chiodata per dimostrare che si possono indossare i tacchi e rifilare tanti calci nel culo ai maschilisti ignoranti della rete e dintorni. I poveri gestori - che poveri non sono ma sicuramente esperti di marketing - stemperano i toni spiegando che è solo un' iniziativa promozionale, che non c' è nulla di male davvero, e che le signorine in ballerine e jeans hanno la possibilità e la capacità di declinare l' invito. In effetti a discolpa di questi signori va detto che sono liberi di fare ciò che vogliono del loro locale, anche di riservare l' ingresso a un marziano coi capelli verdi e la maglietta a stelle e strisce. Quanto alle donne, a noi donne, ripigliamoci un attimo. La maggior parte di noi mette i tacchi come e quando vuole e le ballerine come e quando vuole ma tutte, dai dieci anni in su, ci infighettiamo a dovere in certe circostanze e parentesi della vita. È una vergogna che qualcuno lo noti e ci ricami sopra uno sconto per la sala da ballo? No. È sessismo becero da farci una crociata? Non ci sembra. E non è finita qui, permetteteci di dirlo: la maggior parte di noi sa distinguere le provocazioni dalle offese vere. La maggior parte di noi sa dire di no a un invito che schiaccia l' occhio ai maschietti infoiati o riderci sopra se ha voglia di stare al gioco. Il problema sono semmai gli uomini che si sentono autorizzati a dirci che in ballerine siamo balene e sui tacchi femmine da sbarco. E le donne, quante sono, che basta un ingresso scontato per sentirsi oche da letto, e pure delegittimate. Per fortuna il mondo è molto più semplice e concreto di tanti dibattiti della rete. A proposito, già si vocifera di nuove iniziative e nuovi sconti nelle discoteche del litorale. E chissà che non siano per donne "a piedi nudi" Sessismo anche quello? Prepariamoci.
· Il Concertone non è femmina.
Poche cantanti sul palco. Ma le donne conquistano la scena. Polemiche per una scaletta quasi tutta di uomini ma Ambra Angiolini, Ilaria Cucchi e a Bari Valeria Golino sono le protagoniste di un immaginario che sta cambiando. Meno star e più artisti che parlano ai giovani. Angela Azzaro il 3 Maggio 2019 su Il Dubbio. La scaletta del Concertone a piazza San Giovanni le aveva tenute fuori, ma le donne si sono riprese la scena. La polemica che aveva caratterizzato la vigilia del classico appuntamento del Primo Maggio non era campata in aria e bene hanno fatto le artiste che hanno organizzato un contro evento all’Angelo Mai, lo spazio occupato a Roma. Ma accesi i riflettori, iniziata la “festa” la voce delle donne si è fatta sentire con forza. Si è sicuramente sentita quella di Ambra Angiolini, una attrice e donna di spettacolo che ogni volta, come una sorta di maledizione, deve dimostrare di non essere più la ragazza teleguidata di “Non è la Rai”. Anche questa volta c’è riuscita dominando il palco senza sbavature, con simpatia e professionalità. Ilaria Cucchi, che da anni porta avanti con raro coraggio la battaglia perché emerga la verità sulla morte di Stefano, l’altro ieri ha conquistato anche il palco di San Giovanni. Il suo esempio, più di tanti altri discorsi politici, riesce a parlare alla generazione in piazza, rappresenta un simbolo importante anche per loro che hanno urlato, in coro, il nome del fratello. A Bari, dove era in corso la manifestazione di cinema Bifest, Valeria Golino nel salutare la platea ha osato addirittura fare l’augurio di un buon Primo Maggio con il pugno chiuso, con un gesto fino a qualche anno fa scontato, quasi retorico, ma che oggi in pochi, soprattutto nel mondo del cinema, sembrano ricordarsi e che assume quindi una valenza quasi dirompente. Ma come è possibile che l’accusa di esclusione delle donne dal Primo Maggio e questo protagonismo femminile vadano insieme? La risposta è semplice da enunciare, difficile da rimuovere. Il problema delle artiste che non arrivano sul palco dei grandi eventi non dipende certo dalla mancanza di talenti o dalla mancanza di artiste determinate, ma da una struttura di potere che – più si sale – più resta nelle mani degli uomini. Giustamente gli organizzatori del Primo Maggio hanno protestato contro produttori e agenzie delle cantanti che hanno detto no alle loro proposte di ingaggio. Sotto accusa è la struttura che va cambiata, anche forzando la mano, perché niente accade per caso o con facilità. Ma nonostante il potere continui a restare nelle mani maschili in vari ambiti ( politica, arte, sapere) le donne sono diventate più forti, più determinate e appena conquistano lo spazio pubblico si fanno sentire. Il Primo Maggio lo hanno fatto cogliendo anche il bisogno di simboli di una generazione. Il tifo quasi da stadio per Ilaria, il pugno chiuso di Valeria, la forza di Ambra di uscire dallo stereotipo che le era stato cucito addosso raccontano un immaginario in cui le nuove generazioni cercano di identificarsi. Per tanti anni si era pensato che la società liquida, secondo la definizione stra abusata ( anche da lui stesso) del sociologo Zygmunt Bauman, non avesse bisogno di simboli, che la caduta del muro portasse con sé un immaginario pacificato, lineare. In questi anni abbiamo scoperto, anche amaramente, che non è così. La mancanza di simboli ha generato l’identificazione nella rabbia, nel rancore. La comunità ha trovato coesione non sulla solidarietà ma sull’odio nei confronti dell’altro, un meccanismo profondo, che ha poi avuto nei social network lo strumento per diffondersi e rigenerarsi. Oggi le nuove generazioni sembrano voler chiedere altro, vogliono poter credere in qualcosa. Il successo del film sulla vicenda di Stefano Cucchi, Sulla mia pelle, il calore con cui Ilaria è stata accolta sul palco del Primo Maggio sono i segni di questa necessità, di questo bisogno di uscire dal presente e di credere nel futuro. E’ lo stesso meccanismo che ha fatto scattare Greta Thunberg ( un’altra giovanissima donna). Non solo la questione ambientale, ma il bisogno di credere in qualcosa. La preoccupazione per il pianeta che stiamo distruggendo come necessità di condividere la stessa idea di mondo, di umanità. E per questo che il Concertone funziona ancora: perché dà una risposta anche se occasionale alla necessità di stare insieme intorno a un ideale condiviso. Quest’anno l’offerta era molto giovane, nomi forse non noti a tutti, ma amati dal pubblico che va a piazza San Giovanni. Rancore, Anastasio, Zen Circus, Ghemon, Achille Lauro, Ghali, Motta e gli ormai “vecchi” Daniele Silvestri e i Negrita. I quaranta, cinquantenni si sono molto lamentati. Ma questa volta tocca a loro, a quei ragazzi e a quelle ragazze che hanno urlato “Stefano, Stefano”.
“LO “SCONCERTO” DEL PRIMO MAGGIO MI METTE UNA TRISTEZZA INFINITA”. Aldo Grasso per “il Corriere della sera” il 3 maggio 2019. Non so a voi, ma a me lo «sconcerto» del 1° maggio in piazza San Giovanni a Roma mette una tristezza infinita. Colpa mia, lo ammetto, perché leggo che ad altri è piaciuto molto. Forse perché ragiono in termini di comunicazione, ma il maglioncino di Ambra con la scritta «Cgil Cisl Uil» era come mettere il dito nella piaga. Ambra ha assorbito lo spirito polemico del suo fidanzato Massimiliano Allegri e ha voluto infilarsi uno straccetto in polemica con quanti lo scorso anno l' avevano criticata per aver indossato una mise griffata. Avrei voluto essere Lele Adani e spiegarle alcune cose. Forse perché la pioggia suggerisce mestizia, desiderio di un riparo: «C'è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo». O forse per tutti quegli omaggi iniziali a illustri scomparsi: Kurt Cobain, Lou Reed, metà dei Beatles Il problema non è Ambra (per quanto), il problema è la scritta, un vero paradosso. In termini simbolici, il concertone è quanto di più distante esista dalle politiche sindacali, dal tipo di comunicazione di Maurizio Landini (anche lui ha un suo modo di vestirsi), dal vuoto di Carmelo Barbagallo, dalle lezioncine di Annamaria Furlan. E infatti il sindacato è assente, non si rivolge ai giovani, lavora su altre piazze. Certo, la presenza di Noel Gallagher che canta «All you need is love», accanto ai suoi successi con gli High Flying Birds, ha portato un respiro internazionale e ha elevato il tasso di rock della serata dopo un pomeriggio segnato, bisogna dirlo, da bande di misconosciuti (a parte i portentosi Pinguini Tattici Nucleari) in cerca della necessaria visibilità. Poi, come dicono le cronache, «Carl Brave diverte, Manuel Agnelli fa sognare, Daniele Silvestri fa sfogare la piazza con un liberatorio "mortacci", i Subsonica fanno ballare». Accanto ad Ambra c' era Lodo Guenzi. Due spalle (di cui una spalluccia) non fanno un conduttore.
L’AMBRA FURIOSA SI ABBATTE SUL CONCERTONE. Carlo Moretti per La Repubblica il 30 aprile 2019. Ambra entra a gamba tesa sulla presunta polemica sulla scarsa rappresentanza di donne tra gli artisti del Primo maggio. E la rituale conferenza stampa della vigilia del Concertone prende il volo: "Contare le donne nella lista di un concerto mi sembra davvero assurdo e dare al mondo della musica la sensazione che pur di realizzare il 50 e 50 ci si può infilare dentro chiunque, è davvero il colmo", dice la presentatrice dell'evento organizzato dai sindacati confederali in piazza San Giovanni a Roma. "Se vogliamo parlare di donne, parliamo della parità salariale, delle difficoltà di fare un figlio e mantenere il proprio posto: queste mi sembrano questioni serie. E del resto ci sono dei numeri che parlano: su mille giovani artisti iscritti al contest del Primo maggio si sono presentate 90 donne, più del 90 per cento sono uomini, questa è la fotografia della realtà. Ma è una realtà che c'era prima, il Primo maggio è l'ultimo anello di una catena produttiva, non è certo responsabile di quello che purtroppo ancora non succede nella discografia". Gli organizzatori hanno annunciato la presenza di Ilaria Cucchi sul palco del Concertone di Roma. E anche quella di Mara Venier che interagirà con Ambra. Tra gli artisti sono sette le donne presenti quest'anno al Primo maggio, comunque più dello scorso anno. "Non è la prima volta, mi succede spesso di essere in minoranza, nei festival in cui andiamo a suonare", racconta Isabella, voce di La Municipàl, una delle più belle realtà musicali presenti in questo cast molto caratterizzato da proposte indipendenti. "Bisognerebbe semmai parlare di dignità sul lavoro, di affrontare su quel piano la vera parità". Veronica Lucchesi, una delle tre donne del gruppo La rappresentante di lista sottolinea come "in contesti come questo il tema viene decisamente strumentalizzato, sarebbe meglio parlare di qualità artistica, perché le scelte andrebbero sempre fatte pensando alla qualità, al di là del genere dell'artista". Secondo Silvano Campioni della Cgil, "il cast rappresenta la musica attuale nel nostro Paese. I temi importanti sono quelli che sottolinea lo slogan scelto quest'anno, perché c'è bisogno di lavoro e di diritti, non di un lavoro a ogni costo. E perché è necessario coniugare Europa e stato sociale". Per Anna Greco della Cisl, quello di quest'anno "è un cast che ci lascia senza parole per la sua qualità. Mentre per quanto riguarda i temi del lavoro "la priorità è la sicurezza nei posti di lavoro". Antonio Ascenzi della Uil "si tratta di un cast di rilievo, davvero ottimo il lavoro di iCompany: il buon risultato di ascolti dello scorso anno è senz'altro dovuto alle scelte di cast. Del resto" conclude Ascenzi, "questo è un concerto che suscita tante gelosie, tutti vorrebbero esserci ma qui nulla è dovuto". Infine, il vicedirettore di Rai3 Giovanni Anversa sottolinea come "c'è qualcosa che salda il Primo maggio al successo del Festival di Sanremo". Effettivamente molti nomi coincidono con quelli in gara nell'ultima edizione del Festival.
Concerto primo maggio, Ambra sbotta: "Poche donne? Non siamo responsabili". Ambra Angiolini si infuria rispondendo a chi le fa notare la scarsa presenza di donne sul palco del concertone. Angelo Scarano, Martedì 30/04/2019, su Il Giornale. Ambra si infuria per il concerto del primo maggio. Alla conferenza stampa di presentazione dell'evento che si terrà come ogni anno domani a Roma, qualcuno fa notare all'attrice che le donne che canteranno sul palco sono poche. Ambra risponde piccata: "Contare le donne nella lista di un concerto mi sembra davvero assurdo e dare al mondo della musica la sensazione che pur di realizzare il 50 e 50 ci si può infilare dentro chiunque, è davvero il colmo", ha affermato la conduttrice (insieme a Lodo Guenzi) del concertone. Poi l'attrice ha rincarato la dose: "SSe vogliamo parlare di donne, parliamo della parità salariale, delle difficoltà di fare un figlio e mantenere il proprio posto: queste mi sembrano questioni serie. E del resto ci sono dei numeri che parlano: su mille giovani artisti iscritti al contest del Primo maggio si sono presentate 90 donne, più del 90 per cento sono uomini, questa è la fotografia della realtà. Ma è una realtà che c'era prima, il Primo maggio è l'ultimo anello di una catena produttiva, non è certo responsabile di quello che purtroppo ancora non succede nella discografia". Di fatto in questa edizione del concerto del primo maggio le donne che saliranno sul palco a cantare sono sette: "Non è la prima volta, mi succede spesso di essere in minoranza, nei festival in cui andiamo a suonare", racconta Isabella, voce di La Municipàl. Nella polemica è intervenuto anche Silvano Campioni della Cgil: "Il cast rappresenta la musica attuale nel nostro Paese. I temi importanti sono quelli che sottolinea lo slogan scelto quest'anno, perché c'è bisogno di lavoro e di diritti, non di un lavoro a ogni costo. E perché è necessario coniugare Europa e stato sociale".
Primo maggio, Ambra Angiolini massacra le femministe sul Concertone: basta lagne. Gianluca Veneziani, Libero Quotidiano 1 Maggio 2019. Ah, che bello quando è una donna a sollevare il velo di ipocrisia delle femministe; che bello quando è un' artista, di certo non sospettabile di simpatie reazionarie, tradizionaliste e tanto meno maschiliste, a mostrare quanto siano sterili le polemiche su presunte discriminazioni sessuali nel mondo dello spettacolo. Ci voleva la voce (incazzata) di Ambra Angiolini, conduttrice insieme a Lodo Guenzi del concertone del Primo Maggio in piazza san Giovanni a Roma, per mettere a tacere le cantanti che ieri si erano sollevate contro la manifestazione, denunciando un razzismo di genere. Tra i 77 ospiti presenti oggi sul palco - avevano fatto notare 25 cantautrici, come Angela Baraldi e Diana Tejera - figurano infatti solo 4 donne, nessuna delle quali solista. Da qui la decisione delle artiste-pasionarie di fare una sorta di Aventino del Primo Maggio e organizzare una contro-manifestazione, tutta al femminile, in un' altra sede romana, l' ex convitto Angelo Mai. La protesta e l' azione conseguente di boicottaggio del concerto ufficiale non sono però andate giù alla Angiolini, che ieri ha contestato l' opportunità stessa della disputa. «Per voi è davvero una polemica seria questa?», ha tuonato. «Dobbiamo smetterla di far finta di parlare di cose che non hanno senso. Io da donna non mi sento offesa e non ho contato quante donne ci stanno sul palco del Primo Maggio». Quindi l' affondo sulle ragioni che hanno determinato una così scarsa presenza femminile. «La selezione del Primo Maggio», spiega, «è stata fatta sulla musica nei primi posti in classifica» dove al momento ci sono «solo due donne».
«FOTO DEL PAESE». Magari in questa fase storica le artiste risultano meno valide e meno efficaci sul mercato rispetto ai maschi, magari le case discografiche fanno una selezione discutibile, privilegiando il genere maschile. Ma anche in questo caso il Primo Maggio è solo «una radiografia del Paese» e «i problemi sono a monte». E comunque, aggiunge Ambra, le poche cantanti in classifica, pur invitate, «non erano disponibili» a partecipare al concerto. Per non parlare del contest rivolto agli artisti emergenti dove «su 1.000 iscritti solo 90 sono donne, mentre gli altri sono uomini. E io non so perché non si siano presentate 500 donne e 500 uomini». Della serie, forse si sono auto-escluse Chiariti il merito della questione e l' inutilità della polemica, è da sottolineare l' opportunismo e la cecità ideologica di alcune femministe che stranamente si fanno sentire a gran voce quando si tratta di difendere le quote rosa in un concerto ma stanno zitte se le donne nel mondo vengono perseguitate per ragioni religiose o civili. Avete mai sentito una femminista portare avanti la battaglia per salvare Asia Bibi, la contadina pakistana che era stata condannata a morte per la "colpa" di essere cristiana? E avete visto qualche femminista organizzare una campagna pubblica a sostegno di Nasrin Sotoudeh, l' attivista iraniana condannata a 38 anni e 148 frustate per essere apparsa in pubblico senza velo islamico? L' impressione è che le presunte paladine delle donne si prendano la scena solo se sono in ballo questioni residuali ma di più facile impatto mediatico e si dimentichino della loro causa quando in gioco ci sono valori fondamentali come la difesa della civiltà occidentale, della libertà di essere, vestirsi e professare la fede che si crede.
CORTOCIRCUITI. Senza considerare poi il cortocircuito di una presa di posizione che diventa discriminazione al contrario perché organizzare una manifestazione con sole donne significa reputare i cantanti maschi razza musicale inferiore. Oltre a ciò, ci piace ricordare quanto sia priva di logica la richiesta di quote rosa nella musica, così come in ogni altro ambito della vita sociale e politica. Ciò che conta, quanto al Primo Maggio, è che sul palco ci finiscano i cantanti più bravi. Che siano maschi, femmine, gay o asessuati, ce ne importa davvero molto poco. Sarebbe uno spettacolo migliore, se badassimo più al genere musicale e meno al genere sessuale. Gianluca Veneziani
· Il Decalogo antisessista. La nave è femmina, anzi neutra: le rotte «corrette» della grammatica.
La nave è femmina, anzi neutra: le rotte «corrette» della grammatica. Pubblicato domenica, 28 aprile 2019 da Corriere.it. Ci sono lingue, come l’italiano, che prevedono la distinzione grammaticale di genere. Altre lingue non hanno questa differenza. Se in italiano dico «il ragazzo è bello» e «la ragazza è bella», in inglese «the girl is beautiful», esattamente come «the boy» (sempre beautiful). Aggettivi e articoli non variano, a differenza dei pronomi personali e dei possessivi di terza persona singolare: he, lui e she, lei; oppure his, suo di lui, e her, suo di lei. Gli oggetti inanimati sono rigorosamente neutri. Con qualche eccezione: per esempio ship (nave) e car (automobile) passano al femminile per forza di personificazione. Ma è legittimo (politicamente corretto) attribuire un’identità femminile a una cosa? È su questo interrogativo che si è incagliata la discussione non appena il Museo marittimo scozzese, la scorsa settimana, ha annunciato di voler finalmente adottare il neutro (it). Linguisti e linguiste hanno fatto valere il proprio punto di vista: da una parte c’è chi considera «tradizionalismo anacronistico e patriarcale» l’uso dello she, dall’altra c’è chi rivendica la legittimità del femminile con connotazione affettuosa, per cui la «nave» è sentita dai marinai come una sorta di madre o di divinità protettrice. Dunque, nulla di dispregiativo. A favore di quest’ultima accezione «romantica» si è decisamente espressa la Royal Navy: «La marina ha l’antica tradizione di riferirsi alle navi con she e continuerà a farlo». Del resto, proprio qualche giorno fa a Greenwich, rompendo sullo scafo la classica bottiglia di champagne, la principessa Anna ha battezzato col nome (femminile) «Kirkella» un peschereccio pronunciando una frase grammaticalmente inequivocabile: «May God bless herand all who sail in her» (Dio benedica lei e tutti coloro che navigano in lei). Qualcuno ha ricordato che secondo l’Oxford English Dictionary l’uso femminile è attestato già nel 1375. Altri hanno addirittura rispolverato il glottologo danese Otto Jespersen, un monumento in fatto di grammatica inglese, il quale nel suo manuale del 1933 considerava legittimo che gli uomini delle ferrovie parlassero al femminile della locomotiva: era un modo — precisava — per «mostrare un certo grado di simpatia per la cosa, che viene quindi sottratta alla semplice sfera dell’oggetto inanimato». Dunque? Neanche il ricorso alla citazione autorevole (con sfumatura filosofica) ha convinto i «modernisti». I quali ricordano che persino il quotidiano internazionale «Lloyds List», bibbia marittima fondata (o fondato?) nel 1734, ha scelto il neutro da quasi vent’anni, avendo ormai a che fare con mostruosi «portacontainer» tutt’altro che «materni». Ci voleva Lissy Lovett, redattrice della rivista femminista online «The F-Word», per orientare l’avvincente dibattito su strade più ragionevoli: «Femminile o neutro non mi pare un grosso problema in un momento in cui trionfa la retorica transfobica, le donne nell’Irlanda del Nord non hanno ancora accesso ad aborti sicuri e la gran parte della povertà nel mondo è femminile...». Un giorno, magari, diremo «povertò».
A Velletri arriva il sindaco "boldrino". La giunta approva il "dizionario di genere" del Comune. Vietato dire "uomo", "paternità" o "signorina". Pietro De Leo il 14 Luglio 2019 su Il Tempo. Il boldrinismo è vivo e lotta riaffiorando, talvolta, con spericolate operazioni di neo lingua femminista, dagli effetti comici. A Velletri, ad esempio, la Giunta ha adottato una deliberazione dal titolo eloquente: «Adozione Linee Guida per un uso non sessista della lingua nell’Amministrazione pubblica». Facile, facilissimo comprendere la finalità. Ai poveri impiegati comunali viene chiesto, negli atti ufficiali, di fare equilibrismo sulla lingua italiana, già complicata di suo, per evitare discriminazioni ai danni delle donne. E nel documento si danno, indicazioni il più approfondite possibile, con un esito complessivo a dir poco esilarante. «Utilizzare quando è possibile nomi collettivi o astratti e non il maschile. Es. invece che i diritti dell’uomo è opportuno scrivere i diritti dell’umanità» (come se «umanità», poi, non derivasse etimologicamente da «uomo»). Tuttavia c’è una cautela: «I nomi dei soggetti giuridici o le citazioni non possono essere cambiati. Es. Corte europea per i diritti dell’uomo non può essere trasformata in Corte Europea per i diritti dell’umanità». Meno male. E ancora: «Davanti ai nomi propri o ai cognomi omettere l’articolo (es. Giovanna e non la Giovanna)». Poi, fondamentale: «Evitare il titolo Signorina: utilizzato come forma di identificazione della donna rispetto allo stato civile, in realtà realizza una discriminazione di genere». E qui nel suo eterno riposo si rivolterà il buon Guido Gozzano, che ebbe l’ardire di scrivere, più cent’anni fa, la «Signorina Felicita», mai pensando che quell’epiteto di galanteria sarebbe stato stravolto nei secoli a venire, in un timbro dispregiativo. Poi c’è un grande classico: «I nomi di professione e di ruoli istituzionali devono essere declinati al femminile se si riferiscono a donne (es. la Sindaca, la Consigliera comunale, la Dirigente, la Funzionaria, la Responsabile di posizione organizzativa, l’Architetta, la Geometra etc)». Andando avanti nella lettura, un altro paragrafo si premura di fornire «visibilità al genere femminile», che significa «esplicitare la forma maschile e femminile sdoppiandola: tutti i consiglieri e tutte le consigliere sono invitati...», però c’è anche la scappatoia per risparmiare spazio: «tutti/e i/le consiglieri/e sono invitati/e...». Ma siccome la guerra semantica al maschile va combattuta sino in fondo, in conclusione del documento si legge: «In sintesi, il Comune di Velletri esorta tutti i Dirigenti e dipendenti comunali», tra le altre cose, «ad evitare l’uso delle parole uomo e uomini in senso universale» e, qui viene il bello, ad «evitare le parole: fraternità, fratellanza, paternità quando si riferiscono a donne e uomini». E allora sorride, parlando al telefono con Il Tempo, Chiara Ercoli, consigliere («non voglio mi si definisca consigliera!», si premura) di opposizione: «Adesso come faccio? Il mio partito si chiama Fratelli d’Italia, verrò mica messa al bando? O dovrò far cambiare nome al mio partito?». Poi, però, il tono si fa più serio: «La valorizzazione delle donne non dipende dal modo in cui i nomi vengono declinati. Io a Velletri sono l’unico consigliere d’opposizione. Il mio partito è guidato da una donna, Giorgia Meloni, che ha dimostrato sul campo la sua forza. È l’impegno, e non una vocale, a certificare il valore di una persona, uomo o donna che sia». Ma ovviamente nel mondo burocratico del politicamente corretto tutto si riduce a norma, a regola entro cui inscatolare ogni azione. E non viene che da solidarizzare con i poveri impiegati e funzionari del Comune di Velletri, che ora dovranno addentrarsi in questo campo minato di vocali, plurali e tortuosità linguistiche per non incappare nell’anatema della nuova religione femminista.
Il Pd e il folle decalogo per un uso non sessista dell'italiano. La giunta Pd di Velletri ha approvato una serie di disposizioni interne per un uso "non sessista" della lingua. Ad esempio, al posto di "diritti dell'uomo" bisognerà dire "diritti dell'umanità". Giorgia Meloni: "Un delirio totale". Gianni Carotenuto, Domenica 14/07/2019, su Il Giornale. "Umanità" da usare al posto di "uomo", il participio passato da non accordare al maschile se riferito a un gruppo in cui prevalgono le donne, no ai termini "fratellanza" e "fraternità" se di mezzo c'è anche il genere femminile. Sono solo alcune delle disposizioni contenute nell'ultima deliberazione della giunta Pd di Velletri, intitolata "Guida per un uso non sessista della lingua nell’Amministrazione pubblica": un decalogo rivolto ai dipendenti del Comune per sensibilizzarli sulle disuguaglianze di genere. Norme che, nelle intenzioni dei suoi ideatori, dovrebbero mettere fine alla barbara pratica del sessismo insito nel linguaggio burocratico. Un'ossessione, quella della sinistra, nata ai tempi in cui Laura Boldrini era presidente della Camera, anzi, "presidenta". Così voleva essere chiamata l'esponente di Liberi e Uguali in nome della lotta contro le discriminazioni di genere commesse con l'uso della lingua italiana. Una mania che adesso è arrivata anche a Velletri, come denuncia Giorgia Meloni con un tweet in cui si scaglia contro la "criminalizzazione dell'uomo (e lo dico da donna)" attuata dall'amministrazione dem della cittadina laziale.
Le linee guida per un uso non sessista dell'italiano. "Pazzesco - scrive la leader di Fratelli d'Italia - ma non è uno scherzo". Anche se lo sembrerebbe, a leggere una per una tutte le linee guida volute dal sindaco Pd Oreste Bocci. Infatti, nella redazione degli atti, gli impiegati del Comune dovranno attenersi ai seguenti aspetti: 1) "La sostituzione dei nomi di professioni e di ruoli ricoperti da donne, declinati al maschile, con i corrispondenti femminili". 2) "Evitare di usare sempre e unicamente il maschile neutro parlando di popoli, categorie e gruppi. 3) "Evitare le parole fratellanza, fraternità, paternità quando si riferiscono a donne e uomini". 4) "Evitare di dare la precedenza al maschile nella coppia oppositiva uomo/donna" (sic!). 5) "Evitare di accordare il participio passato al maschile quando i nomi sono in prevalenza femminili. Si suggerisce in tal caso di accordare con il genere largamente maggioritario oppure con il genere dell'ultimo sostantivo della serie". 6) "Evitare di citare le donne come categorie a parte: a) dopo una serie di maschili non marcati che, secondo le regole grammaticali, dovrebbero/potrebbero includerli; b) inserendoli nel discorso come appendici o proprietà dell'uomo".
"Non è una vocale a certificare il valore della donna". Un'uguaglianza in campo linguistico che per il Pd ha la precedenza su quella in campo economico, vera urgenza di un mondo dove a parità di mestiere le donne guadagnano in media il 23% in meno degli uomini. Lo sa anche Chiara Ercoli, consigliera comunale di Velletri di Fratelli d'Italia che al Tempo ha commentato così l'ultima trovata del Comune: "La valorizzazione delle donne non dipende dal modo in cui i nomi vengono declinati. Io a Velletri sono l’unico consigliere d’opposizione. il mio partito è guidato da una donna, Giorgia Meloni, che ha dimostrato sul campo la sua forza. È l’impegno e non una vocale a certificare il valore di una persona, uomo o donna che sia". Infine il colpo di genio: "Il mio partito si chiama Fratelli d’Italia, verrò mica messa al bando?".
È solo una battuta. Ma non ditelo alla Boldrini. Potrebbe denunciare Giorgia Meloni all'Accademia della Crusca...
· Donna, piangi che fa bene.
Melania Rizzoli per Libero Quotidiano il 13 agosto 2019. Si dice che piangere non serva a nulla, che sia inutile piangere sul latte versato, e che versare lacrime faccia male alla salute fisica e psicologica. La scienza però non è d' accordo, perché è dimostrato che il pianto ha un suo effetto benefico in generale, ed in particolare sul cuore, sulla pressione e sul cervello. Uno studio dell' Università del Queensland, pubblicato sulla rivista Emotion, ha esaminato a fondo questo fenomeno sul oltre 500 soggetti in preda a lacrime e singhiozzi per svariati motivi, misurando loro il battito, la frequenza cardiaca e respiratoria, la pressione arteriosa, i livelli di cortisolo, l' ormone dello stress, e monitorando i cambiamenti psicologici conseguenti alle crisi di sconforto, concludendo che il pianto è benefico ed aiuta a mantenere l'omeostasi biologica, ovvero il processo che mantiene in equilibrio costante l' ambiente interno ed esterno del nostro corpo, compresa la frequenza cardiaca, la pressione arteriosa e la salute mentale, restituendo la serenità perduta. Il pianto è un fenomeno fisiologico che produce e rilascia lacrime in risposta ad una emozione, sia essa negativa (dolore), che positiva (gioia), anche se le due componenti, lacrimazione ed emozione, possono non necessariamente essere compresenti. Nei neonati, per esempio, data l'immaturità del dotto lacrimale, si può verificare un pianto senza lacrime, che compaiono solo dopo il terzo mese di vita. In realtà il pianto accorato, quello spontaneo e dirompente, è un complesso meccanismo secreto-motore caratterizzato dall' effusione di lacrime senza alcuna irritazione dell' apparato oculare, perché è innescato da un collegamento neuronale, non sempre dominabile volontariamente, tra la ghiandola lacrimale ed alcune aree del cervello, coinvolte in una emozione dapprima controllata, che poi diventa irrefrenabile, e le stesse lacrime della crisi di pianto hanno una composizione chimica diversa dagli altri tipi di lacrimazione, contenendo un quantitativo significativamente più alto di ormoni prolattina, adenocorticotropo, e leu-encefalina, un oppioide endogeno e potente anestetico, oltre agli elettroliti potassio e manganese.
ELIMINA LE TOSSINE. L'encefalina in particolare, contenuta nelle lacrime e con esse secreta, allevia il dolore, allenta la tensione e distende i muscoli, motivo per cui il corpo si rilassa maggiormente e recupera energie subito dopo la crisi di pianto, mentre la prolattina e la corticotropina che aumentano ogni volta che l'organismo subisce ed accumula eccessivo stress, vengono eliminate in modo copioso attraverso le lacrime insieme ad altre tossine. Chiamatelo sfogo emotivo, crisi di sconforto o come volete, ma il pianto è stato predisposto da madre natura nel genere umano per liberarci da rabbia, delusione, tensione, sofferenze e da tutto ciò che la mente trattiene, memorizza, nasconde, e che la razionalità deposita nel fondo della coscienza, ed attraverso la crisi di pianto vengono eliminate anche le tossine e la dose eccessiva di ormoni stressanti accumulati, che hanno ripercussioni sull' intero organismo. Ma se piangere è benefico, cosa succede nel caso in cui le lacrime vengono trattenute ogni volta che si avverte il desiderio di piangere? La risposta è ben chiara dal momento in cui abbiamo scoperto di cosa si libera il nostro corpo ogni volta che versiamo lacrime, anche perché lo stress accumulato che decidiamo volontariamente di non "buttare fuori", potrebbe aumentare il rischio di insorgenza di molti meccanismi compensatori, poiché tutto quello che reprimiamo, che teniamo dentro, e che depositiamo o nascondiamo nel profondo della nostra anima, prima o poi torna a galla sotto forma di vari disturbi, in genere difficilmente diagnosticabili per quanto riguarda la loro origine. I sintomi più frequenti sono quelli intestinali, con problemi di nausea, gastriti e diarree senza la presenza di un agente patogeno specifico, ma si assiste anche all' insorgenza di disturbi a livello circolatorio, respiratorio e cardiaco, oltre che neurologico, con crisi di ansia e di panico, e, nei casi più gravi, si può arrivare a rilevare addirittura danni cerebrali con instabilità psichiatrica persistente. Insomma, senza piangere ci si ammala, e senza emozioni non si piange, e questo è dimostrato dai pazienti in coma, i quali non piangono, perché il pianto è intimamente legato alla coscienza, emotiva e razionale, ma che deve necessariamente essere vigile ed attiva per poterlo esprimere.
CAMPO DELLE EMOZIONI. Piangere infatti, è una comunicazione non verbale molto potente, molto più efficace delle parole, e non è affatto, come si crede, una forma di rifugio per i deboli, bensì una forma molto raffinata di anti-stress, una auto-difesa del nostro organismo per contrastare i colpi della vita. Le lacrime infatti, differentemente da altre reazioni corporee, rappresentano un segnale che gli altri possono vedere, ed innescano un legame sociale ed una connessione interpersonale che diventano elementi fondamentali quando l' essere umano, vulnerabile anche da adulto, prova l' esperienza dolorosa e frustrante dell' impotenza che genera la crisi di sconforto. Nel campo delle emozioni il pianto segnala a se stessi o ad altre persone che c' è un importante problema, il quale, almeno temporaneamente, oltrepassa la propria abilità di affrontarlo, e se in alcuni contesti può apparire imbarazzante, non versare lacrime può fare più male che bene. Scientificamente non è stato dimostrato perché la reazione lacrimosa si accompagni anche alla gioia, probabilmente per la potenza emotiva, anche se la psichiatria sostiene che ogni gioia in fondo contenga un dispiacere, il presagio della fine imminente del lieto evento, cosa che inconsciamente scatena le lacrime. Certamente, ma non sempre, il pianto si può frenare o reprimere volontariamente, soprattutto quando non sgorga improvviso, quando ha un esordio lento, quando si avverte il nodo in gola che lo preannuncia, come è altrettanto vero che nessuno mai è annegato in un mare di lacrime, e stando a uno studio su oltre 300 adulti, in media gli uomini piangono una volta ogni mese, mentre le donne piangono almeno cinque volte al mese, specialmente prima e durante il ciclo mestruale, spesso senza evidenti ragioni (come depressione e tristezza).
MODULA L'ANGOSCIA. Il pianto in occasione di un lutto, o della fine di un amore invece, è molto più disperante, sembra togliere tutte le forze, annichilire la reattività ed annullare qualunque volontà di recupero, ma è salutare per diminuire lo strazio della perdita, per modulare l' angoscia, per consolare e risollevare lo spirito. Il pianto inoltre, può continuare anche quando si è esaurita la riserva lacrimale (non ho più lacrime da versare), la quale necessita di alcuni minuti per riempire di nuovo le ghiandole oculari in cui è contenuta, nel caso in cui persista la situazione dolorosa che lo ha provocato. La terapia per smettere di piangere dopo un evento traumatico? Non esiste, in quanto gli psicofarmaci e gli antidepressivi agiscono sull' encefalo abbassando la soglia di percezione del dolore, ma non c' è ancora un farmaco che curi e risolva il dolore psicologico, quello intimo dell' anima. Anzi ce n' è uno ben noto da secoli, ed è il tempo, considerato anche dagli psichiatri la migliore terapia che lenisce e guarisce tutte le ferite, in senso fisico e psicologico, ma funziona solo nelle persone che non hanno paura di piangere e di affrontare la vita in ogni sua declinazione. Anche quella lacrimosa.
· La mia grassezza.
Tommaso Farina per “Libero Quotidiano” il 21 novembre 2019. Tanta caciara per un po' di adipe in primo piano. Pare incredibile, ma è successo. L'innocua réclame di un negozio romano di abiti per taglie forti ha suscitato una maretta paragonabile agli ultimi giorni di Pompei. Il tutto per una bella signora un po' in carne in un costumino stile Playboy, il claim "T' abbacchi a Natale?" e la conseguente promessa di abiti giusti e di prezzi, viceversa, slim. Sugli argomenti di chi vede "sessismo", nientemeno, in queste pubblicità, non è nemmeno il caso di dilungarsi troppo. Hanno detto che non è un caso se hanno messo la foto di una ragazza anziché quella di un uomo. È vero semmai che chiunque abbia qualche chilo in più, anche noi uomini, è sempre stato guardato di malgarbo. Il messaggio è diverso: di queste cose non bisogna vergognarsi. Bisogna, semmai, preoccuparsi per la propria salute, ma il bullismo estetico è sempre sbagliato. Oggi, se mai vi fosse sfuggito, c' è tutto un movimento che vuole spingere le persone a uscire dalla gabbia degli stereotipi. Prendete per esempio Laura Brioschi. Laura è una modella trentenne. È alta un metro e 80, e dichiara di pesare tra gli 80 e gli 86 chili. Orrore, diranno quelli corti di vedute: è una donna grassa. E invece no. Cercatela su Instagram, e ditemi se vi provoca ripulsa istantanea, o non piuttosto una subitanea attrazione per via della sua bellezza. Laura, assieme al suo compagno Paolo Patria, ha fondato Body Positive Catwalk, una onlus che, nelle loro stesse parole, si pone l' obiettivo di «creare eventi internazionali che aumentino il senso di self confidence ed aggregazione per arrivare ad accettare se stessi e ritrovare la giusta e serena collocazione all' interno della società». In questi eventi, si è visto anche Alessandro Carella, un modello non propriamente secco e creatore del blog Uomini di Peso. La stessa Laura, su Instagram, impazza con lo slogan "Celly is not a crime", la cellulite non è un crimine, e lo ribadisce con voluttose foto in perizoma e coi costumi da bagno che disegna lei stessa, non dimenticando di raccontare il suo passato di bulimica e tutte le situazioni tristi che ha dovuto subire, in gioventù, a causa di una fisicità spesso non accettata dagli altri. E gli spettatori ringraziano e le danno, non si ritraggono inorriditi. Allora, capitano proprio a proposito le motivazioni che il negoziante ha dato per difendersi dagli attacchi alla sua pubblicità: «Potevamo scegliere qualunque dei vostri modelli, un modello curvy, un modello magro. Ma per noi queste categorie non esistono. Non esistono modelli per noi. Noi conosciamo solo persone. Queste categorie esistono solo nella mente di chi ogni giorno giudica». In un tempo in cui la magrezza è vista ancora come un imperativo categorico, ben venga chi ci ricorda che non siamo stereotipi: siamo sempre noi, anche quando ci piace mangiare di gusto. E anche se, al contrario, amiamo stare in linea. Quello che c' è dentro non cambia, che siamo magri o appena un po' più formosi. Far polemica su questo è proprio strumentale, è voler cercare baruffa su cose normalissime, sulla normalità dell' uomo (e della donna). Lasciateci il piacere di mangiare quanto ci pare, perfino le modelle stanno dalla nostra parte. Gente come Laura Brioschi o l'altrettanto avvenente Elisa D'Ospina, un' altra che da anni si batte per l' accettazione di qualunque involucro corporale, non sono precisamente additate come cattivi esempi di bruttezza da scansare, anzi. Anni fa si diceva che la modella non dev'essere bella, ma magra. Oggi non è più così, e aggiungiamo che si può anche essere belli sia da magri sia da curvy. Il quadro vale più della cornice.
Dagospia il 22 novembre 2019. Pubblichiamo un articolo che il direttore Vittorio Feltri ha scritto negli anni Ottanta sull'obesità e sulla mania delle cure dimagranti. Un'ulteriore testimonianza di come, in questi 30 anni, nel nostro Paese nulla sia cambiato anche in fatto di diete alimentari. Leggere per credere. Articolo di Vittorio Feltri pubblicato da “Libero quotidiano”. Parecchi lettori, dopo le precedenti puntate sulla questione della ciccia, mi hanno telefonato ponendomi dei quesiti specifici: quanti sono gli italiani che pesano troppo? Oppure: qual è la soglia dell' obesità, un quintale? Mi hanno preso per un esperto. O per un panzone, che per molti, probabilmente, è la stessa cosa, persuasi che solamente la gallina abbia i titoli per accertare che l' uovo sia marcio. Scusate se mi cito, un po' me ne vergogno, ma sono magrissimo, genere Biafra. Però ho consultato degli esperti veri e mi hanno assicurato che la magrezza - addio, illusioni - non è affatto garanzia di buona salute. Ci sono personcine filiformi che hanno la pressione arteriosa a 200, il colesterolo a 500 e i trigliceridi a 600. Scoppiano in malattia. Come mai? I motivi possono essere numerosi, anzitutto una dieta errata. È provato che su alcuni individui gli eccessi a tavola non si ripercuotono sul volume della pancia, bensì rendono il sangue vischioso, ricco di grassi: l' ideale per l' infarto, la trombosi, l' ictus cerebrale. I medesimi esperti hanno altresì ammesso che nel nostro Paese, e pure in altri considerati, a torto o ragione, più evoluti, non esistono statistiche attendibili sulla percentuale di obesi in rapporto alla popolazione. Perché, è presto detto: nei moduli del censimento non è ancora stata inserita la voce: «Quanto pesi?»; inoltre, la Saub o le Usl non provvedono a catalogare gli assistiti secondo la stazza. Tuttavia, a spanne, si può azzardare che il 30 per cento della gente abbia polpa in avanzo. Il dato ha un supporto non trascurabile: i consumi alimentari, in 35 anni, sono aumentati di quattro volte. Poiché in pari tempo il numero degli italiani non si è neppure raddoppiato, si deduce che la cospicua parte di cibo non destinata a bocche nuove finisca in quelle vecchie e, di conseguenza, si trasformi in lardo.
L'IPERNUTRIZIONE. Saranno forse conteggi un po' aleatori, ciononostante servono quantomeno a dimostrare, qualora ve ne fosse bisogno, che l' ipernutrizione non è un'ubbia del Censis, ma un allarmante fenomeno nazionale. In quanto poi all'altra domanda: qual è la soglia dell'obesità? Si potrebbe rispondere consultando una delle copiose tabelle stilate con cura da alcuni studiosi. Per esempio quella che indica l' altezza come miglior parametro. Ossia, se una persona è alta 1,70 dovrebbe pesare all' incirca 60 chilogrammi, cioè dieci di meno rispetto ai centimetri eccedenti il metro. Questo per i maschi. Per le donne si tollera un paio di chili in più, questione di cavalleria. Ma è il caso di scomodare la matematica? O non è sufficiente darsi un'occhiata allo specchio per verificare se la trippa deborda? Attenzione, nelle valutazioni è necessario essere verso se stessi né troppo benevoli, né troppo critici; e non scordare che il problema non è esclusivamente estetico, come sembra pensare la maggior parte dei cittadini di ambo i sessi, stando almeno all'andamento dell'industria dell'abbigliamento. Nel 1985, infatti, mentre l' economia in complesso ha registrato incrementi inferiori al 10 per cento, il fatturato della sola moda maschile ha fatto un balzo del 14,7 per cento, arrivando alla quota primato di 9.500 miliardi. È evidente, insomma, che, più di ogni altra cosa, all'uomo contemporaneo preme la bella presenza. Nessuno mette in dubbio che sia importante, tuttavia non dimentichiamo che oltre alla carrozzeria, c'è il motore. E va tenuto da conto, altrimenti si guasta e le riparazioni non sempre sono facili. Come si tutela la "meccanica" del corpo? Negli ultimi anni, mezzo mondo ha scoperto trionfalmente che il carburante più idoneo per la macchina umana è il cibo semplice e genuino: in due parole, dieta mediterranea, di cui in questi articoli ci siamo già occupati, sottolineandone l'efficacia, non per spirito patriottico, ma per fedeltà all' informazione scientifica. Se però non vi sono dubbi che spaghetti, verdure e pane non ingrassano, né intasano vene e arterie con sostanze nocive(sono, cioè, quanto di meglio per star bene sia "fuori" sia "dentro"), vi sono molti alimenti dannosi nei menù di svariate metropoli. Perché ormai, dopo lustri di abitudine alla cucina basata sulla carne fresca o insaccata e sulla abbondanza di condimenti animali, il mercato si è adeguato. Nei negozi si offrono prevalentemente prodotti adatti a una rapida elaborazione culinaria: la classica fettina, i salumi affettati e quant'altro - magari in scatola - si presti ad andare subito in tavola.
ALIMENTI INTEGRALI. Quasi tutto ciò che si espone al pubblico è raffinato: dallo zucchero al sale, dalla patata al riso, dal pane all' olio. E il consumatore, perfino colui che ha intuito la necessità di nutrirsi in modo naturale, viene scoraggiato: è vero che esiste in commercio una gamma relativamente vasta di alimenti integrali, e recentemente sono comparsi anche negli scaffali dei supermarket, ma i prezzi sono da gioielleria, alla portata di stipendi non comuni. I maccheroni con le fibre sono più cari di quelli senza, costano il doppio, tanto per fare un esempio. Ma la farina grezza non è quotata meno di quella "ripulita"? E allora, se la materia prima è più economica, non dovrebbe esserlo anche quella finita? Sarebbe come se l'Alfa Romeo pretendesse per un' auto non verniciata più soldi di quanti se ne devono sborsare per una luccicante. Eppure l' assurdità (apparente) una ragione ce l' ha e va ricercata nella fisiologia della compravendita: la domanda di prodotti integrali è ancora troppo bassa per giustificare un capillare e rifornito circuito distributivo, senza il quale, però, non è possibile ridurre i listini. La marce rara, benché di scarso valore, è obbligatoriamente cara. Qualcosa, però, si sta muovendo. I vegetariani - ovvero gli estremisti del desco - non sono più una esigua minoranza filorientale, composta da santoni e seguaci, ma abbondano in ogni classe sociale. Parecchi individui hanno detto basta alla grigliata mista per ragioni ecologiche: non è giusto, sostengono, che si facciano stragi di animali per soddisfare la gola profonda; e non è civile incrementare la macellazione, gli allevamenti in batteria, i trasporti di maiali, bovini e cavalli stipati su camion, sotto il sole o al freddo, per giorni e giorni senza mangime, foraggio né acqua. Crudeltà inutili esercitate quotidianamente tra la generale indifferenza. Gli erbivori, come già dieci anni fa aveva anticipato il professor Carlo Sirtori al congresso di Grosseto sul cibo verde, sono meno esposti sia alla pinguedine sia alle malattie, specialmente al cancro dell' intestino. E in ogni caso sono in buona compagnia: Leonardo Da Vinci, Einstein, Tolstoj e Shaw, per non parlare di Gandhi e di Schweitzer, erano assolutamente vegetariani.
VEGETARIANI. La "dieta esangue", che un tempo era al bando in quanto ritenuta carente di proteine, è stata rivalutata anche nello sport: hanno scoperto che i famosi e imbattibili maratoneti etiopi o non masticano carne, o ne masticano pochissima. Perché dalle loro parti non ce n' è. Ma ciò non toglie che siano al mondo i più resistenti alla fatica. La teoria che "le bistecche facciano l'atleta" è così miseramente caduta. E questo ha contribuito a rendere popolare l' insalata in ogni ambiente, compreso quello delle indossatrici che, per mantenere la linea senza farsi venire i crampi allo stomaco per i digiuni, cominciano a convertirsi ai piatti definiti poveri. Ai quali, presto, dovranno aggiungere gli spaghetti poiché - e lo dice Ottavio Missoni - dal capriccioso mondo della moda arrivano segnali strani: il pubblico, forse sollecitato dall' indomabile lievito maschilista, non gradisce più le donne ossute tanto care alle riviste femminili; preferisce qualche rotondità. Un po' di misura è necessaria. Va bene la magrezza, ma non esageriamo. In fondo, mangiare è un piacere, e nella vita qualcosa bisogna concedersi. Anche chi campa di rinunce non è eterno, e morire sani non è una gran consolazione.
Il diritto all’imperfezione festeggiamo i nostri corpi liberi. Pubblicato giovedì, 15 agosto 2019 da Daniela Monti su Corriere.it. A settembre alla Triennale Milano il tema della scarsa autostima che affligge le donne (e sempre più spesso gli uomini). Qualcosa però sta cambiando: accettarsi non è più un compromesso al ribasso. L’appello della danzatrice e coreografa a lettrici e lettori: postate i video dei vostri «corpi liberi». «Sei come ti senti, non come ti vedi. Lo specchio mente sempre», dice Francesco Ghiaccio, regista di Dolcissime, in questi giorni nelle sale. Il film racconta la storia di tre amiche adolescenti con corpi fuori taglia, tra sguardi di disapprovazione dei compagni e risatine nei corridoi della scuola. Troveranno il loro riscatto lanciandosi in un’impresa impossibile, una gara di nuoto sincronizzato, affidando dunque proprio al corpo — non più nascosto ma esibito, forse compreso e anche, finalmente, un po’ amato — il compito di pareggiare la partita. «La svolta, durante la lavorazione del film, è stato il momento in cui le attrici esordienti hanno dovuto mostrarsi in costume da bagno davanti a tutti — racconta il regista —. Fino ad allora c’era stata solo la troupe a guardarle, una sorta di culla che cerca di aiutarti, proteggerti. Poi è arrivato il pubblico vero, più di cento comparse. È stato lì che tutto il lavoro fatto in precedenza — lo studio della parte, la costruzione del rapporto di fiducia fra noi, il senso del gruppo — ha fatto la differenza, consentendo alle attrici di fare il salto, verso la conquista di una maggiore, autentica autostima che ha permesso loro di essere sé stesse davanti alla macchina da presa e a tutti quegli occhi. E spero che questo percorso possa farlo anche chi guarda il film: non sono solo gli adolescenti ad avere problemi di autostima, tutti ci sentiamo sempre giudicati e condannati per le nostre imperfezioni». Francesco Ghiaccio con le attrici di Dolcissime — Giulia Barbuto Costa da Cruz, Margherita De Francisco, Giulia Fiorellino e Alice Manfredi — saranno fra gli ospiti del Tempo delle Donne, in Triennale Milano dal 13 al 15 settembre, per parlare di imperfezione e autostima, nell’edizione della festa-festival che ha come filo rosso proprio il tema dei corpi. Perché le donne — soprattutto le donne — credono così poco in sé stesse? Il 75% delle italiane dice di avere una media o bassa autostima, portando l’Italia al penultimo posto nella classifica dei Paesi coinvolti nella ricerca (17, peggio fa solo il Giappone). Otto su 10 evitano di partecipare a eventi pubblici per paura di non apparire perfette, il 49% avverte la pressione di dover essere «sempre bella» e più della metà pensa di non poter mai sbagliare o dimostrare debolezza; due donne su tre sentono il peso e la pressione di dover raggiungere tutti i propri obiettivi: essere e fare tutto. I dati sono della ricerca Beauty confidence e autostima, promossa da Dove in collaborazione con Edelman Intelligence. In Triennale quei numeri verranno analizzati e la sottostima quasi programmatica che le donne si portano dietro da sempre — questione di genere a tutti gli effetti — verrà letta tenendo presente quello che però sta cambiando: il verbo «accettarsi», che le nuotatrici di Dolcissime dimostrano di aver imparato, non ha più il significato di un compromesso al ribasso, se Gucci — la gallina dalle uova d’oro della moda contemporanea, riferimento estetico di oggi — per la pubblicità del suo rossetto sceglie Dani Miller, cantante dei Surfbort dalla dentatura alquanto sconnessa, vuole dire che il diritto all’imperfezione sta davvero trovando cittadinanza. Venerdì 13 settembre alle 11, il filosofo Telmo Pievani proprio con un monologo sull’imperfezione aprirà la tre giorni in Triennale sui corpi e le loro continue evoluzioni. Ma di diritto all’imperfezione, di fragilità, di immagini allo specchio, di fisici abbondanti — e di quanto sia faticoso viverci dentro, in maniera differente per uomini e donne — si parlerà in molti altri momenti della festa-festival. Fra inchieste live, conversazioni in giardino e laboratori «immersivi» alla ricerca di una autenticità da spendere su ogni tavolo, anche quello di una leadership credibile, dentro e fuori i luoghi di lavoro. Lo sport, come insegna Dolcissime, è una della carte da giocare: le calciatrici, con la loro aria forte e sfidante — che fa a pugni con le immagini troppo spesso remissive con cui le donne sono raccontate e si raccontano — stanno cambiando i parametri estetici di riferimento di giovani e giovanissime. Calcio e autostima si tengono bene e per questo la società Acd Sedriano e il Tempo delle Donne il 7 settembre (inizio alle 16.30) organizzano un triangolare che vedrà sfidarsi le Giovanissime di Inter, Milan e Sedriano. Il calcio d’inizio lo tirerà Cristiana Capotondi. Silvia Gribaudi, danzatrice e coreografa, per i dieci anni del suo A corpo libero — uno dei lavori che ha fatto conoscere a livello internazionale la sua poetica dell’imperfezione che diventa normalità, dissacrante contro i canoni della bellezza classica che caratterizza la danza — lancia unacall to dance action alle lettrici e ai lettori affinché postino via social un video in cui facciano danzare, ciascuno a proprio modo, il proprio «corpo libero».
Da La Repubblica il 10 settembre 2019. Risolto il mistero che rende alcune persone naturalmente magre, nonostante mangino troppo e facciano poca attività fisica. Un gruppo di ricercatori del Nestlè Institute of Health Sciences, in Svizzera, ha scoperto che la magrezza naturale dipende dall'avere cellule adipose geneticamente più efficienti. Lo studio, pubblicato sulla rivista The American Journal of Clinical Nutrition, ha coinvolto 30 uomini e donne naturalmente magri, cioè con un indice di massa corporeo (Bmi) uguale o inferiore a 18,5. I soggetti mangiavano normalmente e quindi non presentavano disturbi alimentari. I ricercatori hanno analizzato una piccola quantità di grasso prelevato dallo stomaco dei partecipanti, che hanno anche fornito campioni di sangue, urine e feci. In particolare gli studiosi hanno analizzato il tessuto adiposo bianco, cioè la principale forma di grasso nel corpo responsabile della conservazione dei lipidi, le sostanze grasse che provengono dagli alimenti presenti nella nostra dieta. Ebbene, hanno scoperto che le cellule adipose delle persone magre avevano i geni coinvolti sia nella degradazione che nella produzione di grasso espressi in modo molto elevato. Ci sono più di 200 varianti genetiche che influenzano il peso. Le cellule adipose dei soggetti sono risultate anche più piccole del 40 per cento rispetto alle persone di peso normale. In generale, il tessuto adiposo con meno cellule ma più grandi viene definito come "ipertrofico", mentre il tessuto adiposo con molte cellule di dimensioni più piccole viene definito "iperplastico". Il tessuto adiposo in uno stato ipertrofico è collegato all'insulino-resistenza, al diabete e alle malattie cardiovascolari. I risultati hanno anche mostrato che le cellule adipose delle persone magre avevano i mitocondri, le "centraline energetiche" delle cellule, più attivi. Secondo i ricercatori, poichè i mitocondri di questi soggetti lavorano a un livello più elevato, le cellule adipose sono più efficienti e questo potrebbe spiegare perchè le persone magre sono resistenti all'aumento di peso. In effetti, le loro cellule adipose sono geneticamente inclini a bruciare così tanto grasso che non hanno mai il tempo di accumulare abbastanza cellule adipose da far ingrassare qualcuno. "Per la prima volta abbiamo mostrato che, per quanto ne sappiamo, un basso peso corporeo persistente nell'uomo è associato a caratteristiche del tessuto adiposo bianco che sono opposte a quelle dei pazienti obesi", spiegano i ricercatori. I risultati potrebbero aprire la strada a nuovi trattamenti per la perdita di peso.
''STORIA DELLA MIA GRASSEZZA: ABBOZZARE IN PUBBLICO, PIANGERE A CASA''. Costanza Rizzacasa d'Orsogna per ''Sette - Corriere della Sera'' l'8 luglio 2019. Giorni fa, la ragazza che mi taglia i capelli ha detto: «Costanza, senti, ma tu che sei così... (risolino) grossa (altro risolino), come posso fare per trovare un regalo della vostra taglia per mia madre, che non le sta mai bene niente?» . Ho abbozzato, come faccio quasi sempre. Sono le umiliazioni quotidiane che subiamo noi grassi, come la tipa della profumeria che dice che senza trucco sei «ruspante», la ragazza del bar che davanti a dieci altri clienti chiede se sei sicura di voler prendere il croissant, «perché lo sai, è mooolto calorico», o il fattorino del corriere espresso che per non portare il pacco al piano chiosa che fare le scale ti fa bene. Abbozzi e dici «Hai ragione» o «Capisco», come quella volta su un aereo low cost che mancava la prolunga e sono rimasta a terra. Abbozzi, e vai a piangere a casa. E non lo dici a nessuno, perché rischi che rispondano «Ma non puoi dimagrire, così non t’insultano più?». Solo che non è quello il punto.
Da 80 a 47 chili e ritorno: odiare il proprio corpo. Ho odiato il mio corpo per tutta la vita, anche quando ero magrissima. Mia madre era bulimica, e inevitabilmente lo sono diventata anch’io. Per tutti c’è un momento in cui sono iniziati i problemi con il peso. Io ricordo le dita ossute di mia madre quando mi dava uno schiaffo e mi chiamava «ingorda», e come dagli otto anni fossi sempre a dieta. All’ora della ricreazione elemosinavo biscotti, e mentre le altre ragazzine tenevano il resto dei soldi della spesa per comprare di nascosto i primi trucchi, io ci compravo le brioscine. «Ingorda». Allora, nessuno sapeva che effetto devastante certe parole possono avere sui bambini. Mamma paragonava il suo polso al mio e andava fiera che fosse grande la metà, mentre la mia migliore amica mi diceva, «Non sei bella, però sei simpatica». A sedici anni pesavo 80 chili, a diciannove 47, e così via. Ho provato ogni genere di farmaco, ho vomitato per decenni. E intanto sognavo che un giorno, quando fossi diventata magra, tutto sarebbe andato a posto, e la mia vita sarebbe iniziata. Solo che non è mai successo.
Così obesa che non c’erano scarpe che mi stessero. Poi, alcuni anni fa, dopo una relazione psicologicamente violenta, sono ingrassata moltissimo. Decine di chili in poco tempo, fino a toccare i 130. Così obesa che non c’erano scarpe o reggiseni che mi stessero, che non riuscivo più ad infilarmi le calze, che temevo di rompere le sedie, o di schiacciare il mio gatto. E ogni volta che uscivo c’era qualcuno che mi guardava con disprezzo, che voleva dirmi a tutti i costi che avevo un problema, dirmi cosa dovessi fare, come dovessi essere. Come se noi grassi non ci sentissimo già di merda tutti i giorni, come se non lo sapessimo che non è salutare. Come se non sognassimo ogni giorno una via d’uscita. Così mi sono chiusa in casa per tre anni, e dalla farmacia al supermercato usavo il delivery per tutto. E se proprio dovevo uscire lo facevo col buio, e aprivo la porta di casa piano piano, per accertarmi che non ci fosse nessuno. E intanto mangiavo, perché mangiare era l’unica cosa che mi desse conforto. E poiché il conforto dura poco e dopo mi facevo schifo, rimangiavo, ed era un circolo vizioso.
Sui social mi fingevo normale. Nel frattempo, sui social mi fingevo normale. Non che nascondessi com’ero, ma certo non lo pubblicizzavo. Nessuno sapeva che se parlavo al telefono dovevo mettermi seduta, o avrei perso il fiato. Due anni fa, di fronte a un ultimatum di mio padre e mio fratello, mi sono messa a dieta. E ho perso quaranta chili senza aiuti, e poi ancora qualcuno - salvo riprenderne un po’ negli ultimi tre mesi per lo stress di un progetto di lavoro. Non importa, li perderò di nuovo. Ma la strada è ancora lunga, la menopausa incombe e io non so davvero se ne uscirò mai, anche se sto molto meglio. C’è un peso che non si può perdere, anche quando l’hai perso tutto. Binging, fat shaming, body shaming. Parole con cui i grassi convivono ogni giorno. Una condanna estetica, ma soprattutto morale.
Il grasso presentato in tv come fosse un horror. La tv, dove per moltissimo tempo la ragazza grassa è esistita solo per esser presa in giro, non aiuta. E se non sono gli sceneggiatori è il pubblico. Quando Gabourey Sidibe ha fatto sesso sul terrazzo nella serie Empire, a migliaia, inferociti, si sono riversati online per denigrarla. A me una volta scrissero che nei campi di concentramento nessuno è morto obeso. Ho segnalato l’individuo a Twitter: non hanno ravvisato alcuna violazione. E quando ho scritto un libro sulla diversità, e un femminile doveva recensirlo, mi hanno chiesto «Ma non hai una foto da magra?». Nel programma Vite al limite all’inizio c’è un disclaimer: «Attenzione, potrebbe disturbare un pubblico sensibile». Come fossimo horror. Giorni fa, gli avvocati del poliziotto di New York che aveva ucciso un afroamericano hanno provato una nuova linea di difesa. Era obeso, hanno detto, sarebbe morto comunque. Quando ho letto Fame, il memoir di Roxane Gay, di come fosse diventata obesa per rendersi disgustosa agli uomini dopo lo stupro subito, ho capito che, al netto di esperienze diverse, avevo fatto lo stesso, e per la prima volta in tanti anni ho pianto per me. Ma è stato quando ho riletto Lindy West che è scattato qualcosa.
Non siamo noi, grassi, brutti, diversi, a dover cambiare. Anni fa, dopo che un noto collega aveva preso di mira le persone obese, West aveva scritto un saggio personale. Ciao, sono grassa, il titolo. E iniziava così: «Questo è il mio corpo. Ho voluto cambiarlo per tutta la vita. So che la gente lo trova rivoltante. Curiosamente, tutto questo fat shaming non mi ha fatta dimagrire. E quindi vaffan**lo. Questo è il MIO corpo. Non me ne vergogno in alcun modo. Non devo giustificarlo. Anzi, sapete che c’è? Mi piace tutto del mio corpo». Ho detto, «Wow, chi è questa donna? Si ama davvero o è solo un atteggio?». Ed è stato quello il momento. Il momento in cui ho capito che non siamo noi, grassi, brutti, diversi, a dover cambiare o nasconderci per non essere bullizzati e irrisi, siete voi che non dovete bullizzare e irridere. Ho ingoiato insulti per tre anni, non ce la faccio più. Ho deciso d’imparare a piacermi. E lo so, vi sembrerà paradossale che abbia deciso di farlo proprio adesso, quasi offensivo che una ragazza grassa decida di accettarsi. Ma ho deciso di farlo lo stesso.
Certi atteggiamenti sono oltraggiosi e inaccettabili. Per questo l’altro giorno, dopo alcuni minuti, sono tornata dalla parrucchiera. E ho detto che non me ne sarei più servita, che certi atteggiamenti sono oltraggiosi e inaccettabili. Un altro stylist ha osservato che quanto mi era stato detto non era un’offesa, ma la verità: l’ho fulminato con lo sguardo prima che potesse finire. Sono una donna grassa e merito rispetto. Merito di essere accettata. Adesso.
Costanza Rizzacasa d’Orsogna, 46 anni, è laureata in Scrittura alla Columbia University di New York. Ha scritto la favola Storia di Milo (Guanda), ispirata al suo gatto disabile, e sta ultimando il suo primo romanzo.
Gavage, ragazze costrette a ingrassare per piacere agli uomini. Alessandra Frega su it.insideover.com il 18 Agosto 2019. In Mauritania, uno Stato dell’Africa nord-occidentale, vige il rito del “gavage”, secondo cui le giovani ragazze, per potersi sposare, devono essere grasse fino a sfiorare l’obesità.
Ricchezza ed obesità. A partire dalla tenera età di sei anni, le bambine mauritane subiscono la crudele pratica del “gavage” e vengono costrette a mangiare enormi quantità di cibo al solo scopo di dover trovare marito. Più saranno grasse e più “appetibili” appariranno agli occhi dei ragazzi che incontreranno. Secondo la cultura mauritana, le donne in sovrappeso sono anche le più ricche. Le ragazze magre – ma anche quelle normopeso – vengono percepite, al contrario, come una vergogna dalla comunità che le ospita: povere, e magari maltrattate, all’interno di famiglie prive dei mezzi di sostentamento necessari per poterle crescere. Molte ragazze mauritane accettano spontaneamente di sottoporsi al rito del “gavage” per la buona riuscita di un matrimonio mangiando giorno e notte ininterrottamente per poter arrivare a pesare anche 100 in vista delle nozze. E se le più piccole rifiutano la pratica, esistono vere e proprie strutture dedicate: ostelli dove – sotto il controllo vigile delle anziane donne del villaggio che li gestiscono – le bambine vengono indotte (anche con la violenza) ad ingozzarsi di cibo e bevande ipercaloriche, con il benestare delle famiglie.
Effetti collaterali e morte precoce. Anche le smagliature vengono esibite sul corpo delle mauritane con grande orgoglio: sarà per via dei tanti benefici materiali e spirituali che se ne traggono, seppur a discapito del proprio benessere psico-fisico. E quando reperire grosse quantità di cibo in natura diventa un problema, soprattutto per le famiglie più povere dei centri rurali, si ricorre all’utilizzo di farmaci ed ormoni ad uso veterinario. Le ragazze, in casi estremi, scelgono deliberatamente di ingurgitare sciroppi in grado di stimolare l’appetito o medicine dopanti per animali (ben più nocivi di un’alimentazione naturale). Inevitabile il sopraggiungere di problematiche cardiovascolari, del diabete o di altre gravi disfunzioni renali che causano ictus ed infarti, provocando la morte prematura delle ragazze che ignorano i danni di uno stile di vita insano. E se anche una legge vieta da qualche anno in Mauritania la vendita di farmaci considerati nocivi per l’uomo, il business illecito del mercato nero è molto fiorente. Le ragazze – nel rispetto di un indottrinamento che ha inizio in età infantile – arrivano a pesare decine e decine di chili e per poterlo fare sono disposte a subire ogni genere di supplizio, cagionandosi una salute precaria.
“Il Corpo della Sposa”. “‘Verida, alzati e mangia!'”, inizia così Il Corpo della Sposa, il primo film di genere che affronta la pratica dell’ingrasso forzato delle future spose mauritane. La protagonista è una giovane attrice che ha subito all’età di 16 anni il rito del “gavage”). La storia si svolge sullo sfondo di una Mauritania ancora oggi paradossalmente incastrata tra tradizione e modernità. Verida è socievole, lavora in un salone di bellezza, ama divertirsi con le sue amiche e ricorre all’utilizzo dei social network come qualunque altra ragazza moderna. Fino a quando – un giorno – viene svegliata all’alba dalla madre che le comunica che si sposerà. Da quel momento, Verida avrà tempo tre mesi per poter ingrassare di venti chili e soddisfare i canoni estetici del futuro marito che la considera ancora troppo magra per l’ideale di bellezza tradizionale. Il film inizia con l’inquadratura di Verida che beve da una ciotola di latte, come a voler enfatizzare la drammaticità di un atto imposto, come quello del “gavage”. Gli unici momenti di spensieratezza sono quelli che ritraggono Verida insieme ad Amal (la sua migliore amica) oppure complice del romanticismo puro e genuino di Sidi (il ragazzo incaricato al rito della misurazione del peso). “Un tempo il ‘gavage’ era estremo, veniva compiuto nell’arco di una sola notte: molte donne morivano dopo la pratica del ‘leblouh'”. La tecnica è attualmente impiegata nei villaggi del deserto per anticipare il menarca di bambine e giovani ragazze. “In città vanno di moda i festini ‘wangala’: merende a base di cibo tra amiche”. Il film è un atto di denuncia contro rituali arcaici e criteri di bellezza ormai obsoleti. È un lungo viaggio interiore che ha inizio nel preciso momento in cui Verida si ribella all’educazione ricevuta.
· La cellulite è femmina.
PERCHÉ ALLE DONNE VIENE LA CELLULITE? Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 2 giugno 2019. È la nemica numero uno, la più odiata dalle donne, talmente detestata da indurle e a spendere cifre importanti per eliminarla, tra creme, trattamenti estetici e massaggi drenanti spesso inutili, perché la cellulite non è soltanto un brutto inestetismo cutaneo, ma spesso nasconde disordini alimentari, comportamentali e farmacologici sui quali bisogna intervenire dall' interno, con misure mirate per attenuarla o guarirla. In medicina è chiamata "lipodistrofia ginoide" in quanto tipica del genere femminile, ma è conosciuta da tutti come "pelle a buccia d' arancia", perché la sua manifestazione topografica più tipica è la comparsa sulla cute di depressioni o introflessioni, asimmetriche e più o meno profonde, frequenti nella zona pelvica, sui glutei, fianchi e cosce, le quali, interrompendo la fisiologica compattezza e levigatezza cutanea, regalano alla zona colpita un effetto butterato simile alla scorza dell' agrume. Questi avvallamenti sono dovuti ad alterazioni fisiche e metaboliche localizzate che interessano il microcircolo della massa adiposa sottostante, le quali, con il tempo, determinano una compromissione anatomica e funzionale dell' unità vascolare e linfatica del tessuto, che conduce alla insorgenza di problemi a carico dell' ipoderma e dello strato immediatamente sovrastante, il derma. Inoltre la degenerazione del microcircolo del tessuto adiposo comporta una conseguente alterazione delle sue più importanti funzioni metaboliche, cosa che rallenta il ricambio cellulare e il suo smaltimento, asfissiando e stabilizzando il tessuto cellulitico in modo quasi irreversibile. Nonostante il grande interesse femminile nella cura di questa condizione e l' enorme mercato per trattamenti topici volti a migliorare il suo aspetto, la cellulite è ancora una condizione enigmatica e un argomento di importanza minore per i ricercatori medici, che la considerano una non-patologia, un fenomeno puramente estetico normale per molte donne, e quindi poco attraente per un serio gruppo di studio o di ricerca. Il fatto è che, nonostante l' alta incidenza (80-90%) nella popolazione femminile in età post-puberale, e al di là dell' odiato inestetismo, la cellulite compare e si presenta senza sintomi, e tutto quello che in medicina è asintomatico viene considerato una normale condizione fisiologica, e quindi non una malattia. Invece non è così per tutte, poiché la pelle a buccia d' arancia va classificata all' interno di un quadro patologico quando a causarla sono processi i infiammatori, l' eccessiva ritenzione idrica o l' alterato accumulo di tessuto adiposo, al punto che in casi estremi può essere associata al rischio cardiovascolare. Sono decine le cause di insorgenza ipotizzate, tra le quali disturbi del metabolismo, alterazioni del tessuto connettivo, disordini nutrizionali, fattori ormonali e genetici, deficit del micro circolo e del deflusso del sistema linfatico, specifiche architetture del sottocutaneo, infiammazioni e ritenzione idrica, ma la cellulite è un po' la combinazione di tutti questi fattori, e può manifestarsi in diverse età e in diverse aree corporee anche nello stesso soggetto. La severità dell' inestetismo è misurata in densità, dimensioni, profondità e lassità dei tessuti interessati, e inoltre la cellulite può essere edematosa, quando dovuta ad accumulo di liquidi, fibrosa, quando compare a noduli associati a fibrosi, sclerotica, dove forma una sclerosi, ovvero un indurimento simile a quello cicatriziale. I fattori maggiormente aggravanti la cellulite sono il dimagrimento rapido, nel quale il tessuto muscolare cede acuendo la situazione visiva, e la mancanza di movimento, che rallenta la circolazione e il catabolismo, non aiutando a bruciare i grassi e a prevenire la stasi venosa, soprattutto nelle donne che soffrono di problemi circolatori nei capillari e nelle vene delle gambe. Ma anche l' uso prolungato, massiccio e improprio di farmaci ed integratori, può portare a ritenzione idrica: tra i medicinali più noti, la pillola contraccettiva, le molecole anti ipertensive (calcio-antagonisti), i cortisonici e gli stessi diuretici, siano essi di principi attivi farmacologici o di preparati naturali favorenti la minzione, i quali, se usati a sproposito, anche a piccole dosi senza necessità, per esempio per essere più "asciutti", possono, contrariamente a quanto si crede, predisporre a stati di ritenzione idrica resistente, in quanto tali preparati disidratano le cellule al loro interno per osmosi, lasciando stagnare invece le gocce idriche infiltrate nei tessuti, nel tentativo di trattenere gli elettroliti essenziali. Per tali motivi molti diuretici provocano effetti collaterali come la stanchezza, i crampi muscolari, le extrasistoli, le vertigini o l' insonnia, tutti sintomi che indicano carenze elettrolitiche e sofferenza cellulare, mentre la cellulite resta beata, stabile e più visibile al suo posto. La sindrome da ritenzione idrica compare anche in quegli stati patologici più importanti che coinvolgono I reni, il cuore, il fegato e il sistema linfatico, anche se in questi casi sarebbe più corretto parlare di edema anziché di cellulite, ma in genere il 90% dei casi di ritenzione idrica è di origine alimentare e comportamentale, per cui bisogna intervenire riducendo il consumo di sale, limitare gli alcolici e idratarsi correttamente. Inoltre sia i tacchi alti che le scarpe rasoterra o i pantaloni troppo stretti non aiutano la circolazione sanguigna degli arti inferiori durante la giornata lavorativa, per cui le donne che soffrono di problemi angiologici dovrebbero limitare tali abitudini. Nell'enorme mercato dei trattamenti per far scomparire la pelle a buccia d' arancia, si va dai prodotti tipici alla lipoapoptosi, alla carbossiterapia, ossigenoclasia e lipoclasia osmotica, fino alla liposuzione, ma quasi tutti questi espedienti estetici, topici, medici o chirurgici, sono privi di prove di efficacia scientifica, e quindi non risolutivi. Il 90% delle donne, magre o in sovrappeso, giovani o avanti con gli anni, sono afflitte da cellulite, un fenomeno che si nota soprattutto in posizione eretta, mentre in quella distesa le sue manifestazioni sembrano scomparire, poiché il tessuto cellulitico si ridistribuisce, per cui la manovra di pinzamento tra le dita, che tutte le donne conoscono e praticano per sorvegliare la loro cellulite, si esegue in piedi, poiché evidenzia bene la sua presenza, accentuando alla palpazione quel tessuto simil spugnoso che trattiene i liquidi, e che fa disperare ogni giorno milioni di pazienti. La cellulite, che occupa il primo posto nelle preoccupazioni estetiche femminili, non si combatte quindi sul lettino dell' estetista, ma soprattutto a tavola e con il movimento forzato come la corsa e la cyclette (avete mai visto un' atleta con i buchi di cellulite?) perché tale inestetismo, anche se non è un problema di salute fisica può diventare un nemico della salute psicologica, in quanto provoca insicurezza, insoddisfazione e mortificazione in moltissime donne nella loro età più bella, quella fertile.
· Le Borse che le donne non vogliono.
LE UNICHE BORSE CHE NESSUNA DONNA VUOLE. Angela Puchetti per "it.businessinsider.com" il 12 settembre 2019. Per conservare la bellezza del proprio viso è importante occuparsi anche della zona attorno agli occhi, che con il tempo può presentare borse o occhiaie. Conoscendo i processi che concorrono alla loro formazione, cibi e bevande che ne favoriscono la comparsa, i comportamenti a rischio e tutto ciò che, invece, aiuta a contrastare questi inestetismi, si può cercare di evitarli il più possibile. E ridurli, se già presenti.
Cosa sono le borse?
«Sono il risultato dell’aumento della quantità di grasso orbitale che circonda normalmente l’occhio. – spiega il professor Antonino Di Pietro, dermatologo e direttore dell’Istituto Dermoclinico Vita Cutis (Milano) – Questo grasso è normalmente presente e utile per mantenere l’occhio nella sua sede orbitale e per attutire gli urti che altrimenti l’occhio potrebbe avere sull’osso della cavità orbitale. Serve anche per mantenere nella giusta temperatura il bulbo oculare. Questo grasso è riccamente vascolarizzato e può succedere che i vasi capillari per ragioni genetiche, ormonali metaboliche, perdano di elasticità e permeabilità e così attraverso le pareti dei capillari trasudi un’eccessiva quantità di siero e acqua che tende a raccogliersi tra le cellule adipose creando un edema cronico. Ciò determina un aumento del volume adiposo: praticamente si tratta di grasso gonfio d’acqua. Questo grasso si comporta come del pane inzuppato d’acqua. Tale situazione crea anche un’infiammazione cronica che rende fibroso il grasso formando le classiche borse permanenti sotto agli occhi».
Occhio a come dormi. «Una causa che frequentemente porta alla formazione delle borse e al loro peggioramento è legata all’abitudine di dormire con la testa troppo bassa, senza cuscino o con un cuscino molto sottile. – spiega Di Pietro – Infatti, durante la notte, quando ci sdraiamo per dormire, una grande quantità di sangue che durante giorno va verso le gambe per via della forza di gravità (ed è responsabile del gonfiore alle gambe e ai piedi), tende, invece, ad andare verso la testa».
Cosa accade allora?
«Aumenta la pressione del sangue nei vasi capillari presenti in abbondanza nel grasso orbitale intorno all’occhio e di conseguenza trasudano maggiori quantità di siero e acqua. Risultato: aumenta l’edema. Durante la notte il grasso s’inzuppa di acqua e la mattina ci si sveglia con gli occhi gonfi. Poi, durante la giornata, stando in piedi questi liquidi vengono pian piano riassorbiti e gli occhi si sgonfiano».
Ma questo tran tran con tempo si rallenta e s’inceppa. «Succede, infatti, che questo continuo gonfiare e sgonfiare il grasso, il grasso che si sgonfia e si sgonfia, crea una situazione infiammatoria, per cui il grasso tende a diventare fibroso e non riesce più a tornare come prima, cioè non ritorna più nelle condizioni iniziali. E così con il tempo si formano le classiche borse».
Soluzioni pratiche. In caso di borse sotto gli occhi, come abbiamo visto la causa principale è l’edema. Occorre, quindi, adottare ogni accorgimento possibile per evitare che si formi il ristagno di liquidi. «Il consiglio pratico è non dormire senza cuscino o con un cuscino troppo basso ma dormire, invece, con busto spalle e testa sollevati rispetto al corpo – suggerisce Di Pietro –. Consiglio un cuscino molto largo che possa accogliere anche le spalle. Questo per evitare che la colonna cervicale sia curvata in modo anomalo e che l’arco che si potrebbe creare usando un cuscino più piccolo possa causare artrosi cervicale. La soluzione migliore è utilizzare una rete elettrica (o comunque una rete regolabile manualmente o elettricamente) che permetta di sollevare la parte del busto e della testa, per sollevare la parte dove poggia il busto. In questo modo arriverà una minore quantità di sangue verso testa, i vasi capillari e il grasso delle orbite. E si elimina la prima causa all’origine delle borse che è di natura meccanica».
Ananas & mirtilli. Per migliorare l’elasticità dei capillari aiuta curare l’alimentazione. «Può essere importante assumere flavonoidi che si trovano nei frutti di bosco (more, mirtilli, lamponi) – spiega Di Pietro -. Poi vanno bene le sostanze che tendono a sgonfiare: integratori a base di bromelina, estratti del rusco, arancio amaro, centella asiatica, ma semplicemente anche mangiare ananas che contiene proprio la bromelina. Poi assumere polifenoli, per esempio, contenuti in un estratto del pino marittimo. Questi integratori vanno assunti per lunghi periodi o inserirti nella dieta, per cinque-sei mesi, con riposi di un mese, per poi riprenderli per altri cinque mesi».
Quando cominciano a comparire le borse? Vengono sia agli uomini sia alle donne?
«Le borse cominciano a mostrarsi dopo i trent’anni e con il passare degli anni possono aumentare perché i capillari s’indeboliscono. – spiega Di Pietro – E possono peggiorare se i fattori di rischio non vengono eliminati».
Chi ne è più soggetto?
«Colpiscono allo stesso modo sia gli uomini che le donne. – continua Di Pietro – Sono un fenomeno sovrapponibile a quello della cellulite, cambiano però le dimensioni dell’area interessate e la forza di gravità funziona all’incontrario: di giorno, infatti, agisce portando il sangue e quindi causando l’eventuale edema verso le gambe, mentre di notte, stando sdraiati, l’afflusso sanguigno aumenta verso i vasi capillari che irrorano il grasso attorno agli occhi».
I fattori di rischio. Altri fattori di rischio sono il fumo e l’alcol. «Cosa succede a molte persone, dopo una lauta cena, in cui si beve di più o ci si concede un superalcolico? – continua Di Pietro – O se magari si è mangiato molto piccante? L’alcool e i cibi piccanti favoriscono la vasodilatazione. Magari si va a letto con lo stomaco pieno e le cose si sommano: la dilatazione dei vasi maggiore per il troppo alcool e l’aver mangiato piccante, più lo stomaco pieno che impedisce al sangue che va verso la testa di circolare. Lo stomaco pieno, infatti, se sono sdraiato, comprime i vasi sanguigni e rallenta la circolazione corporea. E così si gonfiano ancora di più vasi sanguigni del volto. E la mattina ci si sveglia con occhi gonfi. Sempre sul fronte alimentazione bisogna tenere conto che i cibi salati, peggiorano l’edema, quindi come regola è meglio evitare il più possibile il sale. E bere, invece, un paio di litri di acqua al giorno».
Soluzione pratica al risveglio e a lungo termine. Cosa fare appena svegli, una volta constatato il gonfiore? «Può essere utile prendere un fazzoletto imbevuto di acqua e camomilla ghiacciata. – suggerisce Di Pietro – Basta preparare un infuso di camomilla e poi far sciogliere 2 cubetti ghiaccio, oppure preparare la camomilla la sera prima, e metterla in frigo, questo in particolare se il problema è cronico. Quindi appoggiare il fazzoletto imbevuto di camomilla sulle palpebre e fare una leggera pressione. L’ideale è un impacco freddo della durata di 5-10 minuti». Poi bisognerebbe mettere creme che aiutino la pelle a rigenerarsi e riacquistare turgore ed elasticità. «Sieri o creme con dentro fospidina (serve a rigenerare stimolando formazione di nuova elastina e collagene), glucosamina (che è il precursore dell’acido ialuronico, cioè favorisce la formazione di nuovo acido ialuronico), esperidina (che viena estratta dagli agrumi e favorisce il microcircolo)».
Rimedi estremi. Se si arriva all’ultima spiaggia il rimedio è più radicale. «Se le borse diventano croniche e raggiungono una certa dimensione il rimedio estremo è l’intervento chirurgico in anestesia locale: si chiama blefaroplastica inferiore. – spiega Di Pietro – Tuttavia sono allo studio sostanze che possono essere iniettato con sottili aghi in grado di sciogliere questi depositi adiposi». Dato che l’area da trattare è di ridotte dimensioni rispetto a zone colpite da cellulite questa possibilità è ritenuta più fattibile.
Cosa sono le occhiaie? Altrettanto famose e poco amate sono le occhiaie. Anche loro colpiscono uomini e donne, indistintamente.
«Le occhiaie sono legate a una sofferenza sempre dei vasi capillari, per la precisione di quelli che si trovano intorno alle orbite. – spiega Di Pietro – Questi capillari possono diventare così fragili da rompersi con facilità e causando la fuoriuscita di piccole quantità di sangue che si raccolgono nei tessuti originando micro ecchimosi: in pratica ematomi microscopici».
Perché sono scure?
«Il sangue contiene ferro e al seguito di queste micro emorragie dovute alla rottura dei capillari fragili, il ferro resta intrappolato nei tessuti macchiando la pelle con il suo caratteristico colore marrone grigiastro, tipico delle occhiaie. Con il passare degli anni i capillari tendono a diventare sempre più fragili quindi si arriva un punto in cui bastano sbalzi di temperatura, oppure che aumenti un po’ la pressione all’interno e questi vasi possono rompersi: ecco allora che una goccia di sangue bagna i tessuti.»
Giù le mani!
«Ci sono poi alcune persone che si sfregano gli occhi, un’abitudine sbagliata perché chi si sfrega con le mani gli occhi, accentua il problema traumatizzando questi capillari molto delicati.» spiega Di Pietro. La soluzione dolce ed efficace per rinfrescare gli occhi, eliminare le polveri e dar loro sollievo può essere semplicemente sciacquarli con dell’acqua fresca. I lavori e i comportamenti a rischio. Nel caso delle occhiaie possiamo individuare anche dei lavori a rischio. «Di tratta di lavori dove si è a contatto con fonti di calore: cuochi, panettieri, pasticceri, saldatori, chi lavora l’asfalto, i pizzaioli. – aggiunge Di Pietro – Non fanno bene neanche i lunghi viaggi in auto con bocchetta aria caldadiretta sul viso. E in generale le temperature alte che favoriscono sia le borse sotto gli occhi che le occhiaie, perché sfiancano e indeboliscono i capillari. Per l’acqua del bagno, insomma, bastano 37 gradi. Meglio evitare anche di bere alcolici, fumare e mangiare cibi piccanti. Il fumo, infatti, indebolisce i vasi capillari, mentre alcool e cibi piccanti sono vaso dilatori e quindi anche in questo caso sconsigliati».
Rimedi. «Anche nel caso delle occhiaie bisogna aiutare il più possibile il microcircolo ricorrendo a creme che agiscono sui depositi di ferro. – spiega Di Pietro – Tra queste uno dei principi attivi più consigliati è la lattoferrina, perché è utile per favorire il riassorbimento dei depositi di ferro sottocutanei. Poi vanno bene tutti quei componenti come la fospidina, e laglucosamina di cui abbiamo parlato per le borse. Vanno applicate mattine e sera. Picchiettando con polpastrello dell’indice sulla zona delle occhiaie e borse: questo leggera pressione fa compiere una ginnastica dei vasi sanguigni, che vengono compressi e rilasciati, favorendo una migliore circolazione a livello locale».
E il picotage?
«Un dermatologo esperto dovrebbe valutare quando è davvero utile ricorre al picotage, micro iniezioni di acido ialuronico naturale che favoriscono la rigenerazione cutanea, il riassorbimento dell’emosiderina (cioè il ferro) e miglioramento del microcircolo. – dichiara Di Pietro – Ovviamente il picotage va eseguito in maniera coscienziosa e corretta: le iniezioni sono molto superficiali e vanno fatte senza rompere vasi capillari, l’esperienza è fondamentale per non peggiorare, in maniera paradossale, il problema».
Il trucco fa bene o male?
«Si può applicare, ma poi è importante struccarsi con acque micellari delicate o latti detergenti delicati, per esempio, con il fiordaliso che è lenitivo e sfiammante. Evitando, invece, i prodotti a base alcolica».
· Vecchia a chi? Le Perennial.
“PERENNIAL”: VECCHIA A CHI? ALTRO CHE ANSIA DELL’ANAGRAFE. Roselina Salemi per “la Stampa” l'11 agosto 2019. Potrebbe sembrare una rivincita sulle onnipresenti Millennial, invece è un colpo di genio che cancella l’ansia dell’anagrafe. Le Perennial possono avere quaranta o settant’anni, «sono curiose e sempre in fiore, consapevoli di cosa sta accadendo nel mondo e al passo con la tecnologia». Per la definizione bisogna ringraziare l’imprenditrice tecnologica Gina Pell che l’ha lanciata su The What List, prendendo atto di una piccola rivoluzione: c’è vita (e che vita!) dopo i 50, i 60, i 70 e oltre. Il marketing aveva già provato con neologismi meno efficaci come «pro-age» o «elastic generation», ma Gina Pell ha trovato il termine giusto. Le Perennial si sentono libere di concedere interviste, sfilare, recitare, tenere conferenze e lezioni di stile....Attitudine sexy «Ci sono attrici della mia età che lavorano moltissimo», conferma Susan Sarandon (72), vivace account Instagram e attitudine sexy sul red carped di Cannes (bella scollatura). Vero. Le ha rubato la scena una certa Helen Mirren con la testa regalmente rosa piena di progetti.
E se non vogliamo citare Meryl Streep (70 a giugno), mostro sacro del cinema che si è concessa un acido ruolo di nonna nella serie tv Big little lies, possiamo ricordare Jiulianne Moore e Tilda Swinton (58) . O proclamare regina delle Perennial, Madonna che alla soglia dei 61 esce con un album spiazzante, «Madame X», e si lagna perché il New York Times insiste sulla questione dell’età: «Se fossi stata un uomo, nessuno ne avrebbe parlato».
Donne di carattere Le Perennial hanno carattere. Pensate a Michelle Obama (58), che qualcuno immaginava nel cono d’ombra dopo essere stata first lady. Invece eccola con un’autobiografia («Becoming»), un progetto di contenuti per Netflix, un podcast per Spotify e una nuova pettinatura: niente più piega alla Jackie, ma ricci afro, i suoi, per suggerire «Scoprite chi sono davvero».
Pensate a Vivienne Westwood (78) stilista, icona punk, attivista su temi ambientali: «Mi chiedono se andrò mai in pensione. Non capisco il concetto. Faccio quello che mi piace e continuo a farlo».
E per restare nell’ambito della moda scalando di qualche decennio, che dire della quasi cinquantenne Naomi Campbell? Non hai mai annunciato il ritiro. A gennaio ha chiuso il fashion show di Valentino Haute Couture con un sensuale abito nero a balze (trasparente). Adesso è protagonista della campagna Valentino Vring (una borsa già cult), girata in bianco nero nella metro di New York.
Fisico bestiale Appartiene alla stessa specie di Grace Jones (71) che ha stupito cantando e ballando alla sfilata di Tommy Hilfigher a Parigi. Sulle note del suo Pull up to the bumper, brano piuttosto allusivo, ha infranto il codice non scritto riguardo a quello che le signor di una certa età possono fare oppure no. La sua filosofia: « Non vai avanti nella vita se non rompi qualche regola, anzi, un sacco di regole».
Medesima stoffa per Cher (73), terribile e levigata nonna in Mamma mia! Ci risiamo, dove si scatena, coraggiosissima, sugli alti trampoli Seventy. Supera tutte Jane Fonda che è stata Barbarella, profetessa dell’aerobica, sostenitrice della chirurgia estetica e oggi, filiforme ottantenne ancora sul set, (Young Pope, Le nostre anime di notte, Book Club), si veste di pizzo nero e si posta struccata su Instagram.
L’attivista americana Ma forse le Perennial non esisterebbero senza Ashton Applewhite (67) scrittrice e attivista americana, collaboratrice del New York Times e autrice di un manifesto contro l’ageismo, la discriminazione basata sull’età: «Serve coraggio e sicurezza per rimanere visibili nel mercato del desiderio», spiega.
Alcune stanno facendo la loro parte per mettere gilf («Granny I’d like to fuck») accanto a milf. American Apparel ha usato l’ultrasessantenne Jackie O’Shaughessy per pubblicizzare lingerie con lo slogan: «Essere sexy non ha data di scadenza». Il primo passo per essere ammesse tra le Perennial (oltre che avere stile, ovvio)? Dichiarare gli anni.
Lo fa, tra le italiane, l’attrice Stefania Casini (70) che sta lavorando a un documentario su Guido Crepax. E lo fa, tanto per uscire dallo showbiz, la scrittrice Isabel Allende (77 il 2 agosto), che nel 2017 ha trovato un nuovo amore e in maggio ha pubblicato un nuovo romanzo che in Italia arriverà a novembre con il titolo Lungo petalo di mare. Ma la vera domanda è: riusciranno le Millennial di oggi a diventare Perennial?
Roselina Salemi per “la Stampa” l'11 agosto 2019. La sua parola preferita? Amore. Il suo sogno? Visitare l’India, ma non sa se riuscirà a farlo. Il piacere più peccaminoso? Andare per mercatini delle pulci. Che cosa ha ereditato dai genitori? Curiosità, senso dell’avventura, humor e un’ottima genetica. ll suo successo maggiore? Vivere così a lungo. Iris Apfel, 98 anni il 28 agosto, si definisce l’«adolescente più attempata del mondo», ma le piace anche, ironicamente, anche essere chiamata geriatric starlet . Rossetto rosso, enormi occhiali («per guardarvi meglio») ormai definiti «alla Iris», look stravagante e anti-minimalista, lo scorso febbraio ha firmato un contratto con Img, l’agenzia di top model come Gigi Hadid e Kaia Gerber. Dice di lei il fotografo Bruce Weber: «Iris è uno dei miei soggetti preferiti. Ha quattro occhi davanti e due dietro, per questo riesce ad avere uno sguardo trasversale sulle cose. Sa sempre come allargare i tuoi orizzonti». Giornalista (all’inizio), arredatrice (ha messo mano nella Casa Bianca dal 1950 al 1992 con nove presidenti, da Truman a Clinton), fondatrice con il marito Carl della Old World Weavers, azienda specializzata nella riproduzione di stoffe antiche, designer di gioielli, ispiratrice di una linea beauty per Mac Cosmetics. Questo imprevisto successo che l’ha portata a essere l’unica testimonial novantenne di auto (Citroën) e moda (& Other Stories), protagonista della mostra Rara Avis dedicata ai suoi look, di un documentario, e, da pochissimo, della campagna del gelato Magnum #NeverStopPlaying, trova qualche spiegazione nell’autobiografia Iris Apfel. Icona per caso. Riflessioni di una star della terza età (HarperCollins). E se potessimo rubarle qualche segreto? «Esagerate senza problemi» «Mia madre diceva sempre che, con un abitino nero e gli accessori giusti, potevi creare un centinaio di look diversi. Compiva autentici miracoli con un semplice foulard. E aveva ragione. Puoi andare in ufficio e poi uscire a cena e persino andare a una serata di gala con gli stessi abiti, cambiando semplicemente gli accessori. I gioielli possiedono uno straordinario potere di trasformazione». Iris Apfel si sente nuda senza bracciali, ne porta anche sei per polso, mescola pezzi di valore e chincaglieria, ha trasformato la casula di un sacerdote in un mantello prezioso, mette qualsiasi cosa sui jeans. Il suo invito: «Provate! Lanciatevi! More is more. Che cosa potrebbe succedervi, alla fine, di tanto terribile? Non esiste una polizia della moda pronta ad arrestarvi». «Mai voler apparire giovane» «Non si mette la minigonna a 75 anni. Si evitano i vestiti sbracciati, i capelli lunghi, il trucco eccessivo. Non c’è nulla che invecchi una donna quanto il tentativo di sembrare giovane, ma si può essere irresistibili a qualsiasi età, come diceva Coco Chanel. Basta scegliere l’abito in base all’occasione. Non si va al ristorante con le infradito, non sono adeguate. Ho l’impressione che oggi il concetto di “adeguato” sia stato un po’ dimenticato: la gente non vuole più fare fatica. Male». «Basta nero totale» «D’ inverno tutte le ragazze – proprio tutte – portano stivali neri, collant neri, un cappello nero e un giubbotto di pelle nera. È rarissimo vedere anche solo qualcosa di marrone. Lo fanno perché vogliono sentirsi accettate? Fare parte di un gruppo? O forse hanno paura di commettere un errore, visto che tutto costa caro?». Iris Apfel con suoi completi verdi, le mantella arancio , le piume fucsia, i colli di pelliccia arcobaleno, è un invito al colore: «Serve: oggi il mondo è così grigio! Tanto vale sbizzarrirsi. Perché non indossare qualcosa che urli al mondo: “ eccomi qui”? ». «Lo stile non si compra» Iris frequenta le svendite, i mercatini vintage, i negozietti dove una fashion victim non entrerebbe mai. Le piace trattare. E spiega: «Le persone più eleganti che ho conosciuto nella mia vita non avevano soldi. Puoi comprare la moda, non lo stile. Dopo la Seconda Guerra Mondiale ho viaggiato molto e ricordo ancora oggi donne napoletane che non avevano assolutamente niente, ma risultavano straordinariamente eleganti». «Un tocco di rosso» «Un tocco di rosso fa più effetto di un’intera secchiata d’acqua». Iris Apfel cita Matisse, che adora. Ma anche Man Ray, che paragonava «l’uso del rosso all’impeto e alla dignità di un cuore intrepido». Racconta: «A Mac dissi che i loro rossetti erano troppo nude, dovevano essere più coprenti e contenere più pigmenti. Andarono esauriti in un batter d’occhio. La gente rubava i tester nei negozi!» Very Red Apfel, prodotto da Edward Bess per Bergdorf Goodman è inconfondibile. «Lavorate sino alla fine» «Mi piace lavorare, fare cose nuove. Se la gente si interessa al mio stile o rimane sbalordita perché sgambetto ancora va benissimo. Sono convinta che siamo al mondo per realizzare qualcosa. Se smettiamo di usare il cervello , si atrofizzerà e improvvisamente smetterà di funzionare. Credo che la pensione sia un destino peggiore della morte».
· Cavie predestinate.
«Bayer non siamo cavie»: la protesta delle donne a cui la spirale Essure ha rovinato la vita. Domenica 15 settembre sfilano a Roma, in piazza Esquilino, gruppi internazionali di donne danneggiate dal contraccettivo prodotto dal colosso tedesco in uno scandalo già denunciato dall’Espresso. Gloria Riva e Leo Sisto il 13 settembre 2019 su L'Espresso. Arriveranno a Roma dalla Francia, dalla Gran Bretagna e da tante altre città italiane. Si incontreranno in piazza dell’Esquilino domenica 15 settembre. Sfileranno con striscioni e magliette gialle spiegando con i loro slogan perché moltissime donne, dalla vita rovinata, si trovano tutte lì a protestare: “Bayer non siamo cavie”, “Vittima di Essure”. Si sono passate la voce con il tam tam di Facebook e il passa parola internazionale le ha trasformate in attiviste. Ce l’hanno con la Bayer, colpevole di aver distribuito, tramite la consociata Conceptus, il contraccettivo Essure, che ha provocato danni irreversibili danni al loro organismo. È stato L’Espresso (25 novembre 2018) a denunciare in Italia lo scandalo delle protesi difettose impiantate nei corpi dei pazienti con l’inchiesta mondiale “Implant Files” coordinata dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij) di Washington tra 252 giornalisti di 59 testate con sede in 36 nazioni con un obiettivo: tutelare la salute dei cittadini. Essure, riportava il nostro settimanale, è un anticoncezionale permanente: “Due fili metallici, avvolti a spirale l’uno sull’altro, che dovrebbero favorire la chiusura, per cicatrizzazione, delle tube di Falloppio”. Drammatiche le testimonianze raccolte dall’Espresso, almeno 33. Tra queste, una signora, M.B., abitante nel trevigiano, ha raccontato il suo calvario, convinta dal suo ginecologo a ricorrere a Essure dopo due parti con serie complicazioni: “Ho cominciato ad avere emicranie sembra più frequenti e intense, sono aumentata molto di peso, ho il bacino sempre gonfio, continue bronchiti e infezioni, difese immunitarie basse, ma la cosa peggiore è una stanchezza cronica, una depressione costante, che mi ha spinto sull’orlo del suicidio”. La Bayer ha poi tolto dal mercato italiano le sue tecno-spirali il 28 settembre 2017, costretta però a questo passo per una semplice ragione: quasi due mesi prima, il 2 agosto, l’ente certificatore irlandese Nsai aveva privato Essure del marchio CE, indispensabile per la sua circolazione nell’Unione Europea. Con nonchalance la Bayer Italia si è invece limitata ad annunciare di aver tirato via quel prodotto per un altro motivo: era ormai poco venduto, pur restando “sicuro” e benefico”. Una delle animatrici della campagna anti Essure è Annabel Cavalida, fondatrice e portavoce del gruppo “Essure-Problemi in Italia”, nonché una delle promotrici della manifestazione romana. Ha lanciato lei la pagina Facebook: Essure-Effetti collaterali e problemi”. L’Espresso l’ha sentita: «Siamo circa 250 donne. Ci siamo messe in contatto via Facebook per segnalare sintomi e problemi fisici avuti in seguito all'impianto del prodotto. Trenta di noi, anche se non hanno riscontrato indizi su di loro, lo tengono comunque sotto controllo. Altre 78 l’hanno rimosso e tutte – tranne cinque – sono rinate, sono tornate a condurre una vita normale. Chi non c'è riuscita è perché, sfortunatamente, ha scoperto la presenza di frammenti di metalli Essure in altre parti del corpo». Proprio così. Lo ha dimostrato uno studio della Fda, l’ente americano regolatore dei device medici. I micro-inserti Essure in poliestere, nichel-titanio, acciaio e lega per saldature si possono muovere, spostarsi qua e là, scatenando anomali eventi di migrazione: 1101 nell’utero, 41 nel fegato e 29 nell’appendice, secondo quella ricerca. In Italia sono stati commercializzati 7 mila dispositivi, ma, continua Cavalida, “non conosciamo quanti di questi sono stati innestati. Quindi il fenomeno potrebbe colpire molte più donne che hanno dei malesseri, ma senza collegarli a Essure. Alcune, forse, credono siano i normali effetti di una menopausa: ma non è assolutamente vero». Il gruppo italiano si è raccordato con altri movimenti internazionali, specialmente in Francia dove nel 2016 è stata costituita Resist, un’associazione che ha censito 2881 vittime di Essure su un bacino di 175 mila donne. La sua presidente Emilie Gillier sarà a Roma domenica, insieme ad altre iscritte, per documentare i risultati della sua attività, grazie anche all’apporto di alcuni deputati dell’Assemblea nazionale di Parigi. Ma in questa vicenda il nostro ministero della Salute come si è comportato? Giulia Grillo, dei 5S, fino a poche settimane fa ministro, aveva promesso in febbraio di organizzare un incontro per fare chiarezza. Incontro che non c’è mai stato. Come non c’è mai stata una risposta alla prima mail inviata da Annabel Cavalida il 21 maggio, seguita da una raccomandata dieci giorni dopo e, di nuovo, da altre due mail, il 19 e 20 luglio. Ed è così che in agosto si è fatta strada l’idea della dimostrazione di piazza Esquilino, per appellarsi alla coscienza del successore della Grillo, nominato nel frattempo, Roberto Speranza. Per ottenere che cosa? “La creazione di un protocollo d'espianto, un vademecum da inviare a tutti i chirurghi e i ginecologi per insegnare loro come espiantare Essure». La spirale, infatti, è studiata apposta per installarsi nelle tube che collegano le ovaie all'utero, cicatrizzandosi insieme a questo condotto: «L'unico modo per eliminare Essure è levare l'intero utero, ovaie comprese. Ma, senza un protocollo, i medici possono intervenire come meglio credono, in alcuni casi facendo rimozioni parziali, non risolutive». Domenica, in piazza Esquilino, ci sarà un medico, Gian Luca Bracco, direttore di ginecologia all'ospedale di Lucca, che insieme ad un altro dottore, Matteo Crotti, ginecologo dell'Ospedale di Carpi, sarebbe disponibile a indicare le linee guida del protocollo. Rimarca Annabel: «Il cambio al vertice del ministero della Sanità ci preoccupa. Per questo ci rivolgiamo al nuovo ministro Speranza, augurandoci che mantenga l'impegno preso dalla ministra Grillo”. Ma non è, questa, l’unica richiesta. È importante realizzare anche una mappatura del fenomeno, identificare tutte le donne esposte alle insidie di Essure. La signora Cavalida aggiunge: «Sappiamo che un laboratorio privato è disponibile ad analizzare la composizione di Essure, per individuare l’elemento responsabile dei nostri disturbi. Vogliamo andare a fondo, capire che cosa dà origine a quelle sintomatologie». Insomma, Bayer ascolti queste invocazioni d’aiuto e intervenga. Finora però il colosso tedesco rilascia all’Espresso soltanto la seguente dichiarazione: “La salute e la sicurezza dei pazienti che fanno affidamento sui nostri prodotti è per noi la principale priorità. Il profilo favorevole benefici-rischi di Essure rimane invariato. Continuiamo a sostenere l’efficacia e la sicurezza del prodotto, che sono stati dimostrati da un ampio numero di studi, sostenuti da Bayer e da ricercatori indipendenti: tra questi sono inclusi oltre 40 studi pubblicati, che hanno coinvolto più di 200.000 pazienti negli ultimi 20 anni. Le donne che al momento hanno adottato Essure possono continuare ad utilizzare con sicurezza il dispositivo e non dovrebbero preoccuparsi. Se una donna con Essure ha dubbi o domande sul dispositivo dovrebbe discuterne con il proprio ginecologo”. Papale, papale. Ovviamente, tutto questo vale per il passato, perché ormai Essure non può più essere utilizzato, come abbiamo già scritto. Eppure, domenica, in piazza Esquilino, insieme a donne inviperite, alle T-shirt gialle e a cartelloni tipo “Essure mi ha portato via un organo sano”, nello stile del film Oscar “Tre manifesti a Ebbing”, rimarrà sullo sfondo una grande incognita. Che potrebbe essere sciolta se si potesse avere, grazie a studi di laboratorio, come Annabel Cavalida auspica, “una conferma scientifica sulla pericolosità di Essure. Allora Bayer dovrebbe farsi carico anche dei costi che la sanità pubblica si è accollata per l'impianto e l'espianto del device». Vale a dire, 2.500 euro per l'impianto e tre volte tanto per l'espianto.
Il calvario delle donne intossicate da tecno-spirali e silicone velenoso. Ottomila pazienti lesionate da protesi al seno pericolose solo nel primo semestre 2018. E ora scoppia il caso Essure, impiantato su almeno settemila italiane, ritirato dalla Bayer dopo lo stop delle autorità irlandesi. Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 25 novembre 2018 su L'Espresso. Le donne pagano un prezzo altissimo alla mancanza di controlli pubblici sui dispositivi impiantabili nel corpo. Nel 2012 fu lo scandalo delle protesi al seno, prodotte con silicone tossico dalla ditta francese Pip, poi finita in bancarotta, a spingere le autorità di Bruxelles a varare il nuovo regolamento europeo sui medical device che entrrà pienamente in vigore solo a partire dal 2020. Nonostante le migliaia di vittime del caso Pip, alcuni molti modelli di protesi al seno sono ancora associati a problemi gravissimi: gli Implant Files segnalano, solo nel primo semestre 2018, sette casi di morte e oltre ottomila lesioni personali. Da mesi le donne di mezzo mondo si stanno mobilitando anche contro Essure, un anticoncezionale permanente creato dalla Conceptus, una ditta acquistata dalla Bayer. Due fili metallici, avvolti a spirale l’uno sull’altro, che dovrebbero favorire la chiusura per cicatrizzazione delle tube di Falloppio. I dispositivi, applicati a circa un milione di donne nel mondo, rilasciano sostanze sconosciute, si spezzano, possono infiltrarsi fino al cuore o ai polmoni. L’Espresso ha raccolto le testimonianze delle prime 33 donne italiane che si sono rivolte all’avvocato Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo , per spedire alla Bayer una formale richiesta di risarcimento dei danni, preludio a una possibile causa collettiva (class action). In Italia Essure è stato impiantato su almeno settemila donne. Tutte le intervistate descrivono lo stesso calvario: «Mi chiamo M.B., sono nata in Brianza, abito vicino a Treviso, ho 44 anni. Nel 2014 la mia ginecologa, dopo due parti con gravi complicanze, mi ha consigliato di impiantare Essure, assicurando che era sicuro e non aveva alcuna controindicazione. Dopo l’impianto all’ospedale di Mestre, la mia vita è cambiata. Sono sempre stata una persona molte forte, in buona salute. Ho cominciato ad avere emicranie sempre più frequenti e intense, sono aumentata molto di peso, ho il bacino sempre gonfio, continue bronchiti e infezioni, difese immunitarie basse, ma la cosa peggiore è una stanchezza cronica, una depressione costante, che mi ha spinto sull’orlo del suicidio. Ho pensato anche questo, prima di trovare altre donne con gli stessi problemi e capire. La mia nuova ginecologa dice che sono stati pazzi a impiantarmi Essure». La signora A.C., che ha organizzato un gruppo Facebook delle vittime italiane, ha tolto Essure ed è rinata: «Poche ore dopo ho ricominciato a camminare, a poter riafferrare gli oggetti, a vederci come prima, a non avere più mal di testa. Ora sono dimagrita, sto bene, sono tornata me stessa. Il problema più grande è che molte donne non collegano questi sintomi a Essure: i mariti ci credono impazzite, ci portano dallo psichiatra. Ora voglio aiutare le altre vittime».
Gli Implant Files segnalano 8.500 casi di rimozione negli Stati Uniti, altre migliaia in Europa, 769 solo in Belgio. Al ministero italiano risultano invece solo 13 «incidenti». L’Espresso però ha contato decine di rimozioni, con ginecologi che lavorano a tempo pieno per togliere Essure. La Bayer ha ritirato le sue tecno-spirali dal mercato italiano il 28 settembre 2017. Due giorni prima, il ministero aveva ricevuto un’email dalla rappresentante delle vittime, che denunciava l’inerzia italiana dopo lo stop deciso già il 2 agosto 2017 dall’ente certificatore irlandese Nsai, che aveva fatto perdere a Essure il marchio CE. L’indomani il ministero, senza dire nulla alle pazienti, ha inviato alla Bayer un avviso di sicurezza, invitando l’azienda a richiamare Essure. Sul sito del ministero, dal 2 ottobre 2017, i cittadini possono leggere solo il comunicato di Bayer Italia, che dichiara di aver ritirato Essure perché si vendeva poco, ma resta un prodotto «sicuro e benefico». Il colosso tedesco ha mandato negli ospedali a prelevare le spirali il suo «distributore esclusivo per l’Italia»: Cremascoli & Iris spa, un’azienda che appartiene alla famiglia dell'imprenditore Eugenio Cremaascoli, arrestato e condannato per corruzione nel 2005 a Torino. Dove ha confessato di aver pagato tangenti per oltre un decennio a tre famosi cardiochirurghi per vendere dispositivi medici e prodotti per il cuore ai più importanti ospedali pubblici. "Oggi come ieri chi detiene il potere sostiene che il giornalismo sia finito e che meglio sarebbe informarsi da soli. Noi pensiamo che sia un trucco che serve a lasciare i cittadini meno consapevoli e più soli. Questa inchiesta che state leggendo ha richiesto lavoro, approfondimento, una paziente verifica delle fonti, professionalità e passione. Tutto questo per noi è il giornalismo. Il nostro giornalismo, il giornalismo dell’Espresso che non è mai neutrale, ma schierato da una parte sola: al servizio del lettore.
Dispositivi a rischio nel cuore dei bambini. Donne con reti nocive nel grembo. Protesi al seno cancerogene. L'allarme lanciato da L'Espresso lo scorso anno ora è diventato globale: le segnalazioni di apparecchi difettosi sono oltre 90.000. E i pazienti italiani hanno cominciato a tirare fuori le loro drammatiche esperienze. Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisto il 13 maggio 2019 su L'Espresso. Mamme e papà, seduti sulle panchine di una piazza di Rovigo, tengono d’occhio i bambini che giocano a rincorrersi. Corrono tutti, disegnando un grande cerchio, tranne Erik. Lui riesce solo a fare qualche passetto, lentamente. Erik ha quasi nove anni, la sua è una vita segnata da continue operazioni a cuore aperto, ma «sta affrontando con grandissima forza i dolori, gli scompensi cardiaci, le angine addominali, le febbri». Le parole di suo padre, Andrea Ferrari, esprimono ammirazione per quel figlio lottatore, da dieci mix di farmaci al giorno. Erik è nato nel 2010 con una malformazione congenita chiamata tetralogia di Fallot, che causa una miscelazione tra sangue povero e ricco di ossigeno, ostacolando la crescita e i movimenti. Un difetto cardiaco abbastanza comune, che si può curare. «A Bologna uno specialista ci aveva proposto un doppio intervento chirurgico, uno immediato, l’altro dopo qualche anno: un sistema collaudato», ricorda papà Andrea. «Un pediatra di Rovigo, però, ci ha parlato di un programma innovativo, applicato a Padova: un dispositivo chiamato Cormatrix. In quella cardiochirurgia pediatrica ci hanno spiegato che era una membrana in grado di riparare il cuore una volta per tutte, perché cresce insieme ai tessuti. Mio figlio aveva pochi mesi di vita. Ci siamo fidati: chi non l’avrebbe fatto? Nessuno ci ha informato dei rischi. È stato un calvario».
UN'INDUSTRIA FUORI CONTROLLO. Il genitore veneto è uno degli oltre 700 italiani che hanno potuto cercare documenti e informazioni nella prima banca dati globale dei dispositivi medici (Imdd, International medical device database) creata dal consorzio giornalistico Icij, di cui fanno parte per l’Italia L’Espresso e Report. Nell’inerzia delle autorità, è l’inchiesta Implant files, frutto di un anno di lavoro di oltre 250 cronisti di 36 nazioni, che ha reso per la prima volta pubblici, dal novembre scorso, questi dati sulla sicurezza di migliaia di apparecchi, dai pacemaker alle protesi, impiantati nel corpo dei pazienti. Costretti a convivere con quei congegni per anni, o per sempre. In Italia si contano più di un milione di modelli di device. Molti sono preziosi strumenti salvavita: moderne tecnologie che proteggono i pazienti. Alcuni però nascondono problemi gravissimi. Evidenziati dalle cifre-choc rivelate dall’inchiesta Implant Files: solo negli Stati Uniti, dal 2008 al 2017, sono stati registrati oltre 82 mila casi di morte e più di un milione e 700 mila lesioni associate a dispositivi difettosi, deteriorati o malfunzionanti. Ora anche i pazienti e i medici italiani possono controllare personalmente, sul nostro sito oltre 90 mila segnalazioni di allarme (in gergo, avvisi di sicurezza) provenienti da 18 nazioni, dagli Stati Uniti alla Germania. Proprio qui il signor Ferrari ha trovato i dati sul device applicato a suo figlio. Al Cormatrix, nell’ultimo decennio, vengono collegati quasi trecento eventi avversi: 7 morti, 259 lesioni, 18 guasti. «Ma noi l’abbiamo saputo solo adesso, grazie alla vostra banca dati». Il Cormatrix, prodotto dall’omonima azienda statunitense, è una membrana ricavata da tessuti di origine suina e bovina, biocompatibili, progettata per saldarsi e crescere con le cellule del cuore. In Europa è stata certificata dalla ditta francese Medpass. Un’impresa privata pagata dal produttore. Una regola assurda, che vale per tutti i dispositivi, anche i più rischiosi: è il controllato che sceglie il controllore. Negli Stati Uniti risultano impiantati oltre 7 mila Cormatrix. In Italia il numero è ignoto, perché non esiste un archivio o registro degli impianti. La membrana risulta utilizzata da tempo in diversi ospedali, da Torino ad Ancona, da Padova a Bologna. Ma il nostro ministero della Salute non ha pubblicato alcun avviso di sicurezza. E neppure rilanciato i quasi trecento allarmi americani. Per anni diversi chirurghi italiani lo consideravano un dispositivo valido, «utile per ricostruire il pericardio dopo un’operazione», come spiega un professore milanese consultato da L’Espresso, che poi l’ha abbandonato «perché non garantiva l’efficacia promessa». Ma fino al 2010 il Cormatrix veniva applicato solo su pazienti adulti, non sui bambini: il papà veneto ha scoperto solo oggi che suo figlio, quell’anno, è stato usato come cavia. «A Padova il medico ci assicurava che non c’erano rischi e con un solo intervento ci saremmo dimenticati dei problemi al cuore di Erik. Col senno di poi, avremmo dovuto fare più attenzione alle sue parole: ci teneva a precisare che non era una sperimentazione, ma un progetto di studio». La differenza non è trascurabile. Per impiantare il Cormatrix nei bambini, i medici padovani proprio nel 2010 chiesero per due volte il parere del Comitato etico per la sperimentazione della Regione Veneto, composto da dodici medici e giuristi. Dalla documentazione ottenuta solo alcuni giorni fa «dopo una lunga attesa e svariati solleciti», come spiega l’avvocato Alessandro Boldini, che segue da tempo il caso, risulta che il Comitato aveva dato una risposta negativa: «L’impiego proposto risulta diverso dalla marcatura CE», cioè dal tipo di utilizzo certificato e autorizzato, mentre «le potenziali capacità di rigenerazione del tessuto (del cuore) sono ancora in fase iniziale di valutazione e non vi sono dati», per cui il progetto di usare il Cormatrix per i bambini «si configura come sperimentazione clinica e richiede l’approvazione di un protocollo». A quel punto Erik viene operato come «progetto di studio». E da lì, spiega il signor Ferrari, «inizia la nostra via crucis, con operazioni continue. Nel 2015 il bambino subisce un intervento a cuore aperto durato 16 ore, al Bambin Gesù di Roma, dove i chirurghi tentano di rimuovere la membrana, ma è quasi impossibile perché si è mischiata con le cellule». Erik lascia l’ospedale mesi dopo, con il suo terzo pacemaker nel cuore. «Siamo in contatto con un’altra famiglia: anche il loro bambino sta per essere rioperato nella speranza di eliminare il Cormatrix». In questi anni varie riviste scientifiche internazionali hanno pubblicato studi sui rischi del Cormatrix. Già nel 2014 un ricercatore dell’università di Padova, Filippo Naso, ha definito «allarmante che questo dispositivo sia stato autorizzato in Europa e Usa senza avvertire dell’effetto collaterale che possono avere cellule provenienti da tessuto animale». Nel 2016 un altro studio, firmato dai professori Biagio Castaldi e Annalisa Angelini, ha riassunto i risultati della prima campagna di controlli sui bambini con un titolo eloquente: «Un monito alla cautela». Tra le carte di Erik, il padre conserva il modulo di consenso al «progetto di studio» che gli fecero firmare nel 2010. Alla voce «C’è qualche rischio per mio figlio?», si legge «No». L’ospedale di Padova ha dovuto versare un risarcimento alla famiglia di Erik. Che però non basta nemmeno a pagare le gravose spese sanitarie: «Erik va controllato ogni due mesi a Roma, qui dobbiamo tenere le macchine per monitorare il cuore... Quindi abbiamo dovuto ipotecare la casa». Il signor Ferrari deve anche difendersi da una querela: un chirurgo di Padova si è sentito diffamato dal suo racconto della storia di Erik, pubblicata in un blog. La procura ha chiesto l’archiviazione, ma il luminare si oppone. E così il 28 maggio, in tribunale, l’unico imputato sarà lui: il papà del bimbo con il cuore a pezzi.
TUMORI DA PROTESI AL SENO. L’Espresso aveva pubblicato già il 25 novembre 2018 il primo articolo in Italia su un allarme che ora è globale. Tutto parte dai dati rivelati dall’inchiesta Implant files: in dieci anni, solo negli Stati Uniti, si contano 39 vittime e oltre 14 mila lesioni associate ad alcuni tipi di protesi al seno. Un femminicidio silenzioso, che continua ad aggravarsi: le donne colpite raddoppiano ogni sei mesi. Il problema riguarda le protesi ruvide (macro-testurizzate), sospettare di aumentare da 9 a 16 volte il rischio di sviluppare una rara forma di cancro, il linfoma anaplastico a grandi cellule. Dopo i primi articoli, il 14 dicembre 2018 il certificatore francese Gmed nega il rinnovo del marchio CE alla multinazionale Allergan, bloccando così le vendite delle protesi al seno della gamma Natrelle. Quattro giorni dopo, il governo di Parigi ne ordina «il ritiro da tutti gli ospedali». E l’Italia? In febbraio la Società di chirurgia plastica ricostruttiva (Sicpre) dichiara che «nel 2018 sono state utilizzate cerca 51 mila protesi, per il 95 cento testurizzate», con 39 donne già colpite da linfoma (ora salite a 41). Quindi i colleghi di Report scoprono il primo decesso accertato in Italia: una donna con una protesi ruvida installata nel 2002, rimossa solo nel 2018. Un caso segnalato già in febbraio al ministero, che non ha pubblicato avvisi per informare medici e pazienti. Il 2 aprile 2018 l’autorità francese Ansv comunica di aver «proibito la vendita, distribuzione, pubblicità e utilizzo» di altri modelli di protesi (macro-testurizzati o al poliuretano) prodotti da Allergan, Arion, Sebbin, Nagor, Eurosilicone e Politech. In Italia il ministro Giulia Grillo annuncia di aver chiesto un parere tecnico al Consiglio superiore di sanità, previsto il 13 maggio. L’eventuale richiamo delle protesi-killer si profila però problematico: L’Espresso ha denunciato già nel 2018 che in Italia non esiste nessuna banca dati nazionale dei dispositivi, per identificare e contattare i pazienti in pericolo. Nel 2012 l’allora ministro Balduzzi varò un «registro obbligatorio delle protesi al seno», che però non è ancora in funzione. Anche il Canada e altre nazioni hanno seguito l’esempio francese, mentre negli Usa l’amministrazione Trump «non ravvisa gli standard di un divieto». Tra le dieci più grandi multinazionali dei device, otto sono americane: fatturano oltre 350 miliardi all’anno.
RETI DI PLASTICA, MEA CULPA POLITICI. È uno dei maggiori risarcimenti concessi a una singola persona per danni sanitari: 120 milioni di dollari, che il gigante Johnson & Johnson (J&J) dovrà pagare a una donna di 68 anni, Susan McFarland, che nel 2008 si era vista impiantare un dispositivo a maglie contro l’incontinenza urinaria. Una sentenza emessa a fine aprile da un tribunale di Philadelphia, che la multinazionale si prepara a contrastare in appello. Il caso riguarda una rete plastificata (Tvt-ODevice) prodotta dalla Ethicon, consociata della J&J, simile a molti altri dispositivi pelvici accusati di aver rovinato decine di migliaia di vittime nel mondo. Tracie Palmer, legale della danneggiata, si era rivolta alla giuria con queste parole: «Ecco il vostro messaggio alla J&J: per la salute e sicurezza delle donne americane, togliete dal mercato questo prodotto». Le reti aderiscono agli organi interni, per cui diventa difficile toglierle anche se provocano emorragie e dolori atroci. L’inchiesta Implant Files è nata dallo scoop di una giornalista olandese, Jet Schouten, che ha videoregistrato i dirigenti di tre società di certificazione (una è italiana) pronti a offrire il marchio CE a una rete per agrumi da supermercato. Dalle protesi ortopediche ai pacemaker, dai defibrillatori alle valvole, le rivelazioni del consorzio hanno provocato una specie di mea culpa universale. In Germania, Olanda, Regno Unito, Spagna, India, Canada e tanti altri Paesi i governi giurano di voler garantire più sicurezza e tracciabilità. In Italia il ministro della Salute ha presentato il 22 marzo la nuova «governance dei dispositivi», ma la direttiva europea che impone di registrare ogni device, con un codice da associare al singolo paziente, verrà applicata «gradualmente, entro tre anni». La lobby dei produttori intanto ha bloccato la riforma più importante: affidare autorizzazioni e controlli a un’agenzia europea, pubblica e indipendente, come per i farmaci. Medici e pazienti devono quindi accontentarsi del marchio privato CE: un congegno impiantato nel corpo resta meno sorvegliato di un’automobile. E non è l’unico privilegio legale concesso ai big dell’industria: «Per le cause sui dispositivi c’è una prescrizione brevissima: solo un anno», spiega l’avvocato Paolo Martinello, presidente di Altroconsumo, che assiste le prime 50 vittime italiane di Essure, il device anticoncezionale che la tedesca Bayer nel 2017 ha dovuto ritirare. Negli Stati Uniti l’agenzia di controllo (Fda) è pubblica. Il suo capo, Scott Gottlieb, un ex lobbysta nominato da Trump, che in novembre aveva promesso controlli più severi, poi è stato accusato di avere in realtà nascosto decine di migliaia di avvisi di sicurezza scoperti dal consorzio. E in marzo si è dimesso. In attesa di vere riforme, L’Espresso continua a ricevere denunce disperate. Molte donne scrivono al nostro sito di essere «molto preoccupate» per le protesi al seno: «Mi avevano detto che erano sicure. Eppure, da quando me le hanno impiantate, ho dolori diffusi insopportabili, stanchezza cronica, perdita di memoria, rush cutanei, problemi agli occhi, gola perennemente secca, digestione difficile. Sto sempre peggio e ora si sono aggiunti dolori al seno. Fatico a lavorare, a fare le scale, a svolgere qualsiasi attività». Scrive un paziente di Roma: «Ho consultato la vostra banca dati e ho scoperto che mi è stata impiantata una protesi d’anca “a rischio medio-alto”, che rilascia metalli pesanti. Nel 2017 il cromo aveva un livello di 1,40, poco sopra il limite di 1, adesso è a 2,93. Il cobalto è 4,40, mentre la soglia va da 0,1 a 0,4. Vorrei capire cosa rischio, vorrei un aiuto medico». Altro caso pesante: «Sono stato operato per un’insufficienza cardiaca, ho scelto un ospedale veneto perché pubblicizzava un nuovo dispositivo da inserire senza un intervento a cuore aperto. È stato un vero disastro. Ho dovuto farmi rioperare in un altro ospedale. Qui i medici mi hanno detto che quella protesi è sperimentale, costosa (circa 20 mila euro) e viene applicata a centinaia di pazienti italiani anche se non è ancora autorizzata negli Usa, dove viene prodotta. È vergognoso». L’Espresso finora ha raccolto 80 denunce circostanziate che riguardano pazienti italiani. Il consorzio Icij, a livello mondiale, ne ha ricevute ben 3.432. L’inchiesta Implant files continua.
· Cure riparative della Devianza? Essere diversi non è una malattia.
Cure riparative della Devianza? Essere diversi non è una malattia. Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 18 giugno 2019. Essere transgender non è più considerato una malattia né una patologia mentale: l' Oms - l' Organizzazione mondiale della sanità - l' ha cancellata dalle sindromi psichiatriche, inserendola invece tra i "disturbi della salute sessuale". Fino a poco tempo fa, infatti, l' International Classification of Diseases (ICD) riteneva che gli individui che vogliono vivere ed essere accettati come un membro del sesso opposto fossero affetti da problemi psichici, da una sindrome comportamentale disadattiva. Con questa definizione, però, non si sono trovati più d' accordo scienziati e ricercatori mondiali, i quali hanno pubblicato sulla prestigiosa rivista Lancet uno studio - "Removing transgender identity from the classification of mental disorder" - nel quale hanno coinvolto oltre 250 transgender, lanciando un appello storico, basato su dati medici e clinici, con un preciso invito alla comunità scientifica internazionale: rimuovere tali soggetti dal settore dei disordini mentali.
Rivisto e corretto. Il mese scorso a Ginevra, all' Assemblea Generale dell' Oms, è stato quindi discusso, rivisto e corretto l' aggiornamento dell' International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problem, e codificato un nuovo documento che riposiziona nel settore giusto molte malattie, alla luce di ricerche e scoperte farmacologiche degli ultimi anni sulla loro eziologia e cura, e la "disforia di genere" è stata collocata tra i disturbi della salute sessuale, escludendola di fatto dal perimetro delle malattie neurologiche e mentali. Nel glossario dell' Oms i generi classificati sono cinque: maschile, femminile, omosessuale maschile, omosessuale femminile e trangender, e gli ultimi tre erano considerati appunto "disordini di genere", intendendo come genere l' appartenenza genetica a un sesso.
Qual è l' esatta differenza? Il termine gender indica il genere maschile o femminile, mentre transgender è quello che una volta veniva definito transessuale, una persona che non si riconosce nell' identità sessuale attribuita alla nascita. I trans sono appunto transessuali che hanno una forte pulsione verso lo stesso sesso genetico, ma non sono da paragonare o considerare omosessuali perché la loro condizione non interessa solo la sessualità, ma tutti gli aspetti completi e profondi della personalità. Per esempio, chi è nata donna a un certo punto della sua vita si vede e si sente diversa, con una reale dissociazione tra mente e corpo, e questi corpi femminili si percepiscono intimamente come uomini, per cui sono attratte sessualmente dalle donne. Così gli uomini che si sentono totalmente donne sono attirati sessualmente dagli uomini, con una pulsione così violenta da essere incontrollabile. Transgender letteralmente significa "al di là del genere", e identifica quindi chi non si riconosce nello stereotipo maschile o femminile, mentre in ambito psicologico, medico e legale questo termine viene usato per indicare un transessuale non operato ai genitali. Tali soggetti, infatti, ricorrono spesso alla chirurgia estetica per la mastoplastica additiva (farsi il seno), e alla terapia ormonale a base di estrogeni per ingentilire la voce, far scomparire la peluria di corpo e barba, rendere la pelle più morbida e liscia, ma quasi mai ricorrono alla rimozione o trasformazione dei genitali. La transessualità quindi non è una malattia, ma un disturbo tra l' identità fisica e psichica che si struttura nei primi tre anni di vita, si stabilizza in tale periodo senza dare sintomi, mentre si rende evidente durante la pubertà, quando inizia la tempesta ormonale che sviluppa i caratteri sessuali secondari - peluria, maturazione dei genitali, pulsioni sessuali - ed è il momento in cui tali soggetti prendono coscienza della loro condizione, poiché mentre il loro corpo va in una direzione, la loro mente va dall' altra, e iniziano a sentirsi dissociati dal proprio sesso biologico.
Alla nascita. È accertato che in genere nasce un trans maschio-femmina (cioè nato con caratteristiche di sesso maschile ma che tende verso l' altro genere) ogni 20mila parti, e un trans femmina-maschio ogni 40mila, e in Italia tali soggetti sono poche migliaia, dei quali pochissimi ricorrono al cambio di sesso anche chirurgico. Attualmente lo Stato di New York ha stampato certificati sui quali sarà consentito scrivere "Genere X" a chi non si riconosce né nel genere femminile né in quello maschile, con una nuova legge approvata a grande maggioranza dal Consiglio Comunale della Grande Mela, una decisione storica accolta dalla comunità Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender), che ha peraltro indicazioni anche per gli etero indecisi, i quali potranno ridefinire il loro genere sui documenti, senza alcuna certificazione medica non essendo più considerata una malattia, ed anche i neo genitori, nel dubbio, potranno scegliere l' opzione X sul certificato di nascita dei figli. I transgender inoltre non hanno nulla a che vedere con i viados, accezione dispregiativa derivante dalla parola "deviato" o pervertito, che si riferisce a uomini omo o bisex che praticano la prostituzione, e nemmeno con i travestiti, persone che provano piacere, anche sessuale, nell' apparire o prendere le sembianze del sesso opposto. La nuova classificazione dei generi sessuali, effettiva dal gennaio 2022, cancella un enorme stigma verso i transgender, fino a ieri considerati malati mentali, abbattendo la barriera costruita attorno a loro che rimarcava l' incongruenza tra l' identità vissuta e il loro sesso biologico, e che li indirizzava verso gli psichiatri. L' appello degli scienziati aiuta a riflettere su quanto possa essere distruttivo un pregiudizio o una diagnosi sbagliata, e come sia possibile agevolare determinate persone a vivere in pace oltre la loro sessualità, il ceto sociale, il colore della pelle.
Germania, entro il 2019 saranno illegali le «cure riparative» per gli omosessuali. Pubblicato mercoledì, 12 giugno 2019 su Corriere.it. Le cosiddette «terapie riparative» per l’omosessualità saranno illegali in Germania entro la fine del 2019. Lo ha promesso in una conferenza stampa Jens Spahn, ministro della Salute del governo conservatore dei cristiano-democratici: «L’omosessualità non essendo una malattia, non è necessario curarla», ha detto, aggiungendo anche che «le terapie riparative spesso fanno ammalare e non sono sane». Già da settimane il ministro Spahn — che a sua volta vive con un uomo da diversi anni — ha convocato una commissione di esperti per redigere al più presto un disegno di legge plausibile. Gli esperti sono psichiatri, medici e legali guidati dalla fondazione Magnus Hirschfeld, il primo istituto di ricerca sessuologica in Germania. E pur avendo iniziato da poco i lavori confermano che è possibile, sia dal punto di vista medico sia da quello costituzionale, rendere illegali questo genere di «terapie». Entro fine agosto stileranno un documento che dovrebbe fare testo anche per altri Paesi che intendessero prendere provvedimenti simili.
Le «terapie riparative» o di conversione sono infatti legali, pur non avendo alcun effetto positivo riconosciuto, in moltissimi Paesi in Europa e nel mondo. Dall’esorcismo alla psicoterapia, dalla terapia famigliare al life-coaching, sono molti gli «esperti» che promettono di poter far diventare eterosessuale un omosessuale, e solo in Germania raccolgono qualche migliaio di pazienti l’anno. Anche in Italia, del resto, periodicamente, qualche personaggio più o meno noto garantisce di essersi «curato» dall’omosessualità con una psicoterapia o con la preghiera: dal cantautore Povia, che ha addirittura scritto una canzone dedicata a tale Luca che «era gay, adesso sta con lei», alla conduttrice tv Nausica Della Valle che ha dichiarato da poco «ero lesbica, ma era un inganno di Satana». In realtà le uniche prove scientifiche di effetti delle «terapie riparative» sui pazienti sono negative: depressione, peggioramento del senso di inadeguatezza, ideazione suicidaria. E anche quando il comportamento omosessuale viene evitato, è molto difficile che si muti l’orientamento sessuale che è alla base. In Italia l’Ordine degli Psicologi si è schierato contro queste pratiche, dichiarandole inutili; ma non sono illegali, come in molti altri Paesi europei. Tra quelli che le proibiscono, invece, ci sono: Argentina, Brasile, Svizzera, Regno Unito e vari Stati americani «Così ci hanno devastato l’anima per “guarirci” dall’omosessualità».
Adolescenti che si scoprono gay o lesbiche. E che i genitori mandano dallo psicologo perché diventino etero. È l’inizio di un calvario. Che resta dentro anche quando, finalmente, ci si libera da questa follia. Ecco le loro storie. Simona Alliva il 18 giugno 2019 su L'Espresso. Sei gay? Stenditi sul lettino. Anno 2019, è ancora questo l’invito rivolto ai giovani omosessuali che escono allo scoperto. Se prima lo sguardo della società nei confronti delle persone Lgbt era in via di trasformazione, oggi è obliquo. Si riflette in politica quasi come sulla psicoanalisi. Una sintonia che trova manforte in chi dentro il governo condanna l’omosessualità, nel ministro per la Famiglia Lorenzo Fontana che sostiene processioni riparative dopo il passaggio di gay, lesbiche e trans durante i Pride. Oggi l’Italia sembra voler accelerare ogni tentativo di patologizzare quell’orientamento sessuale che l’American Psychological Association definisce una «variante naturale normale e positiva della sessualità umana» e l’Organizzazione mondiale della sanità una «variante naturale del comportamento umano». Nonostante il movimento per i diritti Lgbt abbia fatto passi da gigante nei cinquant’anni dagli scontri di Stonewall, in Italia le persone gay e lesbiche vengono rispedite dai “curatori”. Malate, come cinquant’anni fa. Una macchina del tempo che riporta di moda le teorie di riparazione che per anni hanno violentato l’autostima delle persone Lgbt.
Per vent'anni ho cercato di curare chi era gay come me. Ora so che dobbiamo essere liberi. Parla David Matheson, l'ex teorico delle "terapie riparative". «Ci credevo davvero, ma era tutto falso». Oggi ha ritirato dalla vendita i suoi manuali. Ha lasciato la moglie. E ha dichiara apertamente la propria omosessualità. Francesco Lepore l'8 febbraio 2019 su L'Espresso. «Un anno fa mi sono reso conto di dovere apportare cambiamenti sostanziali nella mia vita. Ho capito che non potevo più restare sposato e che era arrivato il momento di affermare la mia omosessualità». Queste parole, comparse il 22 gennaio all’interno di un post su Facebook, hanno fatto il giro del mondo. E, a distanza di tre settimane, continuano a far discutere, perché a scriverle è stato David Matheson. Mormone, pupillo di Joseph Nicolosi, fondatore del Narth (National Association for Research and Therapy of Homosexuality) e già teorico delle “terapie riparative”, i cui libri sono stati tradotti in Italia dalla San Paolo, Matheson aprì nel 2002 il Center for Gender Affirming Processes a Jersey City e, successivamente, il Center for Gender Wholeness a Salt Lake City. Due centri rientranti all’interno della sfera dei gruppi degli ex-gay, in cui persone omosessuali sono sottoposte a terapie di conversione o riorientamento sessuale. A tale fine Matheson è stato coautore del programma “Journey Into Manhood” e ha pubblicato nel 2013 “Becoming a Whole Man”, libro che nel mondo delle terapie di conversione, compresa l’area italiana, ha contribuito in maniera decisiva a rafforzare il principio che l’omosessualità derivi principalmente dall’incapacità di relazionarsi con le attività considerate connaturali al proprio sesso biologico. Oggi lo stesso Matheson ha chiesto ad Amazon di non vendere più quel suo libro.
Perché una tale decisione?
«Il punto centrale del mio libro è che, accettando tutte le parti della nostra natura come uomini, possiamo diventare completi e liberi dalla vergogna. Tuttavia, il mio libro contiene alcuni concetti sull’essere gay che ho riconsiderato attentamente nell’ultimo anno. La mia prospettiva sull’essere gay è cambiata. L’ho tolto quindi da Amazon fino a quando non sarò riuscito a riesaminarlo e correggerlo. Il programma di ritiro “Journey Into Manhood” era destinato a uomini che, per motivi religiosi, credono che l’omosessualità sia sbagliata. Sono sempre del parere che tali persone abbiano il diritto di riunirsi e sostenersi a vicenda. Tuttavia tali insegnamenti possono angosciare e creare un senso d’ulteriore vergogna in uomini che la pensano diversamente o che cambiano idea dopo aver frequentato il ritiro. Così “Journey into Manhood” ha finito per danneggiare le persone».
Facciamo un passo indietro. Lei ha sempre saputo di essere gay, eppure è stato sposato per 32 anni fino al divorzio in dicembre. Che cos’è successo in questi anni?
«Non ho mai nascosto di essere attratto da persone del mio stesso sesso. I miei clienti lo sapevano tutti. Lo sapevano le persone che partecipavano a Journey come anche gli amici intimi, mia moglie e i miei familiari. Mi sono sempre accettato come persona omosessuale. Non me ne vergognavo. Ma credevo che sarebbe stato sbagliato per me avere una relazione gay. L’ho creduto per molti anni e ciò mi ha spinto ad aiutare altri uomini che condividevano questa convinzione. Anche se non credo più che le relazioni tra due persone dello stesso sesso siano sbagliate, rispetto le persone omosessuali che credono ancora il contrario».
Come ha incontrato Joseph Nicolosi e qual è oggi il suo giudizio su di lui?
«Sono stato assistente di Nicolosi dal 1996 al 2004 nella sua clinica Thomas Aquinas a Encino in California. Sono stato con lui all’inizio della mia carriera professionale: è lui che mi ha addestrato alla terapia riparativa. Col passare del tempo ho iniziato a essere in disaccordo con lui su molti punti. Questo disaccordo è diventato netto durante gli ultimi anni della sua vita (Nicolosi è morto l’8 marzo 2017, ndr) soprattutto sull’idea che l’omosessualità sia un disturbo psicologico e che possa essere “curata”. L’esperienza mi aveva convinto che quelle idee erano false».
Su quante persone ha applicato la terapia di riparazione? Che età avevano?
«In 22 anni di attività ho lavorato con diverse centinaia di clienti. Non ho un conteggio esatto anche perché ho distrutto la relativa documentazione secondo quanto previsto dalla deontologia professionale. Ho usato metodi di terapia riparativa classica per gran parte della mia carriera, anche se ho continuamente modificato il mio lavoro in base a ciò che ritenevo efficace e inefficace. Intorno al 2014 ho abbandonato quasi tutti i metodi della terapia riparativa. A quel tempo, le mie opinioni su come assistere le persone Lgbtq religiose erano cambiate sostanzialmente. L’età dei miei clienti è stata varia: dagli adolescenti ai 70enni».
Poco dopo il suo coming out un uomo di Phoenix, Roger Webb, ha pubblicato un video in cui racconta il suo dramma per essere stato sottoposto a terapie riparative. Ha anche raccontato del suicidio del suo amico James. Non sente una responsabilità per tutto questo?
«Sento un enorme peso al riguardo per le conseguenze non intenzionali delle mie azioni. Ci tengo a precisare che la maggior parte delle cose raccontate da Roger erano in realtà il risultato di azioni e decisioni prese da altri. Me ne sento però enormemente responsabile alla luce del mio ruolo di leader del Center».
Sulla base della sua esperienza perché le terapie di conversione sono fortemente supportate dai gruppi fondamentalisti cristiani (inclusi i cattolici) e da partiti politici di destra?
«Non sono esperto al riguardo. Tuttavia, è facile vedere come tali gruppi abbiano una forte avversione per ciò che attiene al campo dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere. Forse le persone Lgbtq rappresentano una minaccia per i loro punti di vista conservatori, in particolare per la visione della santità della famiglia tradizionale basata sulla coppia eterosessuale. La terapia riparativa è basata sul postulato che l’omosessualità è un disturbo che può essere curato. Alcuni gruppi politici cristiani e di destra hanno quindi fatta propria tale tesi antiscientifica per sostenere la loro agenda».
Cosa ne pensa del divieto di tali pratiche in molti Paesi nonché in 15 Stati Usa, soprattutto in riferimento a minori?
«Credo che nessuna terapia dovrebbe basarsi sull’idea che l’omosessualità sia un disturbo che può essere curato: in tal caso deve essere vietata. Credo, però, anche nel diritto degli adulti a intraprendere un percorso psicoterapeutico che li aiuti a vivere una vita da celibe qualora credenti. Ma in questo caso non ci deve essere alcuna deriva omofobica né deve essere alimentato il senso di vergogna o la repressione. I minori sono troppo vulnerabili alla manipolazione dei genitori e delle comunità religiose conservatrici: devono essere protetti».
Ha parlato più volte di omosessualità e fede. Qual è stata la reazione della comunità mormone al suo coming out?
«La mia comunità mi ha dimostrato amore e accoglienza. Sento un vero senso di dolcezza e inclusione. È stato molto bello».
David, si sente finalmente libero?
«Non del tutto. Sento un peso enorme, perché il mio coming out ha scatenato una tempesta di dolore e rabbia, rimasta latente per troppo tempo. Sono nel mezzo di questa tempesta e sono oggetto di rabbia, odio, paura, sfiducia da entrambe le parti: quella dei gruppi degli ex-gay e quella della collettività Lgbtq. Allo stesso tempo ho però ricevuto anche molto amore da entrambe le parti. Alcuni dei miei amici più solidali oggi sono persone che mi consideravano loro nemico fino a tre settimane fa. E persone, che mi consideravano il loro eroe fino a tre settimane fa, non mi considerano un nemico. Anche così, ci sono però momenti in cui provo un senso di enorme sollievo, per poter finalmente condurre una vita in linea col mio essere gay».
«Chi vuole guarire i gay non riconosce la scienza. Come i terrapiattisti». Il professor Vittorio Lingiardi: «Qualunque intervento di conversione dall'omosessualità non solo è inefficace, non essendo una patologia, ma è anche dannoso. E può indurre i giovani al suicidio». Simona Alliva il 18 giugno 2019 su L'Espresso. «Chi parla di omosessualità come condizione modificabile” non ha alcun riconoscimento nella comunità scientifica». Non usa mezzi termini Vittorio Lingiardi, psichiatra e psicoanalista, professore ordinario di Psicologia dinamica alla Sapienza di Roma. Raggiunto da L’Espresso spiega il vuoto di senso “accademico, clinico e scientifico” di chi in Italia sottopone una generazione Lgbt a teorie riparative, come raccontato questa settimana. Mentre nel marzo 2018 il Parlamento europeo ha adottato a larga maggioranza un testo non vincolante che invitava gli Stati membri a vietare queste tecniche. I dibattiti sul loro possibile divieto sono attualmente in corso in Germania, Belgio, nei Paesi Bassi e nel Regno Unito. In Italia solo nel 2016 si tentò pallidamente di affrontare il problema tramite una proposte di legge presentata dal senatore Pd Sergio Lo Giudice che intendeva bloccare una pratica che, come ricorda Lingiardi: “può portare i giovani fino all’ideazione suicidaria”
Come è possibile che in Italia nel 2019 si parli ancora di omosessualità come di una condizione “guaribile” ?
«Direi che a livello scientifico non se ne parla. L’Associazione Italiana di Psicologia (AIP) e il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi (CNOP) si sono più volte espressi sull’omosessualità come orientamento sessuale non patologico, ribadendo la propria posizione contro ogni tipo di sedicente “terapia” riparativa. Chi parla di omosessualità come condizione “modificabile” per mezzo di un intervento “terapeutico” non ha alcun riconoscimento nella comunità accademica, clinica e scientifica. Volendo fare una battuta, sono un po’ i “terrapiattisti” della psicologia».
Quali sono i danni che può subire un paziente costretto a una sorta di correzione del proprio orientamento sessuale (a un’età che va dai 14 ai 17 anni)?
«Tutti gli interventi mirati a “convertire” l’omosessualità in eterosessualità sono non solo inefficaci, ma anche dannosi (e questo lo diceva già Freud nel 1920). Facendo leva sulla cosiddetta omofobia interiorizzata, questi interventi (una miscela clinicamente improbabile di pregiudizio ideologico e condizionamento comportamentale) possono produrre depressione, ansia, sentimenti di colpa e disistima fino all’ideazione suicidaria. Durante l’adolescenza gli effetti sono particolarmente deleteri perché ostacolano il delicato processo del coming out che porta alla conoscenza e alla condivisione della propria (omo)sessualità. Chi vuol farsi un’idea dei presupposti violenti e normativi delle “terapie riparative” può vedere due film recentemente distribuiti anche in Italia: “La diseducazione di Cameron Post” e “Boy erased – Vite cancellate”. Non è un caso che in molti stati queste “terapie” siano fuorilegge».
Lei è tra i promotori del sito "Noriparative". Ha notato negli ultimi anni dei passi indietro da questo punto di vista?
«Quel sito risale a dieci anni fa e ospita un comunicato redatto e firmato dai più autorevoli esponenti della comunità scientifica e accademica italiana nel campo della salute mentale. Fu scritto in occasione della presenza in Italia di un noto esponente delle terapie riparative, Joseph Nicolosi. Dal 2010 direi che ci sono solo stati passi in avanti, nonostante qualche pittoresca presa di posizione di realtà magari rumorose ma scientificamente non significative. Ricordo che nel 2014 il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi ha recepito e raccomandato la diffusione di “Linee guida per la consulenza psicologica e la psicoterapia con persone lesbiche, gay e bisessuali”».
· Né uomo, né donna. Il terzo genere.
DAGONEWS il 10 ottobre 2019. Le affascinanti immagini dei "mahu" sull'isola polinesiana di Tahiti mostrano la comunità che non si identifica né con uomini né con donne. Le persone che appartengono al "terzo genere" vengono raffigurate in queste immagini con colori vivaci e ornati da ghirlande di fiori e conchiglie mentre posano su spiagge idilliache sullo sfondo dell'Oceano Pacifico. Le immagini, catturate dalla fotografa svizzero-guineana Namsa Leuba offrono un ritratto intimo dell'affascinante cultura tahitiana. I "mahu" nascono biologicamente maschi, ma la famiglia e gli amici credono che non debbano conformarsi ai tradizionali ruoli di genere sin dalla tenera età. Il gruppo svolge ruoli spirituali nella comunità, sono custodi di rituali e danze e anche per fornire assistenza a bambini e anziani. Tra le persone fotografate ci sono anche i "rae-rae", donne transgender che spesso perseguono un intervento di riassegnazione di genere a differenza dei mahu.
· I cosiddetti "asessuali".
I cosiddetti "asessuali". Fabrizio Barbuto per “Libero quotidiano” il 25 luglio 2019. Sarà che siamo bombardati da continue allusioni ad un sesso che viene proposto in ogni salsa - spesso con formule a buon mercato - fatto sta che il 2% della popolazione manifesta il totale rigetto verso la carnalità; sono i cosiddetti "asessuali". Della categoria fanno parte coloro i quali sono immuni dall' attrazione erotica e che, loro malgrado, vivono con disagio il fatto di doversi misurare con una società improntata sull' esaltazione del sesso. Costoro rappresentano un piccolo insieme, ma sono determinati ad elevare la propria voce affinché il mondo prenda coscienza della loro esistenza e gli conceda un posto tra gli orientamenti disforici riconosciuti. L' asessuale, seppur incapace di stabilire un' intesa di coppia tra le lenzuola, può comunque sentirsi legato al compagno da un profondo vincolo emotivo che non pretende di culminare nel coito; tale comportamento è denominato "orientamento romantico", e fa sì che due individui rafforzino la propria unione attraverso baci, convivenza, condivisione del letto e scambio di tenerezze. Più dell'omosessuale e del pansessuale, l'asessuale fatica a conquistare un concreto equilibrio esistenziale, e le sue possibilità di incontrare qualcuno con cui condividere una vita di coppia appagante sono ridotte. È per questo che in molti decidono di scendere a compromesso con se stessi omologandosi ai trend di una società iper-sessualizzata, fino a convolare a nozze con chi misconosce la loro propensione all' astinenza. la testimonianza È il caso di Federica, 60 anni, che mi racconta così i suoi trascorsi di vita: «Mi sono sposata a 25 anni, nel giugno dell' 84. Ho avuto due figli che amo e proteggo come una mamma chioccia ancora oggi, ma il loro concepimento non si è accompagnato ad alcun piacere sessuale. Con mio marito abbiamo avuto solo rapporti sporadici perché a me non andava di fare sesso, ma vedendo che lui viveva con disagio questa situazione gli ho proposto di separarci. Da allora sono passati 30 anni e, pur non avendo pulsioni, ho riprovato a cimentarmi con il sesso in due sole occasioni. In entrambi i casi non mi è piaciuto affatto, così ho detto basta. Oggi sto benissimo: non ho problemi di salute e non sono mai andata ad una visita ginecologica. L' intimità con un uomo non mi manca, però mi piacciono le coccole e le attenzioni, ma siccome nessuno vuole perdere tempo a farle me ne sto per i fatti miei. Hanno tutti il sesso in testa». Federica porta magnificamente la sua età, ha il fisico di una ragazza; si è piazzata al primo posto a molti concorsi di bellezza per over 50 dove il pubblico, nel contemplare la sua avvenenza esaltata dagli abiti attillati, crede che si serva del corpo per evocare nell' uomo fantasie carnali. Ella, invero, è avulsa da tutto ciò.
In letteratura. L' argomento "asessualità" ha appassionato anche la letteratura. Lo ritroviamo in uno dei personaggi de "La Casa degli Spiriti" di Isabelle Allende: Clara respinge le attenzioni sessuali del marito, informandolo di come giacere con lui le provochi male alle ossa. Anche Sherlock Holmes è descritto come asessuale. All' investigatore per eccellenza si aggiungono figure reali come il fisico Isaac Newton e il filosofo Immanuel Kant, fino a giungere a Marlene Dietrich, che considerava il sesso una noiosa concessione dovuta alle insistenze dell' uomo, ma da pertinace romantica adorava le svenevolezze e le leziosità; è per tali ragioni che il suo approccio sentimentale può essere ricondotto all' asessualità, in un' epoca insospettabile. Oggi le cose sono diverse, e qualora vi riconosceste in questa condizione potreste rompere l' isolamento attraverso uno dei tanti ritrovi virtuali in cui gli asessuali sollecitano la comprensione di chi ha le medesime esigenze. Così potreste accorgervi di non essere i soli ad intravedere nell' erotismo una componente sopravvalutata, nonché un ingombro dell' identità di coppia.
Da “Radio Cusano Campus” il 10 ottobre 2019. Alessandro è asessuale. E’ amministratore del gruppo Facebook “La comunità degli asessuali italiani”. A Radio Cusano Campus, nella trasmissione “Cosa succede in città”, condotta da Emanuela Valente, ha raccontato la sua esperienza e come vive il suo orientamento sessuale.
Chi sono gli asessuali.
“L’asessualità è considerato un orientamento sessuale. Gli asessuali sono coloro che non hanno attrazione sessuale verso altre persone. Tutti noi abbiamo un’attrazione sessuale, un’attrazione romantica e un’identità di genere. Tralasciando l’identità di genere, una persona può essere asessuale e non avere nessuna attrazione per fare sesso ma può avere un’attrazione romantica e quindi una relazione”.
Nella relazione l’asessuale fa sesso?
“Non è detto che sia una relazione senza sesso. Non è tutto nero o bianco ma c’è un bel pezzetto di grigio. Una persona può essere asessuale e avare una relazione, essere asessuale e fare sesso. L’asessualità è la mancanza di attrazione non la mancanza di attività sessuale anche se c’è da dire che chi non ha attrazione non farà del sesso l’aspetto principale della sua vita”.
Se il partner desidera una normale attività sessuale, l’asessuale si concede per farlo felice?
“E’ un tema sul quale si dibatte molto. Diciamo che ci possono essere diversi tipi di coppie, per esempio coppie formate da un asessuale e uno no, coppie formate da due asessuali, ci possono essere le non coppie, composte da persone che praticano il poliamore. Ci possono essere coppie nelle quali uno dei due componenti voglia praticare sesso e l’altro no ma in questo caso mi sento di dire che se non c’è un forte legame tra i due il rapporto non durerà molto”.
L’asessuale e il piacere nell’atto sessuale.
“Sì, l’asessuale prova piacere quando fa sesso, l’asessuale ha gli organi sessuali che funzionano. Non abbiamo patologie, funziona tutto, semplicemente non ci va di farlo e non ci va di farlo perché non abbiamo attrazione verso tutti i generi”.
· I Transessuali.
Le teorie gender si infiltrano nella difesa delle donne. Lodovica Bulian, Sabato 30/11/2019, su Il Giornale. La convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne è un caso per Fratelli d'Italia. La risoluzione approvata due giorni fa dal Parlamento europeo con gli unici voti contrari italiani degli eurodeputati Carlo Fidanza, Pietro Fiocchi, Nicola Procaccini di Fratelli d'Italia e Giuseppe Milazzo per Forza Italia, è un testo «impregnato di ideologia gender». La delegazione di Fdi insieme al gruppo conservatori e riformisti ha detto no alla risoluzione che obbliga tutti i Paesi Ue che non l'abbiano ancora fatto a ratificare la Convenzione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne. Secondo Procaccini il testo approvato dalla maggioranza dell'Aula - 500 voti favorevoli, 91 contrari e 50 astensioni - voleva essere una esortazione ai sette Stati membri che l'hanno firmata ma non ancora ratificata (Bulgaria, Repubblica ceca, Ungheria, Lituania, Lettonia, Slovacchia, Lettonia, Slovacchia e Regno Unito), ma in realtà sarebbe «il tentativo riuscito di stravolgerne i principi». La convenzione, adottata dal Consiglio d'Europa nel 2011, è entrata in vigore nel 2014 ed è stata firmata dall'Ue nel giugno 2017. Alla ratifica devono poi seguire norme giuridicamente vincolanti per prevenire la violenza di genere, proteggere le vittime di violenza e punire i responsabili. Con la risoluzione gli eurodeputati hanno chiesto inoltre alla Commissione di aggiungere la lotta alla violenza di genere come priorità della strategia europea. Per Procaccini e per l'associazione Pro vita però dietro all'articolato ci sarebbe invece il tentativo di introdurre una «prospettiva di gender» che poco avrebbe a che fare con la lotta alla violenza sulle donne. «Purtroppo - spiega l'europarlamentare di Fdi - si passa dal principio di tutela delle donne sotto il profilo legislativo e in materia di prevenzione e protezione, a un testo impregnato di ideologia gender che introduce una incredibile serie di categorie e sottocategorie sessuali». Si riferisce all'articolo 12 della risoluzione nel quale l'Aula «ribadisce alla Commissione di rivedere la decisione quadro dell'Ue sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia, al fine di includervi l'incitamento all'odio sulla base del genere, dell'orientamento sessuale, dell'identità di genere e dei caratteri sessuali». Toni Brandi e Jacopo Coghe, presidente e vicepresidente di Pro Vita & Famiglia ricordano che «già il governo Monti era consapevole dell'intrinseca problematicità del concetto di genere». Dall'associazione ricordano che l'articolo 14 comma 1 alludeva ad «azioni necessarie per includere nei programmi scolastici dei materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati».
Novella Toloni per ilgiornale.it. Rebecca De Pasquale, ex concorrente del Grande Fratello 14, è stata ospite a "Live-Non è la D'Urso" per intervenire nel dibattito sugli scandali nella chiesa e sulla castità di suore e preti. La donna, all'anagrafe Sabatino De Pasquale poi diventato Don Mauro, ha lasciato il pubblico e gli ospiti presenti in studio a bocca aperta, rivelando di aver avuto una relazione clandestina con un novizio, quando ancora era un monaco di clausura. In studio gli ospiti presenti, tra cui Paolo Brosio e Eleonora Giorgi, stavano discutendo sui casi delle due suore rimaste incinta in Sicilia. Nonostante il tema fosse già caldo, l'ex gieffina ha buttato benzina sul fuoco rivelando le sue scappatelle durante il periodo di castità religiosa. La trasgender con il passato da monaco aveva già fatto scalpore durante l'edizione del 2015 del Grande Fratello. Nella casa più spiata d'Italia rivelò di essere stata un uomo, Sabatino, e di aver seguito la vocazione religiosa, ricoprendo il ruolo prima di novizio, poi di monaco nel monastero benedettino di Montecassino, fino a diventare don Mauro. La sua storia fu stata oggetto di intere trasmissioni all'epoca del GF14, quando raccontò di aver lasciato il convento a 21 anni, cioè nel 2002, per dichiarare a tutti la sua omosessualità. Nella puntata di ieri sera (lunedì 25 novembre) dello show serale condotto da Barbara D'Urso su Canale 5, Rebecca - Don Mauro ha raccontato, senza troppi giri di parole, di aver tradito il voto di castità proprio all'interno del convento di Montecassino, con un novizio del suo monastero. "Tesoro io sono stata casta solo tre anni, poi ero innamorata di un novizio e suonavamo la campana... din don dan. Scusate eh, il novizio mi faceva l'occhiolino e voleva le coccole e noi facevamo suonare le campane, che felicità", ha raccontato Rebecca tra lo stupore generale. Inevitabile la domanda della padrona di casa che, perplessa, ha chiesto conferma: "Cioè hai tradito il voto di castità quando eri in monastero?". La breve confessione ha strappato un sorriso anche Don Antonio, un prete ospite della D'Urso in collegamento esterno ma ha fatto molto riflettere sui dogmi della chiesa cristiana.
Dagospia il 17 novembre 2019. Comunicato stampa. La bellissima escort e pornostar brasiliana, Veronika Havenna, vincitrice del prestigioso premio Miss Mundo t-girl 2016 ma da 10 anni residente in Italia ci svela in esclusiva il suo sogno erotico più ricorrente, ossia quello di passare una nottata di passione con l’ex ministro dell’interno Matteo Salvini. “Lo ritengo un uomo veramente affascinante e virile, un vero uomo di polso e deciso come piace a me, con lui mi piacerebbe andare in un tipico ristorante milanese a mangiare il risotto e la cotoletta e poi andare in hotel e fare l’amore tutta la notte....sono sicura che se non è mai andato a letto con una trans poi gli si aprirà un mondo e delle donne non ne vorrà più sapere”. E poi svela alcuni dettagli che scottano sul suo lavoro di escort: “la maggior parte dei miei clienti così detti maschi alpha sono delle passive incredibili, mi è capitato una volta di ricevere un giovane e bellissimo imprenditore, mi chiese di infilargli un braccio nel sedere, ero basita da quanto spazio c’era lì dentro, ma l’ho fatto urlare di piacere! I miei 22 centimetri in erezione sembrano una stecca di cioccolato al latte e fanno impazzire tutti, tra i miei clienti ho calciatori di serie A e politici che siedono spesso nei salotti televisivi; fanno tanto i virili e gli uomini dediti alla famiglia ma poi da me si fanno sodomizzare e femminilizzare. La cosa più eccitante che ho fatto? Una gang bang con 70 uomini, nell’occasione ho fatto delle doppie penetrazioni da urlo, alcuni facevano sesso tra loro, guardarli è stato eccitante e mi hanno fatto salire il mio istinto maschile che in fondo ho: questa è stata la più bella esperienza sessuale della mia vita!”
Dagospia il 18 novembre 2019. Il 3 luglio del 2009, in via Gradoli a Roma, quattro carabinieri - Testini, Tagliente, Simeone e Tamburrino - entrarono nell' appartamento del transessuale Natalie, che trovarono in compagnia dell' allora presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo. In quell' occasione i quattro carabinieri girarono un video, che poi usarono per ricattare il politico. A Marrazzo fu richiesto il pagamento di 20mila euro per evitare che le immagini venissero fatte circolare. Dopo pochi mesi, il 26 ottobre 2009, Marrazzo si dimise dalla carica di presidente della Regione, dichiarando che quella situazione era solo frutto di una sua debolezza privata. La vicenda aprì degli scenari legati al mondo dei trans mercenari, che vivevano rapporti occasionali con personalità anche conosciute. Alcune persone interrogate ed entrate nell' indagine morirono nei mesi seguenti, in circostanze controverse. Brenda, una transessuale della zona nord di Roma, venne trovata morta dopo un incendio scoppiato nel suo appartamento. Gianguarino Capasso, uno spacciatore della zona, fu invece trovato morto apparentemente per overdose. I quattro carabinieri sono stati condannati a pene importanti, che vanno dagli 8 ai 12 anni. Oggi Natalie si racconta, a distanza di dieci anni da quella terribile esperienza.
Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 18 novembre 2019. «Amo la mia famiglia, stanno tutti in Brasile. Ho due fratelli e due sorelle, ogni anno passo con loro almeno cinque mesi». Così inizia a raccontarmi di se stessa Natalie, la transessuale con cui venne trovato l'allora presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo nell' estate del 2009. Una vicenda triste, che ha causato dolori e persino morte. Dolori nelle persone coinvolte, prima di tutto la famiglia del giornalista e a quell' epoca governatore, che ha dovuto trovare una nuova dimensione per resistere all' impatto mediatico della vicenda. E morte, perché due personaggi coinvolti nella vicenda hanno perso la vita.
Natalie, ma i tuoi genitori sanno che cosa fai in Italia?
«I miei genitori sanno tutto, a loro non ho mai detto bugie. Sono persone buone e semplici».
E che cosa ti dicono?
«Hanno accettato sempre tutto di me. Avevo sedici anni quando decisi che volevo farmi le cure ormonali per far crescere il seno».
E loro?
«Non dissero nulla, accettarono la mia scelta. Mi piaceva il seno delle donne e quando mi crebbe fui felice. In principio fu faticoso, pesante, le cure ormonali ti devastano. Ma poi ho provato una grande soddisfazione».
Ha mai avuto un rapporto con una donna?
«No, mai. Non mi piacciono le donne. Però non mi è mai nemmeno venuto in mente di farmi togliere l'organo maschile».
Lei risulta sposata nel 2000 a Velletri con una donna, e si sposò come uomo: perché?
«Lo feci per il permesso di soggiorno. Per quella vicenda venni condannata nel 2007 e persi il permesso».
E come può oggi rimanere in Italia?
«Il permesso mi venne ridato per motivi di giustizia, proprio in seguito alla vicenda che ha coinvolto il presidente della Regione».
E della sera in cui i carabinieri sono entrati a casa sua, che cosa ricorda?
«È una storia che ancora adesso mi fa molto male, su cui sono state dette tante cose inesatte».
Tipo?
«Che io avevo avuto un rapporto con Marrazzo: non era vero. C' era un rapporto molto bello fra di noi, durava da tanti anni e mai abbiamo fatto sesso. A volte procuravo della droga, ma non quella sera, e quando suonarono Piero mi disse di aprire perché eravamo "puliti"».
Che cosa facevate durante questi incontri?
«Parlavamo molto, come fanno tante persone».
Lei mi vuole dire che le persone che vengono da lei la trattano un po' come fosse un confessore o uno psicologo?
«Io non so come dirlo, ma tanti uomini si sentono soli e incompresi e, a parte il sesso, hanno bisogno di sentirsi ascoltati e capiti».
Torniamo a quella sera.
«Quella sera venne fatto un vero e proprio agguato a Marrazzo. Io lo continuavo a dire che volevano incastrarlo, ma lui mi diceva che era impossibile. Qualche giorno prima avevo incontrato il carabiniere Tagliente che aveva frugato nella mia borsa per prendere il mio cellulare e avere il numero di Marrazzo, ma non l' aveva trovato. Inoltre la sera prima una mia amica, Pamela, mi aveva raccontato che stavano organizzando qualche trappola per il presidente. Io lo avvisai».
In effetti il nome di Pamela venne fatto subito da Natalie, per poi essere confermato nelle fasi processuali come possibile testimone della volontà di sorprendere Marrazzo in atteggiamenti poco favorevoli. Ma su Pamela, anche lui trans della zona di via Gradoli a Roma, non si riuscì ad avere alcuna prova. Sentito al telefono, l'avvocato di Natalie, Antonio Buttazzo, racconta di come da tempo si fosse a conoscenza che l'appartamento di Natalie era frequentato da persone importanti, e che forse qualcun altro poteva avere interesse a far sì che l' allora presidente della Regione Lazio venisse colto sul fatto.
Natalie, perché secondo lei un altro trans avrebbe dovuto fare la spia, nel senso di spifferare la situazione di Marrazzo?
«Tanti possono essere i motivi, uno dei quali anche la gelosia. Lui era un uomo potente e generoso, questo si sapeva. La sera del 3 luglio Piero era entrato nel mio appartamento con cinquemila euro perché voleva aiutarmi a chiudere un debito. Magari altre persone lo hanno voluto incastrare per poi ricattarlo e ottenere dei soldi».
Che cosa mi dice del filmato ripreso proprio quella sera dagli uomini che entrarono in casa?
«Capivo che i carabinieri stavano filmando, ma non pensavo arrivassero a tanta cattiveria. Poi chiesero subito i soldi e io rimasi senza parole».
Per cattiveria si riferisce al ricatto?
«Certamente, hanno fatto una cosa schifosa. Hanno rovinato un uomo pubblico, una bravissima persona. Sono convinta che ci siano trans che collaborano con i carabinieri, cosa che non si dovrebbe mai fare...».
In che senso?
«Nel nostro lavoro serve la riservatezza. Lei ha idea di quanti uomini insospettabili vengono da noi?».
Che tipo di "insospettabili"?
«Quelli che sembrano i più bravi, quelli che hanno moglie e figli a casa. Professionisti, persone famose del mondo dello spettacolo, calciatori e anche politici».
Ma ancora adesso, dopo lo scandalo di dieci anni fa?
«Assolutamente sì. Anzi, da allora il mio lavoro è aumentato. Ho avuto tanta pubblicità, molti mi riconoscono e vogliono vedere come sono. Se i trans parlassero e raccontassero ciò che sanno, sarebbe un disastro per molti».
E lei non ha mai confidato a nessuno qualcosa del suo lavoro?
«Mai!».
Più o meno collegate a questa vicenda, a parte l'estorsione a Marrazzo e tutto quel che ne è seguito fino alle sue dimissioni, sono accadute molte cose. La prima è la morte di Brenda, l' altro trans coinvolto. Che idea si è fatta?
«Premetto che non conoscevo Brenda e che anche questa cosa è stata romanzata con diverse leggende metropolitane. Personalmente mi dispiace, perché anche secondo me c' è qualcosa che non torna».
Che cosa?
«In primo luogo il furto del telefonino con l' agenda di tutti i suoi clienti accaduto il giorno prima. E anche il ritrovamento del computer "affogato" nel bagno, come per renderlo inutilizzabile. Mi ha fatto male vedere le foto della sua casa bruciata, e di come viveva».
Un'altra persona morta è Gianguarino Capasso: lei lo conosceva?
«Lo conoscevo e sapevo che era un collaboratore dei carabinieri».
Non le pare strana la sua morte?
«Hanno detto che è morto per droga, ma il mio avvocato mi ha riferito che secondo lui ci sono state lacune nella autopsia».
L'avvocato Buttazzo, spiegando anche a me la morte di Gianguarino Capasso, mi ha raccontato che sul corpo non è stata fatta l'autopsia alla testa, cosa particolarmente anomala. E lei cosa pensa di questa morte?
«Non solo che è strana, perché da quanto ho saputo quella droga era tagliata male e lui non se n'è accorto. Ma soprattutto mi dicono che il suo fidanzato, Jennifer, anche lui trans, sia scomparso nel nulla: anche questa è una stranezza».
Che cosa chiede alla giustizia?
«Che vengano condannati definitivamente i carabinieri che hanno ricattato Marrazzo.
Sì, questa è l' unica cosa che sento di chiedere».
A Bologna va in scena il festival LGBT con "giochi di stereotipi" per gli adolescenti e film sui bimbi trans. Fa già discutere il festival Gender Bender prodotto dal Cassero che andrà in scena a Bologna a fine ottobre. Nel palinsesto della rassegna LGBT anche "giochi di stereotipi" per adolescenti e film sui bambini transgender. Cristina Verdi, Mercoledì 02/10/2019, su Il Giornale. Scambi di ruoli, “giochi di stereotipi” e film che hanno come protagonisti bambini trans. Si chiama "Radical choc" ed è destinato a far discutere il festival LGBT organizzato a Bologna da Gender Bender e dal Cassero. L’evento, giunto alla sua 17esima edizione, fa parte della rassegna Bologna Contemporanea, promossa dall’assessorato alla Cultura della Regione Emilia Romagna e dal Comune del capoluogo emiliano. La manifestazione internazionale, come si legge sul sito dell’evento, ha lo scopo di presentare al pubblico italiano “gli immaginari prodotti dalla cultura contemporanea legati alle nuove rappresentazioni del corpo, delle identità di genere e di orientamento sessuale”. Fin qui, niente da dire. A far montare la polemica, però, è il fatto che in più di una rappresentazione ad essere protagonisti siano bambini ed adolescenti. “Tra gli spettacoli previsti per il festival ce ne è uno organizzato a fine ottobre nel Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno che si chiama "Gioco di stereotipi” – segnala Umberto La Morgia, consigliere comunale – al quale potranno assistere ragazzi dai 12 anni in su”. Nella rappresentazione della coreografa israeliana Yasmeen Godder, dedicata agli adolescenti, “ragazzi e ragazze” sono invitati “a commentare i brani tratti dal suo repertorio, leggendone in maniera attiva e critica gli immaginari e gli stereotipi di genere rappresentati”. “I ruoli maschili e femminili sono così mescolati, esagerati e annacquati affinché si possano riconoscere i pregiudizi e il loro ruolo discriminatorio nella società e nel mondo della danza”, continua la presentazione. Ad inizio novembre, invece, a San Lazzaro di Savena, in provincia di Bologna, andrà in scena lo spettacolo teatrale “Passing the Bechdel test” di Jan Marten. Protagonisti saranno “13 adolescenti che si identificano (o no) comeragazze e donne vestono, attraverso movimenti e parole, i panni le une delle altre”. L’obiettivo sarebbe quello di riflettere “su parità e diversità di genere nel mondo”. Nella sezione cinema, invece, troviamo la storia di una donna “intersex” e “Little Miss Westie”, una pellicola che ha come protagonista un bambino transgender nell’America di Trump. “Mi sembra che come al solito non si riesca proprio a stare nel perimetro del buonsenso”, attacca il consigliere leghista di Casalecchio di Reno. “Trovo giusto che ci siano eventi culturali che diano spazio alle sensibilità di tutti – commenta – ma vanno indirizzati al giusto target di età”. “L’ideologia, invece, va sempre oltre la realtà – continua La Morgia – al punto da proporre anche il transessualismo per i bambini”. Per i promotori, però, si tratta di “dare un contributo concreto alla costruzione di una società più ricca e accogliente sotto il profilo umano, sociale e culturale”. Tra i progetti ideati a margine del festival, poi, c’è anche il Teatro Arcobaleno. Un laboratorio che si rivolge proprio alle famiglie con bambini per “promuovere il rispetto delle differenze, viste come portatrici di ricchezza culturale” attraverso il linguaggio teatrale.
«Gruppi trans politicizzati mettono a rischio i bambini». Pubblicato domenica, 28 luglio 2019 da Corriere.it. «Gruppi transgender altamente politicizzati mettono a rischio i bambini». L’accusa è di quelle pesanti e a riportarla, in prima pagina, è l’Observer, il domenicale del Guardian, giornale della sinistra liberal da sempre in prima linea per la difesa dei diritti della comunità Lgbt. Marcus Evans, psicoterapeuta ed ex manager della Tavistock clinic dove si curano i bambini affetti da disforia di genere, racconta che i medici hanno paura di essere bollati come transofobi e, per questo, sono meno obiettivi: «L’agenda politica dei trans ha invaso l’ambiente medico. Serve un servizio sanitario indipendente che metta gli interessi del paziente al primo posto. Questo richiede la forza di resistere alle pressioni che arrivano da diverse fonti: il ragazzino, la famiglia, i social network e i gruppi trans iperpoliticizzati». I dati parlano di un boom di casi di disforia di genere. Se nel 2013 erano 468 i giovanissimi che si erano rivolti al Servizio per lo sviluppo dell’identità di genere (Gender Identity Development Service), nel 2018 i casi registrati sono stati 2.519. Un aumento allarmante. Tanto che, in questi giorni, il Royal College of Paediatricians e Child Health ha chiesto al suo comitato etico di indagare sulla rapida crescita dell’uso di bloccanti della pubertà. Emblematico è il caso di «Dagny», una donna che da adolescente si sentiva un uomo e che ora ha scelto di tornare sui propri passi. Evans ha scritto una relazione sulla sua storia e l’ha presentata a una conferenza qualche mese fa. La donna ha raccontato si essere stata influenzata dai social network, in particolare da Tumblr: «Da ragazza ero convinta che se hai la disforia di genere devi per forza fare la transizione — ha spiegato Dagny — e chiunque si metta sulla tua strada è un transofobo e un bigotto dell’Alt-right». La scorsa settimana la BBC Newsnight ha parlato di un rapporto, in possesso del consiglio direttivo della Tavistock, che rileva un drammatico aumento di pensieri suicidi e di atti di autolesionismo nei ragazzini e nelle ragazzine che prendono i bloccanti della pubertà. Un ex medico del Servizio per lo sviluppo dell’identità di genere (Gids), il dottor Kirsty Entwistle, ha scritto una lettera aperta per denunciare che il personale sanitario non prende in considerazione «le esperienze traumatiche» che potrebbero essere la causa della disforia e passa direttamente alla somministrazione dei farmaci. Accuse molto pesanti. Tanto che la Gids, che fa parte del servizio sanitario nazionale, ha fatto un comunicato per smentire: «Gids fornisce un servizio sicuro e si prende cura dei giovani in un momento molto vulnerabile delle loro vte. La nostra esperienza ci insegna che, con questo tipo di pazienti, non fare nulla non è una scelta neutrale e può portare a un grave danno». All’inizio dell’anno dieci medici della Tavistock clinic avevano denunciato che le pressioni delle lobby trans spingevano ad affrettare gli interventi di transizione. Ma il consiglio direttivo aveva archiviato il caso: «La sicurezza del paziente non è in pericolo». Questo aveva portato alle dimissioni di Evans. «C’è una grande paura a parlare perché si rischia l’accusa di transfobia e anche un richiamo disciplinare o persino il licenziamento».
«La donna che era mio padre»: Susan Faludi indaga il mondo transgender. Pubblicato martedì, 15 ottobre 2019 da Corriere.it. Susan Faludi, 60 anni, femminista, scrittrice americana, con il padre Steven-Stefánie ormai ultrasettantenne, ritrovato dopo la transizione. Susan Faludi è diventata una femminista a causa di un padre dispotico e violento, ansioso di presentarsi come modello di virilità, che dopo il divorzio arrivò a fare irruzione nella vecchia casa nello Stato di New York e per poco non ammazzò di botte il nuovo compagno dell’ex moglie. «Sono diventata una promotrice della parità di diritti per le donne in relazione alla furia scatenata in mio padre dallo sgretolarsi della sua immagine di uomo capace di governare su moglie e figli», scrive la giornalista premio Pulitzer nel libro Nella camera oscura, appena pubblicato da La nave di Teseo. «La mia identità di femminista scaturì dai rottami della sua “crisi di identità”, dalla sua smania di riaffermare il personaggio mascolino che si era scelto». Fu con sorpresa che, nel giugno del 2004, l’autrice di Contrattacco, la guerra non dichiarata contro le donne (1991), ricevette una mail dal padre, mentre era intenta a sistemare gli appunti su un altro suo libro sulla crisi della mascolinità in America. «L’oggetto era: Cambiamenti», racconta nell’autunno perfetto e fugace che circonda la sua casa in Massachusetts. «Cominciava così: “Cara Susan, ho notizie interessanti per te. Ne ho avuto abbastanza di recitare la parte dell’uomo macho e aggressivo che non sono mai stato dentro di me’“. C’erano una serie di selfie allegati: dopo aver passato la vita dietro l’obiettivo come fotografo di moda, il padre l’aveva rivolto su se stesso. «Senza dire niente a nessuno, a 76 anni, era volato in Thailandia per sottoporsi a un’operazione di riassegnazione di genere. Praticamente non ci parlavamo da venticinque anni, eppure mi chiese di raccontare la sua storia. E un paio di mesi dopo presi l’aereo per l’Ungheria, il Paese dov’era cresciuto e aveva deciso di tornare nel 1990». Ad accoglierla in aeroporto trovò Stefánie, con la borsetta bianca abbinata ai tacchi alti, e una decima coppa C che in un goffo abbraccio sbatté contro il seno della figlia. «Questo è il vero Steven», disse papà. Susan Faludi bambina: il padre era un fotografo di moda. I due si erano ritrovati nel 2004 dopo 25 anni trascorsi senza avere alcun contatto. Ma Istvan Friedman aveva cambiato più volte identità: nato ebreo a Budapest, scampato all’Olocausto, dopo la Seconda guerra mondiale aveva adottato il cognome Faludi, che definiva «autentico ungherese», e nel 1953 con il trasferimento negli Stati Uniti il nome Steven. Lei si domanda se suo padre avesse risposto al richiamo di una vecchia identità o se ne avesse inventata un’altra. «Non solo: mi chiedo se esista una vera identità, e non ne sono convinta. Pensiamo all’identità come a qualcosa di singolare e stabile, ma ho constatato che è multipla e mutevole nel tempo. Crediamo che sia qualcosa che scegliamo, ne abbiamo un’idea individualista, egocentrica, ma l’identità di mio padre era inseparabile e modellata dalla sua storia, dalla sua vicenda familiare e da quella del Paese, dal modo in cui la cultura lo ha trattato in quanto ebreo: tutte cose che non ha scelto. L’identità di genere di mio padre era inestricabilmente legata a tutte le sue altre identità».
Quanto era davvero cambiato suo padre?
«Per dirla con le sue parole: riusciva a comunicare meglio... Ma allo stesso tempo la personalità dispotica e dominatrice non era andata via dopo la transizione». Diceva di riuscire a comunicare perché era diventato una donna. «Io la vedo diversamente. Subito dopo l’operazione, cominciò a vestirsi in modo vistoso, ma col tempo smise, iniziò a sentirsi più a suo agio. Prima si era nascosto dietro la facciata dell’iper-mascolinità, poi dopo l’operazione nei panni di Marilyn Monroe, ma alla fine ha cominciato a definirsi trans, anziché femmina o maschio. E col tempo, io e lei abbiamo sviluppato una relazione di fiducia, un’esperienza nuova per entrambe. Io credo che i suoi cambiamenti abbiano più a che fare con il suo rapporto con gli altri, inclusa sua figlia, che con mutamenti fisici».
Lei scrive che uno dei principi del moderno transgenderismo è che identità di genere e sessualità sono due ambiti distinti, da non confondere.
«Eppure mio padre mi diceva che per lei c’era una componente erotica, sessuale, legata all’essere donna. Sembrava ancora attratta dalle donne e mi diceva cose come: “Sta arrivando l’idraulico, dovrei flirtare con lui”, ma era tutta scena. La verità è che come dice la scrittrice trans Jennifer Boylan, “quand’hai incontrato una persona trans, hai incontrato solo una persona trans”, e anche io non voglio generalizzare naturalmente».
Suo padre aveva scaricato dal web fantasie transgender di “femminizzazione forzata”. Una trama ricorrente vede una dominatrice (spesso una parente donna) che obbliga un uomo sottomesso a indossare biancheria intima, abiti e trucco femminile.
«Voleva essere una ragazza adorabile, vulnerabile e indifesa e allo stesso tempo aveva una personalità aggressiva, esplosiva e rabbiosa. Penso che parte di queste fantasie fosse legata alla ricerca di assoluzione per le violenze domestiche che aveva commesso da uomo. Era un modo per dire che quello di prima non era lei, voleva essere liberata dall’obbligo d’essere in controllo. In un contesto più ampio, questo mostra il fardello dell’essere maschio, ciò che la cultura si aspetta dagli uomini».
Ai primi del ‘900 gli ebrei d’Ungheria sacrificarono la loro identità, naturalizzando i nomi perché suonassero più ungheresi, e cambiando persino i simboli nelle sinagoghe. Pensavano che sarebbero stati accettati completamente nella società.
«La decisione di mio padre e della famiglia di assimilarsi pienamente nella cosiddetta cultura magiara assumendo nomi “autentici” ungheresi, mangiando lo stesso cibo, tenendo nascosto l’essere ebrei fu catastrofica. E una delle mie domande più grandi — forse anche più di perché mio padre fosse diventato donna — è perché fosse tornato in Ungheria, dopo il massacro della famiglia allargata e dell’intera popolazione ebrea. Penso che in parte fosse tornato per vedere se quella società che non lo aveva accettato come uomo ebreo poteva accettarlo come donna — ora che non poteva più essere identificata come un ebreo circonciso. Il terrore dei giovani durante la guerra era d’essere denudati e così scoperti, non importa quanti documenti falsi avessero».
Trova riduttivo il modo in cui i transgender sono rappresentati?
«Così tante storie sul coming out corrispondono a una narrativa di repertorio, a sua volta basata su memorie scritte da trans della generazione precedente, che descrivevano la disperazione in cui vivevano prima dell’operazione e poi finalmente la possibilità di rivelare chi erano veramente. La mia obiezione è che questo passaggio da vittima totale a eroe celebrato e amato è un cliché che non rispecchia la vita vera. Dopo l’uscita del mio libro molti trans mi hanno ringraziata per aver complicato la narrazione. Le persone non si trasformano in una notte, è una fantasia. Siamo fortunati se riusciamo a cambiare anche solo un po’. Credo che mio padre abbia avuto la fortuna alla fine della sua vita di afferrare in qualche misura chi era, di esprimersi e cercare d’alterare il proprio approccio al mondo e a se stessa. Quando le dissi che il manoscritto era pronto e c’erano probabilmente cose che non le sarebbero piaciute, disse solo: “Fantastico”. Non mi chiese di vederlo».
Steven-Stefánie Faludi in tarda età, dopo il suo ritorno in Ungheria, dove era nato da famiglia ebrea, con il nome di Istvan Friedman. Nel ‘53 si era trasferito negli Usa.
La vita — Nata a New York, nel 1959. Inizialmente dedita al giornalismo (al New York Times e al Wall Street Journal), ha condotto battaglie femministe (a favore dell’aborto, contro le molestie sessuali) e politiche (contro la guerra in Vietnam). Ha vinto il Premio Pulitzer nel 1991.
I suoi libri — Nel 1991 ha scritto Backlash: The Undeclared War Against American Women (dove sostiene come i media manipolino le conquiste fatte dalle donne). Nel 2016, nel suo libro In the Darkroom fa i conti con suo padre che, a 76 anni, si sottopose a un intervento per cambiare la sua identità sessuale da uomo a donna. Il libro che ora esce nella versione italiana, per i tipi de La nave di Teseo, è stato pubblicato in America nel 2016, un anno dopo la morte del padre della scrittrice americana.
Storia di Marcella che fu Marcello di Bianca Berlinguer. Marco Giusti per Dagospia il 5 ottobre 2019. Marcellona? La vita di Marcellona, celebre trans italiana, attivista del Movimento Italiano Transessuali, che già fu Marcello Di Folco, attore stracultissimo per Federico Fellini, Steno, Franco Zeffirelli, Roberto Rossellini, oltre che famoso buttafuori del Piper romano e amico stretto di Renato Zero e Mia Martini raccontata in un libro da Bianca Berlinguer? Quella Bianca Berlinguer che cinguetta su Rai Tre con Mauro Corona? Esatto. Il mondo, anche quello letterario rivela delle sorprese impossibili. Il libro di Bianca Berlinguer si intitola “Storia di Marcella che fu Marcello”, La Nave di Teseo, appena uscito. Insomma, Marcellona, che è morta nel 2010, incontrò Bianca Berlinguer durante il gay pride del 1997 e le due diventarono amiche, anzi amicissime. Al punto che Bianca decise di raccogliere le memorie della vita eccessiva, sotto tutti i punti di vista, di Marcellona, fino allora adorata solo da Stracult, tanto che la intervistammo in una puntata sui “corpi mutanti”, curata da Enrico Salvatori, nel 2002. Nel libro è la stessa Marcella a raccontare la sua storia in prima persona a Bianca Berlinguer, dalla infanzia romana agli anni della Dolce Vita, dal Piper a Cinecittà con Fellini, dal cambio di sesso nel 1980 agli anni della militanza politica. Marcellona non si ferma di fronte a niente. Racconta di come adescava i militari con Giò Stajano a Sabaudia, di quanto fosse insaziabile sessualmente da subito e di quanto fosse del tutto convinta prima della propria omosessualità, un’omosessualità ostentata e vissuto con allegria, e poi della decisione di cambiar sesso. Del Piper ricorda di esserci arrivata a 25 anni, nel 1968. Da subito fa l’elenco dei simpatici e degli antipatici. “Tanto Loredana era sgradevole quanto Mia era meravigliosa: dolce e umile, come potevi dirle di no quando si presentava all’ingresso? Invece Loredana era una di quelle che mi faceva proprio piacere lasciare fuori”. E Fabio Testi? Si vendicava dei suoi atteggiamenti da presa per il culo dicendogli davanti a tutti: “Uh, che bel paccone che hai! Fammi vedere cosa c’è qui”. (..) “Se non fai vedere il fagotto nun te faccio entrà”. Marcellona si autodefinsice “tremenda, una porcacciona”. E prosegue: “In quel periodo mi sentivo la regina del Piper, avevo il potere di decidere chi poteva entrare e chi no. A Roma ero straconosciuta: non facevo politica attiva, ma su queste cose ero al’avanguardia”. Nel cinema entra, come tanti, grazie a Federico Fellini. Lui e Danilo Donati lo acconciano subito per il Satyricon, dove il suo faccione avrà un bel primo piano. Poi lo ritroviamo ne I clowns, in Roma, dove fa il figlio mammone della padrona di casa gigantesca di Fellini giovane, in Amarcord dove è il principe Umberto di Savoia al quale viene inviata in dono la bella Magali Noel che non sapendo come presentarsi se ne esce con un “gradisca!” che le rimane attaccato. Ne La città delle donne è un servitore di Katzone, effeminatissimo. Roberto Rossellini gli affidò addirittura un ruolo da protagonista, per fortuna doppiatissimo, nel televisivo L’età di Cosimo, dove è addirittura Cosimo de Medici, cosa che è rimasta negli annali di Stracult. Ma fece film anche con Steno, è il killer del delirante Il terrore ha gli occhi storti, con Dino Risi, In nome del popolo italiano, con Elio Petri, Todo modo. Fece un paio di decameroni, Storie scellerate con Sergio Citti, Il poliziotto è marcio di Fernando Di Leo, chiudendo in bellezza nel ruolo del “caro amico Aroldo” che abita in Via Finocchio Gay nello stracultissimo I carabbinieri di Francesco Massaro, dove Diego Abatantuono finisce infiltrato in una festa gay. Dopo il 1980, con il cambio di sesso, smise col cinema e si dedicò alla militanza politica lottando per i diritti dei Transessuali. “La mia carriera avrebbe potuto essere brillante, ma è stata bruciata dalla voglia di diventare donna”. Fu quasi una seconda vita. Se nel cinema, Fellini a parte (insomma…), aveva avuto ruoli da checca da commediaccia e di totale assurdità stracultistica, nella vita Marcello, diventata Marcella cambiò completamente. Anche se, esattamente come non aveva mai nascosto la propria omosessualità, non nascose neanche la propria transessualità. Ma trovò nella militanza politica quel qualcosa in più che il cinema non le aveva certo dato, confinandola spesso nelle macchiette.
Maddalena Oliva per il “Fatto quotidiano” il 21 ottobre 2019. "Mi chiamavano audacia. Se mi piaceva qualcuno ero capace di fargli la danza del ventre in piazza Navona. Loro ridevano e così li conquistavo". Marcella Di Folco è stata tante cose. Ma è stata soprattutto la sua grande gioia di vivere, la sua risata fragorosa (inconfondibile), la sua anima a colori capace di invadere le stanze in cui entrava. E, scorrendo le pagine dell' ultimo libro di Bianca Berlinguer Storia di Marcella che fu Marcello, eccola Marcella - nata all' anagrafe come Marcello - prendersi tutto lo spazio. Lei, la sua infanzia, il rapporto con la madre, Federico Fellini e quel Satyricon girato per caso, l' operazione a Casablanca (nel 1980) "fra le braccia della mitica infermiera Batoulle", il marciapiede, Bologna. E il Mit, le lotte politiche, sempre all' insegna della dignità e dei diritti da riconoscere a tutti: trans e non, indistintamente.
Come nasce questo libro, intimo e diretto nel racconto di una vita così straordinaria?
«Le dicevo sempre: "Dobbiamo scrivere un libro insieme". È il frutto delle confidenze e degli incontri negli ultimi suoi mesi di vita, quando tutte e due ormai sapevamo che, da lì a poco, sarebbe morta di tumore. La storia di Marcella è la storia di una donna eccezionale, con una vita tutta dedita - con determinazione ma anche tanta gioia - al perseguimento del suo obiettivo: diventare donna».
Come iniziò il vostro rapporto?
«Ci siamo incontrate nel 1997, al Gay Pride di Venezia. Pioveva a dirotto, e lei avvicinandosi con un ombrellino mi disse: "Vuoi un po' di riparo?". Da quel momento iniziammo a frequentarci. Veniva spesso a casa nostra a Roma. Mia figlia Giulia aveva quattro anni quando la incontrò la prima volta e le chiese: "Ma tu sei maschio o femmina?". Marcella scoppiò a ridere. A lasciare perplessa Giulia era la sua voce inconfondibilmente maschile».
Marcella Di Folco è stata la prima trans eletta al mondo in un Consiglio comunale. Attivista storica del movimento trans, anche grazie a lei arrivammo, nel 1982, a una delle leggi più avanzate per il riconoscimento dell' identità di genere e il cambio di sesso. Che Paese era quello?
«Arretrato. E continua ad esserlo. Come diceva Marcella, le transessuali sono ultime tra gli ultimi. Per tutta la sua vita ha perseguito un fine fondamentale: l' autodeterminazione della propria identità sessuale. Oggi forse c' è più tolleranza, ma i problemi restano».
"Essere all' avanguardia significa essere libera", diceva Marcella.
«Lei lo era nel profondo, libera. È questo che le ha permesso di affrontare tutto: il dolore, gli ostacoli arrivando alla fine a vincere la sua battaglia. "La vagina non dà la felicità, ma almeno può darti la serenità". Voleva essere desiderata come donna. Non è un problema anatomico, ma di identità. Perché il tuo sentirsi donna, o uomo, prescinde dall' aver fatto un intervento chirurgico. L' istanza delle persone transessuali mette in crisi, da una parte, il sistema binario dei generi, ma dall' altra, penso alle critiche di un certo femminismo, lo ripropone nel modo più classico: sei donna e per farti riconoscere come tale ti rappresenti secondo i canoni dominanti. Una persona trans fa tutta quella fatica per cambiare sesso e io non mi sento assolutamente di rivolgerle alcuna critica. È un percorso dolorosissimo E la complessità del transessualismo non può essere incasellata in un genere».
Dagli anni di Marcella a oggi, cosa è cambiato per le persone trans?
«Grazie a una sentenza della Corte costituzionale, il cambio di identità sui documenti è possibile anche senza che vi sia stato un intervento chirurgico. Ma ancora siamo fermi a un certo stereotipo della persona transessuale. E non esiste una possibilità vera di inserimento lavorativo: l' alternativa resta ancora tra prostituzione e mondo dello spettacolo».
Con Vladimir Luxuria anche la politica è sembrata farsi carico, per una stagione, dei diritti delle persone trans.
«La verità è che le battaglie delle minoranze è sempre difficile farle diventare battaglie di tutti. Vladimir è stata importante, lo diceva sempre Marcella, perché ha dato un' immagine diversa delle transessuali. La leader che aveva conosciuto personalmente e di cui mi parlava bene era Mara Carfagna: si era battuta, da ministro per le Pari opportunità, per introdurre l'aggravante della transfobia nella Legge Mancino contro l' incitamento all' odio. Non ci riuscì, ma almeno ci aveva provato».
Mentre la sinistra è sempre stata timida sul tema.
«La battaglia per i diritti delle persone trans l'hanno combattuta prima di tutto i radicali. Come in tanti altri casi, sono stati loro a cominciare. I partiti della sinistra, poi, hanno seguito. "L'equilibrio tra i diversi diritti è una delle condizioni più importanti per lo sviluppo di un Paese civile", diceva Marcella. Lei lo disse proprio durante l'incontro con Mara Carfagna. Ancora non comprendo come, secondo una certa destra, riconoscere più diritti e più libertà possa fare male alla società. A proposito di diritti a rischio e di un certo dibattito pubblico, per molti è in atto un tentativo di riportare le donne indietro La cosa fondamentale, per non tornare indietro, è non farsi rinchiudere in casa. Lavorare e avere un ruolo sociale. Il nostro nemico, più ancora della politica reazionaria, è la crisi economica. Sono molte le donne che hanno dovuto rinunciare alla loro indipendenza. Ma certe battaglie dobbiamo comunque combatterle da sole. Quelle di noi che occupano posti di responsabilità sono ancora molto poche. Direttrici al Tg1 non se ne sono mai viste, come al Tg5».
Cosa le ha lasciato questa amicizia speciale?
«Tre giorni prima di morire mi disse: "Io non rimpiango nulla, la mia vita è stata bellissima". Ecco cosa mi ha lasciato: la sua gioia di vivere, anche le piccole cose. "Bianca, tesoroooo", mi sembra di sentirla ancora. Marcella Di Folco è morta nel 2010».
Perché aspettare nove anni per il libro?
«Non volevo sovrapporre le mie idee e le mie inibizioni alla sua storia. Questo è il racconto di Marcella con le sue stesse parole. Lei era molto più libera di me e di noi tutte. Io non so se al suo posto ce la avrei fatta».
I Transessuali. Irene Dominioni per L'Inkiesta il 27 giugno 2019. Alessandra Angeli (altrimenti nota come Angelina) non è tipo da giri di parole. Transessuale resa nota dalla partecipazione al reality Pechino Express nel 2014 e poi apparsa a più riprese in televisione, oggi è ospite regolare di Tv Talk. “Sono nata biologicamente maschio ma vivo da femmina da sempre”, spiega. A distinguerla è soprattutto la sua ironia, caustica e senza peli sulla lingua. “Il mio dirimpettaio di posto in treno è un bellissimo uomo inglese di 35 anni, castano, occhi verdi e alto 190 cm. Mi ha aiutata a riporre la valigia nello scompartimento, secondo voi perché; A) Gallina Vecchia. B) Gallina Vecchia fa buon brodo”, scrive su Facebook. Originaria di Verona, vive a Milano da anni. Di professione è make up artist. Vicini ormai alla conclusione di giugno, il Pride Month, Linkiesta l’ha contattata per parlare di Pride e diritti LGBT.
Angeli, tra pochi giorni c’è il Gay pride a Milano. Ci andrà?
«Non ci andrò perché, purtroppo o per fortuna, lavoro, però ci sarei andata volentieri. Ma fatemi fare subito una puntualizzazione. Il Pride è inclusione per me, e non soltanto dei gay, ci sono tante altre categorie che partecipano, incluse le persone etero. È l’orgoglio di amare chi si vuole e come si vuole. Non voglio cadere nel solito discorso del partenariato bianco, perché pone immediatamente in una condizione di subalternità, e io non mi sento subalterna a nessuno. Gay pride è una dicitura di uso comune, ma se vogliamo davvero cercare di includere, chiamiamolo Pride e basta».
Perché ci serve ancora un Pride?
«Perché purtroppo le discriminazioni in base all’identità di genere e all’orientamento sessuale esistono ancora. Ci sono persone che non vorrebbero che noi fossimo visibili, quindi il Pride ci serve per contrastare questa voglia di cancellarci. Per lo Stato italiano, a meno che non mi rimetta a quello che pensa un giudice, io non sono Alessandra, non sono riconosciuta. In uno Stato laico io vorrei che si legiferasse pensando che ci sono cittadini etero, gay, transessuali, e che quindi ci venisse riconosciuto il diritto di autodefinirci».
Ci spiega questa cosa dei documenti?
«Io sono nata biologicamente maschio ma vivo da femmina da sempre, mi percepisco al femminile. Per essere riconosciuta nel genere a cui sento di appartenere, devo rimettermi alla decisione di un giudice, a cui devo spiegare perché mi deve cambiare il nome sui documenti. Sto chiedendo di mantenere anche il nome maschile, voglio farlo per far passare il messaggio che io non sono sbagliata. Una mia piccola lotta personale per cambiare un po’ le cose. Sulle persone transessuali si ricorre sempre alla narrativa della sfiga, delle persone intrappolate in corpi sbagliati. Ma il mio corpo è giusto, c’è una definizione che è transessuale, e io voglio essere rispettata in quanto tale. È per questo che serve il Pride».
Trans e gay oggi lottano la stessa lotta?
«No, perché io mi faccio carico delle lotte degli altri, ma gli altri non si fanno carico della mia. Noi transessuali siamo la minoranza della minoranza. Non vivendo le stesse problematiche i gay non si immedesimano. A parte l’attività di alcune associazioni, non mi sembra che ci sia una grande difesa dei diritti trans».
A quali diritti nello specifico si riferisce?
«Il riconoscimento è un primo passo: bisogna avere la possibilità di scegliere, non deve essere una scelta obbligata. E il riconoscimento serve perché se io mando un curriculum e ho le competenze, il datore di lavoro comunque si fa mille problemi ad assumermi, c’è un forte stigma sociale. Ancora oggi c’è gente che mi chiede: tu hai cambiato genere perché ti piacciono i maschi? Ancora non si è capito che identità di genere e orientamento sessuale sono due cose diverse (la prima è il senso di appartenenza di una persona a un genere con cui si identifica; il secondo è l'attrazione erotica ed affettiva per un sesso o per l'altro o per entrambi, ndr). Va bene lottare per i diritti civili, quelli ci devono essere, ma io credo che ci siamo persi troppo dietro ai diritti civili e intanto sono venuti a mancare i diritti sociali, cioè l’accesso al mondo del lavoro da parte delle persone transessuali. Non parlo nemmeno di lavoro in sé, perché quello è un problema di tutti. In futuro, vorrei vedere medici, avvocati, bancari transessuali».
Secondo lei Milano è davvero diversa dal resto d’Italia in tema di rispetto e di inclusione LGBT?
«Io penso che Milano sia un’isola felice, una bolla, un avamposto di civiltà e di progressismo. Almeno in superficie viene vissuta così. A Milano mi sento più a mio agio. La mia città, Verona, invece non mi rende orgogliosa. Siccome io non permetto a nessuno di mancarmi di rispetto, non ho mai vissuto delle discriminazioni forti da nessuna parte. Non posso negare però che ci siano dei casi in cui invece queste cose accadono: ovunque si legge di persone vessate o picchiate. Per cui non mi va di generalizzare».
Chi tra i politici difende di più i diritti LGBT oggi?
«Gli unici che vedo spendersi davvero sono quelli di Possibile. Il povero Civati è l’unico che si ricorda sempre di tutte le categorie umane».
E nel mondo dello spettacolo invece?
«Le persone più conosciute attualmente mi sembra sempre che cavalchino quella cosa lì per interesse personale e per ottenere consenso. Fortunatamente ci sono invece produttori, autori eccetera che portano in tv persone come me per dire cose non mainstream, che lavorano per uno sdoganamento, pur non facendo parte del mondo LGBT. Nel panorama televisivo le persone gay e trans vengono sempre rappresentate in un certo modo, sono delle macchiette. Credo sia venuto a noia anche questo. Quelle persone rappresentano loro stesse, ma se vedono solo quei modelli la gente è portata a pensare che esistano solo quelli».
Perché esiste questa rappresentazione?
«Ci sono persone che hanno scritto libri e che raccontano in maniera più autentica, ma che non sono arrivate forse perché non estremizzano oppure perché veicolano concetti troppo alti. Alla gente interessa il litigio di quella che dice "no tu non puoi andare al cesso delle donne". È una questione di tifoseria, anche la politica è diventata così, è tutto bianco o tutto nero. La caciara, la litigata fa più audience che non le argomentazioni serie».
Il rischio che alcune forme di sostegno siano solo di facciata però c’è.
«Io vorrei andare a leggere la carta dei valori in quelle aziende che partecipano al Pride month per vedere se assumerebbero mai una persona transessuale, se ne hanno assunte, se consentono loro di ricoprire ruoli apicali e così via. Questo è misurabile anche in altri ambiti. Vladimir Luxuria è entrata in politica con il partito comunista, e poi quando c’era stata la polemica sui Pacs diceva “l’Italia ha altre priorità”. La sinistra sulla questione dei diritti civili si è suicidata: sono importanti i diritti civili, ma vengono utilizzati come specchietto per le allodole. Poi, siccome il mondo LGBT da anni spera di ottenere diritti e rispetto, appena ci fanno la carezzina noi ci caschiamo. Abbiamo preso talmente tante legnate e abbiamo talmente tanta fame di essere “accettati” che anche quando arriva il buffetto sulla guancia ci mettiamo a pancia in su. Bisognerebbe invece tenere sempre alta la guardia».
L’associazionismo LGBT quindi come lo vede?
«Sul mondo dell’associazionismo si dovrebbe fare una lunga disamina. Le associazioni che veramente lottano per i diritti e sono inclusive sono poche, le altre non vanno da nessuna parte. Spesso sono utilizzate come trampolino per carriere politiche, per avere consenso. Io vedo questo».
Si sente rappresentata da queste associazioni?
«Con alcune avevo avuto degli scontri per via di alcune mie dichiarazioni che non erano state capite, ma in generale sì, mi sento rappresentata. Ci sono associazioni valide».
Ma in Italia allora stiamo migliorando o peggiorando in termini di diritti LGBT?
«Mi sembra che ci sia un progresso, malgrado il governo attuale sia palesemente oscurantista e contrario a che le persone LGBT abbiano dei diritti. Certo, ancora oggi ogni tanto leggo cose che mi fanno cadere le braccia, ma la società sta cambiando, malgrado tutto e soprattutto malgrado la paura che ci viene trasmessa, quindi spero di leggerle sempre più sporadicamente. Secondo me la speranza c’è e per forza di cose si andrà sempre più verso un cambiamento in direzione dell’inclusività».
Ci dice quelle che secondo lei sono le tre priorità oggi?
«Il rispetto e la promozione dei diritti sociali ma soprattutto il lavoro per tutti i lavoratori, al di là del genere, mi sembrano una priorità. È bello che adesso ci si possa sposare, ma se non hai un lavoro e una casa, dove vai a vivere? Quelli sono diritti fondamentali. Seconda cosa, serve una legge contro l’omotransfobia: picchiare o perseguitare qualcuno in base al suo orientamento sessuale o alla sua identità di genere deve prevedere pene severe. Una legge chiara e precisa potrebbe fare da deterrente a chi si sente legittimato a compiere questi abusi. E poi basta con la retorica, questo paese sta soffocando tra questa retorica e controretorica: la priorità sono le soluzioni e chi fa, sia da una parte che dall’altra».
A Milano è attivo da un decennio lo Sportello Trans ALA Milano Onlus, che ora rischia di chiudere. Che ne dice?
«Inviterei a devolvere il 5 per mille a onlus come questa che assistono le persone in difficoltà. Spesso le persone transessuali sono allontanate dalla famiglia, ma se non le accoglie la prima formazione sociale che riconosciamo, come possiamo aspettarci che la società faccia lo stesso? Donare il 5 per mille significa agire concretamente per far sì che associazioni come questa possano continuare a operare».
· Il problema del Gender.
Dagospia il 23 novembre 2019. Comunicato stampa. Alessia Bergamo è una transgender originaria di Enna che da anni vive a Bergamo. Già da bambino aveva atteggiamenti effemminati, giocava con le barbie e preferiva la compagnia delle femmine rispetto a quella dei maschi. Un po’ forzata dai genitori, tipici siciliani conservatori e cattolici Alessia (all’epoca Alessio) ha frequentato un anno di seminario per diventare sacerdote, ma proprio in questo percorso ha scoperto la sua vera natura, ossia quella di diventare una donna. Così Alessia lascia il seminario e confessa ai genitori questo suo desiderio, viene sbattuta fuori di casa e con due soldi in tasca e quattro stracci nella valigia si trasferisce al nord a casa di amici in cerca di fortuna ed inizia il suo percorso di transizione. La vera vittoria arriva nel 2013 quando Alessia vince il prestigioso premio nazionale “Miss Trans Italia 2013” e risana i rapporti con la sua famiglia che dopo tempo ha accettato Alessia dicendo che il signore non gli ha dato subito la figlia femmina ma gliel’ha data con il tempo. Ora Alessia è finalmente realizzata ed è l’unica sexy star trans ad esibirsi nei locali notturni, night club e club privè di tutta la penisola. La trans sicula si lascia andare a dichiarazioni piccanti sulle sue passate esperienze sessuali: “Amo il sesso, ma quando faccio l’amore sono abbastanza classica non piace fare numeri particolari, come tutte le siciliane però sono molto focosa, sono sia attiva sia passiva, e sono ben messa, ho 21 centimetri di piacere da donare, e un lato B capiente. Il 90% degli uomini con cui sono stata sono passivi, il 10% attivi, le donne le ammiro ma non potrei mai andarci a letto. La prima cosa che guardo in un uomo? Se lo vedo da dietro il culo e se lo vedo da davanti il pacco, per me avere un grande e grosso pene è una cosa fondamentale, poi ovviamente lo deve sapere usare al meglio. La richiesta più strana che ho dovuto soddisfare è stata quella di un imprenditore milanese, arrivato da me in giacca e cravatta elegantissimo, appena si è spogliato sotto aveva Il perizoma da donna e le autoreggenti, mi ha chiesto di strangolarlo più forte che potevo mentre lui si masturbava, ad un certo punto sentivo che faticava a respirare e ho mollato la presa, si è arrabbiato perché stava per venire e voleva stringessi ancora più forte!”
Greta, 13 anni e transgender: “Nata maschio, sempre sentita donna”. Le Iene il 27 novembre 2019. Greta è nata con un nome da maschio, che non vuole nemmeno ripetere perché le fa troppo male. Fin da quando è nata sapeva di essere una donna. Nina Palmieri incontra questa coraggiosa adolescente con tutta la voglia di vivere i suoi 13 anni come gli altri. “Io ho tredici anni e mi sono sentita femmina da quando sono nata”: Greta non vuole nemmeno dirci come si chiamava prima perché ricordare quel nome maschile le fa troppo male. “Tutti pensano che sia più debole perché sono transgender, ma i deboli sono i bulli. Sono loro che devono essere aiutati. Noi sappiamo cosa siamo e non abbiamo paura di dirlo”. Per trovare il coraggio di affermarsi come Greta, questa coraggiosa adolescente ha dovuto superare numerose difficoltà e pregiudizi, che sta combattendo ancora oggi. Greta è nata assieme a suo fratello gemello Paolo e come tutti i bambini passavano il tempo a giocare. Ma un giorno Greta scopre che ci sono altri giochi rispetto alle macchine. “Ho scoperto le Winx”, dice ridendo. Cominciano le elementari e con la scuola iniziano anche i problemi con gli altri bambini: “Mi prendevano in giro, mi dicevano frocio”. Il tempo passa e una volta Greta si trova nello spogliatoio dei maschi. “Ci siamo confrontati e mi sono accorta che avevano la stessa cosa che avevo io”, dice a Nina Palmieri. Arriva poi un momento importante per le adolescenti: “Le ragazze parlavano del ciclo e io mi chiedevo perché non stessero vedendo anche a me. E poi ho capito”. Greta passa un periodo difficile in cui cerca di reprimere quello che sente. Finché un giorno, mentre il fratello è nudo, sbotta: “Mi fa già abbastanza schifo il mio, non voglio vedere il tuo”. Il papà interviene: “Gli ho chiesto cosa volesse dire”, racconta alla Iena. “Lei ha detto che era una femmina e che non ce la faceva più con questa storia di essere maschio”. Greta si libera, parla anche con sua madre e tra le mura di casa trova un porto sicuro. Ma a scuola le cose si fanno più difficili. “La cosa che mi fa più soffrire è che gli altri non cercano nemmeno di interagire. Se chiedo qualcosa non si girano”. Un atteggiamento che spesso parte dai genitori: “La mamma di una mia compagna dice che se lei sta con me io la faccio diventare maschio”. Eppure quello che Greta vorrebbe è solo un’adolescenza come tutti gli altri: “Sogno di avere un fidanzato ma non credo che succederà tanto presto. Prima devo voler bene a me stessa. Sto iniziando a capire che il mio non è un corpo sbagliato, ma un corpo che io riuscirò ad adattare a ciò che sento”.
Greta, 13 anni e transgender: hanno fatto chiudere il suo Instagram. Troppe segnalazioni? Le Iene il 27 novembre 2019. Vi abbiamo raccontato la storia di Greta, una ragazza di 13 anni che è nata uomo ma si è sempre sentita una donna. Con tutte le difficoltà che una ragazzina nella sua situazione può avere con i compagni, vi abbiamo dato il suo nome utente su Instagram nel caso qualcuno avesse voglia di conoscerla e passarci del tempo insieme. Ma sembra che i bulli non si siano ancora arresi, tra segnalazioni del suo profilo e account falsi. Di profili finti su Instagram, come sugli altri social, ne nascono ogni giorno. Ma quando vengono creati per approfittarsi della visibilità di altre persone che volevano solo un aiuto, bisogna dire basta. Stiamo parlando di quello che è successo dopo il servizio di Nina Palmieri su Greta. Questa ragazza di 13 anni ci ha raccontato di come, nata maschio, si sia sempre sentita una donna. “Mi sono sentita femmina da quando sono nata”, ha raccontato alla Iena. Un giorno Greta ha trovato il coraggio di parlarne con i suoi genitori. Quando vede suo fratello nudo, Greta sbotta: “Mi fa già abbastanza schifo il mio, non voglio vedere il tuo”. Suo papà interviene subito: “Gli ho chiesto cosa volesse dire”, ha raccontato a Nina Palmieri. “Lei ha detto che era una femmina e che non ce la faceva più con questa storia di essere maschio”. Così Greta trova nella sua famiglia un porto sicuro. Ma le cose a scuola non vanno altrettanto bene. Greta ci ha raccontato si sentirsi isolata e ignorata dai suoi compagni. “La cosa che mi fa più soffrire è che gli altri non cercano nemmeno di interagire. Se chiedo qualcosa non si girano”. Quello che renderebbe più felice questa ragazza sono le stesse cose che desidera qualsiasi ragazza della sua età: degli amici, uscire qualche volta e chissà magari più in là anche un fidanzatino. Così Nina Palmieri si è rivolta a tutti i giovani che stavano ascoltando la sua storia e che magari avevano voglia di conoscerla. “Se avete voglia di passare un pomeriggio insieme, andare al cinema, a teatro, a fare yoga o un corso di make-up, si faccia sentire sull’account Instagram iosonogreta13 che gestiranno insieme a lei i suoi genitori”. Ma subito dopo il nostro servizio sono sbucati come funghi account simili al suo, che qui non vogliamo nemmeno ripetere per non fare pubblicità a chi sperava di accaparrarsi follower sulla pelle di Greta. E il colmo è che quegli account sono ancora attivi, mentre quello di Greta è stato bloccato. Subito Nina Palmieri ha pubblicato un post per denunciare la cosa e ricordare qual è il vero account. Perché il profilo di Greta è stato bloccato? Non possiamo saperlo con certezza, ma la cosa più probabile è che vari utenti abbiano fatto la bravata di segnalarlo e Instagram l’abbia chiuso automaticamente. Noi stiamo cercando di farlo riaprire, anche perché al di là di questi bulli c’era anche chi era semplicemente interessato a farsi sentire o dare una parola di sostegno, tanto che in mezz’ora da quando abbiamo pubblicato il servizio la pagina di Greta era passata da un follower (la nostra Nina Palmieri) a 8mila. Ma intanto a chi lo ha segnalato e a chi ha creato falsi profili spacciandosi per Greta rivolgiamo le stesse parole che ci ha detto lei: “Tutti pensano che sia più debole perché sono transgender, ma i deboli sono i bulli. Sono loro che devono essere aiutati. Noi sappiamo cosa siamo e non abbiamo paura di dirlo”.
Greta, 13 anni e transgender: account Instagram riattivato e subito ribloccato! Le Iene il 28 novembre 2019. Nina Palmieri ci ha raccontato di questa ragazzina di 13 anni, nata uomo ma che si è sempre sentita donna. Dopo il nostro appello ad andare sul suo profilo Instagram per chiederle l’amicizia, il suo account era stato bloccato tra segnalazioni finti profili. Le Iene si sono mosse: stamane è tornato online, ma dopo un paio di ore è di nuovo bloccato. Noi non ci arrendiamo di certo contro i bulli! iosonogreta13 è ancora sotto attacco. L’account Instagram della ragazzina di 13 anni nata uomo ma che si è sempre sentita donna, dopo essere stato riaperto per qualche ora, è nuovamente sospeso. Vi avevamo raccontato la sua storia nel servizio di Nina Palmieri, che potete rivedere sopra. Dopo quel servizio e il nostro invito a scriverle, per chiederle l’amicizia e dimostrarle la vostra solidarietà, l’account gestito dai suoi genitori era stato bloccato, mentre si erano moltiplicati in modo vergognoso quelli molto simili al suo, nati per accaparrarsi follower sfruttando l’equivoco. Ci eravamo mossi subito con Instagram, anche perché dopo il nostro servizio avevate risposto in tantissimi: il profilo di Greta era passato da 1 follower a ben 8000! Le Iene hanno contattato Instagram, che ha assicurato di aver preso in carico la nostra richiesta di riattivazione. E così, questa mattina per un paio di ore, il profilo iosonogreta13 è tornato attivo. Una gioia durata troppo poco però, perché l’account di Greta adesso è di nuovo offline. Ci rivolgiamo a questi bulli da tastiera, armati di odio, per dirgli che questa battaglia non intendiamo abbandonarla, e la continueremo fino alla riattivazione definitiva del profilo di Greta. Indirizziamo a queste persone, ancora una volta, le stesse parole che ci ha detto Greta: “Tutti pensano che sia più debole perché sono transgender, ma i deboli sono i bulli. Sono loro che devono essere aiutati. Noi sappiamo cosa siamo e non abbiamo paura di dirlo”. Nina Palmieri ci ha raccontato la storia di Greta e delle sue mille difficoltà nelle relazioni sociali. “Mi sono sentita femmina da quando sono nata”, ha raccontato alla Iena. Un giorno Greta ha trovato il coraggio di parlarne con i suoi genitori. Quando vede suo fratello nudo, Greta sbotta: “Mi fa già abbastanza schifo il mio, non voglio vedere il tuo”. Suo papà interviene subito: “Gli ho chiesto cosa volesse dire”, ha raccontato a Nina Palmieri. “Lei ha detto che era una femmina e che non ce la faceva più con questa storia di essere maschio”. Greta trova nella sua famiglia un porto sicuro ma le cose a scuola non vanno altrettanto bene: “La cosa che mi fa più soffrire è che gli altri non cercano nemmeno di interagire. Se chiedo qualcosa non si girano”. A Greta basterebbe davvero poco: degli amici, uscire qualche volta e chissà magari più in là anche un fidanzatino. Così Nina Palmieri si è rivolta a tutti i giovani che stavano ascoltando la sua storia e che magari avevano voglia di conoscerla: un appello al quale hanno risposto in tantissimi, anche se spesso fanno più rumore dieci leoni da tastiera che 100 belle persone. Continueremo a seguire questa vicenda, fino a che Greta non sarà libera di essere quello che è. Anche su Instagram.
Cambio sesso rovina una vita: ospedale a giudizio. Le Iene il 28 novembre 2019. Il Santa Corona di Pietra Ligure è stato costretto a risarcire 322mila euro a una trans 37enne, per un’operazione di cambio sesso da uomo a donna andata male. Nina Palmieri ci aveva purtroppo già raccontato una storia simile, raccogliendo la denuncia di 4 trans. Le hanno riconosciuto un risarcimento di 322mila euro per “danno alla sfera interiore”. Sotto accusa l’ospedale Santa Corona di Pietra Ligure, condannato per un’operazione di cambio sesso da uomo a donna andata male. I giudici hanno ravvisato la “criticità dell’operato dei sanitari” e “profili di malpractice medica” nei confronti di una 37enne transessuale veneta, che è stata poi costretta a un nuovo intervento “che non ha comunque raggiunto il risultato sperato”. Lo stesso ospedale in passato era già stato costretto a un altro risarcimento di 374 mila euro, una decisione verso la quale la struttura ha però fatto appello. “L’ordinanza di Savona conferma gli effetti devastanti sulla vita delle persone quando le cose non vengono fatte a dovere”, ha spiegato il legale della transessuale. Nina Palmieri ci aveva raccontato una vicenda purtroppo simile, andando a intervistare un medico che avrebbe effettuato operazioni non riuscite su 4 trans, come potete rivedere qui sopra. Queste persone, come hanno raccontato a Nina Palmieri, si erano rivolte alla struttura Umberto I di Roma, al reparto diretto dal professor Scuderi, che attuava una tecnica che, in realtà, era assolutamente sperimentale. Quegli interventi si erano poi rivelati un fallimento totale: “Mi sono resa conto che quella che avevo non era una vagina ma carne messa lì per fare cornice”. E quando una delle pazienti si è rivolta all’ospedale chiedendo un altro intervento “riparatorio”, si sarebbe sentita dire una cosa terribile: “Signora, se noi la riapriamo si deve mettere in testa che il tutore lo porterà a vita, se no, male che vada, si deve fare suora o usare l’altro buco”. Quando Nina Palmieri è andata dal professor Scuderi, nel frattempo rinviato a giudizio per lesioni, lui nega di aver taciuto che si trattasse di un intervento sperimentale e ha risposto così: “Il rischio di insuccesso in questi interventi, nella letteratura medica mondiale, è altissimo. Noi, nei casi che abbiamo operato, abbiamo avuto diversi successi e alcuni insuccessi".
Barbara Costa per Dagospia l'8 novembre 2019. Come ti senti? In che rapporti stai con quello che hai e ti pulsa tra le gambe? Va tutto bene, mai un dubbio, un ripensamento, un disagio? Ok, ho capito, sei il classico, convinto eterosessuale che dice e ridice di non avere pregiudizi, e di accettare tutto di tutti, sei magnanimo, indifferente a ogni differenza, insomma, un tipo realizzato e con inclusività da vendere. Sai che c’è, è ora che la pianti, che stai zitto e che tu non prenda impegni, dal 7 al 9 novembre. È proprio il caso che tu getti la maschera, e ti rechi a Milano, alla I edizione del "Gender Border Film Festival", e ne esca come spero e voglio, cioè pieno di perplessità, inquieto, meglio ancora se tra l’irritato e lo schifato: è questo l’unico modo per mettere alla prova i nostri limiti e superarli, e capire, buttare al cesso la tolleranza che altro non è che la forma più bieca di superiorità. Prendere atto, finalmente, che al mondo non ci sei solo tu, solo io, ma ogni persona diversa, da me, e da te, e anche lei, come te, come me, piena di domande, paure, freni da combattere, e ci sono film che in questo possono aiutare, ad aprirti, e prima che agli altri, a te stesso. Non mi dire che questo non è cinema, non mi dire che non ti piace se prima non l’hai visto, e se non hai visto "Las hijas del fuego", film lesbico, lesbo-road, film pieno di corpi, nudi, veri, ben fatti e malfatti. Film di corpi liberi, corpi uno sull’altro, corpi che cercano e si cercano, c’è il sesso, c’è sesso rappresentato su uno schermo, è porno e più nei genitali aperti, in primo piano, specie nella scena della vagina in gonfia masturbazione. Se questo non è cinema allora cos’è, stai davanti a uno schermo e vedi e senti immagini, ma la verità è che a te, come a me, quelle immagini danno un po’ fastidio, toccano nervi che credevi coperti, nervi che nemmeno pensavi ci fossero, scoprono tabù. Se questo non è cinema dimmi cos’è, secondo la regista Albertina Carri è porno ma politico, è manifesto, è rivoluzione, è un calcio in culo al porno che trovi a milioni di video in rete. E allora ecco che mi incazzo con la Carri, con la sua prevenzione, sicurezza di sapere cos’è e com’è il porno sul web, e nello specifico quello americano: ma anche la regista, come noi, è preda di pregiudizi, credenze errate, perché il porno sul web è meravigliosamente ribelle, non vuole importi nulla. Qui entro in campo io, nell’urlare a tante donne, in quelle loro dure teste femministe, che il porno sul web è affatto maschilista, né tutto uguale, o mai contro le donne, e nemmeno pensato e mirato solo a esaudire furori maschili. No! Questa è soltanto una parte, un aspetto del porno, è il porno che un uomo etero se vuole cerca, vede e gode, ma lo stesso maschio, insieme e diversamente da altri maschi, può avere passioni, porno-manie molto diverse, e così una donna da un’altra donna, e una donna da un gay, e un gay da un altro gay, e da un fluid, e da un trans, e da una/un bisex. Il porno è libertà e scelta la più audace e personale possibile, il porno è tuo piacere unico e intoccabile, e come in rete ne gusti di ogni genere, norma, così il film della Carri può scatenarti o meno morbosità o voglie, desideri che ora ti vergogni di avere, sognare, oppure può contrariarti come ha fatto con me, ma una cosa è sicura, non ti lascia indifferente, perché è porno, e in ciò non può mancar mai alla sua missione. Il porno ferisce, segna, marchia la mente nei modi più subdoli, lo fa anche se tu non lo vuoi, specie se tu non lo vuoi, è così, dittatorialmente così, e se vai a questo festival, ti puoi ritrovare davanti a Sofia, che ha 26 anni ma in realtà 1 soltanto, perché il maschio che è stata per 25 è morto un anno fa; davanti a una disinibita cam-girl pansessuale; davanti ai poliamorosi di cui tanto si parla e poco si sa, e scoprirti a "tastare" attraverso quei corpi che dallo schermo ti invadono gli occhi, che queste persone vivono, respirano, amano, imprecano, come te, identicamente a te. In questo festival, ti ritrovi davanti a 4 uomini transgender il cui corpo male incasellato con la loro identità sessuale è allenato, scolpito, oliato e pronto a esibirsi in concorsi di bodybuilding: davvero di loro ti interessa conoscere con chi sc*pano, e come, credevi fosse basilare saperlo, invece che ti cambia posizionarli, farli rientrare in un canone, un’etichetta? Il loro corpo ti eccita lo stesso, è innegabile. Si cerca un box, una casella che per altre persone non c’è, non può esserci quando sei intersessuale, e alla nascita i tuoi genitori hanno deciso per te violentandoti. Ti hanno dato un sesso specifico, a te che sei nato intersex e quindi non rientrante nella categoria maschile né in quella femminile. La decisione di tua madre e di tuo padre, in tandem con quella dei medici, ti ha portato per gran parte della tua vita a subire cure ormonali, e altre operazioni, quando essere "Ni d’Ève ni d’Adam" non è uno sbaglio, è la normalità, veramente, nient’altro che la normalità, questa parola che atterrisce, punge, disturba se non fa rima con eterosessualità, ma è ora di capirlo, gridarlo, che l’intersex, come ogni altra sessualità, è sana, giusta, nessun errore della natura né imperfezione divina.
Da vanityfair.it il 25 novembre 2019. «Certo che per essere una trans sei proprio bella. Ti ha fatto male l’intervento? Hai orgasmi? Il tuo vero nome qual è? La natura è stata proprio cattiva con te. Certo che non sembri una trans, sembri una donna. Sei noiosa quando parli dei tuoi problemi. Questi sono i tuoi capelli veri? Cosa ti sei rifatta? Posso toccarti la pelle? Tutti i giorni io sento queste frasi. Tutti i giorni è come se dovessi cominciare da capo la mia battaglia. Transessuale, brasiliana, figlia di Cerezo, modella e poi, alla fine, Lea».
Lea T, modella brasiliana, figlia dell’ex calciatore Toninho Cerezo combatte da anni le discriminazioni. Nata Leandro, è stata la prima donna transessuale a sfilare in passerella, fortissimamente voluta da Riccardo Tisci, all’epoca direttore creativo di Givenchy. Oggi Lea T, pseudonimo di Leandra Medeiros Cerezo, ha 38 anni e al Vanity Fair Stories, protagonista del talk «Free to be Lea» (in collaborazione con Zalando), parla delle sua battaglie e delle sue conquiste.
Ma chi è Lea davvero? «Innanzitutto sono una persona, che sanguina, che sente dolore, che ha emozioni e che vive. Sono una donna transessuale, una modella, figlia di una famiglia brasiliana, cresciuta in Italia da quando ha un anno. Da dieci anni faccio la modella e credo che questo sia stato per me un traguardo davvero importante».
Ma quando parla di libertà, come recita il titolo del suo intervento, Lea frena: «Io non sono libera. La società non ci rende liberi. La libertà è una parola concessa a poche persone. Non a noi donne. Tantomeno alle donne latine e ancora meno alle donne transessuali».
Nella moda, invece, vede dei passi avanti: «Tutte le persone che lavorano nella moda stanno cercando di trasformare il sistema e di renderlo più inclusivo. In passato era qualcosa riservato a persone ricche, bianche, eterosessuali. Adesso tutto questo sta cambiando. Oggi la moda ha cominciato ad aprirsi a cercare di fare in modo che le persone possano identificarsi».
Quando parla della sua famiglia si illumina: «Si parla sempre di mio padre, che sicuramente è stato molto importante per me, ma il ruolo di mia madre è stato fondamentale. Mi ha tenuto per mano tutta la vita. Quando devo parlare dei miei problemi di donna, quando devo comprendere certe realtà per molti aspetti nuove per me è a lei che mi rivolgo. Parlare di mia mamma per me è come parlare di una divinità profonda. Lei mi è stata accanto in tutto il mio percorso e viviamo ancora insieme».
E a tutte le famiglie che si trovano a fare un percorso come il suo Lea ha qualcosa da suggerire: «Ogni storia è differente ma dico ai genitori: rispettare le scelte dei vostri figli e siate empatici, provate a mettervi al loro posto. Mia madre all’inizio ha sofferto moltissimo, più di mio papà. E io vengo da una famiglia in cui non c’è mai stato nessun tipo di discriminazione. Lei era preoccupata. Preoccupata del fatto che io potessi soffrire. Poi a un certo punto è arrivata e mi ha chiesto scusa. “Sono stata egoista. Pensavo alla mia sofferenza e non alla tua che è molto più grande della mia”, mi ha detto. E lì ho capito le sue paure più profonde: viviamo in una società patriarcale nella quale se non sei allineato con il sistema vieni massacrato. Oggi lei ed io combattiamo insieme contro le discriminazioni».
«Sogno un mondo», ha concluso Lea, «in cui razzismo e discriminazioni finiscano e in cui l’uomo impari di più a rispettare la natura. Io sono di origini indigeno-africane e questa cosa noi ce l’abbiamo dentro».
Lara Loreti per “la Stampa” l'11 novembre 2019. Cambiare genere sessuale, per Maria Stefania Migliore, è stato «come fare bungee jumping». Emozione fortissima. «La sera prima dell' intervento ero molto nervosa: ho mandato mia madre a casa, ho preso delle gocce calmanti, musica nelle orecchie e mi sono addormentata. Poi è stato tutto in discesa». Siciliana, direttrice artistica in un centro di consulenza di immagine a Palermo, Maria Stefania descrive così il suo passaggio da uomo a donna. A 24 anni, si è operata dopo 7 di terapia ormonale: «È stato come tuffarsi da un trampolino altissimo - racconta -. Sono dolori di vita, tipo diventare madre: soffri, ma dopo provi una gioia immensa».
A quasi 90 anni dalla prima operazione con cui Lili Elbe da uomo è diventata donna in Danimarca, sono circa un centinaio all' anno le persone che in Italia si sottopongono a interventi chirurgici per la riassegnazione del genere, in centri pubblici specializzati, con il Servizio sanitario nazionale, quindi pagando solo il ticket per le visite: operazioni che vanno dall' adeguamento del torace alla chirurgia dei genitali. Hanno dai 17 ai 60 anni. E sono in aumento. Negli ultimi tre anni c' è stata una crescita esponenziale delle domande e degli interventi, con un exploit delle donne che decidono di diventare uomo: se fino a qualche anno fa erano due su dieci, oggi siamo quasi alla parità. E decine di persone sono in attesa di essere operate: solo a Pisa ce ne sono 150 che aspettano. Cresce anche il numero dei minori che intraprende il percorso di transizione, con il placet dei genitori. E c' è stata un' evoluzione sul fronte giuridico. Fino a 4 anni fa per modificare i connotati sulla carta di identità - materia disciplinata dalla legge 164 del 1982 - bisognava operarsi. Ora non c' è più l' obbligo, come sancito da una sentenza della Corte costituzionale del 2015. Inoltre, dalla scorsa estate la disforia di genere, ossia il disagio legato al non riconoscersi nel proprio corpo, non è più considerato dall' Organizzazione mondiale della sanità un disturbo psichico, ma una condizione sessuale.
I dati e il fenomeno. Nell' ultimo anno circa 120 persone si sono sottoposte a interventi di riassegnazione di genere nei cinque ospedali pubblici italiani specializzati in materia, individuati dalla Sicpre, la Società italiana di chirurgia plastica ricostruttiva ed estetica che segue da vicino il fenomeno con i suoi specialisti. Si tratta del Cidigem, Centro interdipartimentale disforia di genere alle Molinette di Torino; Cattinara Asuits, Azienda sanitaria universitaria integrata di Trieste; Azienda ospedaliera universitaria di Pisa in tandem col Careggi di Firenze; San Camillo di Roma e Paolo Giaccone di Palermo. Il bisturi arriva dopo un percorso di almeno due anni in cui il paziente (o la paziente) è seguito da un pool di psicologi, psichiatri, urologi o ginecologi, endocrinologi e chirurghi plastici che dovrà accertare che la persona in questione vive uno stato di disforia di genere. Con i certificati medici, il paziente potrà recarsi dal giudice per ottenere la sentenza di via libera alla riassegnazione del genere, con la conseguente modifica anagrafica. Gli interventi più complessi per diventare donna sono l' eliminazione del pene (penectomia) e la ricostruzione della vagina (vaginoplastica). In un momento successivo si può valutare se ingrandire il seno e fare altri ritocchi per femminilizzare voce e volto. Per chi vuole diventare uomo, invece, il primo intervento a cui sottoporsi è la riduzione del seno a cui può aggiungersi - ma c' è chi effettua gli interventi in contemporanea - l' asportazione di utero e ovaie. Segue la metoidioplastica, che permette di trasformare il clitoride in un piccolo pene funzionale per urinare. C' è poi la falloplastica, operazione molto più delicata: è l' impianto sul clitoride di una protesi del pene fatta con un lembo dell' avambraccio che consente di avere un' erezione, per una vita sessuale attiva. Il 60% dei pazienti che si rivolge a centri pubblici chiede di diventare donna, il restante 40% vuole modificare il genere in uomo.
Donna vs uomo. «Negli ultimi 5 anni - dice Regina Satariano, responsabile del consultorio transgenere in Toscana e vicepresidente dell' Onig, l' Osservatorio nazionale sull' identità di genere guidato dal professor Paolo Valerio - c' è stato un boom di donne determinate a diventare uomo: in Toscana la percentuale si è invertita, ora sono 7 su 3. E tale dato incide anche a livello nazionale dove ormai c' è una situazione quasi di parità». Boom di donne che chiedono di diventare uomini anche a Torino, Trieste e Pisa. A Palermo, invece, la proporzione è ancora capovolta. Lo spiega Adriana Cordova, già presidente Sicpre, direttrice del reparto di chirurgia plastica a Palermo: «Il 90% delle persone che si rivolge a noi sono uomini in partenza. Anche padri di famiglia 50enni. La maggior parte ha un' istruzione di scuola media; chi ha maggiori possibilità economiche si opera all' estero per poi fare i ritocchi in Italia». Il centro che fa più interventi è quello di Pisa. «Nel 2011, quando abbiamo iniziato, facevamo 6 operazioni all' anno, oggi sfioriamo le 60 - spiega Girolamo Morelli, urologo di fama internazionale - con 4 sedute a Pisa e due a Firenze. La fascia più rappresentativa sono i 20-30enni. E vengono da noi anche molti adolescenti con i genitori».
I minori. Uno dei centri più attenti ai minori è quello di Torino, dove nel 2012, grazie alla collaborazione del Cidigem con la Neuropsichiatria infantile dell' ospedale Regina Margherita, è iniziata la presa in carico di ragazzi in età evolutiva. «In sei anni sono stati seguiti 122 minori - spiega Giovanna Motta, endocrinologa nello staff del professor Ezio Ghigo al Cidigem - Dietro c' è una grossa sofferenza: ci sono casi di autolesionismo, minacce di suicidi, ragazzi che lasciano la scuola. È un dolore che si percepisce. La disforia può esordire già in età prescolare-scolare, e ha esiti clinici diversi. Il tasso di persistenza dall' età infantile all' adolescenza varia dal 12 al 27%. Al contrario, quando il disagio si manifesta più avanti, in pubertà, raramente sparisce, anzi persiste in età adulta». Essenziale quindi non sottovalutare i segnali del disagio sin da piccoli.
Complicazioni post intervento. La delicatezza delle operazioni, in particolare vaginoplastiche e falloplastiche, comporta un margine di rischio legato alla buona riuscita degli interventi. Non a caso gli specialisti italiani si aggiornano nei centri europei più all' avanguardia quali Belgrado, Londra e Gand, oltre che in Thailandia. «C' è una piccola percentuale di complicazioni, un 10% - spiega l' urologo Morelli - Il rischio nelle nuove donne è che la cavità vaginale si richiuda. Per questo a Pisa e Firenze pratichiamo la tecnica della colonvaginoplastica, usiamo cioè un' ansa del colon invece della pelle dello scroto e del pene. Così facendo, riusciamo a dare alla nuova vagina 15 anziché 12 centimetri di profondità e una maggiore elasticità». Complessa è anche la falloplastica, che a volte può causare un rigetto o infezioni. «I casi gravi di rigetto sono 2-3%», spiega Cordova. «È importante che le Regioni capiscano il valore di avere équipe specializzate nel dare una risposta a chi chiede la riassegnazione del genere, e il Piemonte da questo punto di vista è avanti - nota l' endocrinologa Giovanna Motta - Spesso ci ritroviamo a dover intervenire su pazienti che hanno fatto interventi in ospedali non specializzati e che hanno avuto problemi enormi. È invece essenziale rivolgersi a un centro competente». Oggi il paziente nella scelta è aiutato anche da social e forum in cui confrontarsi e postare foto dei risultati post-operatori.
La sessualità. cambia Ma cosa succede dopo gli interventi, quando inizia la nuova vita? Ci sono rischi di instabilità mentale? Risponde Chiara Crespi, psicologa clinica, esperta in sessuologia, del Cidigem di Torino: «Se le persone hanno fatto un buon percorso, la qualità della vita per loro migliora. In caso contrario, si corre qualche rischio in più. Fondamentale è intraprendere un iter con professionisti formati che sappiano accompagnare la persona in ogni fase». Un aspetto importante è l'approccio alla nuova sessualità: «Molto dipende da come si viveva l' intimità prima del percorso di transizione. Ci sono transgender che non riescono a spogliarsi davanti al partner - spiega la specialista - che superano questo freno dopo la terapia. Parlando in generale, dopo l' operazione si modifica la percezione del desiderio e del piacere, cambiamento che inizia con la cura degli ormoni durante la quale di solito le donne che diventano uomini dicono di avere più desiderio, mentre all' opposto si rileva un abbassamento della libido. In realtà si tratta di un cambio di forma. È quindi importante fare un lavoro sessuologico, partendo dall' autoerotismo, per sperimentarsi nella nuova fisicità». L' Asuits di Trieste eccelle nella chirurgia plastica di mascolinizzazione del torace per chi diventa uomo. «A seconda del tipo di ghiandola mammaria ci sono due tipi di intervento - spiega Vittorio Ramella, chirurgo plastico a Trieste - Uno lascia più cicatrici e l' altro meno, è il corpo del paziente che determina la scelta. E molti fanno solo quell' operazione. Non tutti hanno bisogno del fallo per sentirsi sereni, a molti basta mettersi una maglietta per andare in palestra o in spiaggia. Per questo ci sono persone che mantengono l' apparato esterno vaginale, togliendo utero e ovaie e adeguando il torace. Ognuno vive la sessualità in modo diverso».
C'è chi si pente? Le operazioni sono irreversibili. Il pentimento esiste, ma è raro. «Dal 2013 ad oggi a Palermo ho avuto un solo caso di un uomo di 30 anni che, una volta operato, mi ha detto avrebbe rivoluto il suo pene», dice Cordova. Ma è un' eccezione. «Una decisione del genere non è mai improvvisata - spiega la psicologa Crespi - E c' è chi aspetta per vergogna o perché vuole una famiglia, ma il desiderio di sentirsi se stessi è radicato». È una rinascita. E basta ascoltare Maria Stefania Migliore per convincersene: «Questi 5 anni sono stati bellissimi, non ho avuto problemi di pregiudizi, i miei e gli amici mi hanno sostenuto. Sì, lo rifarei». Perché come diceva Kafka, "da un certo punto in avanti non c' è più modo di tornare indietro. È quello il punto al quale si deve arrivare".
Como, «non può essere il papà perché è diventato una donna». Pubblicato venerdì, 18 ottobre 2019 su Corriere.it da Anna Campaniello. Congela il seme e cambia sesso. Paternità negata a due donne. È scontro con il Comune lariano. Il contenzioso approderà a novembre in Tribunale. Lei era lui, in una vita precedente nella quale non si riconosceva. Oggi è una moglie e una mamma. Ma chiede al Comune di Como, solo per l’anagrafe, di essere riconosciuta come il papà del suo bambino. Un figlio che cresce con due mamme, ma che ha un padre biologico che vorrebbe essere indicato come tale. La richiesta è «irricevibile» per l’ufficiale dell’anagrafe di Palazzo Cernezzi, che nega la registrazione e ribadisce di non poter certificare la paternità di una donna. La coppia non si arrende e fa causa al Comune di Como. La parola passa dunque ai giudici per un caso che, comunque vada, è destinato a fare scuola e va ad inserirsi in quel vuoto normativo che sempre più spesso in Italia costringe uomini e donne ad appellarsi ai tribunali per vicende che incrociano leggi ed etica, norme e sfera privata e familiare. Il caso coinvolge due donne, residenti nel capoluogo comasco, che si sono sposate qualche tempo fa. Un’unione civile celebrata in Comune a Como. Una di loro era un uomo che ha scelto poi di cambiare sesso e ha completato il percorso fino al cambiamento totale di identità. Prima di avviare quel percorso, l’allora uomo ha scelto di congelare il seme per un eventuale utilizzo futuro. Dopo il matrimonio, la coppia decide di avere un figlio e la strada scelta è quella della fecondazione assistita facendo quindi ricorso al seme dell’uomo, che a tutti gli effetti è dunque il padre biologico del bimbo partorito dalla compagna. Il caso si apre quando, dopo la nascita del piccolo, la coppia si presenta all’ufficio anagrafe del Comune di Como e una delle due mamme chiede di essere indicata come papà del bambino. La donna spiega di essere a tutti gli effetti padre del piccolo e considera dunque un diritto il riconoscimento di quello che è un dato di fatto. È altrettanto netto però il rifiuto dell’ufficiale dell’anagrafe. Per il funzionario, non è possibile in alcun modo, normative alla mano, indicare come padre una persona di sesso femminile. Il dirigente di Palazzo Cernezzi rifiuta la registrazione e non cambia opinione neppure davanti alla decisione della donna comasca di rivolgersi al Tribunale. La coppia si oppone alla decisione del Comune e il delicatissimo scontro approderà il mese prossimo in un’aula del tribunale di Como. Qualunque sarà la decisione finale del giudice, il caso aprirà l’ennesimo fronte giuridico sul tema dei diritti delle coppie dello stesso sesso e dei loro figli. Per il Comune di Como, che sulla vicenda preferisce non rilasciare dichiarazioni in attesa del giudizio del Tribunale, non c’erano assolutamente alternative alle vie legali perché non sussistono le condizioni per accogliere la richiesta della donna. Per ottenere il riconoscimento di quello che è un dato di fatto dunque, ovvero la paternità biologica, la donna non ha altra scelta che appellarsi a un giudice che attesti il suo essere mamma e al contempo padre.
SESSI GIREVOLI. Paolo C. Brera per “la Repubblica” il 14 ottobre 2019. Storia di Alessio, proprietario del supermercato che sposa Valentina, operaia al cantiere navale: poi lui diventa Alessia e lei diventa Davide, e per la prima volta al mondo la giudice che riconosce il duplice cambiamento di sesso ordina all' anagrafe di ratificare la validità - a ruoli invertiti - del loro matrimonio. Ora Davide è il marito, Alessia la moglie: insieme alla loro avvocata Cathy La Torre, il 3 ottobre hanno conquistato nel tribunale di Grosseto un diritto civile inedito. Alessia è «nata donna in un involucro sbagliato, che per fortuna con la scienza ho potuto correggere». Davide, che è «nato uomo nel corpo di Valentina, con il quale a scuola giocava a pallone e vestiva da maschietto - racconta Alessia - con la famiglia ha dovuto affrontare le mie stesse difficoltà. Ho sempre vissuto a Orbetello. La scuola? Un incubo, sopratutto le medie: andavo vestita da maschietto, ma fin dall' asilo mi piacevano i tacchi e le collane, e adoravo le bambole. Professori e compagni non capivano che un bambino possa sentirsi bambina, rispecchiandosi in un' anima femminile. Per loro sei effeminato, sei gay; ma io non ho mai provato attrazione per i gay». È molto bella, Alessia. Ed è un bel ragazzo anche Davide, 24 anni, quattro meno di lei. «I pregiudizi sono ancora forti: se sei trans pensano tu sia una prostituta, ma io sono lontanissima da quel mondo. Vengo da una famiglia benestante, ho comprato un supermercato e ho guadagnato molto. Quando ho cominciato a chiamarmi Alessia la gente era scettica. Orbetello è un paese, ci conosciamo tutti. Mi truccavo, hanno visto il seno che cresceva... Passavano in auto davanti al supermercato e si voltavano a guardare "il trans". Ma io sono sempre stata molto sobria nel vestire. Sono una ragazza semplice, amo gli animali, faccio la spesa, pulisco casa, vado al lavoro come tutti. Alla fine hanno capito». È nel supermercato che ha conosciuto Davide. «Era in vacanza all'Argentario. Aveva iniziato la transizione in senso opposto al mio. Un colpo di fulmine, mi sono innamorata e gli ho fatto conoscere i miei: è il primo fidanzato che ho portato a casa». Anche lì, in famiglia, è stata dura: «Mio padre non mi ha mai accettata, ed è uscito dalla mia vita. E lo stesso è successo a Davide con sua madre, che non accettava che Valentina non esistesse più. Nemmeno lei c'era al nostro matrimonio, il primo matrimonio transgender in Italia: 6 febbraio 2016, avevo il vestito bianco, ero felicissima. Il giorno più bello della mia vita. Ma i nomi erano sbagliati ». Alessio in abito bianco sposava Valentina con la cravatta. «Pure l' assessore sbagliò», sorride Alessia. Restavano quei nomi da correggere, e non era un piccolo particolare: «Ero stufa di avere sui documenti un nome che non mi appartiene più, di dare spiegazioni ogni volta che vado da un medico. Ho lavorato da un commercialista: all' Agenzia delle entrate col codice fiscale ti stampano il cartellino col nome. Alessio. "Che sbadati, hanno messo la "o" invece della "a"». Ma pare facile, cambiare: la legge non aveva precedenti. «È una sentenza straordinaria in senso giuridico e sociale - dice l'avvocata la Torre - e farà giurisprudenza». Se un solo coniuge è in transizione, il matrimonio va sciolto o trasformato in unione civile. Se due fidanzati hanno cambiato sesso, il matrimonio è lecito ma il processo è lunghissimo: servono il riconoscimento medico della "disforia di genere", il cambiamento fisico con gli ormoni e le eventuali operazioni, infine il passaggio non scontato in tribunale. Alessia e Davide erano troppo innamorati per attendere. Ma che fare col loro matrimonio, ora che certificano la transizione? «Partendo da una sentenza della Corte costituzionale (170 del 2014), la giudice - spiega l' avvocata - ha sancito che va tutelato l' amore: ha ordinato la prosecuzione del vincolo, disponendo allo stato civile di aggiornare i nomi dei coniugi nei nuovi ruoli». Un precedente importante per le altre coppie "switch": «Spesso i transgender si innamorano tra loro - spiega La Torre - perché dal punto di vista relazionale ed emotivo è difficile presentarsi agli altri». Intanto, Davide e Alessia la battaglia l' hanno vinta; «Salvini disse che non voleva vedere famiglie come la mia. Ha fatto più legge la nostra sentenza che il suo anno al governo».
''ESSERE DONNA NON È UNA QUESTIONE DI GENITALI''. Luisa Grion per “la Repubblica” il 22 giugno 2019. Per lo Stato è ancora Andrea, per la sua azienda è già Anna Maria. Essere transessuale è fare carriera in una multinazionale è possibile. «Non è semplice, ma se famiglia, scuola, datore di lavoro stanno dalla sua parte la vita di una trans può essere normale, anzi, di successo». Anna Maria Antoniazza ha appena compiuto 39 anni, alle spalle ha due lauree all' Università Cattolica di Milano, Economia e Giurisprudenza. Esperta in diritto delle tecnologie informatiche, robotica e intelligenza artificiale , oggi è una contract manager di Accenture, multinazionale di consulenza e direzione strategica. Fra i suoi principali clienti ci sono le più grandi compagnie di assicurazione. Fino ai 32 anni Anna Maria ha convissuto con il fatto di essere nato maschio, registrato all' anagrafe con il nome di Andrea. Poi ha dato avvio al suo periodo di transizione: due anni di trattamenti ormonali e sedute di psicanalisi che l' hanno trasformata in una donna.
Perché ha iniziato così tardi?
«Perché solo dopo essermi laureata due volte ed essere diventata manager ho deciso di affrontare lo scontento e il senso di solitudine che mi trascinavo dietro. Facevo sempre più fatica a vestirmi da uomo sul lavoro e da donna nel tempo libero ed è stato allora che i miei amici mi hanno indirizzato all' ospedale San Camillo Forlanini di Roma . Li ho è iniziato il mio percorso per la transizione di genere».
Fino allora come aveva vissuto ?
«La mia omosessualità è sempre stata evidente, ma la famiglia mi ha sempre capita e protetta. Alle elementari c' è stato il primo impatto con la realtà esterna: ero il classico bambino/bambina e venivo bullizzato dai compagni di classe.
Alle medie i miei genitori, per evitarmi traumi, mi hanno iscritto alla Dante Alighieri, seminario vescovile di Crema».
Ha avuto problemi in una scuola cattolica?
«Per nulla, ci sono stata benissimo. Ma ero un ragazzo molto riservato, passavo i pomeriggi in biblioteca, un vero secchione. Lo stesso all' Università: tanto studio, poca vita sociale. Non ho mai avuto particolari problemi, ma devo anche dire che stavo molto sulle mie e rifuggivo da qualsiasi possibilità di scontro».
In famiglia come hanno preso la sua decisione di cambiare sesso?
«Bene. Mia madre mi ha detto: "Era ora che ti decidessi"».
E suo padre?
«Ho capito che mi aveva completamente accettata quando, dopo qualche mese di cura ormonale mi ha detto: "Sei diventata bella come mia sorella da giovane". Oggi rivolge a me le classiche raccomandazioni da padre a figlia: "Stai attenta, prendi un taxi se fai tardi la sera, tutto bene con il fidanzato? "».
Quindi ha un fidanzato?
«Sì, da tre anni, una bella storia».
E consapevole di essere stata molto fortunata?
«Si, ho avuto una famiglia fantastica, a partire dalla nonna. Sono figlia unica di due genitori sessantottini, molto attenti alle mie esigenze. Mia madre gestisce un' azienda di trasporti, mio padre è un artigiano della termoplastica, entrambi mi hanno spinto a crescere e a studiare, senza mai entrare in modo aggressivo nelle mie dinamiche intere, pur avendole ben presenti ».
E sul lavoro niente discriminazioni?
«No, al contrario, Accenture mi ha aiutato. L' azienda aderisce a programmi volti a valorizzare tutte le differenze e identità di genere, orientamento sessuale, età, religione. Convinti che un buon clima interno favorisca la qualità del lavoro. Appena ho comunicato che volevo affrontare la transizione di genere, senza attendere la comunicazione del tribunale hanno cambiato mail, credenziali per gli accessi al computer, biglietti da visita. In azienda, per tutti, sono Anna Maria».
Per lo Stato invece è Andrea.
«Ancora per poco, dopo sei anni di attesa il tribunale mi ha appena comunicato di aver accettato tutta la mia documentazione, e quando la sentenza sarà pubblicata, massimo 60 giorni, anche per lo Stato sarò una donna».
I suoi clienti come la trattano?
« Bene, pochi problemi facilmente risolvibili. Sono valutata da loro per quello che so fare, non per come mi presento. Sono brava? Si possono fidare di me ? Risolvo i loro problemi? Bene. Il resto conta poco. E comunque ripeto: molta riservatezza. Molta sobrietà e discrezione nel comportamento, nell' abbigliamento, nel linguaggio. E un po' di autoironia specialmente nella fase di transizione».
Sobrietà prima di tutto. È contraria al Gay pride?
«No, va benissimo, ma poi nella vita quotidiana credo che gli eccessi non paghino».
Tutto perfetto, la sua sembra una favola. Eppure nel mondo transessuale c' è sofferenza, emergere è difficile, la grande maggioranza vive di prostituzione. Davvero per lei è stato così facile?
«Ma quale favola! È chiaro che vivere fra Milano, dove sono nata, e Roma, dove lavoro, mi ha facilitato, ma il percorso è stato lungo e faticoso. Non è facile imbottirsi di ormoni e vedere il tuo corpo cambiare . Ti senti sempre stanco, i farmaci mangiano la muscolatura e avviano verso un pericoloso percorso depressivo . Non avresti voglia di alzarti e devi lavorare, affrontare i tuoi clienti con una barba a chiazze, il seno incompiuto, i capelli che crescono troppo lentamente. Due anni durissimi . Ma il confronto più difficile è stato quello con me stessa».
Perché?
«Perché gli altri sapevo come affrontarli. Sono effeminato da sempre, so come difendermi e come non cacciarmi nei guai. Ma guardarsi allo specchio, non essere più Andrea e non ancora Anna Maria è stato doloroso».
Ha conservato qualche vestito da uomo?
«No, un bel giorno mia madre è piombata a Roma , ha svuotato gli armadi e mi ha costretta a rifare completamente il guardaroba. Mi sentivo Pretty woman».
Secondo lei quando è diventa donna anche agli occhi degli altri?
«Quando, grazie alla laser terapia, la mia barba è sparita».
Lei non si è operata. Pensa di affrontare anche la riattribuzione chirurgica del sesso?
«Per il momento no, non mi sento pronta. Essere donna non è una questione di genitali e non si cammina nudi per strada».
«Così ho aiutato mio figlio minorenne a diventare donna». Pubblicato mercoledì, 31 luglio 2019 da Francesca Visentin su Corriere.it. «A tre anni voleva giocare solo con le bambole. E i cartoni animati dovevano essere principesse: Biancaneve, Ariel, Aurora. Se le arrivava un regalo che non fosse una bambola, piangeva e si arrabbiava. Crescendo, cercava nei miei armadi foulard per realizzare vestiti eleganti con lunghi strascichi e faceva piroette come fosse al gran ballo di corte. L’unico regalo che chiedeva a Babbo Natale era diventare una bambina…». Il racconto di mamma Mariella Fanfarillo è preciso. La scelta di Olimpia, parte da lontano. Piccolissima, si sentiva già femmina e lo dimostrava in ogni modo. Una consapevolezza solida, che l’ha portata a 16 anni a iniziare la sua transizione di genere e ottenere in poco più di un anno, da minorenne, il riconoscimento del cambio anagrafico di sesso, da maschio a femmina, senza l’obbligo dell’operazione. Il secondo caso in Italia. Una battaglia per il diritto di essere quello che sentiva, sempre appoggiata dalla sua famiglia. Ma è lunga la lista di sofferenze che Olimpia ha affrontato fin da piccolissima: pregiudizi, insulti, bullismo, discriminazione. Un percorso a ostacoli che mamma Mariella ha raccontato nel libro Senza rosa nè celeste. Diario di una madre sulla transessualità della figlia (Villaggio Maori edizioni), che giovedì 1 agosto presenta al Padova Pride Village.
Come genitori avete fatto voi la richiesta di cambio di sesso di Lorenzo al tribunale, perché ancora minorenne. È stata una decisione sofferta?
«Era l’unica decisione possibile — racconta Mariella Fanfarillo —. Tanti mi hanno attaccata dicendo “è troppo piccola”. No, era l’età giusta. Se avessi aspettato ancora le avrei tolto altri anni di vita. Soffriva fin dai primi anni di età nel sentirsi intrappolata in un corpo che non corrispondeva all’identità di genere femminile in cui da sempre si è riconosciuta. Così come da piccola se le avessi tolto le bambole avrebbe sofferto, da adolescente se avessi rimandato la transizione di genere l’avrei condannata ad altri anni di dolore».
Quando avete iniziato a capire quello che stava succedendo in Lorenzo?
«Subito. I primi anni dopo la nascita. Era come se avessi avuto una bambina biologica, ma in un corpo maschile. Solo che allora di varianza di genere non se ne parlava, non sapevo nemmeno che esistesse. Ma vedevo come si comportava mia figlia, le sue richieste, la sua sofferenza. Sono stata una mamma autodidatta, mi sono informata, ho imparato tutto sull’argomento. Per me la transizione ha significato sostenere e accompagnare mia figlia, cambiare insieme a lei. Anche per suo padre che è un militare non è stato facile, ma poi l’ha totalmente appoggiata».
Olimpia oggi ha 19 anni, è una bellissima ragazza, diplomata con il massimo dei voti, ha trovato anche l’amore. Com’è stata l’adolescenza, quand’era nella gabbia di un corpo maschile?
«Le elementari, ma soprattutto le medie e i primi anni delle superiori sono stati un vero inferno. Prese in giro, insulti, bullismo. La scuola purtroppo non sa accogliere, i primi a discriminare sono stati gli insegnanti. Un docente di educazione fisica la chiamava “Signorina” in maniera ironica e dispregiativa davanti a tutta la classe. E tanti “frocio”, “finocchio” urlati dai compagni, non venivano mai ripresi. I ragazzi non sono educati ad accogliere. Non aveva amici. Un insegnante mi ha detto: “Ma sono ormai termini sdoganati dal linguaggio comune, non bisogna prendersela”. C’è stata anche un’aggressione fisica. Insomma, anni di grande sofferenza in cui mia figlia non voleva più uscire di casa e rifiutava di andare al mare o in piscina per l’incubo di mostrare un corpo che non sentiva appartenerle».
La decisione di affrontare la transizione di genere, quando è stata presa?
«A 13 anni circa è iniziato il sostegno con una psicologa, ma è stato a 16 anni che mia figlia mi ha detto: “Mamma, l’hai capito vero che sono donna?”. A quel punto abbiamo iniziato il percorso di adeguamento tra identità fisica e identità psichica. La richiesta abbiamo dovuto farla noi genitori perché lei era minorenne. È iniziata una nuova battaglia: le avevo promesso che in un anno avrebbe ottenuto la sentenza (tempi record) e ho fatto l’impossibile per esaudire il suo desiderio. Mi sono messa contro al mondo. Ce l’abbiamo fatta. Anche grazie al nostro avvocato. È una sentenza rivoluzionaria: un ragazzino minorenne considerato in grado di decidere della sua vita. E il cambio dei dati anagrafici e dell’identità di genere è stata riconosciuta anche senza l’intervento di demolizione e ricostruzione chirurgica del sesso, che equivale a una sterilizzazione forzata e oggi è interpretato come lesivo della libertà».
Perché raccontare tutta la storia in un libro?
«Voglio dare un messaggio positivo che sia una speranza per i ragazzini che si sentono intrappolati in un sesso biologico che non gli appartiene. E per i genitori confusi, feriti, impotenti nel relazionarsi con figli che vivono la disforia di genere. Voglio portare questo libro nelle scuole, può fare formazione pedagogica. Ho già avuto tanti incontri con i ragazzi, informare è importante per evitare discriminazioni. Spiegando, si possono aprire gli occhi alle persone, allontanare paura, diffidenza, violenza. È anche il motivo per cui mi sono buttata a capofitto nell’attivismo su questi temi: la diversità non è pericolosa, è fonte di arricchimento».
Sessualità, transgender un giovane su quaranta. «I dati ufficiali sono sottostimati». Pubblicato mercoledì, 19 giugno 2019 da Agostino Gramigna su Corriere.it. «Confesso che non me l’aspettavo. Non pensavo che il dato potesse esser così alto». Invece i numeri raccolti dal professore Carlo Foresta, Ordinario di Endocrinologia all’Università di Padova e dalla sua Fondazione in tre Regioni dicono che un giovane italiano su quaranta si definisce transgender o gender-fluid. Superiore al due per cento (2,3% per l’esattezza), ovvero ben oltre la media ufficiale nazionale che l’Istituto Superiore di Sanità fa oscillare tra lo 0,4 e l’1,3%. Stiamo parlando delle persone (transgender) che non si riconoscono nel proprio sesso. In due anni, dal 2018 e 2019, la Fondazione Foresta ha distribuito 5.300 questionari anonimi a giovani di età compresa tra i 18 e 21 anni in tre regioni: Veneto, Puglia e Campania. Tra le diverse domande sui comportamenti sessuali ce n’era una specifica sull’identità di genere ( «come la definiresti?»). Ebbene, come detto, uno su quattro ha risposto di «sentirsi» transgender. «Il dato, che non si discosta da quello nazionale, è molto interessante — spiega il professore — perché ci dice che il fenomeno ha una dimensione sommersa, che va bel oltre la realtà quantificata dai dati ufficiali» (e domani a Padova la Fondazione terrà un convegno al Teatro Ruzante proprio su questo tema dal titolo: Caleidoscopio transgender»). Secondo i dati del Centro di Medicina di Genere dell’Istituto Superiore di Sanità, infatti, le persone transgender in Italia sono circa 400 mila. Si tratta di una stima, perché non è semplice studiare e circoscrive il fenomeno per le mille difficoltà ambientali, sociali e psicologiche che gravano su di esso. «Sono molti i pregiudizi sulla salute delle persone transgender che spesso tengono riservata la loro condizione». Il professore precisa che lo studio non ha trovato differenze tra scala regionale e nazionale e che il dato si riferisce solo ai giovani tra i 18 e 21 anni. «Oltre alla percentuale mi ha sorpreso la loro risposta chiara, senza tentennamenti —sottolinea Foresta —. Perché a quell’età di solito non si ha ancora consapevolezza dei propri comportamenti sessuali». Il sommerso dipende ancora da pregiudizi con cui deve lottare la persona transgender. Non è agevole mettere al corrente la propria famiglia e la società; soprattutto è molto difficile trovare nelle istituzioni dei centri in grado di comprendere e accompagnare questo tipo di percorso. Fino a non molto tempo fa la condizione transgender era considerata come un disturbo del comportamento, al pari di una malattia mentale. Solo di recente è stata derubricata e assegnata ai disturbi della salute sessuale. «È vero che la salute delle persone transgender è sempre più attuale nella programmazione sanitaria ma i numeri fino ad oggi noti rappresentano un dato ampiamente sottostimato». Foresta cita uno studio europeo, «Transgender EuroStudy»: «Riguardo alla loro transizione di genere, molte persone non trovano risposte adeguate da parte di medici e psichiatri».
Drag queen all’evento per bambini patrocinato dal Comune: «La diversità va rispettata». Pubblicato martedì, 06 agosto 2019 da Corriere.it. La locandina promette «racconti senza barriere», storie per bambini e bambine «con le drag queen Priscilla e La notte brilla». Cremona, 5 agosto, appuntamento al Parco didattico scout di via Lungo Po Europa. Una serata per i più piccoli – organizzata da Arci Cremona con il patrocinio e la collaborazione del Comune – finita al centro delle polemiche. Ad alzare la voce per primo è Alessandro Zagni, consigliere comunale della Lega, che ha affidato a un post su Facebook il suo disappunto: «All’Arci Festa una drag queen intrattiene i bambini con i racconti senza barriere – ha scritto nelle scorse ore –, il tutto con il patrocinio e la collaborazione del Comune. Sono questi i riferimenti della sinistra per la crescita dei nostri figli?». Sotto al post, centinaia di commenti. C’è chi scrive: «Perché dovrei insegnare a mio figlio che può andare in giro vestito come una donna? Perché è questo il messaggio che arriva ai bambini, e cioè che sono maschi ma si possono vestire da donna e atteggiarsi come una donna» e chi commenta: «Ma perché no? Potrebbero essere persone fantastiche, forse aiuterebbero a non diffidare e a non giudicare sempre il diverso». Gli organizzatori della serata rispondono poche ore dopo con una frase di Paulo Freire: «Nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, gli uomini si educano insieme, con la mediazione del mondo», poi precisano: «Crediamo che le diversità siano una realtà inevitabile da riconoscere e rispettare. Possiamo scegliere come vivere il nostro rapporto con le diversità: amare il prossimo, per noi, non prevede discriminazioni o pregiudizi. Il bene degli altri è anche il nostro e la felicità è un presupposto irrinunciabile per relazioni sane, aperte, umane». Zagni aggiunge: «Non ho nulla contro lo spettacolo e men che meno contro le drag queen. Semplicemente ritengo che il patrocinio e il contributo del Comune sia fuori luogo, tutto qui. Personalmente credo che l’accettazione della diversità, che va insegnata, non debba passare attraverso momenti come questo, ma piuttosto attraverso percorsi più strutturati». Dal Comune di Cremona dicono: «Abbiamo dato il patrocinio alla manifestazione nel complesso, ad Arci Festa, come avviene da anni. Non entriamo nello specifico del programma di ogni singola iniziativa prevista».
TRANSCHOOL! Costanza Cavalli per “Libero Quotidiano” il 17 maggio 2019. La scuola Amaranta Gómez Regalado di Santiago del Cile ha aule e professori, l' età degli studenti che la frequentano va dai 6 ai 17 anni: s' insegnano matematica, scienze, storia, geografia e inglese, si fanno laboratori di arte e fotografia, si possono sostenere gli esami di Stato. Sembra una scuola come tutte le altre, eppure in una cosa non lo è: più di metà degli alunni è transgender. L' istituto non riceve finanziamenti statali, è nato nell' aprile del 2018 grazie alla fondazione per i diritti civili "Selenna": Evelyn Silva, la presidente della fondazione, e la coordinatrice scolastica Ximena Maturan hanno finanziato il primo anno di attività con i propri risparmi, e gli insegnanti sono tutti volontari. Silva e Maturan, inoltre, hanno assunto una ditta di pubbliche relazioni nel tentativo di raccogliere fondi extra e hanno fatto domanda per una borsa di studio da 2mila dollari finanziata da un' associazione transgender internazionale. A partire dal marzo scorso, intanto, le famiglie hanno cominciato a pagare sette dollari al mese per permettere al loro bambino di frequentare i corsi. «Siamo noi adulti a imporre ai bambini di essere maschio o femmina», racconta Evelyn Silva all' emittente inglese Bbc, «ma a volte loro semplicemente non lo sanno. Il genere non è così statico come pensiamo noi e i bambini sono molto più liberi di una persona matura». Dei trentotto studenti che frequentano la scuola cilena, che prende il nome dal politico transgender messicano e attivista Lgbt Amaranta Gómez Regalado, una ventina si dichiarano trans, i rimanenti dicono di essere "cisgender", cioè a proprio agio con il proprio genere biologico. Le classi sono due: una per i maggiori di dodici anni e una per i più giovani. Molti degli iscritti sono arrivati alla Amaranta dopo che il sistema educativo tradizionale li aveva "rigettati": «È difficile avere una persona transessuale in classe se nessuno ti ha mai parlato di quel concetto», spiega Angela, 16 anni, mentre descrive la sua vecchia scuola, «Le persone sono confuse, durante la ricreazione ti chiedono che cosa sei». «Volevo morire», prosegue Angela, che è stata vittima di bullismo, «quello che mi hanno fatto mi faceva sentire orribile». «Qui sono felice», ha dichiarato un allievo di sei anni, «perché ci sono molti altri bambini come me». I bambini trans, spiega la presidente Silva, spesso, nelle scuole "ordinarie" saltano le lezioni e non riescono nemmeno a portare a terminare gli studi a causa della discriminazione e del bullismo che viene esercitato nei loro confronti. Secondo un rapporto Unesco del 2016, la violenza omofobica e transfobica nelle scuola causa «pesanti disturbi nello sviluppo delle persone colpite, e quindi anche nella convivenza scolastica, nell' apprendimento, nel rendimento e, infine, nella loro permanenza» nell' istituto. Anche nel Vecchio Mondo c' è grande incertezza su come comportarsi con i minori soggetti alla cosiddetta "disforia di genere", coloro cioè che non si riconoscono nel proprio sesso biologico (indipendentemente dall' orientamento sessuale). Molte sono le polemiche: secondo una clinica londinese, un terzo dei loro giovani pazienti transgender manifestano «tratti autistici moderati o gravi»; in realtà, prende sempre più piede la tesi che sostiene la necessità di superare il periodo della pre-pubertà e della pubertà prima di compiere qualsiasi passo verso il cambio di sesso. Per lasciare il tempo di decidere al minore fino alla maggiore età, è aumentato l' utilizzo della triptorelina, il farmaco che ritarda lo sviluppo puberale nei ragazzi tra i 12 e i 16 anni. In Italia, l' ospedale Careggi di Firenze lo adopera dal 2013 e dall' anno scorso l' Agenzia italiana per il farmaco l' ha inserito nell' elenco dei medicinali a carico del Servizio sanitario nazionale. In Cile, che è un Paese molto conservatore, non è sempre stato così: il Cattolicesimo rimane la religione dominante (nonostante lo scandalo degli abusi sessuali e il seguente insabbiamento che, venuto alla luce, l' anno scorso ha costretto alle dimissioni tutti i vescovi). Il divorzio è stato legalizzato nel 2004, nel 2012 è stata promulgata una legge contro le discriminazioni, il divieto di abortire è stato revocato nel 2017. Di recente, però, è stata emanata una legge che consente ai bambini transgender sopra ai 14 anni di cambiare nome e sesso nei documenti ufficiali, con il consenso dei genitori o dei tutori. La materia preferita dagli studenti della scuola Amaranta? L' inglese: «Perché non richiede un finale maschile o femminile quando si parla di persone», spiega una studentessa di nome Fernanda, «non è mai necessario cambiare il sesso di una parola. È bellissimo».
ROCCO TANICA VI SPIEGA IL PROBLEMA DEL GENDER E DEL #METOO. Dagospia. Rocco Tanica per Medium.com l'11 maggio 2019. Tutti ultimamente a parlare di tematiche sensuali, manco fossero una novità di adesso. La sensualità era presente già quando ero giovane, anche se con meno problematiche e meno generi. Per noi dell’egemonia culturale di sinistra toccare l’argomento è come camminare sulle uova. Non riesci mai a fare contenti tutti: e quelli che si frustano con le alghe, e quelli che si aggrappano fra maschi, e le donne che si fanno solo ditalini, e gli uomini che si vestono da donne e sopra gli abiti da donna indossano vestiti da uomo e sopra a tutto mettono ancora capi da donne (= tre strati), e quell’uomo con sua moglie (prov. di Sondrio) che sono pure anche usciti sui giornali, e quegli ermafroditi proterandrici (orate) che dopo avere sviluppato i gameti femminili vogliono essere chiamate Afrodite, e la ragazza di Ravenna che ha compiuto un difficile percorso di transizione ma oggi è finalmente, per tutti, Fausto. E i milioni di persone che ogni giorno nel mondo si depilano solo un lato del corpo, e quelli che si fanno fare la piscia addosso ma restano fuori tiro di mezzo metro perché fa un po’ ribrezzo. Noi non siamo qui a condannare nessuno, anzi bravi tutti: il fetish delle tende e la tripsolagnia, la dendrofilia e il metterlo nell’oblò aperto della lavatrice, l’aizzare la propria bernarda, il fare giochi erotici di biasimo degli oggetti, il parlare sporco fra sé e tutto quanto. Ma non mi si dia del facilone, o del prevenuto, se dico che alla fine almeno un terzo di questi va a parare sull’argomento del posteriore. Premetto: i gender - lo dico per i meno ferrati nell’ambito “gender” - presi uno per uno sono bravi, poi li metti insieme e i casi sono due: o si pigliano bene o litigano o si aizzano a vicenda dando vita a nuovi e più complessi gender che alla fine chi ci capisce qualcosa è bravo. L’altro giorno ero in trattoria, vado a lavarmi le mani e c’erano cinque ritirate con rispettiva targhetta: uomini, donne, geometri (misto), transex attivi (anche nella vita) e C.S.I. Miami. E nonostante questo c’era in corridoio gente che rischiava di sporcare in giro perché non si sentiva rappresentata dal tipo di bagno. Fra tutti, i primi a piantare casini sono in genere quelli del gender neutro o non dichiarato. Questi comunque li chiami si offendono: una volta ho chiesto un’informazione a un neutro, scusi buon uomo, sa dov’è corso Romanov? E questo, apriti cielo: “Lei non si permetta di riferirsi a me come una persona, io mi identifico nel genere “cose”, categoria minerali. Ha capito gran pezzo di merda? Nel dettaglio sono un quarzo senziente, caro il mio puzzone e adesso chiamo il #MeToo dei quarzi e la sputtano per tutto il pianeta come abbiamo fatto con coso”. Lì per lì ho pensato: “Che bizzarria” e me la sono data a gambe. Quale non è stata la mia sorpresa nell’accorgermi che il presunto “quarzo” me lo stava buttando in quel posto, trotterellando meco. Più cercavo di svincolarmi e più s’approssimava. Lì non ci ho visto più e sempre più di corsa (staccandolo quel tanto che bastava ad allontanarmi dal suo membro eretto) gli ho detto chiaro e tondo che per me era una specie di maleducato rimbambito, a prescindere dal gender e mica gender. Meno male - checché potesse pensare di sé - che non era davvero un quarzo, altrimenti sai che bua. Un crisoberillo inserito ‘avete capito dove’ non agevola la corsa. Che poi okay non sarà un quarzo in senso stretto, tecnicamente è un alluminato del berillio e bla bla bla ma stiamo comunque parlando di sassi a punta là dove non batte il sole, scusate se mi chiamo fuori. E la faccenda del posteriore può dirsi esaurita. Vanity Fair mi ha dato carta bianca in questo. Ma ciò che mi ha dato più fastidio è che ‘sto tizio neutro abbia fatto riferimento al #MeToo con intento accusatorio nei miei confronti! Scusi caro, guardi che parla di un movimento che ho contribuito a creare e per il quale mi spendo in prima persona dall’inizio, anche per quelli come lei, acca venti. Come funziona il #MeToo: ogni mandamento segue le direttive dell’area di competenza, ma fra tutti cerchiamo di aiutarci più che si può. A noi del #MeToo europeo i colleghi americani o di altri continenti chiedono frequenti pareri. Noi facciamo lo stesso con loro, ma ogni sezione rimane autonoma e il #MeToo che so, neozelandese, per fare un qualcosa non deve informare i cinesi o noi che abbiamo la sede fiscale a Milano. Per cui non è raro che qualcuno se ne venga fuori con certe iniziative opinabili: il tal caso il dissenso interno è legittimo. Perché faccio tale premessa? Perché se da una parte riconosco ai miei colleghi di #MeToo il conseguimento di obiettivi validissimi come il rispetto della donna e via dicendo, dall’altra cioè aiuto: hanno preso certe derive da cui io - almeno come commissario europeo per questo semestre - mi dissocio:
La app per videofonino (Metooy) col riconoscimento termico che ti dice se un uomo ti sta guardando con affetto sincero oppure ti vorrebbe mettere la mano sul ginocchio (un algoritmo riconosce la verga turgida dall’irrorazione sanguigna delle orecchie). Nel secondo caso parte la musichina di K. Africa sul videofonino di tutti nel raggio di cinquanta metri e l’aggressore viene circondato e ridotto a mal partito. E se l’algoritmo sbaglia? Intanto un poveretto viene sottoposto a ludibrio solo sulla base di una app. Disponibile per Android, iOS e Openmoko. L’esasperazione del principio del “No means no” (no significa no) introdotto dalla Canadian Federation of Students (CSF) negli anni ’90: “Consenso significa […] l’accordo volontario ad indulgere in attività sessuale, senza che vi sia da parte di terzi abuso di fiducia o posizione dominante per potere o autorità, e/o attraverso coercizione o minacce; il consenso può essere revocato in qualsiasi momento.” Diamo per assodato che sia una buona idea. Ma poniamo ad esempio il caso di una coppia eterosessuale che abbia liberamente convenuto di praticare sesso. La donna chiede all’uomo di farsi un bocchino da solo. Lui acconsente. A metà del bocchino, per lo stupore dello snodato individuo, la giovane fa: “Basta, fermati”. Lui deve smettere o può continuare? Secondo l’ala dura del #MeToo americano deve smettere: lei ha revocato il consenso, e se lui continuasse negherebbe il diritto di lei di cambiare idea sul gradimento della visione di un auto-bocchino da parte del suo sodale o ex sodale. Io dico la mia. Penso che lei può anche uscire dalla stanza senza dare sui nervi alla gente, visto che l’iniziativa stramba di dire a uno di ciucciarselo da solo era sua (che quello si meriterebbe pure i complimenti che ci stava riuscendo, altro che #MeToo, e scusate lo sfogo).
· Comanda Vladimir Luxuria.
"IL BACIO CON ASIA ARGENTO? SUI SOCIAL SI E' SCATENATO L'INFERNO…” Da I Lunatici Radio2 il 12 giugno 2019. Vladimir Luxuria è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. Luxuria ha parlato del pride che si è svolto a Roma sabato e delle differenze di clima e contenuti rispetto al primo che si svolse venticinque anni fa: "Rispetto al primo pride del 94 cosa è cambiato? Non c'erano i carri, non c'era la musica, non c'erano i testimonial, perché i personaggi famosi si facevano un sacco di paranoie a mischiare la propria immagine con le battaglie dei diritti civili per gli omosessuali. Nel 94 andai in un ristorante a prendere Ricky Tognazzi e Simona Izzo, stavano mangiando all'aperto, li vidi, mi avvicinai e gli chiesi, visto che ci mancava un personaggio famoso, se avessero voluto fare un discorso. Loro furono favolosi, si alzarono dal tavolo, ci raggiunsero sul palco e fecero un discorso bellissimo. Oggi è diverso, c'è l'onda pride, i pride si svolgono anche in provincia e coinvolgono centinaia di migliaia di persone. E' diminuito l'aspetto più provocatorio, legato all'esibizionismo corporeo o ai cartelli che attaccavano la Chiesa. Oggi partecipano famiglie, amici, colleghi, ci sono tanti bambini". Luxuria, poi, ha commentato le dichiarazioni di Imma Battaglia, che ha detto che al Governo ci sono diversi omosessuali ipocriti: "Questa è una questione vecchia, antica. Represso è il gay che non lo ammette a sé stesso, e quindi non fa neanche sesso. Queste sono persone che di giorno parlano della famiglia, in Parlamento gridano al padre e alla madre, poi di notte calano le braghe. Non soltanto metaforicamente. Ci sono eccome. Rivestono ruoli di potere, hanno fatto della propria ipocrisia un mezzo per incassare popolarità e potere". Sul bacio con Asia Argento: "Avevamo avuto un aspro contro sulla questione legata al #metoo. Sia per malintesi sia perché entrambe abbiamo un carattere molto forte. Io ho fatto un passo indietro, ho chiesto scusa, ci eravamo già incontrate, avevamo già fatto pace. Io ero su un carro del pride, avevo appena tenuto un discorso, raccontavamo la storia di due ragazze aggredite a Londra su un autobus. Ci siamo date questo bacio contro la violenza, per dimostrare che un bacio non deve far paura a nessuno, che bisogna scandalizzarsi per la violenza, non per un bacio. Un bacio non ha mai fatto male a nessuno. Si è scatenato un inferno sui social per questo bacio, ma sti cazzi! Un uomo non lo posso baciare perché sennò...una donna non la posso baciare perché sennò...ma veramente qui se uno deve stare a pensare alla reazione dei social non può più uscire di casa. Quel gesto aveva un valore simbolico e politico contro chi vede ancora in un bacio un atto di esibizionismo e trasgressione. E poi volevamo far vedere a tutti che io e Asia sul terreno della violenza di genere stiamo dalla stessa parte".
Le Iene, Vladimir Luxuria sconvolge l'Italia: "Ecco le mie dimensioni". Sì, proprio quello, scrive il 17 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Appuntamento al buio per Vladimir Luxuria, ad organizzarlo Le Iene nella rubrica "Tinder Sopresa" di Mary Santanaro. Il programma di Italia 1 ha portato così Luxuria a parlare di sesso. E lei ha detto di tutto: "Sono andata con una donna. Ci siamo baciate con la lingua, le ho toccato il seno ma quando con la bocca è scesa lì sotto non si alzava niente”. Però abbiamo esplorato anche il lato sentimentale della vita di Luxuria, perché per una transgender è facile trovare sesso, "i curiosi sono tanti", ma è difficile trovare l’amore, "tra le lenzuola mi trattano come una principessa ma poi per strada si vergognano". E ancora, Vladimir ha rivelato anche le dimensioni del suo pene. "Io ce l'ho di 19 centimetri, tu?", la incalza la Santanaro. La risposta?
La confessione di Vladimir Luxuria: "Sono andata con una donna, ma...". Dopo essersi prestata come complice per uno scherzo organizzato da Le Iene, ai danni di alcuni utenti di Tinder, Vladimir Luxuria si è concessa ad una bollente intervista sul sesso, scrive Serena Granato, Giovedì 18/04/2019 su Il Giornale. In una nuova puntata de Le Iene, Vladimir Luxuria è diventata complice della produzione del programma, nell'organizzazione di uno scherzo ai danni di alcuni malcapitati e ignari utenti su Tinder. L'ennesimo momento pungolante registratosi su Italia 1, dopo gli scherzi che avevano viste protagoniste Taylor Mega e Valentina Nappi. Così, la nota opinionista televisiva si è lasciata abbandonare ad una lunga e bollente intervista, nel corso della quale non ha nascosto di avere avuto in passato una relazione saffica, finita male a livello sessuale. Vladimir Luxuria ha raccontato diversi aneddoti, concernenti dei momenti particolarmente intimi della sua vita privata. “Sono andata con una donna. Ci siamo baciate con la lingua, le ho toccato il seno e subito ho pensato: ‘Lo voglio pure io così’. Ma quando poi con la bocca è scesa lì sotto, non mi si alzava niente, sembrava che masticasse una cicca. Non mi eccitava”, ha così esordito l'ex-braccio destro di Alessia Marcuzzi, nell'intervista che l'ha vista aprirsi sulla sfera sessuale. “Perché non fare allora una cosa a tre?”, è stato il pronto quesito dell’intervistatore. “Una cosa a tre? Lo trovavo offensivo nei suoi confronti, come a dire ‘io riesco a penetrarti, solo se c’è un altro che mi penetra dietro'”, ha controbattuto Vladimir. Il noto volto transgender ha aggiunto di non essere stata molto fortunata nella vita, neanche con gli uomini. “A Praga c’era questo tassista che mi ha corteggiata, è salito in camera con me e ha iniziato a baciarmi con passione – ha raccontato-. Poi però, quando ha messo la mano giù e ha toccato ho visto proprio la sua espressione cambiare e lui che faceva il pugno. Sono riuscita a scansarmi e lui ha tirato un pugno al muro, che ha fatto una crepa che se io non mi fossi scansata mi avrebbe uccisa. Sono stanca di vivere la mia sessualità clandestina, vorrei un uomo che possa chiamarmi ‘amore’ anche a cena al ristorante senza vergognarsi”. La special guest star ha poi ammesso che per una transgender è facile trovare sesso, “i curiosi sono tanti”, ma diviene difficile trovare l’amore perché “tra le lenzuola mi trattano come una principessa, ma poi per strada si vergognano”. “Ti concedi facilmente?” è una delle domande irriverenti poste alla Luxuria. “Nella mia vita ho fatto opere di pene, volevo dire di bene”, ha confidato Vladimir a Le Iene.
Non è l'Arena, Daniela Santanché brutale con Vladimir Luxuria: "Se hai il pisello sei un uomo", scrive l'11 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Nella puntata di ieri 10 marzo di Non è l'Arena Daniela Santanché ha sferrato un duro attacco a Vladimir Luxuria e, in generale, alla cultura trans. In collegamento con lo studio di La7, la senatrice di Fratelli d'Italia ha contestato la scelta fatta in passato dal trasngrender Luxuria e ha voluto ribadire, a suo dire, l'esigenza di "ripristinare la verità" sull'esatto numero di generi da considerare, ovvero due, maschile e femminile. "Chi ha il pisello è un uomo e chi ha la vulva è una femmina. Se vuole essere donna si operi". Non si è fatta attendere la replica dell'ex parlamentare: "Peccato che non esiste anche l'invito a poter operare qualcuno di mentalità". Un parere, per altro, condiviso anche dalla giornalista Tiziana Ferrario che ha cercato di difendere le posizioni di Luxuria. Ma la Santanché non ha voluto sentire ragioni. "I generi sono due", ha aggiunto, "come nella lingua italiana che non ha nemmeno un neutro". Insomma, per l'onorevole la nuova cultura gender starebbe mistificando valori di per sè non negoziabili. Non basta indossare gonne, mettere rossetto in abbondanza e atteggiarsi da donna: "Se hai i genitali sei sempre un uomo".
Da Libero Quotidiano dell'11 marzo 2019. "Il termine pervertito non lo avrei mai usato, non capisco dove sia le perversione, ciascuno è responsabile della propria vita lei fa quello che vuole e io la rispetto". Vittorio Feltri ospite di Massimo Giletti a Non è l'Arena, su La7, interviene in difesa di Luxuria a commento delle parole del professore che le aveva dato del "pervertito" ma poi si apre una piccola polemica tra il direttore di Libero e la stessa Luxuria che vuole essere chiamata "signora" e non "signore" anche se a Feltri "non interessa, sono dettagli". Ma insiste: "Io la rispetto profondamente, il professore ha usato un termine inadeguato. A me non frega niente se uno da femmina diventa maschio o da maschio femmina".
In Rai Luxuria spiega ai bimbi come si diventa transessuali. L'ex parlamentare di Rifondazione a lezione di diritti omosessuali in una classe di under 13: «Si nasce gay», scrive Paolo Bracalini, Lunedì 21/01/2019, su "Il Giornale". Bimbi a lezione di transgenderismo sulla tv pubblica. Docente: l'ex parlamentare di Rifondazione Comunista Vladimir Luxuria, all'anagrafe Wladimiro Guadagno, transessuale e attivista dei diritti Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender). La cattedra è quella del programma di RaiTre Alla Lavagna, in cui personaggi del mondo dello spettacolo, informazione e politica - il primo è stato il vicepremier Matteo Salvini - rispondono alle domande di una classe di bambini tra i 9 e i 12 anni. Nel caso di Luxuria, il tema da sviscerare con gli scolari era la scoperta di essere omosessuale. «Era un maschio ed è voluta diventare femmina» riassume una bambina interrogata dagli autori Rai. D'altronde i piccoli protagonisti del programma «sono tutt'altro che ingenui. Anzi. Sono particolarmente arguti e spigliati» recita la scheda del programma. Luxuria dopo aver spiegato ai bambini che si chiama così nel senso di «lussureggiante, una persona che ama la vita in tutti i sensi», risponde alla domanda («Lei una volta era un bambino, oggi è una donna, perché?») che motiva la sua presenza: «Io quando sono nato ero un maschietto ma non ero contento di essere maschietto, sentivo dentro di me di essere una bambina, mi piaceva giocare con le bambole, sentire i profumi femminili che usava mia mamma in bagno, e quindi tutte le volte che mi guardavo allo specchio avevo un'immagine dentro di me che era diversa da quello che ero. Per un periodo ho cercato di cambiare pensando che ero sbagliata io, ma stavo diventando un bambino molto triste e malinconico. Quindi ad un certo punto ho fatto una scelta. Questa bambina che stava dentro di me per me era come una principessa chiusa nel castello, io la dovevo liberare. Ma non veniva nessun principe a liberare questa principessa, la dovevo liberare io, così un giorno ho deciso di confessarmi a tutti, a miei compagni di classe e sono diventata quello che sono». Quando ha sentito la prima volta che il suo corpo non le piaceva?» chiede una bambina, mentre altri under 13 ascoltano con una certa perplessità. «Quando mi guardavo allo specchio e aspettavo che mi spuntassero i seni, e invece mi spuntavano i baffi. Una tragedia! Quella peluria non mi piaceva, me la toglievo con le pinzette. Ho capito che non si diventa così, si nasce così» chiarisce ai bimbi Luxuria, prima di passare al racconto del bullismo e delle discriminazioni subite a scuola dopo aver rivelato «che mi piacevano i maschi». La lezione di diritti omosessuali è andata in onda alle 22.20, ma doveva essere in prima serata. L'ex onorevole si è lamentata dello spostamento considerandolo una sorta di censura da parte della tv di Stato. «Ho appena saputo - denunciò a dicembre su Twitter - che per la seconda volta il programma in cui parlo di #bullismo e #omofobia in una classe con i bambini è stato spostato, non so quando e se andrà in onda: forse in questo periodo certi temi sono troppo scomodi persino per Rai3?». Anche il sito gay.tv protesta perché la puntata di Luxuria è stata «incredibilmente spostata in seconda serata, anche se indirizzata ad un pubblico di giovanissimi». Sui social invece qualcuno ha il dubbio opposto: «Luxuria su Rai3 spiega a una classe di bambini la sua scelta di cambiare sesso. Sarebbe questa l'importanza di una tv di stato?»
· Madre e Padre e non Genitore 1 e Genitore 2.
Gay, il blitz della sinistra: cancella "padre" e "madre". Ora arriva "altro genitore". A Casalecchio, in provincia di Bologna, la sinistra ha sostituito le diciture "padre e madre" con "genitore dichiarante" e "altro genitore" sui moduli per la domanda di iscrizione agli asili nidi comunali. Francesco Curridori, Lunedì 05/08/2019, su Il Giornale. "Da oggi sarà più difficile opporsi al modello di famiglia 'omogenitoriale' e alle imposizioni culturali più strambe nelle scuole e istituzioni pubbliche". A dichiarlo a ilgiornale.it è Umberto La Morgia, consigliere comunale della Lega a Casalecchio di Reno, in provincia di Bologna, che contesta la patnership col progetto Ready e il cambio della dicitura "padre e madre" con "genitore dichiarante e altro genitori" nei documenti ufficiali del suo Comune.
Ready, la rete pro Lgbt. La Morgia contesta la legge regionale contro omotransnegatività promossa dalla relatrice, la dem Roberta Mori che si ispira al modello dei servizi sociali della Val d'Enza e che punta a estendere a tutta l'Emilia Romagna RE.A.DY. ("Rete Nazionale delle Pubbliche Amministrazioni Anti Discriminazioni per Orientamento Sessuale e Identità di Genere" ). Una rete cui ha aderito anche il comune di Casalecchio. La Morgia, la scorsa settimana, ha presentato un'interrogazione comunale con la quale chiedeva al Comune di uscire dalla partnership con Ready. "Nel mio intervento ho chiarito che in linea di principio siamo tutti contro la discriminazione delle persone (e non solo per orientamento sessuale), ma ho fatto notare che le azioni poste in essere dal Comune finora contro le presunte discriminazioni grazie a tale partnership sono state di fatto tutte volte a promuovere l'omogenitorialità", ha attaccato il consigliere leghista che qualche mese fa ha fatto outing rendendo pubblica la sua omosessualità.
"Padre e madre" diventano "genitore dichiarante" e "altro genitore". La Morgia cita i dati forniti dal Comune di Casalecchio da cui si evince che, finora, le principali attività svolte nell'ambito del progetto Ready sono state alquanto discutibili. Ci sono state due presentazioni di libri dai titoli inequivocabili: "Il libro di Tommy: manuale educativo didattico su scuola e omogenitorialità" e "Maestra, ma Sara ha due mamme?: le famiglie omogenitoriali nelle scuole e nei servizi educativi". A questo si aggiunge un corso di formazione per docenti e familiari dal titolo: "Nuove famiglie: scuola, genitori e sviluppo psicosociale" ma ciò che forse è più grave, sottolinea La Morgia, è aver sostituito le diciture "padre e madre" con "genitore dichiarante" e "altro genitore" sui moduli per la domanda di iscrizione agli asili nidi comunali."Visto che l'argomento è molto dibattuto anche all'interno della sinistra stessa, e totalmente fuori luogo in particolare in questo momento di scandali che coinvolgono il mondo LGBT (Federica Anghidolfi*) sugli affidi, ho proposto di sciogliere questa partnership lesiva del diritto dei bambini ad avere un padre e una madre e della libertà educativa dei genitori verso i propri figli" conclude La Morgia.
Sulla carta di identità tornano le diciture «madre» e «padre». Pubblicato mercoledì, 03 aprile 2019 da Corriere.it. Sulla Carta d’identità dei minorenni tornerà la dicitura «madre» e «padre» anziché quella di «genitore». Il provvedimento è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale. Il decreto, firmato dal ministero dell’Interno, da quello della Pubblica Amministrazione e da quello dell’Economia, porta la data del 31 gennaio 2019. Il provvedimento modifica il testo del decreto del 23 dicembre 2015, con il quale si introduceva la dicitura «genitori». La nuova norma prevede la sostituzione del termine «genitori» con «padre» e «madre» ogni qual volta si presenta nel decreto che predispone le «modalità tecniche di emissione della carta d’identità elettronica». Lo scorso novembre era stato lo stesso ministro Salvini a proporre il reintegro di «padre» e «madre», prendendosi il «no» non solo dell’Anci e del Garante della Privacy ma anche degli alleati di governo del Movimento 5 Stelle. Il 24 novembre 2018, il garante per la Protezione dei dati personali, Antonello Soro, nel parere richiesto dal Governo, aveva scritto: «La modifica introdotta dal decreto si è rivelata inattuabile in alcune ipotesi, con gli effetti discriminatori che necessariamente ne conseguono per il minore. Per esempio, nei casi nei quali egli sia affidato non al padre e alla madre biologici, ma a coloro i quali esercitino — secondo quanto previsto dall’ordinamento — la responsabilità genitoriale a seguito di trascrizione di atto di nascita formato all’estero, sentenza di adozione in casi particolari o riconoscimento di provvedimento di adozione pronunciato all’estero».
· Il Sesso freddo e l’educazione sessuale 2.0
Il sesso «freddo» dei ragazzi soli nella rete: ci si informa con i siti o attraverso Youtbe. Pubblicato martedì, 09 luglio 2019 da Greta Sclaunich su Corriere.it. Alcuni dicono di rivolgersi anche agli amici o a fratelli e sorelle più grandi. Pochi ai genitori, nessuno agli insegnanti. Ma, se gli chiedi cosa fanno quando vogliono chiarirsi un dubbio sul sesso, in prima battuta tutti rispondono allo stesso modo: «Cerco su Internet». Basta un giro di domande davanti al Liceo classico G. Parini di Milano per farsi un’idea delle fonti più utilizzate dagli adolescenti quando si tratta di sessualità. Le (poche) ore di educazione sessuale alle quali hanno partecipato sembra non siano servite a granché. Di certo non sono bastate ad aprire un canale di fiducia tra gli studenti e la scuola. «Il mio pubblico è formato da ragazze dai 18 ai 24 anni, ma mi seguono anche tanti ragazzini dai 13 in su», conferma Shanti Winiger, 29enne di Locarno (in Rete la trovate come Shanti Lives) che nel 2013 è sbarcata su YouTube per parlare di sessualità ed è diventata una delle più seguite a livello italiano su questo tema. Ora si sta aprendo anche ad argomenti diversi ma capita ancora che gli utenti le scrivano per chiederle consigli, «soprattutto sull’orientamento sessuale: alcuni sono confusi, altri spaventati. Io dico loro che non devono avere fretta di darsi un’etichetta. Di domande “tecniche” invece ne ricevo poche: in parte perché i miei video sono molto esaurienti, ma anche perché credo cerchino soprattutto risposte a dubbi legati alla loro identità». Già, perché chi lo dice che Internet non possa essere anche un buon canale informativo quando si parla di sesso? Per Emanuela Confalonieri, docente di Psicologia dello sviluppo all’Università Cattolica di Milano e coordinatrice del gruppo di lavoro che si è occupato della ricerca «Adolescenti, relazioni sentimentali e sessualità» (condotta nel 2016 e aggiornata al 2019), «online si trovano molti siti ben documentati e costruiti per invitare i ragazzi a riflettere. Internet può essere il posto giusto per raccogliere informazioni e cercare risposte a domande che magari i giovani non osano fare». Diventando, talvolta, un valido appoggio per la scuola: «Trent’anni fa bisognava partire da zero mentre oggi gli adolescenti, anche grazie alla Rete, sono spesso già informati. L’educazione sessuale intesa come spiegazione delle dinamiche del rapporto non è sufficiente: al suo posto, in aula, servono spazi di confronto che aiutino gli adolescenti a capire il sesso e le relazioni». Spazi che sono in realtà percorsi multidisciplinari che prendono nomi molto diversi. C’è chi la chiama ancora educazione sessuale ma anche chi preferisce parlare di educazione sentimentale oppure affettiva. La pedagogista e scrittrice Barbara Mapelli, che si occupa di questo tema dagli anni Ottanta, la definisce educazione di genere: «Le relazioni fra i sessi si sono evolute. Da un lato le donne sperimentano libertà che prima non avevano, mentre dall’altro alcune vecchie tendenze resistono ancora, come la doppia morale. La fragilità degli uomini di fronte a questi cambiamenti può trasformarsi in violenza e inasprire le pene non basta: bisogna agire a monte con un’educazione ad hoc, dall’asilo fino alle superiori». Fondamentale, in questo senso, la formazione degli insegnanti ma anche dei genitori. Mapelli, che è anche responsabile scientifica del progetto «ImPARI a scuola» attivo a Milano, mette l’accento su questo segmento: «Prima bisogna educare gli adulti, poi saranno loro a occuparsi, in maniera consapevole, dell’educazione di bambini e ragazzi. Cominciando dai ruoli, anche in famiglia». Anche l’associazione di promozione sociale Scosse (acronimo che sta per Soluzioni Comunicative Studi Servizi Editoriali), nata a Roma nel 2011 come spin-off dell’università di Tor Vergata, parte dagli stessi presupposti. Come spiega la presidente Monica Pasquino, «fare educazione sentimentale significa, secondo noi, offrire fin dalla piccolissima età strumenti per costruire un immaginario aperto, con rappresentazioni che permettano identificazioni dei ruoli di genere il più possibile liberi dagli stereotipi. Dei quali, invece, il mondo della scuola purtroppo è ancora pieno». A partire dai libri di testo. All’inizio dell’anno si era molto discusso di un esercizio, contenuto in un corso di letture per la scuola primaria, che invitava i bambini a cancellare i verbi adatti a determinate figure: ne risultava che la mamma cucina e stira (il verbo da barrare era «tramonta»), mentre il papà lavora e legge (il verbo da escludere, in questo caso, era «gracida»). Alla polemica la casa editrice responsabile, La Spiga, aveva risposto dichiarando di aver modificato l’esercizio nell’edizione per il prossimo anno scolastico. Anche gli insegnanti, però, «vanno formati in modo da garantire il giusto atteggiamento nei confronti degli studenti», come sottolinea Pasquino. La sessualità c’entra poco, anzi niente: si tratta di abbattere un altro tipo di stereotipi, per esempio quello che vuole le ragazze meno portate nella matematica rispetto ai loro compagni maschi e che alcuni insegnanti, magari inconsapevolmente, portano avanti. Un lavoro enorme, insomma. Non per nulla Celeste Costantino, ex deputata Sel, aveva stimato i costi dell’introduzione dell’educazione sentimentale nelle scuole italiane in 200 milioni di euro. Nel pacchetto entravano la formazione del corpo docente e l’inserimento di un’ora alla settimana dedicata a questi temi gestita da un insegnante che si dedicasse a questo, una figura nuova ancora da creare. La sua proposta di legge, depositata nel 2013, ha avuto un iter complicato: «Ci ho messo anni per calendarizzarla — racconta — quando finalmente ce l’ho fatta, alla fine della legislatura, sono arrivati così tanti emendamenti al testo base che non siamo nemmeno riusciti a terminare l’iter». Così è finita in un nulla di fatto. Come quella avanzata da socialisti e repubblicani (1992), dal Pds (1995), da Alberta De Simone di Sinistra Democratica, da Nichi Vendola allora di Rifondazione comunista (entrambe nel 1996), dal leghista Flavio Rodeghiero (1999), da Franco Grillini di Sinistra Democratica (2007), da Valentina Vezzali di Scelta Civica, dall’allora vicepresidente del Senato Valeria Fedeli del Pd (entrambe nel 2014), dalla forzista Giuseppina Castiello (2015). Ma ci avevano provato, a suo tempo e con proposte ad hoc, anche il Partito comunista e la Democrazia cristiana. L’aveva chiesta pure Ilona Staller nel suo primo discorso a Montecitorio dopo l’elezione tra le file dei radicali. Era il 1987 e la neodeputata aveva spiegato: «Voglio portare un po’ di gioia nella scuola, in un mondo dove la violenza e la prepotenza si mescolano da sempre con la religione». Lo scoglio non riguarda soltanto la politica: il rapporto dell’Unione Europea «Policies for Sexuality Education in the European Union», pubblicato nel 2013, identifica nell’«opposizione della Chiesa cattolica e di alcuni gruppi politici» le ragioni del ritardo italiano in materia. Dall’ambito religioso, però, ora arrivano segnali di apertura. A fine gennaio, a sorpresa, Papa Francesco aveva dichiarato: «Io penso che nelle scuole bisogna fare educazione sessuale». Aveva poi toccato, con il suo discorso, diversi punti cari agli esperti che si occupano del settore: il Pontefice aveva infatti parlato della necessità di cominciare presto («bisogna avere l’educazione sessuale per i bambini») e dell’importanza del sostegno della famiglia («l’ideale è che comincino a casa, con i genitori»). Tempo un mese e anche la ministra della Salute Giulia Grillo aveva accennato all’argomento, dichiarando che «l’insegnamento nella scuola di temi legati alla sessualità e alla riproduzione può fornire un punto fermo di informazioni certe e certificate». Sei mesi più tardi, siamo ancora fermi nello stesso punto. Cioè alla buona volontà dei singoli istituti, effetto dell’autonomia scolastica che, dal 2000, lascia al ministero dell’Istruzione le linee guida dei programmi e demanda la responsabilità dell’offerta formativa al corpo docente dei singoli istituti. L’ultimo passo avanti risale alla riforma della Buona Scuola, varata dal governo Renzi: l’allora ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli ha introdotto l’«educazione al rispetto» che si rifà direttamente all’articolo 3 della Costituzione e che riguarda «la parità tra i sessi e la prevenzione della violenza di genere e di tutte le forme di discriminazione» come scritto sul documento ufficiale. «L’educazione al rispetto, per me, è la base necessaria: presuppone la capacità di gestione dei sentimenti e dell’affettività, che a loro volta comportano quella di affrontare le emozioni ma anche il corpo e quindi la sessualità», motiva Fedeli. Le fondamenta, insomma, in teoria ci sono. In pratica è il tetto che manca, come ammette l’ex ministra: «In Italia l’educazione sessuale è difficile da realizzare». Anche altri Paesi, in Europa, ci hanno messo parecchio: in Gran Bretagna, per esempio, è stata introdotta soltanto due anni fa e in un manipolo di altri, Spagna compresa, non si è ancora arrivati a una norma precisa. Invece la Svezia, nel 1955, è stata la capofila. Esattamente vent’anni dopo, nel 1975, da noi è stata avanzata la prima proposta di legge sul tema (da Giorgio Bini, del Pci). Oggi, a distanza di 44 anni, in Italia l’educazione sessuale è ancora esclusa dai programmi obbligatori. L’età media del primo rapporto sessuale, in Italia, è di 15 anni e 6 mesi sia per i maschi che per le femmine. E tre giovani su quattro, la prima volta, hanno usato un metodo contraccettivo. Lo rivela lo studio, che ha coinvolto un campione di 3.922 adolescenti con un’età media di 16 anni e mezzo, svolto dal gruppo di lavoro coordinato dalla professoressa Emanuela Confalonieri del dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e aggiornato al giugno 2019. Dall’indagine emerge anche che il 46% degli intervistati ha una relazione sentimentale stabile. Un altro studio del gruppo, condotto su 1.059 adolescenti con un’età media di 17 anni, lancia l’allarme sui comportamenti violenti all’interno della coppia: il 56% si è reso responsabile almeno una volta di qualche forma di abuso psicologico nei confronti del partner, il 9% di una forma di abuso fisico e il 6% di una forma di abuso relazionale. Percentuali che trovano una corrispondenza nei dati relativi a chi, di questi abusi, è stato vittima: il 54% ha dichiarato di aver subito abusi psicologici, il 10% relazionali e l’8% fisici. Un altro campanello d’allarme riguarda la pornografia: il 64% (di un campione di 546 intervistati con un’età media di 16 anni e 2 mesi) dichiara di averne fatto uso, l’82% sono maschi e, fra questi, uno su tre utilizza questi materiali quotidianamente. L’Organizzazione mondiale della sanità, nel 2010, ha fissato alcuni standard per l’«educazione sessuale dei minori in Europa». Nel documento sono proposti i requisiti base: l’offerta formativa, con una particolare attenzione al genere, deve essere continuativa e multisettoriale ma anche interattiva e contestualizzata sui bisogni degli allievi, considerati parte attiva nella realizzazione del programma. Importante la collaborazione con i genitori e la comunità. Lo scopo: dare ai giovani una preparazione adeguata che li protegga da forme di sfruttamento, coercizione e abuso come di gravidanze indesiderate e malattie. E poi ci sono le aziende, che provano ad occupare il vuoto lasciato dall’educazione sessuale nelle aule con progetti ad hoc. I giovani cercano informazioni, sia sulla sessualità che sulle relazioni, in Rete? Su Internet puntano anche i colossi che, uno dopo l’altro, inaugurano spazi divulgativi a tutto tondo (e che spesso esulano dai prodotti che offrono). Il marchio di profilattici Durex, per esempio, ha lanciato «Parliamo di sesso», videopillole che spiegano i rapporti sicuri sottolineando l’importanza della contraccezione ma parlando anche di relazioni di coppia. Si trovano su YouTube, durano un minuto ciascuna e a condurle è la dottoressa, specializzata in Ostetricia e ginecologia, Mirella Palachini. Il sex shop online dedicato alle donne MySecretCase ha puntato invece sulle dirette Instagram gestite dalla sessuologa trentenne Anna Zanellato. Esperta del settore (svolge diversi corsi sul tema anche nelle scuole), in video risponde alle domande dei giovani partendo dalla sessualità ma esplorando anche l’ambito delle relazioni e delle emozioni. Anche il sito porno PornHub è sceso in campo, inaugurando una sezione dedicata all’informazione su sesso e salute come indica il nome stesso (si chiama infatti «Pornhub sexual wellness center»). Nel progetto sono stati coinvolti medici, terapisti e sessuologi e a dirigere la piattaforma è Laurie Betito, nota sessuologa canadese con oltre trent’anni di esperienza nel settore. «L’educazione sessuale (mentale, fisica, emotiva e spirituale) svolge un ruolo fondamentale nella nostra società», ha dichiarato due anni fa, alla vigilia del lancio. Il vicepresidente di PornHub Corey Price ha puntualizzato: «Abbiamo voluto fornire ai nostri visitatori una piattaforma educativa rinomata, da poter utilizzare come fonte di informazioni e consigli quando si tratta di fare sesso». Nella prima intervista post mondiale Milena Bertolini, la guida della squadra femminile italiana, ha raccontato a Gaia Piccardi sul Corriere che il complimento più bello era quello di un’amica della sua terra, l’Emilia: «Avete fatto un mondiale per le donne». «Ecco, questo dimostra che il cambiamento culturale è in atto, non si può tornare indietro» ha concluso Milena. E questi mondiali che hanno fatto innamorare gli italiani del calcio al femminile hanno dimostrato che se le donne si mettono insieme e fanno squadra possono arrivare anche dove non era pensabile, in territori riservati tradizionalmente all’uomo. Le cifre lo confermano: negli ultimi 10 anni le tesserate sono cresciute del 39,3% passando da 19.000 a 26.000, secondo il ReportCalcio della Figc presentato il 9 luglio in Senato. È un’ascesa che spinge l’empowerment femminile. Ma il messaggio è più articolato. Perché raramente si sono viste donne in «posizione di combattimento» come le nostre calciatrici, così diverse dall’immagine femminile proposta in tv, perlopiù vittima oppure sexy, al limite elemento decorativo, ma mai mostrata in questa attitudine tesa alla vittoria. Attitudine che le Millennial hanno nel Dna e entrerà in campo nel triangolare di calcio organizzato dalla società Acd Sedriano in collaborazione con il Tempo delle Donne il 7 settembre (inizio alle 16.30) e che vedrà sfidarsi le Giovanissime di Inter, Milan e Sedriano. Al termine del triangolare (sul campo sportivo di Sedriano) anche una partita con alcune prime squadre femminili. Sedriano è centro d’avanguardia del calcio maschile, e ora nasce la startup al femminile, dopo che per tre anni tutte le squadre dell’ Inter femminile si sono allenate sul loro campo. «È stato un osservatorio interessante, perché ci ha permesso di mettere a fuoco le differenze, di capire che i ragazzi hanno di sicuro maggior forza fisica, mentre le femmine hanno una veloce capacità di apprendimento e attenzione» dice Marco Melioli della direzione sportiva femminile. «Oltre che una forte coesione di gruppo. Dandosi regole in un mondo che prima era maschile per essere riconosciute come pari». Il titolo del torneo? È un gioco da ragazze.
· Sadomaso e trasgressioni.
LO FAMO STRANO? DAGONEWS il 23 novembre 2019. Internet offre la possibilità di navigare ovunque noi vogliamo. Non importa quanto sia di nicchia ciò che cerchiamo, quindi non sorprende che le app e i siti di appuntamenti fetish siano sempre più popolari online. Tra di loro si differenziano in poche cose, la maggior parte consente agli utenti di registrarsi in modo anonimo, inserire le loro preferenze sessuali e quindi navigare in un luogo dove si incontrano utenti che vogliono sperimentare nuovi mondi. Tra le categorie ci sono quelle più tradizionali, come il BDSM, e opzioni più estreme come la privazione sensoriale, l’elettrocuzione e il “water bondage”. Sono siti come questi che Grace Millane, la ragazza inglese uccisa durante il sesso con un ragazzo incontrato su Tinder in Nuova Zelanda, stava usando nei mesi precedenti la sua morte. Il processo ha gettato nuova luce su questi mondi aprendo alla necessità che i partecipanti siano consapevoli chi si puo' incontrare. Whiplr - il sito sul quale Millane era iscritta - non richiede alcuna identificazione e la registrazione richiede meno di cinque minuti. Agli utenti viene richiesta una foto, ma molti usano immagini false. In effetti, l'anonimato è promosso come un vantaggio per molti di questi siti visto che gli utenti vogliono comprensibilmente rimane anonimi. Solo un sito - KinkD - richiede agli utenti di inviare un ID per la verifica prima che un profilo venga attivato. I membri di questi siti possono connettersi con utenti che hanno le stesse passioni, alcune delle quali sono veramente singolari: dalla dendrofilia, un’eccitazione data dalle piante, alla macrofilia, l’attrazione sessuale verso persone giganti. Come con la maggior parte dei social media, gli utenti sono liberi di parlare tra loro in privato, possono iscriversi a eventi e incontri che consentono loro di conoscersi. Dal lancio nel 2015, Whiplr ha circa 1,2 milioni di utenti, con circa 50.000 chat e messaggi e video condivisi ogni giorno. Fetlife.com, uno dei più antichi siti di appuntamenti fetish sul web, ha circa 8,2 milioni di membri che condividono 44 milioni di foto tra loro.
DAGONEWS l'8 dicembre 2019. Se il bondage o il soffocamento vi sembrano delle pratiche fuori di testa, non avete ancora visto “A Very Yorkshire Brothel” un programma in onda in Gran Bretagna: nell’ultima puntata le proprietarie di una “sala massaggi” hanno rivelato le richieste più insolite ricevute dai feticisti. Kath, 56 anni e la figlia Jenni, 32 anni, negli ultimi cinque anni, hanno gestito una sala massaggi a Sheffield. Ma negli ultimi anni non solo hanno visto impennare il numero di feticisti, ma anche le loro bizzarre richieste. C’è chi ha chiesto di essere avvolto nel cotone idrofilo e chi voleva essere confezionato sottovuoto. Ma c’è anche chi prova eccitazione vedendo scoppiare dei palloncini. Kath e Jenni, che si occupano della parte amministrativa, gestiscono sei ragazze nel loro salone che nel weekend rimane aperto fino alle cinque del mattino. Tra i servizi offerti ci sono delle prestazioni che includono l’uso erotico del cibo o anche sessioni per masochisti. Ma le richieste diventano sempre più strane. «Ho un ragazzo che si eccita se mi faccio scoppiare dei palloncini tra le gambe – ha rivelato Lily 'Loves It' che lavora nel centro – Un altro vuole che ci rimbalzi sopra fino a farli scoppiare. In ogni caso non esistono due giorni uguali nel mio lavoro. Prima lavoravo in proprio e guadagnavo il doppio dei soldi, ma mi sono resa conto che sull’aspetto della sicurezza stavo rischiando». E Kath ha aggiunto: «Molte di loro hanno deciso di non lavorare più in proprio per paura. Conosco una ragazza che è stata violentata in gruppo. Non si sa mai chi si può incontrare».
DAGONEWS il 13 novembre 2019. Dimenticate ogni tabù. Quelli che fino a qualche anno fa erano dei confini invalicabili oggi sono diventati terreno di esplorazione per molte coppie che amano sperimentare mettendo un po’ di pepe alla loro relazione. Per chi ancora non lo ha fatto la sexperta Annabelle Knight ha fatto luce su come bondage, letture erotiche, sex toys, il sesso anale e lo scambio di ruoli possano avere un posto prezioso in una relazione sana.
1. Bondage. Il BDSM un tempo era roba da club o amanti del fetish ed era considerato fuori dall’ambito tradizionale. Oggi in molti lo hanno sperimentato integrandolo nella loro sessualità e riuscendo ad ampliare il loro orizzonte di piacere. Qualunque sia il livello di esperienza, c'è sempre un modo per dilettarsi nel BDSM. Usare una cravatta o una sciarpa per bendare la vista del partner può fare miracoli, in quanto sviluppa gli altri sensi e rende più sensibili al tocco. Ciò si traduce in un'esperienza sessuale più intensa e più spesso soddisfacente.
2. Letture erotiche. In passato la letteratura erotica incontrava degli ostacoli. Ma ora, grazie ad autori come Jilly Cooper, Sylvia Day e E.L James, la narrativa erotica è diventata così mainstream che si trova in tutte le librerie. La narrativa erotica consente alle persone di vivere le proprie fantasie attraverso la finzione, oltre a raccogliere nuove idee per la camera da letto. In coppia, leggere insieme può essere un'enorme svolta e, in un certo senso, può fungere da preliminare.
3. Sex toys per coppie. Secondo il sondaggio sulla felicità sessuale di Lovehoney, oltre i due terzi di noi credono che il sesso abbia un ruolo importante nella nostra felicità generale, motivo per cui sempre più persone stanno espandendo il loro orizzonte con i sex toys. Per molti, i sex toys sono confinati alla masturbazione, ma molte coppie hanno trovato il modo di integrarli nella loro vita sessuale. Gli anelli vibranti sono i sex toys per coppie più raccomandati in quanto migliorano l'erezione e stimolano il clitoride esterno.
4. Sesso anale. In alcuni ambienti il sesso anale è ancora un tabù, tuttavia sta diventando una pratica sessuale più ampiamente accettata. Negli anni Novanta circa il 25% delle persone aveva provato l'anale, ma quella cifra è salita a circa il 40% nel 2009. I benefici del sesso anale sono enormi, non solo puoi raggiungere un tipo di orgasmo completamente diverso, ma il sesso anale è privo di rischi di gravidanza e, per coloro che soffrono di vaginismo, consente una penetrazione, senza disagio o dolore.
5. Scambio di ruoli. Oggi accettiamo molto di più di allontanarci dai ruoli tradizionali in camera da letto. Il pegging, la penetrazione dell’uomo tramite una cintura usata dalla compagna, sta ottenendo sempre più popolarità. Un paio d'anni fa quasi la metà delle coppie non aveva idea di cosa fosse il pegging, da allora le vendite di strap on e set sono aumentate di quasi il 200%.
Da ilgazzettino.it il 5 novembre 2019. Chat e applicazioni per incontri, tradimenti e trasgressioni: quale è la mappa delle città italiane più coinvolte? A tracciarla è il sito incontri-extraconiugali.com. Bondage e disciplina, dominazione e sottomissione, sadismo e masochismo: queste le parole che si intrecciano nell'acronimo BDSM, una pratica che a Milano è ormai di uso comune tra chi tradisce il partner e che si sta diffondendo rapidamente anche lungo il resto della Penisola. «Se in una relazione extraconiugale in passato era solo l'uomo a cercare sesso trasgressivo, questo desiderio si incrocia oggi con quello delle donne e questo spiega il boom del BDSM» sottolinea Alex Fantini, fondatore di Incontri-ExtraConiugali.com, il portale dedicato a chi cerca un'avventura in totale discrezione e anonimato. Le coppie adulterine sono infatti molto aperte a nuove esperienze e giocano con la loro sessualità molto di più e molto più spesso di quanto facciano moglie e marito. «Soprattutto a Milano, ma anche a Brescia, Torino, Trieste, Padova, Verona, Bologna e Firenze, dove i fedifraghi sono maggiormente propensi al sesso estremo e sempre pronti ad utilizzare tutti gli espedienti possibili per rendere la loro vita sessuale più varia ed intrigante» puntualizza Alex Fantini. «In questi giochi di dominazione e sottomissione tra fedifraghi -aggiunge il fondatore di Incontri-ExtraConiugali.com- l'empatia aumenta e così anche il rispetto reciproco. Vivere un tradimento con esperienze al limite implica -paradossalmente- molta sincerità, molta comunicazione ed una grandissima attenzione alla sicurezza ed al benessere sia fisico che emotivo di entrambi, molto più che nelle relazioni tradizionali. L'attenzione in questo caso non è rivolta a se stessi ma al partner, a quello che il partner prova e vive». Quale è la dimensione del fenomeno? Nel mese di settembre 2019, il portale fondato da Alex Fantini ha condotto un sondaggio su un campione di mille uomini e mille donne di età compresa tra i 18 ed i 60 anni, per approfondire il rapporto degli italiani con il sesso. Ne è risultato che, includendo le diverse forme che può assumere il BDSM -da quello più soft a quello più estremo-, un italiano su 10 pratica il sadomaso abitualmente ed -in questo ambito- Milano conquista il primato per i tradimenti BDSM: il 20% dei meneghini in una relazione extraconiugale cerca proprio un rapporto di dominazione/sottomissione. La percentuale dei cultori del BDSM rimane alta anche nelle altre città del Nord Italia e più in particolare a Brescia (19%), Torino (18%), Trieste (16%), Padova (15%), Verona (15%), Bologna (14%) e -più a sud- anche a Firenze (13%). A Roma -e più in generale nel Centro e Sud Italia- il fenomeno più ricorrente legato al sesso è invece quello della chat. Nelle regioni centro-meridionali -soprattutto a Roma, Napoli e Palermo- agli uomini piace flirtare e chiacchierare sulle app prima di arrivare al sodo e alle donne -anche per un tradimento- piace sentirsi corteggiate e desiderate prima di un incontro nella vita reale. Approfondendo proprio la variabile "tradimento" si scopre poi che il 78% delle scappatelle si concretizza ormai online. «Da quando c'è Incontri-ExtraConiugali.com, i tradimenti sono diventati molto più semplici e gli italiani prima di farlo preferiscono -appunto- chattare a lungo, soprattutto a Roma, considerata una delle città in cui si chatta di più al mondo» commenta il fondatore di quello che è oggi il portale più sicuro dove cercare un'avventura in totale discrezione e anonimato. E se all'estero la maggior parte dei fedifraghi installano più di una piattaforma contemporaneamente, in Italia i traditori sono più abitudinari (84%): finiscono con il prediligerne una sola, focalizzando usualmente la propria preferenza su un portale 100% italiano quale Incontri-ExtraConiugali.com. Solo il 16% dei nostri connazionali (il 18 % degli uomini ed il 14 % delle donne) sceglie di installare due o più applicazioni. Insomma per quanto gli italiani abbiano accettato la pratica del tradimento online, continuano comunque a rimanere fedeli nell'utilizzo di una sola piattaforma.
· Mai dire "Puttana".
Da ea-insights.com il 28 novembre 2019. Black Friday: l’inizio di un periodo di offerte su ogni categoria di prodotto, con l’eccezione del sesso a pagamento. L’anno scorso, molti clienti delle sex workers hanno in effetti preferito lo shopping all’happy ending in compagnia delle professioniste del sesso. Lo testimoniano i dati di Escort Advisor, il primo sito di recensioni di escort in Europa. Il sito (uno dei 50 più visitati in Italia in assoluto) ha registrato un calo del 3% del traffico nel fine settimana del Black Friday, uno dei rari casi, per un settore che ha un interesse costante durante l’anno da parte degli utenti di internet. In compenso la Cyber Week (forse perché limitata alle vendite online) ha influito in positivo, portando un aumento medio giornaliero dell’11% rispetto al traffico del resto del mese. Le professioniste del sesso invece non concedono sconti. La media dei prezzi nazionali rimane invariata e loro stesse dichiarano che per il sesso non applicano alcun tipo di scontistica. Così a Gorizia, la provincia al primo posto nella classifica per prezzo, si continua a pagare il prezzo più caro d’Italia con una media di 146 euro, mentre a Trapani, al 109esimo posto, quello più basso: 88 euro. Con uno sguardo d’insieme, si nota che il Nord batte il Sud d’Italia quando si parla di prezzi “più alti”, mentre nel Centro si registra una media, con prezzi intorno ai 110 euro. Tendenza confermata anche attraverso le recensioni degli utenti che confermano o smentiscono il “listino prezzi” delle sex workers. Ovviamente si parla di medie: le recensioni raccolte da Escort Advisor mostrano come ci siano sex workers per tutte le tasche sparse nelle province italiane, un dato evidenziabile utilizzando i filtri di ricerca sul sito fondato nel 2015. Si scopre che nella penisola ci sono percentuali molto importanti di professioniste con servizi che partono da 50 euro. La media nazionale ricavata dalle recensioni scritte dagli utenti, dunque, fa registrare una distribuzione delle escort per fasce di prezzo di questo tipo: oltre i 500 euro lo 0,2%, da 201 a 500 euro l’1,3%, da 101 a 200 euro il 10,6%, da 51 a 100 euro il 51,3%, infine fino a 50 euro il 36,6%. Trapani risulta essere, con il suo 57% di sex workers con tariffe inferiori a 50 euro (su 338 Escort presenti mediamente al mese), la città meno cara d’Italia. In opposizione, a Bolzano, solo il 12% delle 270 sex workers applicano prezzi inferiori ai 50 euro. Seguono in classifica Caltanisetta (con il 53% su 103 escort), Enna (52% con 25 escort), Ragusa (51% con 196 escort). Roma con 1856 escort indicizzate mediamente al mese risulta essere più cara: solo 26% di escort effettuano prestazioni a meno di 50 euro. A Milano: 1694 escort attive mensilmente, solo il 18% sotto i 50 euro. Non diverso il dato di Torino che con le 902 sex workers indicizzate conta un 25% sotto i 50 euro, o a Genova con 564 escort e il 16%. Sta di fatto che in tutto il Nord si fatica a superare il 20% se si parla di prezzi inferiori ai 50 euro. Si registra però un calo generale dei prezzi del 3% nel 2019 rispetto all’anno precedente. La tendenza è data dalla ridotta disponibilità economica dei clienti che cercano la compagnia delle escort. Sempre secondo Escort Advisor il 9% dei clienti sceglie utilizzando il prezzo come primo elemento nella ricerca, cercando quindi il risparmio prima di tutto. Le escort, invece, dichiarano di non fare sconti a nessuno, come Giulia di Milano che racconta di non applicare nessun tipo di “promozione o sconto”: Non mi sembra che medici, dentisti o avvocati ritocchino i loro “listini” in vista del Black Friday o dei saldi. Noi siamo professioniste organizzate come loro e abbiamo le nostre spese. Le escort che lavorano bene, infatti, investono su loro stesse, soprattutto ora che si è aperta la possibilità di pubblicizzarsi online. Un buon strumento sono le recensioni ad esempio. Aiutano a far capire al cliente la professionalità e ad evitare le fregature di quelle che si improvvisano. Poi così loro possono trovare più facilmente ciò che gli piace, potendo scegliere, non facendo perdere tempo nè a noi, nè a loro stessi.
Per gentile concessione dell' editore Rizzoli pubblichiamo integralmente l'intervista di Oriana Fallaci alla senatrice socialista Lina Merlin uscita sull' Europeo nel 1963 ed estratta dal libro «Se nascerai donna» (pp.352, 20 euro). Il volume, che raccoglie i ritratti, le interviste e le inchieste della scrittrice dedicate all' universo femminile, da oggi è disponibile in tutte le librerie. Da “Libero quotidiano” il 6 novembre 2019. Intervista di Oriana Fallaci a Lina Merlin.
Oriana Fallaci: A Montecitorio, quando mi capitava di andarci e lei era ancora deputata, iscritta al PSI, mi incantavo spesso a guardarla, senatrice Merlin. E non perché il suo nome fosse legato alla chiusura delle case chiuse, ma perché tutto in lei ricordava un mondo che sta per scomparire: quello dei vecchi socialisti, sentimentali e un po' anarchici, galantuomini e puri. Guardavo i suoi capelli bianchi, i suoi occhi accesi, e tornavo a un' epoca che non ho conosciuto: liberale, laica. Pensavo che mi sarebbe piaciuto parlarle, anzi, ascoltarla. Non è mai capitato e mi sembra quasi indiscreto venire a disturbarla ora che non è più senatrice, né deputata, né iscritta al PSI, e siede carica di amarezza (mi dicono), perfino malata (mi dicono), nel salottino borghese di una casa borghese sul mare Adriatico, la finestra aperta su una spiaggia di ombrelloni e turisti. Ma la sua legge sulle case chiuse.
Lina Merlin: Anzitutto io non sono malata, sto benissimo, malata sarà lei; ho un cuore che lei giovane non si sogna nemmeno, e al mare non sto per curarmi, ma perché tutti gli anni vado al mare. Poi non sono carica di amarezza per niente, sono tranquilla, serena, e se mi son ritirata è perché non voglio morire prima di quando mi tocchi; ciascuno ha diritto di morire più tardi possibile. La mia vecchia pelle m' è cara e se restavo un giorno di più fra i mestieranti della politica finivo al cimitero anzitempo. Le racconterò ogni cosa, se vuole: io non faccio misteri. Intanto sappia che quando i non onesti trionfano, gli onesti lasciano. Quanto alla mia legge sulle case Ne parlano ancora?!
Oriana Fallaci: Come no, senatrice. È tornato a essere uno degli argomenti del giorno per gli italiani, che la presero per un dispetto. E si lamentano, s' agitano, s' inquietano; quasi, anziché due anni, fossero passati due giorni e non riuscissero a darsene pace.
Lina Merlin: Ah! Questo paese di viriloni che passan per gli uomini più dotati del mondo e poi non riescono a conquistare una donna da soli! Se non gli riesce di conquistare le donne, a questi cretini, peggio per loro. Perché non fanno come i miei compagni di Adria? Un giorno vado ad Adria e dico: com' è, compagni, che voi non mi avete mai chiamato a fare una conferenza sulla mia legge? «Perché non ci interessa, Lina» rispondono. E ora le voglio raccontare una storia, le voglio. Un altro giorno vado a tenere una conferenza in una sede del PSI a Milano e appena entro qualcuno mi infila una busta gialla tra le mani. La apro e c' è scritto: «Compagna, pensa al male che fai con la tua legge: dove può andare un vedovo vecchio e gobbo se non in quelle case?». Io raggiungo il tavolo e dico: m' è stata consegnata una lettera così e così, spero che il compagno sia tra noi per rispondere a una domanda. Compagno, come può fare una vedova vecchia e gobba che non sa dove procurarsi un bel giovanotto? Ma scusate, compagni, chi ve lo ha detto che le donne non hanno i loro problemi? Press' a poco il discorso che feci alla Camera: se voi ritenete che quello sia un servizio sociale, e i cittadini maschi abbiano diritto a quel servizio sociale, allora istituite il servizio obbligatorio per le cittadine dai vent' anni in su. E che anche per le cittadine sia considerato un servizio sociale. Alcuni giornalisti commentarono la mia logica come indecorosa. Indecorosa io, che non ho mai detto una parola volgare e invece dell' espressione prostituta uso sempre l' aforisma «quelle disgraziate». Volgare io, che dico come quel prete di Londra: «Non chiamatele prostitute: sono donne che amano male perché furono male amate». La legge! Cosa di nuovo, ora, con questa legge?
Oriana Fallaci: C'è stato un processo per lenocinio, senatrice Merlin, al tribunale di Firenze e il giudice ha accettato l' eccezione avanzata dal difensore secondo cui la sua legge è incostituzionale perché non tiene conto dell' articolo della Costituzione col quale lo Stato si impegna a difendere la salute del cittadino. L' ordinanza del giudice è ora all' esame della Corte Costituzionale e...
Lina Merlin: Oh, sì. Ero sicura che fosse venuta a farmi arrabbiare su questo. E urlo: la mia legge è costituzionalissima e se la Corte Costituzionale prende in considerazione, solo in considerazione, l' ordinanza di quel giudice, allora è il crollo di tutto. Allora vuol dire che il mio paese non merita nulla, che il mio paese è selvaggio, che i giudici del mio paese non conoscono neanche le leggi e il significato delle leggi: ma che si rileggano un po' Montesquieu! Io sono stata uno dei settanta soloni che hanno fatto la Costituzione, sa, la Costituzione io la conosco, sa, e conosco l' articolo sulla salute pubblica perché l' ho voluto. Cosa dice questo articolo? ««La Repubblica ha il dovere di difendere la salute dei cittadini purché ciò non offenda la loro dignità umana». Purché ciò non offenda la loro dignità umana: chiaro? E sottoporre quelle disgraziate a visita coatta non è forse offendere la loro dignità umana? Tanto più che esse non sono più schedate. E allora come fanno a sceglierle? Con quale criterio le scelgono? Col criterio che avevano prima con le clandestine? Fermar tutte quelle che camminano sole per strada, magari senza documenti o fumando? Le è mai capitato di camminar sola per la strada, la notte, magari fumando?
Oriana Fallaci: Sì, qualche volta.
Lina Merlin: Bene. Lo sa cosa accadde a una sua collega che all'una e mezzo del mattino, uscita dal giornale, si avviava fumando alla ricerca di un taxi? La fermarono e: «Lei viene in questura». «Nemmeno per sogno, e perché?». «Perché lei viene in questura. Documenti.» «Non li ho. Ma sono la Tal dei Tali, quello è il mio giornale.» «Non ci interessa. Lei fumava per strada. Venga in questura.» Le andò bene, era un tipo deciso e li trattò come meritavano. Ma metta che si fosse lasciata condurre, come si lasciarono condurre altre onestissime donne che esercitavano il loro diritto di camminar sole per strada, cosa sarebbe successo? L'avrebbero chiusa in guardina e l'indomani le avrebbero fatto una visita coatta, ed io l'avrei trovata alla Sala celtica come ci trovai la povera servetta sorpresa senza documenti insieme al suo caporale, che piangeva poverina ed era lì da otto giorni: ad aspettare il responso. Perché otto giorni ci vogliono per avere il responso. Proseguiamo. Quale altro criterio per fermare una donna: l'aria provocante? Be'? Quante donne oggi non hanno un'aria provocante? Non che voglia fare la vecchia strega, non che mi scandalizzi perché le donne si dipingono troppo e si pettinano alla Bardot, dico anzi che è la moda, se domani la moda ordinasse di andare al mare dentro un sacco a pelo della Prima guerra mondiale anziché col bikini le donne ci andrebbero: ma resta il fatto che sono molto dipinte. Allora che facciamo? Il questurino le ferma per questo? «Perché mi ferma, questurino?» «Perché lei è una prostituta.» «E lei da cosa lo giudica, questurino?» «Dal suo aspetto.» Ah, sì? Lei, questurino, si permette di giudicare l' aspetto?» «Lei può esser malata, bella mia.» «Ah, sì? Lei, questurino fa il medico e giudica a occhio se una donna è malata?» «Niente discorsi, via dal dottore.» Il dottore la visita, magari la trova malata. Ah, dice, questa è prostituta. «Perché? Perché è malata? Dunque mentre il questurino fa il medico, il medico fa il questurino? Proseguiamo. Quale altro criterio per fermare una donna? Quelle, dicono, che ricevono in casa molti uomini. Senta: io per vent' anni ho ricevuto moltissimi giovanotti in casa mia; davo lezioni di italiano e francese, per vivere, il fascismo mi aveva tolto la cattedra. E se una portinaia maligna avesse detto che le mie lezioni erano una scusa? Non ero mica brutta, da giovane, sa? I miei corteggiatori li avevo e mio marito morì che ero giovane, ancora. E se la portinaia lo avesse detto? È successo a tante donne che vivevano sole, donne perbene, che sono state denunciate e sfrattate. Ma io sono una persona civile, io rispetto il mio prossimo, la libertà del mio prossimo, io non tollero questo!
Oriana Fallaci: Lo Stato potrebbe far visitare tutti, uomini e donne, sani e malati, come si fa per la vaccinazione contro il vaiolo. La polizia potrebbe cominciare dalle passeggiatrici sicure, quelle che fanno la posta in punti precisi...
Lina Merlin:Ma non sa proprio nulla, lei! Quella di far visitare tutti i cittadini malati, non sani, malati, e tutti, uomini e donne, è una legge che esiste di già e che non è stata ancora applicata e che io predico inutilmente da anni perché venga applicata. Quanto alle passeggiatrici, no: come facciamo se non abbiamo le prove, se son clandestine, se non sono schedate? Le schediamo di nuovo, eh? Diamo loro di nuovo quella tessera che Mussolini chiamava ipocritamente sanitaria e che era peggio di una condanna a vita, di un marchio sulla fronte degli schiavi, eh? Ma lo sa che il giorno in cui una donna non voleva o non poteva fare più la prostituta, e andava in questura e diceva «ecco la vostra tessera», per prima cosa doveva tornarsene al paese col foglio di via e per anni restava una vigilata speciale della questura? Eh? Si recuperava così? Ma lo sa che se aveva un figlio questo restava per tutta l'esistenza il figlio di una schedata? Quasi tutte quelle disgraziate hanno un figlio ed anche se per lui sono le madri migliori del mondo, anche se lo tirano su bene, se lo fanno studiare, viene sempre il giorno in cui egli ha bisogno di un foglio bollato, di dare informazioni per partecipare a un concorso. E allora vien fuori che è il figlio di una schedata e non può fare non dico il diplomatico, nemmeno il questurino. Schedarle vuol dire ridare loro la tessera di prostitute, vuol capirlo sì o no? E perché schedare loro, le paria della prostituzione, e non le squillo che vivono in appartamenti eleganti, non le mantenute che si vendono per una pelliccia o un gioiello? Non sono prostitute anche le amichette dei ricchi? E poi non dimentichi che l' Italia ha accettato la convenzione dell' ONU e in questa sta detto che è proibita qualsiasi schedatura per qualsiasi ragione: ivi compresa la salute pubblica. Abbiamo aspettato tanto per entrare all'ONU, usciamone dunque.
Oriana Fallaci: Senatrice Merlin, sono totalmente d' accordo con lei: perciò non si arrabbi. A partire da questo momento però mi comporterò come se non fossi d' accordo con lei e, la prego non si arrabbi, le porrò alcune domande che riassumono le colpe delle quali la accusano.
Lina Merlin: Colpe? Che colpe? Accuse? Che accuse? Non ho mica fatto nulla di male, io, ho fatto una cosa buona.
Oriana Fallaci: Lo so, senatrice Merlin: e nessuno l'ha mai ringraziata per questo. La hanno insultata, derisa, lapidata. Nessuno, lo sappiamo, è più odiato del benefattore, e la gratitudine non esiste. Dunque mi risponda, la prego. Prima accusa: le prostitute, dopo la applicazione della sua legge, son raddoppiate.
Lina Merlin: Può darsi. È aumentata la popolazione, saranno aumentate anche quelle disgraziate. E comunque qual è il termine di confronto? Le hanno contate? Le avevano contate prima?
Oriana Fallaci: Come dice? Si vedono? E prima non si vedevano?
Lina Merlin:Se ne vedevano meno, dice? Ma faccia il piacere, ma non sa proprio nulla lei! Non si vedevano quando non si volevano vedere. Io le ho sempre viste. Mi ricordo quando avevo diciott' anni e sembravo un angioletto e andavo a spasso sotto i portici con mio zio e loro gli battevano la borsa nei ginocchi o gli tiravano la giacchetta e io dicevo: «Zio, che vogliono? Chi sono?». E lui: «L' elemosina». E prima che fosse applicata la mia legge? Una volta a Milano ho fatto le quattro del mattino, ho fatto, incontrandole ovunque.
Oriana Fallaci: Seconda accusa: aumento delle malattie celtiche. Questo lo dicono persone molto serie, però. Qui ci sono i dati.
Lina Merlin: «Ma come è ingenua, lei! I dati di chi? E contrapposti a quali dati? Ma lo sa che nel 1937 ci furono centinaia di migliaia di casi? Diminuirono fortemente con la scoperta degli antibiotici ma crebbero di nuovo nel 1953 quando le case erano ancora aperte: si son chiuse nel 1958. E il fatto che agli antibiotici ci si assuefà e dopo un certo uso non hanno più lo stesso effetto, dove lo mette? E il fatto che tutte le malattie vanno soggette a cicli, dove lo mette? C' è una gran recrudescenza della poliomielite e del cancro in questi anni: anche questa è colpa della senatrice Merlin? E come si combatte quella recrudescenza, semmai? Riaprendo le case che son focolai di infezione? Senta, lei che non capisce proprio nulla: lo sa quante volte quelle disgraziate erano visitate nelle case? Due volte la settimana. Le pare sufficiente? Con decine di clienti al giorno ciascuna? E a cosa serviva visitare 2500 donne, tante vivevano nelle case chiuse, quando fuori c' erano almeno 50.000 clandestine non obbligate a marcar visita? E le tenutarie che dicevano al dottore: «Dottore, non ci dica che la Rosetta l' è ammalata, mi lavora tanto», e il dottore le accontentava? Ma stia zitta, stia!
Oriana Fallaci: Terza accusa: aumento dei delitti sessuali, dei teddy-boys, del pappagallismo. E non parlo, perché mi fa ridere, del problema dei militari che secondo taluni son trasformati in soldataglie voraci e pronte ad attentare spose virtuose, zie ignare, vergini candide.
Lina Merlin: Ma non capisce proprio nulla, lei! Ma crede proprio a tutto, lei! Guardi quell'asino che vola, guardi: l'ha visto? Delitti sessuali! Come se prima non esistessero! Teddy-boys! Di quattordici e quindici anni, magari. Come se prima, a quell'età, potessero entrare in case dove si poteva entrare solo a diciotto! Pappagallismo! Come se non ci fosse mai stato. Ora i militari. Se lei non vuol parlarne, ne parlo io. Silenzio! Stia zitta. Anzi, stia attenta: quanti sono i militari in una grande città? Decine di migliaia. Quante case c' erano in una grande città? Al massimo sedici. Per un totale di 250 donne. Bastavano? Eh? Evidentemente i militari si arrangiavano altrove. Che continuino ad arrangiarsi. Costano troppo, dirà lei.
Oriana Fallaci: Io non dico nulla.
Lina Merlin: Silenzio! Costano troppo, dirà lei. Perché no, se anche il prezzemolo è aumentato e prima lo davano gratis, ora un mazzetto te lo fanno pagare cento lire? Guardi, io ai militari ci penso: ma per evitar loro la guerra, non per procurare loro postriboli. E a quei generali che si lamentano io vorrei chiedere se i postriboli non sono per caso il prezzo con cui pagano la vita di tante creature. Lo stesso vorrei chiedere a certe madri. Lo sa chi mi dà più disgusto? Le madri che dicono: e ora chi mi educherà sessualmente mio figlio? Ah, sì? Ti chiedi questo e non ti chiedi se il medesimo figlio te lo mandano a morire ieri per la patria, domani per Mussolini, dopodomani per il petrolio? Eppoi, che giovani son questi giovani che per avere una donna devono farsela servire su un vassoio come un fagiano? Bei giovani! Facciano come quegli universitari che mi dissero: guardi, signora, per noi il problema non esiste: ci arrangiamo benissimo con le nostre compagne.
Oriana Fallaci: Vorrei proprio sapere cosa ne pensa della libertà sessuale, senatrice Merlin.
Lina Merlin: La saluterà con entusiasmo, mi auguro.
Oriana Fallaci: Un corno! Male, ne penso.
Lina Merlin: Ne penso quel che disse Lenin dopo la rivoluzione, quando i costumi s' erano allentati: «Non si beve al bicchiere in cui tutti hanno bevuto, tantomeno ci si disseta a una pozzanghera». Cedere per amore va benissimo ma per sport o curiosità è peccato, è male. La morale che noi chiamiamo convenzionale non è sempre convenzionale: è frutto di una civiltà. E non mi interrompa. Dicevo Quarta accusa: quella che la prostituzione non si sia affatto abolita, che continui come prima, nella stessa brutale umiliazione morale, nello stesso sfruttamento, nella stessa desolazione.
Oriana Fallaci: Questo, non si arrabbi senatrice Merlin, è proprio vero. Lo credo anch' io.
Lina Merlin: Ma l' è matta lei! Ma davvero non capisce nulla! E chi pretendeva di abolire la prostituzione? Io?!? La mia legge mirava solo a impedire la complicità dello Stato. Rilegga il titolo: «Abolizione della regolamentazione per la lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui». E basta. Io avevo anche aggiunto: «e contro il pericolo delle malattie veneree» ma me l' han tolto perché c' era già una legge. Davvero mi meraviglio che dica simili bestialità. La prostituzione non è mica un crimine, è un malcostume. E ammettiamo che per taluni sia un crimine: la differenza tra le clandestine e le regolamentate è la stessa che passerebbe tra i ladri autorizzati a rubare e i ladri che come in tutto il mondo rubano di nascosto. Scusi, conosce un paese in tutto il globo terrestre, uno solo, dove non esista la prostituzione.
Oriana Fallaci: La Cina, a sentire i cinesi. E in questo credo che siano sinceri.
Lina Merlin: È possibile. In uno Stato dittatoriale è possibile. Le fucilano. Ma io non accetto la dittatura, nessuna specie di dittatura. Io voglio vivere in un paese di gente libera: libera anche di prostituirsi.
Oriana Fallaci: Guardi, non le hanno fucilate mica tutte. Le hanno rieducate e a volte le hanno fatte sposare. Io non sono cinese, in nessun senso, però so che il problema, lì, è risolto. Chi sposa una prostituta diventa un eroe e la patria gli dà una medaglia d' oro. Carino, no?
Lina Merlin: Uh! Una cosa vecchia come Noè. Prima negli istituti delle monache non davano la medaglia a chi le sposava.
Oriana Fallaci: Davano mille lire: un milione di adesso. I contadini ne sceglievano una e dicevano: con mille lire ci compro due mucche e ci ho la moglie in casa. Quanto alla rieducazione, guardi: io sono stata in Cecoslovacchia, in Polonia, paesi cattolici dove la percentuale era altissima e hanno applicato le leggi russe. Le hanno messe nei profilactoria, le rieducano: ma non riescono a imparare niente, al massimo possono utilizzarle per bucare i biglietti sui treni e sui tram. Lì, una prostituta clandestina, la prima volta viene ammonita (insieme all' uomo trovato con lei), la seconda volta condannata (insieme all' uomo trovato con lei), la terza finisce in un campo di lavoro (così l' uomo trovato con lei). E con quale risultato? Un giorno, in un albergo di Bratislava, vedo due signorine a un tavolo. Tiro la manica al mio accompagnatore e: «Monsieur, vous voyez?». «Oh, sì» risponde, «abitano vicino a me, ricevono a casa i clienti privati.» Cosa vuol fare? Fucilarle davvero? A parte il fatto che io non credo alle pene.
Lina Merlin: Esistono forse meno ladri perché da millenni le leggi puniscono il furto? In Arabia gli taglian la mano, ai ladri: e l' Arabia è piena di ladri.
Oriana Fallaci: Dica, senatrice: conosce nessuna prostituta che ha smesso?
Lina Merlin: Se giura di non scriverlo glielo dico. Per esempio Davvero?! Eccome. E molte si sono sposate. A Venezia dove c' è una casa di recupero abbiamo avuto tre matrimoni in un mese. Sposate, son brave, sa. La lezione è stata dura e risultano mogli fedelissime.
Oriana Fallaci: Nessuna si è fatta monaca, che lei sappia?
Lina Merlin: Qualcuna sì, ma pochissime. E son tutte finite al Cottolengo: a curare quei poveretti. Secondo me erano approdate per suggestione alla malavita: quindi pronte a subire una suggestione contraria. Lo dico senza malizia, io non ho nulla contro le monache. Sono stata educata come mia madre e mia nonna in un collegio di monache e mi ci sono trovata fantasticamente.
Oriana Fallaci:Senta, senatrice: ma a lei le prostitute sono antipatiche o no?
Lina Merlin: Antipatiche, non posso dirlo. Posso dire invece che provo per loro un senso di pena: non sono mai belle, mai o quasi mai intelligenti Una pena, talvolta, che sfiora la nausea. Consideri che io sono stata la donna di un solo uomo, mio marito. E da giovane ero proprio carina, sa? Avevo un mucchio di corteggiatori e una volta mi capitò anche un miliardario americano. Ma io gli dissi: «Non mi vendo».
Oriana Fallaci:E insulti da loro ne ha ricevuti o no? Insomma le è mai capitato che per strada la riconoscessero e le mandassero qualche accidente?
Lina Merlin: Mi riconoscono sempre, e mi salutano con dolcezza, e mi chiamano Mamma Merlin. Gli insulti mi venivano, mi vengono dai tenutari. Settemila lettere ho avute e a volte mi scrivevano perfino: «Ti ricordi quando la prostituta la facevi tu?». Quelle disgraziate invece sono piene di gratitudine. Ho parlato con duemila donne e non ne ho trovata una sola che fosse contro. Ah, non dimenticherò mai quel luglio caldo quando un gruppetto di loro mi venne a Montecitorio, e piangevano: «Signora, con questo caldo, quattordici ore chiuse dentro una camera, a servire centoventi uomini al giorno, signora, non è possibile, chiuda quelle case e sarà una santa!». In carcere, io sono stata prigioniera politica in sette carceri, sognavano sempre che qualcuno le chiudesse, quelle case. Sere fa ne ho trovata una: clandestina. Vede, signora, mi dice, è sempre un gran mestieraccio: ma ora almeno vado con chi voglio e più di due o tre clienti per sera non mi permetto. Un gran sollievo.
Oriana Fallaci:Capirà E poi, non essendo più schedate possono smettere. Sicché non le è mai venuto un senso di esasperazione, un gran rammarico per essersi cacciata in questo pasticcio che si è portato via almeno dieci anni della sua vita?
Lina Merlin: No, no, no! Le amarezze vere io non le ho avute da chi vende un pezzetto di pelle, le ho avute da chi vende la propria coscienza. Le ho avute da alcuni compagni del mio partito. Capirà: quando dopo quarantadue anni di iscrizione a un partito una si vede deferire al Collegio dei Probiviri e poi da quei Sanpaoli folgorati sulla via di Damasco, insomma gli ex fascisti! Mi iscrissi al partito socialista nel 1919, nemmeno spinta da interessi particolari perché la mia non era una famiglia operaia, ma di borghesi intellettuali. Ero giovane, ero contro la guerra, il PSI mi offriva soprattutto la garanzia d' essere contro la guerra, ed avevo paura che non mi prendessero perché v' erano tradizioni patriottiche nella mia famiglia: un nonno figlio di un carbonaro fucilato a Fratta Polesine, divenuto eroe del Risorgimento, un bisnonno capitano di artiglieria con Napoleone, un fratello medaglia d' oro morto nel 1917 sulla Bainsizza, un altro fratello morto il penultimo giorno di guerra, a vent' anni, coi polmoni bruciati dal gas asfissiante. Non avevo ancora imparato che per amare il mondo bisogna amare il proprio paese, chiedevo quasi scusa di quelle cose. Mi accettarono invece con entusiasmo; a quel tempo essere socialista voleva dire davvero esser galantuomo, come dice lei, e voleva anche dire essere intelligente. Ed io mi trovai bene con loro perché tra loro non ci furono mai traditori. Ci furono alcuni deboli, altri che si contentarono di tirare avanti con la fede nel cuore e le barzellette sulla bocca: traditori mai. E quando una come me, che è stata in carcere, che è stata al confino, che ha fatto la lotta clandestina, si trova ad essere martirizzata da ex fascisti folgorati sulla via di Damasco! Finita la guerra, non prendete i fascisti dicevo: perdonarli va bene ma accettarli no. E poi: non subite gli stalinisti, dicevo. E invece con la scusa del partito moderno, dell' apparato, un poco alla volta, con colpi di mano, si sono impadroniti del partito, e chi non era stalinista era un traditore, e chi non era con loro non aveva letto Marx. Io, che Marx lo conosco come la Divina Commedia e lo studio dal 1926!
Oriana Fallaci:I sistemi sono cambiati, anche in politica. I conflitti tra i vecchi e i giovani sono inevitabili, anche in politica. La conquista del potere oggi è fredda, scientifica, e le virtù umanitarie di un tempo non usano più. I giovani sono più cattivi, è ben vero, ma Oggi la politica non è più una missione, è un mestiere.
Lina Merlin: Non è vero, le generazioni non sono peggiori, sono sempre uguali, gli uomini non cambiano, sono sempre uguali. E i giovani li ho sempre amati, non dimentichi che sono stata un' insegnante assai coscienziosa. Ho cercato di essere materna con loro, buona con loro, il fatto è che la loro cattiveria non è diretta verso i vecchi ma soprattutto verso se stessi: non comprendono, i pazzi, che la politica non è un mestiere, è una missione. Tutti i grandi uomini che crearono il partito socialista in Italia avevano un altro mestiere, Turati era avvocato, mio marito Gallani era medico, io ero professoressa, Matteotti era ricco. E così non erano faziosi, non bisogna essere faziosi in politica, bisogna avere idee e rispettare le idee degli altri. Io per esempio non sono mai stata anticlericale, non mi sono mai permessa di andare contro il senso religioso delle masse, di offendere le idee e i sentimenti degli altri. Ho sempre predicato la libertà, la ribellione alla disciplina imposta dall' alto.
Oriana Fallaci:Senta, senatrice. Io non so se lei è anarchica o liberale, più che socialista. Certo in un partito dev' essere assai scomoda.
Lina Merlin: Scomoda? Scomodissima! Anarchica, sa, non è mica offesa per me: al contrario. Liberale, bah! Può anche darsi: son socialista, socialista per davvero, io. E così dettero l' ordine di farmi decadere da parlamentare, non essendoci riusciti cominciarono a stancarmi, a logorarmi, c' era una inondazione e mandavano me, cascava un argine e mandavano me, bisognava visitare dodici paesini di fila e mandavano me: via la povera vecchia a bagnarsi e ammalarsi. Finché detti le dimissioni e decisi di non presentarmi più alle elezioni.
Oriana Fallaci:E non le è dispiaciuto lasciare Montecitorio?
Lina Merlin: Dispiaciuto?! Nausea ne avevo! Guardi: ambiziosa non sono, i soldi per campare li ho, ho la mia pensione di professoressa, centodiciottomila lire al mese, e mi basta. Io non stavo mica lì per lo stipendio, come fa qualcuno! E non si annoia a vivere in questo riposo, lei che ha trascorso la vita a lavorare e rischiare. Come passa la sua giornata, ora? Io non mi annoio mai e la giornata la passo benissimo. Mi alzo alle otto, mi pulisco la casa perché la cameriera non l' ho mai avuta, vado a fare la spesa, mi cuocio il mangiare, cose semplici perché ho la colite, riso al burro, una bistecchina o una bella fetta di fegato, mi lavo i piatti, e nel pomeriggio leggo o scrivo, o riordino i miei libri: senza andare in cantina però, dove ho molti libri, perché ho paura dei topi. Sì, una paura folle: come dice don Abbondio, quando uno ha paura, ha paura. Vivo sola. Mio marito morì nel 1936 e figli non me ne ha lasciati; i suoi tre figli, due morirono in esilio e uno a Mauthausen. Ogni tanto vedo la mia nipote, questa con cui son venuta al mare, e suo figlio, Paolino. La solitudine non mi pesa, come l' amarezza. Mi sono sempre adattata alle sventure senza farmi travolgere: con distacco.
Oriana Fallaci:E per caso non l' aiuta, in questa solitudine, la religione?
Lina Merlin: No, no. Sono agnostica. Ho studiato filosofia positivista e Dio non posso né negarlo né ammetterlo. Mi aiutano gli affetti. Paolino, vieni qui, fatti vedere. Paolino ha sei anni, è tanto bravo, sa, suona il pianoforte, sa, vuole sempre che gli racconti le favole, sa, e io gli racconto l' Orlando Furioso, la mitologia, la Bibbia E a scuola ha tutti dieci, sa. Ora le faccio vedere la pagella...
Volontari di strada, da 30 anni in campo contro la schiavitù. Pubblicato mercoledì, 06 novembre 2019 su Corriere.it da Enea Conti. L’impegno della Comunità Papa Giovanni XXIII fondata a Rimini da don Benzi. In vent’anni salvate dal giro della prostituzione oltre novemila ragazze. A volte le loro silhouette emergono dai bordi della strada, sfiorate dalle luci dei fari delle auto in corsa verso Rimini o Ravenna. Altre volte capita di vederle negli spiazzi dei distributori di benzina, illuminati a giorno dai fari e dalle insegne segnaletiche. E non è raro scorgere il loro viso illuminato dalla luce fioca degli smartphone, con il flash della fotocamera acceso, una piccola torcia per segnalare agli automobilisti la loro presenza ai margini di una strada dove le macchine sfrecciano anche ai 120 chilometri orari. La Statale Adriatica, nel tratto che corre da Rimini a Ravenna, è una strada come tante in Italia, soprattutto di notte. Ma è qui che 30 anni fa don Oreste Benzi cominciò la sua lunga battaglia per liberare «le nuove schiave del sesso». Correva l’anno 1989 e il fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII di Rimini scelse di incontrarle di persona, in strada, per offrire loro assistenza e protezione. Una via d’uscita, con la possibilità di denunciare gli sfruttatori. Oggi, l’eredità dell’opera di don Benzi è stata raccolta dagli operatori - volontari e volontarie - della comunità, che ogni settimana percorrono le strade d’Italia in lungo e in largo per liberare le prostitute dalla strada. Sono i «gruppi di contatto» e il nome non è casuale. Basta trascorrere qualche ora con loro per rendersene conto. I volontari avvicinano le ragazze con il sorriso a volte anche con un po’ di ironia, ma soprattutto con discrezione, per rompere il ghiaccio. Capita spesso che siano proprio loro a fare un cenno a chi guida il pulmino in corsa e a chiedere di fermarsi. Quando succede non esitano, corrono incontro agli operatori e alle operatrici per abbracciarli. Alcune sono più diffidenti e timide. Ma pur sempre ragazze come tante altre, con una luce in fondo agli occhi che non tarda a fare capolino e al tempo stesso si esaurisce in pochi minuti per sparire, di nuovo. Perché per loro è questo l’unico contatto umano e fraterno in un inferno fatto di notti passate sulle strade, di giornate trascorse in balia degli aguzzini e delle loro violenze. Hanno voglia di parlare, anche quando sanno che alla fine su quel pulmino non ci saliranno mai. «Conquistare la loro fiducia può essere impegnativo», spiega una delle responsabili delle unità di strada. «I rischi sono tanti. Perché se una ragazza decide di rivolgersi alla comunità per essere accolta o aiutata a tornare nel suo Paese, i suoi aguzzini per vendetta possono rivalersi anche sui parenti». A volte capita che siano proprio loro, gli uomini che in un gergo spregiudicato molti chiamano «protettori», a uscire allo scoperto durante le visite dei volontari. Un lavoro difficile, quello dei gruppi di contatto. Delicato. Talvolta pericoloso. Ma anche un lavoro che ripaga, eccome se ripaga. In poco più di vent’anni sono state circa novemila le ragazze liberate dalle unità operative - 30 al momento - in lungo e in largo per l’Italia. Tra di loro ci sono anche tante nigeriane. Ragazze, anche minorenni, partite da lontano. Subito dopo un giuramento prestato durante un rito voodoo, di fronte a uno sciamano che le ha convinte di non poter fare altro che ubbidire alla loro «madame» e ai loro aguzzini per ripagare un debito di 60 o 70 mila euro con la prostituzione su strada.
«Sono convinte che ribellarsi le porti alla rovina. E hanno paura, perché madame e sfruttatori le guardano a vista», spiegano dalla comunità. Eppure c’è chi riesce a lottare e a vincere sulla paura. Come Jamilah, che a 25 anni, tre anni fa, era arrivata in Italia dopo l’inferno dei lager libici e la traversata del Mediterraneo, con un numero di telefono salvato in rubrica da contattare. Ed eccola la strada, la notte, la schiavitù, in un paesino del Sud Italia. Poi, tra un cliente e l’altro, l’arrivo di uno dei pulmini dei gruppi di contatto. Tra qualche giorno, dopo mesi passati a studiare l’italiano, Jamilah inizierà a lavorare, assunta dal titolare di un panificio della zona, che l’ha accolta con un sorriso.
TREMATE TREMATE LE “BABY” MIGNOTTE SON TORNATE. I.R. per “il Messaggero” il 17 ottobre 2019. Le adolescenti di Baby, fino a ieri, avevano scherzato. Dopo una prima stagione fatta per spiegare le regole del gioco, incentrata su due liceali finite in un brutto giro di prostituzione, la partita entra nel vivo con i nuovi sei episodi, distribuiti da Netflix da domani. Una partita sporchissima, naturalmente, in cui il giro di soldi, escort e intrallazzi consumato nelle notti della Capitale bene trova nelle due ragazze la Chiara di Benedetta Porcaroli e la Ludovica di Alice Pagani - le sue protagoniste attive. Due giovani donne ormai poco vittime, insomma, e molto consapevoli di quel che si muove intorno ai loro corpi: «Raccontiamo le ragazze non più solo come innocenti vergini sacrificali racconta Andrea De Sica, tornato alla regia degli episodi, insieme a Letizia Lamartire - Ludo e Chiara fanno le loro scelte consapevolmente. Baby ha un suo lato oscuro: racconta una rabbia che trova nella prostituzione uno sfogo sbagliato ma quasi sano». Uno sfogo consumato «negli alberghi di Roma. È qui che le ragazze cominciano a prostituirsi, con tutto il dramma che ne consegue e le ricadute sulle loro relazioni. Ma Baby non è solo una serie sulla prostituzione. È, più in generale, una serie sulla vita segreta degli adolescenti». Di certo, la voglia di spiare questa vita segreta è stata una molla efficace per lanciare il prodotto, una delle prime serie originali Netflix in Italia, e tra le più apprezzate all'estero: la prima stagione, distribuita l'anno scorso, è stata vista da dieci milioni di account in sole quattro settimane. Un successo di pubblico, un po'meno di critica, capace di segnare l'emancipazione del più giovane De Sica dall'ingombrante famiglia. «A questo punto credo sia chiaro a tutti che non sono né Vittorio né Christian. Con Baby ho trovato la mia strada, che continuerò nel prossimo film». Alla scrittura del progetto, come nella prima stagione, c'è il collettivo dei Grams: «Nella prima stagione abbiamo affondato le mani nei casi di cronaca e negli articoli raccontano ma per la seconda ci siamo preparati parlando con molti ragazzi. Abbiamo capito che il caso delle baby squillo dei Parioli non era che la punta di un iceberg». Quanto alle ragazze, Porcaroli e Pagani (cui si aggiunge la nuova entrata, ex di Gomorra, Denise Capezza), Baby nel giro di due anni ha cambiato le loro vite. «Sui social mi scrivono in tanti, Baby ha qualcosa di universale spiega la bionda Porcaroli - del resto il sesso, nell'adolescenza, è un potente fattore di cambiamento». Per Alice Pagani, sguardo magnetico con fan eccellenti (Paolo Sorrentino l'ha voluta in Loro), «Baby mi ha fatto diventare molto attenta ai social: ora ho un punto di vista che i ragazzi seguono con interesse». Ragazzi molto piccoli: secondo quanto racconta lo stesso De Sica, a guardare la serie, di nascosto, sarebbero anche gli under 12. «Pare che rubare il cellulare dei genitori per vedere la serie dice - oggi faccia figo». Nel ruolo dei genitori, presenze altrettanto distruttive, spiccano i nomi di Claudia Pandolfi, Max Tortora e Isabella Ferrari. Che sentirebbe grande affinità con le due giovani protagoniste. «Mi colpisce come questi attori delle nuove generazioni sappiano gestire il successo. Ai tempi di Sapore di mare ero famosa come loro, ma avevo molte più paura e insicurezze. Io il successo non l'ho retto. E non sapevo nasconderlo».
Francesco Salvatore per “la Repubblica” il 16 ottobre 2019. A distanza di sei anni dai fatti che l'hanno catapultata con una sua amica, anche lei vittima, all'interno dell'indagine penale sulle baby squillo dei Parioli, è tornata in aula. Testimone di uno dei processi stralcio ancora pendenti in tribunale che vede imputato un piccolo imprenditore accusato di atti sessuali con minore. Francesca (nome di fantasia) è stata chiamata a ripercorrere una fase della sua vita ormai lontana. Quei tre mesi nel 2013 in cui è stata vittima di sfruttatori che l' hanno fatta prostituire. Tempi lontani spiacevoli, come da lei ammesso: « All'epoca ero molto più piccola, è passato tanto, tanto tempo, quindi molti ricordi li ho anche cancellati proprio perché comunque non sono ricordi piacevoli» All'epoca Francesca aveva 15 anni: «Nel 2013 ho iniziato, diciamo, a cercare su Internet modi per fare soldi e sono cioè è iniziata questa cosa della prostituzione. Mi sembra che ho trovato un annuncio che diceva "se vuoi fare soldi facilmente", una cosa del genere» . Quindi, a domanda su chi l'avesse contattata, ha iniziato a ripercorrere la vicenda: «All'inizio Nunzio Pizzacalla e poi in seguito Mirko Ieni, che ha iniziato a organizzare quella che era l'attività mia e della mia amica. Li ho conosciuti entrambi tramite Internet. Il primo non l'ho mai incontrato né gli ho dato soldi per quello che faceva». Quanto al secondo, il pm ha chiesto una precisazione sui soldi che gli venivano dati: «Non ricordo che percentuale era, però mi ricordo che a volte era in base all' incontro, a volte, nell'ultimo periodo, come un fisso riferito alla casa». Ieni, infatti, aveva affittato un appartamento ai Parioli: «Non mi ricordo che mese e che periodo, mi sembra dopo l'estate 2013. Aveva affittato questo scantinato a viale Parioli. A volte ci andavamo noi, a volte ci accompagnava lui, ci veniva a prendere, o a casa dei clienti o appunto vicino a questi alberghi. Dipendeva». Quanto al resto di quella vita, sono tanti i rimorsi: «A volte facevo uso di stupefacenti. Non so collocare un momento specifico in cui ho iniziato. È stata un'escalation. Da quello che poteva essere una canna fino poi alla cocaina. Adesso ho smesso». Una situazione limite, percepita anche a casa: «Mia madre si era accorta dei miei atteggiamenti, cioè ero molto aggressiva, non rispettavo le regole, non volevo andare a scuola e ho smesso di andarci, sono stata bocciata». Sull'imputato si è detta «sicura che sia uno dei clienti». Dubbi invece, sull' età riferita: « Sono passati troppi anni». Se si presentasse in genere come minore, però, il giudice l' ha voluto sapere: «Sugli annunci c' era scritto 18- 19 anni. A volte lo richiedevano e comunque ovviamente non dicevamo che eravamo minorenni».
Claudio Fabretti per leggo.it il 31 ottobre 2019. «Stavolta esplode la bomba». Benedetta Porcaroli e Brando Pacitto, protagonisti di Baby 2, non hanno dubbi sull’impatto della nuova stagione: «Se la prima è servita a svelare i personaggi, questa mostrerà le conseguenze delle loro scelte». La serie di Netflix, ispirata dal caso di cronaca delle baby-squillo dei Parioli, racconta la vicenda di due adolescenti romane la cui vita, apparentemente perfetta, cela in realtà una serie di insicurezze e paure, che le porterà a frequentare persone sbagliate, finendo nel giro della prostituzione. «Entriamo negli alberghi - racconta Benedetta Porcaroli - che diventano centrali nelle vicende dei protagonisti». Brando e Benedetta hanno quasi la stessa età delle protagoniste della vicenda reale: «Siamo cresciuti in una realtà romana molto simile a quella che viene raccontata nella serie», spiega Pacitto. «All’epoca fu sconvolgente scoprire queste vicende - aggiunge Porcaroli - Queste ragazze le avevo incrociate a Ponte Milvio, le conoscevo di vista. Pensare che tutto questo succedeva proprio dietro casa nostra, tra Balduina, Parioli e Prati, è stato uno choc. Apparentemente, in questi posti, tutto va sempre bene». Stessa generazione, insomma, alle prese con gli stessi problemi: «Questa storia non racconta la normalità - sostiene Porcaroli - ma alcune vicende e stati d’animo sono comuni a tutti. C’è una forte empatia tra noi ragazzi e nei nostri confronti c’è chi tende a manifestarla in modo quasi morboso. Forse è il quadro di una generazione un po’ allo sbando». Quando il lato oscuro prende il sopravvento, entrano in gioco anche le dinamiche familiari. «Molte responsabilità nascono dentro casa, spesso non c’è dialogo e le adolescenti cercano dei punti di riferimento altrove», sostiene Porcaroli. E anche la scuola non può sopperire a queste lacune: «C’è una scena nella serie - racconta ancora Benedetta - in cui il preside della nostra scuola, interpretato da Tommaso Ragno, dice ai genitori dei ragazzi: “Voi pretendete di lasciarci i vostri figli e li volete consegnati fatti e cresciuti, ma noi non posiamo sostituirvi”». A proposito di scuola, esperienze diverse per i due protagonisti: «Io andavo al Nazareth», racconta Pacitto. «Una scuolaccia!», scherza Porcaroli, che invece ha frequentato per tre anni e mezzo il Mamiani: «Ma ero sempre a rischio bocciatura, così sono passata a una scuola privata, il Visconti, ma sono riuscita a prendere debiti pure là. Però lavoravo sui set 7 mesi all’anno, era dura». A dividere i due anche il calcio: «Romanistissima» Benedetta, mentre Brando si professa «del tutto disinteressato». Su una cosa però concordano: «La provenienza da Roma Nord è uno svantaggio per chi fa l’attore». Spiega Porcaroli: «Roma Nord ti mette addosso un marchio a fuoco, anche se vieni da una famiglia normale e hai poi fatto altre esperienze altrove. Chi viene da altre zone della città ha meno freni inibitori e pregiudizi su cosa è fico e cosa non è fico. Insomma, fuori da qui cresci in modo più sano. Io, ad esempio, per superare il senso di ridicolo di una scena ci metto il triplo di quello che impiega il nostro collega Mirko Trovato che interpreta Brando». Grazie a Baby, invece, la loro popolarità ha largamente superato i confini di Roma Nord: «A Miami dei portoricani mi hanno riconosciuto: mi avevano visto nella serie - racconta Porcaroli - È un impatto strano, devi saperlo gestire, perché ti può dare l’illusione di essere arrivata al traguardo. Sarebbe un errore fatale».
Da I Lunatici Radio2 il 3 ottobre 2019. Telefonata particolare quella ricevuta dai Lunatici questa notte. Era da poco passata l'una e venti e Caterina, da Treviso, ha deciso di chiamare lo 063131 per raccontare la sua storia a Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, che trascorrono in diretta le notti dal lunedì al venerdì, dalla mezzanotte e trenta alle sei. "Vi ascolto tutte le notti ma trovo solo ora il coraggio di chiamare", ha esordito Caterina, prima di proseguire. "Faccio la prostituta, lavoro a Treviso, in automobile. Ho 31 anni. Ho iniziato a prostituirmi ad aprile. Devo risolvere dei problemi di natura economica, ho delle pendenze con l'agenzia delle entrate. Ero sposata con una persona che mi ha messo in mezzo a un po' di guai. Prima lavoravo in una biblioteca. Ho un uomo, sposato. Non sa che faccio questo lavoro. Spero di smettere presto, ma non mi dispiace più di tanto quello che faccio. Questa notte è una notte in cui si lavora poco. Succede sempre quando c'è la Champions League. Quando gioca la Juve è ancora peggio. Aspetto i mariti insoddisfatti delle altre donne. Non vado con i clienti ubriachi, i drogati e alcuni stranieri. Chiedo cinquanta euro a prestazione per una cosa veloce. Tra i miei clienti ci sono anche molti sessantenni. Gli uomini che vengono con me non mi fanno schifo, ma pena. Hanno tutti tanti problemi. Polizia e carabinieri? Non mi dicono niente. Ho sentito parlare dei papponi che pretendono un pizzo per farti battere senza romperti le scatole, ma per ora da me non è venuto nessuno".
Da “la Zanzara - Radio24” il 2 ottobre 2019. “La cosa preoccupante non è il clima, non è quello che dice Greta e quei cretini che la sostengono. La cosa preoccupante è il maschio. Non ci sono più maschi. Il maschio è finito. Su dieci clienti che vengono da me otto sono passivi, li scopo io. Vogliono tutti prenderlo nel culo. E non sono nemmeno omosessuali”. Lo dice Efe Bal a La Zanzara su Radio 24 parlando della sua attività di escort. “Se vai a vedere gli annunci dei trans – dice Efe Bal – fanno vedere tutti il pisello. Siamo più maschi noi di quelli che vengono da noi. Che sono tutte femminucce. Mi contattano via telefono soprattutto persone sposate con figli. Vedo le foto coi bimbi in braccio e poi vogliono prenderlo dietro. C’è qualcosa che non va”. Sei quasi una sociologa: “La sera scopo gli uomini. Mi sembra che ci sia un disagio sociale. A volte voglio essere scopata pure io. Mi voglio sentire come una donna, ho fatto il seno, l’epilazione, i capelli, il trucco. Però raramente trovo maschi veri. Solo femminucce”.
Susanna prostituta 50enne che batte la Salaria in bicicletta. Da “la Zanzara - Radio 24” il 15 ottobre 2019. “I vigili mi hanno fatto una multa di 250 euro, così non si può continuare a lavorare. Ho salvato i miei figli, il padre ci ha lasciato da soli. Hanno più di 20 anni, la più piccola l’ho mandata a studiare al Nord in una scuola di moda importante. Mi costa molto. Grazie al fatto che faccio la puttana, grazie a questo lavoro posso darle un futuro. Qui invece i vigili se la prendono con me. Sono disperata”. A La Zanzara su Radio 24 Susanna, l’ormai famosa prostituta della Salaria in bicicletta, rivela di essere stata multata dalla Polizia locale della Capitale per una motivazione assurda: “Cruciani leggi qui, è incredibile: “nella suddetta via assume atteggiamenti a sfondo erotico-sessuale chiaramente conducibili all’attività di meretrice”. Com’eri vestita?: “Normale, leggings lunghi neri nemmeno troppo trasparenti e maglione”. Come hai risposto?: “Ho fatto scrivere alla vigilessa queste parole: svolgo questo mestiere da circa otto anni”. “Ero vicino alla bicicletta – racconta – e ballavo un pò così, con tutte quelle nude che ci sono per strada. Così non si lavora più. Mi hanno detto di coprirmi di più, sicuramente tornano”. “Cara signora Raggi – insiste Susanna –io guadagno i soldi così perché la vita è andata in un certo modo, ho trovato questa come soluzione, ci lasci lavorare, la prego. Altrimenti non so come fare. Io sono felice a essere una puttana. Quando arriva un cliente sono felice perché prendo i soldi e godo. Meglio di così. A me piace tantissimo scopare con tanti uomini e divertirmi”. Come hai iniziato?: “Avevo bisogno di soldi e facevo le pulizie. Ho chiesto al signore della casa che mi guardava sempre e mi diceva: quanto sei bella, quanto sei bella. Gli ho chiesto in modo chiaro: quanto mi dai? E mi ha dato due giornate di lavoro per una scopata”. “Ho fatto la puttana – dice ancora - per guadagnare di più e dare una possibilità ai miei figli: ho fatto la ballerina alla Rai, la cameriera, la badante, la donna delle pulizie, e poi la prostituta”. Continua l’appello al sindaco Raggi: “Mi tolga la multa, non faccio del male a nessuno. Non so cosa inventarmi. Se non guadagno più distruggo i sogni di mia figlia. Come faccio? Non faccia arrivare i vigili”. “Io faccio del bene – continua – perché ci sono tantissimi uomini che a casa non scopano. Non scopano e vengono da me. Hanno la moglie che si fa rodere il culo, la moglie che si incazza”. Quanti ne fai al giorno?: “Dai cinque ai trenta, è successo anche questo. Sono famosa per il culo sodo, e ho il pelo. 53 anni portati benissimo”
«Sono transessuale e faccio la puttana: per donne come me cercare lavoro è una farsa». La storia di Alessia, laureata in Scienze sociali: «Ho mandato curriculum ovunque ma non appena mi vedono dal vivo il rifiuto immediato. Nel nostro Paese mancano pezzi enormi di normalità». Maurizio Di Fazio il 4 settembre 2019 su L'Espresso. Alessia ha quarant’anni, ed è nata e vive al sud, «anche se la mia città del cuore è Berlino, lì le cose vanno molto diversamente». È transessuale: tre anni fa è stata la prima cittadina della sua regione a ottenere il cambio anagrafico di sesso senza obbligo di operarsi, di «rettificarsi chirurgicamente». Prima dello storico pronunciamento della Corte costituzionale del 2015, e dell’intervento della Cassazione, faceva testo la legge del 1982 sul transessualismo, che codificava l’iter medico e burocratico per la «trasformazione sessuale». Il terzo sesso? Giuridicamente, non esisteva. Lei è una delle 400 mila transgender italiane secondo stime non ufficiose: un mondo misterioso, invisibile, rimosso, su cui si accendono i riflettori solo per scandali e fatti di cronaca nera, oppure di taglio «rosa spinto». «L’ho capito subito di essere nata in un corpo sbagliato. Da bambina giocavo con le bambole. Alla scuola media niente partite di calcio per me, anzi, rifiutavo in blocco le ore di educazione fisica. Alle superiori (ho fatto Ragioneria) la mia consapevolezza si è cristallizzata definitivamente. Sono diventata omosessuale, o meglio, ho cominciato ad avere un “aspetto da gay”, pur non frequentandone. Quando mi sono iscritta all’Università ho iniziato quello che noi chiamiamo il Percorso, la Transizione. Prima l’assunzione (massiccia) di ormoni, poi le varie operazioni e lifting (plastiche facciali, labbra, seno). Una via crucis comune a tutte noi trans. Infine anni di estenuanti sedute psicologiche, che hanno attestato la mia “disforia di genere”, indispensabile per chiedere il cambio dei documenti. Il rapporto con i miei? Non ho mai avuto la famiglia dalla mia parte, anche se oggi il nostro legame è migliorato. Resta però intriso di eterni silenzi, di divagazioni, omissioni sul tema. Vorrei tanto parlarci, affrontare a viso aperto l’argomento finché si è in tempo». Dura la vita di una transessuale che cerca un lavoro normale nel Belpaese. «Sono laureata in Scienze sociali. Ho mandato curriculum ovunque, ma non mi hanno dato mai retta. L’unico mestiere che mi hanno permesso di fare è stato quello della barista, da adolescente, quand’ero ancora maschio. Io sarei un’ottima assistente sociale, magari in una comunità di recupero per tossicodipendenti. Mi piace mettermi al servizio degli indifesi. Decine di colloqui di lavoro, ma sempre la solita farsa: non appena mi hanno vista dal vivo è scattata la discriminazione, il rifiuto immediato. Alle trans è negata la possibilità di lavorare». Alessia lancia una proposta provocatoria. «Lo Stato dovrebbe aiutarci, almeno all’inizio, per legge. Perché non si introduce, nei concorsi pubblici, una piccola quota fissa destinata alle transessuali? Bisogna pur smuovere le acque in qualche modo. Sono pochissime le transessuali assunte in lavori normali nel nostro paese. La maggior parte di noi è così costretta a prostituirsi». O a esibirsi nel demi-monde dello spettacolo, anche in quello a rischio trash. Lei ha iniziato a vendere il suo corpo una decina d’anni fa, in maniera saltuaria. Da un po’ di tempo esercita a tempo pieno. «Credimi, smetterei anche subito, ma per la società italiana possiamo fare soltanto questo nella vita. Non esistono alternative, come se sia, per noi, una legge di natura. Si dà per scontato che dobbiamo prostituirci per vivere. Ti chiedono: “oggi hai lavorato?”, tradotto, “oggi ti sei prostituita?”. Siamo descritte come esseri senza possibilità di gusto o canoni estetici, senza libero arbitrio. Bambole mitologiche, macchine roventi costruite per il sesso. Quando vado a mettere il carburante, capita che il benzinaio mi dica: “Ce l’hai cinque minuti? Ci appartiamo”? E al mio rifiuto restano spiazzati, replicano con candore: “Scusa, ma non fai la trans?”. Come se fosse un mestiere».
Condannate a vivere in un presente perpetuo. «Noi stesse ci informiamo poco e non pensiamo al futuro, ai nostri diritti civili calpestati. Non facciamo massa critica tra di noi. Siamo concentrate sulla sopravvivenza quotidiana. Ci ripetiamo: tanto la nostra situazione non muterà mai. Una donna che si prostituisce può decidere di farlo anche giusto per un giorno, un mese, un anno. Noi trans, no: è un sortilegio che ci affligge per tutta la vita. E così non vivi serena, e poco cambia se batti per strada o sei una escort di lusso. A lungo andare il corpo e la mente si logorano. Non c’è futuro per quelle come noi».
Transessualità e amore. «Tanti uomini vorrebbero avere un rapporto sentimentale con noi, ma si tirano indietro. Temono di essere stigmatizzati, o additati come omosessuali latenti. Nessuno, alla fine, si impegna». Un nuovo fantasma si aggira nella penisola: la transfobia. «È un fenomeno molto diffuso dalle nostre parti. La repulsione-attrazione verso il differente da sé. Ma altrove non è così. In Germania, a Berlino, dove vado spesso, le trans svolgono lavori banalissimi. Le incontri alla cassa del supermercato, alle poste, a scuola, e nessuno le fissa come se si fosse appena imbattuto nel circo Barnum. Vivono alla luce del sole, frammiste agli altri. Da noi sarebbe impossibile, siamo indietro anni luce. La solita ipocrisia: in tanti, potenti compresi, “vanno a trans”, ma di nascosto. Pubblicamente invece ci perseguitano, o ci ignorano». Siamo lontanissimi da Stoccolma, da quella Svezia che già nel 1972 aveva approvato una legge sull’identità di genere. Siamo lontani dalla Spagna, o dal Canada, che hanno fatto progressi da gigante sul terreno dei diritti del “terzo sesso”. Essere transessuale, da Bolzano a Canicattì, comporta inoltre tutta una serie di insormontabili difficoltà burocratiche. «Se volessimo prendere una casa in affitto, sarebbe impossibile, perché per i proprietari siamo giocoforza delle puttane, o comunque tali saremmo considerate dagli altri condomini. Comprarsi una tv o un divano nuovo a rate è altrettanto off-limits, perché senza un lavoro ufficiale e a tempo indeterminato non esiste nemmeno la busta-paga, e allora addio finanziamenti. Per non parlare dell’eventuale accesso a un mutuo per acquistare un appartamento. Ci mancano pezzi enormi di normalità. Ma noi siamo come tutti voi». Nel 2018, in Italia, sono state uccise cinque transessuali. Un record in negativo in Europa, e che non tiene conto delle sparizioni, delle transgender non dichiarate e delle decine di suicidi. Si respira un clima di chiusura, di inconscia caccia alle streghe. Sarà che manca ancora un legge contro la transfobia e l’omofobia, di cui la prima è diretta discendente. In Svizzera, nell’autunno del 2018, sono diventate un reato: il parlamento elvetico ha votato compatto. Da noi, invece, il disegno di legge che contemplava l’allargamento della legge Mancino-Reale al movente d’odio basato sulla discriminazione per l’identità di genere e l’orientamento sessuale, è fermo al palo da quasi sei anni. Venne approvato alla Camera il 19 settembre del 2013, e trasmesso al Senato. Ma da allora è sparito.
Le Baby Escort. “HO DICIOTTO ANNI E PER CENTO EURO FACCIO TUTTO QUELLO CHE VUOI”. Gio Musso per Nuova Cronaca il 25 agosto 2019. Sono passati più i cinque anni da quando, nel marzo del 2014 venne alla luce il caso delle baby squillo dei Parioli che coinvolse 500 nomi della “ Roma bene”, e che finì con l’arresto per sfruttamento della prostituzione di Mirko Ieni, “agente” di Azzurra e di Aurora le due escort romane di 14 e 15 anni. Nuova Cronaca torna sull’argomento e scopre che, non solo nulla è cambiato ma che, anzi, il fenomeno delle baby escort si è esteso. Nuova Cronaca riapre il file e racconta il sorprendente fenomeno delle giovani prostitute universitarie che, per mantenersi gli studi e per vivere “sopra le righe”, offrono servizi sessuali a pagamento direttamente in casa propria. La realtà è in costante aumento e sta creando problemi di concorrenza con le prostitute che usano i canali tradizionali, la strada, l’appartamento, costrette ora ad abbassare i prezzi. Sono le ventitré di una serata come tante quando decido di iniziare a raccogliere dettagli per realizzare questo articolo. Dopo alcune ricerche su Google utilizzando parole chiave che non mi portano da nessuna parte (ad eccetto dei classici siti di escort), finalmente trovo la chiave di accesso (che per validi motivi non cito perché sarebbe come la pappa pronta per i gatti ). Mi addentro curioso di conoscere (come un adolescente alle prime armi) ma con la consapevolezza di un adulto, le sorprese che mi attendono. Ce n’è per tutti i gusti: “trans, donne mature, giovani orientali che elargiscono prestazioni sessuali in coppia, infermiere over 50 in lingerie provocante, e, con mio grande rammarico, anche studentesse a viso scoperto che postano foto di sesso esplicito. Nella rete questa volta ci siamo finiti anche noi ma con un fine diverso dal solito: far luce sul mercato del sesso a pagamento delle studentesse universitarie. Quello che racconterò di seguito potrà diventare spunto di riflessione per ogni genitore. Gli annunci postati sul sito parlano chiaro e le foto di giovanissime studentesse in piccanti pose erotiche ed invitanti ancora di più. Guardo le foto e il mio stomaco si contrae, ho una figlia della stessa età e per un attimo penso ai familiari di queste ragazze ignari di tutto. Per una madre o un padre “responsabili” i figli, sono “pezzi e core” come dicono a Napoli ma in questo caso il cuore dei diretti interessati, se sapessero, andrebbe letteralmente in frantumi lasciando spazio a sentimenti distruttivi e a innumerevoli sensi di colpa dal titolo: “dove ho sbagliato? Perché proprio a me? Le ho dato fiducia e invece...Dopo le dovute riflessioni del caso, mi decido e ne contatto una. Il suo nome è ben visibile nello spazio dedicato come in evidenza è indicato l’elenco delle prestazioni sessuali. Si chiama Camilla, ha 19 anni, riceve a Gallarate. Osservo le foto, ha il viso scoperto, porta due grandi occhiali da vista neri (tipo segretaria vogliosa) e indossa una t shirt aderente, non porta le mutandine e in una foto si vede la vagina in bella mostra. Nascondo il numero del mio cellulare e faccio partire la chiamata, il telefono squilla ma lei non risponde, ritento, ma continua a non rispondere. Rileggendo l’annuncio mi accorgo di essermi perso un dettaglio importante che citava: “non rispondo a numeri anonimi”. Ritento con il numero visibile, risponde al terzo squillo, percepisco dalla voce che è una ragazzina, le chiedo l’età mi dice di avere 19 anni (anche se nella foto sembra averne 16). Alla domanda “di dove sei”? Risponde che è italiana di padre e Spagnola di madre. Con estrema rapidità e senza indulgere in inutili preamboli mi invita a recarmi a casa sua dove con 50-100 euro promette di farmi impazzire di piacere offrendo tutta se stessa senza riserve. Per un attimo rimango sbigottito e incredulo dai suoi modi diretti e invitanti, le spiego che sono un giornalista e che vorrei farle alcune domande e lei per tutta risposta e in modo risoluto risponde che le sto solo facendo perdere tempo e soldi e con i giornalisti non parla. Senza aggiungere altro mi liquida sbattendomi il telefono in faccia. Non mi arrendo e ne contatto una decina sempre con la stessa prassi, tutte giovanissime e tutte disponibili a dispensare piacere ma non inclini all’intervista. Alcune hanno un leggero accento straniero, altre sono Italianissime. Decido allora di immedesimarmi in “cliente” e contatto una studentessa di 19 anni di Legnano: Victoria. Dalle foto si percepisce che di accattivante ha solo la lingerie trasparente che lascia trapelare un seno nudo e le mutandine nere, niente trucco, capelli lunghi fino alle spalle e due bellissimi occhi azzurri. Anche lei a viso scoperto come se del domani non gliene importasse nulla. Più che sesso, l’espressione del suo viso, lascia trasparire tenerezza ma a “quelli” del “girone dei lussuriosi” poco importa. L’obiettivo è farsela, dimostrando a se stessi che sono uomini e che in “sesso da marciapiede” possiedono un Master. Ecco di seguito la sintesi della telefonata.
Quanti anni hai? Diciannove
Sei Italiana? Si, italianissima. Mio padre è italiano e mia madre è Ucraina
Sei disponibile stasera? Si, possiamo fare tutto quello che vuoi, bocca, culo, sono molto brava a letto, e posso soddisfare tutte le tue fantasie erotiche...
Sono over 50, vado bene lo stesso? No problem! Gli uomini maturi sono meglio perché sono più esperti e fantasiosi. Non ti preoccupare, vedrai che ti faccio impazzire di piacere.
Dove possiamo vederci? A casa mia, abito a Legnano. Possiamo farlo sul divano o se preferisci sul letto matrimoniale.
Io sono molto esigente, se non collabori, non mi eccito. Io faccio tutto, caro, mi piace giocare... stai tranquillo che non rimarrai deluso, s.....o bene e ho due chiappe belle sode, vieni a trovarmi e vedrai.
Perché non vieni tu a casa mia? O se preferisci andiamo in Motel? No caro, ricevo solo a casa e non mi sposto.
Quant’è la tua tariffa? Cinquanta euro rapporto normale e cento euro rapporto completo.
Allora, vieni? Mi chiede lei. Domani, oggi non posso, ciao.
Appoggio il telefono sulla scrivania e miei occhi vengono rapiti per un attimo dalla luna piena che illumina il giardino. Rifletto su quello che ho appena sentito e mi chiedo se per queste giovanissime studentesse il gioco vale la candela. Il rischio di ricevere nella propria camera da letto un malcapitato è alto, come alte sono le probabilità di concedersi ad uno sconosciuto infetto da Hiv. Perché “buttarsi” via così senza ritegno e senza rispetto per la propria persona? Forse perché a volte, risulta più facile vivere al di sopra delle proprie possibilità e una volta entrate nel vortice dei guadagni facili, diventa difficile uscirne. O forse perché l’essere moralisti oggi non è più di moda e la trasgressione è lo stereotipo da seguire per essere al passo coi tempi. E se dietro tutto questo marciume ci fosse ancora una volta lo zampino del racket della prostituzione?
Veronica Todaro per Nuova Cronaca il 25 agosto 2019. Per l’anagrafe sono bambine. Eppure, secondo la Commissione Affari sociali della Camera, in Italia ci sarebbero oltre 2000 minorenni dedite alla prostituzione, chi per scelta, chi per obbligo. La stessa commissione ha stimato in tre milioni i clienti delle baby prostitute. Non sono solo rumene, moldave, nigeriane sulle strade: il fenomeno è fortemente in crescita e vede sempre più spesso ragazze italiane e benestanti usare il proprio corpo, in discoteca come a scuola, per comprarsi vestiti, borse, ricariche del cellulare ma anche, dal punto di vista psicologico e sociologico, come strumento di controllo, competizione, ed acquisizione di potere verso il prossimo. C’era stato il caso delle baby prostitute di Milano, nel 2009: i coetanei le chiamavano “ragazze doccia”, perché facevano sesso quotidianamente, come si fa la doccia appunto. Adolescenti, quasi sempre benestanti, che si prostituivano a scuola, non per soldi ma per beni materiali. Gli istituti frequentati erano prevalentemente privati. Nelle prime ore, domanda e offerta venivano contrattate sui telefonini, poi si passava in bagno dove le ragazze accettavano anche più di un cliente a testa, a seconda di quanto offrivano i loro compagni. Nel 2013 lo scandalo dei Parioli, quartiere chic della Capitale, uno dei più chiacchierati scandali sessuali d’Italia, una storia cominciata tra i banchi di un liceo classico e di recente diventata una serie tv. Tra i clienti, raccontano gli inquirenti “professionisti e commercianti, molto ricchi e con pochi scrupoli, pronti a spendere centinaia di euro, fino a migliaia di euro per un intero week end con loro”. Le Lolite piacciono, i clienti non mancano. A Brescia nel parcheggio sotterraneo di un centro commerciale, nel 2016, è stato scoperto un giro di prostituzione minorile in pieno giorno, sotto gli occhi di commercianti e clienti: sesso orale per pochi euro. E l’età si abbassa sempre più, 12, 13 anni, dove il confine tra prostituzione e pedofilia non esiste più.
Tasse e prostituzione, la sentenza (sbagliata) della Corte Costituzionale. Per la Consulta anche le escort (libere e consenzienti) sarebbero "schiave" ed "obbligate". Cosa dice la legge. Luciano Quarta il 10 giugno 2019 su Panorama. Con la sentenza n. 141/2019, di pochi giorni fa, la Corte Costituzionale si è occupata di prostituzione affermando che chi svolge il mestiere più antico del mondo, non lo fa mai per scelta veramente libera. Secondo la Consulta, anche quando si tratta di escort di lusso che intraprendono questa attività senza alcuna costrizione, alla base della loro scelta vi sarebbero stati di bisogno e fattori condizionanti di natura economica e sociale. La questione è stata sollevata rispetto a due figure di reato: il favoreggiamento della prostituzione e il reclutamento, nel corso del giudizio sul caso delle escort che partecipavano alle celebri “cene eleganti” dell’ex Premier Berlusconi. Secondo la Corte d’Appello di Bari, che ha rimesso gli atti alla Corte Costituzionale, le norme non tengono conto del fatto che dal dopoguerra ad oggi le cose sono molto cambiate: sono molte le “escort” che decidono liberamente di svolgere questa attività senza alcuna costrizione e persino a livello europeo ormai a questo tipo di attività è riconosciuta la dignità di un’attività economica, lecita a tutti gli effetti, sicchè quest’attività liberamente svolta dalle escort è espressione della libertà sessuale e di impresa, costituzionalmente tutelate. Per i giudici baresi quindi, si rischia di comprimere queste libertà fondamentali, anche perché non è chiara la delimitazione delle condotte punibili. La Consulta però non è d’accordo e, anche se ammette che quella delle escort per il diritto europeo si configura come un’attività economica di scambio di servizi e che secondo la giurisprudenza italiana sarebbe persino soggetta ad imposizione fiscale, quella della prostituzione, resterebbe un’attività contraria all’ordine pubblico e il rapporto che lega il cliente alla prostituta darebbe luogo ad un accordo nullo per illiceità della causa che comporta l’impossibilità di ottenere l’esecuzione per giudiziale delle prestazioni, per ambo le parti. L’assioma centrale di questa affermazione sta proprio nella tesi che la scelta di svolgere questa attività non sarebbe mai effettivamente libera, perché condizionata da situazioni di bisogno economico. Leggendo la sentenza, tuttavia, viene da pensare che questi supremi giudici, abituati a discutere di principi astratti, abbiano enormi difficoltà a leggere la realtà. Sembra che sfugga il fatto che da decenni le lucciole oggi sono organizzate in associazioni per rivendicare il loro ruolo, l’autodeterminazione sul piano giuridico ed un adeguato riconoscimento sociale; che in molti ordinamenti europei, moderni e democratici, è riconosciuto lo status professionale di sex worker; che in Italia vi sono escort che addirittura si battono per affermare il loro diritto di svolgere apertamente questa attività e pagare regolarmente tasse e contributi (come nel caso della trans Efe Bal). È incredibile che si possa negare ancor oggi che, accanto ai fenomeni criminali di costrizione e sfruttamento (giustamente perseguiti), esista anche un mondo fatto di persone che si determinano a svolgere un’attività che certamente comporta delicate implicazioni sociali e morali, ma lo fa in piena consapevolezza e libertà. Non meno liberamente di quanto molte persone iperqualificate, accettano per necessità di svolgere lavori dequalificanti, sottopagati e con livelli di tutela minimi. Insomma, perché sarebbe più libera e meno degradante la scelta di un ingegnere che, non trovando lavoro, si mette a fare il rider per le consegne a domicilio? Ed ecco la parte ipocrita: finchè si tratta di fornire il riconoscimento di diritti o l’accesso a servizi pubblici, siano essi di tutela giuridica o assistenziale, si prendono le distanze e si qualifica l’attività come immorale, contraria all’ordine pubblico e così via. Quando si tratta di incassare gabelle, ci si ricorda che è pur sempre un’attività economica e come tale soggetta ad imposizione fiscale. Ma chi esercita questo mestiere è effettivamente tenuto a pagare le tasse? La questione è tutt’altro che scontata. Nel tempo la giurisprudenza ha manifestato opposti orientamenti.
Ad esempio, la CTP di Milano, con la n. 272/2005, ha affermato che i redditi da meretricio non rientrano in alcuna delle categorie reddituali previste del TUIR, e che il corrispettivo della prestazione sessuale ha un connotato di natura sostanzialmente risarcitoria, e quindi non tassabile. La Cassazione, però, si è orientata in senso opposto e ha affermato che l’attività di meretricio genererebbe “redditi diversi” (art. 67 co. 1 lett. l) del TUIR) ed esattamente “redditi derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente” oppure “dalla assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere” (Cass. Sent. 4.11.2016, n. 22413; 27.7.2016, n. 15596; 13.5.2011, n. 10578; 1.10.2010, n. 20528). Il presupposto del ragionamento è che vendere prestazioni sessuali per denaro non è attività di per sé illecita. In questo ragionamento, tuttavia, ci sono diverse falle. Ragionando in termini puramente giuridici, occorre partire da un principio: i redditi tassabili sono solo quelli che la legge indica espressamente. Ora, la Cassazione muove dal presupposto che i redditi da meretricio ricadrebbero tra i “redditi diversi” assimilabili a lavoro autonomo, quando l’attività non viene esercitata abitualmente; riconducibili alla “assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere” se abituale. Dunque, se l’attività di meretricio viene svolta abitualmente, chiaramente siamo fuori dalla sfera dei redditi da lavoro autonomo non abituale. Però è discutibile che essa possa generare proventi derivanti dall’assunzione di un obbligo di “fare, non fare o permettere” perché, presuppone un ingrediente essenziale: che alla base dell’introito ci sia l’assunzione un obbligo propriamente detto. E qui casca l’asino: come ci ricorda anche la Corte Costituzionale nella sua sentenza, se mi accordo con una escort per ottenere una certa prestazione sessuale per una determinata somma, una volta che è stato “stipulato” questo contratto, poiché esso è nullo per illiceità dell’oggetto, la escort non è giuridicamente obbligata ad eseguirlo, quindi il cliente non può rivolgersi al giudice perché venga eseguito. Inoltre, se il cliente non paga spontaneamente, la escort non può rivolgersi al giudice per ottenere il pagamento della sua prestazione. Il che non è quello che succede in una normale prestazione di servizi: se stipulo un contratto che implica un obbligo di fare, se la mia controparte assume l’impegno e non lo adempie, io posso chiedere al giudice che lo condanni ad eseguire quell’impegno (esecuzione in forma specifica).
Il fatto che si discuta di prestazioni sessuali cambia tutto. Lo afferma anche il Consiglio di Stato: “sebbene l'esercizio della prostituzione non costituisca di per sé reato, non costituisce comune fonte lecita di guadagno, in quanto contraria al buon costume e, in quanto tale, nemmeno tutelabile in sede giurisdizionale, essendo nulli gli accordi raggiunti al riguardo (art. 1343 e 2035 c.c.)” (C.St. 8474/2010). In generale, la giurisprudenza amministrativa, trattando il caso di rilascio, rinnovo o revoca del permesso di soggiorno, ha affermato più volte che il fatto di avere proventi certi, derivanti dall’esercizio del mestiere più antico del mondo non è titolo idoneo ad ottenere o mantenere un permesso di soggiorno perché è un’attività sostanzialmente illecita e contraria al buon costume. Allora come la mettiamo? Quando si tratta di pagare le tasse l’attività di escort è considerata perfettamente lecita e quando si parla di permesso di soggiorno non lo è più? Ora, se affermiamo che gli accordi con una escort non determinano obblighi giuridici di cui si può chiedere l’esecuzione o sono addirittura nulli, allora viene a mancare quell’ingrediente essenziale costituito dall’obbligo, di “fare, non fare o permettere” alla base della norma sui redditi diversi assimilabili a lavoro autonomo. D’altro canto, in generale, come si fa a parlare di rapporto di lavoro autonomo, indipendentemente dalla sua natura abituale o occasionale, se questo non comporta l’insorgenza di obblighi tutelabili giudizialmente in ordine all’esecuzione delle prestazioni da ambo le parti?
Insomma, il ragionamento fa acqua da tutte le parti. Tuttavia, basterebbe davvero poco per risolvere questo pasticcio giuridico: basterebbe stabilire normativamente che l’oggetto dell’attività di prostituzione (liberamente esercitata, beninteso) è lecito e legittimo. Non dimentichiamo che esistono anche i principi europei in materia di libera prestazione di servizi. La Corte di Giustizia Europea con la sentenza 20.11.2001, in causa C-268/99, richiamata dalla stessa Corte Costituzionale, ha affermato apertamente che “la prostituzione costituisce una prestazione di servizi retribuita la quale rientra nella nozione di attività economiche”. Il che vuol dire che ogni forma di limitazione sulle modalità di organizzazione di questa attività, che oggi potrebbe essere qualificata e punita come forma di favoreggiamento, potrebbe risultare in contrasto con i principi di libera prestazione dei trattati UE. Sembra però, che il legislatore nostrano, piuttosto che affrontare un argomento così spinoso e pieno di implicazioni morali, politiche e religiose, preferisca lavarsene le mani e lasciare sbrogliare la matassa ai giudici, siano essi di merito o costituzionali.
''OPEN'' LE COSCE. Felice Florio per Open Online il 10 giugno 2019. Il 7 giugno la Corte Costituzionale ha difeso la legittimità della legge Merlin che, nel 1958, ha introdotto nell’ordinamento italiano i reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione. E, di fatto, stabilisce che non è davvero libera una donna che sceglie di prostituirsi: «La scelta di vendere sesso è quasi sempre determinata da fattori che limitano e condizionano la libertà di autodeterminazione dell’individuo». La sentenza n.141 del 2019 arriva in seguito al processo in corso a Bari e che riguarda il giro di escort che Giampaolo Tarantini e Massimiliano Verdoscia avrebbero garantito ad alcune feste di Silvio Berlusconi. La Corte d’Appello pugliese aveva messo in discussione la legge Merlin in quanto rischierebbe di limitare l’autodeterminazione dell’individuo. Abbiamo chiesto a Mike Morra, inventore del più grande portale italiano di recensioni di escort, un commento sulla sentenza. Cinque anni fa, dopo aver accumulato esperienza nel web marketing, l’imprenditore ha creato Escort Advisor. Dopo aver raggiunto la cifra di 20 milioni di utenti unici all’anno in Italia, la piattaforma si è diffusa in Spagna e in Regno Unito. Non funziona da intermediario tra escort e clienti, in Italia sarebbe un reato appunto, ma recensisce quella che è «una prestazione di lavoro». Rileggiamo un passaggio della sentenza 141 del 2019 della Corte Costituzionale.
«La scelta di “vendere sesso” trova alla sua radice, nella larghissima maggioranza dei casi, fattori che condizionano e limitano la libertà di autodeterminazione dell’individuo, riducendo, talora drasticamente, il ventaglio delle sue opzioni esistenziali. Può trattarsi non soltanto di fattori di ordine economico, ma anche di situazioni di disagio sul piano affettivo o delle relazioni familiari e sociali, capaci di indebolire la naturale riluttanza verso una “scelta di vita” quale quella di offrire prestazioni sessuali contro mercede».
Morra, qual è il primo commento che le viene in mente?
«La sentenza sembra equiparare una escort a una persona incapace di intendere e di volere».
C’è qualcos’altro che non le torna?
«Per esempio, non comprendo il passaggio sul fatto che sia considerata un’attività pericolosa, esistono moltissime attività pericolose ma non c’è alcun vincolo sulla possibilità di esercitarle. In realtà proprio questi presupposti discriminatori ne aumentano la pericolosità e l’insicurezza, per esse e per i loro clienti che, non dimentichiamolo, sono oltre 20 milioni di italiani».
Ma la sentenza vuole sottolineare che il rischio dello sfruttamento sussiste in quanto la merce di scambio diventa il corpo.
«È un pregiudizio profondamente radicato nella nostra società, quello che considera come un dato di fatto ineludibile lo sfruttamento delle prostitute. Non si ritiene semplicemente possibile che si tratti di una scelta consapevole e razionale quella di disporre del proprio corpo liberamente e di fare del sesso una attività economica».
Non vede, anche per le escort, il rischio che qualcuno possa gestirne e approfittare del loro lavoro?
«Le escort professioniste che si promuovono in modo autonomo su internet sono vere e proprie lavoratrici autonome, che organizzano e gestiscono in maniera indipendente la loro attività, ma che per farlo e distinguersi dalla prostituzione di strada dovrebbero anche essere messe nelle condizioni di poterlo fare».
Come bisognerebbe intervenire secondo lei?
«Prima di tutto, sarebbe necessario che venisse riconosciuta come attività professionale perché soddisfa uno dei bisogni di base dell’uomo: il diritto alla sessualità. Poi, ciò che è certo è che le escort, come enunciato in varie sentenze dalla Cassazione nei processi in cui queste erano state accusate di evasione fiscale, svolgono un’attività economica come un’altra e la mancanza di una qualsiasi forma, anche minima di regolamentazione, fa sì che Escort Advisor rimanga l’unico punto di riferimento per la sicurezza delle escort e dei propri clienti».
Ma avete percezione delle esigenze delle donne che vengono recensite su Escort Advisor?
«Le escort, con cui parliamo ogni giorno, ci dicono che aspettano volentieri che venga rinnovata la normativa per poter avere una tutela economica e pensionistica, sanitaria, legale, rendendo la loro professione riconosciuta. Come per esempio in Germania. Il tutto porterebbe anche maggior sicurezza e ordine in un settore che esiste dagli albori della civiltà».
Un’ultima curiosità: qual è il guadagno di quest’attività?
«Non siamo un sito di prenotazioni e quindi non possiamo avere contezza di quello che sia il reddito delle escort. Da alcune indagini, stimiamo che il prezzo medio di una prestazione è di circa 113 euro in Italia».
Susanna prostituta 50enne che batte la Salaria in bicicletta. Da Le Iene il 12 giugno 2019. “Prostituirsi? Non è mai una scelta libera” e al contempo “favorirla anche quando questa sembra esercitata consapevolmente e in piena libertà, resta un reato”. Lo dice la Consulta che salva la legge Merlin con questa motivazione. Era stata la Corte d’Appello di Bari, nell’ambito del processo escort in cui è coinvolto Silvio Berlusconi, a rivolgersi alla Consulta per chiarire come la scelta di prostituirsi è esercizio di libertà sessuale, perché deve essere accusato di favoreggiamento chi la agevola. A proposito della libertà di prostituirsi, con Nina Palmieri abbiamo conosciuto Susanna, una prostituta che da 10 anni esercita la professione lungo la Salaria a Roma, che percorre in lungo e in largo a bordo della sua bicicletta, come potete vedere nel servizio qui sopra. “Non tutte siamo obbligate a farlo, bisogna sempre capire quale sia il motivo che c’è dietro”, dice Susanna commentando la sentenza le cui motivazioni sono state rese note solo in questi giorni. “Grazie alla strada io sto dando un futuro ai miei figli”. Nina ci ha raccontato la vita di questa donna che a 53 anni ha scelto liberamente di prostituirsi senza alcun protettore alle calcagna. “Sono favorevole all’apertura delle case chiuse, stare sulla strada è pericolosissimo”, dice. “Pagheremmo le tasse e avremmo più sicurezza. Anche se agli uomini eccita la situazione trasgressiva…”. Si definisce la “cagna dei boschi”, dove lavora ogni giorno dalla mattina al tramonto. Lei al lavoro va in bici. È una donna libera e innamorata del mestiere che si è scelta. Si sveglia alle 4, dopo la colazione con i figli, inizia la sua giornata. “Io sono qui per loro perché sono stata abbandonata da quell’uomo che amavo alla follia”, racconta. Loro che oggi hanno 20 e 22 anni sanno tutto del suo lavoro. “Io faccio questa vita a testa alta, non me ne frega niente. Così sono felice”, dice Susanna. Lei è stata ballerina professionista anche in tv, finché un incidente stradale le stronca la carriera. “Ho iniziato facendo gli striptease nei night”, racconta. Qui conosce un uomo che poi diventerà il padre dei sui figli. “Ho mollato tutto, seguendolo”. Rimane incinta e poco dopo arriva la seconda figlia. “Lui sparisce e ci lascia soli. Non sapevo che cosa inventarmi. E proprio non ce la facevo più”. Incomincia a fare le pulizie, ma arriva una depressione che le fa perdere anche questo lavoro. “Ho iniziato ad andare sulla strada. È un lavoro che mi diverte. Mi sento cercata e desiderata”. Ha anche il giorno del riposo: la domenica che ha scelto di trascorrere con i figli. Lei è libera e questa libertà arriva ai suoi clienti. “Loro tornano e io mi sento sicura di stare qua e di portare il pane a casa”. La prostituzione viene definita come “un’attività che degrada e svilisce la persona” dalla legge Merlin, per questo è stato rigettato il ricorso. “La dignità si può perdere in altri modi, non solo facendo la mignotta. Non ci vedo nulla di male”.
Faccio sesso, pago, recensisco. Ecco il mondo di Escort Advisor dove la vergogna dura poco. Ci sono clienti sposati e single, vecchi e giovani. Tutti alla ricerca di una pulizia ossessiva. Le confessioni degli uomini che cercano in rete l'amore mercenario. Eleonora Numico il 2 agosto 2019 su L'Espresso. Negli ultimi anni il 40 per cento della prostituzione si è spostata dalle strade al web: sono sempre di più gli uomini che usano i siti come intermediario. Prima di entrare nell’appartamento della ragazza con cui ha un appuntamento, Rogerio gira intorno al palazzo un paio di volte cercando il coraggio per suonare il campanello. Guarda le targhe delle auto pensando che se quella successiva ha il numero finale pari gira i tacchi e non va. Alla fine, come sempre, entra. La donna riceve nel sottoscala di un edificio nel centro di Taranto. Nella stanza ci sono un letto con il piumone, una stufa elettrica e una specchiera, è un ambiente spoglio. “La prima volta che sono andato – mi racconta Rogerio – mi ha accolto una ragazzina rumena su dei trampoli, in biancheria intima e in sottofondo Radio Maria. Stava ascoltando il rosario. Ho pensato: “Che diavolo sto facendo? Come sei caduto in basso!”. La vergogna è durata poco, vinta dall’eccitazione di avere a che fare con un certo tipo di donna che probabilmente non avrei mai potuto avere gratis. Una volta uscito da lì ero confuso, non ero riuscito nemmeno a concludere… sono rimasto straniato per un giorno intero“. Nei due anni successivi al primo appuntamento Rogerio ha incontrato la stessa escort altre 17 volte. È un uomo di 34 anni, con una relazione stabile e un lavoro precario nell’ambito della comunicazione. Incontra le prostitute nella pausa pranzo, per il desiderio di fare sesso con partner differenti e per sperimentare sensazioni nuove. Rogerio è uno dei 36 clienti di escort che ho intervistato sulle chat dei siti di prostituzione, nel tentativo di dare un volto ai milioni di italiani che hanno regolarmente rapporti a pagamento e che si confondono tra i nickname utilizzati su Internet. Negli ultimi anni il 40 per cento della prostituzione si è spostata dalle strade al web: sono sempre di più gli uomini che usano i siti come intermediario. Una delle piattaforme più frequentate in Italia è Escort Advisor, dalla sua fondazione nel 2014 è stata visitata da 30 milioni di utenti e ha ospitato le inserzioni di 11 mila escort. Mi sono registrata al sito e ho contattato gli uomini che, sotto i profili delle prostitute, recensivano i rapporti a pagamento avuti con loro. Sulla chat interna al portale lo sfondo delle mie domande era grigio chiaro, quello delle risposte dei miei interlocutori azzurro pallido. La prima volta che ho aperto una conversazione ho pensato che fossero colori da sala operatoria.
DISINFETTARE. Disperso89 ha 30 anni, è di Como e si mantiene lavorando in un centro sportivo. È sempre stato single e per lui il sesso è soprattutto un passatempo per rilassare il fisico e la mente. La prima volta che è stato con una escort aveva 21 anni e da allora ha un rapporto a pagamento di circa mezz’ora ogni due settimane, in base alla sua disponibilità economica. Lo schema è sempre lo stesso: “prima dell’appuntamento faccio una doccia a casa mia, poi quando arrivo in loco chiedo di andare in bagno per lavare le parti basse. Quando finisco lavo di nuovo le parti basse dalla escort“. Una volta tornato a casa Disperso89 fa un’altra doccia per lavare via dalla pelle i segni di rossetto e l’odore della donna con cui è stato. Lavarsi prima e dopo i rapporti sessuali con le prostitute è un’abitudine che tutti i clienti hanno. L’igiene è fondamentale. È spesso dirimente nella scelta tra le ragazze OTR, On The Road, che si prostituiscono in strada, e quelle che invece ricevono in appartamenti, garantendo pulizia e privacy. L’acqua non cancella solo le tracce rimaste sul corpo: la pulizia di cui parlano molti uomini è anche interiore. “Non mi sono mai sentito in colpa o sporco perché stavo commettendo qualcosa di moralmente deprecabile, come lo intende la società oggi“, spiega Obice, torinese, sposato, con un’attività libero professionale, “gioco con altre donne senza coinvolgimenti emotivi. È sesso e basta“. I rapporti a pagamento vengono descritti come privi di ogni sentimento. Il sesso è ridotto alla meccanicità di due corpi che si muovono e si danno piacere. È diverso e separato dalla relazione con la compagna. “Come mi sento quando mi ritrovo nuovamente con la mia partner dopo una frequentazione?“, Obice anticipa la mia domanda, “A mio agio. Non credo nella fedeltà, i cani sono fedeli. Si tratta di una forzatura, un artificio di natura culturale e sociale“. Non per tutti i rapporti a pagamento implicano l’infrangere un patto di fedeltà. “Per me non è tradire mia moglie“, spiega Toroseduto81, quarantenne di Varese che lavora in una struttura alberghiera. “Lo faccio senza alcun tipo di coinvolgimento, solo prettamente per il sesso. È molto importante per trasgredire, ma allo stesso tempo sono molto soddisfatto con la mia donna che diversamente dalle altre amo anche“. Lo scambio di denaro inquadra fin da subito il rapporto con la ragazza nell’ottica di un contratto economico, allontanando il rischio di innamorarsi e di essere coinvolti oltre i limiti orari di un appuntamento. Il sesso è inteso come un bene di consumo: paghi e acquisti un servizio. Tutto è chiaro, codificato e stabilito, con l’unico scopo di soddisfare un desiderio senza incorrere in complicazioni future.
ANESTETIZZARE. I rapporti con le escort non prevedono il contatto con l’amore ma neanche con la disperazione. Il pagamento contribuisce a creare un distanza con la donna, con la sua provenienza sociale e con le sue difficoltà. Ma non sempre è sufficiente. “Ricordo un’italiana che incontrava con la figlia piccola in casa”, mi confida Rogerio quando gli chiedo qual è stata l’esperienza peggiore avuta con una escort. “Lei era una donna normale, qualche anno in più di me. Una ragazza sfiorita: trucco pesante, capelli tinti, biancheria dozzinale, sulle pareti foto di lei di quando era più giovane. La casa normale, dignitosa, pulita. La bambina è spuntata subito gattonando, avrei voluto scappare via ma sono rimasto. Lei ha messo la figlia nel box come se nulla fosse. Ho provato schifo per lei e per me“. Una volta uscito dall’appartamento Rogerio ha scritto subito una recensione sotto il profilo della ragazza. “Esternare la propria esperienza quasi l’esorcizza“, dice, “ti fa sentire spettatore di qualcosa, quindi esterno all’azione“. Il tentativo di anestetizzare i rapporti a pagamento si concretizza anche nella scelta delle prostitute. “Ho provato quelle in strada“, racconta Casade, salernitano di 39 anni, single, che lavora come impiegato, “ma mi facevano troppa tristezza perché si vedeva che stavano lì a forza e al freddo“. Nessuno vuole finanziare protettori e madame che costringono ragazze, anche molto giovani, a prostituirsi. Incontrare donne che ricevono in appartamento permette di tenersi lontani dalle situazioni di sfruttamento. Le escort, infatti, accolgono i clienti in ambienti familiari, in cui ci sono effetti personali e foto incorniciate, e spesso danno una disponibilità di orari ridotta, circoscritta al weekend o ad alcuni momenti della giornata, facendo intravedere l’ombra di un’altra vita. “Non posso sapere con certezza se le ragazze che incontro fanno le escort per libera scelta e non mi illudo che lo facciano per piacere”, continua Casade. “Lo fanno sicuramente per soldi. Però non ho avuto l’impressione che se la passino male, con molte si ride e si chiacchiera e non mi parlano di costrizioni“.
SEZIONARE. La ricerca della escort è spesso un momento eccitante, che inizia giorni prima dell’incontro. I siti hanno il ruolo di vetrine in cui le donne mostrano le loro foto e si descrivono specificando se hanno tatuaggi o piercing sul corpo, se hanno il pube rasato, di che colore hanno gli occhi e quanto è grande il loro seno. I clienti esaminano con cura i diversi profili, leggono la presentazione che le escort fanno di se stesse e scorrono le recensioni che altri uomini hanno lasciato. Rogerio, che Escort Advisor segnala come recensore esperto, sul profilo di Silvia, una donna formosa sulla quarantina a cui ha assegnato quattro stelle su cinque, ha scritto: “Silvia è una bella signora, molto simpatica, nonostante l’ostacolo della lingua (parla mezzo spagnolo). Ci accordiamo per 70. Pulizie di rito, lei si mette sopra in facesitting. Poi si passa al 69, dove dimostra le sue doti “aspiranti”. Dopo si passa alla penetrazione in 3 posizioni. Propone massaggio prostatico, concludo senza problemi. Seconde pulizie, e social time in cui si parla di tutto. Prestazione onesta, non sfavillante, ma di certo sopra la media cittadina, con un buon caffè colombiano“. Dopo aver scelto la ragazza il cliente le telefona e si mette d’accordo sul prezzo, sui servizi che desidera e sull’orario dell’appuntamento. Hanno codificato un linguaggio con cui sezionano i rapporti sessuali e umani con la escort. Parlano di Rai1, primo canale, e Rai2, secondo canale, per indicare rispettivamente il rapporto vaginale e quello anale, utilizzano la sigla DATY, Dinner At The Y, per riferirsi al sesso orale ricevuto dalla donna e l’abbreviazione inglese BBJ per il pompino scoperto, senza preservativo. Il momento di conversazione viene chiamato social time e il bacio alla francese, con la lingua, viene soprannominato FK, French Kiss. L’eccitazione dell’attesa culmina nel momento in cui la escort apre la porta dell’appartamento ed esce dal mondo virtuale, con tacchi alti e lingerie provocante.Si conferma quanto è stato pattuito durante la chiamata e si lascia il “regalino”, i soldi. Il costo base, detto VU, velocità urbana, è di 50 euro, anche chiamati rose. Per pratiche sessuali particolari o per un appuntamento che supera la mezz’ora la tariffa aumenta. Ci si dirige verso il bagno per lavarsi, “poi è tutto abbastanza standard”, racconta Obice, “ci si conosce per quello che ognuno è disposto a far sapere all’altro e si consuma la prestazione sessuale“. Ogni cliente cerca di colmare la necessità che l’ha portato in quell’appartamento. Per alcuni è un bisogno che si rigenera ogni volta: il desiderio del sesso e il piacere che ne deriva, senza i rischi e i compromessi delle relazioni. Altri cercano una via d’uscita dalla monotonia quotidiana, un momento di trasgressione separato dalla vita di tutti i giorni. “Ciò che mi spinge“, spiega Erosraffinato, “è principalmente la curiosità e la continua voglia di novità, cerco sempre partner sconosciute, mi piace quell’ebbrezza della prima vista e della rottura del ghiaccio“. A questo si aggiunge l’elemento della perversione: poter fare ciò che non si oserebbe chiedere alla propria compagna e realizzare le proprie fantasie senza sentirsi giudicati. A volte, invece, il sesso a pagamento è un modo per ovviare all’assenza di rapporti sessuali nella vita coniugale o alla mancanza di una partner stabile. Giallo31, un uomo di 43 anni che lavora come operaio metalmeccanico a Bergamo e che, single da sempre, vive insieme alla madre, così racconta la sua esperienza: “Ero uno che diceva “mai pagherò per fare sesso” ma poi ti accorgi che a 35 anni sei solo e più che il sesso di per sé ti manca il sentire una donna a fianco. Infatti dopo le prime esperienze ho conosciuto e mantengo contatti solo con donne che non si fanno pagare soltanto per l’atto fine a se stesso ma per il tempo che ci dedichiamo reciprocamente“.
RICUCIRE. Dopo aver concluso il rapporto con la escort si torna in bagno per lavarsi nuovamente, per far scivolare via dalla pelle i resti dell’incontro e ci si riveste. Lentamente ci si risveglia dall’anestesia grazie a un caffè colombiano bevuto prima di andare via, a una sigaretta fumata sul balcone o al racconto di un’infanzia difficile fatto su delle lenzuola ancora impregnate di sudore. “Ricordo alcuni gesti della prima ragazza rumena dopo i nostri rapporti”, dice Rogerio, “un abbraccio sincero datomi quando ero giù, un bacino sulla guancia, una sua confessione fatta sul divano, con un asciugamano di Barbie, un aggiustarmi il colletto prima di varcare la porta”. Uscendo dall’appartamento rimangono sensazioni diverse: il pentimento e la frustrazione se il rapporto non è andato come previsto oppure la soddisfazione e la leggerezza per aver appagato i propri desideri. “È un vuoto lasciato ma pronto per essere riempito di nuovo“, sostiene Giallo31. A volte, invece, quel vuoto non si è riusciti a colmarlo. “Penso sempre che non mi lascia niente e che non devo più tornarci“, dice Casade, “il problema è che poi ci ritorno“. La soddisfazione del rapporto sessuale lascia subito spazio alla malinconia: “rimane il ricordo piacevole, ma la sensazione di contentezza dopo un giorno o due è bella che sfumata“, mi spiega Disperso89. “È come essere un edificio senza tetto“, aggiunge, “o un uomo senza una gamba o un braccio, che per quanto si sforzi avrà sempre qualcosa che gli manca“.
· Mai dire…Spogliarelliste.
Le spogliarelliste salvano il loro club dalla chiusura Femministe sconfitte. Pubblicato mercoledì, 18 settembre 2019 su Corriere.it da Luigi Ippolito, corrispondente da Londra. Sheffield, il Comune dà ragione alle lavoratrici. Le femministe si dicono «scioccate» dalla decisione: «Gli strip club contribuiscono a una cultura maschilista». Donne contro. Le une e le altre: sui lati opposti della barricata. In una battaglia che riguarda il sesso, il consenso, l’uso del corpo. E nella quale è difficile distribuire torti e ragioni. Succede a Sheffield, città industriale del nord dell’Inghilterra. Dove il locale club di spogliarello era minacciato di chiusura dalla rivolta delle femministe: ma invece alla fine le autorità locali hanno deciso di tenerlo aperto, con grande giubilo delle strippers che ci lavorano. Che per difendere il loro diritto a denudarsi hanno pure sfilato per le strade della città, dando vita a colorite e chiassose manifestazioni. La campagna per far chiudere il club, che appartiene alla catena Spearmint Rhino, andava avanti da tempo: ma aveva raggiunto l’apice quest’anno, dopo che le femministe avevano assoldato degli investigatori privati che avevano filmato segretamente quello che succedeva nel locale. Ed era venuto fuori che le ragazze non si limitavano agli spogliarelli, ma procedevano con toccamenti vari, sui clienti, su se stesse e fra di loro: cosa che è contraria ai regolamenti ufficiali e potrebbe comportare la revoca della licenza. Ma lunedì, al termine di una udienza di otto ore davanti al consiglio comunale, durante la quale si sono avvicendate infuocate testimonianze, le spogliarelliste hanno avuto partita vinta. Le femministe hanno condannato la decisione e promesso di continuare la battaglia, ma sono state accusate dalle ballerine di adoperare metodi da revenge porn, da pornovendetta. Una di loro, Celia Lister, ha detto di essere «al settimo cielo» e ha definito il caso «una enorme pietra miliare nel rompere lo stigma sociale che circonda il lavoro sessuale». Una sua collega ha raccontato come quello trascorso sia stato un anno difficile e di quanto tutte loro siano state vittime di «oggettificazione, rigetto e tattiche da pornovendetta», oltre a essere «ignorate dalle femministe che pretendono di volerci salvare». Un’altra ha definito i filmati segreti come una violazione: «Non siamo oggetti sessuali come siamo state descritte. Siamo complesse e sfaccettate come chiunque altra, e in realtà i clienti ci trattano come persone, più delle cosiddette femministe». Le quali, invece, hanno definito «scioccante» la decisione del Comune e hanno denunciato che i racconti positivi delle spogliarelliste dimostrano solo la «presa soffocante» del club sulle ragazze: «Gli strip club — ha detto una delle promotrici della campagna — contribuiscono a una cultura nella quale gli uomini ritengono di avere diritti sui corpi delle donne». Ma a fianco delle spogliarelliste sono scese anche docenti e studentesse dell’università locale, che hanno sottolineato come filmare in segreto le ragazze non possa essere considerato un atto femminista. Come ha concluso Rosa Vince, un’accademica specializzata in oggettificazione sessuale, «in quanto femministe dobbiamo preoccuparci del consenso al contatto sessuale: e questo implica anche credere alle donne quando dicono che il consenso esiste».
· Mai dire Porno Star.
Milf, mistress e nuove promesse: alla scoperta del porno all'Eros Fest. Le Iene il 18 dicembre 2019. Michele Cordaro è andato all’Eros Fest di Milano, la fiera del porno dove trovare tutte le novità. Tra milf, mistress ha incontrato anche i nuovi astri nascenti del mondo hard come Martina Smeraldi e Max Felicitas. Michele Cordaro è andato all’Eros Fest di Milano alla scoperta del porno. Incontriamo la pornostar Susanna Bella, Priscilla Salerno nota per i suoi tutorial su come avere successo nel sesso orale, Laura Fiorentino, una delle poche ad aver fatto la doppia vaginale. E poi c’è Lady Blue che ha girato una parodia con uomini con la pancia: “E almeno 18 centimetri di coso”, ci tiene a precisare. C’è anche la mistress Ambra. “Mi pagano per dare calci nei coglioni”, dice. Incontriamo anche la fashion designer Vernice Lucida, la sexystar Vanessa Sardi, la pornostar Vittoria Risi. “Le nuove ragazze sono delle meteore. Un tempo star come Eva Henger o Cicciolina te le ricordavi”, aggiunge la star del porno Sonia Eyes. Uno di questi astri nascenti è Martina Smeraldi che ha appena 19 anni: “Mi sono fatta 200 uomini”. C’è chi ha fatto gang bang con lei e Malena: “Eravamo 70 uomini, ci siamo alternati”, dice Maurone Braga. Uno di questi durante le riprese si è anche rotto l’uretra. Il record maschile è di Max Felicitas: “Ho scopato più di 1.500 donne. Il mio motto? Sempre duri. E in più sono l’unico porno attore che paga le tasse in Italia. Scopando aiuto il Paese!”.
DAGONEWS il 9 dicembre 2019. Ci sono tante ricerche sull’impatto che l’accesso facile al porno ha sulle persone. Ma molto meno si sa di coloro che lavorano davanti alla macchina da presa. Ad accendere i riflettori sui problemi che affrontano coloro che lavorano nel mondo hard è l’attrice porno Amber Lynn che ha spiegato come internet abbia portato delle conseguenze che, in alcuni casi, si sono rivelate devastanti: «Prima di internet c'era qualcuno a cui non piacevi e non succedeva nulla. Oggi possono raggiungerti ovunque in tempo reale e distruggerti, sminuirti o prenderti in giro. Quando ero giovane, non ho avuto mai la sensazione di trovarmi nella posizione in cui, se fosse successo qualcosa, non avrei avuto qualcuno a cui potermi rivolgermi nei periodi bui... oggi per molteplici ragioni ci sono molti suicidi nell’industria del porno». Tra la fine del 2017 e l'inizio del 2018, cinque attrici porno si sono suicidate in 12 settimane. «Ho affrontato la depressione e l'ansia per molti anni, ma non pensavo che sarebbe stato un qualcosa che avrebbe potuto sconvolgere la comunità fino a quando non sono arrivate le notizie dei suicidi - ha detto Riley Reyes, attrice porno e presidente dell’ “Adult Performer Advocacy Committee” - Nulla di simile accade mai per caso. E chiunque scelga di togliersi la vita lo fa probabilmente per una combinazione di fattori e per problemi con cui hanno lottato per molto tempo». Kate Loree, una terapista che lavora con star del porno, escort e prostitute, ha detto che molti presumono che lavorare nel porno abbia portato ai suicidi: «Molte volte le persone hanno la tendenza a pensare: "Oh beh, un’attrice porno si è suicidata perché è un’attrice porno”, ma molte volte si tolgono la vita a causa dei social e del giudizio esterno. A volte se esprimono esplicitamente opinioni politiche o si battono per qualcosa in cui credono, vengono inondate da centinaia di minacce di morte ogni giorno». A questo si aggiunge che il lavoro nel porno è più facilmente accessibile da persone che affrontano malattie mentali e fisiche che non consentirebbe loro di fare lavori più tradizionali. Inoltre molte di loro sono oggetto di discriminazione da parte dei servizi sanitari: «È molto difficile trovare un ginecologo con cui puoi essere onesto, perché la maggior parte dei medici stigmatizza questo lavoro. È davvero difficile trovare qualcuno che ti fornisca le cure che desideri e di cui hai bisogno senza essere critico nei tuoi confronti e del tuo lavoro». Lotus Lain, attrice porno e Industry Relations Advocate per la Free Speech Coalition, ha affermato che la discriminazione all'interno del settore colpisce in gran parte gruppi di minoranze come le persone di colore e la comunità LGBTQ. «Esiste sicuramente una discriminazione razziale. Se non sei una ragazza bianca sei considerato un artista esotico, un artista di nicchia. Un attore nero non può nemmeno sperare di ottenere una nomination a qualche premio, come si pensa lo influenzi? Quando vedi i tuoi colleghi bianchi in 20 diverse categorie di nomination ai premi e vedi che anche i migliori attori neri sono solo in due, come si pensa possa influenzare la salute mentale di qualcuno? Ti senti inutile. Ti senti invisibile».
Dagospia il 15 dicembre 2019. Comunicato stampa. Per quanto possa sembrare assurdo e altamente immorale il sesso dissacratorio è uno dei generi più in voga in questo momento, in Italia e all'estero; a dimostrarlo è il picco di notorietà che la casa di produzione Valery Vita Production della porno attrice Valery Vita sta ottenendo dopo aver iniziato a produrre materiale nella categoria denominata "porno blasfemia". Tutto è cominciato dopo una multa per atti osceni che più di due anni fa Valery Vita prese in seguito al suo folle gesto di urinare su un crocifisso in un luogo pubblico, il fatto diventò subito mediatico, la gente si indignò e Valery venne soprannominata dai media "La Sexy suora del porno oltraggio". La Vita dichiara: “All'epoca producevo porno classico, nulla di grottesco o immorale, ma dopo questa mia prima clip scandalosa sono stata letteralmente assalita da richieste da parte del pubblico per fare altre scene simili, osando anche di più, andando oltre il già visto”. Valery diventa cosi in breve tempo, per i media e per i fans, la Regina della blasfemia. I suoi film sono grotteschi, immorali, scandalosi, osceni, deviati. I protagonisti di questi video sono suore perverse, preti sodomiti, sesso satanico, giochi dannunziani su oggetti sacri, distruzione del sacro, bestemmie. Oltre alla produzione di film, l’attrice intrattiene il suo pubblico con 4 dirette streaming mensili, di un’ora ciascuna, sempre a tema. Alle dirette partecipano anche i suoi attori e le sue attrici di punta. I fan iscritti al sito in diretta streaming sono chiamati "i peccatori" e il sito è considerato "la setta del piacere". Ad affiancare Valery nei suoi prodotti spesso troviamo il porno fachiro d'Italia Trip Conte, Althea Morrison definita dai media la Duchessa della blasfemia, il famoso stallone Vicktor Costa e la stupenda new entry del porno Sarah Slave. E poi c’è la coppia oscena composta dalla milf Jasmine B e il compagno Tito B, Kicca Martini, lo slave auto-lesionista Rasputin X e molti altri. Di recente Valery ha aperto anche un sito dedicato al porno gay blasfemo, di cui Trip Conte è il volto di punta.
QUANTO GUADAGNANO LE PORNOSTAR? Niccolò Carradori per vice.com il 7 dicembre 2019. Alzi la mano chi ha capito davvero se il porno è un settore in cui si guadagna molto, o no. Io non ho mai avuto le idee chiarissime, anche per via di notizie piuttosto contrastanti o datate. Uno degli ultimi report accreditati a cui molte testate si affidano quando si parla di economia del settore è quello realizzato nel 2014 dall'Università del New Mexico, secondo cui la pornografia sarebbe un business globale da 97 miliardi di dollari annui—con il settore americano a fare da traino, attraverso un giro d'affari fra i 6 e i 15 miliardi. Se già questi dati presentano forbici molto ampie, sui compensi degli attori c'è ancora più confusione. Negli scorsi mesi si è parlato molto di un'intervista in cui Mia Khalifa—probabilmente una delle performer per famose degli ultimi anni—ha dichiarato di aver guadagnato soltanto 12.000 dollari dalla sua carriera nel porno. Recentemente invece, l'attore italiano Max Felicitas ha spiegato a La Zanzara che come attore fattura mensilmente circa 15.000 euro. Per avere qualche risposta ho pensato di contattare quattro pornostar italiane: Valentina Nappi, Luca Ferrero, Martina Smeraldi e Franco Roccaforte. Le loro testimonianze spaziano in ogni ambito del settore: mercato USA, mercato europeo, confronto di cachet fra attori e attrici, e raffronti col porno anni Novanta (che a quanto pare era una vera cuccagna). Se avete sempre sognato di lasciare tutto e diventare pornoattori, ci sono un sacco di cose di cui dovete essere edotti.
VICE: Ciao Valentina. Molti hanno un'idea distorta dei guadagni degli attori porno, no?
Valentina Nappi: Pensaci: quanti utenti pagano per fruire dei contenuti porno? La stragrande maggioranza lo fa gratuitamente, e di conseguenza i budget di produzione sono sempre più bassi. È assurdo che la gente pensi che gli attori porno siano ricchi. Forse questa concezione errata è dovuta alla visibilità: probabilmente siamo la categoria che a parità di popolarità monetizza di meno. Io ho un milione e mezzo di follower su Instagram, ma i miei guadagni non si avvicinano nemmeno lontanamente a quelli di un influencer con lo stesso pubblico.
VICE: Tu sei la performer italiana che ha ottenuto più successo negli Stati Uniti, il mercato più florido. Mi spieghi come funziona, in generale e negli USA?
Valentina Nappi: Nel porno odierno si viene pagati a scena: è raro che vengano fatti contratti di esclusiva, e il cachet dipende da molti fattori—la notorietà dell’attore, il tipo di scena, la presenza o meno di parti recitate che possono aggiungere degli extra. Una scena lesbo, ad esempio, viene pagata meno di una scena con penetrazione, l’anal di più. Quando sono arrivata negli Stati Uniti avevo già una certa visibilità, quindi il mio cachet di partenza non è stato quello riservato agli esordienti. Prendevo 1.200 dollari per una scena etero semplice.
VICE: E quante scene si possono girare al mese?
Valentina Nappi: Diciamo che un’attrice raggiunge il picco di richiesta nel periodo che va dai 22 ai 26 anni—anche se moltissime durano soltanto qualche mese—e in quel periodo fa una media di 100 scene l’anno. Ti parlo della mia esperienza. Ma devi considerare le spese…
VICE: Per esempio?
Valentina Nappi: A ogni cachet devi togliere le tasse, e poi il 10/15 percento che spetta all’agenzia. Senza considerare la questione dell’alloggio: Los Angeles è una città molto cara, dove un normale appartamento può venirti a costare anche 4.000 dollari, più le bollette. Infatti adesso negli USA vado solo periodicamente, quando si girano più scene. Poi ci sono i test per le malattie veneree, che solitamente sono a carico dell’attore. Quelli rapidi costano circa 200 dollari, e devi farli ogni 15 giorni [una versione precedente riportava erroneamente una volta al mese] per poter lavorare.
VICE: Cosa consiglieresti quindi a un giovane attore?
Valentina Nappi: Di farsi conoscere prima sui social, e di caricare video autoprodotti sui principali aggregatori. Internet ha diminuito l’indotto classico del porno, ma consente di farsi notare e di guadagnare direttamente dai contenuti. Funziona un po’ come la monetizzazione di YouTube: io ho il mio sito, e i miei canali su Pornhub. Giro delle scene amatoriali con qualche partner, e poi divido con lui i diritti sulla scena. Sul lungo periodo sono il modo migliore per monetizzare.
VICE: Quando hai iniziato a lavorare nel porno, cosa ti aspettavi dal punto di vista economico?
Luca Ferrero: Personalmente non avevo grosse aspettative, per me è iniziata davvero come un gioco. Avevo un altro lavoro, che all’inizio è stato fondamentale: non esistono produzioni che lavorano sul territorio italiano, e devi spostarti nell’Est Europa per lavorare. Le paghe per un esordiente nel mercato europeo possono essere davvero basse. Spesso c’è chi comincia lavorando solo a rimborso spese, e addirittura c’è chi paga pur di girare e farsi notare.
VICE: Ecco, parliamo un attimo del mercato europeo.
Luca Ferrero: Il cachet per un attore uomo qui supera difficilmente i 500 euro a scena, e quasi sempre è inferiore. Solo se ti sei affermato nel settore con anni di lavoro puoi chiedere di più. Il problema del mercato europeo è che è sommerso da nuovi attori che pur di lavorare sono disposti a farsi pagare veramente poco. Molti ragazzi smettono proprio perché economicamente non è sostenibile. Io da questo punto di vista sono privilegiato. Sono anni che lavoro, e posso pretendere una certa cifra o rifiutare certe offerte. Le produzioni per cui vale davvero la pena lavorare sono anche quelle che difficilmente chiamano nuovi attori, si affidano a gente esperta perché non possono rischiare di perderci. Farsi notare da loro è difficilissimo: un nuovo attore può avere anche un pisello enorme, ma se non è affidabile nella scena, se si rischia che non renda sul set, non viene preso.
VICE: Si può dire che il porno è uno dei pochi settori in cui il wage gap è al contrario?
Luca Ferrero: Sì, ma è vero solo in parte. Le attrici vengono pagate di più per singola scena e hanno tipologie di cachet più varie—possono fare anale e doppia penetrazione, che vengono pagati a parte—mentre il compenso per l’uomo è sempre standard. Ma hanno anche carriere più brevi. Un attore uomo, se funziona bene, può durare molto più a lungo. Il segreto per vivere con il porno è non limitarsi ad un solo settore: non si può pensare di fare soltanto gli attori. C’è l’autoproduzione, si può passare alla regia, si può diventare produttori. Bisogna ingegnarsi.
VICE Italia: Ciao Martina, tu sei la grande novità del porno italiano. Prima di iniziare avevi un'idea dei compensi, e cosa ne pensi ora?
Martina Smeraldi: Penso che i guadagni siano sicuramente più bassi rispetto alle aspettative della gente che non è del settore. Ma io lo faccio unicamente perché mi piace e mi rende felice. Rispetto a questo il discorso economico passa in secondo piano.
VICE Italia: Tu come hai fatto a emergere?
Martina Smeraldi: Ho contattato un attore che seguivo, Max Felicitas, e abbiamo cominciato a girare insieme. Il resto è venuto da sé: ho ottenuto visibilità, e sono stata contattata da altre produzioni, fra cui quella di Rocco Siffredi, e quella che produce Fake Taxi. Per ora ho girato più o meno 20 scene.
VICE Italia: Valentina Nappi mi diceva che il modo migliore che ha un giovane attore oggi per fare strada nel porno è quello di sfruttare i propri video autoprodotti. Tu ti stai muovendo in questo senso, o pensi di farlo?
Martina Smeraldi: Sinceramente no, anche perché per ora sono all’inizio e preferisco lavorare ancora per altre produzioni. Successivamente mi piacerebbe avere un mio sito, e sfruttare i miei video, sì.
VICE Italia: Cosa consiglieresti a chi vuole approcciarsi al mondo del porno?
Martina Smeraldi: Molti mi cercano, e mi chiedono come entrare in questo mondo. Il mio consiglio è sempre quello di contattare solo professionisti, e di chiedere il loro aiuto. Persone serie, che lavorano già in questo mondo, e che non abbiano doppi fini. Farsi consigliare da loro. Io ho fatto così, e mi sta andando bene.
VICE: Ciao Franco. Tu sei un veterano del settore, hai iniziato nel 1989. Quanto è cambiata economicamente l’industria?
Franco Roccaforte: È stata completamente stravolta, e non solo per colpa di internet. Alla fine degli anni Ottanta, quando ho iniziato io, la vera difficoltà era cominciare, ma una volta che iniziavi a girare, voleva dire che eri dentro. Lavoravi per grandi produzioni, con i più grandi attori, e giravi il mondo. Un primo tracollo economico per gli attori, a livello di mercato, è stato quello del Viagra: di punto in bianco centinaia di aspiranti che non erano in grado di sostenere la scena potevano lavorare. E questo ha drasticamente abbassato i compensi, perché c’è stata un’improvvisa offerta al ribasso.
VICE: Quanto si guadagnava negli anni Novanta?
Franco Roccaforte: Tanto, devo essere sincero. Se facevi parte di quella ristretta cerchia di attori che erano in grado di lavorare—e intendo fare sesso per ore davanti alla camera—le case di produzione volevano metterti sotto contratto. Perché eri affidabile. E i compensi mensili potevano raggiungere l’equivalente degli attuali 15.000 euro. Di più, se eri una stella all’apice della carriera.
VICE: Adesso invece quanto chiedi per una scena?
Franco Roccaforte: Quando lavoro per altre produzioni, non vado mai sotto i 1.000 euro. Ma è un compenso che in pochissimi possono permettersi in Europa. Io poi ho la mia produzione, la maggior parte dei video li giro per me stesso.
VICE: Qual è stato il segreto, oltre la bravura, per una carriera così duratura?
Franco Roccaforte: La capacità di rinnovarsi. Il porno è un settore in continuo mutamento: cambiano i generi, gli stili, e i canali di fruizione. Attori come il sottoscritto, o come Rocco Siffredi, sono durati nel tempo perché ci siamo sempre rinnovati. Oggi ad esempio non ci sono più le grandi produzioni di una volta, ma ci sono i social network: un modo diverso di pubblicizzarsi e di guadagnare. In questo momento il modo migliore per lavorare nel porno è valorizzare se stessi.
DAGONEWS il 27 novembre 2019. Centinaia di pornostar stanno protestando dopo che i loro account Instagram sono stati chiusi, affermando di essere nel mirino a tal punto da dover stare molto più attenti alla pubblicazione rispetto alle altre star. «Dovrei essere in grado di costruire il mio account Instagram come quello di Sharon Stone, ma la realtà è che farlo mi farebbe cancellare» afferma Alana Evans, presidente della Adult Performers Actors Guild e una delle voci principali di questa battaglia. Il gruppo ha raccolto oltre 1.300 performer che affermano che i loro account sono stati eliminati dai moderatori di Instagram per violazioni degli standard, nonostante non abbiano mai pubblicato foto di nudo o di sesso. «Ci discriminano perché non gli piace quello che facciamo per vivere» afferma Evans. La campagna ha portato a un incontro con i rappresentanti di Instagram a giugno, seguito dalla creazione di un nuovo sistema di appello per gli account rimossi. Durante l'estate, tuttavia, i colloqui sono stati interrotti e gli account hanno continuato a essere eliminati. La goccia che ha fatto traboccare il vaso risale a poco tempo fa quando l’account della pornostar Jessica Jaymes è stato rimosso dopo la sua morte. «Quando ho visto che l'account di Jessica era stato cancellato, il mio cuore è andato in mille pezzi. È stata l'ultima goccia» ha continuato Evans. L'account, seguito da oltre 900.000 persone, è stato successivamente ripristinato. Secondo alcuni attori porno alla fine del 2018 diverse persone hanno avviato una campagna coordinata per segnalare gli account ai social con il chiaro intento di farli rimuovere. Una tattica accompagnata da una serie di intimidazioni nei confronti degli attori in cui queste persone li insultavano e si vantavano dell’operato. Ginger Banks, attivista per i diritti dei sex worker, è stata uno dei primi obiettivi della campagna. «Quando dedichi tempo e fatica alla creazione di un account con oltre 300.000 follower e questo viene eliminato, ti fa sentire sconfitto - afferma Ginger Banks, pornoattrice e attivista per i diritti dei sex worker - Anche se stai seguendo le regole vedere che il tuo account è stato eliminato è frustante. Le persone che ci segnalano non comprendono che i nostri redditi sono spesso legati al mondo social. Ma loro pensano solo che noi non dovremmo esistere. La rivoluzione tecnologica che ha trasformato l'industria della pornografia ha aperto nuovi canali e ha permesso a molte pornostar di operare in modo indipendente, utilizzando siti per webcam girl, servizi di abbonamento e piattaforme video personalizzate. La maggior parte usa Instagram per mettersi in mostra e promuovere i propri canali. Non solo. Ormai le case di produzione valutano la popolarità di un pornostar attraverso i social. Quando un attore vede cancellato il proprio account, perde l'accesso ai fan e alle relazioni commerciali che ha creato, con un impatto negativo significativo sul proprio profitto.
Niccolò Fantini per wired.it il 23 novembre 2019. Da inizio millennio c’è una tendenza, che appare una costante: il viaggio professionale e femminile, dai set del porno mondiale, a quelli di musica tecno. L’apripista è la bionda Niki Belucci, nata a Budapest nel 1983. Dopo un’infanzia da ginnasta, nei primi anni duemila è una pornostar mondiale e nel 2004 è la prima ex attrice a esibirsi in topless come deejay. Dopo 15 anni Niki Belucci è una mamma a tempo pieno, ma non disdegna ancora qualche apparizione musicale, visto che il talento non le manca. Secondo il ranking di djanetop.com, classifica globale che promuove le migliori disc jockey, Niki Belucci occupa la seconda posizione in Ungheria ed è 275esima al mondo. Un altra nota ex star dell’intrattenimento per adulti, oggi convertita al mixer, è l’americana Sasha Grey. Dopo una triennale carriera e 8 Avn awards, i premi del cinema a luci rosse simili all’Oscar, l’attrice statunitense, classe 1988, ha diversificato l’attività: cinema d’autore, documentari, canzoni e videoclip. E riesce pure a far ballare gli avventori dei club, come testimoniano le foto sul suo profilo Instagram. Che è spesso ricco di luoghi e paesaggi del Belpaese, causa fidanzato italiano. Il percorso professionale, dalla telecamera ai decibel, passa anche da Oriente. La prima a Est è Foxy Di, oggi conosciuta come Foxy Dj. Originaria di San Pietroburgo, inizia la sua carriera appena diciannovenne, quando approda alle maggiori produzioni russe a tripla x. Ma appende il porno al chiodo sei anni fa ad appena 25 anni, per suonare nei locali della sua città e della capitale Mosca. Dal Sol Levante arriva invece una pornodiva da rave party: DJ Mao Hamasaki, nata nel 1993 a Chiba in Giappone: gli spettacoli, dove Mao è vestita in stile cosplayer e immersa in giochi di led e luci, richiamano migliaia di fan in locali e centri commerciali della nipponica madrepatria. E in Italia? La prima a provare con la musica da discoteca, è stata un mito del porno nostrano: Luce Caponegro, in arte Selen. Ma, lasciate le scene nel 1999, dopo vent’anni è diventata un’imprenditrice nel settore dell’estetica. Altra pornodiva della penisola, diventata deejay: Brigitta Bulgari, al secolo Brigitta Kocsis, nata in Ungheria nel 1982. Oggi è una disc jockey in locali nel Veneto e una produttrice molto sul pezzo: nell’attuale fase storica di riscoperta della cultura rave anni ’90, all’inizio dell’anno ha pubblicato una riedizione del singolo Somewhere over the rainbow dell’innovativa dj tedesca, oggi 53enne, Marusha Aphrodite Gleiß: la canzone del 1994, che sdoganò la tecno dagli schermi di Mtv Europe. L’ultima in ordine cronologico è Silvia Dellai: nata nel 1993 a Villamontagna, in provincia di Trento. Vive in Repubblica Ceca, ma il suo legame con l’Italia è sempre forte: insieme alla sorella Eveline è apparsa in tv nella trasmissione Live Non è la D’Urso, lo scorso 29 settembre. Questa estate ha cancellato i suoi social professionali e ha deciso di non fare più l’attrice hard. Le abbiamo chiesto il motivo: “Ho capito che nella mia vita non voglio fare sempre porno: scorre velocemente e penso al mio futuro, ho deciso di cambiare vita. Ora mi sento liberata, perché posso fare quello che mi piace: ho capito che la mia passione è la musica, adoro fare la dj! Ma so che non è una carriera facile, ci vuole tanto studio e tanto lavoro. Stressante, ma non come il porno”. Il recente cambio di professione, ha deluso i suoi fan? “Da quando ho chiuso gli account su twitter, instagram e altri social, mi cercano e trovano Silvia Dellai Music. E quando le persone scoprono che suono, sono in genere molto curiose e fanno un sacco di domande. Ma di positivo il porno mi ha dato il coraggio di esibirsi davanti al pubblico e di interagire con le persone, che è utile”. Come ha iniziato ad appassionarsi di musica elettronica? “Ho cominciato a suonare come dj, all’incirca a 24 anni: ho chiamato un mio amico a Praga e gli ho chiesto se mi poteva prestare la sua console per imparare. Sono quasi autodidatta, ma ho rubato trucchi e consigli ai colleghi dj in Repubblica Ceca”.
CON L’IGUANA TRA LE GAMBE. Da Mediaset il 7 aprile 2019. "Siamo in una passeggiata a Roma, a Roma ci sono delle buche, all'interno delle buche ci sono delle cose". Paolo Bonolis descrive così la prova che la pornostar Laura Fiorentino deve affrontare come rappresentante delle Messaline nella sfida contro le Giuliette nella quarta puntata di Ciao Darwin 8 - Terre desolate. La concorrente deve infilare entrambi i piedi in diverse teche, ognuna con animali diversi: nella terza si trova davanti a tre iguana. "Faccia attenzione: queste mordono, recidono e infettano", la avvisa Bonolis. L'animale, immobile, fissa la concorrente. "E ora dove li metto i piedi qua?", si chiede Laura Fiorentino, prima di attingere a tutto il suo coraggio.
LAURA FIORENTINO, CHI È. Silvana Palazzo per Il Sussidiario il 7 aprile 2019. Laura Fiorentino, professione pornostar, protagonista della prova coraggio della puntata di ieri di Ciao Darwin 8. L’attrice erotica ha affrontato una prova particolarmente difficile e, nonostante le remore iniziali, ha convinto tutti per coraggio e tenacia: oltre agli applausi delle compagne di squadra delle Messaline, sono giunti i complimenti anche dal popolo del web. Ecco una carrellata di tweet: «Sta ragazza esprime una tenerezza inusuale per una pornostar #CiaoDarwin», «Paolo che chiede alla pornostar se è una signorina o signora è il top. #ciaoDarwin #ciaodarwin8», «#CiaoDarwin la pornostar che fa il segno della croce è il top». E c’è anche chi sottolinea il siparietto finale con Bonolis: «Bonolis che viene avvinghiato dalla Messalina pornostar, uno di noi », «VOLOOOO LA MESSALINA PORNOSTAR SI É MONTATA BONOLIS». Laura Fiorentino protagonista per le Messaline a Ciao Darwin 8 della prova coraggio. Quando è stato estratto il suo numero, si è definita «pornostar» e ha accettato la sfida senza alcuna esitazione. Già nei giorni scorsi attraverso i suoi canali social, la prorompente attrice di film a luci rosse aveva annunciato la sua partecipazione alla puntata di oggi di Ciao Darwin. «Buon divertimento», aveva anticipato Laura Fiorentino su Instagram per i suoi fan. Ma questi sono giorni particolarmente intensi per la pornostar. Lo dimostra la sua “agenda”, fitta di impegni. Proprio sui social ha raccontato di avere degli appuntamenti speciali per il mese di aprile: fino a domani è al Pompeii di Chiasso, dal 12 al 13 al Riverside di Pordenone, poi si sposterà al Jolly Club d Treviso, infine al Cocco di Venezia con Marika Vitale per lo Special Hard Show in Couple. Sicuramente la partecipazione a Ciao Darwin 8 rappresenta un’occasione per farsi conoscere di più…Dalle frattaglie con i millepiedi alle salamandre, passando per le iguana: sono alcune delle sfide che ha dovuto affrontare Laura Fiorentino, pornostar protagonista della Prova Coraggio di oggi di Ciao Darwin 8. La concorrente delle Messaline si è dimostrata coraggiosa, perché ha accettato senza esitazione, a differenza di quanto vista con le Giuliette. Nonostante l’iniziale titubanza, comprensibile del resto, si è fatta man mano avanti, nonostante le pressioni messe dal conduttore Paolo Bonolis. «Le sta puntando il polpaccio, non si muova, perché riconosce il movimento…», dice il conduttore mentre Laura Fiorentino scoppia quasi a piangere tra ansia a paura. «Messaline, aiuto, qua sto a morì», dice la 31enne provando a recuperare un po’ di autocontrollo. Anche lei ha dovuto fare i conti con le blatte e i vermi, ed è qui che si mostra più esitante. Rispetto alla rivale delle Giuliette, si è dimostrata però più coraggiosa.
Natalie Oliveros. Nome d'arte, Savanna Samson. Dal porno al Brunello. Luciano Ferraro per il “Corriere della sera” il 3 giugno 2019. Quando Natalie Oliveros arriva alla serata di gala a Montalcino, i 450 attovagliati ammutoliscono. Tubino nero, trucco da star, capelli biondi e tatuaggi. Il più lezioso è una farfalla dietro l'orecchio destro. Nel borgo toscano che sa essere ruvido come il suo Sangiovese, Natalie è considerata una (bellissima) marziana. Non perché è una produttrice di vino straniera. Piuttosto perché è un'ex attrice a luci rosse. Nome d'arte, Savanna Samson. Esordio con Rocco Siffredi «per regalare un film a mio marito». Poi dieci anni di pellicole hard, fino a diventare una star. Dal luglio scorso la chiamano Lady Ferrari. Perché il compagno è Louis Camilleri, amministratore delegato della casa automobilistica di Maranello, il successore di Sergio Marchionne. Sorridenti, Camilleri e signora entrano sottobraccio alla cena nel chiostro di San Antonio. Dietro di loro, una scia di mormorii. Se ne vanno dopo la seconda portata. Sui tavoli resta il vino della tenuta di Natalie: Rosso e Brunello La Fiorita. La prima annata venne acquistata in blocco dall'Enoteca Pinchiorri, forse la migliore cantina del mondo.
Lei e Camilleri siete soci alla Fiorita?
«Lui è il mio partner silenzioso», si schermisce Natalie.
Come è nato il progetto del vino?
«La Fiorita nasce con tre amici, l'enologo Roberto Cipresso e altri due investitori nel 1992, a Castelnuovo dell'Abate, partendo da un vigneto di mezzo ettaro. Nel 2011 gli investitori hanno lasciato, io sono rimasta».
Lei lavora tra le vigne?
«L' anno scorso ho seguito anche l'imbottigliamento con mio figlio Luchino (il nome è un omaggio a Visconti)».
Diventerà un vignaiolo?
«Vuole diventare regista, studierà a New York».
Come è stata accolta a Montalcino?
«Tutti sono stati così gentili con me. Sono felice, i volti sono diventati familiari. La lingua può essere una barriera. Non vedo l'ora di riuscire a parlare meglio l'italiano. Devo solo rilassarmi e provarci. L'italiano è così bello».
Qualcuno le chiede mai notizie sul passato di attrice?
«In realtà raramente. Spesso alle fiere del vino, però, arrivano dei curiosi che vogliono un selfie con me. Dopotutto sono passati 9 anni da quando ho girato il mio ultimo film. Ora la mia vita e il mio futuro sono l'azienda La Fiorita e la produzione di buoni vini».
Quanti film ha fatto?
«Sono stata sotto contratto con la Vivid Entertainment per soli 6 film all'anno. Ho realizzato circa 70 film. Ma Vivid ha venduto spezzoni con le mie scene per le compilation. Quindi Dio solo sa quanti siano effettivamente i film in cui compaio».
Quali sono i suoi amici tra i produttori di Brunello?
«Il primo a farmi entrare nel mondo di Montalcino è stato il conte Francesco Marone Cinzano. Poi Jacopo Biondi Santi, Massimo Ferragamo che possiede la cantina Castiglion del Bosco, i marchesi Frescobaldi, e l' ex presidente del Consorzio Fabrizio Bindocci. Mi piace lo stile di Mastrojanni, la cantina di Andrea Illy».
Di cosa si occupa?
«Sono la brand ambassador della Fiorita. Giro il mondo. Vendiamo il 60% delle nostre 28 mila bottiglie negli Stati Uniti».
Qual è lo stile del Brunello?
«Sto iniziando ora a dare la mia impronta. Mi piacciono Brunello non legnosi. Voglio portare le qualità della terra nel bicchiere. Sto abbandonando le barriques a favore delle botti grandi. Il vino è più puro».
Adesso che Camilleri si occupa della Ferrari, viene più spesso a Montalcino?
«Vengo 6 o 7 volte l'anno a seguire la vendemmia. E per controllare la costruzione della nuova cantina. Sarà pronta per la prossima vendemmia».
Qual è la sua idea del vino?
«Il vino è come la donna: è difficile, sensibile, delicato. E, come una donna, vale sempre la pena di scoprirlo».
Cosa producete?
«Abbiamo 7 ettari, le vigne si chiamano Poggio al Sole e Pian Bossolino. L'ultima annata sul mercato, la 2014, è andata meglio del previsto, anche grazie all' enologo Maurizio Castelli. Oltre a Rosso e Brunello, anche in versione Riserva, stiamo preparando un nuovo vino. Ma voglio mantenere il mistero».
Come ha scoperto il vino?
«Viaggiando per piacere tra Italia e Francia. Quando ero bambina la mia famiglia produceva vino in un garage. Mia nonna era calabrese. In fondo sono tornata alle origini. E non farò più film per adulti».
Antonella Leoncini per La Nazione 18 luglio 2018. Il cinema: quello hard, a luci rosse; il vino: il Brunello, uno dei migliori al mondo. E sempre lei, Savanna Samson, lo pseudomino con cui Natalie Oliveros è famosa fra i suoi fans. Una vita oggi divisa fra Manhattan e Montalcino, dove Natalie ha messo a frutto le fatiche sul set nella sua azienda "La Fiorita". Ha la dote della bellezza e la vocazione per il business: le scelte migliori per un risultato eccellente. Non è però single: il suo partner è Louis Camilleri, presidente della Philip Morris. Il boss della più grande corporation del tabacco, che ha scelto Montalcino come buen retiro. E il suo è l’unico Brunello che, oltre al colore, ha rosse anche le luci.
Perché il cinema hard?
«Ho scritto una lettera a Rocco Siffredi. Volevo girare un film per mio marito, ora ex, come regalo di nozze: “Savanna meets an american angel in Paris”, Savanna incontra un angelo americano a Parigi. È stato nominato miglior film straniero agli Avn Awards. Vivid Entertainment mi ha offerto un contratto che non potevo rifiutare. Ho lavorato con loro dieci anni».
Dal cinema hard al Brunello, il passo è grande.
«Mi sono innamorata di Montalcino durante una vacanza. Conoscevo il mondo del vino: ‘SSS Wine’ era il nome della mia azienda di vini italiani negli States. Quando l’enologo Roberto Cipresso mi ha chiamato dicendo che i soci de ‘La Fiorita’ volevano cedermi le quote, ho capito che il sogno di produrre un mio vino diventava realtà. Dal 2016, sono l’unica proprietaria».
Qualche ripensamento?
«L’intrattenimento per adulti è stato un periodo importante della mia vita, certo intrigante. Ho avuto esperienze incredibili, ho viaggiato. Sapevo che non sarebbe continuato eternamente. Dopo il cinema ho pensato che il modo migliore per esprimermi fosse quello di produrre un mio vino, realizzare l’azienda che lascerò a mio figlio».
Molti continuano a chiamarla Savanna Samson. La infastidisce?
«L’altro giorno, due giovani a Manhattan mi hanno fermato per chiedere una foto. È stato bello. Amo recitare. Quando ero con Vivid, ero una star. L’hard muoveva un business da miliardi di dollari. Internet ha cambiato tutto. Ho smesso quando la qualità si è abbassata. Adesso sono coinvolta con un incredibile gruppo stream: ‘DH & CX’. Sono diverse le tecniche sul set: tutto qua».
Dagli Stati Uniti, come riesce a seguire l’azienda?
«Vivo a Manhattan con mio figlio Luchino. E’ importante che abiti in America, dove il mio vino è apprezzato e il mercato deve essere seguito. Sono a Montalcino sei, sette volte all’anno, sempre nei momenti essenziali. Sono fortunata ad avere a “la Fiorita” una squadra fantastica: Luigi Peroni, il manager, e tutto il team. E poi il mio compagno Louis Camilleri è il mio riferimento anche per le scelte de “La Fiorita”.
I rapporti con i produttori di Brunello?
«Sono orgogliosa di far parte del Consorzio del Brunello. Gli italiani mi ispirano. Mia nonna era calabrese: sono cresciuta italiana. Il vino, la terra, fanno parte del mio Dna».
E con le donne del vino?
«Eccellenti. Sempre più donne del vino emergono. È ciò che chiamo girl power! Io per prima non voglio nascondermi. Voglio lasciare il mio segno».
Lascerà Manhattan per Montalcino?
«Sono abituata a respirare l’aria di New York, ma amo sempre di più la campagna. Il mio cuore è sempre di più a Montalcino. Non passerà molto tempo e la Toscana potrà diventare la mia casa».
Da “la Zanzara - Radio 24” 29 luglio 2018. “Savanna Samson? E’ una che scopa forte. Stiamo parlando di una donna estremamente furba, diciamo così, estremamente manipolatrice, pazzesca, e le piace molto l’uccello”. Lo dice Rocco Siffredi a La Zanzara su Radio 24 parlando della compagna (ed ex pornostar) del neo presidente della Ferrari, Louis Camilleri. Siffredi racconta di come ha conosciuto la Samson, che gli chiese di fare un film porno come regalo di nozze all’allora marito: “Sono stato il suo regalo di San Valentino a mia insaputa. Era più o meno il 2000 e lei mi manda una lettera e dice “I want to have sex with you”. Io le ho risposto: guarda, siccome ne ricevo tante di richieste come questa, se nella vita privata dovessi scoparmi tutte quelle che me lo chiedono, dovrei fare un altro lavoro. Non lo faccio, non faccio il gigolò, mi dispiace. Ma se vuoi possiamo fare un film, però mandami le foto. Lei mi manda le foto, era a New York, bellissima, 27 anni all’epoca, mai fatto il porno. Io ero una sua fantasia, e suo marito le faceva questo regalo, ma l’ho saputo in albergo quando il marito è entrato in stanza. Io gli dico: ti invito sul mio set in Europa, dove ti pare, magari lo facciamo dove stai. Lei dice: I can fly to Paris. Ho detto facciamolo a Parigi, bello, però non posso pagarti la prima classe. Dice: no problem for the tickets. Poi io avevo riservato l’Holyday Inn e lei mi dice di essere in un hotel su Place de la Concorde da 3000 euro a notte. Alla fine mi ritrovo con lei in questo hotel, che mi sono pure beccato una denuncia, e mi dicono la signora Oliveras la aspetta nella sua suite. Io dico a mio cugino che ci riprendeva di non perdere nulla...voglio un documento reale, ci abbracciamo, ci baciamo, iniziamo a scopare lì, mentre stiamo scopando entra quest’uomo tutto ben distinto, ormai eravamo per terra…Era il marito mulatto, mezzo nero mezzo bianco, che mi fa: sorry to disturb you guys. Ma chi è? Mio marito. Ho dimenticato di dirti che tu sei il mio regalo di San Valentino. Abbiamo fatto una settimana di riprese…la sorpresa non era lei che decideva, ma io, quindi lei ha fatto sesso con me, con due ragazzi di colore, con un’altra donna e anche una gang bang...”. E poi che è successo?: “Mi scrive dopo un mese e mi dice: io e mio marito abbiamo scopato tutti i giorni e voleva che gli raccontassi ogni cosa che le ho fatto fare, e sono anche incinta. Pensate voi, quel bambino che lei ha nasce da una relazione col marito dopo aver fatto il film con me, per l’arrapamento lui la scopava ogni minuto per due mesi. Ed è nato il bambino. E’ un insegnamento per tutti: se volete fare un regalo particolare alla vostra donna che non vi mente, fatelo”. Te lo chiedono in molti?: “Mi scrivono tantissime persone che mi chiedono come regalo di far sesso con la propria moglie. Dico la verità, non lo faccio per il semplice motivo che diventa veramente un altro lavoro. Mi chiamano e mi chiedono voglio che tu parli italiano mentre facciamo l’amore perché pensa di fare sesso con te…”. Ma esiste una donna che non vorrebbe almeno per una volta farlo con te?: “E’ pieno di donne super fans che si masturbano davanti a me, però con me non ci scoperebbero mai. Perché dicono che le faccio eccitare, che con me vengono, ma sono troppo forte o troppo impegnativo. Hanno paura, ma sbagliano perché io sono un amplificatore, decidi tu il volume. Io posso regolarmi, dal super romantico tenero all’uomo violento nel sesso, sono nato per dare il piacere alle donne. Faccio quello che la donna chiede. Poi mi piace spingerle al piano superiore, quello che loro non conoscono ancora. Lì è divertente”. Torniamo a Savanna, che in realtà si chiama Natalie Oliveros. Perché hai detto che è furba e manipolatrice?: “Perché l’ho conosciuta anche dopo, negli anni in cui era una Vivid Girl (dal nome della casa di produzione porno americana, ndr) e vi dico che riesce sempre ad ottenere tutto quello che vuole con la furbizia. E’ molto intelligente, ma devo dire, molto paracula. Lo dico in senso positivo. Lì è veramente la numero uno. Basta vedere i suoi uomini. Lei ama questo, adora la vita, adora l’uomo ricco, e poi le piace il cazzo vero. Quando lo vuole, lo vuole al top”. “Il film che abbiamo fatto – racconta ancora - era prodotto da me, è venuta a girare con me e non ha voluto i soldi perché mi ha detto: you’re my fantasy, alla fine mi ha detto che ero il suo regalo di San Valentino. Lei è venuta a fare l’attrice per me e non ha voluto i soldi. Io le ho detto che dovrò utilizzare la tua immagine, tu devi firmarmi un documento e lei mi ha detto thanks, I don’t want anything. You’re my fantasy. Chapeau. Io non sono mai invidioso. Quando le persone arrivano e ci sanno fare, come dicono i francesi chapeau”. Hai detto che Salvini sarebbe perfetto per un film porno, perché?: “Ha la faccia un po’ da maialone. Salvini lo vedo bene come un giovane Roberto Malone. E’ il Malone degli anni nuovi. Salvini ha la faccia del tiratore”. E Cristiano Ronaldo?: “Adesso vi racconto una cosa. Lui è venuto nel locale di Jessica Rizzo a Roma prima che diventasse famosissimo. Pensate che per andare a scopare un tipo come lui che gli cadono da tutti i lati, è andato lì…Significa che è un numero uno, uno cui piace la vita, il sesso. Da quello che ho visto, quella sera lì si è divertito molto”.
10 domande che hai sempre voluto fare a una pornostar. Come fai a fare sesso anale senza che faccia male? C'è qualcosa che fai davanti alle telecamere ma che non faresti mai con tuo marito? Rebecca Baden il 19 settembre 2017 su vice.com. All'inizio della sua carriera, Bettina lavorava nel porno solo part-time, bilanciando quel lavoro con quello da assistente alla poltrona di uno studio dentistico a Münster, in Germania. Ma dopo aver vinto un Venus award nel 2013—il premio più importante dell'industria per adulti tedesca—per il suo ruolo in One Night in Bang-Cock, il suo capo l'ha scoperta e licenziata. Da allora Bettina si è concentrata solo sulla sua carriera nel porno, all'attivo ha più di 100 film, ed è sulla strada buona per diventare una delle stelle del porno tedesco. Il suo nome d'arte è Texas Patti—crasi tra il nome di suo marito, Patrick, e il suo, Betti. Oltre ai film, è anche conduttrice della serie TV Deutschland Sucht den SuperArsch ( Alla ricerca del superculo tedesco). Insomma, le cose non hanno fatto che migliorare per Texas Patti dal momento in cui ha filmato la sua prima scena hard otto anni fa con Patrick, che è anche il suo manager. "Faccio di sicuro più soldi di quando ero un'assistente alla poltrona," è tutto quello che mi dice durante il nostro colloquio quando le chiedo quanto guadagni. Nel corso del nostro incontro, Bettina ci dice cosa pensa del porno gratis, del problema dell'HIV nell'industria, dei pericoli del sesso anale poco lubrificato e dello sbiancamento vulvare.
VICE: Sei mai stata costretta a fare qualcosa sul set?
Texas Patti: Mai. Prima di iniziare i produttori mi dicono cosa vogliono e sta a me accettare o meno. Ad esempio non girerei mai scene BDSM, non mi piace. Se non mi va di fare qualcosa posso sempre andarmene dal set, in qualsiasi momento, ma non mi è mai capitato di doverlo fare. Questa libertà è molto importante perché per poter fare porno devi volerlo, altrimenti si vede. Se lo fai solo per i soldi, la tua carriera non andrà da nessuna parte».
C'è qualcosa che fai davanti alle telecamere ma che non faresti mai con tuo marito?
«No. Ma ci sono certe posizioni che vengono bene in video e che sono troppo stancanti per farle a casa. Quando lo fai a pecorina sul set, ad esempio, devi tirare in dentro la pancia in modo che non si veda; quando lo faccio con mio marito la lascio ballonzolare. Tanto conosce il mio corpo e da lì dietro non la vede, quindi...»
Come fai a fare sesso anale senza che faccia male?
«Devi lasciarti andare e fidarti del tuo partner. E usare un sacco di lubrificante. Se mi fa male mi fermo o non ci provo nemmeno. Quando ho iniziato non giravo scene di sesso anale perché non l'avevo mai fatto e non mi fidavo. Adesso mi piace un sacco.
Ti sei mai sbiancata la vulva o l'ano?
«Mai. Penso sia una cosa stupida da fare e credo anche faccia male. La pelle nella zona della vulva e dell'ano è naturalmente più scura che nel resto del corpo per cui non dovremmo schiarirla. E poi se non mi piacesse il mio corpo così com'è non lo mostrerei in video».
Cosa pensi delle scene che coinvolgono prolassi anali?
«Alcune donne dell'ambiente le girano, ma a me non piacciono. Penso siano molto rischiose e per nulla attraenti, mi fanno proprio passare tutta la voglia».
Cosa pensi delle persone che scaricano illegalmente i tuoi film?
«Dato che mi mantengo facendo questo lavoro, ovviamente vorrei che le persone pagassero i miei film, anche perché il download illegale sta uccidendo il settore. Quando incontro i miei fan a eventi come le fiere del porno e li sento dire che hanno visto tutti i miei film, a volte chiedo loro come se li sono procurati. Alcuni ammettono che glieli ha "passati un amico." Di solito gli dico che se continuano a scaricare tutti i miei film finirò per non farne più».
Sapresti quantificare il rischio di contrarre l'HIV per una pornostar?
«Dipende. Nelle case di produzione più professionali, gli attori devono fare il test ogni mese. Ma nelle case di produzione più amatoriali è diverso, gli attori fanno il test molto di rado se non mai».
Ti interesserebbe girare porno femminista?
«No, perché non penso che il porno mainstream sia sessista. Personalmente mi piace essere sottomessa durante il sesso e mi piace esprimermi in quel modo anche davanti alle telecamere. Penso che sarebbe sbagliato reprimere questo mio desiderio in nome di una concezione femminista radicale».
Mi insegni a squirtare?
«Posso prestarti mio marito se vuoi. Fino a 11 anni fa non sapevo nemmeno dell'esistenza dello squirting. La prima volta che l'abbiamo fatto, Patrick mi ha masturbata e all'improvviso ho iniziato a spruzzare ovunque. Ero davvero imbarazzata, anche perché il letto era fradicio. Quando gli ho chiesto cosa fosse successo, mi ha spiegato cos'è lo squirting. Ma non riesco a farlo a comando, né tantomeno potrei insegnare a farlo a un'altra persona».
· Fare sesso con il coniuge è un diritto.
La lettera di un lettore al “Guardian” il 16 dicembre 2019. Mia moglie ed io siamo nel nostro quinto decennio vissuto insieme. Facciamo ancora l'amore almeno una volta, di solito due volte al giorno, a volte anche più. Per me, nient'altro nella vita si avvicina a quell’euforia. Ora siamo più grandi, il sesso richiede più tempo, ma questo è un vantaggio. Credo che negli anni abbiamo fatto l'amore qualcosa come 22.000 volte, eppure ogni nuova esperienza è piena di passione e desiderio. In un certo senso c'è ancora più urgenza, perché il tempo passa e dobbiamo sfruttare al massimo ogni occasione. Ci sono state tante opportunità per variare. Abbiamo sperimentato tutti i tipi di posizioni, più di un centinaio in tutto e lo abbiamo fatto fuori della camera da letto, incluso in un angolo del nostro giardino. Un momento memorabile sono state le sei volte in una piscina privata, dove siamo riusciti a sostenere un coito ininterrotto per due ore. Lo abbiamo ripetuto in diverse occasioni. Non possiamo pensare all'idea del sesso con qualcun altro. È qualcosa di unico che viviamo insieme. L'amore e il sesso per noi sono indissolubilmente legati l'uno all'altro. La vita l’uno senza l’altro è impensabile, anche se sappiamo che accadrà un giorno. I nostri ricordi e la gioia di veder crescere i nostri figli e i nostri nipoti saranno di consolazione per chi di noi rimarrà. Nel frattempo, non potremmo essere più felici e sperare che ci siano ancora molte più opportunità per coccole e sesso.
Suor Germana: «Così ho salvato centomila matrimoni». Pubblicato venerdì, 01 novembre 2019 su Corriere.it da Roberta Scorranese. L’agenda best seller da anni, le ricette studiate per tenere assieme le coppie, quel fucile che un soldato le puntò nella pancia durante la guerra. Parla la religiosa-scrittrice. Autunno inoltrato. Nebbia e quello strano torpore che già a mezzogiorno illanguidisce la provincia. La donna che ha salvato 100mila matrimoni italiani siede su una poltroncina imbottita di una casa di riposo del Varesotto.
Suor Germana, ma li ha contati? Sono davvero 100mila?
«Praticamente sì. Tra le lettere di ringraziamento delle coppie ricongiunte e le visite di quelle che hanno resistito al divorzio grazie ai miei consigli, la cifra è quella».
Prima di diventare Suor Germana, Martina Consolaro è stata una bambina poverissima, nata a Crespadoro (borgo vicentino) da padre boscaiolo e mamma contadina. Gli ottantun anni hanno increspato il viso ancora bello e hanno striato di bianco il boschetto fitto di capelli corti, ma la memoria non ha alcun cedimento: lei ricorda tutto, dai tedeschi che le puntarono un fucile nella pancia durante la guerra a quel 1958 che le cambiò la vita.
In quell’anno Martina Consolaro divenne Suor Germana?
«Il nome da religiosa lo avevo scelto già, in quell’anno mi affidarono la cura dei legami familiari. Più tardi fondammo a Torino il Punto Familia, dove fino agli anni Duemila ho tenuto insieme le coppie, insegnando loro a cucinare».
Ma lei sapeva cucinare quando le affidarono l’incarico, a vent’anni?
«Ma va. Ricordo che misi in padella un’anguilla viva e quella povera bestia scappò subito».
L’agenda 2020Però poi ha imparato. La sua agenda-ricettario ha superato i trent’anni, ha debuttato nell’edizione 2020 e oggi è un best seller della DeAgostini, con quasi 800mila copie vendute dal 2001.
«Ho inventato e sperimentato trentamila ricette. Tutte con un solo scopo: rinsaldare la famiglia. Per esempio ho ideato i “tortelli acchiappasuocera”».
E sarebbero?
«Un primo così originale che la mamma del marito vorrà di certo copiare e quindi cercherà di farsi amica la nuora. Così si crea la pace familiare».
E funzionava?
«Funziona ancora. Cominciai con le dispense da distribuire ai corsi del Punto Familia, poi arrivarono i primi libri. Sapesse quante coppie ho visto rinsaldarsi grazie a una cucina ben fatta. Lo stomaco è vicino al cuore e se a tavola metti amore e impegno, l’effetto si riverbera nel legame».
Il suo motto è «se lo vedi triste non fare discorsi, ma mettiti ai fornelli»: un po’ sessista?
«Assolutamente no, perché vale anche per lui! I maccheroni alle cipolle o la pasta con i porri li possono fare anche un bambino, suvvia».
Lei è arrivata a vendere due milioni di copie in meno di dieci anni e ad essere tradotta in tanti Paesi.
«Anche nell’ex Unione Sovietica, sa. In una delle mie agende inserii la parola perestrojka. Oltre alle ricette io metto consigli pratici. Durante gli Anni di piombo spiegavo come comportarsi in quel periodo buio».
Sì, accanto alla ricetta del filetto al pepe verde, lei insiste sul risparmio, mette persino una tabellina dove si possono annotare entrate e uscite.
«La famiglia non è solo una questione sentimentale, ma ha una natura più pratica che spesso dimentichiamo, tutti presi con l’ansia di ricucire l’amore, di far funzionare il sesso eccetera. Pensiamo, uomini e donne, a mandare avanti la casa, vedrete che anche il resto funzionerà».
E se lui, prima delle nozze, dovesse non accontentarsi più delle cime di rapa stufate (un classico suorgermanesco) e volesse di più dalla fidanzata?
«Guardi, secondo me oggi parlare di sesso “prima” e sesso “dopo” il matrimonio serve a poco: l’importante è il peso che si dà all’atto sessuale. E poi sono vaccinata: sapesse quanti fidanzati arrivavano al Punto Familia che avevano già due figli. Il desiderio sessuale non va colpevolizzato, questo lo insegnavamo anche alle suore, affinché lo riportassero alla propria comunità».
Si è mai innamorata?
«E secondo lei a me, abituata a Dio, basterebbe un solo uomo?»
Lei ha vissuto il Concilio Vaticano II, la rivoluzione di Wojtyla, la legge sul divorzio e oggi la stagione di Francesco. La Chiesa è cambiata ma forse la famiglia come istituzione ne è uscita indebolita.
«Qualche volta bisogna ascoltare più la gente e meno le regole. Una volta mi telefonò una siciliana che aveva avuto sette figli dal marito e non ne poteva più, però non voleva venir meno ai doveri coniugali. Le dissi: stai tranquilla, mi ha chiamato il papa e mi ha detto che puoi prendere la pillola anticoncezionale. Quando ci vuole ci vuole».
Gran Bretagna, il giudice: «Per un uomo fare sesso con la moglie è un diritto fondamentale», scrive il 3 aprile 2019 Greta Sclaunich su Il Corriere della Sera. Per un uomo, fare sesso con la propria moglie «è un diritto fondamentale». Così come «lo stato ha il diritto di monitorarlo». Lo dice il giudice. Un giudice in particolare: Anthony Hayden, magistrato inglese che si occupa del caso di un uomo sposato da vent’anni a una donna con problemi mentali. La denuncia arriva dagli assistenti sociali che si occupano della moglie: secondo loro la donna, proprio per via dei problemi mentali, non può più essere considerata consenziente. Per il marito, quindi, è stato chiesto un ordine di restrizione per vietargli di avere rapporti con la donna ed evitare così il rischio che si tratti di stupro. Un caso controverso, che le parole del giudice Hayden hanno reso ancor più difficile da districare. Durante l’udienza preliminare il magistrato ha infatti parlato di sesso coniugale come di «un diritto fondamentale» (sottolineando anche che risulterebbe difficile alla polizia verificare l’eventuale ordine di restrizione), provocando diverse polemiche. In prima fila, per esempio, c’è la deputata laburista Thangam Debbonaire, che su Twitter lo ha attaccato dicendo che questi commenti «rinforzano atteggiamenti pericolosi» e che «nessun uomo in Gran Bretagna ha il diritto legale di insistere sul sesso. Se non c’è consenso, è stupro». Il consenso sul sesso all’interno di una coppia è una questione ancora non chiara per tutti. In un recente sondaggio sul tema delle molestie sul Corriere della Sera, alla domanda specifica (si immaginava una situazione in cui un marito costringe la moglie a un rapporto completo dopo il suo «no») il 68,1% degli intervistati ha sottolineato che si tratta di «violenza sessuale». Ma per il 14,6% si tratta di violenza, per il 10,6% di abuso e per il 6,8% «niente di tutto questo». Il magistrato interpellato sui singoli casi esaminati lo afferma con sicurezza: «Qui si tratta senza alcun dubbio di violenza sessuale»
«Fare sesso con la moglie è un diritto fondamentale»? Cosa dice la legge scrive il 4 aprile 2019 Greta Sclaunich su Il Corriere della Sera. «Per un uomo, fare sesso con la moglie è un diritto fondamentale». Lo ha detto un giudice inglese (Anthony Hayden, magistrato inglese che si occupa del caso di un uomo sposato da vent’anni a una donna con problemi mentali: lei non può più essere considerata consenziente quindi gli assistenti sociali hanno chiesto un ordine di restrizione per vietargli di avere rapporti con la donna ed evitare così il rischio che si tratti di stupro), provocando una polemica in Gran Bretagna. Ma, in vari modi e con differenti motivazioni, molti dei lettori dell’articolo nel quale abbiamo raccontato il caso la pensano allo stesso modo. Abbiamo cercato di capire, quindi, cosa prevede la legge chiedendo ad Ambrogio Moccia, presidente della sezione V penale del Tribunale di Milano, di commentare alcune dei punti emersi nelle discussioni con i lettori. Partendo dall’affermazione del giudice Hayden.
«Per un uomo il sesso con la moglie è un diritto fondamentale». La sessualità all’interno di una coppia sposata fa parte dei diritti/doveri di assistenza materiale e spirituale, consacrati dal codice civile. Ciò significa che vivere la sessualità di coppia è un’aspettativa lecita da parte di entrambi i coniugi ma con presupposti di armoniosa condivisione: non è tollerabile che ci siano meccanismi di coazione (né fisica, né morale) nella scelta del momento e dei modi della sessualità. La sessualità è un obbligo di carattere interpersonale e assistenziale, non meccanico: non significa che ciascuno deve essere a disposizione dell’altro ma vuol dire che devono essere d’accordo entrambi nei tempi e nei modi. Non vale solo per l’uomo, ma anche per la donna. I diritti/doveri valgono per entrambi, così come i presupposti di armoniosa condivisione.
Lui avrebbe una giustificazione se, dato che non fa sesso con la moglie, frequentasse qualche altra donna? No: nel matrimonio è previsto l’obbligo di fedeltà. Una coppia che vive problemi acuti ha due possibilità: può impegnarsi per risolverli oppure intraprendere un percorso di separazione. Ma non può contraddire il matrimonio nella sua essenza che prevede, appunto, l’obbligo di fedeltà.
Nel matrimonio il rapporto sessuale dovrebbe essere contemplato. Lo è, ma ricordiamoci che fa parte dei diritti/doveri compresi nella mutua assistenza. Non deve mai prescindere dalla libera adesione di ciascuno: il nostro codice civile non permette di forzare il/la partner (o di pretenderne l’«attivazione») per soddisfare la propria libido. Il consenso deve essere basato sull’armonia e sull’empatia. Anche per la moglie è un diritto, in certe situazioni, rifiutarsi. Lo è sempre, non solo in «certe situazioni», e vale per entrambi i coniugi. Non ci sono, insomma, situazioni che legittimino il rifiuto e altre che invece non lo legittimino. Cosa fare se lei o lui si rifiuta costantemente? Il partner non deve privarsi del sesso né cercare una sfogo esterno: si certifica lo stato della crisi della coppia e si pensa alla dissolubilità del matrimonio.
Ma il sesso nella coppia non è un dovere coniugale? È un frammento del dovere di assistenza che sicuramente è incoercibile cioè che non espone, in caso di mancato desiderio di coinvolgimento, a rivendicazioni assistite dalla legge o dalla morale. Anzi, espone a una sanzione in caso di rivendicazione aggressiva e quindi di tentativo di soddisfazione forzosa di una delle molte espressioni del dovere di assistenza.
· Quando le donne si sposano tra loro (e non è per amore).
Quando le donne si sposano tra loro (e non è per amore). Pubblicato domenica, 05 maggio 2019 da Marta Serafini su Corriere.it. In dialetto locale chiamano «nyumba ntobhu». Tradotto, letteralmente, significa «la casa delle donne». In pratica, quando una donna rimane vedova e non ha figli maschi, può risposarsi con una donna più giovane in grado di procreare. L’obiettivo è assicurare la continuità della tribù e delle famiglie. Ma l’usanza ha anche un altro vantaggio: la sicurezza. A raccontare la storia di Boke Chaha, 25 anni, e di sua moglie Christina Wambura, è la Cnn nell’ambito di un progetto della durata di un anno finanziato dalla Bill&Melinda Gates Foundation. «Non ne potevo più degli uomini. E così ho deciso di risposarmi con una donna», ha spiegato Boke all’emittente statunitense . Lo scenario è il villaggio di Kitawasi, al confine tra Kenya e Tanzania, nella regione Mara. Qui il 78 per cento delle donne è stato vittima di abusi fisici, sessuali o psicologici, compiuti dai mariti. Una percentuale altissima in cui rientrava anche Boke. Poi cinque anni fa, stanca delle botte, Boke ha deciso di cambiare aria. «Volevo che mio figlio crescesse in un ambiente più sicuro e così sono tornata a casa dei miei genitori». La donna però non era ancora libera: le restava da pagare il debito della dote che la sua famiglia aveva versato al suo ex marito. Nove mucche, del valore di 500 mila scellini della Tanzania (216 dollari circa), una cifra che Boke non ha. Ed è a questo punto che entra in scena Christina. «Si è offerta di saldare il mio debito e così abbiamo deciso di sposarci», racconta ancora Boke. Christina era reduce anche lei da un primo matrimonio. Data in sposa a 11 anni, non era mai riuscita ad avere un figlio. Così, dopo essere stata ripudiata, era tornata anche lei dalla famiglia. Nel suo caso, però, uno dei fratelli aveva deciso di metterla in sicurezza comprandole un piccolo appezzamento. Ed è qui che ora Christina vive con Boke, in un casa piena di colore e gioia. Ad accrescere la felicità delle due donne, due bambini che Chaha ha dato alla luce da quando si è sposata con Christina. Come spiega ancora la Cnn, Chaha è libera di scegliersi gli uomini con cui avere rapporti. Poi, una volta rimasta incinta, li lascia. «E quando ho smesso di allattare un bambino, ne cerco subito un altro». Secondo la legge tanzaniana, sia gli uomini che le donne hanno uguali diritti sulla proprietà, ma la norma non viene applicata nella realtà delle comunità rurali influenzate da tradizioni secolari. Solo il 20% delle donne possiede terre a proprio nome, secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura e la Thomson Reuters Foundation. Inoltre come fa notare alla Cnn l’avvocato del Centro assistenza alle vedove e i bambini della regione Mara, Emmanuel Clevers, «una delle due donne non ha diritti sui bambini». A Christine e Chaha però questo elemento non pesa. «Ora sono in pace, nessuno mi insulta paragonandomi a una mucca sterile», ha spiegato Christine. Fino ad oggi la coppia ha avuto solo figli maschi. Ma se dovesse arrivare una femmina, Chaha non ha dubbi. «Lavorerò sodo perché possa andare a scuola. E non farò nessun piano per darla in moglie a qualcuno».
· Le donne che parlano di sesso.
Luciana Littizzetto e quello che le donne non possono dire. Piovono accuse di volgarità sulla comica di "Che tempo che fa". Eppure le stesse battute dette da un uomo non scatenano alcuna indignazione, scrive Beatrice Dondi il 10 dicembre 2018 su "L'Espresso". «Carletto di qua, Carletto di là, questo non si dice, questo non si fa», canticchiava Corrado e quel vecchio monito risuona ancora in testa, colonna sonora di una tv che traccia, come su una lavagna ideale, la riga di chi possa dire cosa. O meglio. Di come lo stesso concetto provochi indignazioni divergenti quando cambia il sesso di chi lo pronuncia. Soprattutto se vuol far ridere. Un argomento vecchio quanto la costola d’Adamo che torna di curiosa attualità ogni qualvolta una signora viene attaccata per aver detto semplicemente la stessa battuta di un corrispettivo maschile. Un esempio? Le tette. Da Balalaika a Tale e Quale show, da Pucci al Mago Forrest abbiamo sentito con candore pronunciare «Canti bene, ma ho apprezzato in particolare i tuoi do di petto» o «Solo due cose entusiasmano l’uomo: due poppe!» e tutto è filato liscio. Accade però che Luciana Littizzetto una bella sera si metta a scherzare sulle tette di Antonella Clerici e all’improvviso si decide che è uno scandalo fare battute su un argomento tanto delicato. Perché è vero che abbiamo fatto passi avanti e tutti esibiscono il segno rosa sotto l’occhio una volta all’anno in difesa delle donne, ma quel salto, quello in cui si giudica la battuta in quanto tale e non, per restare in tema, se chi l’ha detta abbia o meno le tette, proprio non si riesce a fare. Una signora deve far ridere sempre con eleganza. Senza sesso, rutti, peli e membri in senso non parlamentare. E pazienza se passano in prima serata accuse sacrosante contro gli scempi di questo momento politico che sta rendendo i diritti incivili. L’importante è che Luciana non tocchi l’anatomia. Va bene il “celodurismo” ai microfoni dei tg ma non “Je sui Salvén, quel che ce l’aveva dur”. Passi pure l’ex Cav, che preferisce “La donna che me la dà” ma guai se a “Che Tempo che fa” gli si dà del guardone. Insomma, sfugge il senso dell’indignazione che lascia libero Massimo Boldi di invocare “voglio una escort”, trascinando verso l’abisso la citazione felliniana e relega l’intervento della Littizzetto nell’angolino della volgarità. Come disse Ennio Flaiano, fra trent’anni l’Italia sarà non come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione. E saremo ancora lì, a quello che le donne non possono dire.
Che fastidio le donne che parlano di sesso. Usare lo stesso linguaggio maschile è una forma di emancipazione o no? Anna Salvaje lancia la provocazione: «Giocare con le parole esplicite, ridicolizzarle e riderne è un modo di togliere loro potere. E anche questa è politica.» Monica Lanfranco: «Il linguaggio patriarcale non si dissacra facendolo nostro», scrive Cristina Da Rold il 18 gennaio 2019 su "L'Espresso". «Non avevo alcun intento politico. Stavo vivendo una storia amorosa clandestina con un ragazzo molto più giovane di me. Il blog e i profili sui social erano una dedica a lui, un gioco fra me e lui. E mi eccitava l’idea che altri, del tutto sconosciuti, leggessero di noi. Le reazioni hanno sorpreso anche me. In qualche modo loro sì che sono “politiche”: mi insultano e scrivono con gratitudine in centinaia.» Che lo si consideri un bene o un male, un reale dibattito o semplicemente rumore confuso, la partecipazione alle discussioni sui social network, quando è massiccia come nel caso dei profili Twitter e Facebook di Anna Salvaje non può lasciare indifferenti. Sono centinaia le donne, giovani, giovanissime e meno giovani, femministe e non, che ogni giorno commentano i tweet e i post di Anna, che da qualche anno, prima con il blog e poi sui social, condivide i dettagli più intimi della sua avventura sessuale. Al centro dei posto di Anna c’è la narrazione e l’esaltazione del proprio piacere con un linguaggio che molte definiscono troppo scurrile per una donna, altre troppo banale, altre ancora denigratorio, altre addirittura dannoso per la lotta contro il patriarcato. Di fatto la constatazione comune è che oggi esistono ancora tante zone vietate a chi è nata femmina. Ma basta parlare di sesso, in qualsiasi modo lo si faccia, per essere donne più libere? Autodefinirsi puttana, zoccola, troia può essere una strada produttiva per privare questi termini secolarmente diffamanti della valenza denigratoria che indossano? Usare su noi stesse parola “cazzo”, per esempio, ci rende più libere? «Utilizzo spesso, riferendoli a me stessa, termini secolarmente diffamanti, per tentare di privarli della valenza denigratoria che indossano» spiega Anna. «Secondo me, giocare con queste parole, ridicolizzarle e riderne è un modo di togliere loro potere. Parlo di sesso perché mi piace e mi piace farlo a quel modo. E in tanti ne sono disturbati. Pretenderebbero di impormi come ne dovrei parlare e con che parole. Questa è politica.» Nel suo famoso “Il corpo delle donne” Lorella Zanardo scriveva che siamo su un filo di lama quando utilizziamo stereotipi per divertimento. “Penso che parlare di performance oggi non basti: è necessario riprendere a parlare di desiderio femminile in rapporto al potere” commenta invece a L’Espresso Monica Lanfranco, giornalista e formatrice. «La donna libera sessualmente può ancora diventare merce, se mentre lavoriamo sulla narrazione del desiderio femminile non facciamo lo stesso anche sul linguaggio che utilizziamo. Proviamo per esempio a ragionare sul perché il termine usato per dire a una donna che compie del sesso orale ha valore di offesa, ma non si offende un uomo dicendogli che fa lo stesso a una donna.» La risposte delle donne, anche sui social, sono dunque molto diverse. Da una parte c’è l’argomentazione che ruota intorno al concetto secondo cui “perché vergognarsi di parlare anche noi in quel modo. Cominciamo a riappropriarci delle parole”, mentre dall’altra la questione di fondo è che il linguaggio patriarcale non si dissacra facendolo nostro come donne, ma decostruendolo, mettendo il luce la sua origine fondata ancora una volta sull’oppressione del maschio sulla femmina. «Sono quarant’anni che le femministe riflettono sull’utilizzo del linguaggio comune e su come questo sia stato utilizzato per l’oppressione patriarcale sulle minoranze oppresse, non solo sulle donne, e diverse sono le esperienze che hanno mostrato che assumendo noi stesse quel linguaggio non andiamo lontano» spiega Monica. Le capita molto spesso di organizzare a dei corsi nelle scuole per fare riflettere i ragazzi sul linguaggio sessista che utilizzano anche inconsapevolmente e ogni volta - ci dice - si rende conto di quanta sia ancora la strada da fare con le nuove generazioni. «I due termini denigratori più utilizzati dai giovanissimi sono per esempio frocio per offendere un uomo e troia per offendere una donna. Anche la scelta di questo binomio rifletta una concezione patriarcale: solo il termine troia ci abbraccia potenzialmente tutte e connota una visione servile della donna rispetto all’uomo. Anche la comune frase “hai le tue cose?”- ci spiega - non è leggera come sembra se pensiamo che fino al 1965 proprio in ragione della presunta instabilità delle donne dovuta al ciclo mestruale non era loro permesso accedere alla magistratura e diventare giudici». Il pomo della discordia è quindi linguistico ma, di fondo, politico, anche se non è facile capire se è il politico che crea il linguaggio o viceversa. Anche il sesso riflette infatti lo scontro ideologico intorno all’etica della libertà personale come massimo valore da perseguire, con tutte le conseguenze contraddittorie che ne derivano, come dimostrano la libera volpe e la libera gallina. In quest’ottica che potremmo definire “liberista” l’autodeterminazione della donna (anzi, delle donne) contro il patriarcato non deve passare attraverso l’imposizione di regole, seppur poste da altre donne. «Una donna ha il diritto di fare del proprio corpo quel che vuole: godere del porno o farlo, portare il velo, affittare un utero, fare sex working o entrare in convento. Dettare regole alle donne è becero e maschilista anche quando sono le donne a farlo» commenta Anna Salvaje. Sono molte le donne che la pensano in questo modo, una visione opposta a quella di grossa parte del femminismo, secondo cui la liberazione della donna dal patriarcato significa renderla libera ma responsabile per le altre che sono oppresse, magari senza rendersi conto di esserlo. Che la libertà femminile si ottiene solo con una strategia di lotta comune. Forse, alla fine, il vero nocciolo della faccenda è che oggi non tutte le donne concordano sul fatto che la lotta al patriarcato sia una fra i generi storicamente determinati, come invece mostra chiaramente l’etimologia delle parole che utilizziamo. «Io non voglio combattere ‘gli uomini’» precisa Anna. «L’unica guerra è quella che le persone (uomini e donne) che rispettano gli altri e le loro scelte devono combattere contro le persone che non lo fanno.» Viene da chiedersi se siano davvero maturi i tempi per abbandonare una posizione di genere e abbracciare una “lotta” al patriarcato che vada oltre il genere. «Stando a quando vedo da come parlano i ragazzi oggi e di quanto poco si rendono conto di utilizzare parole sessiste - risponde Monica - assolutamente no».
SE LA DONNA E’ PELOSA TORNA PRESTO DI MODA, scrive Elisabetta De Dominis per “Libero quotidiano” il 12 gennaio 2019. Caro direttore, so già che mi dirai: «Che barba, Elisabetta!», ma il trend è il pelo e ti chiedo di farci luce nella foresta pelosa di uomini e donne. Ieri sera ti ho sentito alla trasmissione La Zanzara di Radio 24 rispondere che preferisci le donne depilate dappertutto ma, che se la moda è di non depilarsi più le ascelle, col tempo ti potresti anche adeguare. Sono ammirata da questa tua qualità di adattamento, invece io non ci riesco: a me gli uomini con la barba e corpo per giunta depilato mi fanno ribrezzo, ma oggi ho scoperto che faccio parte di un'esigua minoranza. Sono antiquata, come diresti tu. Secondo l'identikit tracciato da Anima Select, il 78 per cento delle donne italiane predilige gli uomini con la barba possibilmente incolta perché esprimono forza, virilità e puntano a concretizzare piuttosto che a desiderare un rapporto sessuale. Ovviamente questo stereotipo è difficile da incontrare nella realtà, mentre popola le fiction televisive da Thor, il dio del tuono al Trono di Spade. In quest'ultimo serial fantasy l'attore Jason Momoa dai muscoli scolpiti è Drogo, capo dei guerrieri Dothraki, che prende e sbatte sul pagliericcio l'orgogliosa madre dei Draghi. E lei se ne innamora perdutamente. Qualsiasi uomo dalla faccia a uovo di Pasqua, facendosi crescere la barba, ha la possibilità di trasformarsi in Babbo Natale, mentre è convinto di essere un guerriero Dothraki. Per ben che gli vada, se ha ancora il pelo scuro, sembra un talebano pronto ad infoltire i gruppetti di extracomunitari che ciondolano per le vie. L'agosto scorso mi chiese ripetutamente l'amicizia su Facebook un certo Dali Daly: apro e mi appare un prestante guerrigliero dell'Isis, con la barba nera come la pece, che mi punta il mitra contro. Ho visto solo l'assassino, non il bel tenebroso, e ho chiamato la polizia postale. A ferragosto è poi passata quasi in sordina la notizia che un gruppo di ricercatori svizzeri ha pubblicato sulla rivista European Radiology: «Nella barba degli uomini ci sono più batteri pericolosi per noi che nei peli di un cane». Il che non è una bella notizia per tutti quegli uomini che puntano sulla barba per conquistare le donne. Temo che le donne scelgano inconsciamente gli uomini per il pelo, come fanno con i cani; infatti si va affermando la 'moda barboncino' che per i quadrupedi prevede testa da leone e corpo depilato da capretta. La barba non può evocare la zazzera di un cane, da accarezzare. Pertanto io preferisco corpo da leone e viso rasato da uomo. Attendo che tu faccia il pelo e contropelo a questa penosa questione.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 12 gennaio 2019. A me il regno dei peli interessa meno del regno dei Cieli. Gli zazzeruti non mi fanno né caldo né freddo, al massimo provocano in me un senso di ribrezzo. Se anche le donne decidono di imitare gli uomini facendosi crescere dei boschi sotto le ascelle e altrove, non posso che provare repulsione, ma sono altresì disposto a chiudere un occhio, anzi due. Recentemente mi risulta che molte signore si rasino pure la vulva. Non so perché lo facciano, forse per piacere maggiormente ai loro corteggiatori. A me la cosa non va a genio. Davanti allo spettacolo del sesso femminile depilato mi sento a disagio, come al cospetto di una immagine ricavata da una enciclopedia medica che punta sull' anatomia per illustrare la conformazione dell'apparato riproduttivo femminile. Non mi eccita, bensì mi fa impressione. Provo un fastidio indescrivibile che è l'esatto contrario della normale eccitazione che suscita la visione di un bel corpo nudo. Pertanto la questione peli sì o peli no si complica. Se devo essere sincero ammetto che, sarà l'abitudine, preferisco una fidanzata pulita come il palmo di una mano, ossia senza cespugli ascellari, tuttavia se il suo pube è totalmente privo di lanugine mi ripugna. Sarò antiquato, ma gradisco che dentro gli slip di una ragazza ci sia un minimo di morbidezza, di setola che inviti a una carezza. Per ciò che concerne invece i maschi, i barbuti quanto gli islamici mi fanno orrore sebbene non mi intimoriscono: sono brutti e basta. Sembrano e magari sono sporchi, nascondono il loro volto in modo brutale e a noi occidentali si presentano quale minaccia. Occorre precisare che da qualche tempo anche gli occidentali amano incorniciare il loro volto di pelacci, evidentemente imitano quelli dell'Isis per apparire più virili. In realtà fanno solo più schifo. Ma non è un problema. L'uomo irsuto non è evoluto, talvolta però è piaciuto. Alle cretine, che sono la maggioranza dell'umanità. Ecco il motivo per cui anche esse puntano a incoraggiare la crescita della propria peluria.
· L’Italia dei Tabù. Il sesso è solo vintage.
Il sesso è solo vintage. Dall'"Estasi" restaurata agli erotici anni '60. Luigi Mascheroni, Venerdì 30/08/2019 su Il Giornale. Niente sesso, siamo italiani. Al festival, quest'anno, castissima edizione numero 76, i nostri film parlano molto di camorra e mafia, di famiglie e figli, e poi di Storia e di storie, di amore e politica, insomma di tutte le cose che fanno girare il mondo, ma poco o nulla si vede dell'unica cosa che lo tiene popolato. Il sesso. Notoriamente argomento molto più interessante delle quote rosa. Comunque, guardando le nostre opere in concorso (Il sindaco del Rione Sanità di Mario Martone e Martin Eden di Pietro Marcello, mentre La mafia non è più quella di una volta di Franco Maresco i critici non hanno potuto vederlo in anticipo), e quelle nelle sezioni parallele - i film di Salvatores, di Igort, della Archibugi, Sole di Carlo Sironi, Nevia di Nunzia De Stefano...) non ci viene in mente una che sia una scena di sesso: etero, omo, lesbo, trans, voyeuristico, mercenario o orgiastico. E, parlando con chi ha già visto qualche titolo, sembra che neppure dagli altri Paesi siano in arrivo al Lido chissà quali scandalose pellicole. Forse i registi erano in altro affaccendati, forse è l'(auto)censura del #MeToo e del politicamente corretto, o forse è solo un caso (ma una Mostra del cinema non è un caso, comunque fornisce degli «orientamenti»), rimane il fatto che nudi, amplessi ed erotismi vari a Venezia non sono previsti. E anche sulle spiagge del Lido i topless sono spariti da tempo. Bei tempi quando la Mostra sprizzava erotismo, scandali e provocazioni da ogni schermo. Altro cinema, altri pubblici, altri registi... E infatti quest'anno al festival il sesso si vede solo vintage, retrò, tutto girato al passato. Se i film di oggi deludono, quelli di ieri compensano abbondantemente. In materia di sesso cinematografico siamo arrivati così avanti da cominciare a tornare indietro. E così la Mostra (la cui serata di pre-apertura ha riportato in sala, in una nuova copia digitale restaurata in 4k, il film scandalo dell'edizione del 1934, Estasi di Gustav Machaty, con il primo nudo integrale della storia del cinema «maggiore», quello della fin troppo giovane Hedy Kiesler) recupera tutto il recuperabile erotico del nostro recente, libertino e libertario passato. Nei prossimi giorni sono previsti: il documentario Cercando Valentina sull'eroina spregiudicata del celebre fumetto di Crepax, il docu-film Mondo Sexy di Mario Sesti sul mondo dello strip-tease e la vita notturna negli anni '60, un imperdibile documentario di Steve Della Casa sull'horror all'italiana - profondo nero e prime timidissime luci rosse - degli anni '60, uno strepitoso omaggio a Piero Vivarelli (Life As a B-Movie), regista stracult che ci regalò alcuni dei momenti più belli dei leggendari erotici-esotici anni '70; e persino la versione integrale - proiezione speciale della serata di apertura della Mostra - di Irréversible di Gaspar Noè, film che scandalizzò Cannes nel 2002 per lo stupro subito da Monica Bellucci: una scena di dieci minuti senza stacchi di montaggio in cui l'attrice italiana subisce una violenza in un sottopassaggio. Una nota sul programma ufficiale del festival avvertiva: «Il film contiene scene che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni spettatori». Oggi, il #MeToo non lo farebbe neanche produrre, probabilmente.
Marco Bracconi per Il Venerdì - la Repubblica il 29 Agosto 2019. Rewind. Riavvolgete la pellicola dal cybersex all' alba degli anni Sessanta, in un' Italia ancora in bilico tra la legge di dio e quella del desiderio. E adesso spingete play e accomodatevi davanti al ground zero della rappresentazione del corpo erotico femminile. Mondo Sexy, scritto e diretto da Mario Sesti, il 3 settembre alla Mostra del Cinema di Venezia (evento speciale delle Giornate degli autori) è un film sulla breve ma straordinaria fortuna che ebbero in Italia i documentari erotici, a partire da quell' Europa di notte di Alessandro Blasetti (1958) che può considerarsi il nobile capostipite del genere. A suo modo, una rivoluzione, perché da quel momento il nudo di massa irrompe sul grande schermo, condotto - e riprodotto - da sua maestà lo spogliarello: i film sui mondi di notte, sempre "caldi" e sempre "proibiti", diventano una serie, uno stile, un affare. Costano poco, sbancano il botteghino e oggi offrono l' occasione di leggere i candori e la brutalità di un'epoca destinata a essere travolta dalla secolarizzazione del senso del pudore. Grazie a un meticoloso lavoro su materiali quasi introvabili, Sesti ci fa così ri-vedere decine di spogliarelli montati in un flusso quasi ipnotico, mentre la voce fuori campo e le interviste annodano i fili di quella storia. «Il nudo non è mai integrale, i genitali erano tabù e anche i capezzoli dovevano essere coperti. Era una direttiva di Oscar Luigi Scalfaro, allora ministro dello Spettacolo». È lo stesso principio dell' algoritmo di censura di Facebook, fa notare l' autore. Sessant' anni dopo, perbacco. «Quei film sono l' Alfa e l' Omega dello sguardo maschile» spiega Sesti. «Da una parte c' è la rassegna dei corpi, il dominio classificatorio di uno sguardo che codifica i corpi secondo il suo punto di vista; dall' altra l' infantile meraviglia del bambino che spia la nudità della madre dal buco della serratura». Attenti però a non perdere di vista la complessità perché nei sexydocu anni 60 c' è un po' di tutto, dalla gioia liberatoria e insieme ambigua del "denudarsi" agli stilemi classisti che diventeranno architrave dell' hardcore, fino ai vettori che rimandano all' odierna fortuna del burlesque, tra retrotopia ed evoluzione del genere. Nostalgia? Ci mancherebbe altro. Eppure, come dicono le voci femminili raccolte nel finale di Mondo sexy, resta un senso di perdita. Perché davanti a quei corpi attraenti ma dolcemente imperfetti, esibiti prima del lifting e ignoti ai tatuaggi, corpi ancora unici e reali, si vede come la visione della sensualità femminile abbia poi scelto la strada dell' astrazione e della sua riproducibilità tecnica. Non a caso la sequenza finale del film è un drappo rosso che scopre un seno sulla Tour Eiffel e poi cade, anzi precipita nell' abisso del desiderio. E di un eros che abbiamo, forse inesorabilmente, dimenticato.
Erotismo, botteghino e liceali. Quel gran pezzo dei Settanta. Luigi Mascheroni, Giovedì 26/09/2019, su Il Giornale. Se gli italiani hanno una predisposizione, ben prima dell'Alighieri, è alla commedia (genere nel quale, fin dai latini, hanno sempre eccelso, più che nella tragedia). E se hanno un'inclinazione, è al sesso. Il teatro comico romano, Giovenale, le satire, la commedia dell'arte, Goldoni, il varietà, la grande commedia all'italiana del cinema degli anni '50-60... C'era una volta - epoca d'oro e Lingua d'argento, sono gli anni Settanta - la commedia sexy. Al netto dei sottofiloni e ramificazioni (i decamerotici, poliziottesche, caserme, la famiglia, l'erotismo alla siciliana, le liceali...) è considerata un fenomeno con caratteristiche uniche nel panorama cinematografico mondiale: l'abbiamo creata, declinata in tutte le varianti possibili, e esportata, dalla Francia al Brasile, fino al Giappone (arricchendo la versione base con inserti hard). Quando c'è da (far) ridere e giocare col sesso, ci siamo sempre fatti notare. Intrighi amorosi, invenzioni linguistiche, battute, maschere, equivoci, scambi di persone, erotismo e belle dame. Gli elementi sono gli stessi che usava Plauto. Il nostro cattolicesimo ci ha aggiunto il peccato, la Democrazia Cristiana il comune senso del pudore, il Sessantotto ha lasciato in dote il nudo e un produttore ha scoperto Edwige Fenech. Tutto il resto è venuto da sé. ...e si salvò solo l'Aretino Pietro, con una mano davanti e l'altra dietro... Era il 1972, e la creatività titolistica non era neppure ancora ai suoi massimi. Il massimo esperto, oggi, con una decennale carriera in sale di quartiere, è Marco Giusti - autore televisivo, critico e storico del cinema, conoscitore di serie A degli Italian Kings of B's - che aggiunge ora un altro tassello alla sua opera di catalogazione antropofilmica del cinema popolare italico. Ed ecco, dopo i volumi dedicati al peplum, agli spaghetti-western e agli 007 di casa nostra, il monumentale Dizionario Stracult della Commedia Sexy (Edizioni Bloodbuster, pagg. 528, euro 35). Più di 400 titoli schedati (dati tecnici, trama, critica e aneddotica varia, dalla frase di lancio sulle locandine al grado di nudità delle dive, vicissitudini processuali, incassi, stroncature, infortuni sul set, numero di metri tagliati dalla censura... dio mio, quante inquadrature ci siamo perse...), dalla A di Acapulco, prima spiaggia a sinistra (Sergio Martino, 1983) a Zucchero, miele e peperoncino (Sergio Martino, sempre lui, 1981), lungo poco più di un decennio, quel gran pezzo dei Settanta (poi la tv commerciale inghiottirà sesso, commedia e tutti i suoi protagonisti, da Gianfranco D'Angelo a Lory del Santo), oltre un inserto fotografico con i flani d'epoca (imperdibile quello de Il merlo maschio, 1971) e i migliori manifesti disegnati dal maestro del genere, Enzo Sciotti (gli originali costano anche 6mila euro). Ma soprattutto con una sontuosa introduzione (80 fittissime pagine) in cui Marco Giusti ricostruisce nascita, contesto storico, evoluzione, crisi e resurrezione critica della commedia sexy. Testo definitivo. Di definito, in realtà, non c'era molto quando tutto iniziò. Se non che a un certo punto, '68&dintorni, grazie alla rivoluzione culturale, alla minigonna e Wilhelm Reich, mentre i primi giornaletti spinti arrivano in edicola, l'Italia - sia quella povera e cattolica del dopoguerra sia quella più ricca e democristiana del boom economico - scopre che il sesso, oltre a farlo, si può raccontare, guardare, discutere, svelare, spiare. Spogliamoci così, senza pudor... 1977. Meno pudore e più trasgressione, mentre nel Belpaese (Luciano Salce, 1977) si comincia a sparare nelle strade, «la prima linea del cinema più impegnato e artistico, diciamo la nostra Nouvelle vague» - scrive Giusti - indica la via italiana all'erotismo. Curioso: non sono i mestieranti, gli artigiani, le seconde linee, ma i grandi registi a firmare film che da lì a poco, certo in modo molto più godereccio e scollacciato, daranno vita a varianti fortunatissime. Il Decameron di Pasolini (1971). Ultimo tango a Parigi di Bertolucci (1972). Malizia di Salvatore Samperi (1973). Amarcord di Fellini (1973), che tratta il sesso in maniera marginale, ma già fortemente erotica e iconica. L'impronta dei maestri, un pubblico enorme pronto a farsi un'abbuffata di sesso, produttori che sfruttano l'onda, budget in fondo limitati e incassi per il tempo faraonici, una classe di favolose attrici minorenni, ragazzine, adolescenti, liceali, nipoti, Grazie zia, cugine e cognate, mogli, amanti e sorelle bone. Oppure vestite da infermiere, dottoresse, poliziotte... Il gradimento nazional-popolare delle dive desnude determinava il loro cachet. Edwige Fenech, regina del genere sexy, poteva ottenere 70 milioni a film, Gloria Guida 50, Femi Benussi tra i 10 e i 15. Tra i maschi, la star assoluta che trasformava in code al botteghino ogni pellicola che interpretava, era Lando Buzzanca (che prendeva gli stessi soldi di un Volontè). Donne nude e Homo eroticus. Il fatto, è che non era solo una questione di donne nude e erotismo casereccio. I film della commedia sexy proiettano, come sempre, i desideri, le frustrazioni e le abitudini degli spettatori che li (ri)guardano. Peccati di provincia, vizi di famiglia, calde notti e collegiali, sogni di classi miste, storielle di corna e di passione, Innocenza e turbamento, notti peccaminose e novelle licenziose... Non c'è nulla da fare. Il Paese in quegli anni ha Il sesso in testa. I corpi sono bellissimi, a volte leggermente imperfetti ma più veri e sensuali. A portata, come si dice, di mano. La censura è occhiuta e più morbosa degli sceneggiatori, la critica militante fatica parecchio a capire, gli spettatori neppure si sforzano di farlo, gli bastano collant e scollature, il politicamente corretto non era ancora nato (e si poteva intitolare un film Elena sì, ma ... di Troia), le femministe protestavano, ma anche loro senza reggiseno, e comunque solo nel 1974 si produssero 176 film e le sale erano 9.089. Di quell'anno, peraltro, si ricorda La signora gioca bene a scopa? con la più bella battuta dell'intero filone (Oreste Lionello, che interpreta uno sceneggiatore, rivendica: «Io faccio un cinema di rottura!», cui la cameriera risponde: «Di coglioni»), e una scena di nudo memorabile della Fenech. La pellicola fece 718 milioni di lire di incassi.
Dagospia l'1 ottobre 2019. Da Dizionario stracult della commedia sexy di Marco Giusti - edizioni Bloodbuster. Vedetela come volete. Tra la fine degli anni ’60 e per tutti gli anni ’70 l’Italia, sia quella povera e cattolica del Dopoguerra sia quella più ricca e non troppo meno cattolica e democristiana del boom economico, grazie alla rivoluzione culturale del 1968, agli acidi, a Jean-Luc Godard, a Carosello, a Wilhelm Reich, al P.C.I., alla minigonna, al rock inglese, scopre il sesso, il peccato e l’erotismo. Tutto ciò si traduce in edicola in una valanga di giornali e giornaletti porno, e nel cinema nella nascita di un cinema erotico che passa senza una precisa strategia dal drammatico al politico al cinema autoriale alla commedia. Ma è solo quando sfiora la commedia, anzi la nostra commedia, evolvendosi dall’erotico con pretese o dall’erotico drammatico, che darà vita a un nuovo genere tutto italiano, quello cioè della commedia sexy. Con mille sottogeneri e ramificazioni. Sarà proprio questo genere spesso poco chiaro, quasi un ibrido, la commedia sexy, contaminazione fra cinema erotico internazionale e commedia all’italiana, il genere che verrà esportato in Spagna, quando finirà la censura di Franco, in Francia e, soprattutto, in Brasile, dove darà vita alla porno-chanchada, in Messico, e che detterà legge fino ai primi anni ’80. Quando cioè la televisione, sia nazionale che commerciale, inghiottirà sesso e commedia e tutti o quasi i loro protagonisti, rimasticandoli come star, vestite e accettabili, del piccolo schermo, soprattutto delle reti di Silvio Berlusconi. E’ lì che Edwige Fenech, Lino Banfi, Gianfranco D’Angelo, Lory Del Santo, troveranno nuova vita, divisi tra show di prima serata, serie tv, sitcom. Mentre i loro film avranno l’onore di una nuova fortuna e di un nuovo culto prima nelle tv private e poi su vhs. A genere ormai finito. I dati parlano chiaro. Non c’è mai stata una rivoluzione simile nel nostro cinema e un interesse uguale a quello dimostrato dagli italiani tutti per il sesso. Sviluppato, inoltre, durante gli anni di piombo, mentre la gente si sparava per le strade. A mostrare la via, stavolta, non sono artigiani e bravi mestieranti del cinema, o giovani assistenti volenterosi dei kolossal americani girati a Roma, come nel caso degli spaghetti western o del peplum, ma la prima linea del cinema più impegnato e artistico, diciamo la nostra nouvelle-vague. Perché la via all’erotismo in Italia è stata anche, e soprattutto, una rivoluzione artistica e politica. Così Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci incassa 5 miliardi 758 milioni di lire. Malizia di Salvatore Samperi 5 miliardi 515 milioni di lire, Decameron di Pier Paolo Pasolini 3 miliardi 900 milioni di lire, Peccato veniale di Salvatore Samperi 3 miliardi 900 milioni di lire. Amarcord di Federico Fellini, che tratta il sesso marginalmente, ma in maniera chiave soprattutto per la costruzione del genere scolastico, 2 miliardi 739 milioni di lire. Da lì a poco ognuno di questi film lancerà se non delle imitazioni, diciamo delle varianti, molto meno artistiche e molto più goderecce e banali, come le insegnati, le soldatesse, le polizotte, l’erotismo alla siciliana, l’erotismo di provincia, i decamerotici, che formeranno il vero e proprio corpus della commedia sexy italiana, portando ai nostri produttori incassi, per il tempo, faraonici con budget davvero limitati. Diciamo solo che al tempo Edwige Fenech, regina della commedia sexy, poteva facilmente ottenere 70 milioni a film, Gloria Guida 50, Femi Benussi tra i 10 e i 15. Sappiamo bene che non tutti questi film sono identificabili come commedie sexy, come il Decameron di Pasolini non è inseribile tra i decameroneidi. Ma è curioso il fatto che i film che daranno in gran parte il via al genere e ai sottogeneri, da Grazie zia di Salvatore Samperi a Divorzio all’italiana di Pietro Germi, i già citati Ultimo tango a Parigi e Amarcord, per non dire del Satyricon di Federico Fellini, siano totalmente estranei al genere. Questo per la natura camaleontica della commedia dentro il cinema italiano, capace di nascondersi ovunque, sia per il desiderio molto anni ’70, di inserire il sesso appena possibile. Cosa che non capitò, certo, solo nel cinema italiano, ma che in Italia trovò forme tutte sue di exploitation e di contaminazione. La commedia sexy italiana non è quasi mai un genere chiaro come il western, dove un cavallo, un pistolero con il cappellone, un messicano baffuto fanno subito genere, e non esistono origini “alte” fuori dal genere, visto che proprio il prototipo, cioè Per un pugno di dollari di Sergio Leone, nasce come piccolo film di genere. Questo confonde un po’ le cose. Al punto che non sempre è facile definire quali titoli siano davvero commedie sexy e quali no. Lo sono, e chiarissime, le commedie erotiche prodotte da Luciano Martino con Edwige Fenech-Gloria Guida-Lino Banfi dirette da Nando Cicero, Sergio Martino, Mariano Laurenti, Michele Massimo Tarantini. E lo sono le tante commedie legate a quel tipo di cast e di sceneggiature. Titoli, però, che arrivano molto tardi nel genere, quasi a chiuderlo. E’ come se tutti i vari sottogeneri precedenti, dagli erotichelli con Gloria Guida ragazzina alle famiglie sporcaccione con voglie di trasgredire, dalle commedie siciliane più o meno buzzanchiane, trovassero in quei film prodotti dalla Dania e distribuiti dalla Medusa una sorta di spirito unificante che definisse interamente il genere. Forse proprio perché non nasce come un genere chiaro. Copia dalle commedie erotiche europee, tedesche, inglesi, francesi, ma anche, e con molta vergogna, dalla commedia italiana maggiore dei Risi-Steno-Monicelli, che pure non disdegneranno di abbassarsi all’erotico comico, e dal mondo più chiuso di Pietro Germi e Alberto Lattuada. Ma la commedia sexy si nutre pure dei caratteristi e delle attrici svestite dei decameroneidi, che fanno pienamente parte del genere, tocca avventurosi, cappa e spada, peplum, che invece, forse, non ne fanno parte. Perché guardano altrove. Potremmo parlare per giorni su quali film inserire e quali no. Senza trovare, sicuramente, una soluzione. Diciamo che in questo dizionario troverete elencate tutte le commedie sexy che personalmente penso facciano effettivamente parte del genere, o che vennero presentate e percepite come tali. Sì quindi a commedie di coproduzione con la Germania, la Francia, ai rari Buzzanca sudamericani. No invece a drammatici o avventurosi di vario tipo, ahimé, anche se in questa introduzione e nel testo non pochi saranno i riferimenti a erotici d’autore di area samperiana o bertolucciana. Importanti nella costruzione non solo della commedia sexy, ma del cinema italiano del momento. Come importanti saranno tutte le battaglie con la censura che ho cercato di ricostruire nelle pagine che seguiranno. Attraverso la commedia sexy e il suo autodefinirsi come genere, malgrado nasca come un ibrido di generi diversi, penso si possa leggere il percorso del nostro cinema e di tutta la nostra società tra la fine degli anni ’60 e i primissimi anni ’80, diciamo dalle utopie sessantottine e dalle guerre contro la censura fino alla nascita delle tv commerciali non solo berlusconiane. Dalla commedia sexy nasce il nostro spettacolo televisivo degli anni ’80, non scordiamocelo. E, a differenza di altri generi più chiari, non rimane qualcosa di storicizzato, quindi di morto per il pubblico, ma seguita a avere una vita attraverso la tv, i vhs e i dvd, che lo porterà a una sorta di vita ulteriore per tutti gli anni successivi. Al punto che i suoi protagonisti, da Edwige Fenech a Lino Banfi, da Barbara Bouchet a Alvaro Vitali sono ancora oggi nomi di grande popolarità nazionale.
Barbara Costa per Dagospia il 7 ottobre 2019. Il tabù dei tabù: pornare incinta! Solo mettendo uno accanto all’altro questi due vocaboli, quante pelli ho fatto accapponare? Quanti capelli rizzare? E quanti moralisti incazzare? Eppure, miei cari, sono tantissimi gli utenti che, attizzati, digitano queste due parole, "pregnant porn", per cercarsi i video zozzi dei corpi femminili incinti. Che pornano. Tralasciando la fornitissima sezione dei pregnant amatorial, tra le ultime – e famose – pornostar di professione che ha pornato incinta c’è Asa Akira, divorziata, fidanzata e mamma da pochi mesi: tranquilli, Asa è già (quasi) tornata alle sue vertiginose curve precedenti, e non pensa affatto di smettere di lavorare. Ha appena lanciato il suo primo folle porno video game, ma nei mesi in cui era in dolce attesa, non è stata porno ferma: in rete trionfano i suoi video in cui nuda, a sesso aperto, le sue gambe spalancate, e pancione lievitante, si masturba con le dita, e con dildo di varia forma e maniera. Lo so cosa pensate: è da perversi ultimo stadio eccitarsi per tali video, e invece no: seppur la passione per i corpi incinti rientri in una apposita categoria feticista, quella dei maiesiofili, ovvero coloro che si eccitano al pensiero del corpo femminile reso più burroso e appetitoso dalle forme crescenti della gestazione, ciò che Asa Akira mostra in gonfiata chiave pornografica, altro non è che la normalità di noi donne che, incinte, non smettiamo di essere femmine ardenti e sessualmente desideranti. Donne che, tranne inevitabili fasi no, e/o gravidanze disgraziatamente complicate, durante i 9 mesi fatidici subiamo sconquassi ormonali tali che ci fanno diventare un po’ tutte ancor più affamate e di sesso vogliose. Sia a livello masturbatorio, che di sesso completo, vincolate ai continui cambiamenti che ognuna personalmente subisce nel corso di ogni gravidanza, per le donne non muta e non cessa affatto la voglia. E vi son donne che assicurano che gli orgasmi raggiunti durante la gravidanza sono diversi, più potenti, più intensi, di quelli che provano quando non sono in stato interessante. Righe a parte vanno dedicate a quegli uomini che si eccitano in giochi di ruolo in cui son loro che desiderano "appropriarsi" di un corpo incinto: son uomini che godono nel far sesso e raggiungono il massimo del piacere indossando nell’intimità abiti prémaman, fino al feticismo e al capo feticista il più segreto, inconfessabile e inconfessato: il pancione! Son uomini – in casi rarissimi donne – che fanno l’amore con la propria/o partner, o amante, indossando una protesi panciuta, sotto la quale spuntano erezioni strepitose. Godono a scopare e a essere scopati così. Simili giochi di ruolo richiedono una complicità, un legame di coppia notevoli. Sul web si trovano facilmente pancioni finti, in morbido silicone, di ogni taglia, "mese", e forma, e sono le medesime protesi che si usano nei pregnant porn in cui le attrici non sono affatto incinte, sembrano tali, e si fanno pornare in ogni laida posizione, per video pregnant i più indecenti, dove niente è scontato in fatto di fellatio, penetrazioni, fino a feticismi che prevedono umiliazioni (finte, ve lo ricordo sempre!) tipo inondazioni di sperma e sputi. Sono video porno che hanno un pubblico di nicchia, ma che non mancano di visualizzazioni, sebbene i più visti e amati risultino i video con donne incinte, o finto tali, che dolcemente si toccano, si accarezzano, si masturbano. Le parti del loro corpo più bramate? I grossi seni, senza dubbio. Asa Akira non è certo l’unica pornostar a scegliere di pornare incinta: sebbene la maggior parte delle sue colleghe opti per un anno e più di ritiro dalle scene appena deciso e ottenuto di farsi "centrare" dallo spermatozoo del proprio amato (o comprato nelle apposite banche per quanto riguarda le pornostar che vogliono fare un figlio da single e/o le pornostar lesbiche), in passato ha fatto scalpore la scelta della pornostar Belladonna, che pornò in porno soft-fetish fino a gestazione inoltrata. Tutt’oggi in rete è cercatissimo il video in cui Belladonna, nuda e incintissima, si fa radere i capelli a zero da una sua collega. Dopotutto, le donne di spettacolo – e oggi sia vip che nip sui social – hanno da anni trasformato l’esibizione del loro corpo nudo, ingentilito dalla gravidanza, in fonte di vanità (e di reddito) in posa per fotografi rinomati per sexy, hot shooting da copertina. Nel 1994 Milly D’Abbraccio girò porno incinta, e ai locali ci si metteva in fila per vedere i suoi pregnant strip-tease. Prevengo e specifico altre possibili obiezioni: a meno di casi di donne sconsiderate, col cervello fuso, totalmente bacato, è impossibile che una pornostar rimanga incinta sui set, nemmeno durante le riprese di una illimitata gangbang. Essendo la stragrande maggioranza dei porno girati senza condom, le pornostar hanno – ovviamente – totale potere e controllo sui loro corpi, i loro cicli mestruali, i loro ormoni. Quasi tutte ricorrono a soluzioni contraccettive che "annullano" il ciclo mestruale, le mantengono sì fertili, ma non ricettive allo sperma e non "mestrualmente" sanguinanti. Soluzioni contraccettive a cui non sono estranee nemmeno quelle donne non pornostar che scelgono anticoncezionali appositi per evitarsi la scocciatura del ciclo.
· Professione “Love Giver”.
Dagospia l'11 dicembre 2019. Da “la Zanzara - Radio24”. “Fingendomi una devotee, cioè una che cerca sesso coi disabili e con gente menomata, ho conosciuto sul web il mondo di chi si fa amputare. La richiesta è veramente molto alta. Molti degli incidenti domestici, estremamente particolari, non sono veri e propri incidenti ma amputazioni dovute al devotismo”. Lo dice la psicoterapeuta Stefania Angeli parlando di parafilie a La Zanzara su Radio 24. Perché si vogliono amputare?: “Perché la loro immagine mentale corretta è secondo l’amputazione desiderata. Si sentono belli e piacevoli e attraenti con l’amputazione desiderata. Mentre sentono l’arto presente come qualcosa in più, come se noi avessimo una gamba in più”. In Italia ci sono medici che lo fanno?: “Ufficialmente no. Ufficiosamente assolutamente sì. Esistono. Costa dai 10 ai 20 mila euro. Ed è un reato. Ho riscontrato queste cose nei vari siti dove sono riuscita ad entrare”£. Dunque lei ha le prove di amputazioni che si sono realmente verificate?: “Si, assolutamente sì. Ovviamente è un’amputazione al mercato nero”. “In Italia – dice la Angeli - ci sono decine di migliaia di persone fissate col devotismo. C’è chi si eccita esclusivamente con l’alluce valgo, c’è chi si eccita esclusivamente con persone che hanno amputazioni, oppure tetraplegici, oppure ustionati. C’è chi si eccita esclusivamente con i gessi, cioè con persone con un arto rotto e quindi ingessati. C’è chi si eccita esclusivamente con i presìdi ortopedici. Cioè le stampelle, le imbracature. E la cosa riguarda spesso gli addetti ai lavori, cioè quelli che assistono i vari disabili”. “L’incontro – spiega ancora – avviene però soprattutto sul web. Ormai le persone disabili non sono più nelle condizioni di essere fuori dal mondo. Per cui si collegano tranquillamente, chiedono l’accesso a un sito dove ci sono i devoti che cercano i disabili e disabili che cercano devoti”. Che tipo di persone sono i devoti?: “Sono persone che hanno tranquillamente una doppia vita, lavori normalissimi e poi…Bisogna comunque distinguere. Ci sono i devotee, i pretender ed i wannabe. I pretender sono coloro che fingono di essere disabili, quindi vanno in sedia a rotelle o si legano parti del loro corpo per fingere…Per quale motivo? Perché la loro immagine mentale e la loro immagine corporea corrisponde a quell’immagine E questo per fare sesso con i devotee. I wannabe sono quelli che si vogliono far mutilare. E ci riescono pure”.
PROFESSIONE "LOVE GIVER". Michela Poi per Leggo il 22 luglio 2019. Anna Pierobon, 34 anni, è una delle prime operatrici all’emotività, affettività e sessualità per disabili (O.E.A.S) in Italia. Una laurea in filosofia e un lavoro da fotografa, ha iniziato senza paura il suo percorso presso il comitato per l'assistenza sessuale alle persone con disabilità «Love Giver», andando dritta contro tabù e pregiudizi.
Come si è avvicinata al mondo dell’assistenza sessuale?
«Ho la fortuna di avere una formazione laica e un buon rapporto con la sessualità. E poi, tutto parte da un presupposto semplice: tutti dobbiamo impegnarci in qualcosa che vada oltre noi stessi. Ciascuno secondo le proprie inclinazioni e possibilità».
E lei ha scelto di diventare un’Oeas. Che cosa significa?
«Significa prendersi cura di persone con disabilità (fisica, psichica o cognitiva) e guidarle nella gestione della propria sessualità, con lo scopo di renderle indipendenti nell’ambito sessuale».
Nella pratica, come?
«Ogni percorso è diverso e personalizzato. In ogni caso si tratta di educazione alla masturbazione. Sempre allo scopo di rendere autonoma la persona. Ovviamente esistono dei limiti precisi: nessun tipo di rapporto fisico né orale, né baci, per intenderci».
Spesso si pensa che siano solo uomini ad aver bisogno di questo tipo di assistenza.
«È molto triste che ancora vengano fatte queste distinzioni. L’esigenza è assolutamente alla pari, tanto che negli anni le richieste da parte di donne sono cresciute».
E i pregiudizi verso la sua professione, ci sono?
«Tanti. Soprattutto da chi non vive e non conosce il problema. Spesso chi ha una disabilità viene percepito come asessuato, o si pensa che la sua salute sessuale non importi. E questo è un tema ancora poco conosciuto e quindi facilmente travisabile».
In che senso?
«Molti confondono l’assistenza sessuale con la prostituzione, ad esempio. Ma sono due cose ben diverse. Il mio intervento è educativo e di supporto, non una prestazione sessuale».
E le critiche?
«Non mi hanno mai spaventata, anzi. Le offese gratuite che piovono da chi non ha tempo per pensare prima di aprire bocca, non mi fanno effetto. Soprattutto se chi parla si nasconde dietro un computer. A fare i leoni da tastiera siamo buoni tutti. La verità è che se il problema non tocca direttamente te è facile parlare, le sofferenze altrui spesso ci colpiscono giusto i 60 secondi di uno spot pietistico che passa in televisione».
Carmela Cioffi per il “Fatto quotidiano” il 20 ottobre 2019. "In quale posizione posso mettermi per fare l'amore senza farmi male?", "come faccio a baciare un uomo e continuare a respirare?". Queste sono alcune delle domande di una donna con tetraparesi spastica a cui Marco Mariano ha dato risposta, in teoria e in pratica. Perché Marco, 54 anni, piemontese, è uno dei 16 "love giver" tirocinanti d' Italia o, più tecnicamente, è uno dei pochissimi operatori italiani all' emotività, all' affettività e alla sessualità per persone con disabilità (Oeas). "Da anni io faccio l' operatore socio-sanitario e nel 2017 ho deciso di intraprendere questo percorso di formazione a Bologna. Ogni giorno imbocco e pratico l' igiene alle anziane in casa di riposo, in sostanza il mio lavoro è aiutare le persone a soddisfare i bisogni della "piramide di Maslow", cioè quelli essenziali alla sopravvivenza. Ma perché dovrei escludere da questi bisogni il sesso per una donna disabile?". Ma attenzione. "Se state cercando un gigolò o una prostituta non siamo noi", sottolinea Marco. Che spiega: "Il nostro obiettivo è creare i presupposti affinché la persona con disabilità riesca a gestire in totale autonomia la sua sfera sessuale, emotiva e relazionale". Si fanno esercizi di respirazione, incontri di meditazione di coppia con il filtro dei vestiti, si prende in considerazione l' uso dei sex toys come strumenti per l' autoerotismo. E se occorre si usa anche una statuina del David di Michelangelo che può essere utile a far acquisire consapevolezza del piacere, che si può dare e ricevere, a una persona cieca e con una malattia neurologica. "Con questa donna che seguo da un po' di tempo - racconta Marco - abbiamo elencato le parti del corpo maschile toccando il David, ma lei, oltre a non nominare per pudore gli organi sessuali, non ha neanche preso in considerazione la schiena e i piedi. Semplicemente perché lei non li sente". In Italia le regole di ingaggio dell' Oeas prevedono che non si debba creare nessuna dipendenza emotiva, non sono ammessi rapporti sessuali completi e, allo scoccare del settimo e ultimo incontro, si deve cancellare il numero di cellulare dell' operatore dalla rubrica della persona disabile, mentre negli altri Paesi europei e non solo esiste il sex worker che pratica l' assistenza sessuale. Da noi l' obiettivo dell' operatore è diverso. "Il love giver è un concetto che racchiude rispetto e educazione, in un Paese civile rappresenta la massima espressione del diritto alla salute e al benessere psicofisico e sessuale", spiega Max Ulivieri, fondatore del comitato "Love Giver", che porta avanti da anni la battaglia per il diritto delle persone con disabilità a vivere la sessualità come tutti gli altri. Ma in Italia questo diritto è ancora un tabù e il disegno di legge sull' introduzione della professione di "assistente sessuale" è al palo dal 2014. I disabili continuano così a essere visti come adulti asessuati o eterni bambini. "Bisogna fare una battaglia culturale. Mi hanno anche accusato di fare un' operazione di ghettizzazione, ma - dice Ulivieri - il mio sogno è che non ci sia bisogno dell' assistente sessuale. Una volta era necessario che qualcuno mi spingesse in carrozzina, poi la mia carrozzina è diventata elettrica e sono diventato autonomo. Se ci fosse una rivoluzione in Italia in cui qualsiasi persona, a prescindere dalla sua diversità anche fisica, non vivesse l' allontanamento dalle relazioni e dalla sessualità, non servirebbe l' assistente sessuale". Alla sua associazione, che ha organizzato il primo corso per Oeas, sono arrivate oltre 4.600 richieste di assistenza, soprattutto da parte di genitori di figli affetti da autismo, a fronte però di appena 16 "diplomati" fino a oggi. Caterina Di Loreto, 32 anni, abruzzese, di professione educatrice, sta seguendo due uomini di 30 e 21 anni con disturbi dello spettro autistico. "Sono sempre stata interessata all' educazione all' affettività, un aspetto che viene trascurato anche negli studi universitari. Il mio obiettivo invece è capire le dinamiche della sessualità", commenta Caterina che non si definisce una "figure a chiamata" né ritiene l' Oeas l' unica soluzione per affrontare l' educazione all' affettività. Soprattutto con le persone con disabilità cognitive il nostro lavoro è ancora più delicato". "Con loro - spiega Caterina - creo storie con personaggi che hanno una specifica gestualità per far capire come evitare pratiche di autolesionismo nella masturbazione e casi di parafilia, cioè le perversioni sessuali". Spesso, poi, c' è da affrontare la situazione inversa. "Mi chiedono - prosegue Caterina - se lo fanno nella maniera giusta, senza procurarsi dolore, con il movimento adatto, ma magari si masturbano in luoghi pubblici non capendo che il gesto fa parte della sfera privata. E gli va spiegata la differenza". "Ricordo con ansia la sua prima erezione, era estremamente confuso, correva da una parte all' altra della casa con gli occhi spaventati senza capire cosa stesse succedendo e senza sapere cosa fare per affrontarlo. Il mio istinto è stato quello di spiegargli, fargli vedere come si fa. Ma poi cosa vuol dire, che molesto mio figlio? È compito mio spiegargli cosa fare?", racconta Marina Viola, la mamma di un ragazzo autistico di 23 anni. "Alcuni genitori - racconta - vorrebbero che i figli non scoprissero mai la sessualità. Ma, prima o poi, la botta arriva. E non sappiamo a chi rivolgerci. Gli stessi psicologi o terapisti non sono specializzati". "C' è grande ignoranza in materia. Fino a qualche anno fa era persino negata la sessualità negli autistici", riconosce Luigi Mazzone, neuropsichiatra infantile dell' Università di Tor Vergata. "Il problema poi non è sostenere o meno il sex worker o la figura dell' Oeas, ma se inserire il sesso nel piano di vita. Esistono persone diverse per bisogni diversi: in determinati soggetti con autismo la richiesta di sesso può diventare compulsiva o scompensarlo. È necessario quindi compiere un percorso emotivo-affettivo". Un limite varcabile anche per le donne autistiche. "In questo caso bisogna lavorare sulla "prevenzione dell' abuso. È fondamentale insegnare a distinguere un certo tipo di carezza o di abbraccio", denuncia. In base al report "Vera" della Fish, il 32% delle donne con disabilità interpellate ha infatti subito una forma di violenza.
· Basta Femmine urticanti. 3D fatto su misura.
Samantha Cole e Emanuel Maiberg per vice.com il 24 novembre 2019. Puoi comprare un ombelico online. Puoi sceglierlo incavato, sporgente, con il nodo attorcigliato a destra o a sinistra, poi lo piazzi su un corpo virtuale. Puoi anche comprare peni, peli pubici, seni e lingue, e ognuna di queste cose può essere modificata secondo i tuoi desideri. Metti tutto insieme, usa una foto per generare algoritmicamente un volto, e puoi ottenere l’avatar 3D di una certa persona. Importa tutto in un altro programma e puoi farci sesso nella realtà virtuale—senza che quella persona abbia mai dato il proprio consenso. Su forum come Reddit, mercati come Patreon e siti indipendenti, diverse community di utenti anonimi creano, vendono e usano per masturbarsi simulacri di celebrità e persone reali. I modelli 3D che emergono da questi gruppi possono essere messi in qualsiasi posizione, animati, modificati, puoi interagirci in tempo reale, e manipolarli in modi che sfidano le leggi della fisica. Ad oggi, i risultati sono per lo più grezzi. A differenza dei video in deepfake che girano online e che sono ben più sofisticati, nessuno potrebbe scambiare i modelli in 3D che Motherboard ha visto durante le ricerche per questo reportage per una persona reale. Ma la tecnologia per creare modelli 3D fotorealistici fa passi da gigante—ed è sempre più facile, per un utente medio, accedere a questi strumenti e programmi. Alcuni software già disponibili automatizzano il grosso del processo in questione. Fino a qualche tempo fa, creare un modello 3D di una persona richiedeva una certa conoscenza tecnica e un team di esperti di videogiochi o di effetti speciali. Quegli studi, tradizionalmente, prima di usare l’aspetto di qualcuno devono ottenerne i diritti, ma per molti amatori il consenso non è un passaggio obbligato. “Lo uso per soddisfare le mie fantasie sessuali o replicare incontri sessuali avuti con le mie ex,” ha commentato un utente su un subreddit dedicato a creare contenuti adulti in 3D con Virt-A-Mate (anche noto come VaM), un software per creare giochi VR per adulti e simulazioni. L’utente faceva riferimento specifico a Foto2Vam, un programma che usa la foto di una persona vera per generare un modello 3D uguale e pronto all’utilizzo. “Foto2Vam mi ha permesso di sentirmi ancora lì, tipo mentre la mia ex mi fa una sega con le mani o con i piedi e mi guarda sorridendo, o avere un’altra ex che mi cavalca sul pavimento dandomi la schiena ma con davanti uno specchio... le possibilità sono infinite,” ha detto l’utente. Un altro utente sullo stesso thread ha detto di usare Foto2Vam per creare modelli delle sue ex-ragazze che compiono atti sessuali. Ha scritto che alcuni modelli 3D vengono meglio di altri, dipende quante foto di buona qualità hai a disposizione. “Da ora in poi, dobbiamo assicurarci di chiedere alle ragazze di posare da più angoli con un’espressione neutra e una luce diffusa per un paio di foto e poi importarle su VaM,” ha scritto. “Oh, e trovo fantastico modificare la realtà e aggiungere protesi alle tette, etc. ;)” Un altro utente ha spiegato di aver creato contenuti per adulti usando Daz 3D—un software per realizzare modelli 3D di persone popolare tra gli amatori perché gratuito—ma che VaM ha realizzato il suo sogno di interagire con quei contenuti nella realtà virtuale. Ha spiegato che ricrea persone vere usando una combinazione di software ben noti o gratuiti come Photoshop, Daz 3D, ZBrush (che permette di scolpire digitalmente) e FaceGen, un software simile a Foto2Vam, che a sua volta genera volti in 3D partendo da fotografie. Questi strumenti non sono un segreto; sono usati ovunque per creare videogiochi, effetti speciali nel cinema e altri contenuti non-pornografici. “Il mio desiderio più grande per il futuro è ottenere ragazze ancora [più] fotorealistiche! Capelli fatti meglio, vestiti, ombre... ci sono ancora molte cose che migliorerebbero la resa finale!” ha detto quell’utente. “Voglio dire grazie a MeshedVR [creatore di VaM] per tutto questo!” Su un canale Discord dedicato a VaM, un utente ha spiegato che una persona non può fare niente per impedire agli amatori di VaM di realizzare contenuti per adulti con la sua faccia, specialmente se è un personaggio pubblico: “Tutti si fanno le seghe su tutti, è la natura umana, non puoi fermarla a meno che non resti lontano dalla rete, non vai da nessuna parte e nessuno sa che esisti... è il nostro mondo e la nostra libertà, non ci possono impedire di masturbarci, nessuno può, a mala pena possono scegliere di stare attenti alla propria privacy.” Nessuno degli utenti che hanno postato su pagine pubbliche ha risposto alla nostra richiesta di commento, ma alcuni hanno cancellato i propri post dopo che li abbiamo contattati.
Nel mondo del porno in 3D fatto su misura. Non c’è niente di intrinsecamente sbagliato nel porno in 3D. Le persone usano la computer grafica per creare contenuti per adulti da decenni. Second Life ha ancora una community consistente dedicata ai contenuti per adulti e gli asset dei videogiochi sono spesso modificati per creare porno, spesso con le sembianze di attori veri. Siti come Pornhub sono colmi di video porno in 3D. Ma VaM e la community che gli ruota attorno, compresi i 7.600 membri del subreddit dedicato, sono diversi perché rendono relativamente banale creare un modello 3D che somiglia a qualcuno che esiste nel mondo reale e condividerlo con altri. Gli utenti possono poi usare quei modelli 3D per immagini o video animati, o farci sesso usando un visore VR collegato a un sex toy tipo la Fleshlight Launch, che masturba una persona con movimenti sincronizzati all’azione sullo schermo. I gruppi che si scambiano questi modelli 3D sono la dimostrazione che esiste un pubblico per questi contenuti su misura, una classe di creatori disposta a metterci la mano d’opera, e un’infrastruttura online che li mette in contatto con le grosse corporazioni come Patreon, Reddit e Daz, che già ne traggono profitto. Ci sono molti modi per ottenere un porno in 3D fatto su misura. Stando a una pagina wiki della community, la versione gratuita di VaM permette all’utente di accedere a una singola “scena” e modello, il cui corpo può essere modificato con una serie di preferenze e posizioni, manipolando parti del corpo in tempo reale. Gli utenti che contribuiscono al Patreon di VaM hanno più funzionalità di interazione e personalizzazione nel programma, tipo la possibilità di scaricare le scene fatte da altri creatori, personalizzare capelli e vestiti e “spogliare i modelli togliendo loro i vestiti con delle mani virtuali.” La pagina wiki di VaM fornisce istruzioni anche su come realizzare un volto partendo da una foto, creare le proprie animazioni, e importare modelli interi o parti del corpo individuali create da altri. Per esempio, spiega come modellare una vagina 3D realistica su un modello scaricandone una da Renderotica, una community e marketplace per porno in 3D. Nel mondo della modellazione, un elemento che cambia in generale la forma di qualcosa è detto “morph.” Una lista di morph nella pagina wiki comprende “8 morph di espressioni da orgasmo,” “morph di palle enormi,” e “la ciliegina sulla torta della tua collezione di pompini, ecco un nuovo set di morph di labbra.” Gli utenti possono anche importare modelli 3D esistenti e compatibili, creati con Daz 3D, su VaM.
L’utilizzo non consensuale delle fattezze di una persona è un argomento controverso nelle community di porno in 3D.
“Arrivano richieste da gente nei forum tipo ‘Ehi, se vi do una foto di mia moglie o della mia ragazza, potete fare un modello che le somiglia?’” ha detto a Motherboard un creatore di nome Davos. Davos vende accessori e scene fetish estremi su Renderotica. È un sito dove i creatori come lui vendono fumetti per adulti realizzati con modelli 3D, o parti del corpo in 3D che possono essere aggiunte a modelli su Daz 3D. “Nessuno vuole sentirsi responsabile di azioni vendicative o crudeli nei confronti di una persona reale,” ha detto Davos. “La mia opinione personale è che va bene se cambi il nome e sei disposto a correre il rischio di ricevere una lettera minacciosa da un avvocato.” Un altro creatore di modelli umani in 3D usati in contenuti per adulti e il cui lavoro è sostenuto via Patreon si è detto fermamente convinto che la community di VaM non sia basata solo sul porno e che il punto non sarebbe affatto ricreare persone reali. “VaM non ha niente di diverso da qualsiasi gioco per adulti... ed è uno dei meno controversi, un sandbox che permette agli utenti di dare forma alle proprie fantasie,” ha detto. “Gli admin di VaM e lo sviluppatore sono tra i pochi che ho visto davvero preoccupati di tenere le cose sotto controllo e conservare una buona reputazione... non puoi aspettarti che non ci siano dei lati oscuri nelle community dedicate al porno, ma questi possono essere tenuti sotto controllo.”
Condividere celebrità fatte in 3D per porno interattivi. Le regole del subreddit della community di VaM avvisano i membri di non postare immagini, video o scene “che potrebbero essere considerate illegali, pesantemente offensive o immorali,” ma non ha regole esplicite sul postare modelli 3D o contenuti per adulti basati su persone reali. Anzi, le regole permettono esplicitamente agli utenti di pubblicare render 3D di celebrità, purché non siano incluse foto reali o siano usati i nomi veri: “Abbreviazioni, soprannomi e nomi diversi vanno benissimo,” si legge nelle regole. Non sorprende che, data la grande disponibilità di foto in alta definizione online, e semplicemente considerato che le persone amano fantasticare su personaggi pubblici irraggiungibili, condividere modelli 3D di gente famosa è una delle attività più comuni nella community. Motherboard ha trovato decine di modelli 3D di celebrità come Emilia Clarke, Natalie Portman, Emma Watson e Nicki Minaj—la maggior parte sotto altro nome. Le celebrità sono istantaneamente riconoscibili, e alle volte il nome falso allude a quello vero, o ci sono riferimenti alla loro identità nei commenti. Quasi tutti i modelli 3D che abbiamo visto erano di donne, ma ne abbiamo individuati un paio anche di uomini: Joaquin Phoenix e Chris Pratt. Questi post in genere includono un link a un sito di file sharing dove altri utenti possono scaricare le opere e usarle, e ogni tanto anche una pagina Patreon, che alcuni creatori usano per raccogliere denaro. Diversi studi dimostrano che le donne sono l’obiettivo più comune del porno non consensuale e delle immagini manipolate e abusive come i deepfake. Gli esperti e le vittime concordano nel dire che anche se non è “reale,” l’esperienza di vedere le proprie sembianze in un porno creato e distribuito su internet senza previo consenso è traumatica, simile all’aggressione sessuale, e non molto diversa dal revenge porn o dalla diffusione di sex tape e foto di nudo senza consenso. Un creatore che usa Twitter per condividere il proprio lavoro—compreso un modello 3D di una celebrità quasi nuda e legata, con il volto coperto di liquido vischioso—ha detto di realizzare modelli e personaggi 3D professionalmente per videogiochi, televisione, pubblicità e simulazioni da 30 anni. “Creo soprattutto look e scene su VaM per me stesso, anche se ho condiviso screenshot delle mie creazioni, talvolta il file intero e gratuito, con la community di VaM,” ha detto. “Il motivo principale per cui li condivido è creare interesse nel software [e] coinvolgere più sviluppatori esperti per far diventare VaM un sandbox VR robusto.” Ha aggiunto di aver creato modelli 3D di persone reali che conosceva, alle volte senza il loro permesso. Ha anche creato contenuti non sessuali, tipo per vedere come sarebbero stati lui e sua moglie in una cucina rinnovata in un certo modo. “Ho anche creato una mia ex, solo per potermi sedere al tavolo di fronte a lei un’ultima volta. Personalmente, non mi sembra niente di diverso dal modellare un busto con l’argilla o fare uno schizzo su un foglio di ricordi e volti,” ha detto. “Non distribuisco nessun contenuto della mia vita reale che ho creato, con o senza permesso, perché preferisco restare anonimo.” Ma non aveva le stesse regole per le celebrità. “Mi piace creare simulacri di celebrità per omaggiarle, e, in certi casi, in situazioni sessuali,” ha detto. “Poiché la sessualità è un’esperienza umana universale, non mi sembra un problema.” Mesh VR, l’azienda proprietaria di VaM, raccoglie a sua volta soldi via Patreon. Il fondatore di Mesh VR, che si fa chiamare MeshedVR online, ci ha raccontato di non sapere per certo quante persone usino VaM, ma i sostenitori su Patreon sono circa 8.000. Dice che sa che le persone usano il software per riprodurre personaggi dei film e delle serie per interagirci in VR, e a suo avviso è “OK”, fintanto che il modello imita un personaggio immaginario popolare come Batgirl, per esempio. Ma non condona la creazione di persone reali senza permesso. “So che cercano di ricreare gente vera, senza consenso,” ha detto MeshedVR. “Per me è una zona molto grigia, zeppa di problemi legali ed etici. Non includo mai sosia reali in VaM proprio per questo, e ho lavorato con moderatori di molti siti per stabilire regole contro la creazione di sosia reali. Se qualcuno postasse la riproduzione di un’ex, chiederei che fosse rimossa. Sul mio server di Discord la toglierei io stesso, dato che lo considero il server ufficiale di VaM.” MeshedVR ci ha raccontato che nonostante sia elencato tra i moderatori del subreddit, abbia partecipato alla stesura delle regole (che permettono di condividere celebrità), e lo controlli spesso per vedere cosa crea la community, non è un moderatore attivo. “Se vedo qualcosa di discutibile (modelli dall’aspetto troppo giovane, sosia di celebrità, riproduzioni di atti violenti, etc.) avviso i moderatori, ma il più delle volte sono già in azione se c’è un problema,” ha detto. “Per me VaM è uno strumento creativo, come Blender o Photoshop. Lo scopo per cui viene usato dalla gente è parecchio al di là del mio controllo.” Duncan Crabtree-Ireland, il direttore operativo e consigliere generale del sindacato degli attori SAG-AFTRA, ha detto a Motherboard che gli attori possono intraprendere azioni legali contro chi vende modelli 3D con le loro sembianze, invocando i diritti di pubblicità. Ma quelle leggi variano di stato in stato e per le persone normali che non hanno una faccia famosa, il rischio è che non ci sia molto da fare, legalmente. “Hanno la possibilità legale di contestarlo, ma va detto che è piuttosto oneroso,” ha detto Crabtree-Ireland. “Devono assumere un avvocato, presentare un esposto e se anche hanno 10.000 dollari per fare causa a ogni persona che ha usato le loro fattezze, non è il modo più efficace per affrontare la situazione.” SAG-AFTRA ha appoggiato una legge contro i video di deepfake che è passata recentemente in California e spera di far passare leggi simili a New York, ma Crabtree-Ireland dice che anche le nuove leggi non fermeranno del tutto l’uso non consensuale delle sembianze di qualcuno. “Ci saranno sempre casi limite e zone grigie più difficili da gestire, ma se potessimo anche solo scheggiare il volume massiccio di quello che sta succedendo, sarebbe d’aiuto per le persone che sono più colpite,” ha detto. “Non sarà assoluto o perfetto, ma è meglio del far west in cui ci troviamo al momento.”
“Certo che le persone lo fanno.” John Danaher, docente di giurisprudenza alla National University of Ireland di Galway e coeditore del libro Robot Sex: Social and Ethical Implications, ha detto a Motherboard che immagini e rappresentazioni come queste potrebbero essere viste come un tipo di revenge porn, se create o condivise senza consenso. “È desiderabile/piacevole per ambo le parti? Non credo che rappresentazioni del genere vadano creare senza il consenso della persona reale,” ha detto Danaher. “Penso anche che chiunque voglia realizzare un modello di se stesso, debba mettere in conto la possibilità che venga rubato, condiviso e utilizzato per scopi dannosi a un certo punto.” In definitiva, un’immagine pornografica creata con VaM non è particolarmente diversa da un disegno o da un’immagine pornografica fatta con Photoshop, o da altri porno in 3D, tutte cose che sono usate da decenni per creare porno non consensuale. La differenza effettiva qui, come nel caso dei deepfake, sta in come le nuove tecnologie abbiano reso molto più democratico l’accesso agli strumenti necessari per creare questi contenuti, rendendoli più economici e facili da usare. La natura plug-and-play di VaM fa sì che un utente non debba creare un proprio modello 3D di una celebrità per poterci fare sesso nella realtà virtuale; basta che scarichi quello fatto da qualcun altro. Persino i tool e le piattaforme che non sono dedicate ai contenuti per adulti lo permettono—Daz 3D, il popolare software di modellazione 3D gratuito, ha un negozio dove gli utenti possono caricare e vendere le proprie opere. Non c’è voluto molto per trovare modelli 3D di Natalie Portman o Lupita Nyong’o (lì in vendita per 19,95 dollari e 18,95 dollari rispettivamente). Questi modelli possono essere comprati, scaricati e combinati con altri tool come VaM per creare porno non consensuali. Dopo aver scorso Daz 3D, siamo stati anche presi di mira da inserzioni di modelli 3D generici di donne poco vestite, con inviti come “falla tua ora.” Daz 3D non ha risposto alla nostra richiesta di commento. Kyle Machulis, che crea software open source con cui controllare i sex toy, ha scoperto la community di VaM perché stava usando i suoi tool per connettere VaM a una Fleshlight Launch, un dispositivo di masturbazione automatizzato. Funziona così: quando un personaggio dentro VaM muove la sua mano su e giù su un pene virtuale, il moto della Launch sul pene vero dell’utente va in sincrono, creando un’esperienza più coinvolgente. Machulis ha chiesto agli utenti del subreddit VaM come, esattamente, usassero il simulatore sessuale. Ha detto a Motherboard di essere rimasto sorpreso dalle risposte. “Il fatto che fossi sorpreso che le persone producano delle copie delle ex la dice più lunga sulla mia ingenuità che sulla community,” ha detto. “Certo che lo fanno. Ripercorrono ricordi impressi a fuoco nei loro neuroni, aggiungendo uno strato di realtà audovisiva (e ora possibilmente tattile) a qualsiasi frammento di tempo sia rimasto nel loro cervello.” Alcune persone in queste community ci hanno detto di realizzare avatar 3D di persone vere perché è catartico, o solo perché ne apprezzano l’estetica, ma quasi sempre lo fanno con corpi di donne. Danaher ha detto che è potenzialmente malsano aggrapparsi così al passato, ma secondo le persone con cui Motherboard ha parlato, programmi come VaM rappresentano un modo per tornare indietro nel tempo o a una sensazione che altrimenti resterebbe fuori dalla loro portata. “I ricordi esistono nella nostra testa, i cimeli esistono in un luogo fisico,” ha detto Machulis. “Quando i ricordi sono trasportati in un ambiente digitale come VaM, Second Life, etc, le cose si fanno molto complicate.”
· Ode alla menopausa.
Kristin Scott Thomas: «Chi ha paura della menopausa? Non io». Pubblicato giovedì, 28 novembre 2019 su Corriere.it da Stefano Montefiori. Alla soglia dei 60 anni l’attrice diventa militante per la parità fra i sessi: «Prima non me ne interessavo, pensavo non fosse necessario.». Ode alla menopausa: «Lascia tempo per pensare». Non è mai troppo tardi per essere femministe. E per vivere al meglio la propria età, qualunque essa sia. Lo sa bene Kristin Scott Thomas che nel numero di 7 in edicola venerdì 29 novembre (lo trovate anche in Pdf sulla Digital edition del Corriere, fino al 5 dicembre) si racconta a Stefano Montefiori. L’attrice cinquantanovenne, capace di spaziare da commedie brillanti come Quattro matrimoni e un funerale al drammatico Il paziente inglese, oggi è presidente del Women’s Forum. «È una grande occasione per usare al meglio la mia indignazione — spiega —. Sono l’esempio di una persona che può cambiare, interessarsi a temi che prima non la appassionavano. Spero così di ispirare altre donne a reagire alle disuguaglianze». Scott Thomas riflette sulla menopausa, un passaggio dell’esistenza spesso vissuto con paura o percepito come stigma. Per lei è una cosa meravigliosa: «Sei libera. Non sei più schiava, non sei più una macchina. Sei solo una persona. E in affari. L’Ode alla menopausa è una specie di celebrazione della capacità della donna di cambiare, di attraversare fasi diverse della vita». Per l’intervista politica, Monica Guerzoni incontra Rocco Casalino. Il portavoce del presidente del Consiglio Giuseppe Conte confessa di volere una bacchetta magica per far sparire la sua biografia da Wikipedia: «È piena di stupidaggini su di me», e allontanare l’epiteto «quello del Grande Fratello». «Non rinnego nulla — chiarisce — però mi è rimasta addosso come una macchia. Quando mi si vuole danneggiare, torna fuori in maniera spregiativa. Mi pesa ancora, mi ha impedito di fare il percorso da parlamentare». Ricorda gli anni in Germania, quelli alla Facoltà di Ingegneria, quando leggeva Marx e Gramsci e votava Bertinotti e quelli recenti, durante i quali si è seduto al tavolo dei Grandi della Terra, da Merkel a Trump. Eppure si sente ancora addosso «quello sguardo strano: mi si vuole attribuire una certa leggerezza. Per questo sono in perenne lotta, ho sempre voglia di dare schiaffi morali a tutti».
Nelle pagine di Esteri, Lionel Barber, direttore uscente del Financial Times, spiega tutti i passaggi del rebus Brexit. Il 18 dicembre esce al cinema il terzo capitolo dell’ultima trilogia di Guerre Stellari, L’ascesa di Skywalker. Nella parte blu, dedicata alle vite private, Cass R. Sunstein, importante costituzionalista americano, autore di un saggio sulla saga fantascientifica più famosa di sempre, fa qualche previsione sulla trama:«Parlerà del lato oscuro in ognuno di noi». La sezione senape, infine. Con tanti spunti per il tempo libero e consigli culturali per il weekend. I migliori libri, in uscita, segnalati da Antonio D’Orrico, le mostre, i film, gli spettacoli teatrali, i programmi e le serie tv.
· Il rapporto sessuale è femmina.
Emilia Urso Anfuso per “Libero quotidiano” il 16 dicembre 2019. Almeno una volta nella vita l'ansia aggredisce tutti. Periodi di stress, lunghe attese per conoscere l' esito di un esame scolastico o diagnostico, quella telefonata che potrebbe cambiare la vita Sono molte le situazioni in cui, pur essendo forniti di un carattere fermo, quest' emozione può farci visita e disordinare non poco la nostra esistenza. Come quando s' intrufola nella sfera dell' intimità. A soffrirne non sono solo gli uomini, con la tradizionale ansia da prestazione, ma anche il genere femminile. Nel secondo caso si parla però di paura di non raggiungere l'orgasmo, non dovendo noi femmine occuparci anche dei problemi legati all' erezione, ed è un fenomeno conosciuto dal 40% delle donne. I maschi non sono però esenti da questo tipo di angoscia: il 38% ne ha sofferto almeno una volta. Questi dati sono noti grazie a un recente sondaggio cui hanno partecipato oltre 5.000 persone, realizzato da JOYclub, una comunità all' interno della quale si parla di libertà sessuale. È interessante scoprire quali siano le motivazioni che portano al blocco orgasmico in ambo i sessi. Il 69% delle intervistate ha confessato che lo stress deriva dal pensiero di dover raggiungere l' apice del piacere. Come se, in mancanza di esso, la prestazione maschile non fosse stata "fornita" al meglio e non possa essere sancita da una sorta di diploma al merito visto così sembra più un match sportivo piuttosto che un incontro amoroso! Di contro, il sesso forte teme di non meritare questa certificazione: l' 89% ha risposto di essere meno soddisfatto se la compagna non raggiunge l' acme, e il 19% ha paura di non essere in grado di riuscire in quest' impresa, tanto da ottenere - come reazione avversa - un grattacapo doppio, sia nei confronti delle partner sia verso se stessi. Un bel problema, perché se l' ansia invade la sfera intima ecco che può accadere proprio ciò che nessuno desidera: un bel nulla di fatto o un finto orgasmo, recitato di frequente frequentemente dal 10% del gentil sesso, mentre 7 su 10 hanno dichiarato di essere ricorse a questo stratagemma almeno una volta. Nel 50% dei casi, comunque, il compagno non è in grado di rendersi conto se è stato capace di portare a compimento la missione, eppure certi segnali interni sono inequivocabili. Un capitolo a parte è da dedicare ai modi attraverso i quali si raggiunge lo stato di grazia che, ricordiamolo tutti, è un lampo che si consuma in una manciata di secondi, e per arrivare al quale si fatica alquanto. Agli uomini interessa maggiormente la penetrazione e il 78% giunge alla soddisfazione fisica unicamente attraverso questo tipo di rapporto. Il sesso orale come unica soluzione d' intimità attrae solo il 55% dei maschi, e per ciò che concerne il mondo femminile? La maggioranza preferisce una doppia sollecitazione, che non si limiti al coito ma che presupponga una contemporanea stimolazione clitoridea. Da tenere a mente per chi vuole procurare i massimi livelli di goduria. A ben guardare, i rapporti di coppia possono creare nervosismo e generare flop spesso a causati dal timore di non essere all' altezza, ma in quest' ottica si dimentica il durante, che provoca sensazioni piacevoli prolungate. Non è un caso se la masturbazione predomina nella vita di entrambi i sessi. L'autoerotismo è una pratica che si concede, almeno una volta a settimana, il 76% delle signore, superate di gran lunga dall' 88% dei signori che sanno bene quanto possa essere piacevole e liberatorio godere in solitudine, vista la faticaccia che li attende nell' alcova. In conclusione, ridursi ad andare in tilt nei momenti dell' intimità è da scemi, ammettiamolo suvvia, e godiamocela.
Emanuela Griglié per “la Stampa” il 12 dicembre 2019. A letto con il robot. Con la prescrizione del medico e, chissà, rimborsati dall' assicurazione sanitaria. Uno scenario possibilissimo e soprattutto dietro l' angolo, secondo la terapista americana Marianne Brandon, famosa per i suoi best-sellers di sessuologia. Una chance per aiutare le tante persone che soffrono di qualche forma di disfunzione sessuale o affettiva. Ma attenzione, perché l' impatto sociale del diffondersi dei sexbot - avverte la studiosa - potrebbe aiutare, sì, più d' uno, ma essere allo stesso tempo devastante. Con il crollo - tanto per cominciare - delle tradizionali unioni tra umani e di conseguenza delle nascite. Intanto va precisato che quello dei sex robot è un mondo vero e proprio (per saperne di più leggere «Sex Robot. L' amore al tempo delle macchine» di Maurizio Balistreri, Fandango libri) e che tra un decennio le macchine dall' aspetto e dalle reazioni umanissime saranno un' alternativa alla portata di (quasi) tutti. Un single su quattro già oggi dichiara che farebbe tranquillamente sesso con un androide. Lo dice - tra le altre cose - lo studio «Singles in America», coordinato dagli antropologi Helen Fischer e Justin Garcia del Kinsey Institute con lo scopo di fotografare com' è cambiata la vita sentimentale e la ricerca del partner ideale nel 2018. «Il futuro è oggi, se non ieri», ci spiega la psicologa e criminologa Georgia Zara, docente alle Università di Torino e Cambridge. «Ma intanto vorrei dare una definizione precisa di che cosa è un sexbot. Deve avere una forma umana, capacità di movimento ed essere artificialmente intelligente, cioè in grado di interpretare e rispondere alle informazioni dell' ambiente circostante. Ne esistono programmati per recitare Shakespeare e altri per interagire in modo affettivo con un essere umano. Addirittura possono avere caratteristiche personologiche su misura, proprio quelle del partner ideale». I sexbot - aggiunge - sono qualcosa di più di un «sex toy» a grandezza umana. «Gli esperti di Intelligenza Artificiale, infatti, stanno investendo su quello che si definisce "emotional computing", perché riconoscono che le relazioni interpersonali non si limitano al completamento di compiti. Un sexbot deve avere una memoria delle precedenti interazioni ed essere capace di imparare dall' esperienza». Se la questione fosse di natura solo fisiologica, probabilmente il dibattito non sarebbe così controverso. «Quello che, invece, è particolarmente interessante, proprio a livello psicologico, è il legame che sembra potersi stabilire con un sexbot», aggiunge Zara, che è convinta che si possa arrivare ad amare un robot (del resto ci sono già stati i primi matrimoni misti. Addirittura sono centinaia di migliaia le persone nel mondo che hanno fatto più o meno per scherzo una proposta di nozze ad Alexa, l' assistente digitale di Amazon). «Sherry Turkle del Mit di Boston e alcuni suoi colleghi hanno esaminato il fenomeno del "cybercompanionship", nel quale si osservavano le persone nell' interazione con sexbot in diversi contesti. Quello che è emerso è l' irresistibile tendenza a proiettare intenzioni ed emozioni umane su questi oggetti. Il 75%, infatti, attribuiva alle macchine una sorta di anima e un' essenza di vita (48%), stati mentali (60%) e anche capacità di rapporti sociali (59%)». Così reali e contemporaneamente così perfetti in confronto agli incostanti amanti in carne e ossa, i robot, in questo modo, rischierebbero di acutizzare forme di isolamento sociale, inadeguatezza relazionale, deficit nell' intimità e problematiche emozionali e psicologiche. Ma anche di rendere ogni genere di fantasia e perversione così alla portata di tutti da suscitare apatia e noia, alzando l' asticella della trasgressione. «La disponibilità sul mercato di sexbot come Frigid Farrah (si compra su truecompanion.com, ndr), programmati per dire no, resistere alle avances del partner e consentire di realizzare fantasie, è già realtà. L'aspetto più sorprendente non è che la tecnologia abbia lavorato per crearli, ma che ci sia richiesta di prodotti del genere. Aprendo così il dibattito sul rischio della normalizzazione di comportamenti devianti». Insomma, si tratta di affrontare le questioni etiche che ogni applicazione di Intelligenza Artificiale evoluta porta con sé e moltiplicarle al cubo: solo così si comincia ad avere un' idea della complessità del problema. Senza dimenticare che i sex robot sono anche sessisti: come la pornografia rappresentano un «bene di consumo» soprattutto maschile, creati da maschi per altri maschi. Anche l' ipotesi di utilizzare queste creature per trattare i criminali sessuali non è poi così ben definita. «Non abbiamo a disposizione evidenze scientifiche per sostenere che i sexbot fungerebbero da freno per alcune tipologie di violenza sessuale. Per alcuni "sex offenders" l' accesso a questi surrogati erotici potrebbe essere un congegno gratificante e, allo stesso tempo, contenitivo degli impulsi sessuali. Per altri, invece, potrebbe aumentare il senso di frustrazione. Con il progetto "Sorat-1", "Sex offenders risk assessment and treatment", finanziato dalla Compagnia di San Paolo, abbiamo esplorato la percezione che questi individui, 71 maschi, condannati per violenza sia su minori sia su vittime adulte, avevano dei sexbot. Si tratta del primo progetto nazionale rivolto alla valutazione del rischio di violenza sessuale - sottolinea Zara, coordinatrice di "Sorat" -. Ma, contrariamente a quanto era stato ipotizzato, i "sex offenders" non erano interessati ad avere un sexbot e manifestavano un livello di interesse molto inferiore rispetto al gruppo di controllo, vale a dire persone normali senza precedenti di molestie». Insomma, gli amanti sintetici potranno diventare una medicina, ma con un bugiardino lunghissimo di controindicazioni e di effetti collaterali.
Da "ea-insights.com" il 19 novembre 2019. La nostra società cambia e vede la figura della donna sempre più emancipata e indipendente. Un nuovo segnale di questo fenomeno viene dall’approccio delle donne alla trasgressione ed alla sessualità, in particolare dalla crescita di donne che cercano il sesso a pagamento. Lo evidenzia l’ultima ricerca di Escort Advisor, il primo sito di recensioni di escort in Europa: non solo uomini navigano sul sito (il 53° più visitato in Italia), ma anche una percentuale in crescita di donne, nel 2019 pari all’11% del totale. Se da inizio anno sono stati 16.246.423 gli utenti unici del sito, ben 1.787.106 di questi sono donne. Ancora più evidente il dato se paragonato al 2018, quando la percentuale di utenti donne era stata solo del 6%, una crescita quindi dell’83% in pochi mesi. Le donne inoltre passano anche più tempo sul sito rispetto agli uomini: impiegano circa un minuto e mezzo in più nella consultazione dei profili. Ma questa crescita si riscontra anche dal lato delle sex workers: circa il 2,6% delle presentazioni di escort e degli annunci indicizzati dal 2014 ad oggi cita esplicitamente “disponibile per incontri con donne”. I motivi di un tale interesse da parte del mondo femminile? Di certo la curiosità, anche dettata dalla popolarità del sito negli ultimi mesi provocata dai media, che hanno catapultato il sito tra i 60 siti più visitati in Italia in assoluto ed al primo posto del settore con una crescita dal 2018 del 44% di utenti e accessi da tutta Italia. Sempre più spesso le donne frequentano infatti il sito alla ricerca di esperienze con escort donne. Non solo gigolò, ora anche le escort sono richieste dall’universo femminile. Particolare anche che chi contatta le escort siano spesso donne sposate, etero e in carriera. In crescita, dunque, il numero di donne disposte a pagare per il sesso. Lo raccontano le recensioni, ma soprattutto le sex workers. Come ad esempio Pamela, escort di Lucca, che pratica la professione a tempo pieno da circa 3 anni: Nella maggior parte dei casi ricevo coppie e spesso è la donna che mi contatta per prendere appuntamento, ma vengono da me anche le donne singole. Nel caso delle coppie, soprattutto le prime volte, la componente femminile cerca il piacere del compagno, mentre quando tornano, le fantasie spaziano, perchè si instaura un’affinità. Le donne singole che ricevo sicuramente sono alla ricerca del piacere, ma non solo. Si potrebbe pensare che siano lesbiche, ma non è così. Nella maggior parte dei casi sono donne che hanno un compagno o un marito, una vita “normale”. Si ritrovano però ad avere certe esigenze che non riescono ad esternare ai loro uomini. Molte sono inquadrate dalla società e si sentono a disagio avendo un determinato tipo di voglie. La donna richiede un atto fisico fatto con le attrezzature giuste, ma in molti casi vogliono proprio esternazioni di affetto, attenzioni particolari. Ad esempio, hanno molto piacere dopo il servizio di essere cercate al telefono magari con un messaggino. Molte lamentano di avere dalla parte maschile freddezza e le attenzioni che ricevono, alla fine sono tutte rivolto all’atto sessuale. Non possono chiedere solo le coccole perchè al marito scatta subito l’ormone. La donna non ha bisogno solo di questo, ma di tante altre cose. L’uomo è molto più fisico, mentre la donna per arrivare al piacere ha bisogno del contorno. La donna può diventare l’amante perfetta se stimolata in maniera corretta. Fino a 10 anni fa non avrei mai pensato di andare con una donna, poi mi sono dovuta ricredere. In Italia viviamo in una società in cui si è molto limitati, se si va all’estero già cambia. Le donne delle coppie vanno dai 25 ai 45 anni, le singole invece vanno tutte sopra ai 40 fino ai 50 anni. Sono tutte etero con famiglia o comunque un compagno, ma che si concedono un momento di relax solo per loro. Una collega mi ha raccontato che dove lavora lei, in una grande città, riceve donne dello spettacolo o di rilievo che si concedono una parentesi del genere. Giulia escort di Bologna, che da 5 anni esercita la professione, da circa un anno e mezzo, si propone principalmente alle coppie, anche se non le dispiacerebbe ricevere solo il gentil sesso: Sessualmente le donne sono sorprendenti. Sono predisposte a “fare da uomo”, oppure vengono con il marito per provare situazioni a tre. Alcune sono aperte, come se ci si conoscesse già, altre invece sono più timide e bisogna quindi scioglierle. Hanno veramente diversi comportamenti. Si va dalla donna disinibita che ti bacia alla francese appena ti vede, a quella più “casta”. Nelle coppie, spesso l’uomo si esclude subito, sta a guardare e la donna si fa coinvolgere interamente. Capita che le mogli, le amanti o le fidanzate mi chiamino per prendere appuntamento e proporre un gioco, come ad esempio vedere il proprio uomo con un’altra donna. La cosa curiosa è che quando è la donna a chiamare, lei vuole stare a guardare come l’uomo si rapporta con la escort. Quando invece è l’uomo a prendere appuntamento, i ruoli si invertono. Non nasco come bisessuale, ma mi intriga e diverte il gioco a tre che coinvolge anche altre donne, anche se ho i miei gusti: se il tipo di “femmina” che ho davanti non mi piace, non c’è verso. E’ successo nei miei anni di esperienza che ragazze molto giovani, anche di 20, 25 anni, mi chiamassero. L’incontro con una donna non può durare solo 5 o 20 minuti, ma ci vuole un lasso di tempo molto più lungo. La cosa che le donne richiedono di più è il bacio saffico, già solo quello ti prende e ti appassiona quando trovi quella che sa baciare: con il singolo bacio alla francese si può creare un trasporto sensuale molto intenso. Elena escort di Agrigento, esercita la professione da 7 anni e spiega che di solito vengono da lei più le coppie, ma si diverte più la donna che l’uomo: Molto spesso è la donna che chiama per la coppia, sono mogli che vogliono fare un regalo al marito, uomini e donne amici oppure anche amanti. Le donne sono animate dalla passione, vogliono essere comandate da un’altra donna utilizzando anche i sex toys. Propendono per un gioco erotico diverso rispetto a quello tra moglie e marito che fanno a casa. Le donne che vengono da me sono etero che vogliono provare un gioco sessuale differente. Ho deciso di ricevere anche le donne perchè trovo un’ipocrisia che si divertano solo gli uomini. In questi anni di attività ho notato che sono le donne a prendere l’iniziativa sempre di più. Escort Advisor raccoglie dal 2014 recensioni su qualsiasi tipologia di sex worker, inclusi i gigolò; quelli recensiti su Escort Advisor rappresentano solo l’1% totale delle recensioni ricevute. Considerata una stima di sex workers attivi annualmente in circa 100.000, questo significa che i gigolò professionisti in Italia sono probabilmente intorno ai 1.000. Una delle istituzioni del settore in Italia è Roy Gigolò, che ha iniziato 20 anni fa questa carriera per gioco, ma ha poi rivoluzionato il modo di concepire questa professione puntando sull’eleganza e lo stile: I gigolò sono variegati, le donne hanno molte fantasie e ti chiamano per qualsiasi motivazione: dal semplice accompagnamento, al divorzio, al funerale, al matrimonio, al fare sesso, a fare ingelosire qualcuno. In linea di massima l’incontro classico è quello con cena e dopo cena, che potrebbe essere finalizzato al sesso. Ci sono però i servizi anche per le coppie, per la verginità, per la disabilità. Molto probabilmente per un gigolò il settore è molto più variegato come lavoro rispetto ad una escort; non è chiamato solo per il sesso, che è circa il 60% del servizio. La donna è molto cerebrale, quindi il cervello per lei è importantissimo e ogni rapporto che costruisci con una cliente è sempre molto relazionale, mai fine a se stesso o semplicemente sessuale. Poi l’essere umano crede nel suo profondo nell’amore, quindi ci deve essere un minimo di trasporto che fa sì che la donna si possa lasciare andare completamente. Però, l’universo femminile è cambiato molto, soprattutto anche grazie ai media, alla pubblicità e all’esposizione di questo mestiere. E’ aumentata la richiesta e di conseguenza anche l’offerta, che è quasi triplicata. Le donne fanno sempre più riferimento a questo tipo di servizio perchè stanno iniziando a diventare sempre più simili agli uomini. L’acquisizione di ruoli, di potere, il fatto di lavorare e di avere più soldi a disposizione, libertà, le porta anche a consumare un sesso più veloce, senza controindicazioni. Ad esempio, oggi farsi un amante è pericoloso per molte donne, soprattutto se sono influenti, famose o sposate con uomini importanti, quindi per una donna così è più conveniente chiamare un gigolò, che poi pagherà e andrà via. Questo ha fatto sviluppare la figura del gigolò, che è un uomo a servizio della donna a 360°. Le donne si collegano a Escort Advisor da tutta Italia, anche se la maggioranza lo fa dalle principali città. Nel 2019 questa la classifica: Milano 22%, Roma 18%, Torino 5%, Bologna 4%, Catania 3%, Palermo 3%, Parma 2%, Firenze 2%, Napoli 2%, Modena 2%, Treviso 3%, Verona 2%, Udine 2%, Lecce 2%, Vicenza 2%, Bari 1%, Brescia 1%, Venezia 1%, Genova 1% , Bergamo 1%, Rimini 0,76%, Padova 0,71%, Como 0,63%, Salerno 0,59%, Perugia 0,53%, Bolzano 0,49%, Sassari 0,40%, Cagliari 0,36%, Ancona 0,24%, Pescara 0,15%. Le utenti donne che hanno un’età compresa tra i 18-24 sono il 19%, tra i 25-34 il 40%, tra i 35-44 il 21%, tra i 45-54 il 18%, tra i 55-64 il 7%, oltre i 65 anni il 5%. Donne che partecipano anche sempre più volentieri alla community, in cui Escort Advisor conta in Italia 172.672 utenti registrati. Circa 2.100 sono le donne che hanno scritto circa 2.480 recensioni, un fenomeno esploso di recente (il 77% è arrivato nell’ultimo anno). Numeri parziali, perchè alla registrazione, il sito permette di dichiarare il sesso, ma non in modo obbligatorio, per ricevere delle informazioni personalizzate tramite email e sul sito, ma gran parte degli utenti non lo fa, per motivi di privacy.
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 19 novembre 2019. Impariamo a riconoscerlo fin da bambini, ma in realtà solo da adulti scopriamo realmente cosa significhi davvero in tutta la sua essenza e concretezza. Spesso è relegato a un semplice impulso istintivo, o un gesto simbolico dietro al quale non devono celarsi necessariamente sentimenti di affetto, mentre per la scienza, nell' uomo, è considerato un atto inconscio per testare la "chimica" tra due persone. In effetti il bacio può avere mille significati e altrettante sfumature differenti, tutte comunque riconducibili ad un unico concetto, ovvero lo scambio di reciproche 'informazioni', di dati fisici e personali, dal momento che rievoca gratificazione e fiducia, piacere o repulsione, attrazione o rifiuto, rafforzando comunque il legame di intimità e confidente con la persona che si bacia. L' origine del bacio risale addirittura alla preistoria, quando le donne per nutrire i loro bambini sminuzzavano nella bocca il cibo, per poi passarlo ai figli con una sorta di bacio, proprio come fanno tuttora i volatili con i loro piccoli, una teoria contestata però dagli antropologi, secondo i quali l' alimentazione non avrebbe nulla a che fare con la vera origine del bacio, che sarebbe solo ed esclusivamente un impulso istintivo e intuitivo, intrinseco da sempre nella natura e nell'animo dell' uomo. La scienza del bacio si chiama "filematologia", una dottrina che lo studia e lo esamina a fondo nei suoi vari aspetti, istruendoci su questa importante fonte di contatto labiale tra due persone, la quale assume diverse caratteristiche e significati, coinvolgendo la sfera emotiva, psicologica, cerebrale, fisica e sociale, e che, a seconda del contesto in cui si esprime, può rappresentare una forma di espressione di affetto, di amore, di passione, di erotismo, di amicizia, di rispetto o di saluto comune in tutto il mondo.
RILASCIO DI ORMONI. Secondo gli psichiatri il bacio istintivo e profondo, quello erotico al quale difficilmente si resiste, è l' espressione dell' amore più puro e della condivisione più intima che va ben al di là del sesso, anzi spesso è più intimo del sesso stesso, poiché nell' uomo provoca il rilascio di testosterone, l' ormone maschile del desiderio, in grado di aumentare il suo appetito sessuale, mentre nella donna le cose sono molto diverse, perché l' atto di baciarsi induce il rilascio di endorfine, le sostanze ansiolitiche che sedano l' ansia, quella stessa ansia provata dall' uomo al termine di un rapporto e che lo spingono, in modo apparentemente del tutto inspiegabile, a fuggire appena terminato l' atto sessuale. Naturalmente i tipi di baci sono infiniti, e i suoi legami con la sfera emotiva e sociale umana ha avuto nei secoli la funzione evoluzionistica, ovvero quella di favorire la procreazione e il riassortimento genetico, cioè lo scambio dei geni della nostra specie per creare individui unici e sempre diversi uno dall' altro. Gli esseri umani sono gli unici animali a baciarsi, e durante il bacio avviene lo scambio di ferormoni, sostanze che attivano il meccanismo di attrazione sessuale, e questi ormoni rilasciati nella saliva stimolano il rinencefalo, parte della corteccia cerebrale comprendente le strutture nervose dell' olfatto e l' ippocampo, inducendo l' erezione nell' uomo e l' eccitazione nella donna. Il bacio inoltre, induce la produzione di ossitocina, l' ormone che porta al rilassamento, regola la temperatura corporea e favorisce l' emozionalità regalando benessere e senso di appagata soddisfazione. Una delle ipotesi scientifiche più accreditate è che questo contatto labiale sia emerso come un meccanismo per la raccolta di un "campione" biologico sul potenziale partner sessuale, per assaporare i sapori della sua bocca e annusare l' odore all' interno del suo corpo e della sua pelle. La bocca infatti, e la sua cute circostante, è ricca di ghiandole che secernono sostanze chimiche e che trasportano informazioni genetiche e immunitarie sul "donatore", e mentre la saliva è satura di messaggi ormonali, l' alito e il gusto delle labbra e della lingua indicano lo stato di salute e l' igiene del "candidato", quindi la sua idoneità sul piano della procreazione. È stato appurato infatti, che nei fluidi corporei, tra cui sudore e saliva, è presente il fattore HLA, una proteina dell' isto-compatibilità che si trova sulla superficie dei globuli bianchi, e che è il parametro principale nella valutazione di un possibile trapianto di un organo, e questa sostanza ha un odore sottile ma inconfondibile.
L'ISTINTO CHE GUIDA. Per tali motivi è appurato che il gentil sesso, senza rendersene conto, preferisce baciare uomini con HLA diverso dal proprio, fatto che, in una ipotetica prole, ridurrebbe il rischio di sviluppare malattie con difetti cromosomici, e questo risultato è stato attribuito esclusivamente al bacio, allo scambio di fluidi interpretato come una sorta di "analisi da laboratorio" dell' altro. Quindi, se già dal primo bacio insorge qualche perplessità, meglio lasciar perdere, poiché è l' istinto, la nostra guida interna, ad indicare la compatibilità genetica con quella persona, anche a livello riproduttivo. Una seconda linea di pensiero infatti, sostenuta dagli etologi Karl Grammer Bernhard Fink e Nick Neave, ritiene che questo "rituale di degustazione" dei ferormoni provochi una eccitazione sessuale a livello cerebrale e poi fisico, che funziona come un potenziale "afrodisiaco" oppure, se ciò non avviene, il bacio viene percepito come "repellente", cosa che indurrebbe i partners a procedere nell' approccio o a "chiudere lì". La corrente romantica invece, vede nel bacio un modo per valutare l' intensità del coinvolgimento sentimentale e quindi di valutare la potenziale compatibilità con l' altro, e una importante ricerca della Oxford University ha condotto uno studio dal quale emerge che le donne si sono mostrate più inclini a modificare il proprio giudizio in positivo o in negativo dopo il primo bacio, perché da quel primo "schiocco" si capisce se il partner bacia bene, se esiste incompatibilità e comunione di intenti, se si vuole continuare a baciarlo e se è papabile per una potenziale relazione. Ma perché il bacio sulla bocca piace e emoziona così tanto? Secondo gli psicologi questo atto rappresenta la forma di conoscenza mentale e fisica più credibile della persona desiderata, il cui contatto è accattivante in quanto prelude all' atto sessuale. La bocca infatti, è una zona dal forte significato erotico, poiché possiede il maggior numero di recettori utili ad immagazzinare nel cervello informazioni sulla persona desiderata od amata. Nella bocca d' altronde, convergono ben tre dei cinque sensi, ovvero il gusto, sulla lingua, l' olfatto, per il naso vicino alla bocca, e il tatto tramite le labbra.
RELAZIONE SOTTO ESAME. Lo scambio di informazioni chimiche, olfattive e tattili che avviene durante il bacio sollecita meccanismi biologici inconsci che permettono di intuire se una relazione è destinata a progredire, e lo scambio di milioni di batteri che avviene durante tale tipo di contatto, oltre a rafforzare il sistema immunologico di entrambi i partners, precostituisce un microbioma simile all' interno della coppia, che si rafforza nel tempo rendendoli compatibili ed esenti da rigetto. Ma, al di là delle fredde spiegazione scientifiche, il miglior consiglio è quello di seguire il proprio istinto, il quale difficilmente sbaglia obiettivo, perché quando si ha voglia di avvicinare le proprie labbra a quelle di un' altra persona vuol dire che è plausibile una fusione chimica, preludio di una relazione più o meno stabile. L' arte del baciare non si impara certo sui libri, ed anche se sembra incredibile, su questo gesto tipicamente umano sono state compiute una infinità di ricerche scientifiche, perché il bacio è di fatto considerato terapeutico, è consolatorio, è un atto che crea benessere, che regala soddisfazione, che migliora l' umore e l' omeostasi interna, e anche perché è inutile girarci attorno: baciarsi è importante, fondamentale per la vita affettiva, bisognerebbe farlo sempre, e il numero di baci scambiati è direttamente proporzionale al livello di salute generale, poiché è un dato scientifico certo che chi si sottrae a questo gesto d' amore, per qualunque motivo, è tradizionalmente più esposto al rischio di ammalarsi.
PER I MALATI DI SESSO. DAGONEWS il 23 settembre 2019. La dipendenza dal sesso esiste davvero e chi ne è affetto presenta livelli di ossitocina superiori nel sangue. La scoperta è di un gruppo di ricercatori del Karolinska Institute in Svezia che ha esaminato il sangue di 60 persone, principalmente uomini, che erano in cura per la dipendenza dal sesso. Gli scienziati sostengono di aver trovato differenze nella composizione genetica dei dipendenti, scoprendo importanti differenze nel loro materiale genetico "microRNA". In particolare l'ossitocina in eccesso è vero che rende il sesso più gratificante, ma porta i dipendenti a essere attratti da più persone nello stesso tempo, portandoli a cercare compulsivamente il sesso. L'autore dello studio, il professor Jussi Jokinen, ha dichiarato: «Molti malati non possono controllare il loro comportamento e possono avere effetti negativi sulla loro vita, dalle relazioni interrotte alla depressione e all'ansia. Sulla base dei nostri risultati e di altri ricercatori ci sono prove evidenti che la dipendenza dal sesso è una diagnosi medica che ha una causa neurobiologica». L'anno scorso l'Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato per la prima volta la dipendenza da sesso un disturbo mentale. I risultati potrebbero spiegare perché la terapia cognitivo comportamentale, che abbassa i livelli di ossitocina, aiuta i dipendenti dal sesso a cambiare strada aprendo alla possibilità di sviluppare un farmaco per bloccare “l’ormone delle coccole”.
DAGONEWS il 3 ottobre 2019. L'inizio di una relazione è la parte preferita per la maggior parte delle persone: è inebriante, sexy ed elettrizzante. Ma è anche snervante. La maggior parte di queste relazioni non dura tre mesi ed è facile inviare segnali sbagliati, soprattutto a letto. A dirci quali errore evitare è Tracey Cox che ci spiega come comportarsi per arrivare a un secondo appuntamento.
1. Essere "eccentrici" troppo presto. Introdurre alcune pratiche erotiche troppo spinte potrebbe creare qualche problema. Il primo pensiero potrebbe essere: se ha bisogno di così tanta stimolazione all'inizio cosa succederà tra due anni? C'è un sacco di tempo per esplorare il sesso più avventuroso. Perché sprecare la forza erotica dei primi tempi. Una volta che ti allontani dal percorso convenzionale, ti stai trasferendo in un territorio sconosciuto. Non conosci la storia sessuale della persona che stai frequentando e non sai quanto è conservatrice. Non sto dicendo di attenersi al missionario, ma sto dicendo di fare piccoli passi. Proporre di fare sesso anale o BDSM è fuori discussione ai primi incontri.
2. Sembrare delusa per le dimensioni del pene o le prestazioni. Il modo più rapido per non vedere mai più un ragazzo è quello di apparire visibilmente delusa da quanto è dotato o reagire in modo eccessivo a qualsiasi problema che abbia a che fare con l'erezione o l'eiaculazione precoce. Immagina che tu ti tolga il reggiseno e lui ti guardi il seno con disappunto. Eppure è così che alcune donne reagiscono a un pene che non supera le aspettative. Se gli piaci davvero, la maggior parte degli uomini sono nervosi la prima volta che fanno sesso. Se qualcosa va storto, sii gentile. Rassicuralo che non è un problema e non c’è nulla di cui preoccuparsi.
3. Agire in modo innaturale. Sdraiarsi e lasciargli fare tutto il lavoro fa sempre parte della lista delle cose che ogni uomo odia a letto. Ma fare il contrario, come urlare quando ti viene stimolato un capezzolo, non è naturale.
Fargli sapere che quello che fa ti piace è una cosa. Fingere o agire come una pornostar non lo conquisterà. Ogni uomo sopra i 18 anni sa che il porno è solo finzione. Mostra entusiasmo ma non esagerare.
4. Non fare sesso orale è un errore. Non è necessario ricambiare immediatamente, ma non si può pensare di non farlo mai. Devi mostrare di essere disposta a ricevere e dare piacere e non essere schizzinosa. Quindi, se queste sono le quattro cose che ti garantiranno che non avrai un secondo appuntamento, ecco cosa ti assicurerà il successo.
Prenditi il tuo tempo. Il sesso occasionale è un conto ma, per la maggior parte di noi, fare sesso con qualcuno che ci piace e con cui vogliamo avere una relazione è un grosso problema. Prenditi il tuo tempo per arrivarci. Una volta che iniziamo a fare sesso, non smettiamo di farlo: il sesso rilascia potenti ormoni che ci fanno legare a qualcuno anche se non lo conosciamo molto bene. In secondo luogo, perché affrettarsi a fare sesso? Se rimani con questa persona, lo farai per tutta la vita. Stuzzicalo il più a lungo possibile. Finisci il primo appuntamento con un bacio che fa immaginare quello che succederà. Nelle prime settimane passa da un bacio appassionato ai preliminari. Riserva il sesso per un grande momento. Mantiene alta la tensione sessuale.
Usa la tua mossa segreta. Molti di noi hanno una mossa in camera da letto: qualcosa che facciamo che sappiamo già che piace. Usa il tuo corpo. Dai la tua firma al sesso. Se hai un buon rapporto con il tuo ex chiedigli in cosa pensava fossi brava. Se stai facendo qualcosa che ami fare, di sicuro non sei troppo nervosa.
Ammirare il corpo del tuo partner. Fare dei complimenti aiuta l’autostima del partner. Fagli capire cosa ti piace. Se non fai alcun commento sembra che lo stai rifiutando. Fagli sapere che ti piace e adori fare sesso con lui.
DAGONEWS l'11 ottobre 2019. Riuscite a immaginare di dormire con qualcuno che avete appena incontrato e che ti colpisce in faccia durante il sesso? O che ti schiaffeggia così forte da non potersi sedere l’indomani? E che ne dici di essere soffocata durante il sesso? Se non appartenete al genere di donne alle quali queste pratiche è bene lanciare un messaggio chiaro al partner e agli uomini in generale. Come spiega la sexperta Tracey Cox ci sono delle parti che che sono comuni nel porno, ma non fanno parte dell’educazione sessuale o di come normalmente le cose funzionano in un coppia. Oggi i ragazzini guardano tanto porno e per loro, quello che accade in quei film, diventa l’unico modo di agire e di comportarsi durante un rapporto sessuale. Ovviamente le cose non funzionano così: le attrici che vedete godere sono pagate per fingere. Quello che piace (per finta) a loro non è detto che faccia piacere a una partner. Il dolore non piace a tutti. Se ti piacciono le pratiche sadomaso non c’è nulla di male. Basta parlarne con il partner. In qualunque coppia che lo pratica si stabiliscono le regole, ma non si può pretendere che qualcuno che non ama farsi frustare accetti con benevolenza i lividi sul sedere. Ecco le otto pratiche comuni che le donne nella vita reale odiano.
Sculacciate dolorose. Il BDSM è uscito dalla sua dimensione di nicchia quando “Cinquanta sfumature di grigio” è diventato popolare. Gli strumenti per il bondage hanno visto impennare le loro vendite. Ma attenzione. Se uno schiaffo leggero può eccitare non si può dire lo stesso per un schiaffo che provoca una ferita.
Soffocamento. Tenere una donna per il collo non è una pratica gradita a meno che lei non acconsenta. Tra i ragazzini è molto diffusa perché lo vedono fare nel porno, ma bisognerebbe indirizzare i giovani su un altro tipo di educazione sessuale.
Nessun preliminare. Nel porno, la donna è pronta solo guardando il pene del partner. In realtà, le donne hanno bisogno di tempo per eccitarsi, per consentire alla vagina di “bagnarsi” e rendere più confortevole la penetrazione. Saltare il "riscaldamento" e andare dritto alla penetrazione - con le dita o con un pene - sposta il sesso da piacevole a doloroso. I preliminari non sono un lusso. È raro che una donna li salti e un bacio non la rende pronta.
Schiaffeggiare il clitoride. Un’altra pratica favorita nei porno: schiaffeggiare il clitoride con una mano, un pene, le dita o un oggetto. Il clitoride è pieno di terminazioni nervose ed è estremamente sensibile. Dato che molte donne trovano troppo intensa la stimolazione diretta del clitoride, immagina come si sente se viene colpito.
Schiaffi in viso. Gli uomini credono che essere schiaffeggiate in viso ecciti le donne. Ma nessuna in media giudicherà uno schiaffo come qualcosa di eccitante. Idem se si infilano vigorosamente le dita nella bocca di qualcuno.
Pene in gola. Il “deep-throating”, ovvero prendere in bocca il pene fino in fondo, è un luogo comune nel porno. In realtà, la maggior parte delle donne si concentra sul prepuzio che è dove si trova la maggior parte delle terminazioni nervose. Prendere un pene fino in gola è un’abilità. Se lo fa una persona non esperta si innesca il riflesso del vomito.
Fare sesso anale senza prepararsi. Per farlo bisogna allenare il retto e nessuna coppia dovrebbe simulare quello che accade nei porno. Una cosa pericolosa è passare dall’anno alla vagina consentendo un pericoloso passaggio di batteri. Stessa cosa vale per la bocca.
Eiaculare in faccia. Nel porno si chiama "The Money Shot": quando un uomo eiacula sul viso del partner. Le pornostar fingono di adorarlo. Se una donna non lo vuole è assolutamente irrispettoso. Chi diavolo vuole sperma nei loro occhi o nei loro capelli?
Ogni atto sessuale che si allontana anche leggermente dalla norma deve essere accettato dal partner. Dunque bisogna semplicemente parlarne.
Barbara Costa per Dagospia il 4 dicembre 2019. “Una volta che il suo cazzo è diventato bello duro, fatelo mettere in piedi o seduto su una sedia, così da poterlo affondare meglio in gola”: quando non parla in romanesco a deriva coatta è meno convincente, meno spassosa, e comunque quando siamo arrivati a questo punto del video lui ce l’ha "duro" da vendere. In fatto di tutorial, c’è chi impasta e chi spadella, chi ti insegna a truccarti, a depilarti, a toglierti i punti neri, ok, però alla fine, al tuo uomo, un bel pompino glielo sai fare? Lo sperma, lo ingoi? No, e perché? Ti "aiuti" con le mani? E mentre succhi e risucchi, le gote a pesce, le fai, vero? Come sarebbe, non lo sai, non ricordi, non sei capace…?! I siti porno non servono solo a garantirsi belle seghe, a divertirsi, a passare del tempo fruttuoso, sono anche siti di pubblica utilità, di consigli preziosi, dritte che non ti da nessuno: le sezioni di sesso-aiuto sono realtà consolidata, quelle tenute da pornostar o ex tali non si contano. E però, loro sono professioniste del sesso, son ultra-collaudate, è come se a guidare ti insegnasse un pilota: poche storie, i video di cui vale la pena, ti mettono a tuo agio, sono i tutorial del sesso amatoriali, fatti da persone come te e me, e specie donne che davanti a un delizioso pene sanno che bisogna darsi da fare. Ad esempio c’è il tutorial di questa coppia romana, coppia artefice di altri sex tutorial, alcuni purtroppo rimossi e chissenefrega, coppia che si diverte a far vedere come a letto ci si può esibire insegnando. E però tra i due lo schermo lo buca lei, che io qui chiamerò J., e specie nel tutorial in cui mostra come fa un pompino al suo fidanzato: è imperdibile per naturalezza e trashaggine! J. è bella e tanto generosa, di curve, tette e voglia di fare una pompa all’amore suo, e se tu vuoi diventare brava a fargli avere “una sborrata da paura, che se la ricorderà per il resto della vita sua”, allora vai ad esempio su YouPorn e cliccala, sta lì da mesi ed è ancora lodatissima, ché sui siti porno la curiosità non muore mai, non conosce date: apri il video ed ecco, ti appare J., lunghi capelli scuri, vestaglia rosa e mascherina nera a coprirle gli occhi, e accanto a lei il pene di lui, pronto allo show di venirle in bocca. Ma prima, J. ti svela come fare. “Che ve vergognate a dire alla vostra donna come farvi succhiare il cazzo? Mandateglie 'sto link, oppure me guardate insieme!”, è la prima pompa-raccomandazione di J., la seconda è “vestiteve sexy, metteteve in mostra”, come lei, che sotto la vestaglia ha reggiseno, calze, reggicalze, e il fidanzato sdraiato, spaparanzato sul letto, in mutande e calzini, e “'ste mutande, me raccomando, toglietegliele voi, ma co' riguardo, co' delicatezza”, ed voilà, ecco lui, il protagonista, il pene! “Donne, non sapete dove mettere le mani per farlo godere?”, e J. comincia a metterci mani, saliva e lingua, e il pene, ovvio, gradisce. Se lo mette in bocca e inizia a succhiarlo prima lentamente, poi ci prende gusto e ci affonda dentro: “Abbattete la vostra insicurezza, succhiatelo con amore, eh! Prendete il ritmo dentro di voi, perché più sentite piacere voi, più sentirà piacere lui!”. È questa un’assoluta verità, e però nel video lui non si sente gemere, silenzio totale, si sente solo quando lei gli ordina di “fatte sentì, amò, fa sentì che te piace!”, e lui allora a comando ecco che inizia a rantolare. Lì sotto il pene è contentissimo, il proprietario del pene si sente gemere sempre più, J. seguita a succhiare senza freni, fermandosi solo a tratti, e per specificare a te che la guardi: “Chi n’ha mai succhiato un calippo? È la stessa cosa!”, ed ecco che si spoglia, denuda un seno niente male, e prosegue in ginocchio. Quando la situazione “per la donna se fa complicata”, cioè il duro del pavimento alle ginocchia si fa sentire e non da tregua, “entra in gioco il vostro amico cuscino, e starete comodissime!”. “Il segreto è non fermarsi mai”, e infatti la nostra J. non si ferma, continua a spompinare, ma fino a un certo punto, quando sul più bello decide che è l’ora di un po’ di…dirty talking! Infatti, “l’uomo va coinvolto, adulato, diteglie così: “Amò, mamma mia, che cazzo grosso che c’hai, quanto è bello, che me la dai un po’ de sborra…??”. Ecco, se a questo punto del video non siete piegati in due dalle risate, e lo scrivo con la massima ammirazione perché questa ragazza è il massimo del divertimento, è spudorata sì ma mai volgare e, dote rara, non si prende sul serio, allora ci siamo, è il momento: lui deve venire. E non viene, o meglio, viene, ma timido, a fatica. Ce ne vuole a dirgli “daje, amò, su, sborrami in bocca, su amò, dai!”, ma niente, il pene-star esita, si intimidisce, forse anela a una controfigura. Dopo altre leccate e succhiate e implorazioni vicine all’intimidazione, ecco che viene, prima poco convinto, poi tutto, completo in bocca a J. Che ci lascia con il consiglio finale, il migliore: “Ragazze, la borrata si ingoia, non si sputa! Mai! Quindi, ingoiate tutto, sempre, me raccomando, eh!”
Dagospia il 6 dicembre 2019. Da "Radio Cusano Campus". La Sessuologa Rosamaria Spina è intervenuta nel corso del programma “Genetica Oggi” condotto da Andrea Lupoli su Radio Cusano Campus, riguardo il tema del sesso "non penetrativo" e delle pratiche alternative. Sesso alternativo, parla la sessuologa Rosamaria Spina: "Sempre meno giovani fanno sesso. Ci sono pratiche alternative come la masturbazione reciproca. Alcune persone optano per la penetrazione ascellare, è come se l'incavo simulasse una vagina". "Dai dati recenti sappiamo che tutte le pratiche legate al sesso con penetrazione sono in forte calo fra i giovani. E' un dato 'allarmante' che però ci fa capire come oggi i giovani considerano il sesso. Da un lato la pornografia ha contribuito in questo creando delle forti aspettative legate alle dimensioni del pene, alla durata della prestazione, che hanno portato i giovani ad un ansia eccessiva nei confronti del sesso fino a farli fuggire dallo stesso." "Esistono però delle pratiche alternative al sesso penetrativo, è vero che la frequenza dei rapporti sessuali sia diminuita ma non è che si smette di fare sesso in assoluto. In qualche modo si trovano delle strategie alternative come il sesso orale o la masturbazione reciproca, anche se in questo ultimo caso per i giovani paradossalmente è meno imbarazzante un rapporto orale che praticare masturbazione reciproca. Perché per la masturbazione c'è bisogno di raggiungere un livello di intimità maggiore non richiesto dal rapporto orale." "Parlando di pratiche alternative il frotteurismo è una di quelle che vengono considerate ancora oggi una delle più frequenti. Consiste nello strusciarsi sia rispetto ad oggetti che indumenti, come quelli intimi. Lo sfregarsi su qualcosa porta a piacere sessuale. Nel frotterismo i genitali non si strusciano quasi mai sul partner ma appunto su oggetti e tessuti: su della biancheria intima, sui braccioli di una sedia o di una poltrona e su tutto ciò che può aiutare lo sfregamento fino a raggiungere l'orgasmo. E' una pratica sia maschile che femminile ed è una stimolazione molto potente." "Mi sono capitati pazienti frotteristi, non tutti la vivono come una 'problematica' ma in altri casi avviene perché può diventare una condizione patologica perché si diventa frotteristi esclusivi ossia incapaci di provare eccitazione con nessun'altra pratica sessuale, se non con questo tipo di sfregamento." "Esistono poi parafilie minori che però sono a tutti gli effetti delle pratiche alternative come il tentare una sorta di 'penetrazione dell'ascella', come se invece di effettuare una penetrazione anale o vaginale, si tenti quella dell'ascella, nell'incavo ascellare, come se la cavità simulasse una vagina. Questo genere di 'penetrazione' porta grande piacere in chi ha una parafilia di questo tipo, un piacere maggiore rispetto ad un rapporto vaginale. Le ascelle sono ricche di feromoni che secernono una ricca quantità di odori e questo implementa l'eccitazione. E' poi un ambiente tendezialmente umido, simile a quello vaginale, ma non ha tutte quelle implicazioni che ha la vagina, è vista in modo "meno minaccioso" ma altrettanto eccitante e piacevole”.
Fabrizio Biasin per “Libero quotidiano” il 13 dicembre 2019. A un bel punto è uscito questo articolo su ilfattoquotidiano.it (5 giorni dopo il pezzo di Dagospia sull’argomento, ndDago): «"L'ascella è la nuova vagina": il sesso ascellare è la nuova tendenza tra i giovani. Ecco di cosa si tratta». E allora siamo andati a leggere «di cosa si tratta». Incipit: «Si chiama armpit sex o sesso ascellare e si sta gradualmente affermando tra le nuove generazioni». E poi: «L' armpit sex è un sostituto della penetrazione sia nel rapporto uomo/donna che in quello donna/donna». E poi: «Si va dal semplice "licking" o leccamento dell'ascella fino ad una vera e propria simulazione della penetrazione». E poi: «L' ascella è una zona erogena dalla forte attrazione erotica sia rispetto all' odore, sia rispetto alla presenza o meno di una fitta peluria altrettanto stimolante». Fino all' insegnamento della sessuologa Rosamaria Spina, che parla del forte calo dei rapporti sessuali con penetrazione tra i giovani: «Questo genere di "penetrazione" porta grande piacere in chi ha una parafilia di questo tipo, un piacere maggiore rispetto ad un rapporto vaginale. Le ascelle sono ricche di feromoni che secernono una ricca quantità di odori e questo implementa l' eccitazione. È poi un ambiente tendenzialmente umido, simile a quello vaginale, ma non ha tutte quelle implicazioni che ha la vagina, è vista in modo "meno minaccioso" ma altrettanto eccitante e piacevole». Bene, bando ai convenevoli: ci rivolgiamo a voi, nuove generazioni. E vi avvisiamo: saremo molto severi. Noi della vecchia scuola possiamo accettare tutto, tutto: che ascoltiate della musica orrenda, che vi cibiate con le più immangiabili porcherie, che preferiate conoscervi mandandovi cuoricini e gattini sui social piuttosto che limonare dal vivo, tutto. Ma questo no. La vagina (vorremmo scrivere "figa", ma oggigiorno certamente si indignerebbe mezzo mondo) non si può definire "minacciosa": non-si-può. La vagina non solo non può perdere il confronto con l' ascella, ma non merita neanche di essere messa a paragone. La vagina è la birra e l' ascella la birra analcolica: alla fine entrambe ti dissetano, però con la birra analcolica non ti resta altro che una sensazione di inadeguatezza, un pensiero interiore del tipo «ma quanto sono stronzo?». E poi, anche lei professoressa Spina, sia gentile: ma quale «piacere maggiore», ma cosa dice? Qui semplicemente siamo di fronte a dei bambacioni - sì, parliamo con voi, nuove generazioni ascellari - che non hanno bisogno di essere giustificate, semmai catechizzate con il grande insegnamento della compianta Sora Lella: «Ho un nipote grande, grosso e fregnone, che scambia 'na sorca per un par de mutande!». E il "nipote" siete voi, nuove generazioni. E le mutande di Mimmo (Carlo Verdone) sono la vostra maledetta ascella! E allora, di grazia, giovani donne e giovani uomini, date retta a noi, trombate come si conviene e lasciate in pace le vostre ascelle che già vivono un' esistenza infame, fatta di camicie pezzate e orrendo fetore. Che poi, diciamolo: il vostro è solo un capriccio e delle ascelle vi stuferete in un lampo come vi stufate dell' ultimo artista indie. Date retta, di questo passo finirete per cercare nuove alternative: l' orecchio, l' ombelico o l' ascella del ginocchio (non conosciamo il nome scientifico, pardon). Pentitevi, nuove generazioni, anche solo per averci fatto pensare che «W l' ascella, che Dio la benedella!» potesse avere un senso.
Da radiocusanocampus.it l'11 ottobre 2019. La Sessuologa Rosamaria Spina è intervenuta nel corso del programma “Genetica Oggi” condotto da Andrea Lupoli su Radio Cusano Campus, riguardo il tema del sesso orale e della fellatio. "Secondo alcuni recenti dati oltre l'80% dei giovani pratica il sesso orale (fellatio e cunnilingus) è una dato che ci fa capire come sia cambiata la visione della sessualità nei giovani di oggi che tendono di contro a fare meno sesso. I rapporti orali sono vissuti quasi come una nuova 'stretta di mano'. Si tende a trascurare l'intimità del rapporto orale stesso, si fa una fellatio un cunnilingus e la cosa finisce li. In realtà anche i rapporti orali prevedono una certa intimità e complicità forse anche maggiore che con la penetrazione, si entra in contatto con gli odori e i sapori tipici dell'altra persona. E quindi tutta questa leggerezza con cui invece viene affrontato dovrebbe portare a qualche riflessione in più." "Le fellatio di una donna nei confronti di un uomo è spesso generata dal pensiero che siccome non si fa sesso e la donna non è disponibile ad approcci di natura sessuale allora concede un rapporto orale dove 'si è contenti tutti' ma spesso la donna lo fa anche non piacendole o non avendone voglia perché, per quanto sia una pratica ampiamente sdoganata, non è scontato che a tutte piaccia spesso viene fatto con l'idea: "vabbè lo faccio, dura pochi minuti e ti do il contentino". "Spesso per una donna è più facile fare una fellatio piuttosto che rifiutarla così che l'uomo ha la sua 'soddisfazione' e non avrà altre richieste. Ma chiaramente se la donna rifiuta un rapporto completo e anche il sesso orale allora sa che si possono aprire situazioni ben peggiori in un certo senso. Poi dipende dalle singole situazioni. 'Visto che mi nego su altro ti concedo il sesso orale e la chiudo lì". "Per i giovani paradossalmente è meno imbarazzante un rapporto orale che praticare masturbazione reciproca. Perché per la masturbazione c'è bisogno di raggiungere un livello di intimità maggiore non richiesto dal rapporto orale. Ovviamente anche se abbiamo affermato che non a tutte le donne piace il sesso orale c'è anche una grossa percentuale di donne a cui piace fare del sesso orale, più che riceverlo. Ricevere del sesso orale non sempre fa sentire la donna a proprio agio cosa che avviene a ruoli invertiti. Ricordiamo che le labbra sono ricchissime di terminazioni nervose quindi anche la donna che pratica una fellatio ha una certa stimolazione, è ovvio che non è così potente da farle raggiungere l'orgasmo ma sicuramente un certo grado di eccitazioni. Un rapporto orale non necessariamente prevede di spogliarsi quindi se la donna ha dei problemi legati alla percezione del suo corpo, come un chiletto di troppo, in questo caso si bypassa anche questo meccanismo."
Emilia Urso Anfuso per “Libero quotidiano” il 16 ottobre 2019. Agli italiani piace il sesso orale. Sia farlo sia riceverlo. Secondo il recente rapporto Censis-Bayer - pubblicato lo scorso anno - studiando i comportamenti di un campione di 1.860 persone nella fascia di età dai 18 ai 40 anni, cunnilingus e fellatio sono praticati dall' 80,7% degli italiani. In alcuni casi la preferenza sembrerebbe determinata dalla scelta di concedersi ma non troppo: mancanza di tempo e voglia, secondo alcuni sessuologi, farebbero protendere - in special modo l'universo femminile - a una sessione di fellatio piuttosto che a una maratona di sesso in camera da letto o in altre sedi. Eppure non è sempre così: regalare piacere con la bocca non è poi tanto male, anzi. La capacità di generare momenti di pura felicità eleva all' ennesima potenza l' autostima, ed è così per entrambi i sessi. Più recentemente si è scoperto che tra i giovanissimi la pratica del sesso orale è cresciuta in maniera esponenziale, tanto che a preferirla è oltre l' 80% di ragazze e ragazzi, che vivono questo tipo di intimità senza troppo coinvolgimento emotivo: quasi al pari di una stretta di mano o poco più. Certi adulti staranno inorridendo leggendo questi dati, ma se si approfondiscono le ragioni di questa tendenza, apparirà tutto molto meno morboso e peccaminoso. Oggi si tende a non anticipare troppo il primo rapporto completo, e dedicarsi a sistemi alternativi rende possibile la scoperta del proprio corpo e di quello dell' altro, da vivere non più come un momento sacrale di coinvolgimento amoroso, quanto una via di mezzo tra scoperta e condivisione. Una sorta di rito iniziatico del terzo millennio. Questa tendenza tra i giovani è generalizzata a livello internazionale. Già da alcuni anni si sta studiando questo tipo di fenomeno, tanto che negli USA è motivo di ricerche che confermano come la scelta cada in maniera preponderante sulle effusioni intime piuttosto che sui rapporti completi. I modelli sociali sono cambiati nel corso degli ultimi trent' anni, e se negli '80 gli adolescenti che avevano già avuto rapporti completi erano circa il 50% oggi la percentuale è al ribasso. Una maggiore consapevolezza dei rischi legati alle malattie sessualmente trasmissibili è tra i motivi di questo cambiamento. Non è un caso se a preferire lo scambio di coccole labiali, siano persone di ogni età con un livello maggiore di scolarizzazione. La conoscenza fa la differenza, anche in questo caso. Se però analizziamo le evoluzioni sociali degli ultimi decenni, possiamo affermare che la sessualità, oggi, è vissuta in maniera molto più libera rispetto a un tempo: il piacere non è considerato come elemento esclusivo all' interno della coppia, quanto un diverso modo di passare del tempo insieme piacevolmente, specialmente quando si è ancora minorenni. Attenzione però, è anche bene soffermarsi sui rischi che fellatio e cunnilingus, praticati tra persone conosciute da poco possono provocare sulla salute. Molte persone ritengono che favorire gli scambi intimi attraverso la bocca protegga da ogni rischio di contagio. Nulla di più sbagliato. Gonorrea, Sifilide, Clamidya e HIV si possono contrarre se non si proteggono le mucose labiali con gli stessi metodi usati per i rapporti completi: i preservativi. Questa soluzione è sconosciuta ai più, eppure dovrebbe essere un' informazione da diffondere attraverso campagne di sensibilizzazione a livello nazionale. Indossare un preservativo sulla lingua protegge dal rischio di trasformare il piacere fisico in una vera tragedia. Meglio prevenire. D' altronde l' incontro - per fini sessuali - tra persone sconosciute è anch' esso un tema che bisognerebbe approfondire e comprendere meglio. Le APP di incontri, disponibili per Smartphone, nascono come funghi e le utilizzano in egual misura giovani e adulti. L' approccio sessuale è immediato, ma i rischi non sono certo da sottovalutare. Occhio!
ESSERE PADRONI DELLA LINGUA - IL SESSO ORALE È FONDAMENTALE IN UN RAPPORTO, SIA PER GLI UOMINI CHE PER LE DONNE: PER UN CUNNILINGUS L’83% DELLE DONNE È DISPOSTO A CHIUDERE UN OCCHIO ANCHE SULLE CILECCHE DEI PARTNER, E LO SCAMBIO DI LIQUIDI È UN OTTIMO ANTIDEPRESSIVO NATURALE - I LIQUIDI SEMINALI INFATTI CONTENGONO SEROTONINA, CORTISOLO E OSSITOCINA - LO STUDIO CITATO DAL FONDATORE DI COUGARITALIA.COM. Dago spia. Comunicato Stampa il 3 ottobre 2019. «Il sesso orale ha un ruolo fondamentale non solo come fonte di piacere ma anche come strumento per trovare una maggiore empatia con il partner» sostiene il fondatore di CougarItalia.com, il primo portale in Italia a specializzarsi nel promuovere incontri tra donne più grandi e uomini più giovani, che ad agosto di quest'anno ha curato una ricerca proprio su questo tema. Se l'uomo è bravo a stimolare il sesso femminile con la bocca, le donne possono soprassedere sulle cilecche degli uomini: lo conferma l'83% delle donne intervistate da CougarItalia.com su un campione di mille donne di età compresa tra i 30 ed i 49 anni. Per quanto riguarda la fellatio, poi, un'altra ricerca condotta dalla State University di New York dimostra che lo scambio dei liquidi può essere un ottimo antidepressivo naturale. Dopo aver esaminato la vita sessuale di 293 donne e confrontato il loro stato di benessere mentale, i ricercatori hanno dimostrato l'esistenza di un elevato grado di correlazione tra benessere psichico ed assunzione di liquidi seminali, che contengono serotonina, melatonina, cortisolo ed ossitocina, ormoni capaci di migliorare l'umore e di combattere l'insonnia. «Certo è che, a prescindere dalla chimica, il sesso orale ha un ruolo sempre più centrale in una relazione, può addirittura sostituire un rapporto completo e perfino evitare di essere traditi» conclude il fondatore di CougarItalia.com. La conferma arriva dalle ricercatrici Sarah Vannier e Lucia O'Sullivan del dipartimento di psicologia della University of New Brunswick, la più antica università di lingua inglese in Canada, nel loro lavoro "Who gives and who gets: why, when and with whom young people engage in oral sex".
Ali Drucker per cosmopolitan.com il 7 novembre 2019. A posteriori, è facile dire di sapere tutto sul cunnilingus, analogamente a quando accade per la fellatio e praticamente tutto ciò che riguarda il sesso. A seguire, le osservazioni di otto donne che condividono quella saggezza duramente conquistata che avrebbero voluto avere prima di praticare sesso orale su un'altra donna per la prima volta.
1. «Una cosa che avrei voluto senz'altro sapere prima di praticare il cunnilingus su una donna per la prima volta era che è meglio chiederle cosa le piace. Sono bisessuale e, prima di questa, ho avute molte esperienze sessuali con uomini che non sapevano davvero cosa facevano. Così, quando è capitato a me di avventurarmi là sotto, non ero totalmente sicura di cosa fare. Ho provato a replicare quello che era stato fatto a me in passato, ma non sembrava proprio che lei se la stesse godendo, per cui ho rinunciato. Ogni donna è diversa. Alcune non amano la penetrazione vaginale, altre non amano la penetrazione anale, e la lista potrebbe andare avanti. Quello che ti piace di più potrebbe essere ciò che la tua partner detesta maggiormente. Il mio consiglio è, quindi, sempre chiedere e non limitarsi a presumere cosa lei gradisce». —Madi, 18 anni
2. «Penso che la cosa più importante sia concentrarsi davvero sulla partner e non su te stessa. Avevo l'abitudine (e ce l'ho ancora, qualche volta) di agitarmi perché mi preoccupavo di non riuscire a farla godere, ma si tratta solo di concentrarsi totalmente su di lei. Come il suo corpo reagisce, come il suo respiro diventa intenso e veloce, come inarca la schiena e, specialmente, come il suo corpo si contrae in un modo particolare quando trovi un punto sensibile. Avrei voluto sapere questo prima di fare sesso orale per la prima volta con una donna. Inoltre, è terrificante non riuscire a vedere bene dove si trova il clitoride quando, scusa l'onestà, hai la lingua infilata a fondo dentro a una donna e non vedi, letteralmente, un tubo. A quel punto puoi solo chiudere gli occhi e sentire. La situazione può diventare molto intensa, specialmente quando la tua partner si avvicina all'apice. Non è sempre facile, ma è gratificante vederla e sentirla venire». —Bekah, 21 anni
3. «Una cosa che avrei voluto sapere la prima volta che ho praticato il cunnilingus su una donna era di non presumere che lei volesse essere penetrata con la lingua. C'è tanto di più che puoi fare per dare piacere, senza fiondarti direttamente sulla vagina. Mi piace stuzzicare e alternare tra il mordicchiare l'interno delle cosce o titillare il clitoride mutando ritmo. Del buon sesso orale è il regalo migliore che si possa fare». —Ali, 23 anni
4. «Una cosa che avrei voluto sapere è quanto diversa sia la sensazione quando si ha un reale contatto fisico con una vagina. E sì, c'è un 'sapore', e ogni donna ne ha uno unico. A ognuna piace qualcosa di differente, e alcune raggiungono l'orgasmo più facilmente di altre. Anche le emozioni giocano un ruolo durante il sesso… ma la cosa più importante è il consenso. Non presumere che la tua partner voglia che tu le infili le dita dentro, o gradisca il cunnilingus. Chiedi sempre: "Ehi, posso usare le dita?", oppure: "Posso usare questo sex toy…?". Un'altra domanda importante è: "Hai fatto i test di recente?" Questi sono i miei consigli migliori. Presta attenzione al tuo livello di comfort nei confronti della situazione e di quella persona. Affidati all'istinto!». —Maria, 22 anni
5. «Sii sicura di te stessa. E anche se non lo sei, fingi e continua a farlo finché non lo diventi. Si trasformerà in sicurezza di te autentica. Una cosa che avrei voluto sapere la prima volta che ho praticato sesso orale su una donna è che esiste una tecnica precisa e non si usa solamente la lingua. Un tocco leggero e stuzzicare sono fondamentali tanto quanto i movimenti della lingua. Fai crescere gradualmente il desiderio. L'esperienza, di solito, si rivela grandiosa; non c'è niente di meglio che donare piacere a qualcuno in modo così intimo». —Shira, 18 anni
6. «La prima volta non avevo idea di cosa stessi facendo e la mia partner ha sicuramente finto, invece di guidarmi. Potrei addirittura aver pronunciato un "che schifo!" a un certo punto. Lo so, terribile! Ma mi ama abbastanza da rimanere con me. Il mio consiglio migliore è trovare il clitoride e poi fare dei cerchi intorno, iniziando molto lentamente e andando gradualmente più veloce; in questo modo non si può sbagliare! Sebbene la mia esperienza, probabilmente, non è stata molto divertente né per me né per lei, poi ho imparato, e ora è piacevole avere una partner che si contorce di piacere. Se non sei brava con il cunnilingus, trova qualcosa in cui lo sei e praticala insistentemente». —Dani, 23 anni
7. «Una cosa che avrei voluto sapere prima di praticare il cunnilingus su una donna è che i nostri punti sensibili possono cambiare in base alla fase del ciclo in cui ci troviamo. Di conseguenza, l'esperienza va modificata un po'. Prenditi il tuo tempo. Inizia lentamente, in modo da scoprire i suoi punti sensibili e stabilire la velocità e la pressione. Delinea l'area con le dita e la lingua. Stuzzicare portare sempre a risultati. Una volta che hai preso il ritmo, non avere paura di infilare tutta la lingua dentro di lei. Probabilmente la stupirà e potrebbe anche mandarla in estasi. Le donne sono davvero dee. Amala come se foste una cosa sola e quando entrambe siete venute, entrambe lo ricorderete». —Jaime, 23 anni
8. «Mi sarebbe piaciuto sapere prima alcune cose. Innanzitutto, avrei voluto sapere che anche se sono lesbica, non ero costretta a praticare il cunnilingus se non mi andava, mentre a volte ho sentito pressioni in questo senso. La mia prima volta con il sesso orale è stato all'età di 16 anni e stavo con la mia prima ragazza. Mi ricordo di essermi sentita molto a disagio pensando all'odore che potevo avere e a come avevo depilato il pube. Avrei voluto sapere che alle donne, di solito, non interessa. La maggior parte di quelle con cui sono stata, sono state carine». —Sarah*, 21 anni.
DAGONEWS il 4 ottobre 2019. Perché molte donne si rifiutano di fare sesso? O Non amano più il partner o c’è qualcosa dietro questo rifiuto. A chiarirci un po’ le idee è un sondaggio del Daily Mail su mille donne di età superiore ai 25 anni: un quarto delle donne (27%) ha dichiarato di non avere più rapporti sessuali. Un dato sorprendente se si considera che il 72% è in una relazione. Tuttavia la psicologa comportamentale ed esperta di relazioni Jo Hemmings afferma di non essere sorpresa. «La vita moderna è frenetica: le giovani donne inseguono la carriera e si devono occupare della famiglia o di genitori anziani. Quando finalmente rubi un po' di tempo per te stesso, accasciarti sul divano davanti a una serie tv può sembrare più facile del sesso. Dopotutto, al giorno d'oggi, abbiamo a disposizione un intrattenimento in streaming senza fine. Vedo donne di tutte le generazioni che affermano di avere difficoltà a trovare interesse o tempo». In effetti, il 55% delle donne intervistate ha riferito che la semplice stanchezza impedisce loro di fare sesso. Ma c’è dell’altro. La psicoterapeuta Hilda Burke avverte che sentirsi sempre troppo stanca, in realtà potrebbe mascherare un problema più profondo con l'intimità. «La stanchezza è una ragione spesso usata ma fragile per non voler fare sesso. La vera ragione potrebbe rivelarsi una profonda insoddisfazione all'interno della relazione, o del proprio aspetto». Non a caso il 30% delle donne ha ammesso che le loro vite sessuali sono in crisi a causa dell'immagine negativa che hanno del proprio corpo. E ciò spesso coincide con l’avere un bambino (22%) o con l'insorgenza della menopausa (20%). In altre parole, le donne britanniche (e non solo) di tutte le età sono così preoccupate per il loro aspetto che finiscono per non voler fare sesso. «Questo è un sintomo dei nostri tempi - afferma la psicologa clinica Lauren Callaghan, una delle maggiori esperte del paese in dismorfia corporea - Potremmo pensare che una cattiva immagine corporea sia principalmente un problema per le ragazze adolescenti, ma in realtà è un problema che divora donne di qualsiasi età». E gli uomini cosa possono fare? «Molte cose possono riattivare il desiderio – afferma - Gesti affettuosi come una coccola, mandare fiori o persino fare lavoretti extra. La gentilezza e la considerazione possono stimolare il desiderio. Se una donna dubita che il suo partner la desideri, questo impedirà qualsiasi tipo di approccio». C'è una strada da percorrere per una coppia che affronta questi problemi? «Un buon punto di partenza è credere al tuo partner - afferma Jo Hemming - Quando qualcuno dice che ti desidera, non mettere in dubbio le sue parole. Quando si tratta di piacere sessuale, la forma e le dimensioni del tuo corpo non c’entrano. Mettersi davanti a uno specchio e dare una valutazione neutrale del proprio corpo è un punto di partenza. Imparare a conoscere per accettarsi è fondamentale. Nel tempo, questo esercizio può aiutare a diventare meno severi e sentirsi più rilassati quando si è nudi con il partner».
IL TABÙ CI ECCITA DI PIÙ. DAGONEWS il 29 settembre 2019. Se c'è una cosa che è universalmente condivisa sulla sessualità umana è questa: le cose che sono un tabù ci eccitano di più. Questo spiega in qualche modo perché alcuni rapporti sessuali, in passato considerati "anormali", si siano fatti strada nella cultura sessuale tradizionale. Ad analizzare quattro tendenze sempre più popolari è la sexperta Tracey Cox che rivela quali sono i desideri segreti di donne e uomini in camera da letto.
Le donne guardano il porno gay. Secondo Pornhub, uno dei più grandi siti porno del mondo, il porno gay maschile è la seconda categoria più vista dalle donne che visitano il sito. E la riposta al perché è ovvia: gli uomini nel porno gay sono di solito molto più attraenti degli uomini nel porno eterosessuale, dove l'attenzione è rivolta alla donna, che è l’oggetto del desiderio. La seconda ragione è che gli uomini non sembrano recitare: a differenza del porno etero, sembra davvero che le persone coinvolte stiano godendo veramente.
Uomini che vogliono vedere la propria moglie fare sesso con qualcun altro. È una fantasia sempre più comune quella che si fa strada tra gli uomini eterosessuali, che si eccitano nel vedere la propria partner fare sesso con qualcun altro. Le ragioni sono diverse: c’è un elemento voyeuristico, l'infedeltà e il "proibito" che risulta così attraente a livello primordiale.
Secondo altre teorie il piacere di pensare che il proprio partner sia irresistibile aumenta il proprio ego; in alternativa, c’è anche chi, seriamente preoccupato che la moglie lo stia tradendo, prova ad affrontare la gelosia.
Avere una relazione romantica o sessuale con un oggetto al posto di una persona. Potrebbe essere il risultato di una società in cui il contatto umano è in netto calo a causa della tecnologia, mentre la sessualità diventa sempre più permeante. Ecco perché diverse persone sviluppano attaccamenti emotivi, sessuali o romantici nei confronti di oggetti inanimati. C’è chi si innamora o è attratto sessualmente da bambole, auto, alberi, recinzioni, giostre dei parchi di divertimento e così via. Non è un caso che stiano spopolando le bambole del sesso e vengano aperte delle case dove poter affittare questi oggetti del piacere che hanno sempre più sembianze umane. Questo tipo di sessualità tende ad attrarre persone timide e sole che hanno difficoltà a stabilire relazioni normali o che preferiscono relazioni unilaterali perché non tollerano critiche.
Feticisti dei piedi. Il feticismo dei piedi è ancora una delle forme più comuni di feticismo sessuale. Scarpe, calze, accessori per i piedi, l'odore dei piedi o il loro aspetto: un'adorazione che può assumere molte forme. E si organizzano anche delle feste in cui i feticisti possono succhiare le dita dei piedi, essere calpestati o essere "usati come tappeti".
Simone Valesini per “Salute - la Repubblica” l'1 ottobre 2019. Forse non esiste una ricetta per la vita di coppia perfetta, ma l' intesa sessuale è un ingrediente fondamentale. E la fantasia può fare molto per nutrirla o rinsaldarla nei momenti di crisi. «Fantasie e desiderio sessuale - spiega Roberta Rossi, presidente dell' Istituto di Sessuologia Clinica e autrice del libro Vengo prima io (Rizzoli), appena uscito - vanno di pari passo. Di solito chi ha un forte desiderio ha anche un bagaglio più ricco e vario di fantasie sessuali. E imparare a rimpolpare la fantasia aiuta a ritrovare e rinforzare il desiderio». Per una coppia in crisi, questo vuol dire condividere: aprirsi, raccontare le proprie fantasie e metterle in pratica può essere un modo per trovare l' intimità perduta e per indicare al partner cosa piace. Non tutte le fantasie però nascono per essere realizzate. « A volte quando le viviamo realmente perdono velocemente la capacità di eccitarci - continua Rossi - ma una potenziale delusione non è un buon motivo per perdersi d' animo: si tratta di un rischio che vale la pena correre». L' importante è farlo senza pregiudizi e spingendosi solamente fin dove ci si sente a proprio agio. In questo senso, le nuove generazioni sembrano molto più aperte. Secondo i dati dell' ultimo rapporto Censis, un quarto delle coppie under 40 guarda abitualmente video porno insieme, una percentuale paragonabile utilizza oggetti, cibi o bevande per giochi erotici, e il 16,5 percento fantastica apertamente con il compagno su altri possibili partner. «Il risultato - assicura Rossi - è che le coppie giovani tendono a essere più appagate sul piano sessuale. L'unico rischio è la saturazione: una sessualità che mima troppo da vicino le nostre fantasie erotiche alla lunga potrebbe desensibilizzarci, rendendo sempre più faticosa la ricerca dell' eccitazione. Se condividere è quindi importante, bisogna anche evitare di trasformarsi in un libro aperto. «Coltivare uno spazio privato nell' immaginazione, un giardino segreto, aiuta ad avere una vita sessuale sana - spiega Rossi - e fornisce un repertorio che si rivela prezioso nei momenti di crisi. Attingere alla fantasia ha un aspetto terapeutico: immagini, situazioni e ricordi eccitanti diventano benzina con cui affrontare momenti particolari, quando non siamo dell' umore giusto ma vogliamo soddisfare il partner». Un consiglio che vale per ambo i sessi e a tutte le età: il ricorso alla fantasia, ad esempio, è un ottimo modo per affrontare le difficoltà fisiologiche che emergono con il passare degli anni. Perché se il fisico invecchia, l'eccitazione si può invece risvegliare in ogni fase della vita. Il nemico del desiderio non è l'età. «Quando l' unione si stabilizza è difficile mantenere l' intesa sessuale - spiega Ivana Castoldi, psicoterapeuta e autrice del libro Le ragioni degli uomini - che si aveva nelle fasi iniziali. Subentrano altre priorità e diminuiscono i momenti di intimità. E alla lunga la routine crea danni». Se il desiderio si spegne è difficile riaccenderlo e la fantasia può aiutare. Secondo Castoldi, un' attività sessuale intensa non è un requisito necessario per un rapporto appagante e duraturo. Invecchiare insieme spesso vuol dire puntare su altri aspetti della relazione. «Non tutte le coppie hanno le stesse esigenze - dice Castoldi - alcune sono più tranquille sul piano sessuale. Il segreto per la felicità è un partner compatibile. Bisogna essere sicuri di andare d' accordo prima di impegnarsi».
Alle immagini di sesso il cervello delle donne reagisce come quello degli uomini. Pubblicato giovedì, 26 settembre 2019 su Corriere.it. E’ il cervello il vero e più importante organo sessuale, sia maschile sia femminile, perché è da lì che parte il desiderio ed è lì che arrivano le complesse sensazioni dell’esperienza sessuale. Ma come sempre quando c’è di mezzo il cervello, le cose sono molto complicate. Una revisione sistematica pubblicata sulla rivista PNAS – Proceedings of the National Academy of Sciences - mostra ora che, contrariamente a quanto generalmente si è portati a credere, il cervello di uomini e donne risponderebbe in maniera sostanzialmente uguale all’esposizione a immagini e video esplicitamente sessuali. E si tratta di risposte che coinvolgono molte aree diverse del cervello, sia della corteccia cerebrale, come il giro fusiforme, la corteccia cingolata anteriore e quella occipitale mediale, sia strutture sottocorticali, come l’amigdala, fortemente coinvolta, lo striato, il pulvinar e la sostanza nera.
OGNI QUANTO TEMPO BISOGNA CAMBIARE LE LENZUOLA? Paolo Arosio per corriere.it il 14 settembre 2019. Un terzo della vita in un letto sporco? Vi capita spesso di svegliarvi con la pelle irritata? O di avvertire, quando suona la sveglia, il naso chiuso? Potrebbe essere colpa delle lenzuola che, se non sono pulite, attirano ogni genere di allergene. «Anche le polveri contenute nell’atmosfera si depositano sulle lenzuola e vengono inalate per circa otto ore al giorno - spiega Philip Tierno, microbiologo e patologo alla New York University School of Medicine -. Considerando che circa una persona su sei soffre di qualche forma allergica o di difficoltà respiratorie e che si trascorre in media circa un terzo della vita a letto, si comprende come lenzuola pulite siano indispensabili per il benessere».
Cosa c’è nel letto. Del resto, l’elenco di ciò che, secondo il docente Philip Tierno, si annida nel letto è davvero terribile: «Funghi, batteri, peli di animali, pollini, ma anche vari residui del corpo umano, come sudore, espettorato, secrezioni vaginali e anali, urina, cellule della pelle». Secondo vari ricercatori anche le quantità fanno spavento: è stato calcolato che un uomo di media corporatura può rilasciare nel letto fino a 100 litri di sudore all’anno e che i cuscini, di piuma o sintetici, possono contenere da 4 a 17 specie diverse di funghi. In più, ci sono i residui dei cibi che a volte capita di consumare nel letto, e di cosmetici, come ad esempio oli e creme per il corpo.
Il problema degli acari. I letti sono anche il nido preferito degli acari, che qui trovano un ambiente umido, perfetto per la loro sopravvivenza. Ce ne possono essere 12 mila per ogni grammo di polvere e fino a un milione nel materasso. «Si tratta di piccoli insetti che possono aggravare l’asma, esacerbare o provocare allergie, come rinite e orticaria», spiega Tierno. Per tenerli lontani è importante scegliere lenzuola di tessuti naturali, come il cotone o il lino, che hanno il vantaggio di essere traspiranti, lavandole a una temperatura minima di 60 gradi.
Quando cambiare le lenzuola. Secondo i vari ricercatori quindi l’ideale per mantenersi in salute è lavare le lenzuola una volta alla settimana, soprattutto d’estate quando si usano pigiami leggeri e la pelle resta a diretto contatto con il tessuto. «Si tratta di una raccomandazione, di una indicazione di massima, - specifica il professor Tierno - anche lavarle ogni 9-10 giorni può essere sufficiente, ma meglio non andare oltre i 12».
A volte lasciare il letto sfatto può essere bene. Un altro accorgimento contro gli acari (che piacerà ai più pigri e disordinati) arriva da uno studio dell’Università di Kingston, in Inghilterra: lasciare il letto sfatto, con lenzuola e coperte all’aria, tiene alla larga i parassiti della polvere. «Per gli acari le condizioni all’interno del letto sono migliori rispetto a quelle fuori - spiega il biologo Stephen Pretlove, autore dello studio e direttore del laboratorio di Scienza della tecnologia applicata agli ambienti dell’ateneo inglese -. Lasciando il letto in disordine, queste condizioni diventano rapidamente uguali a quelle del resto della stanza. Poiché questi parassiti possono sopravvivere solo ricavando l’acqua di cui hanno bisogno dall’ambiente, lasciare il letto sfatto durante il giorno elimina l’umidità dalle lenzuola e fa sì che gli acari si disidratino e, dopo un po’, muoiano». Con buona pace di chi, alla sera, si abbandona alle braccia di Morfeo, augurandosi un sonno salubre e ristoratore.
Quando cambiare il pigiama! Anche i pigiami indossati per due settimane o più possono diventare un covo di batteri che possono poi finire sugli altri indumenti con cui entrano in contatto, per esempio in lavatrice, avvertono gli esperti, che raccomandano di lavare ogni settimana la biancheria con cui si dorme. Secondo un sondaggio condotto in Gran Bretagna da una società che produce materassi, gli uomini fanno passare circa due settimane prima di cambiarlo, (per la precisione 13 giorni) le donne addirittura 17 giorni. I risultati fanno inorridire gli esperti, secondo cui così si rischiano infezioni alla pelle e cistiti. «Tutti noi ospitiamo sulla pelle e nell’intestino microrganismi vari - spiega Sally Bloomfield, della London School of Hygiene and Tropical Medicine - che generalmente non sono dannosi, ma possono diventarlo se finiscono nel posto sbagliato, entrando in contatto con altre parti del nostro corpo». Fra questi, l’E.Coli, che può causare la cistite, oppure lo stafilococco e anche il Mrsa, il superbatterio resistente ai farmaci.
CHE FATICA TROMBARE A 30 ANNI! Maria Rizzo per Il Giornale il 25 agosto 2019. Nonostante la maggiore esperienza e una migliore conoscenza dei propri desideri nella coppia, le persone che hanno superato i 30 anni possono commettere una serie di errori comuni nel sesso, che possono anche diventare motivo di una crisi. Ecco quali sono. Se è proprio vero che il passare degli anni può indurre un uomo a rischiare il suo matrimonio per un tradimento, che effetto ha questo trascorrere del tempo sulla sessualità delle donne? Uno psicologo dell'Università del Texas suggerisce che, dopo i 30 anni, anche una donna può essere più portata a tradire: avrebbe più fantasie sessuali e sarebbe più disposta a fare sesso occasionale, anche per una sola notte. Quando si sta insieme da tanti anni, come può accadere negli over-30, il desiderio sessuale può calare e un errore comune che si fa è quello di confrontare le proprie performance sotto le lenzuola con quelle degli altri, magari degli amici coetanei. Nel tempo, si può anche perdere la creatività: sono entrambi sbagli da non commettere. Ogni relazione è a sé e non bisogna mai trascurarsi, anzi prendersi del tempo per un rapporto che duri.
Non prestare attenzione alla propria vita sessuale quando si ha un figlio può essere comune dopo i trent'anni. I neonati e i bambini richiedono molta attenzione, giorno e notte, e ci si può sentire stanchi per tanto tempo. Ma se può sembrare una buona idea andare a letto presto ogni sera per ricaricare le pile, meglio rinviare il sonno di un po' e fare l'amore con il partner.
Altro errore comune che compie la donna over 30, e che può portare a un'insoddisfazione nel tempo, è quello di non conoscere il proprio corpo e, nello specifico, il funzionamento del clitoride, che durante l'atto sessuale ha quasi sempre bisogno di essere stimolato, almeno per il 97% delle donne. Una volta scoperto come funziona, bisogna comunicarlo al compagno: non farlo è un grande sbaglio.
Molte persone di oltre 30 anni si trovano in relazioni in cui il sesso non funziona più bene, ma il rapporto di coppia è comunque forte. Spesso si trovano così di fronte a una scelta: rinunciare alla relazione e trovare un nuovo partner o rinunciare al sesso.
E, naturalmente, alcune persone optano per l'infedeltà, perché ci sono tanti aspetti della relazione che ancora amano e non vogliono perdere. In questo caso, bisognerebbe lavorare per trovare una nuova energia erotica e coinvolgere la propria metà per tornare a fare in modo che le cose funzionino.
TROMBARE È DIVENTATO UN MIRAGGIO? DAGONEWS il 29 novembre 2019. Avete problemi in camera da letto? Poche persone riescono a superarli da sole e un numero ancora inferiore si rivolge a un terapista. La soluzione è che spesso i matrimoni finiscono per andare avanti senza avere più idea di cosa sia il piacere e la sessualità. Ma come si fa a sapere quali problemi si possono risolvere da soli e quali hanno bisogno dell’aiuto di un professionista? La sexperta Tracey Cox ci spiega quali sono i quattro problemi più comuni e come superarli.
Non riuscire a raggiungere un orgasmo durante un rapporto. È sempre la stessa questione. L’orgasmo per una donna è difficile da raggiungere perché passa dalla stimolazione del clitoride e non dalla penetrazione. È il clitoride e non la vagina ad avere quelle terminazioni nervose che fanno raggiungere alla donna il climax. Non c'è assolutamente nulla di sbagliato se non riesci a raggiungere l'orgasmo durante il rapporto sessuale: fai parte della maggioranza e non della minoranza. In realtà non c'è un "problema" da risolvere. Ma puoi aumentare le tue possibilità di avere un orgasmo attraverso la penetrazione provando alcune tecniche collaudate. Soluzione: correggilo tu stessa.
Solo il 15-20% delle donne è in grado di raggiungere l'orgasmo durante il rapporto senza una stimolazione del clitoride. La maggior parte delle donne che hanno questo orgasmo, lo fanno attraverso la stimolazione della parete frontale. Per stimolare quest'area altamente sensibile (nota anche come punto G), bisogna provare la posizione del missionario con i fianchi sollevati. Un’altra idea è di utilizzare un vibratore.
Essere troppo arrabbiati per fare sesso con il partner. I problemi in una relazione spesso hanno un effetto negativo sulla vita sessuale. Se la persona con cui abiti non è più tuo amico, è il nemico. Perché dovresti aprire il tuo cuore - o le tue gambe - a lui? Sentirsi attaccati non è sexy e l’autostima precipita. Questo è ciò che viene chiamato inferno coniugale. Soluzione: rivolgiti a un terapista.
Se ti senti arrabbiato con il tuo partner da mesi o da anni rivolgiti alla terapia di coppia. Quando i problemi non vengono risolti rapidamente, si trasformano in piaghe che divorano la relazione.
Non si fa più sesso. A volte il sesso si interrompe in una relazione a causa degli eventi della vita: bambini piccoli, stress a lavoro o problemi di altra natura. All’inizio pensi che ricomincerai a fare sesso, ma poi ti accorgi che non succede. Se hai smesso di fare sesso, è molto improbabile che ti rivolgerai al tuo partner per affrontare i problemi. Ad alcune coppie non importa quando il sesso scompare, ma si rinuncia a una parte importante del rapporto. Soluzione: dipende da quanto tempo è passato.
Non importa quale sia stata la ragione per cui non lo fate. Una volta che hai smesso di fare sesso per più di un anno, la situazione non cambia. Se non hai già parlato, fallo ora. Inizia con qualcosa di semplice. Dì: “Senti, volevo parlarti di qualcosa. Ti amo e amo la nostra relazione e mi manca fare sesso. Hai notato che non lo facciamo più? Come ti senti?”. Non farti prendere dal panico se non ricevi una buona risposta. A volte basta affrontare il problema, risolverlo. Altre volte, diventa ovvio che il tuo partner non ha interesse a fare sesso di nuovo regolarmente o per niente. Se la situazione è questa chiedi il motivo. A volte ci può essere un problema di disfunzione erettile che crea un grosso problema per l’uomo e lo porta a non volerlo più fare. Se si rifiuta di parlarne la terapia è necessaria.
Il partner si rifiuta di parlare di sesso. Molte persone si rifiutano di parlare di sesso. bisogna cercare di superare il disagio iniziale, ma una volta fatto per molte coppie è un gioco da ragazzi e si prova una sensazione liberatoria. Tuttavia alcune persone, cresciute pensando al sesso come qualcosa di sporco o che hanno avuto dei traumi, non ne parleranno mai. Non c’è una soluzione rapida e ci vuole tempo e pazienza. Soluzione: rivolgersi a un terapista.
Se hai provato di tutto per far aprire il tuo partner e nulla ha funzionato, vedere un terapista è l'unica strada da percorrere. Resisteranno: se non vogliono parlare di sesso con te, non vogliono nemmeno parlare con un terapista. Se non vogliono farlo, vai da solo. Il terapista ti aiuterà a trovare il modo per affrontare la situazione.
QUELLO CHE LE DONNE NON DICONO. DAGONEWS il 25 agosto 2019. A ognuno di noi è capitato di mentire al proprio partner. Ma le donne hanno la tendenza a farlo più spesso. Ecco perché la sexperta Tracey Cox ha stilato un elenco in quattordici punti che spiega quello che le donne non dicono riguardo al sesso e ai sentimenti.
Quanto ci masturbiamo. Uno studio pubblicato sul Journal of Sex Research su circa 3.000 uomini e donne, di età compresa tra i 18 e i 22 anni, ha rilevato che l'85,5% delle donne e il 98,9% degli uomini si masturbano. E questo non vuol dire che le donne non desiderino il loro partner o lo amino meno. Ma potrebbe significare che il partner deve lavorare sulla sua tecnica o che si deve essere più onesti riguardo a ciò di cui abbiamo bisogno per un orgasmo.
Abbiamo sogni sexy (che non coinvolgono il partner). Quello strano sogno in cui fai sesso con la tua migliore amica, o con una donna o sei al centro di un’orgia: sì, sono sogni che fanno anche le donne.
Ciò su cui davvero fantastichiamo. Mettiamola così: non ha nulla a che fare con il passeggiare lungo una spiaggia romantica, mano nella mano, per poi fare l'amore sulla battigia mentre le onde si infrangono su di noi. Le fantasie femminili sono altrettanto sporche di quelle maschili. Perché poi non si è altrettanto avventurosi a letto? Le fantasie sono scenari sessuali di cui si ha il pieno controllo. Si può lasciare che l’immaginazione vada in luoghi in cui non si oserebbe mai andare nella vita reale.
Se abbiamo tradito. Nessuno vuole un traditore e nessuno vuole essere tradito, specialmente se si tratta di una donna. La donna dovrebbe essere naturalmente predisposta alla monogamia, meno subdola e meno interessata al sesso. Sbagliato su tutti i fronti. Un recente studio statunitense ha rilevato che il 50% delle donne ha tradito i propri partner. Le persone tradiscono. Ciò che è importate è capire perché lo hanno fatto.
Quanto odiamo il ciclo. Molti uomini hanno l'impressione che alle donne piaccia avere il ciclo, che sia una specie di "cosa da ragazze" che rende parte di un club esclusivo. Perché gli uomini pensano che alle donne piaccia essere lunatiche, incredibilmente irritabili, pungenti e infastidite per sette giorni al mese prima che arrivi? O passare la settimana del ciclo a preoccuparsi di sporcarsi o a lottare contro crampi dolorosi? Non c’è nulla di più sbagliato.
Quanti incontri sessuali abbiamo avuto. Le donne sono ancora giudicate male da molti uomini se si dedicano al sesso occasionale. Molto più facile ridurre la quantità a una cifra accettabile. Tutto cambia in base a quanto si sta con un uomo conservatore o quanto si investe sul futuro.
Volete davvero sapere cosa abbiamo fatto con gli ex? Non ha senso chiedere e non ha senso sapere. Punto.
Se il pene è davvero un po' piccolo. Se il pene è più piccolo della media, voi uomini lo sapete già. Non c’è bisogno che aggiungiamo altra paranoia. Quello che fate con la lingua e con le dita è molto più importante.
Quanto tempo vogliamo che il sesso duri. Perché gli uomini pensano che le donne vorrebbero che il sesso durasse ore? Anche alle donne piacciono le sveltine come il sesso da venti, trenta o dieci minuti. Dipende tutto dall’umore: la resistenza è sopravvalutata.
Se abbiamo segretamente aggiunto del lubrificante. Non c’è nulla di male se la vostra compagna aggiunge del lubrificante. Non sta mentendo su quanto è eccitata, visto che la lubrificazione dipende da diverse cose, tra le quali l’interazione con il medicinale e il ciclo o la disidratazione. L'aggiunta di lubrificante è a volte necessaria: fa sì che tutto vada meglio per tutti.
Quanto desideriamo che vi piaccia il nostro vibratore. La vibrazione è il modo più efficace per stimolare il clitoride. A volte, se perdiamo il momento, l'unico modo per raggiungere l'orgasmo è usare il nostro fidato amico. Ciò non significa che l’uomo abbia fallito come amante se si diventa un trio. Il nostro vibratore è amico anche dell’uomo, non è la concorrenza.
Quanto ci mettiamo davvero per raggiungere l'orgasmo. Nei film porno, le donne impiegano in media da due a tre minuti per raggiungerlo. Se stiamo fingendo, dilateremo il tempo a cinque minuti. Se siamo completamente onesti, potrebbero essere necessari dai dieci ai venti minuti di stimolazione esperta e costante. Non c'è un tempo prestabilito. Tutto dipende dall'umore.
Mentire. Se prestate attenzione ai due punti precedenti, non avrete bisogno di mentire.
Quanto è spaventoso essere una donna. Avere il ciclo rende vulnerabili, camminare sole a tarda notte fa sentire insicure e sorridere rende civettuole. Questa è la vita da donna. Anche in una relazione può essere davvero difficile fidarsi e lasciarsi andare. Le foto hot finiscono in posti che non dovrebbero. Ogni donna che abbia portato a casa un uomo ha valutato il rischio che lui potesse potenzialmente violentarla o ucciderla. Questa è la verità e tutti gli uomini hanno bisogno di saperla.
Veronica Mazza per cosmopolitan.com il 10 novembre 2019. "Posso fare sesso con il ciclo?" Non sei la sola a farti questa domanda, perché fare l’amore quando si hanno le mestruazioni sembra essere ancora un argomento tabù, che crea imbarazzi e pregiudizi. E come se non bastasse, ancora oggi su questo argomento circolano credenze errate che complicano la questione e alimentando i dubbi. Le motivazioni che spingono a credere che il ciclo non possa fare match con il sesso sono tante. Ad esempio c’è chi pensa che è poco appropriato farlo, altre che sia doloroso, a molte invece crea disagio e vergogna. Proprio come a Camilla, 22 anni, di Torino. “Quando “ho le mie cose” mi fa strano fare sesso. Eppure Luca, con cui sto assieme ormai da un anno, mi ha rincuorato più di una volta, dicendomi che per lui non è assolutamente un problema. Anzi avrebbe voglia di sperimentare. Alcune mie amiche, che lo hanno già provato, mi hanno detto di stare tranquilla e di mettere da parte le paranoie. Io sono ancora incerta, perché c’è una parte di me che vorrebbe provare e l’altra che è ancora in preda all’imbarazzo…”. Decidere di fare sesso con il ciclo è sempre e solo una scelta che spetta a te, con cui ti devi sentire in confort e a tuo agio. E per farla serenamente, è importante sfatare dei falsi miti e avere delle informazioni utili. È per questo che ne abbiamo parlato con un’esperta, la sessuologa Maria Claudia Biscione. Non è per niente strano fare l’amore durante le mestruazioni, anzi è molto comune che accada se entrambi i partner lo desiderano. Diciamo che i blocchi possono essere legati a degli stereotipi che ancora oggi persistono, che contribuiscono a far vivere i giorni del ciclo come qualcosa di cui vergognarsi o di cui parlare sottovoce. “In verità, tolte alcune situazioni che rendono quei giorni molto difficili, perché associati a dolori molto intensi (per esempio l'endometriosi), per la maggior parte delle donne il ciclo è un momento normale all'interno della propria vita in cui i bisogni e i desideri, anche sessuali, sono presenti come in tutti gli altri giorni del mese”, afferma la sessuologa. Quindi se non hai dolori invalidanti e vivi il sesso tranquillamente anche se sei indisposta, puoi farlo anche il primo giorno del ciclo, senza controindicazioni. Non c'è alcun motivo di rinunciare a fare sesso durante le mestruazioni. Soprattutto se il tuo partner non si fa problemi, anzi ti ha tranquillizzato sul fatto che per lui è ok. Quindi se hai voglia di seguire la tua passione, fallo pure, anche perché ci sono dei vantaggi nel fare l’amore. “Le contrazioni dei muscoli del pavimento pelvico facilitano dopo l'atto una maggior fuoriuscita di sangue, rendendo il ciclo anche più breve”, afferma l’esperta. “L'orgasmo, inoltre, durante le mestruazioni funge da perfetto antidolorifico naturale nel minimizzare i sintomi più fastidiosi e i crampi mestruali, oltre che a regalare un benessere psicofisico più ampio”. Fare l'amore quando hai le mestruazioni può rappresentare, inoltre, un passo verso una maggiore intimità con lui. “Il lasciar “fluire” fisicamente ed emotivamente, anziché nascondere, diviene un elemento importante di fiducia, disponibilità e complicità”, spiega la sessuologa. Sfatiamo un mito: non è vero che durante il ciclo non si ha voglia di fare l’amore. Anzi è tutto il contrario, perché la libido aumenta grazie agli estrogeni, gli ormoni del benessere, che ti rendono più felice e più rilassata. “Questi cambiamenti ormonali possono accrescere notevolmente il desiderio e l'eccitazione sessuale, rendendoti quindi più predisposta al rapporto. L'effetto lubrificante dovuto al flusso del sangue, può, poi, agevolare molto la penetrazione e allentare la tensione e il dolore in chi è, in genere, molto contratta", dice Biscione. "Anche gli orgasmi possono risultare più intensi, perché i genitali sono più sensibili. Ma soprattutto è la possibilità di lasciar e lasciarsi andare che crea una maggior sintonia con te stessa e quindi un maggior piacere”.
NON TUTTE LE PELATE VENGONO PER NUOCERE. Fabrizio Barbuto per “Libero quotidiano” il 18 Agosto 2019. L'uomo che si passa le mani tra i capelli, da che mondo è mondo, dovrebbe evocare sensualità e fascino nel gentil sesso, ma le cose sembrano cambiate, tanto che le fanciulle appaiono oggi determinate a ribadire la preferenza per il maschio pelato, il quale, oltre ad accrescere il desiderio sessuale nelle donzelle, saprebbe esercitare perfino un certo ascendente sugli uomini, conciliando in loro sentimenti di affidabilità, fiducia e concretezza. La conferma arriva da uno studio ad opera dell'Università della Pennsylvania, il quale è stato utile a comprovare che la pelata, meglio di una fluente capigliaura, incide sulla credibilità dell' individuo, aiutandolo a sedurre, persuadere e conquistare. Ma non solo: la calvizie contribuirebbe ad offrire un' immagine di assennatezza e maturità. A sostenerlo è un'indagine condotta, stavolta, presso l' Università di Saarland, dai cui risultati è emerso che l' algoritmo calvizie-uomo darebbe un risultato simile a "saggezza", almeno nell' immaginario comune. Ma vi sono anche spiegazioni ben più razionali al successo del maschio calvo: l'attenzione, nel contemplarlo, non si disperderebbe, concentrandosi così sui connotati del viso; la sua testa rotonda e vellutata, peraltro, risveglierebbe nella donna l' istinto materno, portandola ad identificare in lui un tenero pargoletto, oltre che un valoroso stallone. Che dire poi di quelle teorie secondo le quali, la sicurezza maschile, crescerebbe proporzionalmente al grado di calvizie: più l'uomo accetta la sua condizione senza la pretesa di risolverla con i più moderni stratagemmi, più emanerebbe da sé una consapevolezza che, agli occhi dell' altra, si tradurrebbe in termini di charme e magnetismo. Sarà vero che ciuffi ciondolanti e crini impomatati rappresentano non più di un inutile ingombro? Facendo una rapida perlustrazione dei forum femminili verrebbe da rispondere di sì: è qui che le donne si confrontano tra loro senza troppe censure, arrivando a rivelarsi quanto, i loro sogni erotici, siano infiammati da evocazioni carnali i cui protagonisti sono sempre loro: i pelati. C' è perfino chi ricorda con disgusto la capigliatura del partner che, nei momenti di focosa intimità, sfugge al controllo del gel, scompigliandosi a ritmo di bacino. Anche Hollywood sembra adeguarsi ai nuovi trend, pertanto propone eroi di celluloide la cui virilità è esaltata da una cute liscia e trasudante, che riflette la luce alla stregua di un' armatura da gladiatore. L’attore Dwayne Johnson, noto come "The Rock", incarna meravigliosamente questo fenomeno: è tra gli interpreti più pagati e, sul suo profilo Instagram, annovera ben 153 milioni di seguaci, ciò significa che, a modo suo, ha un po' colonizzato il mondo; vuoi vedere che è tutto merito di quella sua lustra pelata? Attenzione però perché molte donzelle, pur ammettendo la loro predilezione per gli uomini calvi, affermano che sia solo una questione di tempo, e che i gusti cambino col passare degli anni: le giovanissime tenderebbero a preferire i garzoni dalle capigliature dense e corpose, le donne adulte, invece, pare che trovino ineguagliabile il fascino di una cute glabra. Se così fosse, tutto andrebbe ad armonizzarsi con i normali cicli della natura, i quali vogliono che, una perdita sostanziale di capelli nell' uomo, si cominci a verificare solo dopo i 30 anni, per poi intensificarsi raggiunta la soglia dei 50. Insomma, tanto per i capelluti quanto per i pelati, ogni età è buona per cuccare!
Sabina Cuccaro per Il Fatto Quotidiano il 7 ottobre 2019. Partiamo da un dato: secondo il rapporto Censis-Bayer 2019 sui nuovi comportamenti sessuali degli italiani, un ragazzo su dieci non fa sesso e, nei maschi, la percentuale sale fino all’11,6%. Detto così, potremo cominciare con la solita solfa: tutta colpa dei social, i giovani passano tutto il giorno in rete e trascurano i rapporti (in senso strettissimo!) con i coetanei. Spulciando bene, però, emergono altre percentuali; ad esempio, scopriamo che l’80,7% dei ragazzi si diverte con il sesso orale e il 67% con la masturbazione reciproca. Sono inoltre in aumento i rapporti bdsm, comprese la sottomissione e la dominazione. Si sta delineando, ne deduco, una nuova tipologia di sessualità che prevede la “non penetrazione”. E qui scatta il rosicamento degli uomini ancien régime che per secoli hanno dovuto fare i conti con l’ansia da prestazione sul vigore di un’erezione a volte traballante. Invece, i ragazzini di oggi se la godono alla grande con qualche giochino qua e là. Vedo già le case farmaceutiche del Viagra e del Cialis dormire notti insonni. Sento già i perbenisti che, dovendo trovare qualcosa per cui scandalizzarsi, si scaglieranno contro il “famolo strano” perché, insieme alle quattro stagioni, sta scomparendo anche il classico rapporto sessuale. Non c’è più una certezza nella vita. Toglieteci pure la fantasia e siamo rovinati…Detto fatto. Vi ricordate i viaggi con la mente che si facevano, le fantasie erotiche sul primo appuntamento che sarebbe potuto finire a letto con tante coccole e abbracci (compresa la benedetta penetrazione)? Ecco, dimenticateli. Oggi, un ragazzo su quattro guarda i film hard per eccitarsi ed è sempre più diffuso l’invio di immagini o video hot, così come scattare foto durante l’atto sessuale per rendere intrigante il rapporto. I numeri sono talmente alti che gli esperti parlano di porno di massa. Il porno sta diventando mainstream? Sembra di sì. Il dio YouPorn, forse, è riuscito dove hanno fallito personaggi come Rocco Siffredi, Moana Pozzi e perfino Cicciolina in Parlamento: abbattere i pregiudizi e le inibizioni su questo argomento che perfino io, 40enne libera (ma pur sempre analogica) provo.
Maria Elena Barnabi per cosmopolitan.com l'1 novembre 2019. Tutto è cominciato poco meno di un annetto fa. Il magazine americano The Atlantic fece un’inchiesta enorme intitolata “The Sex Recession. Why Are Young People Having So Little Sex?” dichiarando che i millennial americani facevano meno sesso rispetto alle generazioni precedenti. La notizia fece il giro del mondo e importanti quotidiani internazionali e italiani la riportarono: “Come i giovani possono uscire dalla recessione sessuale” (The Times); “Niente sesso, siamo Millennial: perché oggi i giovani hanno meno rapporti” (Corriere della Sera). Ora, siccome scrivo di sesso da 20 anni, e in questi 20 anni ho percepito un cambiamento epocale nel costume e siccome Cosmo è una finestra privilegiata (il sesso sui giornali l’abbiamo portato noi!), questa storia della sex recession non mi convinceva mica tanto. Ma come, c’è Tinder, c’è la videochat, c’è il porno free, ci sono i sex toy, c’è tutta la libertà del mondo, e i giovani non fanno sesso? Così ho indagato, e ho scoperto che in Italia le cose stanno andando diversamente.
Cominciamo dai numeri. La prima ricerca che mi sono studiata da cima a fondo è “Rapporto Censis-Bayer sui nuovi comportamenti sessuali degli italiani”, presentata in Senato lo scorso 23 maggio. Indaga il sesso dei 18-40enni italiani, mettendo a confronto le loro risposte con quelle date 20 anni fa. Quando ho chiamato la psicoterapeuta e sessuologa Roberta Rossi, presidente dell’Istituto di sessuologia clinica di Roma e autrice del libro Vengo prima io. Guida al piacere e all’orgasmo femminile (Fabbri, e 17) e le ho chiesto se secondo lei in Italia c’era la recessione sessuale, mi ha riso in faccia.
«È una bufala, la sex recession in Italia non esiste. I giovani di oggi fanno più sesso rispetto a quelli di ieri. Lo fanno più spesso, con più partner e soprattutto in modo più vario, perché il sesso non è più solo “genitale”, non è più solo il rapporto “pene-vagina”: ha mille sfumature, c’è la masturbazione reciproca, il sesso orale, il bdsm. Viene percepito come un gioco. Dobbiamo tenerne conto quando facciamo le ricerche».
Dice Ambra, 27 anni: «Io ed Edoardo ci siamo visti per due anni ogni volta che tornavo a casa dall’università. Abbiamo avuto solo due rapporti tradizionali, insomma “completi”. Il resto delle volte lo passavamo con lui che mi sculacciava. Quelle lunghe sessioni di spanking per me erano sesso». Insomma non c’è dubbio: per i giovani oggi “fare sesso” ha un’accezione molto più ampia di ieri. Ti ci ritrovi in questa descrizione? Bene, guarda i dati e scoprirai di essere nella maggioranza. Oggi si fa sesso due o tre volte alla settimana il 44,1% contro il 36,9% di 20 anni fa. Non solo, è anche aumentato il numero delle persone con cui si va a letto: una volta una donna su due aveva avuto solo un partner. Oggi invece la media per il 44,6% è 2-5 partner (prima era il il 37,2%). La maggior parte degli uomini invece (40,5%) dice di averne avuti più di 6 (20 anni fa era il 32,4%). Se ti stai chiedendo quante femmine dichiarano più di 6 partner nella vita (dammi un cinque sorella!), sappi che sono il 15,8% (era il 12,7%). Dato in controtendenza: aumenta il numero di chi non fa sesso, dal 5,4 al 10,2%. Millennial e generazione Z sono molto aperti: il threesome riguarda il 13,1%, contro l’1,8% di ieri. Il bdsm era sconosciuto (0,5%) venti anni fa, oggi lo pratica il 12,5% (hello Cinquanta sfumature!). Qualche anno fa scrissi per Cosmo un pezzo intitolato “Sono rimasta l’unica a non fare sesso anale?”, che partiva da un dato in crescita: sotto i trenta l’anal era una delle pratiche più amate. Ebbene le cose sono addirittura cresciute: oggi uno su tre dei giovani pratica regolarmente il sesso anale (33,1%). Oggi, sempre secondo la ricerca Censis-Bayer, il sesso orale lo fa l’80%, la masturbazione reciproca il 67%, il 61,2% guarda video porno da solo, il 46,9% ama il dirty talk, uno su quattro guarda video hard con il partner. Anche il sondaggio fatto dalle nostre sorelle di Cosmo America va in quella direzione: il 20% ha provato il bdsm, il 35% l’anal. Mica mi potevo fermare a una sola ricerca: mi sono studiata i dati dell’indagine del 2018 “Giovani e sesso: dal noi all’io” di Eurispes (il campione aveva 18-30 anni). Anche questo studio conferma che il sesso oggi è pieno di varianti: 6 su 10 fanno texting (3 su 4 con il partner), il 42,8 usa sex toy, soprattutto in coppia. Il dato mi è stato confermato anche da due store (MySecretCase, solo online, e Zou Zou Store di Roma, fa anche ecommerce): i più venduti sono i sex toy di coppia. Tornando alla indagine di Eurispes, 6 giovani su 10 fanno sesso occasionale, e tra gli sposati il 44% ammette di concederselo. Non a caso va benissimo un sito di incontri extraconiugali come Gleeden (età media 30-35 anni, conta 5 milioni di iscritti nel mondo). E io che credevo che i giovani fossero idealisti e che il tradimento fosse roba più da generazione X…
Capitolo trombamici: più della metà ne ha almeno uno, e quasi il 25% dice di averne da 2 a 5. Come si trovano? Sulle dating app: metà degli iscritti di Tinder ha 18-25 anni e ogni giorno dà origine a 25 milioni di “match”, mentre Meetic, solo in Italia (ma è un dato del 2015) conta 9 milioni di iscritti. «Happn, Tinder, Her… Le ho tutte! Uso le dating app quando sono a Roma, a casa sul divano, ma soprattutto quando vado all’estero per lavoro. È un modo veloce per non passare le serate da sola», racconta Sofia, 30 anni. «Questo fa di me una persona superficiale? Non credo: io esco solo con persone con le quali ho cose in comune: il segreto è fare un profilo il più vicino possibile a quello che sei davvero».
Ho chiesto ad Alberto Mattiacci, presidente del comitato scientifico di Eurispes, un commento: «Il sesso è un bene di consumo come tanti altri. I giovani di oggi sono nati negli Anni Ottanta, o dopo, e stanno realizzando i valori consumistici con cui sono stati cresciuti. Per i giovanissimi poi, quelli della generazione Z, sessualmente qualsiasi cosa è possibile. In più, in vent’anni, la pressione sociale di realizzare una famiglia tradizionale è crollata: i giovani non fanno figli non perché c’è la crisi economica, ma perché non se la sentono di prendere un impegno così gravoso. Vogliono godersi la vita, e rimandano verso i 40 anni la grande decisione. A cosa porterà tutta questa libertà sessuale? Non so ancora. Spero a persone più consapevoli».
Quindi ricapitolando: oggi si fa più sesso di ieri, con più “ammennicoli” e con più persone. Tutti felici? Al contrario. Il #meetoo, oltre a portare la discussione sul consenso esplicito, ha aperto una finestra anche sul cosiddetto “bad sex”. E pare che ne giri parecchio, ultimamente. Ricordi quella volta che eri uscita con il nuovo match di Tinder, e lui non sapeva “letteralmente” da che parte prenderti?
Ecco, stiamo parlando di quello. «Consolati: succede a tantissime, sapessi quante ragazze mi scrivono per lamentarsi, dicono che i maschi non sono capaci, e loro si guardano bene dal dire qualcosa perché non vogliono ferirli», dice Yuri Sterrore aka Gordon, 29 anni, che con le sue 2,5 milioni di follower e la sua trasmissione Il Club delle Sottone, dalle 13 alle 14 sulla web radio Rds Next, ha un punto di vista privilegiato da sempre. «Per molti ragazzi della mia età il sesso è arrivare diritti al risultato. Ma le donne se non le prendi con il cervello, non c’è niente da fare». Rincara la dose Violeta Benini, ostetrica superstar di Instagram (ha 65mila follower), che da pochissimo ha organizzato la prima riunione di sesperti, cioè sessuologhe, sex blogger, attiviste del porno, comunicatrici che sui social parlano di sesso. «Ho la percezione che sia cambiato il modo di vivere la sessualità. Oggi se non lo fai, sei una sfigata. Come se fosse “un obbligo” avere rapporti sessuali. Così però si rischia di saltare le tappe che invece possono essere utili per conoscersi meglio». Insomma spesso manca la consapevolezza: è vero, non c’è sex recession, ma non sempre il sesso è bello. «Sono convinta che questo problema nasca anche dalla mancanza di un programma di educazione sessuale nelle scuole italiane», riprende la psicoterapeuta Roberta Rossi: «In Europa siamo forse quelli messi peggio». A supplire una carenza di questo tipo, sui social ultimamente sono nate molte pagine che si dedicano all’educazione sessuale: una delle realtà più interessanti è il collettivo Virgin & Martyr (36mila follower, metà dei quali nella fascia 18-25 anni) che promuove informazione sessuale e “per stare bene con il proprio corpo”. Dice la fondatrice Greta Tosoni, 22 anni: «Il sesso è un argomento che interessa moltissimo, anche ai giovanissimi: vogliono sapere come si fa e le precauzioni da usare, ma soprattutto cercano la legittimazione del piacere, sapere che è normale». Anche perché spesso l’educazione sessuale viene dal porno: secondo l’indagine Osservatorio Educazione Sessuale Durex-Skuola.net del 2019 (fatta su oltre 10mila ragazzi dagli 11 agli oltre 25 anni), il 67% dei ragazzi tra i 15 e i 18 anni guarda video hard. E questo ci porta dritte dritte a un altro problema di questa “non recessione sessuale”: i metodi contraccettivi sono i grandi assenti. Il 69,3%, secondo la ricerca Censis-Bayer, ha avuto rapporti non protetti, per vari motivi (il 60% per la ricerca Eurispes). Per chi come me è cresciuto negli Anni 80 con il terrore dell’Hiv, usare il preservativo era un obbligo morale. Oggi non è più così: l’Hiv viene percepito come un problema superato. «È vero che con le pratiche alternative, dal sesso orale al bdsm, il rischio di gravidanze non c’è», conclude la sessuologa e psicoterapeuta Roberta Rossi. «Ma permane comunque il rischio di malattie sessualmente trasmesse, tutte in aumento, dalla sifilide al papilloma, che tra l’altro sembra anche il responsabile della crescita del cancro alla gola». Insomma, c’è solo il preservativo a separare te dalla perfezione: perché non usarlo sempre? Ps: per quanto riguarda poi l’altro problema, quello del bad sex, hai due soluzioni: o scappare, o restare e spiegargli come funziona il clitoride. Te ne saremo tutte eternamente grate.
Tra social e altre amenità non scopano più...Il Giornale Off il 08/10/2019. I ragazzi non scopano più – tra netflix, social, youporn e altre amentità, un giovane italiano su dieci non fa sesso. tra i maschi la percentuale sale all’11,6%. in realtà non è solo colpa di internet, c’entra anche il nuovo approccio della “non penetrazione”. Il porno sta diventando mainstream? Sembra di sì. Il dio YouPorn, forse, è riuscito dove hanno fallito personaggi come Rocco Siffredi, Moana Pozzi e perfino Cicciolina in Parlamento: abbattere i pregiudizi e le inibizioni su questo argomento che perfino io, 40enne libera (ma pur sempre analogica) provo. Partiamo da un dato: secondo il rapporto Censis-Bayer 2019 sui nuovi comportamenti sessuali degli italiani, un ragazzo su dieci non fa sesso e, nei maschi, la percentuale sale fino all’11,6%. Detto così, potremo cominciare con la solita solfa: tutta colpa dei social, i giovani passano tutto il giorno in rete e trascurano i rapporti (in senso strettissimo!) con i coetanei. Spulciando bene, però, emergono altre percentuali; ad esempio, scopriamo che l’80,7% dei ragazzi si diverte con il sesso orale e il 67% con la masturbazione reciproca. Sono inoltre in aumento i rapporti bdsm, comprese la sottomissione e la dominazione. Si sta delineando, ne deduco, una nuova tipologia di sessualità che prevede la “non penetrazione”. E qui scatta il rosicamento degli uomini ancien régime che per secoli hanno dovuto fare i conti con l’ansia da prestazione sul vigore di un’erezione a volte traballante. Invece, i ragazzini di oggi se la godono alla grande con qualche giochino qua e là. Vedo già le case farmaceutiche del Viagra e del Cialis dormire notti insonni. Sento già i perbenisti che, dovendo trovare qualcosa per cui scandalizzarsi, si scaglieranno contro il “famolo strano” perché, insieme alle quattro stagioni, sta scomparendo anche il classico rapporto sessuale. Non c’è più una certezza nella vita. Toglieteci pure la fantasia e siamo rovinati…Detto fatto. Vi ricordate i viaggi con la mente che si facevano, le fantasie erotiche sul primo appuntamento che sarebbe potuto finire a letto con tante coccole e abbracci (compresa la benedetta penetrazione)? Ecco, dimenticateli. Oggi, un ragazzo su quattro guarda i film hard per eccitarsi ed è sempre più diffuso l’invio di immagini o video hot, così come scattare foto durante l’atto sessuale per rendere intrigante il rapporto. I numeri sono talmente alti che gli esperti parlano di porno di massa. Il porno sta diventando mainstream? Sembra di sì. Il dio YouPorn, forse, è riuscito dove hanno fallito personaggi come Rocco Siffredi, Moana Pozzi e perfino Cicciolina in Parlamento: abbattere i pregiudizi e le inibizioni su questo argomento che perfino io, 40enne libera (ma pur sempre analogica) provo. – fonte Dagospia. Mutatis mutandis, è quanto anticipatamente ha scritto Fabrizio Fratus sul numero in edicola di CulturaIdentità, il quale aggiunge datti alla mano che quando aumenta la pornografia è costante il calo demografico: le persone dipendenti da pornografia non hanno la percezione del loro progressivo allontanamento dai doveri verso il coniuge e i figli, con pesanti ripercussioni sul rapporto di coppia, che si atomizza e si disgrega. L’iperindividualismo ha prodotto un costante interesse rivolto a se stessi, tanto che sposarsi non ha più alcun senso e la pornografia ha contribuito a questo processo di disaggregazione.
VISTO CHE OGGI SI SCOPA POCO, DIAMO UN'OCCHIATA ALL’EROTISMO DEL FUTURO. Emanuela Minucci per “la Stampa” il 26 luglio 2019. Virtuale, liquido, tecnologico? Aperto, distopico, on demand? Come sarà il sesso (o il non-sesso) del futuro? Senza partner, fedelissimo, o a tu per tu con un robot? È una delle grandi domande del nostro tempo. Per afferrare una risposta - seppur sfuggente come una goccia di mercurio - il trampolino dell' ultimo rapporto Censis-Bayer sui nuovi comportamenti sessuali degli italiani potrebbe non essere sufficiente. «Esaminare il qui ed ora - spiega Roberta Rossi, Presidente della Federazione italiana di sessuologia scientifica - è utile ma non basta. La "vision" per immaginare la direzione che imboccherà il sesso del futuro procede di pari passo con tutte le variabili sociali».
Lo studio. Ci sono però conquiste o novità che rappresentano uno spartiacque, così come fu l' invenzione della pillola anticoncezionale nata nel 1961 e oggi utilizzata da 100 milioni di donne. Partendo da quella rivoluzione da buttare giù con un sorso d' acqua, ormai vecchia oltre mezzo secolo, il sito «Bbc Future» ha pubblicato qualche giorno fa un' inchiesta firmata dal giornalista Brandon Ambrosino intitolata «Siamo pronti per una nuova rivoluzione sessuale?». La risposta - articolata in una ventina di pagine, è, semplicemente, sì. E si fonda sull' esatta portata della fecondazione in provetta, sempre più diffusa in Occidente, che ha di fatto liberato le coppie dall' ossessione del rapporto sessuale finalizzato ad avere un figlio. Piacere puro Secondo le previsioni dei tecnici della materia, in un futuro non troppo lontano la provetta sarà la scelta più diffusa e si tornerà al sesso finalizzato al piacere puro. «Rapporti più ludici - aggiunge Roberta Rossi - svincolati dall' obbligo della nascita di un bambino, e alla libertà di posticipare l' idea di un figlio per motivi economici grazie al congelamento degli embrioni». Il laboratorio ci salva dalle «scadenze» degli ovuli e mette in freezer gli spermatozoi, si legge nel rapporto di «Bbc Futur», ma nel frattempo la società libera gli orizzonti della sessualità da altri tabù, sdoganando l' amore liquido, che passa con disinvoltura da un genere all' altro.
Fuori dagli schemi. I comportamenti erotici liberi da condizionamenti scardinano pure abitudini fino a qualche tempo fa tenute rigorosamente segrete, come la pratica del Bdsm per esempio, (acronimo di bondage, dominazione, sottomissione, sadismo e masochismo), che sono sempre più diffuse. In una prospettiva più lunga, la mancanza di inibizioni e la sessualità fuori dagli schemi che già caratterizza l' identikit erotico-affettivo 3.0 dei Millennials (loro si innamorano della persona, senza fare distinzioni di genere) è destinata in futuro a creare approcci e relazioni completamente inedite. Relazioni «primitive« A sentire Helen Driscoll, psicologa della sessualità e delle relazioni all' università di Sunderland, più o meno attorno al 2070 l' essere umano arriverà a considerare le relazioni fisiche come «primitive», una possibilità fra le tante per appagare i propri piaceri carnali. A fornire questa soddisfazione «cotta e mangiata», secondo l' esperta ci saranno proto-androidi raffinati e personalizzabili nel carattere e nelle fattezze. Insieme con questo esercito di robottini del sesso, altri canali in continua evoluzione, per ottenere e scambiare erotismo e passione. Le premesse di oggi si chiamano «sexting» (l' invio via web di immagini hot) «dating-app», siti d' incontri stile Tinder e sex-toys sempre più tecnologici.
Erotic-robot. Gli erotic-robot già oggi si stanno perfezionando a grande velocità: «Basta andare su Internet per acquistare - spiega Aimee van Wynsberghe, condirettrice della Fondazione per la Robotica Responsabile - sexy bambole molto sofisticate, ma è imminente l' arrivo di robot capaci di interagire con l' interlocutore in modo inaspettato». Umanoidi sessuali con un proprio caratterino in grado dialogare con il partner, coccolarlo, ma pure spiazzarlo con un gentile diniego. Molto presto, insomma, succederà che non si potrà fare sesso con il robot (o la "robotessa") perché l' umanoide avrà il mal di testa.
Queer. Se non ci si vuole ritrovare fra le braccia di un' anima gemella comandata da un software, le basi su cui costruire rapporti sempre più felici e liberi da pregiudizi ci sono, e lanciatissime: «Stiamo assistendo al recupero del sesso in quanto tale, fatto perché dà felicità, privo dall' ossessione di procreare entro una precisa scadenza, dei tabù sull' omosessualità. E spunta il comportamento che nasce dalle ceneri di antichi timori, pudori e reticenze: è lo stile "Queer", disinvolto, occasionale, sessualmente e socialmente eccentrico rispetto alle vecchie definizioni di normalità».
Luna park. L' altra faccia del nuovo «luna park sessuale» - la definizione è degli stessi sessuologi - resa sempre più varia e trasgressiva dalla galassia Internet, è l' aumento delle coppie bianche e dell' astinenza sessuale. Per la prima volta la crescita è suffragata proprio dai dati del rapporto Censis-Bayer sui nuovi comportamenti sessuali degli italiani: sarebbero un milione e 600 mila gli italiani nella fascia di età fra i 18 e i 40 anni che non fanno sesso. In vent' anni la percentuale è passata dal 3 all' 11,6 per cento del totale, mentre sono 220 mila le coppie che non praticano sesso pur definendosi completamente appagate e felici. Sembra un paradosso, ma l' area del no sex si amplia nello stesso momento in cui gli altri, quelli che non rinunciano all' eros, lo fanno più di frequente e con partner diversi e imprevisti. Che succederà fra mezzo secolo, quando gli umanoidi sessuali saranno programmati anche per lasciarci? Forse tornerà di moda l' attesa, quella fucina del desiderio che oggi nel mondo dei confini diluiti fra etero-omo e bi-sessualità, e del rapporto cotto e mangiato anche grazie a un clic del computer, è merce in via di estinzione, insieme con il sogno di una conquista impossibile.
Lo Spanking. Da RadioCusanoCampus il 7 ottobre 2019. La Sessuologa Rosamaria Spina è intervenuta nel corso del programma “Genetica Oggi” condotto da Andrea Lupoli su Radio Cusano Campus, riguardo il tema delle pratiche kinky e dello schiaffeggiare il partner fino a portarlo al piacere. "Le pratiche kinky -ha detto la Dott.ssa Spina- sono tutte quelle pratiche che un tempo erano considerate vere e proprie perversioni mentre oggi sono viste come del sesso non convenzionale. Riguardano tutta una gamma di situazioni e comportamenti che in parte includono anche il BDSM ma non solo, includono infatti anche giochi con la cera, lo spanking (lo sculacciamento) e una serie di giochi di ruolo sempre più spinti." "Lo spanking appunto è quella pratica che consiste nello sculacciare il partner che però sfrutta sia la dimensione della dominanza-sottomissione sia la dimensione del provare piacere attraverso il dolore, ricevuto o inflitto, che crea una combinazione fra eccitazione mentale e fisica. La base comune di queste pratiche è proprio la forte intesa mentale che si viene a creare fra i partner che mettono in atto queste pratiche, incluso lo sculacciamento. Non dobbiamo pensare che una donna si farebbe sculacciare da chiunque ma c'è una forte intesa mentale che porta a creare così tanta complicità con il proprio partner da arrivare a provare un forte piacere mentale e poi fisico, con relativo orgasmo." "Non dobbiamo però confondere lo sculacciamento durante la penetrazione con lo spanking e le pratiche kinky. Non è sempre detto che a seguito delle pratiche kinky o a seguito della sculacciata ci sia poi rapporto completo, l'eccitazione arriva proprio per la pratica stessa e non dal bisogno di penetrazione perché l'obiettivo non è quello, sono delle modalità alternative di provare piacere ed eccitazione e magari anche l'orgasmo. Ecco perché la componente mentale diventa particolarmente forte." "Un tipico gioco di ruolo all'interno dello spanking prevede che uno dei due partner 'ha fatto qualcosa che non doveva fare' e dunque va punito sculacciandolo. In questo gioco di ruolo si crea una forte complicità mentale che crea eccitazione e molto spesso permette sia all'uomo che alla donna di arrivare all'orgasmo. Questo ovviamente non esclude che si possa penetrare la partner durante lo sculacciamento, fattore molto erotizzante, ma non è la regola, anzi sono casi come detto prima ben diversi, il rapporto sessuale avviene quasi sempre dopo che lo sculacciamento è terminato. Queste pratiche sessuali hanno delle regole ben precise che vanno rispettate affinchè i partner possano sapere quello che succederà durante le pratiche stesse." "Da qualche anno a questa parte arrivano da me delle persone che sempre più spesso vogliono conoscerle meglio. Ho avuto pazienti con una preferenza per questo tipo di pratica, quella dello sculacciamento, ma ho avuto anche richieste da parte di chi voleva interrompere lo spanking perché lo viveva con frustrazione pur non potendone fare a meno." "Aggiungo inoltre che lo spanking da alcuni è fatto rigorosamente a mani nude perché desidera un contatto diretto con la pelle della persona, altri preferiscono usare oggetti con un contatto meno diretto ma più vigoroso. I glutei sono la parte principale ma non è escluso il coinvolgimento anche del seno, dell'addome o dei genitali."
C’È UNA DOMINATRICE DENTRO OGNI DONNA. Da cosmopolitan.com il 9 agosto 2019. Un mio amico, scrittore famoso e tombeur infallibile, ama fare lo schiavo delle sue amanti. E loro, più o meno giovani, più o meno ricche, più o meno famose, loro, tutte quante, amano brutalizzarlo: lo usano come posacenere, come bidet, come poggiapiedi, come lavapiedi, lo legano e ne usano la maschia virilità a loro piacimento, non so se rendo l'idea. Da principio, molte di loro neppure sanno di essere dominatrici. È lui che si insinua nelle loro menti, lui che le mette alla prova, lui che le sfida. Loro accettano dapprima incuriosite e poi, immancabilmente, si scoprono appassionate padrone. Io davvero non so cosa succeda nelle menti di queste donne, ragazze, signore distinte d'alto lignaggio, avvocatesse, dottoresse, soubrette della tv, non so quale sia il clic che questo mio amico fa scattare. Prima di conoscere lui, avrei detto che le donne erano più inclini a sperimentare l’energia bruta del maschio e a eccitarsi se prese con la forza: del resto da sempre una delle fantasie sessuali più diffuse nelle donne, lo dice il primo report mai fatto sull'argomento, lo storico Il mio giardino segreto. Le fantasie erotiche femminili di Nancy Friday del 1973, è appunto quella della violenza, dello stupro (astenersi commenti scandalizzati di neofite del femminismo: abbracciare senza giudizio le proprie fantasie sessuali è la cosa più femminista che una donna possa fare). Dicevo: credevo. E invece ho cambiato idea, perché tutte, a un certo punto, si scatenano e diventano delle stronze sadiche. Siccome, secondo natura, un maschio è sexy quanto più è forte, ho pensato che in realtà il mio amico è un dominatore attraverso la sua schiavitù. È lui che offrendosi come vittima le spinge a superare se stesse, a trovare cose innominabili dentro di loro. Non è plagio. È più, diciamo, una specie di maieutica. Quello che le sue donne amano, non è tanto l'espressione del potere, quanto la trasgressione legata all'espressione di potere. Poi di quella roba lì mica riesci a farne a meno, e infatti molte, quasi tutte, si innamorano di lui. Dopo un po’ lui si stufa e cambia. Alcune ci stanno male, altre no. Tutte conservano nel cuore quella roba lì che hanno scoperto di se stesse, e proseguono il loro percorso. In fin dei conti, non è poi così male come ricordo di una storia finita.
Da "tg24.sky.it" il 2 ottobre 2019. L’orgasmo femminile è uno dei fenomeni la cui funzione è da decenni al centro di vari studi e ricerche indirizzati a scoprire i misteri celati nella sua storia. Secondo una nuova ipotesi sarebbe stato uno stratagemma dell’evoluzione, nato e tramandato di generazione in generazione per favorire l'ovulazione. Questa nuova tesi, descritta sulla rivista specializzata Accademia delle scienze degli Stati Uniti (Pnas), è frutto di un studio condotto da un team di ricercatori delle Università di Yale e Cincinnati.
Lo studio nel dettaglio. Stando al parere dei ricercatori, nonostante non sia determinante ai fini riproduttivi, l’orgasmo femminile non si sarebbe sviluppato per caso. "Basti pensare ai casi di donne rimaste incinte durante uno stupro", spiega Chiara Simonelli, docente di Psicosessuosologia dell'università Sapienza di Roma. Per comprendere i meccanismi alla base del suo sviluppo, i ricercatori, coordinati dagli esperti Gunter P. Wagner e Mihaela Pavlicev, sono partiti da una teoria e hanno cercato di verificarla conducendo specifici test sugli animali. In diversi mammiferi, quali i conigli, i gatti, i cammelli e i furetti, l'ovulazione è indotta dal rapporto sessuale; questo però non avviene nell’essere umano e nei grandi primati. Secondo la nuova teoria, l’orgasmo femminile e i suoi meccanismi psicologici sarebbero ‘nati’ proprio per favorire l’ovulazione durante il rapporto sessuale emulando così il processo che avviene in molti animali. Se così fosse, i medicinali, quali la fluoxetina, che nelle donne agiscono sull'orgasmo umano dovrebbero avere un effetto simile sull'ovulazione negli animali nei quali quest’ultima è indotta dal rapporto sessuale. Per verificare la nuova teoria, i ricercatori hanno condotto dei test su dei conigli femmina, studiando l’effetto di due medicinali. È così emerso che la fluoxetina, somministrata prima del rapporto sessuale, ha comportato, al suo termine, una diminuzione del 30% del numero di ovulazioni. In un secondo test, dal quale non sono emersi particolari effetti, l’ovulazione negli animali è stata indotta con un’iniezione di un farmaco.
I risultati della ricerca. I risultati del test confermano la teoria dei ricercatori e suggeriscono che l’orgasmo femminile avrebbe un’origine evolutiva simile all’ovulazione indotta durante il rapporto sessuale dei conigli e di altri animali. "Sarei un po' cauta nel trasporre dei risultati dai conigli all'uomo. L'orgasmo femminile, come hanno dimostrato alcuni esperimenti passati, potrebbe avere una funzione facilitante, perché con le sue contrazioni aiuterebbe gli spermatozoi ad incontrarsi con l'ovulo”, spiega Chiara Simonelli.
PERCHÉ LE DONNE URLANO QUANDO RAGGIUNGONO L'ORGASMO? Veronica Mazza per cosmopolitan.com il 9 agosto 2019. Gemiti e urla di piacere: perché si fanno tutti questi rumori quando si fa l'amore? Basta guardare le scene cult dei film in cui si fa sesso, come quelle di Samantha in “Sex and the city” o quella dell’orgasmo simulato in “Harry ti presento Sally”: quando si prova piacere bisogna gridarlo! Certo ognuno lo fa con il volume che preferisce, ma siamo sincere, quando aumenta la tensione erotica, viene spontaneo emettere questi lamenti, che oltretutto danno una marcia in più all’eccitazione. A dare finalmente una risposta al fatto che il sesso si fa rumoroso è un articolo di Elite Day, che ha intervistato Jessica O’Reily, esperta di sessualità e di relazioni di coppia. “Fare questi rumori è una reazione naturale allo sforzo fisico”, spiega la dottoressa . "I polmoni rispondono all'eccitazione, che provoca una contrazione dei muscoli della laringe, ma ci lamentiamo anche per comunicare ciò che ci fa stare bene". Il gemito è un modo per dire al tuo (o alla tua partner) che cosa ti piace e come vuoi ricevere piacere. In pratica attivi un "tasto vocale" quello del piacere quando lui o lei ti tocca nel punto e nel modo giusto per te. Se stimola la tua zona erogena preferita, insomma, con i gemiti di piacere gli fai capire che sta facendo un ottimo lavoro (e che può continuare). Ma ci sono anche altri motivi che portano a emettere questi versi. “Le donne durante il sesso lo fanno per diverse ragioni”, continua O’Reily. “Non solo perché provano piacere, ma anche per accarezzare l'ego del loro uomo e per aiutarlo a raggiungere più velocemente l'orgasmo”. Siamo bombardati da immagini diffuse dai media che ci inducono a pensare che i gemiti siano associati sempre al culmine della passione, ma la cosa importante è evitare di simulare e di fingere un piacere che non proviamo. “I gemiti performativi portano fuori strada il tuo partner e ti fanno vivere un sesso “finto”, che non fa bene a nessuno". Ciò che importa è che tu stia bene con te stessa, devi sentirti libera di urlare di piacere o stare in silenzio se lo preferisci: il sesso rumoroso non è un obbligo per nessuno: emettere gemiti e rumori vocali è normale tanto quanto stare zitta durante la penetrazione, i preliminari e in ogni altra fase del sesso. I gemiti e i lamenti aiutano a comunicare al tuo partner che ti stai godendo il vostro incontro sessuale. Ma se hai voglia di restare in silenzio, non ti devi vergognare o sentire strana. “I suoni del sesso variano da persona a persona e dalle esperienze che si hanno avuto” afferma l’esperta. “Sia che tu abbia voglia di gridare quanto ti stai divertendo o semplicemente di respirare profondamente, sappi che sei perfettamente normale” . Magari sei timida e introversa e non hai voglia che ti senta tutto il vicinato? Puoi usare un cuscino o alzare la musica, evitando così inibizioni. "Lascia che i tuoi suoni fluiscano liberamente e persino esagerali mentre respiri. Per imparare a viverti al meglio il sesso rumoroso, un’ottima tecnica è l’autoerotismo, perché riesci a sentirti in tutti i sensi, senza avere nessun tipo di ansia da prestazione e paura di giudizi. Ti metti al centro della scena e puoi cantare liberamente ad alta voce, godendoti la tua performance da solita”, conclude la dottoressa.
GODO DA MORIRE. Da Agi il 7 agosto 2019. Un uomo di 33 anni è stato trovato morto nella casa dei suoi genitori a causa di un atto sessuale solitario che prevedeva l'uso di una maschera antigas e un sacchetto di plastica in testa. A documentare il bizzarro caso clinico è stato un gruppo di medici giapponesi in uno studio pubblicato sulla rivista Legal Medicine, con lo scopo di rivelare i pericoli che le persone corrono quando cercano di limitare le vie respiratorie mentre si masturbano. Il corpo dell'uomo è stato trovato da sua madre intorno alle 23 con indosso una tuta da lavoro con la cerniera abbassata, una maschera antigas su naso e bocca e una busta sulla testa. L'autopsia ha escluso il suicidio e ha affermato che la sua morte e' stata accidentale. Il rapporto chiarisce i pericoli dell'asfissia autoerotica, che consiste nel soffocare se' stessi per il piacere sessuale. L'uomo infatti era in buona salute, lavorava in un negozio di apparecchiature elettriche fino a rientrare a casa alle 20 per la cena. Dopo è andato nella sua stanza, nella casa in cui condivideva con i suoi genitori e la nonna, e nessuno lo ha visto pù fino a quando sua madre non lo ha ritrovato morto sul pavimento. I paramedici lo hanno portato di corsa in ospedale, ma i medici ne hanno confermato la morte a causa di soffocamento inflitto accidentalmente. Gli indizi sono chiari: oltre alla maschera, al sacchetto di plastica e alla cerniera abbassata, non indossava la biancheria intima. Non c'erano lesioni, non aveva problemi mentali e non aveva alcun motivo per suicidarsi. Invece, pare amasse pratiche sessuali particolari. Gli investigatori hanno trovato prove di un feticcio masochistico. Inoltre, sono stati trovati video su computer e riviste pornografiche nel suo armadio con immagini di persone legate o che indossavano tute di gomma. "A causa delle circostanze al momento della scoperta e del fatto che si è trattata di una morte improvvisa, abbiamo considerato la causa della morte come soffocamento", spiegano Hiroshi Ikegaya e il suo team. Può volerci meno di un minuto per perdere i sensi per mancanza di ossigeno e si può soffocare in pochi minuti. Questo, secondo i medici giapponesi, evidenzia il pericolo in cui le persone si mettono quando influiscono sulla proprio respirazione per provare piacere sessuale. Gli studiosi hanno anche fornito vari altri esempi di persone morte in Giappone in modi simili e ha affermato che i tassi variano in tutto il mondo da 0,1 a 0,6 morti su un milione di persone. E hanno affermato che le loro ricerche sono utili perché forniscono informazioni su ciò che la polizia e i coroner dovrebbero cercare nel determinare una causa di morte e perché fanno luce su come l'asfissia autoerotica in Giappone è simile a quella di qualsiasi altra parte del mondo.
“CHI VA CON LE SEX DOLL RISCHIA DI NON FARE PIÙ SESSO CON PERSONE REALI...” Da Radio Cusano Campus il 5 luglio 2019. La Sessuologa Rosamaria Spina è intervenuta nel corso del programma “Genetica Oggi” condotto da Andrea Lupoli su Radio Cusano Campus, riguardo il boom delle sex dolls e dei "sexy bambolotti". "Le sex dolls si sono molto evolute nel tempo fino a diventare un personaggio uomo o donna a tutti gli effetti, simulano in tutti i dettagli quello che può essere fisicamente un uomo o una donna al fine di corrispondere ai gusti di chi la compra. Sono molto costose perché si può scegliere tutto: dal colore dei capelli alla grandezza del seno. Ci sono modelli che simulano anche il calore del corpo umano e possono assumere svariate posizioni muovendo gli occhi come una persona in carne ed ossa. L'acquirente di queste bambole non cerca solo un oggetto sessuale ma spesso una compagna di vita che va a sostituire, in un certo senso, quello che può essere un rapporto relazionale e personale con un altro essere umano, non si vuole solo un oggetto sessuale ma una partner a tutti gli effetti con cui condividere un'esperienza certamente sessuale ma anche sensoriale e relazionale." "A livello sessuale le sensazioni che si provano durante la penetrazione di queste bambole sono molto simili a quelle di un corpo vero, vivo e reale, perché le caratteristiche anatomiche sono molto simili a quelle umane, la struttura del canale vaginale è realizzata con sostanze che l'avvicinano alla vagina di una donna vera. Le sensazioni fisiche corrispondono dunque molto a quelle di una penetrazione e di un rapporto sessuale con una donna in carne ed ossa. A livello psicologico si viene a creare anche in questo caso un coinvolgimento molto simile al reale, se un uomo infatti compra una bambola del genere, che ha un costo molto elevato, è sicuramente un uomo con difficoltà a confrontarsi con le donne nella vita reale. Dunque probabilmente avere questa bambola gli da l'impressione di avere una relazione con una donna. Non possiamo parlare infatti di una forma evoluta di masturbazione anche perché ci sono tanti sex toys che danno dal punto di vista sensoriale lo stesso effetto, qui parliamo della ricerca specifica di un contatto 'umano'. Il rischio è che alla fine la persona faccia sesso solo con queste bambole e non più con donne reali. Anche perché come dicevo già in partenza abbiamo individui predisposti a questo. La bambola gonfiabile del passato veniva comprata solo per fare autoerotismo e poi veniva gettata via, anche perché durava molto poco, questi sono prodotti fatti per durare nel tempo con l'obiettivo di creare un legame con l'acquirente." "I curiosi che provano del sesso con queste bambole potrebbero comunque rischiare di restare 'invischiati' dal prodotto stesso e scoprire che per alcuni versi, paradossalmente, potrebbe essere anche più appagante di un rapporto vero non avendo nemmeno obblighi morali." "Esistono anche bambolotti per le donne con una erezione perenne. E' un mercato in fase di evoluzione ma ci fa capire che anche le donne potrebbero optare per un bambolotto invece che con una persona vera. Si rischia meno 'l'effetto partner' come per gli uomini anche perché una donna si masturba meno rispetto ad un uomo e ha un approccio diverso al sesso. Per una donna maneggiare poi un bambolotto sessuale presenta maggiori difficoltà soprattutto perché alcuni modelli pesano quasi come un uomo. Lo si potrebbe cavalcare ma con una posizione del missionario diventa tutto più scomodo e meno piacevole."
DAGONEWS il 6 luglio 2019. Siete separati dal vostro partner per lunghi periodi e la distanza sta distruggendo il vostro rapporto? Se il problema è la mancanza di intimità, niente paura perché alla quarta Conferenza internazionale sull'amore e il sesso con i robot di Bruxelles si è parlato di un dispositivo che renderebbe il sesso a distanza una realtà. Teledildonics, che sviluppa smart sex toys controllati da pc, ha inventato "Play Me", un nuovo dispositivo costituito da una minuscola sonda anale collegata a un sensore di pressione e una tuta con vibratori integrati. Il dispositivo consentirebbe alle persone separate dalla distanza di condividere intense esperienze sessuali. Il matematico e scienziato Rudolf Arnold ha spiegato: «Quando entrambi i partner indossano i dispositivi, è possibile uno scambio di emozioni e sensazioni corporee in tempo reale». Molto spazio, ovviamente, è stato dedicato alle sex doll che in futuro diventeranno sempre più realistiche e, per alcuni, potrebbero arrivare a sostituire un partner reale. «Nel futuro – dicono gli sviluppatori - queste bambole saranno sempre meno robotiche e sempre più reali, arrivando anche a interagire e creare un rapporto sentimentale. Il loro comportamento diventerà più realistico tanto da farci credere che ricambiano il nostro affetto. Non solo ci ascolteranno ma saranno in grado di sostenere una conversazione e di essere sensibili ai nostri sorrisi. A questo punto, molte persone potrebbero trovarsi di fronte al partner perfetto: i robot danno e non chiedono nulla in cambio. Per alcuni potrebbe essere l'amore ideale».
Fabrizio Maria Barbuto per Libero Quotidiano il 6 luglio 2019. Le dimensioni del membro di Rocco Siffredi sono bastate a decretare l' affermazione dell' abbruzzese nel settore della pornografia, ma se pensate che i suoi 24 cm siano una dotazione di serie più che ragguardevole, sappiate che, al mondo, v'è un uomo i cui gioielli di famiglia superano del doppio quelli del pornodivo: il pene di Roberto Esquivel Cabrera è lungo 48 cm, ma il 52enne messicano ha ben poco di cui bearsi. Il suo primato rappresenta un vero handicap e, anziché irretire le donne, finisce per spaventarle, condannandolo a lunghi periodi di astinenza dal sesso. L' uomo, oltre a fare richiesta di pensione di invalidità, ha effettuato una radiografia 3D del suo notevole attributo, attraverso la quale dà il benvenuto sul suo profilo Facebook. Fatevi un' idea.
Hikikomori. Agnese Ananasso per La Repubblica il 20 luglio 2019. L’estate per la maggior parte delle persone è sinonimo di vacanze, svago, sole e mare. Per alcuni invece si trasforma in un vero e proprio incubo, in particolare per gli adolescenti “ritirati”, o “Hikikomori”, un temine giapponese che indica il fenomeno del ritiro sociale, particolarmente diffuso in Giappone soprattutto tra i giovani ma non solo: i ragazzi, ma anche gli adulti, non si identificano con i valori della società e dei propri coetanei e decidono piano piano di “ritirarsi” nella propria stanza. “I giovani Hikikomori hanno il terrore di spogliarsi” spiega Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, docente presso il dipartimento di Psicologia dell’Università Bicocca di Milano e presidente dell’associazione Minotauro di Milano. “La fobia dello spogliarsi dipende dalla vergogna del proprio corpo e della sessualità. Noi adulti abbiamo sempre avuto una visione della sessualità condizionata dalla società sessofobica del passato. Nelle nuove generazioni invece si è perso interesse nel sesso, a causa di una progressiva pornografizzazione: c’è più bisogno di sexthing più che dello scambio sessuale fisico vero e proprio”. Nei ritirati il tema del sesso viene rifiutato, tant’è che è il terapista che deve introdurre l’argomento. “Per loro è un incubo come lo è l’estate, in quanto stagione in cui si è ‘costretti’ a spogliarsi per andare in spiaggia, scoprendo il proprio corpo” continua Lancini. “In teoria dovrebbe essere un periodo più ‘leggero’ perché si allenta la tensione scolastica, elemento che gli Hikikomori avvertono in modo molto spiccato perché soffrono la tacita richiesta della famiglia di essere performanti. In una situazione del genere occorre non forzarli a fare nulla, neanche ad andare in spiaggia o in piscina”. Chiudersi nella loro stanza dà ai ragazzi la possibilità di proteggersi e sentirsi a proprio agio, anche accedendo al porno online, soprattutto a quello amatoriale, dove i corpi non sono più scolpiti e perfetti ma “normali” e imperfetti. “Oggi assistiamo a un disallineamento tra pubertà fisica e psichica, a una precocizzazione delle esperienze ma senza una reale anticipazione nella sessualità” continua Lancini. “Oggi i bimbi sono spinti a essere creativi, performanti, a non stare mai da soli, mai fermi, poi quando arriva l’adolescenza si assiste a un crollo delle aspettative, a partire dal dover convivere con il proprio corpo reale, di cui ci si vergogna. Aumentano così i casi di cutting, disturbi dell’alimentazione, di suicidio, di ritiro. Cosiccome tagliarsi è un modo per mettere a tacere il dolore interiore, il ritiro è un rimedio contro la vergogna e il dolore interiore. E spesso i giovani non parlano di questo dolore ai genitori perché non vogliono preoccuparli e angosciarli.”. Le famiglie si ritrovano ad avere a che fare con degli sconosciuti e non hanno gli strumenti per poterli aiutare, se non il coraggio di accettare questo comportamento come un’espressione di disagio, ascoltando e comprendendo questo dolore, senza sminuirlo. “È inoltre importante ricostruire dei modelli educativi che coinvolgano di nuovo il corpo nelle attività quotidiane” afferma l’esperto. “La scuola ha perso troppo tempo a vietare i cellulari invece di impiegarlo per ricostruire interessi e modelli in cui vita reale e virtuale si intreccino. Genitori ed educatori hanno perso via via autorevolezza perché non si sono adeguati alla complessità della nuova realtà. L’adolescente si chiede perché gli adulti possano usare internet e lui no. Allora propongo di dare noi adulti il buon esempio, smettendo di fare foto in continuazione per esempio: non possiamo proporre un modello da seguire e poi rinnegarlo. Non ha senso adultizzare l’infanzia e infantilizzare l’adolescenza perché così corriamo solo il rischio di perdere credibilità. Dovremmo anzi dovremmo educarli a usare gli strumenti tecnologici in modo adeguato”.
SESSO TANTRICO. Viviana Persiani per “Libero quotidiano” il 4 luglio 2019. Più o meno, ogni estate, la scena è sempre quella. Lui si avvicina, ti fa capire che, insomma, gli piacerebbe coricarsi con te e tu, gocciolante di sudore, per colpa di una umidità che neanche in Brasile, alle 13, gli ricordi il famoso tormentone del 2002, quello che lanciò Luisa Ranieri al grande pubblico: «Anto', fa caldo». Ma lui, imperterrito, ti dice: «accendiamo il ventilatore». Eh già, così mi becco pure il colpo della strega, ti viene subito da pensare, ma si sa che gli uomini, quando hanno il chiodo fisso, è dura. Non è che il mal di testa lo puoi utilizzare sempre come scusa, così come il fatto di doversi alzare presto il giorno dopo, visto che la scuola è chiusa e tu, magari sei pure in ferie. Insomma, te tocca. Magari, fino ad ora, confidi nel fatto che la durata media di un rapporto sessuale, a livello mondiale, è di 5 minuti e 24 secondi (purtroppo, senza preliminari) e che il tuo compagno si collochi nella parte bassa della scala, quella che parte dai 33 secondi, provando un po' di compassione per le donne che, col caldo, si devono sobbarcare quella alta, che arriva fino a 44 minuti. Certo, l' età, in questi casi, aiuta (al contrario), nel senso che l' esperienza non allunga i tempi sul giro, ma li riduce. Perfetto; però, ecco che la sessuologa Rosamaria Spina, intervenendo, in settimana, nel corso del programma "Genetica Oggi", condotto da Andrea Lupoli, su Radio Cusano Campus, ha aperto le porte del Nirvana per i maschietti in ascolto. La parola magica è sesso tantrico che si traduce nella possibilità di avere rapporti sessuali della durata di alcune ore. Come ha spiegato la nota esperta: «Il sesso tantrico ci dice che, a parte l' orgasmo, un incontro di coppia è fatto di molto altro come la complicità, l' intesa e una comunicazione molto più profonda, mentale e psicologica. Tecnicamente la posizione ideale per il sesso tantrico è quella definita "Unione del Fiore di Loto" dove troviamo l' uomo seduto con la donna seduta su di lui, in braccio. Generalmente seduto in posizione comoda visto che il rapporto durerà anche diverse ore. Il sesso tantrico sfrutta la fisicità e la penetrazione per entrare in un mondo mentale. Il rapporto come detto può durare diverse ore e possiamo dare dei consigli agli uomini presi dal Tantrismo stesso e dalla psicologia per aumentare la durata della penetrazione nell' uomo e ovviamente del rapporto sessuale». Per dire, Sting diceva di poter arrivare fino a sette ore di seguito, con la propria partner. E se voi, incuriositi, provate a fare una ricerca su Internet dove troverete fior di articoli che vi spiegano in cosa consisterebbe questa pratica, anche sessuale. Prendere consapevolezza del proprio corpo, centimetro dopo centimetro (donne, necessaria la ceretta, altrimenti lui si scoraggia); massaggiarsi reciprocamente; eseguire esercizi tantrici per seguire lo stesso ritmo del partner; liberare la voce, evitando di tenere i suoni dentro di sé. Prima che facciate confusione, non si tratta di posizioni del kamasutra, che è un' altra cosa. Per dire, quella descritta dalla Spina, del Fior di Loto, non dovrebbe essere così complicata, ma richiede solo grande pazienza. Tra le varie posizioni suggerite, vi è anche quella della sedia bollente, ma il caldo di questi giorni non ha nulla a che vedere. Entrambi i partner sono inginocchiati, con l' uomo alle spalle che spinge, in modo che i due corpi si ritrovino schiacciati; toccherà alla donna, poi fare movimenti circolari con i fianchi, alternandoli a pause regolari. Come suggerisce la Spina: «Il sesso tantrico poco si addice agli uomini che soffrono di ansia da prestazione perché c' è bisogno in primis di relax, con un ambiente confortevole. L' attenzione va completamente spostata dalla prestazione all' unione e all' intesa di coppia, la prestazione nel sesso tantrico è all' ultimissimo posto anche perché non è detto che dopo ore di rapporto ci sia l' orgasmo e l' eiaculazione. Quindi nell' uomo il consiglio è non dare una prova di vigore ma godersi il contatto con la partner in un ambiente accogliente, confortevole e rilassato con una temperatura controllata e senza rumori di fondo». Magari, lasciate solo quello del ventilatore.
Emergenza «chemsex», il sesso potenziato dalle sostanze stupefacenti. A Milano un gruppo dedicato in modo specifico all’aiuto di chi ha sviluppato una dipendenza. Rischi infettivi, e non solo. Nadia Galliano il 26 luglio 2019 su Il Corriere della Sera.
Un fenomeno «sommerso». Un gruppo di supporto psicologico a sostegno delle persone con dipendenza da «chemsex», l’uso di specifiche sostanze stupefacenti a scopo sessuale diffuso soprattutto nella comunità Msm (omosessuali maschi attivi). Una sperimentazione che l’associazione A.S.A. onlus (Associazione Solidarietà Aids) ha avviato a Milano da quest’anno per far fronte alle richieste di aiuto che le sono pervenute. «È un fenomeno emergente, in gran parte ancora sommerso» spiega Giorgia Fracca, psicanalista ALIpsi (Associazione Lacaniana Italiana di Psicoanalisi) e psicoterapeuta in A.S.A., ideatrice del gruppo, a cadenza settimanale. «Negli ultimi anni sono cresciute le domande di aiuto alla nostra attenzione. Quest’anno abbiamo deciso di creare un primo gruppo psicoterapeutico ma la speranza è che ne possano nascere altri in città con cui fare rete».
Falso senso di empatia. Pochi sono i dati italiani ed europei sul chemsex. Nel 2010 il sondaggio Emis (European MSM Internet Survey) condotto in 44 città europee segnalava un 20 per cento dei soggetti MSM intervistati come utilizzatore di «chems» - le sostanze stupefacenti utilizzate allo scopo - nelle quattro settimane precedenti l’indagine. «Le sostanze psicotrope eccitano e disinibiscono, incrementando il desiderio sessuale e creando un falso senso di empatia - chiarisce Giorgia Fracca -. Per chi entra in questo vortice, l’uso dei chems diventa la base delle relazioni interpersonali legate alla sessualità». Il rischio maggiore riguarda i più giovani, ragazzi dai venti ai trent’anni, inconsapevoli della dipendenza a cui vanno incontro.
Sesso chimico. Ne giustificano l’uso con la capacità di utilizzare le sostanze nel weekend senza apparenti difficoltà durante il resto della settimana. Convinzione che si rivela tutt’altro che veritiera sul medio e lungo termine, portando alla dipendenza. «Alla domanda: “Quand’è stata l’ultima volta che hai avuto un rapporto sessuale senza sostanze?” faticano a ricordarlo» puntualizza Fracca. Finora sono otto gli iscritti al gruppo in A.S.A., aperto fino a un massimo di dodici partecipanti. Molte le storie che hanno condotto gli utenti a sperimentare il sesso chimico, ma «le ragioni scaturiscono prevalentemente da una condizione di solitudine, una mancata accettazione della propria sessualità oppure un rifiuto da parte dei familiari. Spesso i più giovani non hanno ancora superato la cosiddetta omofobia interiorizzata, legata al rapporto con la propria sessualità» generando un’inefficace accettazione di se stessi alla base delle complicanze psico-sessuali.
Desiderio falsato. «Nei chemsex party» continua l’esperta «è facile trovare attraente chiunque dopo una certa ora. Il desiderio sessuale è falsato dall’uso delle sostanze stupefacenti». Così come lo è la sensazione di essere accettati da una comunità. Oltre alla dipendenza psico-fisica, il chemsex rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di malattie a trasmissione sessuale e disturbi psichiatrici. Lo conferma David Stuart, ideatore del termine chemsex, responsabile dei programmi dedicati al benessere sessuale e al supporto dei soggetti dipendenti dal chemsex presso il 56 Dean Street, clinica per la salute sessuale e il trattamento dell’Hiv nel cuore di Londra, parte del Chelsea and Westminster Hospital Nhs Foundation Trust.
Cocaina a Roma. «I dati dimostrano che è molto spesso associato allo scarso uso del preservativo, al numero più elevato di partner sessuali, all’aumento degli accessi di emergenza negli ospedali, alle psicosi, alla dipendenza e ai decessi». Un processo meritevole di attenzione su più fronti, clinica e istituzionale. Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio: «A Roma la cocaina base o basata, detta “crack”, è molto comune nei contesti sessuali tra gli omosessuali, attualmente più di altre sostanze stupefacenti» approfondisce David Stuart. «In questo caso potrebbe essere un comportamento precursore del successivo chemsex». Appare quindi auspicabile l’attuazione di interventi mirati per arginare la crescita esponenziale del trend. Molti governi in tutto il mondo stanno identificando il chemsex come una preoccupazione per la salute pubblica. Non tutti coloro che lo praticano sperimentano gli effetti sopradescritti, ma esistono prove sufficienti per giustificare una risposta (non allarmista) al fenomeno e lo sviluppo di servizi di supporto culturalmente competenti in tutte le città che ospitano grandi comunità omosessuali» conclude Stuart.
Hiv, sifilide e condilomi. Lo scarso uso del preservativo - come avviene durante un chemsex party - rappresenta un fattore di rischio per la diffusione delle malattie a trasmissione sessuale (Mts). Dal 2010 in Italia sono aumentati progressivamente i casi di Mts. A Milano sono pressoché triplicati i casi di sifilide e gonorrea. Non solo: il rapporto 2017 dell’Associazione Dermatologi Ospedalieri ha segnalato una crescita del 400 per cento dei casi di sifilide dal 2000; raddoppiati in Europa i casi di gonorrea tra il 2008 e il 2013. I dati dell’Istituto Superiore di Sanità mostrano un andamento triplicato anche per i condilomi ano-genitali tra il 2004 e il 2016. Nello stesso anno la prevalenza di Hiv tra le persone con una Mts è risultata circa 75 volte più alta rispetto a quella stimata nella popolazione generale. Il presidio fondamentale per prevenirle resta il profilattico.
DAGONEWS il 14 ottobre 2019. C'è qualcosa di oscuro dietro l’orgasmo. Raggiungere il climax non vuol dire necessariamente aver vissuto un momento piacevole e per molte persone è un'esperienza di cui vergognarsi o sentirsi in colpa. Lo dice un nuovo studio che ha esaminato le abitudini sessuali di 700 persone sessualmente attive e dal quale è emerso che l’orgasmo di per sé è una reazione fisica che non tiene conto dello stato mentale o del livello di godimento di qualcuno. «Sembra esserci una tesi diffusa che gli orgasmi durante il sesso consensuale siano sempre positivi - ha detto la psicologa dell'Università del Michigan Sara Chadwick a Psypost - Ma la ricerca non ha mai esplorato la possibilità che potrebbero essere negativi o non positivi in alcune circostanze. Ci siamo interessati a esplorare se potessero esistere orgasmi "cattivi", poiché in altre ricerche abbiamo scoperto che l'orgasmo può essere molto più complesso di quanto la gente tende a pensare». Insieme al professor Sari van Anders della Queen's University in Canada, Chadwick ha intervistato un totale di 726 persone sulla loro vita sessuale. 289 di coloro che hanno affermato di aver avuto orgasmi negativi sono stati interrogati in modo più approfondito. Alcuni hanno detto di essersi sentiti sotto pressione, mentre altri hanno detto che li faceva sentire distaccati dai loro veri sentimenti riguardo all'esperienza sessuale. Le persone a disagio o che agiscono contro il loro orientamento sessuale o identità di genere possono aver trovato il sesso spiacevole. Le persone religiose hanno detto di sentirsi tradite dal proprio corpo o di vergognarsi. E un uomo bisessuale ha affermato di avere un orgasmo non piacevole dopo che una donna gli ha esercitato pressione sociale. I precedenti lavori di Chadwick e del professor Van Anders suggerivano che gli uomini possono esercitare una pressione sull'orgasmo della partner perché vedono il climax del loro partner come un traguardo di mascolinità. I ricercatori hanno concluso che gli orgasmi non sempre equivalgono al piacere e hanno detto che le persone non dovrebbero presumere che il loro partner abbia apprezzato il sesso solo perché ha raggiunto il climax. Gli studiosi adesso stanno esaminando come queste esperienze influenzano la sessualità, le relazioni e la salute psicologica.
Pomodoro, non solo prostata: gli effetti benefici sulla vita sessuale maschile. Libero Quotidiano il 14 Ottobre 2019. Da uno studio condotto dall’Università di Sheffield, nello Yorkshire, emerge che il pomodoro è un importante alleato per la fertilità maschile. Gli scienziati hanno messo del licopene, la sostanza chimica che conferisce a questo ortaggio il colore rosso, in alcune pillole e chiesto a degli uomini di prenderne due al giorno. È quindi risultato che non solo il licopene è in grado ridurre la pressione sanguigna e ridurre il rischio di cancro alla prostata, ma migliorerebbe, appunto, anche la qualità dello sperma. Tale sostanza migliora quindi la forma, le dimensioni e la capacità di nuoto degli spermatozoi, dando agli uomini maggiori possibilità di concepire. "Non ci aspettavamo davvero che alla fine dello studio ci sarebbe stata alcuna differenza nello sperma dagli uomini che hanno assunto la compressa rispetto a quelli che ha preso il placebo. Quando abbiamo decodificato i risultati, sono quasi caduto dalla sedia. Il miglioramento della morfologia, cioè della dimensione e forma dello sperma, è stato notevole", ha spiegato Allan Pacey, professore di andrologia all’Università di Sheffield e autore senior dello studio. La quantità di licopene assunta dagli uomini che hanno partecipato all'esperimento, è l’equivalente di cinque lattine di pomodori cotti al giorno.
Vendere se stessi. Alessandro Bertirotti su Il Giornale il 14 ottobre 2019. È tutta questione di… evoluzione. Sarebbe il caso di non scandalizzarci per così poco e per qualcosa che si origina con l’evoluzione della stessa specie umana. Esiste una stretta relazione fra il cibo e il sesso, ossia fra il gustare una buona pietanza e il raggiungere l’orgasmo sessuale. E questo accade perché sono gli stessi neuroni serotoninergici ad essere coinvolti nelle due esperienze. Sono queste cellule neuronali, sensibili al neurotrasmettitore serotonina ad attivarsi quando mangiamo e quando facciamo sesso. Ed avviene per naturali e antropologici importanti motivi, grazie ai quali nella nostra evoluzione mentale impariamo ad unire queste due pratiche che contengono, in loro, alcuni tratti di pericolosità ed altri di serenità sociale, culturalmente condivise. Quando si mangia, lo si fa, in genere, in compagnia, condividendo il frutto del proprio lavoro, dalla caccia alla semina, perché alimentarsi assieme consolida i rapporti, unisce i gruppi sociali e permette di conoscere le persone più intimamente. Mettersi a tavola è un atto intimo, anche quando lo facciamo per la strada, in piedi e con la fretta di ritornare al lavoro. Ingeriamo materiale che potrebbe avvelenarci, ma quando è invece sano, godiamo del piacere che procura, ai sensi e allo stomaco. Queste stesse cose, con le dovute differenze, accadono nella sostanza quando facciamo sesso: incontriamo uno sconosciuto/a, condividiamo i reciproci appetiti (siano questi corporali oppure economici), e mettiamo a rischio la nostra esistenza, perché non sappiamo quali potranno essere le conseguenze. Dunque, unire il cibo alla prostituzione è semplicemente naturale, tenendo anche presente che, sempre in ottica evolutiva, parliamo proprio di prostituzione alimentare, ossia di quella vendita del piacere sessuale altrui in cambio di alimenti. Tale pratica risale a tempi lontanissimi, quando nei primi gruppi umani al ritorno dei cacciatori con le prede, le donne, per ottenere maggiori quantità di cibo per i loro piccoli, in competizione con le altre femmine del gruppo, offrivano prestazioni sessuali ai maschi. Forse, dunque, se volessimo davvero integrare queste persone, dovremmo cominciare a nutrirle offrendo loro di lavorare, come ho spesso ribadito in questo blog, perché solo in questo modo la sessualità potrà essere, eventualmente, vissuta come scelta e non come compensazione per la propria indigenza. Ed è ovvio, come si legge nell’articolo che cito, che non esistono differenze di religione, di cultura di fronte al piacere. Non piace ciò che piace, come molti credono, ma piace ciò che serve.
VOLETE DIMAGRIRE? FATE SESSO! DAGONEWS il 25 luglio 2019. Volete perdere calorie? c’è un modo facile e divertente per farlo, che non prevede diete particolari ma solo un po’ di esercizio fisico: fate sesso, e spesso! Ma attenzione, c’è posizione e posizione, come spiega la sexperta Tracey Cox sul tabloid britannico Daily Mail. Non pensate che stendersi e aspettare annoiati l’orgasmo vi faccia dimagrire: serve costanza, esercizio e tanto sudore. Secondo Tracey Cox una scopata di almeno mezz’ora potenzialmente vi fa perdere tra le 70 e le 200 calorie. Ma non pensate di poter fare a meno delle vostre sessioni di palestra o di corsette, perché, come spiega la Cox, “essere più attivi a letto è sempre una buona idea – ma allo stesso tempo esserlo fuori può migliorare la vostra vita sessuale. L’aumento di esercizio aumenta il flusso di sangue, che quando si parla di sesso è un’ottima cosa. Un’attività fisica regolare funziona come un Viagra naturale per gli uomini: quelli di mezza età che si allenano spesso hanno prestazioni sessuali migliori e più soddisfacenti dei sedentari. E anno meno problemi di erezione. Di contro le donne fisicamente attive riportano un desiderio sessuale più forte, sono più eccitate e godono di più” Senza considerare che l’allenamento fisico aumenta la flessibilità, accresce i livelli di energia e resistenza: tutti fattori piuttosto utili quando c’è da contorcersi in camera da letto. Ci rende anche più attraenti e desiderati. Morale della favola? Combinate le due cose - sport e sesso – e avrete risultati eccezionali.
LE POSIZIONI CHE VI FANNO BRUCIARE PIÙ CALORIE:
IN PIEDI: LA PIÙ FATICOSA, E QUINDI LA MIGLIORE. Fare sesso in piedi – spiega Tracey Cox – è fantastico ed eccitante, ma è molto faticoso per entrambi i partner. Se riuscite ad avere un servizio completo – con le gambe di lei avvolte sui suoi fianchi e lui che sostiene il peso magari contro un muro – è mejo di una sessione core di palestra. L’uomo lavora su praticamente tutti i muscoli: il petto, le braccia, le cosce e i fianchi. Il godimento è assicurato e anche la perdita di calorie. Se le donne si sentono particolarmente atletiche e in forze possono provare a girarsi e a poggiare le mani a terra, con il sedere sospeso. Così si ottiene il miglior risultato: i glutei, la parte alta del corpo si tonifica, tutti sono felici e si bruciano almeno 200 calorie.
PECORINA CON VARIANTE. Il doggy stile già di suo è un buon sistema per perdere calorie. Ma ci sono alcune varianti che potete provare per aumentarne l’efficacia: la prima è abbastanza semplice e prevede una contro-spinta attiva della donna. La seconda invece è più complicata: fare perno su un ginocchio e stendere l’altra gamba indietro. L’equilibrio e la tensione muscolare saranno meglio di una lunga serie di squat: fino a 70 calorie bruciate.
SQUAT SESSO. A proposito di squat: un’altra posizione ottima per consumare calorie è una specie di variante dell’amazzone. La donna sta sopra ma invece che poggiare le ginocchia a terra ci pianta i piedi. A quel punto inizia a fare degli squat veri e propri muovendosi su e giù. Se ce la fate, questa posizione è un toccasana ad altissimo tasso erotico: dopo mezz’ora avrete perso almeno 170 calorie.
MISSIONARIO SOLLEVATO. Il missionario è noioso e – spiega Tracey Cox – fa bruciare alla donna soltanto 44 calorie. L’uomo - che fa tutto il lavoro – può arrivare a 143, ma è una posizione troppo prevedibile. A meno che non usiate la variante che suggerisce la sexperta. Fate inginocchiare l’uomo sopra di voi e iniziate ad alzare e abbassare voi i fianchi con la schiena ben salda al suolo: è come se faceste un ponte, mantenendo il bacino vicinissimo al suo. Lui di contro vi può tenere alto il sedere: è una posizione eccitante e che può farvi perdere almeno 150 calorie.
LA CARRIOLA-PLANK. La carriola tradizionale già di per sé è un’ottima posizione per bruciare grassi: lui in piedi, la donna con le mani a terra e le gambe sollevate, come appunto una carriola. Nella versione canonica l’uomo lavora le braccia e il sedere, la donna invece le braccia e le spalle, che sostengono l’intero corpo. Ma se volete uno step superiore, basta fare la stessa cosa facendo contemporaneamente un plank. Più tenete le gambe dritte, più faticoso sarà il workout, ma maggiore sarà la quantità di calorie bruciate, all’incirca un centinaio.
PEGGING. Per le donne: c’è un’ultima cosa che potete fare per massimizzare il consumo di grassi e calorie, una soluzione estrema che presuppone un’intimità enorme con il partner. Questa soluzione si chiama il pegging, cioè penetrare analmente il vostro fidanzato con un dildo strap-on. Mettetelo a pecorina e spingete. Se lo fate sdraiare nel letto e per penetrarlo fate degli scuot, avrete ottimi risultati non solo in termini di calorie, ma anche di tonicità dei glutei. Sempre che lui sia d’accordo, brucerete almeno 100 calorie.
DAGONEWS il 26 luglio 2019. Evviva le vacanze, il periodo in cui si accendono i bollori e le coppie sperimentano il miglior sesso di tutta la stagione. Parola di Tracey Cox che assicura come la mancanza di impegni, il crollo dello stress e la possibilità di staccarsi per qualche ora dai figli può accendere quel fuoco che rimane sopito dal logorio della vita quotidiana. Ecco, dunque, come sfruttare al meglio il periodo di relax. Più tempo: invece di una sveltina veloce finalmente avete il tempo per rilassarti e godervi qualche ora di sano sesso. Rendete infuocata l’intera giornata: non limitatevi a fare sesso solo una volta, ma fatelo spesso e frequentemente per mantenere alta l’eccitazione lungo tutto l’arco della giornata.
Non dimenticate il sesso orale: bastano anche due minuti per mandare il partner fuori giri. Non spogliatevi: basta tirargli giù i pantaloni (o alzarle la gonna) e abbassare le mutandine.
Provate un nuovo massaggio: esplorate quello erotico e genitale. Tutto quello di cui si ha bisogno è un lubrificante o un olio per massaggi adatto alle zone intime. Stendete il partner in una posizione in cui si può accedere facilmente ai genitali e prendetevi tempo per regalargli piacere.
Se sei una donna prendi in mano il pene del tuo partner e scivola verso l’alto, usando un movimento circolare e rotatorio con la mano. Funziona solo se il movimento è verso l’alto: quando arrivi alla cappella, usa il palmo della mano per accarezzare l'intera superficie.
Se sei un uomo, stimola il clitoride con movimenti circolari provando a farti spiegare in quale punto la tua partner prova più piacere. Fai attenzione: non tutte le donne amano la stimolazione diretta del clitoride, quindi prova a capire (o a chiedere) quale punto per lei è più sensibile. Prendi il clitoride tra due dita e prova a tirarlo delicatamente e poi torna a formare cerchi concentrici intorno all’area di piacere.
I consigli per le vacanze:
Niente figli: se siete in vacanza con loro, assicuratevi di aver scelto un resort che abbia un mini club che si prenda cura dei bimbi. Una volta soli, sperimentate e accertatevi di aver portato sex toys, abiti per giochi di ruolo, fruste e tutto ciò che può accendere l’eccitazione.
Provate a cambiare ruolo: sebbene l'89% delle donne scelga di essere sottomessa e in una situazione di “schiavitù”, coloro che osano avventurarsi in una posizione dominante scoprono un potere afrodisiaco diverso.
Sperimentate cose nuove: avere un legame con il partner significa anche provare cose nuove a letto e allontanarsi dal percorso prevedibile. È questa imprevedibilità che forse crea la più grande eccitazione per le coppie di lunga data.
Usate le manette, una sciarpa, vecchie calze o un kit di bondage per legare i polsi o le caviglie. Improvvisate uno spettacolino erotico, avventuratevi in situazione “sporche”. Sussurrate in modo seducente tutte le cose che avete intenzione di fare e poi fatelo!
Pizzichi, schiaffi e solletico: il numero di coppie che hanno introdotto la sculacciata nelle loro sessioni sessuali è aumentato da quando è esploso il fenomeno “Fifty Shades”. Molti altri lo hanno introdotto nella loro "lista dei desideri". Se siete già devoti a queste pratiche, usate una frusta morbida sul sedere del partner con colpi dal basso verso l’alto.
Nessuna inibizione: le vacanze sono fatte anche per bere. Il vostro fegato non vi ringrazierà, ma probabilmente la vostra vita sessuale lo farà. L'alcol è un afrodisiaco per la maggior parte delle persone ed essere leggermente ubriachi contribuisce a lasciarsi andare sotto le coperte. Drink o non drink, siamo più rilassati durante le vacanze, il che le rende il momento ideale per provare qualcosa per cui di solito siete troppo timidi.
Giochi di ruolo: alcune coppie adorano i giochi di ruolo, tra i quali i più praticati sono la deflorazione di una "vergine", giocare alla schiava del sesso o avere un rapporto. In quest’ultimo caso entra in gioco il kit di sex toys che avete portato in vacanza. Come in ogni gioco, seguendo alcune linee guida di base, tutto si svolgerà senza intoppi. Scegliete le fantasie che piacciono a entrambi, stabilite la location e scegliete i ruoli.
Guardate film porno: guardarli, da soli o in coppia, può introdurre la varietà tanto necessaria nella vita sessuale di molte coppie di lunga data. Alcune persone hanno problemi “morali” con il porno, quindi si può optare per qualcosa di soft o per qualche film erotico. Se entrambi amate il porno, fatelo senza paura di essere interrotti dai bambini, dai vicini, da vostra madre o dai vostri coinquilini.
IL CIBO AFRODISIACO? UNA BALLA! Marco Palma per “il Giornale” il 17 agosto 2019. Ce n'è per tutti i gusti, per quasi tutte le età e senza distinzione di genere: il rapporto alimentazione e sessualità ha da sempre incuriosito l' essere umano, alla ricerca dell' aumento del desiderio erotico attraverso il cibo. Vuoi per la forma, o per il contenuto «la fantasia umana ha associato prodotti ed eros in un connubio che scientificamente è poco o nulla dimostrabile ma che tradizione, leggende metropolitane, credenze tribali e popolari hanno finito per alimentare con fantasie e immaginazioni spiega Gabriele Dominici, psicosessuologo dell' Università La Sapienza di Roma tra il divertente, il faceto e comunque il non smentito, se non altro per tradizione storica».
TRA LEGGENDA E VERITÀ. Ed allora ecco che gli asparagi sono da sempre considerati alimenti afrodisiaci più per la loro forma che per altro: sono comunque ricchi di potassio, di vitamine del gruppo B e sostanze che favoriscono la produzione di ormoni sessuali maschili e la virilità. Idem le ostriche, considerate alleate della sessualità fin dal tempi dei romani. Sarà pur vero che contengono zinco, necessario per la produzione di testosterone e contengono anche aminoacidi che aiutano il rilascio di serotonina. Ma da qui a dire che favoriscano l' eros ne corre. Che dire poi dei funghi, soprattutto porcini, considerati un toccasana per la vigoria sessuale? Anche qui la loro nomea fa parte della leggenda, ma quasi esclusivamente per la loro forma fallica. Poi ci sono i fichi, a cui si attribuiscono qualità performanti solo perché era una pianta associata a Priapo, dio greco e romano della fertilità. Proseguiamo il nostro menù dell' eros con la banana, ricca di potassio e vitamina B6, quindi alleata del testosterone, fino al notissimo peperoncino che produce un' immediata sensazione di calore e bruciore: e si sa che sesso e calore viaggiano di pari passo. Tuttavia il peperoncino, vasodilatatore, perché faccia davvero effetto dovrebbe essere assunto con una regolarità che non è certo tipica delle nostre tavole. Così come è tutta colpa di James Bond se 007 ha associato il caviale a donne bellissime, appassionate e desiderose. Infine il cioccolato: gli Atzechi consideravano il cacao rigeneratore delle umane fatiche e toccasana per i momenti di intimità. Contiene, è vero, la feniletilammina, una sostanza dalla quale deriva benessere ma si tratta di una sensazione generale e non specifica della sfera sessuale. Per non parlare del tartufo: nel Medioevo il medico Michele Savonarola lo prescriveva a corte, luogo dove l'erotismo regnava sovrano a prescindere da questo tubero. «Impossibile distruggere questi miti aggiunge Dominici che continuano ad essere riproposti ogni qual volta sulla tavola vengono presentati determinati alimenti. Qui gioca anche l'autoconvincimento: della serie "se questo cibo aumenta l'erotismo allora perché non mangiarlo". Ci sono poi degli alimenti ai quali indirettamente vengono attribuite qualità afrodisiache. Primo fra tutti il miele: nell' antico Egitto ai novelli sposi si regalava, come dono di nozze, il nettare delle api in segno di dolcezza e prosperità; da qui il detto "luna di miele". Oppure la mandorla, il cui olio, dolcissimo, veniva nell' antica Roma impiegato nei massaggi; ed il massaggio può essere anche di natura erotica e le mani che scivolano sul corpo alimentano una straordinaria fantasia.
PURCHÈ SIA CIBO SANO. La scienza e la medicina sull' argomento cibi ed eros sono clementi: credenze popolari, storie millenarie, abbinamenti fantasiosi non vanno demonizzati. Vanno solo presi con ironia e curiosità. «Ogni cibo, ogni pietanza su una sana tavola se vogliamo ha la sua componente afrodisiaca: semplicemente perché è alla base di un mangiare sano spiega Giorgio Restelli, nutrizionista mentre una cattiva alimentazione ed una sedentarietà non fanno altro che provocare obesità, diabete, pressione arteriosa e malattie cardiovascolari che sono alla base di un deficit di erezione per il maschio e di una serie di problemi riguardanti la sfera sessuale della donna. Se ci sediamo a tavola in una atmosfera il più possibile serena, con cibo sano e presentato in una maniera semplice ma accattivante avremo il conseguente sviluppo di dopamina e noradrenalina, neurotrasmettitori che intervengono sulla percezione del piacere, sulla frequenza cardiaca e sul flusso di sangue soprattutto nell' area genitale». Il concetto di dieta sana non può prescindere dall' equilibrio e dalla giusta quantità di vitamine: sono indispensabili affinché la catena metabolica della sintesi del testosterone funzioni in maniera ottimale. Utile contrastare l' eccesso di cortisolo, un ormone dello stress prodotto in abbondanza dall' uomo «moderno», che può essere contrastato facilmente con l'uso quotidiano serale di melatonina. E con alimenti che non contribuiscano a farlo aumentare. Negli ultimi tempi alcuni studi scientifici hanno evidenziato chiaramente come la vitamina D sia in grado di rendere più biodisponibile il testosterone, e la giusta integrazione potrebbe apportare grossi benefici. E, diciamolo, anche se è contenuta in ostriche e molluschi, la vitamina D si trova pure all' interno di alimenti che proprio afrodisiaci non sono, come i formaggi grassi, il fegato e il burro.
Gabriele Fazio per Agi il 17 agosto 2019. “Sono così orgogliosa di me stessa, ora ho donne a cui piace davvero fare sesso. Ho donne che hanno avuto orgasmi, perché molte donne non sapevano cosa fossero gli orgasmi” a parlare è Amra Mansur, la donna che con i suoi afrodisiaci sta rivoluzionando il ruolo della donna in Nigeria. Che il paese africano fosse storicamente leader nei rimedi naturali per rendere più piacevole il sesso non è notizia nuova, ne esistono e vengono venduti da anni una strabiliante varietà, ma ciò non vuol dire che la figura della donna fosse minimamente cambiata in un paese per certi aspetti (questi in particolare) rimasto ancora culturalmente arretrato. Anzi, la lunga tradizione degli afrodisiaci naturali ha sempre macinato consensi ma, come svela la stessa donna al Guardian, la preoccupazione era soprattutto quella di essere all’altezza del proprio uomo, essere più brave possibili a letto, anche a costo di concedersi senza alcun ritorno di benefici. La situazione pare stia lentamente cambiando da quando Amra, una volta conclusi gli studi in giurisprudenza, ha deciso di dedicarsi alla commercializzazione delle ricette afrodisiache tradizionali nigeriane. L’idea le è venuta durante gli studi, pagati con un lavoro come truccatrice per spose. In quegli anni rimaneva particolarmente affascinata dai racconti tra donne che ascoltava mentre si occupava del make-up della sposa, per lo più consigli di parenti e amiche più mature su come compiacere il proprio uomo. Allora l’idea, una volta libera di scegliere del proprio futuro, di investire nella Kayan Mata, senza sapere esattamente a cosa andava incontro. Certo, l’azienda va bene, Instagram pare abbia trasformato il piccolo progetto in un vero e proprio business, con afrodisiaci che partono dalla Nigeria e vengono distribuiti con successo in tutto il mondo, dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, da Cipro a Dubai passando per Istanbul. “Tutto naturale. – sostiene Amra Mansur - Il miele è solo uno degli ingredienti. Abbiamo spezie come cannella, cardamomo, semi di senape, peperoncino, datteri e canna da zucchero. Abbiamo alcune erbe, radici, polveri tipiche che troviamo solo in Nigeria, specialmente attorno a Zamfara, Gusau e Sokoto”. Una ricetta funzionante, un’idea geniale e tutto diventa possibile, anche (soprattutto) combattere l’antico stereotipo della donna nigeriana dedita esclusivamente al marito e che di sesso non può nemmeno parlare. Questa la situazione descritta dalla giornalista Fatima Umar, che solo qualche settimana fa ha sconvolto il paese con un’inchiesta radiofonica sul rapporto tra le donne nigeriane e il sesso. Molti uomini hanno considerato semplicemente immorale che venisse concessa alle donne del paese una piattaforma dove potersi confrontare apertamente sul tema. Per la prima volta è stato possibile ascoltare la viva voce di una donna Hausa nelle zone rurali di Kano ammettere di essere sposata con un uomo che non riusciva a soddisfarla. Normale amministrazione forse in Italia ma una rivoluzione da quelle parti dove, a prescindere dallo scandalo, per la prima volta una donna rivendica il proprio diritto al piacere e non solo a soddisfare quello del marito. Ecco il vero risultato ottenuto da Kayan Mata, più culturale che economico.
Barbara Costa per Dagospia il 18 agosto 2019. Dove hai pornato a Ferragosto? Mare o montagna? L’hai fatto a due, a tre o in una pazza ammucchiata? Se è stato una delusione, una noia mortale, e tu sei una persona che trova irresistibile rotolarsi sull’erba, e ti ecciti alla vista della sabbia bagnata, appiccicata sulla pelle abbronzata, gocciolante, che sembra spermata, i siti porno hanno quello che fa per te: "sex on the beach", "mountain sex videos", "beach videos", sono queste le categorie che racchiudono i porno giusti e roventi da sbirciare dal tuo smartphone. Gli incastri più indecenti, le pratiche più sadomaso, tutto quello che ti piace e ti accende viziose fantasie, indurendoti piacevoli "vette", lo trovi anche in versione estiva. I summer porn videos si dividono massimamente in due varianti: amatorial e no. Infatti, giù la maschera: niente è più amatorial e voyeuristico che sc*pare e farlo in spiaggia davanti agli altri. Siti porno e non solo, d’estate si riempiono di video di gente che sfoga e gode di travolgenti libidini in spiagge "alternative", dove tutto è concesso per chi vuole e con chi. E non solo gli amatorial, ma anche le vere pornostar sanno come "sporcarsi" su sabbie dorate e sfrenarsi in amplessi porno-basici. E che c’è di più porno basico di una maratona di fellatio in spiaggia? Qui uno dei lavori più "afosi" è un beach porn di Angela White, girato su una spiaggia australiana e in POV amatorial: Angela sfoggia le sue tettone in primo piano, vi ci passa in mezzo il pene del fortunato di fronte a lei, mettendoselo tutto e più volte in bocca. Poi si ferma, apre le gambe, scosta il triangolino verde del suo slip, vi infila le dita insalivate e passa a mostrarti come sa godere da sola. E quando a te sembra di non farcela più, ecco che si riprende quel pene, per porno-stordirlo con le sue mani e la sua bocca. Se non sai resistere, se giudichi un delitto mollare le tue porno abitudini perché sei in vacanza con la tua metà, e non hai certo chiuso per ferie i tuoi svaghi onanistici, allora cerca la tua pornostar preferita in versione porno-summer: e qui rifatti gli occhi insieme a me con la nostra Valentina Nappi nel suo beach porn con Chris Diamond. Qui Valentina è in spiaggia, in bikini, (almeno all’inizio) e se la spassa come porno le pare. Non c’è sconcezza che non si conceda, il suo corpo meraviglioso è padrone di ogni amplesso e di ogni posizione, è questo uno tra i suoi porno più "umidi", grondante sperma e orgasmi. Dagli un’occhiata, e mi darai ragione. Se però credi che il solleone propizi depravati intermezzi lesbo, goditi Asa Akira, il suo corpo infangato e affamato di sesso in "A Day of Fun at the Beach": qui Asa Akira e Kerry Louise sono insaziabili, sia nel foursome, sia nei brevi ma incandescenti allacci a due. E per le signore? Non è mia intenzione lasciare nessuna Dago-lettrice a porno-bocca asciutta. Mie care, non credo rimarrete deluse da "Slutty Girls Love Rocco #4", un threesome girato da Rocco Siffredi in beach porn, dove il nostro immortale stallone sottomette alle sue sudicie voglie due bambolone, e con loro si esibisce all’aperto, su un molo, in uno scenario esotico. E non vanno sottovalutati i porno di Siffredi girati in piscina, sui lettini della sua Academy. Se infatti il tuo fine-agosto non prevede né montagna né mare, ma il sollazzo di una piscina, allora tra i "pool porn" ti segnalo quello – coreografato – con Jana Cove e Tanya James, due bionde sirene infoiate. Non solo in piscina, ma è in barca che Tori Black si è fatta pornare più volte, e da più maschi alla volta: gustatela in uno dei suoi "boat porn". Peccato sia illegale girare porno nei musei e nei luoghi d’arte, altrimenti avremmo fantastici porno culturali. Tuttavia, gli intellettuali pipparoli possono rimediare con gli amatorial in materia, cioè con quei video di persone comuni arse dalla voglia di farlo nelle tradizionali mete d’arte agostane. I siti porno sono invasi da tali intriganti e vietatissime performance…! E ci sono pornostar che si spogliano e si toccano in video dei loro porno giri "culturali", postati nei loro canali porno privati. Non terminare le tue vacanze senza dare un’occhiata ai summer porn vintage: qui la fa da padrona la bombastica Jenna Jameson, i suoi beach porn lo faranno venir duro – nel mio caso umida – in eterno. A mio parere bastano i suoi shooting di nudo in spiaggia, per iniziare a porno-sudare! E affinché la tua lussuria estiva non si chiuda senza porno-romanticismo, clicca su "Outdoor Romance Leads to Hot Fuck", un porno chic, dove si sc*pa di sera, su un terrazzo, in doggy-style, su un enorme divano bianco. Un porno coi fuochi d’artificio assicurati. Lo guardi e quasi ti dimentichi che anche questo Ferragosto è passato, e con lui tra poco pure le ferie!
Alice Trainotti per cosmopolitan il 18 agosto 2019. Durante le vacanze al mare il water sex, ovvero il sesso in acqua, è un must, decisamente tra le esperienze più hot che puoi annotare sul tuo diario delle vacanze. Te lo consiglio proprio perché è eccitante se non lo hai mai provato, sia per la novità che per le sensazioni uniche che regala. Un modo dolce in cui lui ti coccola, aiutati da una ridotta forza di gravità e movimenti rallentati e profondi. Se fate il sesso all’aperto devi aggiungere il brivido di essere scoperti e il romanticismo di un bagno a mezzanotte. E il dolce dondolio delle onde rende i movimenti più fluidi, lenti e senza la possibilità di sudare, anche con le temperature più alte. In vasca da bagno, in piscina, al mare: il sesso in acqua deve seguire però delle regole precise per evitare spiacevoli inconvenienti. Le regole d’oro per un rapporto in acqua da favola:
Ovunque sei, è importante trovare un luogo che ti permetta di rilassarti perché l’acqua altera la lubrificazione, rendendola più blanda. La penetrazione potrebbe quindi risultare dolorosa. Scegli sempre posti poco affollati che non ti mettano in improvviso imbarazzo, rischiando di vanificare il momento.
Sembra scontato, ma scegli un mare di cui sei sicura che l’acqua sia pulita: successive infezioni o irritazioni non giustificano il piacere, seppur importante. E ricorda che comunque il sale è abrasivo; meglio sciacquare bene la tua vagina dopo il rapporto.
Nei film il bagnasciuga è uno dei luoghi più gettonati ma non tra i più piacevoli: le continue onde possono infastidire il rapporto e spezzare il giusto ritmo; inoltre la sabbia, che si può insinuare tra voi, può creare una spiacevole sensazione di grattugia.
Meglio un luogo con poca corrente e dove si tocca, in modo da potersi muovere agevolmente e trovare il giusto ritmo.
La posizione più comoda è sicuramente viso a viso, che consente di stare abbracciati.
Ricordati di trovare anche qualcosa, come per esempio una roccia, sulla quale appoggiarti, per aumentare il piacere.
Hai mai provato a baciare il suo pene sott’acqua? Il sesso orale subacqueo, anche se per pochi secondi, vi sorprenderà.
Sfrutta anche il sesso sotto doccia: nulla di più romantico e hot che impiegare bene il tempo per pulirsi dal sale, dopo una lunga giornata di mare. Sorprendi il partner lavandolo e insaponandolo, inscenando un massaggio bagnato con qualche bagnoschiuma profumato.
Una raccomandazione: usate il preservativo anche in acqua. Anche se l’ambiente è inusuale, il rischio di rimanere incinte o di contrarre delle malattie è sempre presente.
IL CALDO VI AMMAZZA LA LIBIDO? NON AVETE ANCORA PROVATO QUESTE POSIZIONI! Valentina Mazza per Cosmopolitan il 22 luglio 2019. Sesso d’estate? Sfatiamo un mito, non è proprio il massimo farlo quando fa caldo, perché trovare le posizioni comode non è facile se in un attimo diventate sudati e appiccicosi. Una sensazione per niente piacevole che non invoglia a lasciarsi andare ad acrobazie erotiche tra le lenzuola. Eppure non puoi perderti l’occasione di viverti la passione, che in questo periodo, proprio come le temperature, è più hot che mai. Perché sarà merito dell’abbronzatura e di questo senso di libertà e voglia di divertirsi che si attivano quando si entra in modalità vacanza, ma confessiamolo, ognuna di noi in questo momento dell’anno si sente ancora più sexy e seducente. E questo ti rende ancora più affascinante e più sicura, pronta a sperimentare e capace di scegliere liberamente quello che è meglio per te. L'importante è prendere sempre le giuste precauzioni e fare sesso protetto per goderti il piacere senza pensieri. Quindi l’attimo va colto amica, ma evitando di farsi una sauna tra le braccia del proprio partner. Basta solo trovare il modo giusto di amarsi, magari provando a farlo non solo a letto, ma anche in altre ambienti più freschi, come la doccia o la vasca da bagno. Ecco 7 posizioni “estive” per fare sesso in modo comodo, all’insegna del piacere.
1. In piedi sotto la doccia. Tornati dal mare o a fine serata, infilatevi assieme sotto il getto dell’acqua. Dagli le spalle e appoggia le mani alla parete trovato una postura comoda, lui da dietro saprà fare il resto. Una posizione alternativa è la ballerina, uno di fronte all’altro, e tu con una gamba alzata. La doccia è una situazione perfetta per darsi una bella rinfrescata e accendere la scintilla della passione. Perché una volta rigenerati e appagati, potrete continuare il vostro rendez vous erotico in qualche altra stanza, l’importante è che sia ben ventilata.
2. Il Doggy style. Magari non rientra nelle tue posizioni preferite, perché ti sembra poco romantico, visto che non vi guardate negli occhi. Oppure pensi che sia troppo hard e ti fa sentire esposta. Ma se superi questi timori e vuoi provarla, sappi che durante i mesi estivi, quando fa troppo caldo, è molto funzionale. Il motivo? La pecorina richiede un minimo contatto di pelle e quindi il rischio di sudare si abbassa notevolmente.
3. La X. Potete sperimentarla sul tavolo o sul letto. Stenditi a pancia in su, alza le gambe e incrociale, appoggiandole al suo petto. Il tuo lui invece sarà in piedi di fronte a te. Più stringerai le gambe, più il piacere sarà intenso. Questa posizione, anche se può sembrare faticosa, in realtà non richiede grandi sforzi e abilità acrobatiche. E inoltre vi permette di amarvi con passione senza sudare troppo.
4. Il Joystick. Vuoi guidare tu il gioco? Fallo stendere sulla schiena, dicendogli di rilassarsi e stendere le braccia in alto sopra la testa. Ora siediti sopra di lui a cavalcioni, allungando le gambe fino all’altezza delle sue spalle, con le ginocchia leggermente piegate. Per sentirti comoda puoi appoggiare le mani sulle sue ginocchia, prima di iniziare a muoverti ruotando i fianchi.
5. Nella vasca. Riempitela di acqua fresca (non freddissima, perché potrebbe inibire la sua erezione) e poi siediti sopra di lui, inginocchiandoti e dandogli la schiena. Inclinati leggermente in avanti e con il doccino indirizza il getto d’acqua tra le vostre gambe mentre fate l’amore. Sarà un’insolita stimolazione che solleticherà ancora di più i vostri sensi, regalandovi un piacere in più.
6. L’amazzone. Fai sdraiare il tuo partner sulla schiena, lasciando una gamba distesa e tirando l'altra su, con il ginocchio piegato. Ora mettiti sopra di lui, tra le sue gambe, dandogli le spalle e conduci tu al galoppo fino a raggiungere il massimo piacere. Questa posizione ti aiuta anche ad avere una fantastica stimolazione clitoridea, che ti poterà più velocemente all’orgasmo.
7. Rafting. Perfetto da fare in piscina, se ne avete una tutta per voi. Sdraiati su un materassino a pancia sotto e con le gambe a mollo. Lascia che a sostenerle sia lui, aggrappandosi alle tue cosce mentre fate l’amore. Questa posizione, che ricorda quella della carriola, ma molto meno faticosa visto che siete in acqua, permette una profonda penetrazione, dandovi un forte piacere.
KILLER DELLA LIBIDO. Da Dailymail.uk il 7 agosto 2019. “Femail” ha lavorato con la nutrizionista Elouise Bauskis per identificare i 15 alimenti che si dovrebbero assolutamente evitare prima di una serata romantica sotto le coperte.
1. La liquirizia. L’assunzione di liquirizia è stata collegata ad un abbassamento dei livelli di testosterone. Più alto è il testosterone, più forte è il desiderio sessuale, sia per gli uomini e le donne. Concludete voi il sillogismo.
2. I formaggi. O anche chiamati i killer della libido. Molti latticini sono difficili da digerire e aumentano la produzione di muco. Non è il modo ideale di sentirsi prima del sesso!
3. Fagioli. Secondo la dottoressa Bauskis, tutto dipende per quanto riguarda i fagioli: “Alcuni si sentiranno pieni di energia, altri gonfi e lenti. Nel peggiore dei casi, possono portare all’aumento della flatulenza. Meglio evitare”, ha spiegato.
4. Cioccolato. Scegli con attenzione il cioccolato perché non tutto fa male. Anzi, quello fondente (con un minimo di 70 per cento di cacao) è antiossidante, ricco di L-triptofano (che come la serotonina ci fa sentire più felici) e la feniletilammina, che è la stessa sostanza chimica che produce il corpo durante i primi momenti dell’innamoramento.
5. Hot dog. Possono ostruire le arterie del pene e della vagina, da evitare assolutamente se desideri sentirti sensuale.
6. La menta peperita. È stato dimostrato che la menta riduce i livelli di testosterone: “Una delle erbe migliori per il sistema digestivo, ma ha ripercussioni negative sulla libido.”
7. Acqua tonica. Spesso contiene chinina (come agente aromatizzante) collegata a una diminuzione della funzione sessuale.
8. Patatine fritte. Questo alimento rilascia la sua energia molto rapidamente nel nostro sistema. Inizialmente, potrai sentirti bene, ma poco dopo ti potresti sentire fiacco e senza forza. “Inoltre, se sono state cotte in olio di cattiva qualità, possono provocarti sonnolenza e indigestione”.
9. Carne rossa. Secondo alcuni è un elemento energizzante, grazie al ferro che aumenta l'ossigenazione in tutto il corpo. Secondo altri, può farti sentire più “animale”. Per altri ancora può generare pesantezza e sonno.
10. Tofu. Il tofu e la soia contengono fitoestrogeni e mangiati in eccesso possono diminuire i livelli di testosterone.
11. Conservanti. Gli alimenti a lunga conservazione hanno un basso valore nutritivo, equivalgono energicamente a un cibo “morto”. Non aumenteranno la vostra vitalità, né renderanno meglio il sesso!
12. Vino rosso. Con moderazione il vino rosso può aumentare il flusso del sangue, aiutandoti a rilassare e abbassare le inibizioni. Ma, in quantità esagerate, può portare all’impotenza.
13. Farina d'avena. Presenta un alto contenuto di fibre che possono farti sentire “gassoso”.
14. Bevande energetiche. Sono piene di zuccheri e coloranti. Possono darti una sensazione di benessere immediato, ma dura poco.
15. Broccoli. Il pericolo è che può produrre gas nel vostro corpo, ma allo stesso tempo è un ortaggio che aiuta a disintossicarsi.
RESTATE A PORTATA DI EX. Da TPI.it il 24 agosto 2019. Continuare a fare sesso con l’ex partner potrebbe non essere una cattiva idea. A dirlo non è il pessimo e insolito consiglio di un amico, ma una ricerca pubblicata su una rivista scientifica americana, secondo la quale avere rapporti sessuali dopo aver concluso una relazione avrebbe dei benefici sul processo di separazione. Sebbene venga sempre sconsigliato, sono tante le ex coppie che continuano ad avere rapporti dopo la fine di una storia. I motivi per stare insieme non sono più così forti, ognuno ha ripreso vestiti e spazzolino dalla casa dell’ex, ma l’attrazione fisica rimane e sembra irresistibile. I ricercatori si sono chiesti se sia davvero necessario “resistere” a questa pulsione, o se sia più naturale lasciarsi andare, almeno in alcuni casi. Il risultato dello studio, pubblicato su Archives of sexual behavior, è che andare a letto con l’ex potrebbe non essere così sbagliato e potrebbe rendere più semplice e meno stressante la fine della relazione. Per arrivare a questa conclusione, gli psicologi della Wayne University di Detroit, dalla Western in Canada e dell’Università di Toronto hanno condotto due esperimenti. Nel primo hanno analizzato le esperienze di 113 soggetti che avevano da poco concluso una relazione, chiedendo loro di rispondere a una serie di domande sul loro rapporto con l’ex. Continuate a vedervi? Avete avuto altri rapporti? Come vi siete sentiti dopo? Cosa provi per lui/lei? Nel secondo esperimento, ai partecipanti veniva chiesto di raccontare i loro incontri, tentati o riusciti, con l’ex due mesi dopo la rottura, per registrare le variazioni nei sentimenti. Non solo non è un ostacolo all’effettivo allontanamento dei due partner, il sesso è una medicina – forse un placebo – che aiuta il recupero emotivo anche a chi è stato lasciato e soffre di più per la fine della relazione. “A questo punto possiamo dire che le preoccupazioni non erano fondate”, suggerisce l’autrice della ricerca, Stephanie Spielmann. “Il fatto che il sesso sia ricercato di più da chi è stato lasciato o da chi si sente ancora legato al partner non vuol dire che sia sbagliato farlo, ma che dovremmo chiederci quali sono le motivazioni dietro questa ricerca”. Ai ricercatori non sfugge però che ogni situazione è diversa, per cui non è detto che a tutte le ormai ex-coppie faccia bene continuare a vedersi. “Bisogna chiedersi: stanno provando a tornare insieme? O è parte del processo di addio? – spiega The Independent la psicologa Madeleine Mason Roantree – nel primo caso sarebbe meglio non continuare e lavorare su di sé per cominciare una nuova, e più sana, relazione”.
ESTATE, TEMPO DI CALIPPI…MA FATE ATTENZIONE! Lane Moore per Cosmopolitan.com il 24 agosto 2019. Anche se ti consideri una ragazza a cui piace fare sesso orale, sarà capitato di sicuro anche a te di trovarti in una situazione in cui non eri molto dell'idea. Ecco alcuni svantaggi di questa pratica che probabilmente conosci già.
1. Anche se non devi farlo per tanto tempo, ti sembra che duri una vita. Da quant'è che sono in questa posizione? Quaranta minuti? No? Solo 10? Beh, in pompaminuti equivalgono a un'ora e mezza, non mi passa più.
2. Sai fin troppo bene che ti escono dalla bocca dei rumori a dir poco imbarazzanti. Sembro una bambina che succhia annoiata un lecca lecca mentre la mamma fa la spesa. Ecco, mi ci mancava solo di mettermi a pensare ai bambini. Ma perché?!
3. Quando lui inizia a spingere così, come se niente fosse. Puoi evitare di fare sesso duro con la faccia? Grazie. No, davvero, non sto scherzando.
4. Quando ti rendi conto che ti stanno venendo i conati di vomito e sei in para perché non vorresti mai che ti succedesse sul suo pisello. Okay, mi conviene tirarlo fuori dalla gola che non si sa mai, ma un po' lo tengo... sì, ma non è che faccia molta differenza... Se faccio entrare solo la punta dici che a lui va bene lo stesso? Senti, chissenefrega, faccio così e basta.
5. Ti chiedi quale sia la quantità di saliva giusta. Del tipo, va bene se te ne esce a litrate o dovrebbe essere solo un goccino? Una damigiana o una lieve pioggerellina? Qualcuno mi risponde? Daiiii.
6. Per carità di Dio, respira dal naso! Svenirgli diciamo così sull'inguine non è per niente sexy, quindi mi conviene stare concentrata. Ops, cavolo, mi entrato lo sperma nel naso. Comunque a lui sarà piaciuto? Io ormai non so più neanche cosa sto combinando.
7. Non hai la minima idea di cosa fare con i testicoli. Me le rigiro tra le mani le palline antistress o qualcosa del genere? Guarda, posso anche provarci, ma se devo essere sincera non ne sono molto convinta. (Oppure leggi il nostro articolo su come, ehm, maneggiare i suoi testicoli!)
8. Cercare in tutti i modi di nascondere i denti. Spalancando di conseguenza al massimo le mascelle, e alla fine ti senti come una nonnetta che si è dimenticata di mettersi la dentiera. Mmm, sai che sexy che deve essere...
9. Pensare che per qualche motivo dovresti ingoiarlo fino in fondo, anche se non fa proprio per te. Insomma, non lavoro mica in un circo, e poi lui non vorrà mica farmi fare qualcosa che non mi va di fare. E se è così prendo la borsa e me ne vado a casa a guardare le repliche di Gossip Girl, che tanto è l'unica cosa a cui penso mentre gli sto facendo questa roba qui.
10. Essere consapevole (e senza alcuna ombra di dubbio), che tanto così tu non vieni di sicuro. Sì, va bene, è lo svantaggio del sesso orale, chiunque sia a farlo, ma è una verità dura da mandare giù. E non era un doppio senso.
11. Se quando lo fai sei supereccitata, alla tua vagina tocca aspettare pazientemente che lui ne abbia avuto abbastanza. A volte, in quella situazione, sei supereccitata, ma non puoi farci niente anche se hai la situazione in mano. Ci risiamo, ormai i doppi sensi non li conto neanche più...
12. Credere che mentre lui viene, anche tu devi gemere in modo selvaggio. Come se già il circo che hai messo su per farlo venire non fosse abbastanza. Allora, se a te va di gemere fallo pure, ma l'idea che devi simulare l'eccitazione di una pornostar proprio no. Non ci siamo.
13. Quando lui ti avvisa che sta per venire e hai più o meno due secondi per decidere se sputare o mandare giù. Come se dovessi disinnescare una bomba, indecisa se tirare il filo rosso o quello blu. Più precisamente, la domanda è "Ma devo mandare giù? Se non lo faccio se la prende? Ma sì, dai lo faccio. Anzi, ma sai che c'è? No, non mi va e che si attacchi."
14. Se sputi, devi correre in bagno senza rovesciare quello che hai in mano, come se stessi portando in salvo un uccellino che hai appena salvato. E la destinazione è il water, perché è una roba disgustosa ed è lì che deve finire.
15. Se mandi giù, quella roba finirà per intasarti la gola, ed è anche resistente all'acqua. Dovrebbero escogitare un modo di riutilizzarla come isolante per i cavi o qualcosa dal genere. Ma sul serio, eh!
VOLETE ROVINARVI LE VACANZE? FATE SESSO IN ACQUA. Da Stile.it l'1 agosto 2019. Sesso in acqua? Meglio di no. Che sia in mezzo al mare, in una piscina, o in una romantica vasca da bagno, l’idea di avere rapporti in acqua non è delle migliori dal punto di vista della salute. Lo affermano due medici, il dottor Jacques Waynberg, direttore dell’Istituto di sessuologia a Parigi, e il dottor Jean-Marc Bohbot, infettivologo presso l’Alfred Fournier Institute.
Meglio non fare sesso in acqua. E’ una delle più comuni fantasie erotiche dell’estate, ma sembra essere davvero una pessima idea. Fare sesso in acqua è rischioso. Innanzitutto, l’attrito tra i corpi in acqua è diverso rispetto a fuori, e accade che il rivestimento vaginale si irriti perché la lubrificazione viene alterata quando ci si trova in un ambiente acquatico. Questo può accadere sia nell’acqua salata che in quella clorata. E le irritazioni, specialmente se si presentano ripetutamente, possono portare a vere e proprie infezioni. Il rischio è quello di alterare la mucosa vaginale, e indebolire la flora batterica che serve a difenderla. Ne possono conseguire vaginiti, micosi, cistiti. Naturalmente, affermano gli esperti, non accade nulla se una volta durante le vacanze si fa sesso in acqua. Salvo forse una sensazione di irritazione e secchezza che potrebbe provare la donna durante e dopo. Ma non deve diventare un’abitudine, una pratica frequente, o può comportare rischi per la salute davvero fastidiosi. Capaci di compromettere l’intera vacanza. Inoltre, sottolineano i medici, fare l’amore in acqua impedisce di indossare un preservativo. E dunque solo se si è una coppia sicura di non aver malattie sessualmente trasmissibili, e si assumono altri tipi di contraccettivo, si può stare completamente tranquilli. Un momento di passione non può diventare una buona ragione per abbandonare le pratiche del sesso sicuro. Per non parlare del fatto che se si viene colti in flagrante si rischia anche una denuncia per atti osceni in luogo pubblico.
A SETTEMBRE LA LIBIDO SI SPEGNE IN UN ISTANTE. Da I Lunatici Radio2 il 10 settembre 2019. Rosa Maria Spina è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dalla mezzanotte e trenta alle sei del mattino. La sessuologa ha parlato della criticità che diverse coppia riscontrano nel mese di settembre: "Il mese di settembre è estremamente delicato a livello di coppia sia da un punto di vista relazionale che da un punto di vista sessuale. Un mese critico. Vengono al pettine tutti quei nodi e quei problemi che si sono rimandati a giugno, luglio e agosto. Durante l'estate una serie di criticità e problemi vengono messi in stand by. Molte coppie rischiano di scoppiare a settembre. Questo mese fa anche rima con calo della libido. Non è una leggenda metropolitana, il desiderio a settembre cala. Dalle vacanze si rischia di tornare spompati, con la sindrome da rientro e tutta una serie di sintomi sia fisici che psicologici che incidono anche nella sfera sessuale". I sintomi elencati dalla sessuologa sono questi: "Sesso di spossatezza, inadeguatezza, insonnia, insofferenza nel fare le cose. C'è il desiderio di voler ritornare ai giorni delle ferie, si mette poco impegno nell'affrontare la quotidianità. Se avete sintomi del genere, bisogna correre ai ripari. Per risvegliare la libido bisogna coltivarla nel tempo. Ci vuole impegno. Bisogna capire anche a livello individuale cosa piace e cosa non piace. Il desiderio nasce da un aspetto mentale, è fatto di fantasie, bisogna partire dall'immaginario, poi iniziare a metterle in pratica e coltivarle". Consigli per una coppia in crisi: "Iniziare dal farsi delle richieste esplicite, dirette. Magari giocando. A carte ed esempio. Si gioca e chi perde paga pegno, spogliandosi e facendo qualcosa al partner. Bisogna coltivare la fantasia, il campo del detto e non detto. Un'altra cosa che consiglio ai miei pazienti è creare una sorta di scatola chiusa dove inserire dei bigliettini con desideri e fantasie che poi vengono pescati e messi in pratica dalla coppia".
Azzurra Barbuto per “Libero quotidiano” l'11 dicembre 2019. Una volta a Natale eravamo tutti più buoni, oggi siamo tutti più cornuti. Sembra infatti che il periodo dell' anno più favorevole per essere infedeli sia proprio quello che coincide con le festività natalizie, le quali offrono una miriade di occasioni e pretesti per assentarsi da casa e raggiungere appassionati amanti. Se lei ricorre alla scusa della corsa ai regali per vedere l' altro e trascorrere un pomeriggio bollente, lui diserta volentieri la festicciola aziendale per un appuntamento proibito, sicuro che la mogliettina non verrà mai a saperlo. Secondo un sondaggio condotto dal sito Incontri-extraconiugali.com su un campione di mille uomini e mille donne di età compresa tra i 24 ed i 65 anni, sette italiani su dieci aspettano proprio la tradizionale cena tra colleghi per lo scambio degli auguri al fine di concretizzare le loro fantasie sessuali, ma solo tre su dieci tradiscono i partner con qualcuno che lavora nel loro stesso ufficio. Con i colleghi di solito si flirta con l' obiettivo di allietare le lunghe e tediose giornate di sgobbo, eppure difficilmente si finisce a letto. Il 65% degli intervistati ha ammesso di avere avuto un qualche tipo di approccio con il compagno di lavoro, tuttavia ha aggiunto di non avere mai consumato. Del resto, il luogo deputato al tradimento è e si conferma senza dubbio la rete. Quattro abitanti del Belpaese su dieci considerano più conveniente racimolare un amante occasionale sul web, anche perché in tal modo scaricarlo (o scaricarla) è più agevole: puoi dirgli addio quando ti pare e sparire senza essere costretto a ritrovartelo ogni giorno tra i piedi, come accadrebbe in un ambiente professionale, e magari subirne ricatti e risentimenti. Poiché il sesso extraconiugale funziona soltanto quando è più leggero della noiosa vita matrimoniale. Allorché si complica e l' amante diventa appiccicaticcio e pesante, essere fedifraghi smette di darci piacere e siamo addirittura indotti a rivalutare il coniuge. Ecco anche il motivo per cui spesso le corna sono la struttura portante del matrimonio, senza di queste le unioni si sgretolerebbero e cadrebbero giù. A picco. Abbiamo bisogno di allontanarci da chi amiamo per ritornare più innamorati di prima. Quindi non fatene una tragedia se vostro marito a Natale vi regala un altro bel paio di corna, come l' anno scorso, piuttosto procuratevi di ricambiare il gesto con maggiore generosità, in quanto l' adulterio è ammesso e si sopporta, ma solo in condizione di reciprocità. Ben 70 italiani su 100 in questi convulsi giorni organizzeranno un incontro speciale con l' amante, magari in un hotel, o in un ristorante, o in un' altra città, dove poter passeggiare mano nella mano senza il pericolo di essere sorpresi da amici o parenti. Del resto, è proprio dall' amante che mariti e mogli devono farsi perdonare, poiché il 25 dicembre si è obbligati a stare con i familiari e giocare a tombola fingendo di spassarsela e va da sé che i partner clandestini vengono inevitabilmente trascurati. Si devono accontentare delle briciole del panettone, dei ritagli di tempo, delle telefonate fatte al volo chiusi in bagno, o di banalissimi messaggi d' amore del tipo: «Vorrei essere con te», «Mi manchi», «Ho mangiato il cotechino. E ti penso». Nonostante giovi alla salute fisica e mentale, l' essersi fatto l' amante comporta altresì le sue rogne. Una tra tante: l' obbligo del dono natalizio. Come se non bastasse arrovellarsi il cervello in cerca dell' acquisto più idoneo per lo sposo o la sposa, ci tocca comprare pure all' altro o all' altra un presente. I maschi, di solito, essendo muniti di minore fantasia rispetto alle femmine, risolvono la faccenda scegliendo per la consorte e per l' amica di materasso il medesimo gioiellino (si spera non l' aspirapolvere). Dalla ricerca di Incontri-extraconiugali.com risulta che quattro italiani su dieci acquistano un regalo pure per l' amante e che sono proprio le donne a spendere di più. Esse infatti hanno indicato un budget minimo di 100 euro per l' omaggio natalizio al compagno da tenere nascosto. Se intendete risparmiare, rinviate a gennaio le scappatelle. Del resto, la smania di rendere cornuto il partner non diminuisce mica dopo Santo Stefano, tutt' altro. A capodanno, come durante le settimane immediatamente successive, il sito di incontri extramatrimoniali registra un vero e proprio boom di visite ed iscrizioni. Forse l'avere vissuto gomito a gomito con i familiari nel corso delle feste fa sorgere una legittima voglia di evasione. O forse negli italiani nasce semplicemente il desiderio di rottamare l' amante dell' anno vecchio in cambio di uno più fresco.
Da leggo.it l'11 dicembre 2019. Ha scoperto che il fidanzato la tradiva grazie al Fitbit, il popolare smartwatch pensato per il monitoraggio dell'attività fisica. Il racconto, sui social, è diventato subito virale, un po' in tutto il mondo. La curiosa storia riguarda Jane Slater, giornalista molto famosa negli Stati Uniti, che vive a Dallas. È lei stessa, su Twitter, a raccontare la vicenda: il fidanzato di allora le aveva regalato un Fitbit per Natale e la coppia aveva deciso di sincronizzare i due dispositivi per motivarsi a vicenda nel momento di fare attività fisica. Fin qui niente di strano, se non fosse che, una notte, la reporter ha scoperto per caso il tradimento. «Il Fitbit era davvero utile per tenersi in forma, lo amavo, almeno fino a quando non ho notato che, alle 4 di notte, i suoi livelli di attività fisica avevano appena raggiunto il picco, come testimoniava la app» - ha raccontato Jane Slater - «In un eccesso di 'garantismo' avrei potuto pensare che si fosse iscritto ad un corso notturno in palestra, ma mi sembrava assai improbabile. E no, non mi sto inventando nulla, anzi, vorrei davvero che questa storia non fosse vera». Il racconto della giornalista, che si riferisce ad una storia ormai risalente a qualche anno fa, ha scatenato il web. Molte altre persone hanno rivelato alcuni aneddoti, molto simili a quello di Jane Slater. Quello di una utente è assolutamente impareggiabile: «Ho scoperto che il mio ex marito mi tradiva perché indossava proprio un dispositivo simile, che mia madre gli aveva regalato per Natale. Sembrava che stesse facendo una corsetta, a giudicare dal battito cardiaco, ma quando ho visto che era durata appena un minuto ho capito subito che si trattava di qualcos'altro».
“CI SIAMO PIEGATE ALLA NARRAZIONE MASCHILE DEL SESSO”. Marta Vigneri per Tpi.it il 26 giugno 2019. Quale donna non ha sognato, guardando scene erotiche di un film romantico, di comportarsi come l’attrice femminile della pellicola anche nei suoi momenti di intimità? Bella, formosa, slanciata, spigliata. Intraprendente. Spesso però la realtà è diversa dalla fantasia, e non corrisponde ai comportamenti proposti dai film che vedono come protagonisti gli smaniosi divi di Hollywood. Questo non vuol dire però che abbiamo qualcosa di sbagliato, ma che probabilmente abbiamo una verità erotica che si distanzia dall’immaginario comune. Lo spiega Elena Ferrante, autrice della saga partenopea “L’amica geniale“, in uno degli articoli pubblicati nella rubrica curata per il sito del quotidiano britannico The Guardian da marzo 2018 a gennaio 2019. “Anche oggi, ci pieghiamo e adattiamo alla narrazione maschile del sesso“, è il titolo tradotto in italiano dell’editoriale in cui la scrittrice affronta il tema della rappresentazione del sesso. “La scena erotica, in linea di massima, è stata costruita intorno al desiderio degli uomini nei confronti del nostro corpo. Dalla lirica d’amore alle serie televisive, siamo state rappresentate come la meta sospirata della loro passione”, scrive l’autrice di origine napoletana, inserita dal Time nella classifica delle 100 donne più influenti al mondo nel 2016. Secondo Elena Ferrante, le donne hanno finito per adattarsi ai modelli comportamentali imposti dai partner o suggeriti dall’industria culturale pur di sentirsi attraenti, riducendo così il piacere al compiacimento dei desideri maschili. “Il nostro piacere è consistito nel vederci indiscutibilmente collocate al centro della loro scena, prescindendo dalla reale soddisfazione del nostro desiderio”, afferma la scrittrice. Elena Ferrante è critica anche rispetto agli effetti prodotti dall’affermazione delle donne nella letteratura o nel cinema. Sempre più donne, infatti, hanno iniziato a dirigere o produrre pellicole, a scrivere saggi, per provare a offrire una rappresentazione femminile del rapporto con gli uomini. Ma anche all’interno di questi nuovi prodotti e contenuti, il ruolo della donna a letto risponde ai canoni che gli uomini hanno stabilito da qualche millennio. “Specialmente nelle serie televisive e nel porno, oggi ci viene raccontata una donna sessualmente molto più smaniosa, imperativa, fantasiosa, esigente. Il desiderio femminile è rappresentato come un’esplosione senza preliminari. Certe volte è la donna – bella – a fare la prima mossa”. Quasi sempre infatti è la donna a spogliare il maschio, spiega la scrittrice. Ma questi comportamenti fanno soprattutto la gioia dei maschi, e non di chi li adotta, che si limita ancora una volta ad adattarsi a quello che vuole l’altro. A quello che ci viene imposto dall’immaginario comune. Nonostante le donne si siano affrancate dal ruolo sottomesso che definiva le proprie madri o le proprie nonne, sono ricadute in un altro tipo di rappresentazione elaborata dall’immaginario maschile, quella della donna iperattiva, intraprendente e smaniosa, che continua a non tenere conto della sua vera intimità e dei suoi desideri più autentici. Elena Ferrante conclude l’editoriale della rubrica suggerendo alle donne di elaborare un racconto femminile che “pur dicendo dettagliatamente del sesso, non sia afrodisiaco, e perciò espliciti ciò che noi donne per pudore, per quieto vivere, per amore, sottaciamo”. “È possibile che la nostra verità erotica, per cominciare a esprimersi, abbia bisogno di questo passaggio”, scrive l’autrice. I 48 editoriali scritti dall’autrice nell’arco di un anno e pubblicati dal The Guardian sono stati raccolti nel libro “L’invenzione occasionale“, illustrato da Andrea Ucini.
Kevin Netto per “The Conversation” il 27 giugno 2019. Eccitarsi e sudare fra le lenzuola è equiparabile a fare ginnastica. La domanda è: vale anche quando lo facciamo in solitudine? Sì, la masturbazione non è solo piacevole ma dà benefici fisici. Già dagli anni ’60 le ricerche dicono che chi fa sesso, migliora a respirazione, il battito cardiaco e la pressione sanguigna, perché il corpo fatica come facesse esercizi. Ultimamente queste ricerche sono state fatte di nuovo, con mezzi più tecnologici e ottenendo risultati più realistici. Oltre ai benefici fisici, confermati, sono emersi significanti benefici psicologici. Quindi il sesso è uguale ad un esercizio? Dipende. Se paragoniamo il cambiamento psicologico che avviene, sono molto simili. La differenza è che il beneficio psicologico non riusciamo a mantenerlo costante con il sesso, perché lo facciamo poco. La componente muscolare è importante per la salute della persona, in genere si ottiene tramite esercizi di resistenza. Il sesso può sostituirli? E’ oggetto di una prossima ricerca. Intanto si è scoperto che la masturbazione è equiparabile ad un esercizio leggero. Non è come un rapporto intero, ma tipo una camminata. Gli esercizi a loro volta sono importanti per il sesso, soprattutto quelli pelvici, che nelle donne migliorano le funzioni sessuali. Gli sportivi dovrebbero evitare sesso prima di una competizione? No, se hanno abbastanza tempo per riprendersi dopo l’atto: servono un paio d’ore di riposo.
Emilia Urso Anfuso per “Libero quotidiano” l'1 luglio 2019. Un tempo, per verificare la virilità di un maschio italico, si tentava di scoprire quante volte lo facesse in una settimana o in un giorno. Le risposte erano spesso di molto esagerate dal diretto interessato, così da far intendere che la capacità e la resistenza, in ambito sessuale, fossero ai massimi livelli. Mai nessuno che abbia chiesto la stessa cosa a una donna, come se la sfera dei rapporti intimi fosse detenuta unicamente dal mondo maschile. Fino a qualche decennio fa alle donne era chiesta, al massimo, la cosiddetta "prova d' amore". Avrebbero dovuto chiamarla "Me la dai o no"? Ma forse suonava male. Col passare del tempo, e Internet, anche la sessualità è cambiata. L' avvento di siti porno ha permesso di sviluppare oltremodo l' autoerotismo, che provoca - in molti casi - l' abbattimento di un importante neurotrasmettitore, la dopamina, che cala di pari passo alla visione, sempre più estrema, di video pornografici. L' abitudine a questo tipo di erotismo virtuale, non solo ha causato una modifica per ciò che riguarda la naturale predisposizione umana a eccitarsi alla visione di un bel corpo, ma via chat - ha provocato un ennesimo scollamento dalla vita reale, spostando tutte le azioni fisiche sullo schermo dei cellulari, rapporti intimi compresi.
SEXTING due parole in una Ecco quindi arrivare il Sexting, termine coniato dalla crasi tra le parole sex e texting, e che rappresenta i rapporti intimi virtuali vissuti attraverso lo scambio di frasi, fotografie e video molto spinti principalmente attraverso l' uso di chat immediate come WhatsApp. Il fenomeno non riguarda soltanto gli adulti. Ora, infatti, ci troviamo di fronte a una vera e propria emergenza: i giovani, anche minori, la cui età del primo rapporto sessuale - secondo un recente studio commissionato dal Ministero della Salute sul tema della fertilità - si è abbassata addirittura a livello pre-adolescenziale. Sono molti i casi di ragazzine e ragazzini che consumano il primo amplesso a 12 anni, anche se la media si attesta intorno ai 16 anni. Un tempo la scoperta della sessualità avveniva attraverso il passaparola, e poi "sul campo". Oggi l' accesso al web consente a tutti, adolescenti in primis, di poter anche visionare materiale che funge come una sorta di nave scuola della sessualità. Non basta, e qui arriva il punto cruciale: l' utilizzo delle chat ha di fatto modificato le azioni del sesso, tramutandole in una parodia dei peggiori film pornografici, con tutti i rischi del caso. "Mandami una foto delle tette" può apparire quasi una richiesta innocente, in special modo a 14 anni o anche meno. Magari le richieste si fermassero a questo. Una ricerca condotta da Pepita Onlus nel 2016 - una cooperativa milanese che sviluppa attività di formazione e interventi educativi - attraverso il coinvolgimento di 2800 studenti lombardi che hanno accettato di rispondere a un sondaggio, ha fatto emergere come, 2 ragazzi su 5 nella fascia di età tra gli 11 e i 14 anni, abbiano fatto almeno un' esperienza di sesso virtuale. Un altro dato interessante su cui riflettere: il 73% degli adolescenti che hanno partecipato allo studio, hanno ammesso di aver ricevuto, senza volerlo, in chat, video e fotografie con contenuti di sesso esplicito. A parte il problema del precoce accesso alla sessualità, che permette ai giovanissimi di oggi di dar lezioni a noi adulti per quanto riguarda le pratiche sessuali, ma non sono informati sul tema della prevenzione delle nascite. Manca un programma d istruzione in tal senso, e i casi di bambine che pagano le conseguenze dell' ignoranza, e della mancanza di attenzione su questo tema, sono enormi.
C' è però un aspetto aberrante, e non se ne parla abbastanza: i rischi legati alla trasmissione di fotografie e video attraverso le chat, che spesso si trasformano in azioni di cyberbullismo. Basta un attimo, ed ecco che le immagini intime vengono diffuse in rete, e il minore entra in un vortice senza alcuna via di uscita. La Regione Lombardia, da sempre attenta a questi temi, già da anni cerca di prevenire i danni di tutto questo attraverso campagne d' informazione, indagini e progetti. Il direttore della Casa Pediatrica Fatebenefratelli Sacco, Luca Bernardo, non ha mai avuto dubbi: la parola d' ordine è «prevenzione e informazione». Ed è necessario, anche, formare gli insegnanti e le famiglie, su come comprendere fin dai primi segnali se un adolescente è vittima di bullismo virtuale e se pratica sexting. Un elemento tra tutti: solitamente, uno dei primi segnali da notare, è rappresentato dall' isolamento dell' adolescente. Inoltre, sempre in Lombardia, è stata approvata una legge regionale che ha l' obiettivo di contrastare, e di monitorare, i fenomeni di molestie sessuali all' interno di chat e siti web. Ci troviamo di fronte a una vera emergenza, anche educativa. Non si può attendere l' ennesimo gesto estremo di un adolescente vittima di revenge porn, per fare qualcosa. È dello scorso marzo la notizia di una ragazzina di Lodi di appena 13 anni che si è tolta la vita perché, dopo aver inviato alcune foto hot via chat, riceveva ricatti e minacce. Il controllo da parte dei genitori, evidentemente, è superficiale, e questo contribuisce ad alimentare quello che è ormai divenuto un settore parallelo alla pornografia. Ai rischi legati allo sviluppo armonico dell' individuo, anche in ambito sessuale, vi sono quelli legati alla sicurezza. È necessario agire a livello nazionale e subito.
“IL SESSO A TRE PUÒ SALVARE UNA COPPIA IN CRISI”. Da Radiocusanocampus.it il 26 settembre 2019. La Sessuologa Rosamaria Spina è intervenuta nel corso del programma “Genetica Oggi” condotto da Andrea Lupoli su Radio Cusano Campus, riguardo il trema del sesso a tre. "Il sesso a tre o threesome è una fantasia molto forte e molto comune ma il numero di coppie che concretizza questa fantasia è minore rispetto alla fantasia stessa. Spesso ci si trova su piani differenti dove uno dei due partner vuole solo accontentare l'altro o l'altra. Ricordo il caso di una coppia che seguivo in terapia. Fu lei ad insistere per un rapporto a tre, lui era molto titubante però era un rapporto apertamente in crisi e lui accettò solo perché pensava che peggio di così non potesse andare. La situazione gli sfuggì completamente di mano e la relazione di li a breve finì. Mi è capitato invece con coppie che avevano difficoltà sessuali che sceglievano di fare sesso a tre con un uomo esterno trasformato nel "salvatore della coppia". Inserirono quest'uomo nella loro relazione sessuale per superare le loro problematiche a letto. Era però una coppia che relazionalmente parlando era perfetta, avevano solo una problematica di tipo sessuale che hanno risolto in questo modo." "Il sesso a tre se non viene condiviso dai partner che la mettono in atto, ma uno dei due lo fa solo per accontentare l'altro o l'altra allora diventa pericoloso e già di base la coppia parte con il piede sbagliato perché non c'è condivisione, non c'è complicità e non c'è quel giocare insieme. Il sesso a tre può essere un modo per salvare una relazione quando c'è una base di partenza comune, entrambi devono partire dagli stessi presupposti, devono voler concretizzare la stessa fantasia. Se uno dei due 'forza la mano' il rischio è quello di distruggere la coppia e farla crollare." "Dovendo dare dei consigli per evitare che il “menage a trois” si trasformi in un disastro per la coppia, possiamo dire che appunto ci deve essere di base un desiderio comune, poi c'è bisogno di non lanciarsi subito nella concretizzazione della fantasia stessa ma pensare a quale persona inserire nel rapporto e frequentarla prima, non perché c'è bisogno di instaurare un'amicizia ma per capire se è allineata con le proprie aspettative, perché potrebbe averne di diverse da quelle della coppia e se emergono durante il rapporto a tre potrebbero fare del male alla coppia stessa."
DONNE, SAPETE QUALI SONO LE FANTASIE SESSUALI PIÙ PERVERSE DEL VOSTRO UOMO? DAGONEWS il 23 giugno 2019. Sapete quali sono le fantasie sessuali segrete del vostro partner? Probabilmente no, anche perché c’è un’enorme differenza tra ciò che vogliono gli uomini e ciò che vogliono le donne.
Il novantasei per cento delle persone ha fantasie sessuali, anche se quelle delle donne sono più coinvolgenti. Le donne leggono di più, sono più fantasiose e hanno bisogno di più stimoli. Ecco perché normalmente le fantasie femminili hanno quasi sempre una trama, personaggi e un arco narrativo. Gli uomini vanno al punto e sono sessualmente più espliciti. Spesso hanno in mente un'immagine semplice e non lo sviluppo di un “film” e riguarda spesso qualcuno che pensano di potersi trombare nella vita reale. Anche perché l'idea della ragazza perfetta non è così diversa da come appare una donna media. Questo è il motivo per cui i siti porno amatoriali e le webcam in diretta con ragazze dall'aspetto normale sono così popolari tra gli uomini. Le donne, d'altra parte, non hanno problemi a immaginare Bradley Cooper che allunga le mani sotto la gonna. È una delle poche volte in cui le donne permettono al loro ego di dilagare. Un'altra differenza significativa: le donne sono più propense a fantasticare di più quando fanno molto sesso. Gli uomini quando lo fanno troppo poco. Ma le differenze non finiscono qui. A spiegarle è la sexperta Tracey Cox che rivela cosa piace più ai maschietti e perché certe volte le donne non sono in grado di accontentarli.
Fantasie sulla partner. Se c'è una persona che con più probabilità compare nelle fantasie è proprio la compagna. Nove su dieci hanno fantasticato sull’attuale partner e il 51% lo fa spesso. Le fantasie sono incentrate su cose che hanno già fatto in camera da letto o che vorrebbero fare. Contrariamente all'opinione popolare, gli uomini in realtà non fantasticano su un flusso infinito di atti sessuali senza emozioni con donne senza volto. Vogliono esperienze sessuali che li facciano sentire qualcuno. Nei loro sogni e nella realtà. Detto questo, è logico che la compagna ne faccia parte.
Avere un ménage à trois o sesso di gruppo. L'ottantanove per cento delle persone riferisce di fantasticare su un ménage à trois. È molto più probabile che gli uomini eterosessuali preferiscano la combo uomo/donna/donna, il che è un bene visto che le donne etero sono più aperte al sesso a tre con altre donne rispetto che a due uomini. Nelle fantasie maschili è molto probabile che la partner sia uno dei tre partecipanti. Spesso si fantastica su un rapporto con la partner e la sua migliore amica. Per un uomo è l’equivalente di essere in un negozio di dolciumi. Se fare sesso con una donna fa sentire bene, fare sesso con due deve essere il doppio del divertimento. Nella fantasia maschile, questo tipo di rapporti lo fa sentire un super stallone, capace di portare a godere due donne. In realtà, molti uomini sono preoccupati di riuscire a soddisfare già una sola donna, ecco perché questa rimane spesso una fantasia. Gli studi dimostrano che la stragrande maggioranza degli uomini non vuole avere rapporti del genere. Il sesso di gruppo è una fantasia che accomuna entrambi i sessi. È un inebriante mix di esibizionismo, voyeurismo, curiosità e desiderio di eccessi.
Fantasie bdsm. Le fantasie degli uomini hanno spesso l’idea del dominio e della sottomissione. Sono più le persone che vogliono rinunciare al controllo che assumere il controllo durante il sesso e questo si riflette nelle nostre fantasie. L’idea di poter prendere il controllo della propria partner fa perdere la testa ai maschi. Ma c’è anche chi ha voglia di essere dominato e di ribaltare il piano di azione.
Sesso orale. Dare o ricevere sesso orale è quasi in cima alla lista per entrambi i sessi. La fantasia ha un ingrediente vitale. La donna non lo fa per dare piacere, lo fa per ottenere piacere, adorando il pene, implorandolo di poterlo prendere in bocca. Lei accompagna il sesso orale con un sacco di commenti come, "Dio, è enorme". Anche se il sesso orale è qualcosa che quasi tutte le coppie fanno, una parte di noi pensa segretamente al sesso orale come "più spinto" del rapporto sessuale.
Sesso con diversi partner. Molti uomini desiderano fare sesso con qualcuno di nuovo e la fantasia è un ottimo modo per assecondare questo desiderio senza tradire la partner. La maggior parte delle persone che hanno fantasie non monogame sono in una relazione monogama. C’è da dire anche un’altra cosa: la monogamia consensuale non è molto popolare anche perché meno eccitante. Che si ottenga il permesso dal partner per poter dormire con qualche altro non è poi così eccitante quanto farlo di nascosto.
Fare qualcosa di nuovo. Cambiare le cose, variare i partner, le posizioni è una fantasia maschile molto popolare. La posizione maschile preferita è la pecorina (la seconda preferita delle donne). Altra fantasia che fa impazzire gli uomini è fare sesso in un luogo pubblico.
Sesso Anale. Non si tratta di penetrare la propria compagna, ma di farsi penetrare. Molti uomini non lo dicono per vergogna, ma ci sono un’infinità di sex toys che permettono a una donna di dotarsi di un pene finto. Quasi due terzi degli uomini e delle donne fantasticano sul sesso anale. Non significa che abbiano tendenze gay, il retto è pieno di terminazioni nervose e molti uomini vorrebbero esplorare questa zona ma non osano chiedere. Continuare a fantasticare per loro è la cosa migliore.
Guardare la propria partner fare sesso con un altro uomo. Un numero sorprendente di uomini sposati (circa il 58%) ha "fantasie da cornuto", il che significa che trovano la prospettiva che le loro mogli facciano sesso con altri uomini assolutamente eccitante. Non è un caso che dopo “ragazze giovani” l’altra ricerca più frequente sui siti porno tra gli uomini sia proprio quella di video in cui un finto marito guarda la pseudo compagna fare sesso con uno stallone. Perché? Alcuni dicono che un modo per trasformare la paura di essere traditi in qualcosa di erotico. Non è un caso che gli studiosi parlano di "competizione dello sperma": gli uomini riferiscono di spingere sempre più in profondità durante il sesso quando sospettano che la partner abbia tradito, come per spostare lo sperma del rivale. Per gli psicologi, invece, si tratta di vivere di gloria riflessa: è uno status symbol avere una moglie con cui gli altri uomini vogliono trombare.
Guardare gli altri fare sesso. Capita raramente di poter vedere una coppia fare sesso. Certo c’è il porno, ma non è reale ed è meno affascinante. Guardare le persone fare sesso consente confronti più realistici. Tutti amiamo pensare di essere i migliori e osservare altre persone ci può fare gonfiare l’ego immaginando di essere migliori.
Essere sedotti e finire a letto con una donna più grande. Si inizia con l’insegnante a scuola e si prosegue con altre persone nella vita. Quasi ogni uomo, ad un certo punto della sua vita, immagina di andare a letto con una donna più grande e molti avverano questa fantasia. Le donne più mature sono percepite come sessualmente esperte, si immagina prendano il controllo e saranno delle bombe del sesso. Se un uomo non è particolarmente sicuro di sé e soffre di ansia da prestazione, ha più probabilità di avere questa fantasia.
GUIDA PER I GENTILUOMINI CHE SI APPRESTANO A VEDERE FILM PORNO CON LA RAGAZZA. Bridget Phetasy per Playboy il 31 luglio 2019. La prima cosa che un uomo vuole fare, quando scopre che conosci bene il suo genere preferito, è guardare del porno insieme. La sua mente è un ricettacolo di licenziosità, piena zeppa di pensieri perversi, perciò, se volete rendere piccante la vostra relazione, che sia di lunga data o occasionale, ricordatevi che una volta avuto accesso ai meccanismi depravati del vostro partner, non si torna più indietro. Mi permetto di stilare una guida per i gentiluomini che si apprestano a vedere film per adulti con la ragazza. Innanzitutto cancellate la cronologia, per evitare di marcare subito maiali con titoli che sono tutti un programma. Accendete una candela, mettetela a suo agio: la cosa non funziona se la donna non si sente al sicuro. Controllate in continuazione il suo stato emotivo, chiedendole se è tutto ok. Inizialmente state lontani da siti di bondage e sadomaso, non esponetela ad immagini traumatiche, a meno che lei non sia già esperta. Insistete affinché sia lei a scegliere. Se non lo fa, non ci cascate: vi sta mettendo alla prova e voi dovete scegliere saggiamente. Cosa? Un porno per donne. Uomini e donne non guardano gli stessi porno, e, all’interno del porno, non sono eccitati dalle stesse cose. Potete scegliere un video lesbo, o una cosa a tre, per non sbagliare. Controllate le sue reazioni: se è scioccata, non è il caso di continuare. Fatele complimenti: anche la donna più bella al mondo ha bisogno di sentirsi dire belle parole, soprattutto se sta guardando all’opera delle pornostar che ogni uomo desidera. Se necessario mentite, ditele che tutti sanno che lo “squirting” non esiste e che è una aspettativa non realistica, ditele che le tette rifatte sono volgari. Lei non deve sentirsi sotto pressione e non all’altezza delle aspettative dell’uomo. Se la vostra partner appare rilassata, voi non rilassatevi, non raccontatele subito le vostre fantasie fetish più zozze. Semmai lavorate affinché, nel tempo, si crei quella confidenza e fiducia che le renderanno realizzabili. Tra i film porno, evitate assolutamente le categorie “Teen”, “Milf”, “Mom” e “Step-Mom”: sono le categorie più cercate dagli uomini ma fate la figura del pervertito. Evitate domande di cui non volete sentire la risposta o che vi renderebbero gelosi, tipo: «Sei mai stata con un uomo con il cazzo così grosso?». Se lei vi sembra più disturbata che eccitata, be’ lasciate stare, oppure dedicatevi a un cunnilingus, per farla tornare protagonista.
OGGI È LA GIORNATA MONDIALE DELL'ORGASMO, QUELLA COSA CHE DURA 10,9 SECONDI PER LE DONNE E 8,7 PER I MASCHI. Maria Elena Barnabi per cosmopolitan.com il 31 luglio 2019. Oggi è la Giornata mondiale dell’orgasmo e, qualsiasi cosa voglia dire, è il giorno in cui bisogna scrivere di orgasmo. Secondo un sondaggio del retailer inglese di sex toys Lovehoney (uno due più grandi distributori al mondo), la durata media dell’orgasmo femminile è di 10,9 secondi contro gli 8,7 dei maschi. Tutto qua? Tuto qua. Ho sempre pensato che si trattasse di un evento sopravvalutato. Per carità, bello e tutto quanto, ma l'orgasmo da solo non è quasi niente. La prima volta che mi è capitato mi sono chiesta: “Tutto qua? È questo per cui gli uomini e le donne si sposano, fanno figli, fanno le pazzie e le guerre? È questo essere adulti?”. Scoprii poi con il tempo che non era proprio solo quello: quel che conta, che conta davvero, è quel che ti porta lì, quel c’è prima, il sesso appunto, la passione, gli odori, l’amore. Perché allora siamo tutti così fissati con l’orgasmo? In realtà siamo tutti fissati con l’orgasmo femminile, ché quello maschile c’è sempre, è facile da raggiungere, e non è che abbia tante varianti. Fino a non molti anni fa, quello femminile era un accessorio: creato misterioso dalla natura per, dicono i sessuologi, tenere viva l’attenzione del maschio che mai sa quando la donna è venuta, e per alimentare l’enigma dell’eterno femminino, era un accessorio trascurabile del rapporto sessuale, poiché non necessario alla procreazione. Dalla rivoluzione sessuale in poi, diventa un diritto come guidare l’auto e lavorare. Le cose però non stanno andando così: a 50 anni dal ’69, uno studio recente apparso sul prestigiosissimo Archives of Sexual Behavior dice che solo il 65% delle donne eterosessuali raggiunge l’orgasmo mentre fa l’amore con un uomo. Meglio fanno le bisessuali con il 66, le lesbiche con l’86%, i bisessuali con l’88%, i gay con l’89%, ma nessuno batte i maschi eterosessuali che hanno un orgasmo il 95% delle volte. Secondo lo stesso studio, le donne che raggiungono l’orgasmo più facilmente delle altre sono quelle che (nell’ordine) ricevono più sesso orale, sono più soddisfatte della loro relazione, dicono al partner cosa fare a letto e lo riempiono di complimenti per quel che fanno. In sostanza, l’orgasmo è strettamente correlato a quel che succede prima e alla comunicazione tra i due partner, non a una particolare tecnica amatoria (se si esclude il sesso orale). Quel che conta, insomma, è il prima. La fine è solo un accessorio.
Infezioni sessuali in aumento, contagiato un italiano su 24: "Oltre sei miliardi di casi in tutto il mondo". Melania Rizzoli su Libero Quotidiano il 23 Giugno 2019. Un milione di nuovi casi al giorno, ovvero 376 milioni all' anno, sono i nuovi casi delle Infezioni Sessualmente Trasmissibili (Ist) che si verificano nel mondo, le quali, sommandosi a quelle già diagnosticate ed in cura, superano ormai i sei miliardi. In Italia si calcola che 1 persona su 24 abbia almeno una di queste infezioni, e spesso sono presenti più malattie sessualmente trasmissibili nello stesso soggetto, il quale sovente è inconsapevole di esserne portatore, e le quattro principali patologie batteriche incriminate sono: clamidia, gonorrea, tricomoniasi e sifilide, mentre tra le infezioni virali predominano il Papilloma Virus e l' Hiv. Mentre le malattie sessuali virali possono attenuarsi con i farmaci specifici, ma non guarire, quelle batteriche sono facilmente curabili e guaribili con gli antibiotici, ma poiché spesso sono asintomatiche, i pazienti non si accorgono di essere a rischio o di essere contagiati e non si sottopongono quindi a test e controlli, diffondendo inconsapevolmente l' infezione ai vari partner sessuali. Le Its si diffondono prevalentemente attraverso il rapporto sessuale non protetto, ed è importante sottolineare che si trasmettono durante qualsiasi tipo di contatto, sia esso vaginale, anale od orale, ma il contagio avviene anche attraverso lo sperma, la secrezione pre-spermatica, le secrezioni vaginali, la saliva, ed anche con il contatto diretto della pelle nella zona genitale, delle mucose genitali, anali e della bocca.
ATTRAVERSO IL SANGUE. Inoltre esse si possono diffondere anche attraverso il sangue, ad esempio con i tatuaggi, i piercing, la puntura di un ago contaminato o con il semplice sfregamento con ferite aperte e sanguinanti, o con rapporti sessuali con una partner infetta durante il periodo mestruale. I dati sono stati diffusi dall' Oms, l' Organizzazione Mondiale della Sanità, che ha registrato nel 2016, tra uomini e donne tra i 15 e i 49 anni, 127milioni di casi di clamidia, 87milioni di gonorrea, 6.3milioni di sifilide e 156milioni di tricomoniasi, tutte malattie che se non curate, possono condurre a seri effetti cronici sulla salute, incluse malattie neurologiche, cardiovascolari, infertilità, gravidanze ectopiche, mortalità neonatale e aumento del rischio dell' Hiv, il virus dell' Aids. La sifilide, per esempio, che sempre nel 2016 ha provocati oltre 200mila casi di neonati morti prima o dopo la nascita, è diventata la causa principale di perdita del bambino appena nato a livello globale, perché essendo tale patologia asintomatica nei primi mesi, i pazienti non si accorgono di aver contratto l' infezione, e quindi contribuiscono a diffonderla. Tali infezioni sono quindi ovunque e più diffuse di quanto si creda, pur essendoci test e trattamenti tempestivi ed accessibili a tutti per ridurne l' impatto, e nel nostro Paese l' Istituto Superiore di Sanità ha registrato nel 2016 un aumento del 70% circa dei casi di sifilide rispetto all' anno precedente, del 50% dei casi di Chlamydia Trachomatis, oltre ai casi di condilomi ano-genitali addirittura triplicati, e la cosa preoccupante è che queste diagnosi sono state fatte su soggetti tra i 20 e i 25 anni, ma moltissime sono per esempio le ragazze che ignorano di esserne affette, e scoprono dopo dieci anni di essere diventate sterili.
PER DIFENDERSI. La prevenzione è l' arma più utile per combattere queste infezioni, con l' uso corretto del condom e l' educazione alla salute sessuale, e l' Oms ha raccomandato che le donne in gravidanza debbano essere sistematicamente sottoposte a screening per la sifilide e l' Hiv, una strategia che ha come obiettivo quello di diminuire l' impatto delle malattie sessualmente trasmissibili sulla salute pubblica entro il 2030. Inoltre è stato diffuso un vademecum per allertare la popolazione su segnali come bruciori, secrezioni, perdite, comparsa di verruche o piccole ferite a livello genitale, tutti sintomi che non andrebbero sottovalutati ma sottoposti all' osservazione medica. In Italia è attivo da anni il telefono verde 800.861.061 (dal lunedì al venerdì dalle 13 alle 18) che svolge attività di consulto telefonico per la prevenzione delle infezioni da HIV e delle Its, e che fornisce anche gli indirizzi dei centri diagnostici a cui rivolgersi nelle diverse città. Nel dubbio, una telefonata, con garanzia di anonimato, potrebbe evitare il cronicizzarsi di una patologia che invece, se non curata, può produrre molte complicanze, e condurre all' infertilità o ad infezioni sistemiche le nostre giovani generazioni. Melania Rizzoli
Uomini e prostata. Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 4 agosto 2019. L'avete vista tutti. È quella pubblicità televisiva nella quale un uomo di circa 60 anni ha necessità di alzarsi più volte la notte per urinare, e quando rientra in camera la moglie si sveglia, e lui inventa una scusa, pur di non confessarle il suo intimo problema. Un tipico atteggiamento maschile dettato dal pudore, ed un errore grave, perché i disturbi urinari non dovrebbero essere banalizzati o declassati a semplici fastidi legati all' età, in quanto, se venissero curati già al loro esordio, si otterrebbe un ritardo di almeno un decennio degli importanti ed invalidanti effetti collaterali.
Oggi oltre 6 milioni di italiani over 50 sono colpiti da ipertrofia prostatica benigna, un ingrossamento della prostata che affligge il 50% degli uomini di età compresa tra i 51 e 60 anni, il 70% dei 61-70enni, per arrivare al picco del 90% negli ottantenni. In condizioni normali nell' uomo adulto la ghiandola prostatica ha la forma ed il volume di una castagna, è attraversata dal condotto urinario, è posizionata sotto la vescica, ed ha la funzione di produrre liquido prostatico, importante componente del liquido seminale che contribuisce a garantire vitalità e mobilità agli spermatozoi. Quando inizia ad ingrossarsi (può superare anche di due o tre volte le dimensioni normali fino ad arrivare al volume di un mandarino) essa comprime il canale uretrale che la attraversa, ovvero il condotto dove scorre l' urina, riducendone il lume e causandone di fatto una parziale ostruzione, uno strozzamento che interferisce con la capacità di urinare, per cui il sintomo principe, ed il primo a comparire, è l' indebolimento del getto di deflusso, in particolare all' inizio della minzione, che diventa intermittente, a scatti, e che inizia lentamente a non essere più decisa ed impetuosa, perde la forza della sua gittata anche a vescica piena, diventando sempre più debole, e spesso è accompagnata da una fastidiosa sensazione di incompleto svuotamento vescicale, per la permanenza in vescica di un residuo urinario che facilita l' insorgenza di infezioni, nonché la formazione di calcoli. Presto però scompare anche la capacità di dormire in modo continuativo tutta la notte, di fare tutta una tirata dalla sera fino all' alba, perché il sonno viene interrotto dallo stimolo urinario con conseguente necessità di alzarsi una o più volte per andare in bagno (nicturia), e successivamente insorge l' urgenza di svuotare la vescica in modo frequente anche durante il giorno (pollachiuria), con sgocciolamento terminale dopo aver finito di urinare, e le gocce che continuano ad uscire dal prepuzio sono quelle che ristagnavano sul fondo vescicale, quindi sempre acide e di tipo irritativo. Purtroppo nella prima fase infiammatoria di questa malattia più del 75% degli uomini non si cura affatto, o peggio ricorre al "fai da te", soprattutto assumendo vari integratori vegetali, un errore grave, perché questi preparati, non essendo farmaci, non sono curativi, e perché solo il medico può trattare l' ipertrofia prostatica benigna, la quale, se trascurata, può progredire fino a causare ritenzione urinaria con impossibilità a svuotare anche parzialmente la vescica. La vera vittima di una prostata che cresce infatti, è proprio la vescica, la quale, essendo costituita da tessuto muscolare, può aumentare il suo volume ed ispessirsi, per vincere la resistenza ostruttiva della prostata ingrossata che si oppone allo svuotamento, con il rischio di sfiancamento delle pareti vescicali e di sofferenza riflessa degli ureteri e dell' intero albero urinario fino a livello dei reni, gli organi emuntori per eccellenza. È necessario sottolineare che i sintomi dell' ipertrofia prostatica benigna spesso sono comuni e simili a quelli causati del tumore maligno della ghiandola, per cui è sempre necessaria una diagnosi differenziale, tramite esami clinici, ematologici, istologici, ecografici e radiologici, per escludere che si tratti di carcinoma. La visita urologica con esplorazione rettale, seguita da una ecografia endocavitaria, rappresenta ancora un tabù nell' universo maschile, e la maggior parte dei pazienti arriva all' osservazione clinica a malattia già conclamata ed avanzata, quando c' è poco da recuperare, per cui è importante dopo i 50 anni sottoporsi in via preventiva ad una visita specialistica. Ma perché la prostata si ingrossa? Le cause principali di questa patologia benigna sono l'invecchiamento e i cambiamenti ormonali (andropausa) che si verificano nell' età matura, per cui è importante aggredire l' aumento di volume prostatico al suo esordio, quando compaiono i primi sintomi, per ritardare la cronicizzazione della malattia e delle sue complicanze, che possono arrivare all'uso perpetuo del catetere vescicale fino alla rimozione chirurgica dell' intera ghiandola, con effetti permanenti sulla salute sessuale e psicologica dei soggetti che vengono privati di un organo così identitario della mascolinità. I farmaci oggi disponibili comprendono gli inibitori delle 5-alfa reduttasi, ovvero la dudasteride e finasteride, che agiscono sul testosterone responsabile dell' ingrossamento ghiandolare, e gli alfa-bloccanti, che rilassano i muscoli del collo vescicale e dell' uretra prostatica, facilitando il passaggio dell' urina. Come tutti i farmaci, anche questi presentano effetti indesiderati (eiaculazione retrograda, ipotensione ortostatica, vertigini ed astenia), e la finasteride, in una bassa percentuale tra l' 1 e il 2% può causare diminuzione della libido e impotenza. Il trattamento chirurgico non è più invasivo come una volta, si effettua senza aprire l' addome, è lo stesso che viene effettuato per i tumori maligni diagnosticati in tempo, quando sono ancora contenuti nella ghiandola, si chiama T.U.R.P., e si effettua in anestesia spinale con uno strumento detto Resettore, introdotto in vescica dal pene attraverso l' uretra, e dotato di un sistema a fibre ottiche e di un' ansa, tramite la quale si procede a resezione solo della porzione centrale ed interna della prostata, lasciando intatto il resto dell' organo, ripristinando in tal modo il canale urinario ad un calibro congruo a consentire una minzione regolare. La mini-invasività della Turp e la sua rapidità di esecuzione (inferiore ai 60minuti), e la breve degenza (due al massimo tre giorni), lo hanno reso senza dubbio il procedimento chirurgico di prima scelta nel trattamento della ipertrofia prostatica e di alcuni tipi di carcinomi, ma, nel caso della tumefazione benigna, esso viene eseguito solo dopo aver tentato la riduzione ghiandolare con la terapia farmacologica, oppure quando le dimensioni molto aumentate della prostata non lasciano altra scelta. È importante sfatare una leggenda popolare, ovvero sottolineare che questo tipo di operazione, lasciando intoccati i nervi erigendi, responsabili dell' erezione peniena, che hanno un decorso esterno alla prostata, non compromette affatto la potenza sessuale ed il raggiungimento dell' orgasmo, che vengono interamente conservati, ma ha come effetto collaterale l' eiaculazione retrograda nel 70% dei casi, ovvero lo sperma viene eiaculato non più all' esterno ma in vescica, e tale fenomeno è correlato all' abbassamento della pressione a livello del collo vescicale, e quindi a monte dei dotti eiaculatori, cosa che determina una risalita del liquido seminale in vescica, con conseguente impossibilità futura del soggetto operato alla procreazione. L' ipertrofia prostatica benigna è la patologia cronica più frequente negli over 50 dopo l' ipertensione arteriosa, e per evitarla o ritardarla è quindi importante la prevenzione, controllarsi per tempo ai primi sintomi e seguire le indicazioni mediche e farmacologiche, perché, e questo gli uomini lo sanno bene, la prostata può tornare utile anche in età avanzata, invece di diventare sterili o con il catetere fisso da gestire dentro i pantaloni.
COGLIETE LE PALLE AL BALZO! Irma D' Aria per “Salute - la Repubblica” il 16 luglio 2019. Una " spia" che segnala le condizioni di salute generali ma anche i rischi a cui si è più esposti. La mancata realizzazione del desiderio di paternità non è l' unica conseguenza dell' infertilità maschile che, purtroppo, si porta dietro un rischio maggiore del 20% di sviluppare un tumore del testicolo della linea germinale. «L' infertilità maschile - spiega Ermanno Greco, responsabile scientifico del Centro di Medicina della Riproduzione dell' European Hospital di Roma - non va intercettata e curata solo per fini procreativi ma anche per prevenire lo sviluppo di patologie oncologiche dell' apparato urogenitale, a cui il maschio infertile sembrerebbe essere più esposto » . È stato dimostrato, infatti, come le alterazioni seminali, cioè un basso numero di spermatozoi nel liquido seminale, ma anche una loro peggior qualità per motilità e forma, siano un fattore di rischio per lo sviluppo di un tumore testicolare. Il rischio è circa il doppio nei parenti di primo grado di uomini infertili rispetto a quelli della controparte fertile. «Oggi, però, si ipotizza anche una possibile correlazione con tumori della prostata e del colon-retto, melanomi, leucemie linfoblastiche acute, linfomi non Hodgkin e alcune forme di tumori della tiroide » , aggiunge Andrea Salonia, direttore dell' Istituto di Ricerca urologica presso la Divisione di oncologia sperimentale dell' Irccs Ospedale San Raffaele di Milano. Non solo tumori: varie ricerche hanno, infatti, evidenziato come l' infertilità maschile sia il segnale di altri problemi di salute tra cui infezioni urinarie, malattie autoimmuni, disturbi renali, endocrini e metabolici. Purtroppo, l' infertilità maschile è in costante aumento e interessa oltre 45 milioni di coppie nel mondo: « È responsabile di almeno il 50% delle infertilità di coppia perché il numero degli spermatozoi dal 1970 a oggi si è dimezzato e si stima che fino al 12% degli uomini avrà problemi di fertilità nel corso della loro vita » sottolinea Greco. Ma perché l' uomo infertile è meno sano? Secondo gli esperti, è come se fosse affetto da una sorta di sindrome da senescenza anticipata, come se esistesse una discrepanza tra la sua età cronologica e quella biologica, che è espressione di quanto il suo corpo sia effettivamente invecchiato. Il parametro chiaro in questo senso è rappresentato dalla qualità e dalla quantità degli spermatozoi. Per dimostrarlo, il gruppo di ricerca di Salonia ha utilizzato l' indice di comorbidità messo a punto e scientificamente validato trent' anni fa dal medico Mary E. Charlson. Questo indice permette di dare un punteggio alla severità di ogni malattia in base al rischio che a un anno dalla diagnosi possa determinare la morte della persona ammalata. Dall' analisi è emerso che gli uomini infertili hanno un indice di comorbidità superiore a quelli fertili, cioè sono meno sani. «Maggiore è l' indice - prosegue Salonia - peggiore sembra essere la qualità del liquido seminale, ma soprattutto tanto più ridotta è la quantità di spermatozoi nel liquido seminale, tanto maggiore si è rivelato essere l' indice di Charlson con condizioni di salute complessivamente peggiori » . Tra le malattie riscontrate con più frequenza nei soggetti infertili c' è l' ipertensione arteriosa, che nel campione degli uomini italiani studiati al San Raffaele è stata individuata nel 7% dei casi contro circa il 3% di un gruppo di controllo fertile di pari età. Non solo: i ricercatori hanno rilevato che fino al 15% degli uomini infertili soffre di una condizione definita di prediabete.
TRAGIC INSTINCT. DAGONEWS il 17 giugno 2019. Per decenni, nessun film hollywoodiano rivolto a un pubblico adulto era considerato completo se non c’era una scena di sesso. È sempre stato così da “Do not Look Now” a “Basic Instinct”. Eppure sembra che l'erotica stia morendo nel cinema mainstream. Un'analisi pubblicata sul Washington Post la settimana scorsa ha osservato che il sesso sta scomparendo dal grande schermo e sta rendendo i film meno piacevoli. Quello che è emerso dai numerosi festival prodotti in Europa è che si passa da film come “Mektoub, My Love”, pieno di scene hot, a film per famiglie senza nemmeno un solo fotogramma in cui si veda del sesso o ci sia un accenno all’argomento. «Oggi in un film mainstream orientato al pubblico adulto – ha scritto il Washington Post - la scena di sesso viene ampiamente dimenticata e ignorata, ricondotta ai margini come in molte generazioni fa». Ma perché? Secondo gli accademici e gli osservatori della cultura hollywoodiana, le ragioni sono molteplici e suggeriscono che il business del cinema sta attraversando un profondo riallineamento delle priorità supportato da ampi cambiamenti culturali, politici e legislativi. Secondo Stephen Galloway, editorialista dell'Hollywood Reporter, i cambiamenti sono principalmente economici: Hollywood non si può più permettere di produrre drammi a metà budget in cui si inseriscono scene di sesso. Oggi i film devono fare appello ai "quattro quadranti" - maschile e femminile, al di sopra e al di sotto dei 25 anni. «Non è un nuovo puritanesimo, Hollywood è sempre stata puritana. Riguarda l'economia – ha affermato Galloway - Includi il sesso e otterrai una valutazione "R", e questo significa niente bambini: questo non porterà più un pubblico dei quattro quadranti». Le attuali eccezioni riguardano i drammi musicali che coinvolgono l'amore omosessuale: testimoniano il successo il film drammatico di Elton John “Rocketman”, o il film biografico sui Queen “Bohemian Rhapsody”, che secondo quanto riferito, ha prodotto un giro di affari da un miliardo di dollari per i suoi produttori, il batterista e il chitarrista del gruppo. Ma nessuna discussione sul sesso nel cinema nel 2019 può aver luogo senza riferimento al #MeToo, il movimento che ha portato profondi cambiamenti su ciò che le donne possono chiedere nei loro contratti. «Le donne si sentono meno costrette ad accettare la nudità e hanno il potere di dire di no» ha detto Galloway. Parte del cambiamento, è di nuovo un fatto economico. Le attrici, se sono fortunate, possono ottenere guadagni sfruttando la loro immagini per marchi di moda e bellezza ed entrambi richiedono un'attenta preparazione dell’immagine. Avere una scena di sesso su internet non è certo un tocco di raffinatezza. I cambiamenti, ha continuato Galloway, si applicano allo stesso modo alla televisione, dove nonostante la maggiore libertà di contenuti offerta da Netflix e HBO, le classiche scene di sesso sono ancora una rarità. Ovviamente ci sono delle eccezioni e possono essere sorprendenti. È il caso del nuovo dramma adolescenziale condito da droga e sesso “Euphoria”, interpretato dall'ex stella della Disney Zendaya. Secondo quanto riportato la scorsa settimana, Euphoria include nudità (incluse 30 scene di nudo maschile in un episodio), violenza (uno stupro che coinvolge una trans di 17 anni) e scene di sesso che prevedono soffocamento e uso di droghe, incluso il fatto che il personaggio di Zendaya va in overdose. Ma liberare la ventiduenne Zendaya dalla prigione della Disney con una scioccante serie di formazione sull’età è controcorrente e non rispecchia quello che sta succedendo nel mondo del cinema dove l’atmosfera è cambiata. La professoressa Linda Hirshman, autrice di “Reckoning”, un nuovo studio sugli abusi sessuali e le molestie che traccia le origini del movimento #MeToo, sostiene che le radici dell'attuale “umore sessuale” ha le sue basi nella restaurazione della monarchia britannica nel 1660. Allora le donne salivano sul palco e venivano trattate come prodotti sessualmente disponibili. Più avanti di 300 anni «Hollywood – ha scritto Hirshman - era come il teatro inglese della restaurazione pompato di steroidi». O, disse in una occasione Marilyn Monroe, «Hollywood era come un bordello sovraffollato, una giostra con letti per cavalli». Ma tornare ai giorni precedenti al 1660 potrebbe non essere quello che le attrici di oggi hanno in mente. Nella sua ricerca per “Reckoning”, Hirshman afferma che diverse attrici le hanno detto che, sebbene si oppongono al pressing per apparire nude, la nudità di per sé non è il problema. «Si sono lamentate di essere state abusate dai loro co-protagonisti maschili durante le scene di sesso prima del movimento #MeToo – ha detto Hirshman - In alcuni casi, gli attori hanno approfittato per toccare dove non era necessario. Le attrici avrebbero già potuto citare in giudizio anni fa queste persone per essere state costrette a lavorare in un ambiente ostile. Certo, questo avrebbe segnato la fine della loro carriera e, naturalmente, non volevano sacrificare le loro ambizioni». Hirshman crede che il punto di svolta sia arrivato nel 2016 con la causa di molestia sessuale intentata da Gretchen Carlson, giornalista di Fox News, contro il capo della sua rete, Roger Ailes: «Si tratta di una pietra miliare che ha contribuito a dissipare lo stigma di fare causa. Tutti hanno aperto gli occhi». Ma anche l'ambiente politico e legislativo conta: Hirshman, infatti, ha sottolineato come la California abbia leggi sull'uguaglianza dell'occupazione molto avanzate. Le star femminili come Reese Witherspoon e Meryl Streep si sono unite per un'educazione alla parità sessuale, contribuendo a far emergere le molestie in un settore in cui il successo e il fallimento della carriera per aspiranti attrici sembrava passare per le mani e per i letti di produttori, registi e agenti, la maggior parte dei quali sono maschi. «Forse la morte delle scene di sesso ha radici più profonde – ha concluso Hirshman - Possiamo ipotizzare che potrebbe essere la scintilla di nuovo potere che le donne hanno per porre limiti alla loro esposizione agli abusi».
Da Vanityfair il 13 luglio 2019. Il 43 per cento delle donne soffre durante l’arco della vita di un calo del desiderio sessuale, mentre il 10 per cento perde totalmente l’interesse. Sono i dati che emergono da una ricerca pubblicata sulla rivista scientifica della US National Library. Ma non sempre è un problema. Le cause possono essere mentali o fisiche. Possono dipendere da un nuovo stile di vita, dai farmaci, dal livello di stress o di mancanza di connessione emotiva con il proprio partner. Se, però, l’argomento ha un effetto negativo sull’autostima e sul rapporto di coppia, allora ci sono delle strategie che possono aiutare a riaccendere la passione. Soprattutto nelle donne, il sesso non è solo questione di desiderio, ma anche di immagine del proprio corpo, autostima e fiducia in se stesse, come ha spiegato a Prevention la dottoressa Leah Millheiser, clinical assistant professor odi ostetricia e ginecologia alla Stanford Medicine. L’estate è la stagione giusta per iniziare questa sex therapy. La sua energia e vitalità sono amiche del desiderio sessuale. Il mood da vacanza, la maggior produzione di serotonina, il tipo di abbigliamento che lascia allo scoperto gambe e décolleté, le feste, la rilassatezza mentale…Un mix che accende la libido e spinge a lasciarsi andare, sbloccando l’intesa sessuale. I 7 consigli degli esperti. Gli esperti sostengono che il desiderio sessuale possa dipendere dall'equilibrio di alcune sostanze chimiche nel cervello. Sono la dopamina e l'ossitocina per esempio. Mentre la presenza di serotnina può inibire l'eccitazione. Come ha riferito a Prevention Stephanie S. Faubion, direttore della Women's Health Clinic alla Mayo Clinic, la meditazione e la presa di consapevolezza di se stesse può riportare in equilibrio le sostanze chimiche nel cervello. Questa pratica aiuta a ridurre anche gli ormoni dello stress, noti per affondare la libido. Molte persone passano direttamente al sesso, eppure secondo Stephanie Buehler, terapista sessuale all'Haag della California, 15 o 20 minuti di preliminari sono necessari per accendere il desiderio, sia emotivo che fisico, e per rendere l'atto sessuale più piacevole. Molte donne si conoscono poco, non si sono mai guardate o toccate attentamente, e hanno poca familiarità con la propria anatomia. Secondo uno studio pubblicato sul Journal of Sex Marital Therapy, la masturbazione può portare a più fantasie sessuali, aumentare l'eccitazione e aiutare a raggiungere l'orgasmo più velocemente. Allenarsi migliora la salute cardiovascolare, il flusso sanguigno e aumenta i neutrasmettitori di benessere nel cervello, che giocano un ruolo fondamentale nella libido sessuale. Il sesso non riguarda solo il desiderio, ma anche l'immagine corporea, l'autostima e la fiducia che uno ha di se stesso e l'esercizio fisico li aumenta tutti. Il buon sesso non è solo un gesto spontaneo, ma è estremamente connesso all'intimità emotiva con il proprio partner, che può non essere scontata nella vita di tutti i giorni. Se ci si senti emotivamente vicine al proprio partner è molto più probabile che si desideri il sesso. La dottoressa Faubion consiglia di scegliere una sera a settimana in cui dare priorità al rapporto. L'attesa e la pianificazione aumentano la libido. Parlare di sesso fuori dalla camera da letto, dire al partner cosa si vuole e come si vuole essere approcciati, migliora il rapporto sessuale. Anche se non vi sentite depressi o in uno stato d'ansia, ma il fattore sessuale sta mettendo in crisi la coppia, è una buona idea consultare un terapista. Un esperto può aiutare a riconnettersi con la propria intimità e con i propri desideri. Lavorare con un professionista può anche aiutare a comunicare meglio con il partner riguardo al sesso, in modo da poter superare insieme il problema, indipendentemente dal fatto che la causa sia emotiva o fisica.
Orgasgometro, lo strumento che misura il piacere femminile conferma: l'uomo non serve a nulla. Laura Avalle su Libero Quotidiano il 17 Giugno 2019. Diciamolo: gli uomini raggiungono l' orgasmo quasi sempre, le donne no. Il piacere femminile, del resto, dipende da fattori differenti e non sempre dal partner. Anzi, spesso si tratta di una questione personale: un pensiero o un momento della giornata che riaffiorano nella mente, il telefono che squilla o la musica sbagliata. Mille avvenimenti possono creare la soggettiva difficoltà di riuscire a completare il ciclo della risposta sessuale femminile. A fare l' amore si prova comunque piacere, certo, ma senza andare oltre. «La conoscenza di sé facilita l' orgasmo e ormai si parla di una vera e propria ginnastica orgasmica», spiega Emmanuele A. Jannini, endocrinologo, andrologo e professore ordinario di sessuologia medica al Dipartimento di Medicina dei Sistemi dell' Università di Roma Tor Vergata. L' esperto ha messo a punto il primo strumento psicometrico che misura l' intensità dell' orgasmo femminile. L'ha chiamato "orgasmometro" e i risultati scientifici sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Plos One. Sono state 526 le donne che hanno partecipato alla ricerca, per lo più tra i 19 e i 35 anni. Ne è emerso che il coinvolgimento sentimentale non influisce sull' intensità dell' orgasmo. Anche se 8 donne su 10 si trovavano in una relazione stabile, infatti, il loro piacere non era superiore rispetto alle single. Il 62,8% del campione invece si masturbava più di una volta alla settimana e, tanto più frequente era l' autoerotismo, tanto più alti erano i valori dell' intensità dell' orgasmo. E questo aspetto ha colpito non poco i ricercatori: «Sappiamo che perdere il controllo è essenziale per il piacere femminile così come lo è conoscersi attraverso la masturbazione. Donne si nasce e si diventa», chiosa l' esperto. Che osserva: «Avere la possibilità di nutrire fiducia nel partner, riconoscere i segnali del proprio corpo, abbandonarsi, capendo quando è il momento di perdere il controllo, sono ingredienti che permettono di avere un orgasmo intenso». Viene da chiedersi se sia falso il detto secondo cui "non esiste una donna frigida, ma soltanto un uomo imbranato?". «La frase è stata pronunciata da chi immagina la donna come un pianoforte muto, immobile, passivo e senza volontà che suona belle armonie solo se il pianista (maschio) è capace. Invece la responsabilità del successo orgasmico è in genere su quattro, anziché su due spalle». Laura Avalle
Sesso, i luoghi pubblici dove le donne preferiscono farlo. Di Giangiacomo Renzulli 3 maggio 2017 su gqitalia.it. A molte più coppie di quante siamo portati a pensare piace fare all’amore in luoghi pubblici. E spesso è proprio lei a prendere l’iniziativa. Il sondaggio. Il marchio di sex toys Lelo ha commissionato una ricerca sulle abitudini sessuali delle donne. Tra queste è emersa la tendenza crescente di fare sesso in luoghi non propriamente al riparo dallo sguardo altrui. O comunque a rischio denuncia di atti osceni in luogo pubblico. Ma a quanto pare talvolta la libido è tale, che frenare i sensi diventa quasi impossibile. Almeno per molte delle donne che hanno risposto al sondaggio. Ecco i risultati.
1. Guida automatica. Provate a immaginare che cosa potrà accadere di vedere persino in autostrada durante un sorpasso quando le auto non avranno più bisogno del guidatore. Provatelo a immaginare sulla base di questo dato, oggi, che l’auto può trasformarsi in una camera da letto solamente se ferma. Il 73% delle donne intervistate ha infatti risposto di aver fatto sesso in auto una o più volte nella vita.
2. A piedi nudi (e non solo) nel parco. Il secondo luogo preferito per fare all’amore fuori casa è tra i fitti cespugli o una radura seminascosta di un parco pubblico. Almeno più di un terzo delle donne intervistate (il 36%) lo ha fatto una volta nella vita.
3. Fare gli straordinari. L’amore sul posto di lavoro con un collega non è solo un sogno ricorrente, ma anche (quasi) un classico del nostro complesso immaginario erotico. Ma ci sono donne che non si limitano a fantasticare a occhi aperti, ma che hanno una o più volte fatto sesso in ufficio. Sono almeno il 22%, secondo i risultati del sondaggio condotto per conto di Lelo.
4. La pendolare. Il tragitto casa-lavoro e viceversa nella maggior parte dei casi è la parte più noiosa e pesante della nostra esistenza quotidiana. Tuttavia, c’è chi, compiendo opportune deviazioni sul percorso sa come rendere più piccante la propria vita da pendolare. Come l’11% delle donne intervistate.
5. Volere volare. Qui la percentuale è molto bassa, ma per evidenti motivi. Ci riferiamo cioè al numero di donne che hanno dichiarato di aver fatto sesso in aeroplano, il 3%. Ma di quanto salirebbe la percentuale se chiedessimo loro se hanno mai desiderato farlo a 10 mila piedi d’altezza? Probabilmente salirebbe di molto.
Insomma, come concludono i committenti della ricerca fare all’amore sempre in camera da letto è un po’ come cenare sempre a casa, mai un ristorante o una pizzeria. Finisce che perdi l’appetito.
LO FAMO STRANO? Simona Sirianni per gqitalia.it il 16 giugno 2019. Mai dare per scontato che quello che succede nella propria coppia sia sempre peggio di ciò che accade nelle storie altrui. I segreti di cui non si parla spesso sono diversi...Ogni coppia è a sé. E ogni volta che diamo uno sguardo alle relazioni altrui, ci sembra spesso che siano migliori della nostra. Ma è quasi sempre una sensazione, una percezione, perché sapere cosa succede davvero all'interno dei rapporti è praticamente impossibile. E infatti, studi e sondaggi hanno evidenziato spesso quante sono le cose che le persone fanno nel chiuso della loro storia, che mai ci si aspetterebbe. In un mondo vissuto sui social media, del resto, la maggior parte delle coppie pubblica gli aspetti migliori della proprio rapporto, condividendo i dettagli intimi più belli e interessanti. Ma quello che poi succede davvero, è un’altra storia. Insomma, ovviamente, nessuna relazione è perfetta, anche se vogliono farcelo credere. È chiaro, restano sondaggi, ma possono risultare interessanti perché aprono una luce su come le persone agiscono davvero nel loro privato, dimostrando che nulla è veramente «strano» quando si tratta di relazioni.
Lo stipendio è un segreto. Le questioni finanziarie dovrebbero essere sempre discusse apertamente nella coppia. In particolar modo se già si convive. Ma un rapporto del 2018 realizzato da Bankrate, ha scoperto che, invece, molte persone non dicono al loro partner quanto guadagnano. E questo succede in un terzo delle coppie che convivono. Cifra che raddoppia tra le persone che stanno insieme, ma non convivono.
Annusare i vestiti del partner. Due sono i motivi: il primo, se la coppia è appena nata, è per sentire più spesso possibile l’odore e il profumo del nuovo amore senza il quale non si riesce a stare tante ore. Se la relazione, invece, è di anni, allora solitamente i vestiti e la biancheria intima del partner si annusano non per qualcosa di erotico, ma semplicemente per stabilire se metterli in lavatrice.
Dimenticare il compleanno del loro partner. Un sondaggio condotto nel 2018 ha rilevato che una persona su tre dichiara di aver dimenticato il compleanno del partner. A quanto pare, agli uomini accade più spesso rispetto alle donne. Prendendo in esame oltre 2.000 adulti, il 52% degli uomini ha dichiarato di averlo fatto, mentre per le donne la cifra scende al 24%. Il sondaggio ha anche rilevato che per questo motivo una persona su cinque ha litigato e che il 12 per cento si è proprio lasciato.
Spiare gli account dei social media dei loro partner. La fiducia nella relazione è fondamentale. Sì, dovrebbe. Ma, come riportato da un rapporto del 2019 degli avvocati londinesi Hodge Jones & Allen, una persona su tre ammette di spiare gli account dei social media dei propri partner per stare più tranquilla. Oltre il 40% ha persino ammesso di controllare i cellulari per assicurarsi di non essere traditi.
Darsi soprannomi. Neanche sotto tortura riveleremmo il modo in cui chiamiamo il nostro compagno/a. Tutti avranno dato almeno una volta un soprannome bizzarro e imbarazzante al proprio partner. E questa è una delle cose che, per fortuna di tutti, il più delle volte vengono tenute private e non vengono raccontate.
Voler conoscere subito il passato sessuale del nuovo partner. Quante persone hanno dormito con il tuo partner prima di te? Per molti è fondamentale saperlo. Secondo alcuni sondaggi alcune persone si preoccupano davvero di questo dato. Più le donne degli uomini. Sono più di un terzo coloro che desiderano conoscere la storia sessuale del proprio partner entro il primo mese di appuntamenti. Non solo, il 27% delle donne crede che il passato sessuale della persona che si sta frequentando possa determinare l'andamento della relazione futura.
Usare la tecnologia per amplificare la vita sessuale. Alcuni potrebbero obiettare che la tecnologia e i social media stanno rovinando le relazioni. Ma come rilevato da un'ampia indagine sul sesso condotta da Dazed Digital, oltre un terzo delle persone afferma invece che la tecnologia ha reso la loro vita sessuale molto «più hot». Quasi il 50% delle persone dichiara di inviare al proprio partner selfie sexy, mentre il 34% dichiara di essersi filmato mentre si masturba.
“IL TABÙ DI OGGI? IL SESSO ANALE, SPAVENTA UN PO’…” Stefania Saltalamacchia per Vanityfair.it il 14 giugno 2019. Valentina Ricci, in arte La Vale, ha 41 anni, vive a Milano e lavora a Radio Deejay dal 2001. Dal 2003 è co-conduttrice e co-autrice di Pinocchio (con La Pina e Diego Passoni). Per gran parte della sua vita adulta è stata single («mentre tutti i miei amici iniziavano a mettere su famiglia»), e adesso che ha scritto il suo primo libro – titolo: Le posizioni dell’amore (Vallardi, adesso in libreria); argomento: sesso e dintorni, senza fronzoli e luoghi comuni – ci tiene a precisare («soprattutto ai miei genitori… e ai miei ex») che si tratta di un romanzo, anche se la protagonista si chiama Vale, ha più o meno la sua età e ha sempre vissuto a Milano.
Da Sex and the city, la serie cult che ha sdoganato il sesso come argomento di discussione tra donne, sono passati più di vent’anni. Cos’è cambiato?
«Non abbiamo le Manolo ai piedi, ma abbiamo imparato a parlare di sesso nel modo più naturale possibile. Adesso si può dire che \ che una donna fa sesso anche se non è innamorata. E poi, se è il caso, ne ride con le amiche. Io e le mie amiche abbiamo sempre parlato di sesso con un linguaggio disinibito senza bisogno di trovare nomignoli. E poi c’è l’argomento piacere. Un tempo si voleva credere che l’argomento piacere fosse solo in mano all’uomo, ora non è più così. Una donna né si vergogna di provare piacere, né di chiederlo. Anzi, l’orgasmo, lo pretende».
Milano, tra i 30 e i 40 anni, single. Che ambiente è?
«È una giungla (ride, ndr). È come fosse un gran luna park. Se non hai paura del tagadà, non hai paura nemmeno dei 30-40enni di oggi».
Che tipi sono?
«Quelli single ed etero sono merce rara, praticamente inesistenti. Le donne li vorrebbero fighi e stronzi. Loro, invece, sono molto più vanitosi di un tempo. Sono diventati i dolcemente complicati della canzone della Mannoia. Anche se c’è un aspetto che mi piace: adesso gli uomini finalmente manifestano le emozioni. L’uomo piange, si commuove, aiuta in casa. L’uomo che non deve chiedere mai, per fortuna, non esiste quasi più. Anzi, deve chiedere con educazione».
Il tipo di uomo proprio da evitare?
«Non mi piacciono per niente quelli che si amano da pazzi, gli egocentrici. Quelli che pensano “godo solo per godere”».
Quello che tutto sommato salverebbe?
«Gli insicuri».
Le ragazze di oggi, invece, come le vede?
«Hanno le spalle larghe, sono forti, indipendenti, multitasking. Anche se stiamo ancora vivendo una fase di transizione, bisogna prendere bene le misure».
Le ultime statistiche dicono che oggi si parla molto di sesso, forse troppo, ma se ne fa meno.
«Mmm… non mi risulta. Posso dire, invece, che il sesso in coppia è inversamente proporzionale al numero di anni vissuti insieme».
E il sesso senza amore?
«Non sono mai stata una da “faccio sesso solo se innamorata”. È l’attrazione che non deve mai mancare, il resto non conta. Adesso, però, sono fidanzata da un anno e mezzo».
Come si sta?
«Tutto molto bello, condividiamo anche il divertimento. Ho scoperto quanto è bello il sabato mattina. Si fa colazione insieme, si va al mercato, a fare la spesa. Se sei single, il sabato mattina non esiste. Arrivi direttamente al post pranzo».
Che educazione sessuale ha ricevuto?
«Nessuna, almeno in famiglia. Non sono mai stata una di quelle che va dalla mamma a dire “mamma, mamma, ho perso la verginità!”. La mia prima volta è stata a 21 anni, ed ero molto spaventata. Diciamo che durante l’adolescenza mi sono avvicinata al sesso con grandi limoni e strusciamenti».
In ambito sessuale, oggi esistono ancora tabù?
«Il sesso anale, spaventa un po’».
Sesso, tecnologia e app. Che cosa ne pensa?
«Devo dire che Tinder e app simili non le amo particolarmente. Preferisco beccare la gente in giro nei locali, alla vecchia maniera. Conosco, però, persone che hanno trovato l’amore su Tinder».
Il titolo del suo libro è Le posizioni dell’amore. Le sue?
«Amo quando siamo sdraiati sul divano a guardare la tv e si crea l’incastro perfetto tra gambe, divano, testa, braccia. C’è molta complicità, sintonia. Per quel che riguarda il sesso, invece, sono una che ha sempre considerato lo stare sopra una gran fatica. Preferisco di gran lunga stare sotto».
AVETE MAI FATTO SESSO CON UN PELUCHE O VESTITI DA ANIMALI? Da Radio Cusano Campus il 17 Giugno 2019. La Sessuologa Rosamaria Spina è intervenuta nel corso del programma “Genetica Oggi” condotto da Andrea Lupoli su Radio Cusano Campus, per parlare dei “Furristi” comunità di chi ha rapporti sessuali vestito da animale o da peluche. "Esistono comunità appassionate di peluche e di animali antropomorfi. All'interno di queste comunità, che si chiamano comunità furriste dall'inglese furry "pelosetto", ci si riunisce travestiti con dei costumi interi del loro animale preferito (cane, gatto, volpe) oppure con solo delle parti come orecchie, coda o zampe che richiamano a questi peluche o a degli animali antropomorfi provenienti dai fumetti. Qualcosa però nel tempo è cambiato e si è creata una sub-cultura composta da persone che hanno erotizzato questa passione condividendo il sesso fra amanti del genere, con rapporti sessuali fra persone travestite dal proprio animale preferito: cane, gatto, volpe, furetto, ecc.ecc. Durante questi incontri è obbligatorio indossare l'intero costume o parti di esso e si consumano rapporti sessuali fra individui che amano questo genere di cose. I versi degli animali durante il rapporto sessuale non vengono riprodotti perché, impersonificando animali antropomorfizzati, si parla normalmente." "Spesso i gruppi a tema prevedono la partecipazione in coppia con fenomeni di scambismo perché il costume aiuta a 'depersonalizzarsi' per entrare nei panni di qualcun'altro e questo favorisce lo scambio di coppia. E' una pratica che si è molto diffusa fra le persone con handicap fisico perchè sembra sia una modalità per nascondere il proprio handicap e per vivere una sessualità libera e in armonia, bypassando l'esposizione totale del proprio corpo." "Discorso diverso per chi ha rapporti sessuali con i peluche, in questo caso si parla di una parafilia chiamata: Plushofilia. Avere rapporti sessuali con dei peluche è una parafilia molto settoriale. Non c'è una vera e propria penetrazione del peluche è molto spesso un atto di 'strusciamento' come in una forma di autoerotismo. Ritorna il tema dell'infanzia dove i bambini piccoli entrano in contatto con gli oggetti prima che con altro."
Maria Elena Barnabi per rollingstone.it il 16 ottobre 2019. Sono le tre del pomeriggio e sto bevendo un caffè con un uomo di 45 anni, il classico nerd genialoide con cappellino da baseball, occhiali da vista e felpa, e insieme stiamo sfogliando un catalogo di sex toys: vibratori, succhiaclitoride, plug anali… Mi dice: «Lo sai quanti tedeschi vivono sotto la soglia di povertà? Almeno il 20% della popolazione. E secondo te possono permettersi un vibratore da 120 euro? I miei funzionano uguale, stessa qualità, e li compri a 30 o 40 euro». Sono alla decima edizione di EroFame, la più importante fiera b2b dei sex toys in Europa (dal 9 all’11 ottobre ad Hannover, con 200 standisti e 3mila presenze) e l’uomo che sta teorizzando la redistribuzione marxista dei dildo è un businessman tedesco che vale 350 milioni sul mercato del sesso. Tre anni e mezzo fa si è inventato Satisfyer, che oggi è uno dei marchi di sex toys più venduti. Gli ho strappato un’intervista, la sua prima, a una condizione: mantenere l’anonimato. Dice che non ama apparire ed è timido. Ma io penso che sia perché è ricchissimo. Da quel che sono riuscita a sapere, ha circa 30 marchi registrati da Miami all’Europa dell’est, ha creato un impero vendendo cartucce per stampanti a prezzi bassissimi, ha 20 milioni di clienti online, 9 dei quali comprano online sex toys su eis.de, che ha una politica di sconti e omaggi molto aggressiva. La sua ricetta? Quella che mi ha candidamente raccontato: guardare quali sono i prodotti più venduti online (l’azienda è totalmente data driven), farli e venderli a prezzi bassi. Il suo toy di sfondamento è stato il Satisfyer Women, un succhiaclitoride che ricorda il Womanizer, un prodotto inventato da una coppia tedesca di mezza età nel 2014 e riproposto un po’ da tutti. Anche il marchio top Lelo ne fa uno simile, si chiama Sona, costa 150 euro, e vende 500mila pezzi in un anno. Ad Hannover Satisfyer è arrivato in pompa magna con un catalogo di 83 sex toys nuovi di zecca con design moderno, colori flou, garanzia a 15 anni, prezzi basici, tra cui la versione One Night Stand dello stimolatore clitorideo, 90 minuti di carica per 9,95 euro. Che la più grande tendenza del mercato del sesso (nel segmento 2019-2023 secondo gli analisti crescerà fino a 9,9 miliardi di dollari) sia “più sex toys per tutti” è confermato anche dal fatto che Walmart, il più grande supermercato del mondo che vale 500 miliardi di dollari, sta invadendo gli scaffali dei suoi store in tutti gli Stati Uniti (tranne in Virginia e in Alabama) con una linea dedicata di sex toys creati apposta dal brand PlusOne da 20 a 40 dollari. Anche in Italia le cose vanno bene: «L’online è decollato negli ultimi anni: ora siamo sugli 8 milioni di euro tra i siti mistersex, mysecretcase e yoxo», dice Davide Dalle Crode di Intimaluna che da anni fa logistica e importa alcuni grossi brand del benessere sessuale, dalle coppette mestruali a Fun Factory. Secondo BWell, altro importatore italiano, tra online e sex shop nel nostro Paese si arriva a 30 milioni. Il motore di questo cambiamento epocale? Le donne. In 20 anni che scrivo di sesso, posso testimoniare che il mercato è cresciuto, e sta crescendo, soprattutto sui nostri orgasmi. Certo, bambole del sesso (come quelle bellissime e inquietanti del cinese Wm Dolls) e masturbatori maschili rimangono un buon settore, e infatti è in arrivo il Man Wand di Lovely Planet che avvolge il pene e stimola il frenulo e Suck-O-Mat 3, un succhia-pene collegato con un controller da videogioco. Ma la differenza la fanno, e l’hanno sempre fatta, le donne. Vent’anni fa la prima botta al mercato l’ha data il rabbit, un dildo vibrante dotato di una parte esterna che stimola il clitoride, e poi sono arrivati i modelli più stilosi, grazie ai quali i sex shop sono diventati cool. I primi sono stati quelli a forma di pinguino e delfino di Fun Factory del tedesco Dirk Bauer, l’unica azienda che ancora oggi produce in Germania e non in Cina, una nicchia felice da 18 milioni di euro che ad Hannover ha presentato il Be One, una specie di sesto dito vibrante indicato per i giochi di coppia. Poi, 16 anni fa, è arrivato il design carissimo della svedese Lelo di Filip Sedic, sede in Croazia e produzione in Cina, che, si dice, sia il brand più ricco al mondo. Oggi il colosso tedesco Orion (160 negozi, 1000 impiegati, il 75% donne) deve il 40% del suo fatturato alla lingerie e ad Hannover ha presentato Vibepad, un cuscino di silicone su cui sedersi dotato di due spuntoni telecomandati e vibranti, per vagina e clitoride. Altra riprova che il motore del mercato sono le donne è stato il lancio di molti gel e olii clitoridei derivati dai semi di canapa, come quelli del catalano Nuei Cosmetics o del canadese High On Love: una goccia sul clitoride, orgasmi multipli assicurati. E sempre oggi siamo noi che facciamo schizzare in alto le vendite con i succhiaclitoride, presenti ad Hannover in ogni catalogo di ogni brand: dotati di un piccolo imbuto succhiante o pulsante che accoglie il clitoride, ti fanno arrivare all’orgasmo in 30 secondi, con buona pace del fallocentrismo maschile.
TIMBRO IL CARTELLINO E MI COMPRO UN BEL VIBRATORE. Valeria Arnaldi per Leggo il 17 Giugno 2019. I gridolini della blogger Alice Vaughn che ha provato in diretta social un sex toy elettrico all’Expo del porno a Las Vegas, lo scorso gennaio, hanno fatto il giro del web, in una scenetta definita dai presenti “dannatamente hot”. Il desiderio corre sul web, è cronaca nota, e ora - e soprattutto sempre più - lo fanno anche gli strumenti del piacere. Secondo i dati Idealo, nell’ultimo anno le ricerche online di sex toys nel nostro paese sono aumentate del 143%. Al primo posto tra i prodotti desiderati, sex toys elettrici, con 26,7%, lubrificanti intimi per lui e per lei, con 21%, articoli per uomini, con 20,5%, e dildo, con 12,1%. Il settore sta conoscendo incrementi vertiginosi. Il rapporto “Global Sex Toys Market 2017-2021” di Technavio ha registrato un giro d’affari internazionale di 15 miliardi nel 2016 e si stima che entro il 2020-2021 supererà i 29 miliardi. Per Research and Markets sarà oltre i 35 miliardi nel 2023. Importante il “contributo” italiano. Dai dati Idealo emerge che dal 2017 a oggi la ricerca di sex toys a vibrazione è aumentata del 282,3%, seguita da quelli per uomini con +275,7%, e dildo, con +270,4%.
I PIÙ INTERESSATI. Gli internauti più interessati sono nella fascia 25-34 anni, che rappresenta il 29%. Seguono quelli tra 35 e 44 anni, con 25,8%, e tra 45 e 54, con 18,5%. A cercare online sono soprattutto uomini, il 65,9%. Al primo posto nelle richieste femminili, con il 29,1%, ci sono lubrificanti intimi. I sex toys per uomo, con il 31%, dominano le ricerche maschili. Il toy elettrico conquista sia over 65, con 30,1%, sia under 24, con 35,9%. Le regioni dalle quali provengono più richieste sono Lazio, Lombardia, Emilia-Romagna, Campania e Toscana. Agli ultimi posti, Calabria, Umbria, Molise e Basilicata. A rivelare altre abitudini sono i giorni delle ricerche: durante la settimana si registra un aumento del 9% rispetto al weekend.
GLI ORARI. Gli orari preferiti sono tra le 15 e le 16 e tra le 22 e le 24. Insomma, molti preferiscono fare ricerche mentre sono in ufficio, evitando il rischio di farsi “sorprendere” in famiglia. Il resto lo raccontano le cronache.
LE DISAVVENTURE. Tanta curiosità talvolta si accompagna a scarsa attenzione nell’uso dei “giochi”. Ad aprile scorso, un salentino, “imprigionato” in un sex toy, è finito al Pronto Soccorso. Qualche mese prima, a settembre, un uomo a Milano è stato sottoposto a intervento per la “rimozione” di un sex toy.
Dottoressa Marta Giuliani, psicologa e sessuologa Ordine degli Psicologi del Lazio, perché aumentano le ricerche di sex toys?
«La curiosità di sperimentare un rapporto sessuale per certi versi “non convenzionale”, il desiderio di conoscere meglio sensazioni e risposte del corpo, ravvivare una relazione, stimolare nuove fantasie, rendere il rapporto più giocoso sono solo alcuni dei benefici che tali oggetti possono apportare».
Le ricerche sono soprattutto nella fascia 25-34 anni...
«I giovani, fortunatamente, vivono auto-erotismo e sessualità in modo più libero rispetto al passato. Purtroppo alcuni vivono la sessualità più in termini di performance che di condivisione, ciò può spingerli a riporre nel sex toy l’aspettativa di una “soluzione”».
Perché il sex toy elettrico è il sogno di under 24 e over 65?
«I primi sono in un periodo di costruzione dell’identità sessuale, attratti da ogni stimolo che possa permettere loro di conoscere se stessi. Agli over 65 i sex toys consentono di esplorare nuove forme di piacere e intimità».
Da Leggo.it il 2 ottobre 2019. Le proprietà antiossidanti dell'aglio ne fanno un vero e proprio viagra naturale. Lo consiglia il famoso sessuologo Marco Rossi, che è intervenuto a “Dee Notte” su Radio DeeJay spiegando come deve essere assunto per ovviare ai problemi di erezione negli uomini. Ciò che lascia perplessi è che si sconsiglia l'assunzione per via orale. «C'è una ricerca, neanche troppo recente, che ne parla. Sappiamo che l'aglio ha proprietà benefiche per l'organismo, nell'antichità veniva usato dai soldati romani e dagli schiavi che costruivano le Piramidi in Egitto» - ha spiegato Marco Rossi, noto per diverse apparizioni in tv - «Può anche curare la disfunzione erettile, ma siccome l'assunzione per via orale comporta un alito poco gradevole, la ricerca consiglia di introdurre per via rettale due spicchi d'aglio, come se fossero delle supposte». Quando i due conduttori, Nicola e Gianluca Vitiello, si chiedono se una simile tecnica possa provocare bruciore in un punto poco piacevole, Marco Rossi risponde così: «Andrebbe provato, personalmente non saprei. La ricerca comunque consiglia di assumere per via rettale gli spicchi d'aglio almeno 24 ore prima del rapporto sessuale».
IL VIAGRA PRIMA DEL VIAGRA. Angelo Molica Franco per ''il Fatto Quotidiano'' il 30 luglio 2019. Che il sesso abbia a che fare col corpo (quasi sempre) e con l' amore (il più delle volte, almeno nella migliore delle ipotesi) è questione già diffusamente appurata; tuttavia, a leggere I balsami di Venere di Piero Camporesi (1926-97), riproposto mirabilmente dal Saggiatore, scopriamo che nell' eros si compenetrano letteralmente anche cucina e morte, la prima come farmakon dell'altra. Non è un caso che già all' altezza del Medioevo uno dei più vitali filosofi, mistici e poeti arabi Ibn 'Arabi (1165-1240), mentre sosteneva quanto la massima aspirazione dell' uomo fosse l' amore (tanto divino quanto umano), lo definiva saggiamente "piccola morte", e ciò perché da sempre al coitus è legata l'idea di estasi, svenimento, vertigine. La riuscita felicità di tale definizione è commisurata anche nel ripetuto uso all' interno del linguaggio popolare: a partire dal Settecento, nel francese colloquiale l' orgasmo - e la perdita di sensi a esso correlata - è definito "la petite mort". La letteratura ci mostra come siano molti i volti che Thanatos sa assumere per impedire che Eros si compia: può strappare uno dei due amanti alla vita - come capita a Romeo e Giulietta -, può essere una separazione - Lea e Chéri del fortunato romanzo di Colette -, una scelta di castità - come in La Principessa di Clèves di Madame de la Fayette -; e ancora un rifiuto, un impotenza virile o il suo rovescio, una frigidità. Ed è qui che Camporesi fa intervenire la cucina in cui si è molto cercato, nel periodo che intercorre tra Medioevo e Settecento - quando cioè la farmacologia non esisteva -, di trovare una soluzione a queste sfaccettature della morte. Con bibliofila argomentazione, l' autore ricupera trattati, epistolari, memorie fino a disseppellire rimedi casalinghi, unguenti rinvigorenti degni delle televendite notturne nelle emittenti locali: in poche parole, il viagra degli antichi. Al servizio di Papa Gregorio XIII (1502-85) - che oltre a occuparsi del calendario era un salutista -, l' archiatra Alessandro Petronio consigliava a quegli uomini in età da matrimonio e procreazione che "hanno bisogno di maggior quantità di seme" di bere al mattino e alla sera per qualche giorno prima dei pasti una sbobba "di pan fresco e di chiari d' ovi mal cotti, ridotta a forma di latte". Dal Medioevo al Barocco godette di ottima fama "il diasatirone di Mesue" (o diasatiron), confezionato con dosi massicce di testicoli di volpe cotte in brodo di ceci e poi amalgamate con "latte vaccino o pecorino, oglio e butiro vaccino", ottimo per eccitare gli appetiti di Venere. Anche le carni del piccione, soprattutto se cotte nel vino rosso, "aumentano l' appetito del coito" secondo Michele Savonarola (1385-1468, nonno di Giacomo), che nel Trattato utilissimo di molte regole per conservare la sanità consiglia anche "le tartufole" (tuberi simili alle patate) per "movere la lussuria". E poi ancora fave, melanzane e castagne ad accompagnare e insaporire code di volpi e di lucertole, testicoli di cervi, di tori, di galli "ch' ancora non calcano le galline" e grasso di vipera. Si nota come la questione ruoti prevalentemente attorno al conforto da prestare all' organo maschile (attaccato dall' insaziabile femmina) su cui si avviluppa l' intero tema dell' eros. E ciò perché in quegli anni sono gli uomini a pontificare sul sesso, e a vedere la donna "sempre vogliosa, sempre lasciva", una creatura in perenne attesa della "benedizione del membro eretto", commenta nella sua introduzione Elisabetta Rasy. A levare timidamente la voce per porre l' attenzione sulla questione muliebre sarà Caterina Sforza, signora di Forlì (1463-1509). Nei suoi Experimenti, un ricettario medico-cosmetico, oltre a prodursi in ricette afrodisiache per "fare stare duro el membro tutta la notte", consiglia alle donne unguenti, acque riparatrici, lozioni, polveri e profumi per conservare la linea, levigare, rassodare, schiarire, depilare. Le sue "acqua de iovinezza" e "acqua mirabile e divina" aiutano a restare belle e giovani, ma anche a "far le mammelle piccole e dure". In più, sapeva anche come trasformare una "donna corrupta" (non più vergine) in "naturalissima vergine". I balsami di Venere è un pastiche godibilissimo, divertente ma anche terapeutico. Perché mentre oggi l' imperitura ossessione per la camera da letto - a cui dopo il Medioevo venne affiancata con l' Illuminismo il salotto e la conversazione - si declina in strumento di controllo politico-religioso (come farlo, con chi è giusto farlo, quando farlo) o nello scambiarsi o rubare sextape in chat, Camporesi ci ricorda quando il sesso era una cosa seria.
Salvo Cagnazzo per Stile.it il 15 agosto 2019. Non servono pasticche blu o un bicchierino in più. Per migliorare il sesso, secondo la scienza, c’è una soluzione molto più semplice. Naturale. Parliamo della vitamina D. La cosiddetta “vitamina del sole”, che possiamo facilmente assorbire dall’esposizione solare durante l’estate, è essenziale per una serie di benefici per la salute. Come la cura delle ossa, del cervello e del sistema immunitario. Ma agisce anche sugli ormoni. Quelli maschili e quelli femminili. Tuttavia, durante l’inverno, tale carenza è evidente. E va supplita in qualche modo. Perché la vitamina può influire sulla libido, come ha spiegato Rob Hobson, responsabile della nutrizione di Healthspan e co-autore della Detox Kitchen Bible. “Ci sono molti fattori che possono influenzare la libido come lo stress, l’ansia, la depressione, i farmaci, il fumo, il bere, la malattia e il sovrappeso”. “Questi fattori possono influire sulle scelte alimentari che facciamo, che a loro volta possono influenzare l’assunzione di nutrienti e la qualità della nostra dieta. E possono anche agire sul fabbisogno corporeo di alcuni nutrienti o influenzarne l’assorbimento nel corpo. L’effetto congiunto di queste condizioni determina un impatto sulla libido”. Lo dice Hobson. Ma vediamo cosa dice la scienza a tal proposito. Uno studio, pubblicato sulla rivista Clinical Endocrinology, ha rivelato che gli uomini con livelli adeguati di nutrienti avevano più testosterone, i famosi ormoni sessuali maschili, rispetto a chi aveva livelli più bassi. Anche un’altra ricerca, pubblicata sul Journal of International Urology and Nephrology, ha dimostrato che le donne con disfunzioni sessuali avevano livelli ematici più bassi di vitamina D. Il che sembrerebbe causare difficoltà con l’eccitazione, la lubrificazione. E anche con la soddisfazione. Quindi con l’orgasmo. I risultati si collegano con altri studi che suggeriscono che la mancanza di luce solare durante l’inverno influisce sui livelli di estrogeni, gli ormoni sessuali femminili. Con il 40 per cento degli adulti che soffrono di vitamina D bassa durante l’inverno, secondo la National Diet and Nutrition Survey del Regno Unito, è probabile che molti problemi nella camera da letto potrebbero essere risolti facilmente. Con una compressa. O mangiando cibi ricchi di vitamina D, come pesce, uova e funghi. O con una fuga di coppia in qualche isola tropicale. Ma magari.
Da Tgcom24 Mediaset il 19 agosto 2019. Caldo, afa, sudore: bere acqua e fondamentale per reintegrare i liquidi e i sali minerali nel nostro organismo. Ma non solo: l'acqua e un'ottima alleata per il sesso, soprattutto quello delle signore. Bere diventa dunque fondamentale non solo per reidratarci a fondo, preservando anche la nostra bellezza, ma anche per stimolare il desiderio e fare in modo che la nostra vacanza sia al top anche tra le lenzuola. Non solo aperitivi: in vacanza ricordiamoci che un mojito o una pina colada sono gradevoli e forse anche dissetanti, ci fanno perdere un po' il controllo e sicuramente ci aiutano nel lasciarci andare, ma perchè i nostri incontri amorosi siano al top non dobbiamo mai dimenticare di rifornirci abbondantemente d'acqua. Incontri bollenti: e ormai acclarato che maggiore e la libido, più alta sarà la perdita di liquidi. A causa della tensione erotica, infatti, la temperatura del corpo si innalza, scatenando rossori, sudorazione e la tipica sensazione di intenso calore che può variare a seconda della durata e dell'intensità del rapporto sessuale. Fare prima una bella scorta d'acqua e quindi fondamentale, tenuto conto che affinchè il liquido raggiunga il livello intercellulare sono necessarie fra le dodici e le ventiquattro ore: prevenire e meglio che curare! Senza ostacoli: la piacevolezza di un rapporto intimo che non abbia come effetto collaterale qualche fastidioso bruciore a causa della scarsa lubrificazione e legata al consumo di acqua nelle dodici-ventiquattro ore precedenti. Purtroppo con l'età e con un regime alimentare ricco di sale può aumentare la sensazione di secchezza, rendendo difficile la naturale lubrificazione del corpo. Come se non bastasse, ci si mette pure lo stress, quindi per evitare effetti negativi affidiamoci a un partner con cui ci si senta a proprio agio e che ci conduca lentamente e con calma a un incontro ad alto tasso di passione. Mal di testa, addio! durante il sesso si perdono molti liquidi e la disidratazione ha come effetto collaterale un diffuso senso di spossatezza. Inoltre, un organismo disidratato e sofferente, stanco e tra i sintomi più diffusi c'e anche il fastidioso mal di testa, il cattivo umore e i dolorosi crampi. Bere più acqua e funzionale quindi anche alla buona riuscita di un rapporto: quindi, quanto più teniamo al nostro lui, tanto più ci conviene non rimanere mai senza una bottiglietta d'acqua. mettiamone una anche in borsetta, non si sa mai...Dimmi come mangi: il nostro corpo e costituito prevalentemente di acqua, con una percentuale che cambia nel corso della vita: massima nei neonati, decresce col passare degli anni. La percentuale d'acqua nel nostro organismo e diversa da persona a persona, ma comunque e di fondamentale importanza assumere la giusta quantità di liquidi, che possono essere integrati grazie all'alimentazione. In estate soprattutto mai dimenticare di inserire nella dieta verdura e frutta di stagione, mentre vanno evitati gli zuccheri, che non solo comportano un bel picco di calorie, ma favoriscono la produzione batterica. Via libera dunque a zuppe e minestre, che possiamo gustare anche fredde, a tagliate di frutta e yogurt bianco. Siamo quello che mangiamo, anche a letto: donne avvisate....
STORIA ORGASMICA DEL PIACERE. Barbara Costa per Pangea News l'11 giugno 2019. Secondo te, l’orgasmo è qualcosa di naturale, o una elaborazione culturale? È personale, o sociale? È nato con l’uomo, oppure no? E se ci fosse di mezzo Dio? Se queste domande ti mandano nel pallone, prova a leggere O. Storia intima dell’orgasmo, un libro scritto da Jonathan Margolis, giornalista del Guardian che ha indagato su questo ‘accadimento’, giungendo a tale conclusione: il sesso, e quindi l’orgasmo, è pensiero fisso di noi esseri umani fin dalla preistoria o meglio, fin dalle prime testimonianze in materia che i nostri antenati ci hanno lasciato, quei peni e quelle vagine, e quei peni dentro le vagine, eternati in graffiti più di 5 milioni di anni fa. L’uomo e la donna sono le uniche specie viventi – oltre la scimmia bonobo – che scelgono di fare l’amore guardandosi negli occhi, e forse abbiamo iniziato col missionario quando siamo scesi dagli alberi, abbiamo perso il pelo, e smesso di spulciarci. Noi siamo anche i soli a fare sesso mettendo a scudo dell’istinto (quando vogliamo) un significato sentimentale. Scuse sentimentali semisconosciute a uomini e donne delle caverne, per cui né la verginità femminile, né la paternità certa erano importanti come la promiscuità e la ricerca dell’orgasmo in sé. Si pretendono donne vergini appena si diventa stanziali, si zappa, si allevano gli animali, ed emerge il concetto di proprietà. I guai per le donne iniziano allora: per mezzo della verginità e dei figli, i maschi controllano quanto possiedono e a chi lasciarlo, ma a dirla tutta è dalla notte dei tempi che l’uomo ambisce a dominare la donna, e lo fa per paura della di lei potenzialità orgasmica: da sempre l’uomo sa che la donna può mimare il piacere, sa che può farla godere anche se ogni volta rimane col dubbio, come sa che noi donne possiamo provare orgasmi multipli e a ripetizione. I maschi no, per questo ci guardano con desiderio e diffidenza. Senza il concetto di peccato delle tre grandi religioni monoteiste, scopavano alla grande gli antichi egiziani – una loro collezione di dildo è conservata al British Museum – le cui donne mettevano in vagina un tampone di cacca di coccodrillo come contraccettivo. Nell’antica Grecia, Solone decretò che mariti e mogli facessero sesso almeno 3 volte al mese e legittimò bordelli di stato a prezzo fisso. Ai piedi delle statue le donne greche ponevano melograni pregando per non rimanere incinte, più concretamente bevevano una pozione di solfato di rame per procurarsi aborti. Aristotele consigliava agli uomini di mangiare spinaci e carciofi per avere un’erezione coi fiocchi, e guardava con sospetto le donne che si divertivano con gli ólisboi, dildo prodotti a Mileto. Se i greci sono stati i primi a introdurre il termine orgasmo nella sua accezione sessuale, è dal latino che vengono le parole copulare e fornicare, rispettivamente da copa e da fornix, due nomi tra i tanti che definivano a Roma la scala sociale della prostituzione. Nerone era sadico, Galba gay, Giulio Cesare bisex, Domiziano aveva il feticismo di depilare personalmente e completamente le vagine delle sue amanti. La Bibbia è stata modificata a piacimento da ebrei e cristiani, i quali hanno tradotto pene con ‘coscia’, tolto le parti più zozze al Cantico dei Cantici, dato a Onan lo stigma della masturbazione, quando quel poveraccio si sc*pava la cognata vedova secondo la legge, ma non eiaculava in lei perché riteneva sbagliato diventar padre di creature che erano ‘anche’ suoi nipoti. Ancora oggi i più bigotti rompono l’anima coi danni della masturbazione, quando questa è l’unica pratica sessuale che ci dà l’orgasmo sempre e comunque: i suoi benefici sono indubbi, e forse nella storia ogni società ha voluto dir la sua contro la masturbazione a illusione di domare il gioco sessuale più libero e personale in assoluto. Il libro di Margolis si fa i fatti intimi dell’orgasmo anche nel mondo e nella storia non occidentali, mettendo in risalto culture sessuali antichissime e ricchissime che proprio quando vengono a contatto con quella occidentale subiscono regressioni. Confucio teorizzava che una donna va soddisfatta ogni 5 giorni, alle donne cinesi venivano fasciati i piedi affinché vi afferrassero il pene e lo guidassero in vagina (Marco Polo si disperò perché di ciò non riuscì a vedere niente), e va sottolineato che i cinesi davano nomi di preziosità e bellezza agli organi sessuali: la vagina era “fiore aperto di loto”, il clitoride “perla di giada”, l’orgasmo “squarcio delle nuvole”. Ritornando in Occidente, Margolis mette in chiaro come Gesù non abbia proferito parola sul sesso, ed è dopo la sua morte, ad opera dei discepoli, che il sesso diventa moralmente disgustoso, una fobia che induce i santi del primo Medioevo a bruciarsi le dita per resistere alla tentazione di toccare e di toccarsi, a frustarsi da soli e l’un l’altro, a intonare 37 salmi al risveglio per mondarsi delle polluzioni notturne. San Francesco, al minimo accenno di erezione, si gettava nudo in un rovo. È solo nel 1139 che papa Innocenzo II impone la castità al clero, e lo fa per mettere fine ai casini che scoppiavano tra gli eredi carnali dei religiosi al momento di ereditare (Enrico III, vescovo di Liegi, ebbe 65 figli!). La Chiesa si scagliava sì contro la prostituzione, ma era dalla sua tassazione che ricavava le più cospicue entrate. L’orgasmo è bandito nella letteratura cortese, dove gli amanti si ammirano, non arrivano mai al dunque, e il massimo del peccato tra Lancillotto e Ginevra è appunto un bacio a stampo. Nel teatro elisabettiano, Shakespeare mette tutto il sesso che vuole, Romeo e Giulietta sotto la metafora dell’allodola e dell’usignolo ci danno sotto, anche se per una notte sola. È nel 1700 che i sensi si scatenano rendendo questo secolo il più porcello di tutti, ed è nel 1714 che i preti smettono di esigere il nome delle donne con cui i peccatori confessavano di aver goduto (i preti poi andavano da queste donne per sc*parsele sotto ricatto). È nel ’700 che i medici masturbano le donne "terapeuticamente", è nel ’700 che in Scozia nascono club segreti dell’adorazione del pelo pubico femminile. Poi nel 1800 si torna tutti (finto) casti, e a letto “ci si sdraia e si pensa all’Inghilterra”, confidando che la regina Vittoria fosse vergine, quando se la spassava col servo John Brown. Se la moda ottocentesca impone alle donne gote pallide e modi svenevoli, negli Stati Uniti le riviste femminili reclamizzano aggeggi che gli donano allegria e rossore: sono i primi vibratori, e vanno a ruba. Le suffragette lottavano per cause nobili ma erano sessualmente confuse, davano la colpa agli uomini pure per le mestruazioni, e segnati questa data, il 1915: è l’anno del primo film porno. Il ’900 è secolo di importanti rivoluzioni, non quella russa che ha fatto i suoi danni, ma quelle della pillola anticoncezionale e del viagra. O. Storia intima dell’orgasmo è un librone di 431 pagine che ti toglie tutti gli sfizi, io mica lo sapevo che nel 1998, in pieno Sexgate, negli Stati Uniti ci fu chi rinfacciò al presidente Clinton di aver provato orgasmi a danno dei contribuenti, perché aveva goduto con Monica alla Casa Bianca, edificio pubblico dove le bollette sono pagate con le tasse. In questo libro trovi pure i versi cattivi della poetessa Aphra Benh, che mettono in croce un pene che non ce la fa, in una cornice di derisione che è la morte di ogni orgasmo. Per Margolis, il piacere del futuro è nella profezia di Arthur C. Clarke: “Il sesso nello spazio, in assenza di gravità, condurrà a nuove forme di erotismo”. E io vi posso assicurare che in tal senso, nel porno americano, si stanno organizzando…
Sex party o Killing Kittens. Jeena Sauers per Harpers Bazaar il 15 agosto 2019. "Aspettiamo troppo" dice un trentenne che lavora nel mondo del cinema, “Se perdiamo tempo a conoscerci, nessuno farà sesso”. Fine giugno agli Hamptons, zona ricca di New York. Siamo nella Jacuzzi esterna, con altre coppie conosciute ore fa e l’argomento principale è che nessuno sta facendo sesso all’orgia Killing Kittens, aperta solo a membri esclusivi. Sì, mentre il pomeriggio volge a sera, si vede qualche culo o topless ma nessuno che scopi e tutti concordiamo che sia un problema. All’arrivo ci hanno offerto prosecco e cocktail a base di rum, divieto di parlare di "sex party" o "Killing Kittens", il nome in codice era “Compleanno di Gweneth" che poi è il nome dell’organizzatrice/dominatrice. Dress code: tutti in bianco. Il luogo non delude, una villa meravigliosa, con stanze adibite “al gioco” e condom, salviette e gomme da masticare a disposizione in ogni bagno. Nel soggiorno, ci hanno dato la borsa-regalo della LELO, marca di sex toy che qui fa da sponsor. Dopo il primo giro, ogni drink costa 10 dollari. Parte la musica ambient in piscina, si gioca a tennis, ci si sdraia nello splendido giardino. Chi compone questa élite sessuale di cui si parla? Gente normale, solo più bianca, ricca, vecchia ed eterosessuale. Su 50 ospiti, ho visto solo una donna di colore e nessuna coppia omosessuale. L’ingresso costa 400 dollari a coppia e qui si arriva solo con la barca. Il sito promette che i membri sono tutti belli, ma qui il livello non è altissimo. Non vedo modelle né celebrità. Si conversa normalmente, qualcuno parla del suo prossimo matrimonio. Gli uomini non accompagnati non possono entrare, quindi la platea è composta da coppie navigate e da trentenni alla prima esperienza. A un certo punto arriva un uomo brizzolato e dalla sua limousine scendono dieci giovani e pettinatissime donne, tre in accappatoio bianco e tre russe che flirtano un po’ con tutti. Il party è iniziato alle tre e mezza del pomeriggio e non si vede ombra di cibo. La cena è prevista alle 23. Alle 17 passa qualche vassoio di ostriche, sparite subito. Alle 18 i camerieri portano del sushi e gli invitati affamati accorrono in massa: l’atmosfera esclusiva e sensuale si è andata a far fottere in un attimo, per l’appetito. Un’ora dopo, spiedini di carne. Si dice che se le cose non partono da sole, ci pensa Gweneth. Non vedo nessuna orgia, ma si sentono gli ospiti che si lamentano, per la scarsità di cibo e perché è poco elegante far pagare da bere quando hai speso 400 dollari per entrare. A un certo punto, siamo passati da niente a tutto: una donna fa un pompino a suo marito, una giovane con il reggiseno di "Agent Provocateur" riceve un cunnilingus dal brizzolato, un ragazzo si avvinghia ad una bionda e la sua fidanzata non gradisce. Vedo donne con donne ma nemmeno un uomo con un uomo. A notte la situazione diventa totalmente alla Kubrick. Vengo invitata in una stanza dove tre russe e una ginnasta dalle tette enormi, si succhiano i capezzoli e si contorcono sul divano.
QUANT’È BELLA LA CAMPORELLA! Giangiacomo Renzulli Colonna per Gqitalia.it il 6 giugno 2019. Il marchio di sex toys Lelo ha commissionato una ricerca sulle abitudini sessuali delle donne. Tra queste è emersa la tendenza crescente di fare sesso in luoghi non propriamente al riparo dallo sguardo altrui. O comunque a rischio denuncia di atti osceni in luogo pubblico. Ma a quanto pare talvolta la libido è tale, che frenare i sensi diventa quasi impossibile. Almeno per molte delle donne che hanno risposto al sondaggio. Ecco i risultati.
1. Guida automatica. Provate a immaginare che cosa potrà accadere di vedere persino in autostrada durante un sorpasso quando le auto non avranno più bisogno del guidatore. Provatelo a immaginare sulla base di questo dato, oggi, che l’auto può trasformarsi inu una camera da letto solamente se ferma. Il 73% delle donne intervistate ha infatti risposto di aver fatto sesso in auto una o più volte nella vita.
2. A piedi nudi (e non solo) nel parco. Il secondo luogo preferito per fare all’amore fuori casa è tra i fitti cespugli o una radura seminascosta di un parco pubblico. Almeno più di un terzo delle donne intervistate (il 36%) lo ha fatto una volta nella vita.
3. Fare gli straordinari. L’amore sul posto di lavoro con un collega non è solo un sogno ricorrente, ma anche (quasi) un classico del nostro complesso immaginario erotico. Ma ci sono donne che non si limitano a fantasticare a occhi aperti, ma che hanno una o più volte fatto sesso in ufficio. Sono almeno il 22%, secondo i risultati del sondaggio condotto per conto di Lelo.
4. La pendolare. Il tragitto casa-lavoro e viceversa nella maggior parte dei casi è la parte più noiosa e pesante della nostra esistenza quotidiana. Tuttavia, c’è chi, compiendo opportune deviazioni sul percorso sa come rendere più piccante la propria vita da pendolare. Come l’11% delle donne intervistate.
5. Volere volare. Qui la percentuale è molto bassa, ma per evidenti motivi. Ci riferiamo cioè al numero di donne che hanno dichiarato di aver fatto sesso in aeroplano, il 3%. Ma di quanto salirebbe la percentuale se chiedessimo loro se hanno mai desiderato farlo a 10 mila piedi d’altezza? Probabilmente salirebbe di molto.
Insomma, come concludono i committenti della ricerca fare all’amore sempre in camera da letto è un po’ come cenare sempre a casa, mai un ristorante o una pizzeria. Finisce che perdi l’appetito.
E VOI QUANTO DURATE? Da Il Messaggero il 6 giugno 2019. Gender gap da colmare anche in camera da letto. Un dibattito in Francia, racchiuso a livello accademico e ospitato persino sul prestigioso magazine di Le Monde, che non ha nulla di pecoreccio o volgare, ha acceso i riflettori sull'atto della penetrazione. L'argomento è stato introdotto in ambito filosofico e intellettuale da un romanziere, Martin Page che in un saggio intitolato «Al di là della penetrazione» (edizioni Monstrograph) ha dato l'avvio ad articoli e studi comparati. Il proposito resta quello di analizzare da un punto di vista culturale se la sessualità è davvero una questione di piacere, perchè «allora significa che le donne dovrebbero essere meno penetrate e sicuramente gli uomini da questo ne trarrebbero indubbi vantaggi». Per farla breve sembra che la media di 5 minuti e 40 secondi siano insufficienti. «L'inizio della penetrazione - si legge - non è altro che la ricerca del piacere per entrambi i partner, ma in primo luogo è il piacere dell'uomo a prendere il sopravvento e solo successivamente quello della donna che però quando la penetrazione cessa, ed è generalmente quado l’uomo ha raggiunto il suo piacere, si instaura una relazione non uguale, non paritetica, come modello». In pratica si mette in discussione l'attitudine maschile - durante una attività sessuale - ad arrestarsi e a non avere pazienza di attendere l'orgasmo femminile. Lo scambio che ne è scaturito fa naturalmente riferimento solo alla penetrazione come la base della pratica eterosessuale. Da qui vengono esposte poi una serie di statistiche piuttosto eloquenti a supporto della tesi. In pratica una donna su due amerebbe lasciare spazio, all'interno di un rapporto sessuale, ad altre forme di contatto fisico, come per esempio le carezze. Altre affermano che la penetrazione in sè porta spesso a dolori, infiammazioni, o addirittura infezioni. Altre statistiche, invece, dimostrano comunque che il 74 per cento di donne ammette di avere avuto un orgasmo proprio durante l'ultimo rapporto. In ogni caso la penetrazione resta un oggetto di riflessione e di gender gap.
E VISSERO PER SEMPRE INFELICI E SCONTENTI. DAGONEWS il 18 settembre 2019. Il primo anno di matrimonio è duro. Mettere un anello cambia le cose anche per le coppie che stanno insieme da anni. Perché? Per le coppie più giovani è spesso perché sono così coinvolti nella pianificazione del giorno del matrimonio che non hanno pensato molto a ciò che accade dopo. Un minuto prima sono al massimo, il giorno dopo si sono lasciati andare alla routine di essere sposati. È un anti-climax, e c'è una pressione che prima non c'era. Anche se sai che puoi divorziare, mettere fine a un matrimonio è molto più complicato che chiudere una relazione. La posta in gioco sembra più alta e ci si aspetta di più da entrambi. Una piccola discussione assume un significato enorme quando si pensa che con quella persona ci si dovrà avere a che fare per tutta la vita. A dare qualche consiglio come superare le prime difficoltà è la sexperta Tracey Cox che rivela: «Sapere che quello che vi sta succedendo è normale è la prima rassicurazione. Poi ci sono una serie di suggerimenti per continuare a vivere felici e contenti».
Ammettete che siete turbati dal problema. Dire: "Ehi, sembra un po' strano, no?" in modo allegro e giocoso può fare miracoli per sciogliere la tensione e aprire una conversazione. Sii onesto se lo trovi difficile, ma in ogni caso apriti veramente e mostra i tuoi sentimenti. Ti tornerà utile anche nei prossimi decenni.
Abbandona le etichette se non ti piacciono. Alcune persone adorano il fatto di essere “marito” e “moglie”, ma altri lo sentono come una perdita della propria identità. Non è un rifiuto del tuo partner o del matrimonio sentire che gli stereotipi di "moglie" e "marito" non si adattano bene a te. È solo un titolo. Se non ti piace, non usarlo.
Non dimenticare di divertirti. Sei sempre la stessa persona anche se ora sei sposato. Agisci come prima. Se ti piaceva sbronzarti al pub domenica e poi andare a casa a sbavare sul divano, cosa ti impedisce di farlo ora? Fai ciò che rende entrambi felici, non quello che pensi che ci si aspetti da te.
Parla di ciò che ti aspetti dall’altro. Non importa quanto siano state belle le tue nozze, il matrimonio mette in risalto il lato tradizionalista in tutti noi. Anche le femministe irriducibili si preoccupano improvvisamente di mettere un pasto caldo a tavola, gli uomini si fanno prendere dal panico di non guadagnare abbastanza. È una buona idea parlare se le aspettative reciproche sono cambiate. Potrebbe non essere solo la tua immaginazione, ma molte persone si aspettano cose diverse dal loro partner una volta sposate. Fate una chiacchierata a riguardo. Se non ti senti a tuo agio a essere così diretto, fissati degli obiettivi come coppia sposata.
Non preoccuparti se fai sesso meno spesso. Dipende dal fatto che non c’è nulla di proibito: fare sesso per le persone sposate è quasi un dovere che, ovviamente, distrugge l’erotismo. Tutti immaginano che il sesso diventerà noioso ed è così che diventerà se si entra in questo loop. Ecco perché fate sesso, ma siete in tensione. Riconosci il problema e sdrammatizza ridendoci su e rassicurando il partner che è normale.
Non è necessario mettere insieme gli stipendi. Poche coppie hanno la fortuna di avere esattamente gli stessi atteggiamenti nei confronti del denaro e degli stili di spesa. Improvvisamente essere in una posizione in cui le decisioni finanziarie del tuo partner incidono su di te, esercita un'enorme pressione sulla relazione. In un mondo ideale, tutte le coppie discutono dei debiti e delle passività esistenti prima di sposarsi, ma molti non lo fanno. Se non hai mai menzionato quel debito, far cadere la bomba quando entrambi siete già in preda al panico per le spese del matrimonio sembra poco saggio. Se uno di voi ha delle brutte sorprese finanziarie, di solito è nel primo anno di matrimonio che diventano evidenti. Se ritieni di aver bisogno di aiuto per risolvere il debito "ereditato", contatta una delle molte agenzie di debito che possono aiutarti a elaborare un piano di rimborso. Se i vostri stili di spesa sono diversi come la notte e il giorno, contribuite alle spese principali e lasciate che ciascuno gestisca la parte che resta a modo suo.
Devi dividere equamente le faccende di casa. Alcune coppie si organizzano facilmente e fanno una bella divisione delle faccende domestiche una volta che si sposano. Se ciò non è accaduto naturalmente e uno di voi sta facendo molto più dell'altro, risolvetelo ora. Entrambi dovete sentire che ognuno sta facendo del suo per mandare avanti il matrimonio.
Scopri come affrontare una discussione. Probabilmente il fattore più importante per prevedere il successo di un matrimonio è imparare a discutere. Dopo una lite, entrambi dovreste sentirvi ascoltati, capiti e soddisfatti della risoluzione. Siete una squadra. Non importa di chi è la colpa. L'unica cosa che conta è che troviate il modo di impedire che uno dei due stia male.
Ci saranno problemi "non risolvibili" nel tuo matrimonio. John Gottman, un terapista statunitense che ha svolto più di 40 anni di ricerche sulle coppie, afferma che l'idea che le coppie debbano risolvere tutti i loro problemi è una favola. Stima che le coppie non sono d'accordo su questioni irrisolvibili il 69% delle volte. Questi conflitti perenni ci sono semplicemente perché non siete dei cloni. Non importa quanto ti assomigli, hai personalità, esigenze e aspettative diverse. Invece di sentirti frustrato dal fatto che non riesci a trovare soluzioni a tutto, un'idea più sensata è accettare che non ci riuscirai.
Va bene lamentarsi di fastidiose abitudini. È una cosa così innocente! Se non lo fai rischi di far diventare il tuo matrimonio una pentola a pressione. Il più delle volte le persone non sono nemmeno consapevoli di fare cose che ci infastidiscono e non le fanno più se lo sanno.
Uscire con altre coppie felicemente sposate. Questo è un altro fattore predittivo cruciale: più amici hai felicemente sposati, più è probabile che lo sarai. Non solo hai esempi viventi di matrimoni sani da studiare da vicino, ma hai persone a cui rivolgersi per un buon consiglio quando ne hai bisogno.
Il matrimonio non è una linea retta. Alcuni giorni adorerai il tuo partner. Altre volte ti farà impazzire per settimane intere. Ecco come funziona una relazione. Gli alti e bassi sono normali, ma non quelli permanenti.
Sapere quando vedere un terapista. Non è un fallimento essere seduto di fronte a un consulente matrimoniale due mesi dopo detto sì; invece mostra che entrambi prendete sul serio il vostro rapporto e volete che duri. Un buon terapista isolerà il vero problema e vi aiuterà a risolverlo, insegnandovi buone abilità comunicative lungo il percorso.
Una donna italiana su tre ha già tradito. Gli uomini? Uno su due. Pubblicato mercoledì, 05 giugno 2019 da Greta Sclaunich su Corriere.it. Una donna italiana su tre , nella sua vita, ha già tradito. Molto, troppo? Poco, almeno rispetto agli uomini: in Italia uno su due ammette di essere stato infedele. Meno anche rispetto al passato: il dato, contenuto all’interno dell’Osservatorio Europeo dell’Infedeltà (commissionato dal sito per incontri extraconiugali Gleeden e realizzato all’istituto di sondaggi francese Ifop su un panel di 5mila donne di Italia, Spagna, Francia, Germania e Gran Bretagna), è in calo in confronto a quello fotografato dallo studio precedente, nel 2014. Un calo minimo, di un solo punto percentuale. Ma che la dice lunga: l’Italia è l’unico paese tra quelli esaminati ad aver registrato una flessione delle donne infedeli. In Gran Bretagna, dove le donne che hanno già tradito sono il 33% come da noi, negli ultimi quattro anni c’è stato un aumento di quattro punti percentuali. In Spagna, fanalino di coda con «solo» il 30% delle donne infedeli, l’aumento è stato di due punti percentuali. «In Italia subiamo ancora l’influenza di un certo retaggio culturale e religioso: il tradimento, per le donne e dalle donne, è considerato qualcosa che ci si concede solo se la coppia non funziona più. Solo allora si sentono legittimate a guardarsi intorno», analizza Roberta Rossi, presidente della Federazione italiana di sessuologia scientifica. I dati presentati da Gleeden lo confermano: il 55% delle donne che hanno già tradito lo ha fatto perché provava attrazione fisica e sessuale verso l’amante, una su due invece come conseguenza della mancanza di attenzioni da parte del partner ufficiale e il 43% perché innamorata dell’altra persona. Insomma, da un lato le donne si concedono la libertà di concretizzare l’attrazione che sentono verso persone esterne dalla coppia ma dall’altro ammettono di tradire anche perché insoddisfatte del partner attuale o, semplicemente, perché innamorate di un altro. Non stupisce quindi che per il 37% di loro il rapporto con l’amante, una volta chiuso con il partner ufficiale, si sia trasformato in una nuova storia d’amore. «Le donne tendono ad affezionarsi all’amante e a creare, con lui, una storia parallela a quella che già stanno portando avanti. Come fosse quasi un secondo marito: ecco perché può succedere che poi lo diventi davvero», conclude la psicologa. Il 14%, invece, ha tradito ma non ha lasciato ed è tuttora in coppia con il partner ufficiale. Nel tradimento classico, cioè quello fisico, non c’è solo il sesso: il 28% delle italiane ha baciato un altro. Se poi nel conto inseriamo anche il tradimento «mentale», le percentuali crescono ancora di più: il 48% ha ammesso di aver immaginato di fare l’amore con una persona diversa dal compagno, il 27% ha fatto l’amore con il partner pensando a un altro. C’è anche il tradimento «virtuale»: il 22% delle italiane ha flirtato via chat o email con un altro, il 14% ha fatto sexting scambiandosi messaggi o immagine spinte. Il tradimento maschile e femminile è ancora percepito in modo diverso (il 75% delle donne italiane intervistate ha dichiarato che nella sua cerchia di amici la gente è più scioccata quando, in una coppia, è lei a tradire), ma il profilo della «traditrice» come evidenziato dal sondaggio sembra avvicinarsi allo stereotipo del «traditore» maschile. Si tratta di una donna molto attraente (46%), con uno stipendio dai 2mila euro netti al mese in su (54%), di categoria socio-professionale medio-alta (55%), residente in città (76%), matura (il 41% ha dai 30 ai 39 anni). Per il partner (che nel 50% dei casi considera meno attraente di lei) prova unicamente affetto (45%) oppure principalmente desiderio (49%): nella sua relazione di coppia è insoddisfatta o sul piano sessuale o su quello sentimentale. Oppure su entrambi. Non è un caso, secondo la Rossi, se la traditrice donna e il traditore uomo si somigliano: «E’ parte della trasformazione culturale che sta ridisegnando il ruolo della donna: il tradimento non cambia, ad essere cambiato è il fatto che non è più appannaggio maschile». Appannaggio, semmai, di una certa fascia sociale: «Questi dati sembrano dimostrare che per tradire dobbiamo averne l’occasione, anche dal punto di vista economico. Il tradimento, insomma, a volte è meno democratico di quanto si possa pensare».
NON E’ IL SESSO CHE DA’ PIACERE MA L’AMANTE! DANIELA MASTROMATTEI per Libero Quotidiano il 16 settembre 2019. Senza cadere nell' esagerazione si può dire che la posizione dell' amante non sia del tutto scomoda. Poveretta, trascorre le serate a piangere fiumi di lacrime perché lui è con la famiglia. Ma chi lo ha detto? «In certe circostanze è la stessa donna a non desiderare legami strutturati che richiedono dedizione e impegno. Magari è disposta a dare poco e a non aspettarsi molto», parola di psicoterapeuta. È la situazione idilliaca anche per chi tradisce, ovviamente. Tuttavia, non è la regola. Ci sono pure le cosiddette "sfasciafamiglie" che prima si accontentano di fare le amanti, poi ricorrono addirittura al mazzo di carte truccato pur di vincere la partita per cercare di spodestare la consorte e prendere il posto della moglie. Più spesso si accetta di stare nell' ombra per anni. Perché? È capitato. Quella sera... la musica giusta, un bicchiere di vino di troppo, il cuore che batteva come impazzito, l' attrazione fisica e il desiderio di andare oltre...Dietro l' angolo, il dispettoso Cupido se la rideva, mentre gli ormoni impazziti, il trasporto irrefrenabile e un appetito mai appagato facevano il resto. «Anche se lo stereotipo vuole che siano più gli uomini a fare i farfalloni e a cercare un' amante, le statistiche, dicono che con le gentili signore siamo al pareggio», spiega a Libero la dottoressa Miolì Chiung, direttrice dello studio di Psicologia Salem. «Spesso è una fuga, il traditore o la traditrice vivono un rapporto insoddisfacente all' interno della coppia, ma è la forza dell' abitudine a impedire loro di uscire dalla relazione».
LE TESI. Un uomo prende un' amante per restare con sua moglie, mentre una donna lo prende per lasciare il marito, ne è convinto il francese Eric-Emmanuel Schmitt. Tesi confermata dalla psicologa Chiung: «Se la coppia scoppia a causa dell' amante quasi mai perché lui lascia la moglie. Di solito è lei che butta tutto all' aria per un sentimento istintivo, l' uomo invece è più razionale e prima di fare il grande passo ci pensa molto». Anche se l' immagine della moglie che lo accoglie ogni sera in vestaglia, ciabatte e bigodini non è il massimo, lui ci ha fatto l' abitudine; lei invece quel marito non più romantico e premuroso ma piuttosto ossessionato dal calcio che passa le domeniche allo stadio o, peggio, steso sul divano davanti alla tv, non lo sopporta più. Per questi e mille altri motivi si è disposti a correre qualche rischio. Una serata di grande passione e poi addio non procura il brivido. «Non è il sesso che dà piacere, ma l' amante», come si legge sui libri della scrittrice americana Marge Piercy. Anche Marilyn Monroe sosteneva qualcosa del genere: «I mariti non sono mai amanti così meravigliosi come quando stanno tradendo la moglie». E non si lasciano turbare dalla storia di Cleopatra che, quando viene a sapere del matrimonio di Antonio, mette in atto una terribile vendetta nei confronti del messaggero che le ha dato la notizia. Placandosi solo quando le sue cortigiane la rassicurano che Ottavia è brutta, almeno secondo i canoni estetici elisabettiani: bassa, rozza, con il viso rotondo e con capelli sciupati. Roba del passato, ma i traditori non si sono lasciati spaventare nemmeno dall' inquietante film "Attrazione fatale". Hanno continuato a dormire sonni tranquilli, soprattutto i più fortunati che hanno incontrato la donna ideale. Una rarità, ma esiste, soprattutto quando non è interessata al rapporto di coppia. Quindi si cala perfettamente nel ruolo dell' amante perfetta.
Non fa scenate e sa essere impeccabile. Con precisione chirurgica e sensibilità poetica riesce a mettere in scena la vertigine del desiderio, il senso di libertà e l' intensità del momento. A trasmettere la percezione che il presente insieme è l' unica eternità possibile. Che l' incertezza del futuro è la ragione stessa per amarsi. Non fa scenate, sembra sempre appena uscita dal parrucchiere, non ha mai il mal di testa, è sempre disponibile, ben vestita, truccata e depilata. Non è necessariamente bella, ma è attraente, affascinante, frizzante emotivamente e sessualmente. Mai gelosa o ossessiva. Non usa il rossetto per evitare di lasciare tracce sulla camicia candida di lui. Non fa regali. Non è mai malmostosa o aggressiva, ha una dolcezza sensuale e avvolgente. Indipendente e disinibita, non mostra i suoi problemi e non li provoca. È solare, sempre sorridente. Non fa domande, non si lamenta, non è curiosa, non telefona, non manda video, messaggi o sms notturni. Non racconta le sue frustrazioni. Sa ascoltare, senza essere invadente. Non si permetterebbe mai di nascondere le sue mutandine nella giacca di lui. E soprattutto l' amante perfetta non chiede di più.
Charme e cervello sono la sua forza. Lui è l'ideale. Quando è lui l' amante (perfetto) della donna sposata, gioca la carta del gentiluomo. Educato, disinvolto, dal fascino discreto e dalla sensualità latente. Mai spregiudicato, strafottente o arrogante, cammina al suo fianco, sicuro e protettivo. Guarda la donna sempre negli occhi. E al ristorante non sbircia le altre signore. Ha modi eleganti e conosce le buone maniere. Il perfetto amante ha un savoir-faire che ha imparato negli anni con pazienza. L' origine sociale c' entra poco, quello che conta è la nobiltà d' animo. Il suo look non è mai trascurato. Anzi, il suo stile è equilibrato con consapevolezza e autenticità. Anche le sue emozioni sono espresse in modo pacato. L'amante perfetto, più che essere concentrato su se stesso, è soprattutto occupato a far sentire lei una regina. Sempre pronto a riempirla di attenzioni e coccole. Tutto ciò che il marito (o il compagno) non fanno più ormai da tempo. Il feeling sessuale conta, ma sono importanti anche la generosità (la tirchieria non è consentita) e la simpatia. L'amante ideale è spensierato, non incupito dai legami della vita quotidiana. Le attenzioni romantiche non sono mai troppe e lui lo sa. Fa regali, prenota pranzi o cene in posti ricercati. Deve prolungare la prima fase dell' innamoramento, quando tutto è rose e fiori. La invita a una Spa, alle terme o a fare un massaggio insieme. «L' amante rispetto al marito è avvantaggiato perché le occasioni sono poche e riesce a tenere vivo il sogno, difficile da sostenere ogni giorno», fa notare la psicoterapeuta.
L'amante perfetto non mina le dinamiche familiari, né invia mazzi di fiori a casa. Non fa sorprese e non si presenta al lavoro. Deve parlare come un amico e amare come un amante. Qui lo scrittore Giuseppe Prezzolini avrebbe concluso: «Una donna che si ama, non si sposa; il peggior insulto che possiate farle è di trasformarla da amante in moglie».
AMORE, CORNA, PASSIONI? Maria Sorbi per “il Giornale” il 30 maggio 2019. Vampate, sudorazione, palpitazioni, giramenti di testa, inappetenza. Sono i sintomi della «malattia» più bella del mondo, quella di cui tutti ci ammaliamo almeno una volta nella vita: l'innamoramento. Dietro al colpo di fulmine si scatena una chimica infinita fatta di ormoni che si svegliano, altri che sembrano impazzire, altri ancora che, dopo qualche appuntamento, arrivano a gettare acqua sul fuoco e aiutano a trasformare la passione in qualcosa di più gestibile e in un' affettività più duratura. Ci sono gli ormoni dell' infedeltà e quelli del «ti giuro che sarà per sempre», ci sono gli ormoni che aiutano a lanciare messaggi e a suscitare l' attrazione altrui, ci sono quelli che regolano la protezione e la gelosia per non farci diventare soffocanti. Insomma, dietro a uno scambio di sguardi e di sorrisi si scatena una vera e propria giostra di interazioni fra cellule che ci causa quella sensazione di scombussolamento fatta di farfalle nello stomaco, mani tremanti e ginocchia deboli. E che, pur dando una spiegazione scientifica a ogni passaggio dell' amore, conserva comunque un qualcosa di poetico. Per poi scoprire che gli stessi ormoni dell' amore hanno mille altre funzioni fondamentali e sono anche oggetto di studio nei laboratori nell' ambito di ricerche sull' autismo e contro il morbo di Parkinson. Basta prendersi per mano la prima volta o scambiarsi un bacio perché il forte coinvolgimento emotivo faccia scattare nel sistema nervoso centrale un segnale di allerta che attiva le ghiandole surrenali (localizzate sopra i reni) e inneschi il rilascio di sostanze chiamate catecolamine (come adrenalina, noradrenalina e cortisolo). Una vera e propria tempesta ormonale che alza la pressione arteriosa e aumenta quella cardiaca. In alcuni casi, anche di dieci battiti al minuto. L'adrenalina è la principale regista dei cambiamenti all' interno del nostro corpo. Provoca un aumento del consumo di ossigeno che, a sua volta, stimola un aumento del battito cardiaco, sudorazione delle mani e pupille dilatate. Inoltre, ha un impatto sullo stomaco, l'organo più sensibile del corpo, che a causa dei cambiamenti ormonali formicola. L'adrenalina viene somministrata anche per far fronte a gravi reazioni allergiche causate da punture di insetti, alimenti, farmaci o sostanze varie (ad esempio il lattice). Viene anche utilizzata contro la congestione nasale, l'asma e l'orticaria. Uno dei primi ormoni a entrare in gioco durante la cotta è la dopamina o ormone della felicità, che aumenta forza fisica e, ahimè, l'insonnia. Ma al di là delle questioni di cuore, quando la sua produzione nel cervello cala in maniera consistente, si manifesta una degenerazione dei neuroni che può portare alla malattia di Parkinson. La feniletilamina è la responsabile dell'euforia iniziale e della convinzione che con lui/lei andrà tutto bene in eterno. Complice dell'amore è anche l'ossitocina, l'ormone delle coccole, quella leva invisibile che spinge a cercare il contatto fisico con il partner. Al contrario, se i livelli dell'ormone sono troppo bassi, ci sarà una predisposizione al tradimento, all' infedeltà. Ma l' ormone svolge anche un' importante funzione nella fase di sviluppo neuronale nei neonati: influenza cioè l' attività di un neurotrasmettitore la cui alterazione è legata a molte malattie del neurosviluppo con sintomatologia autistica. A rivelarlo uno studio svolto dall' Istituto di neuroscienze del Cnr assieme all' Università di Milano e all' Istituto clinico Humanitas. Curiosa anche la funzione della vasopressina, che, a seconda della quantità con cui è presente può determinare la monogamia e regolare il livello di fedeltà. In eccesso è responsabile dell' aumento della pressione dei vasi sanguigni e provoca l' arrossamento del viso negli uomini. Quando è a livelli equilibrati è fondamentale anche per regolare al diuresi o per gestire le emorragie gastrointestinali. D'accordo la poesia e tutto il resto, ma l'amore ha una spiegazione scientifica e in laboratorio è ricostruibile tutto il processo mentale per cui ci innamoriamo di una persona e non di un' altra. Uno studio pubblicato sulla rivista Nature ha individuato una particolare connessione neurale nel cervello femminile che unisce due diverse aree: di fatto una comunica all' altra che lui è quello giusto. Per ora l' esperimento è stato effettuato sui roditori, scelti per via della loro tendenza a stabilire relazioni sentimentali di lunga durata, ma il procedimento assomiglia molto a quello della mente umana. Quindi «rassegnamoci» all' idea che non ci innamoriamo con il cuore ma con il cervello, anche se la scelta del partner ci può sembrare apparentemente irrazionale e istintiva. Dalla ricerca di Robert Liu e dei suoi colleghi dell'Emory University è emerso che la corteccia prefrontale mediale, un' area cerebrale coinvolta nei processi decisionali, esercita un controllo sull' area associata ai meccanismi di ricompensa e delle dipendenze. La connessione tra queste due aree indica che la prima suggerisca all' altra come rispondere agli stimoli sociali, per fare in modo che questa li consideri attraenti. Significa che impariamo ad apprezzare l'odore, o la voce, o l'aspetto del partner e piano piano alcuni dettagli diventano più significativi per noi. Secondo gli autori dello studio ipotizzando la presenza di questo meccanismo neurale nel nostro cervello, si potrebbe pensare che il nostro innamoramento avvenga con le stesse modalità.
Nel tradimento ciò che fa male è la complicità. Francesco Alberoni, Domenica 06/10/2019, su Il Giornale. Perché anche un solo incontro sessuale dove non è affatto in gioco l'amore viene lo stesso considerato tradimento? Chi lo ha fatto ha l'impressione che sia una cosa da nulla, ma chi l'ha subito lo considera un atto gravissimo, imperdonabile: perché? Perché anche il semplice atto sessuale è la violazione di un tabù. Quando due hanno fatto l'amore insieme, si sono spogliati, si sono mostrati nudi, abbracciati, baciati, hanno offerto all'altro il corpo, senza alcun freno. Ciascuno ha lasciato all'altro libertà di accesso ad ogni più riservata e segreta parte. Una volta iniziato il rapporto sessuale, si apre lo spazio ai desideri più capricciosi, vengono istantaneamente eliminati tutti i tabù e i freni. L'erotismo si esprime in percorsi naturali ma incredibili. In sostanza essi si sono permessi dei gesti che prima, da estranei, erano proibiti. Se io per strada tocco il seno o il sedere ad una donna posso venire arrestato per molestie sessuali. La stessa azione invece è perfettamente lecita nel rapporto sessuale volontario. Coloro che lo fanno ne sono consapevoli. Per trovare una espressione che indica il loro nuovo tipo di rapporto, diciamo che hanno compiuto una infrazione, infranto le regole che valgono volontariamente e reciprocamente. Questa violazione, nel linguaggio corrente fra due sposati o due amanti, viene considerato «tradimento». Il tradimento non nasce solo dal venir meno ad un impegno di esclusività sessuale. Se i due fanno l'amore perché ubriachi o drogati, l'atto può anche non essere vissuto come tradimento. Lo diventa se è volontario, perché crea un rapporto di complicità. Anzi possiamo dire che il singolo gesto erotico che conta è l'infrazione voluta insieme che modifica il rapporto. Ora domandiamoci: dopo aver fatto tutte queste cose insieme, le due persone sono rimaste nello stesso tipo di relazione che avevano prima del loro incontro o sono cambiate? Sono cambiate perché, sia pure per un breve periodo di tempo, hanno abbattuto le barriere sociali e morali. Non è detto che lo facciano ancora, ma d'ora in poi possono farlo più facilmente. È questa complicità che viene vissuta come tradimento.
VADO E PORNO. Giovanni Rossi per Quotidiano.net il 27 maggio 2019. A leggere il rapporto Censis-Bayer sui comportamenti sessuali nel Paese, presentato ieri al Senato a vent’anni dall’unico precedente nazionale, sembrerebbe che sotto le lenzuola gli italiani nella fascia 18-40 anni se la spassino mica male. Disinibiti e pronti a tutto per soddisfare desideri singoli o di coppia che per la precedente generazione spesso restavano tali, almeno sul piano statistico, fatti salvi sperimentatori e avanguardisti. L’indagine (su 1.860 individui tra i 18 e i 40 anni dall’1 al 15 marzo 2019) fotografa la vita intima di un campione rappresentativo della popolazione –single e coppie – nell’età della massima pulsione erotica. Un accurato screening tematico lungo il filone lanciato dagli Usa nel 19948 e nel 1953 con il celebre Rapporto Kinsey. Posizione del missionario e funambolismi da kamasutra, estremi applicativi dell’altro millennio, non compaiono tra le risposte dei trasgressivi eredi al tempo di YouPorn e del sesso liberato da ogni idea di peccato. Anzi – novità acclarata – il sesso è ormai mediato dai porno, vera fonte di ispirazione e imitazione. Guardano serenamente video hard il 61,2% degli italiani e anche il 25% delle coppie, perché – rivela il rapporto – il porno, soprattutto nella sua versione online, è uscito "dalla sfera del proibito, dello scandaloso, del perverso" ed è diventato strumento di massa. Sesso e piacere. Oggi l’80,7% degli italiani fa sesso orale, il 67% pratica la masturbazione reciproca, il 46,9% usa un linguaggio osceno durante i rapporti, il 37,5% ama il sexting (ovvero l’invio tramite smartphone di immagini e testi sessualmente espliciti), il 33,1% pratica il sesso anale, il 24,4% usa oggetti, cibi o bevande per giochi erotici. Ancora: il 16,5% scatta foto, registra video dei rapporti o fantastica apertamente su altri possibili partner, il 13,1% ha rapporti sessuali a tre o più persone, il 12,5% pratica bondage o sadomasochismo. Tutto l’immaginario erotico trasportato in camera da letto (o di tortura). Dal rapporto Censis-Bayer emerge con chiarezza che si è spostata la frontiera della trasgressione. "Si fa più sesso, in maniera più frequente, con più partner rispetto a quello che avevamo rilevato con una ricerca analoga vent’anni fa", spiega il direttore generale del Censis, Massimiliano Valerii. Quasi il 42% degli italiani lo fa almeno due-tre volte alla settimana (+7% in 20 anni) e l’8,4% tutti i giorni. In media i 18-40enni italiani hanno 1,8 rapporti sessuali a settimana, 8 al mese. E se il 48,6% ritiene di avere rapporti nella giusta misura, il 48% ne vorrebbe di più e solo il 3,4% di meno. In ogni caso la sessualità è associata in primo luogo alla genitalità e solo poi all’amore. Risulta infatti più che raddoppiato, dal 1999 ad oggi, il numero delle donne che separano il sesso dall’amore (dal 37,5% al 77,4%). E risulta in crescita anche l’omologo dato maschile (dal 61,9% all’81,8%). La parità di genere trova sostanziale approdo nel numero delle esperienze: la media di partner a 40 anni è 6,4 per le donne e 7 per gli uomini. Vent’anni fa il 50% delle donne a 40 anni aveva spesso avuto un solo partner: oggi questo dato è al 39,6%. Gli uomini con un solo partner sono invece il 22% (in calo del 2,7%). La nota dolente arriva dal fronte delle malattie sessualmente trasmissibili. "Il 63,3% dei 18-40enni" scelti per campione statistico "ha avuto rapporti sessuali completi non protetti". E la penetrazione del porno nella vita delle coppie certo "non contribuisce a favorire l’utilizzo dei contraccettivi", osservano i ricercatori, colpiti dal fenomeno.
"IL SESSO È SPORCO? SOLO SE È FATTO BENE". Roberto D’agostino per Vanity Fair il 26 maggio 2019. Certo, lo sappiamo, la pornografia ha sovvertito, nel bene e nel maiale, il menù della nostra vita sessuale, ma nessuno ha sottolineato il vero potere del porno. Se Internet esiste lo deve soprattutto a tre fattori. Uno: la ricerca militare americana, che ha creato la prima struttura a livello hardware (Intranet). Due: l’informatico britannico Tim Berners-Lee che inventò nel 1989 il World Wide Web, la Rete. Tre: la rivoluzione digitale deve ringraziare per la gran parte della sua globalizzazione l’industria del porno. E’ Youporn, mica la voglia di informazione, che ha spinto un pubblico di massa verso l’acquisto dei computer. L’hardcore, del resto, è sempre stata la forza trainante dell’evoluzione tecnologica: dalle videocassette alle polaroid, dalle telecamerine allo streaming, dall’e-commerce alla protezione delle transazioni (Paypal), dalle chat dal vivo allo smartphone, ecc. E’ il porno che ha costantemente richiesto connessioni più veloci, maggiore ampiezza di banda. Oggi la pornografia 2.0 è talmente connaturata nella cultura popolare che l’imbarazzo o la clandestinità non le appartengono più. L’era di ‘’Gola Profonda’’, anni Settanta, primo film porno accettato dalla cultura di massa, è lontana anni luce. Perfino la severa BBC si è fatta porno mandando in onda una serie, “Versailles”, sulla vita dissoluta di Luigi XIV che includeva sesso gay, un principe travestito, la regina Maria Teresa con una passione per i nani, il Re Sole con la testa affondata fra le gambe della sua amante. Non solo. Succede sempre più spesso che la pornografia diventa la forza motrice che traina la celebrità. La pietra miliare è il sex-tape di Pamela Anderson. Poi è arrivata Paris Hilton, quindi Kim Kardashian, infine Belen - prova che far circolare sesso significa diventare star. Amorale della favola: il porno fa bene, viagrizza la nostra fantasia, esalta il desiderio. La sessualità legata agli organi sessuali, infatti, non esiste: esiste invece la nostra creazione mentale che utilizza i nostri organi sessuali; l'erotismo si basa sull'esistenza della forza immaginativa, che precede qualsiasi esperienza concreta della sessualità. Un sano erotismo è come dire una bella dentiera. La disgregazione della coppia affonda radici psicologiche nella rigidità che si instaura nella camera da letto: si è preda di una libidine dei nervi piuttosto della carne. Come ironizzò Woody Allen, uno che se ne intende: "Il sesso è sporco? Solo se è fatto bene". Pornhub nel 2018 ha totalizzato 33,5 miliardi di visite per una media di 92 milioni di visitatori al giorno (le popolazioni di Canada, Polonia e Australia messe insieme). E le donne costituiscono ormai il 29% della sua utenza: quasi l’80% lo guarda i sul cellulare, il 16% in più in relazione agli uomini che preferiscono gli schermi più grandi di computer e tablet.
FERMI TUTTI: IN ITALIA SI SCOPA! Tgcom24 il 22 maggio 2019. Gli italiani fanno sesso senza complessi e spesso, donne comprese, anche senza amore. Un'indagine Bayer-Censis racconta come siamo sotto le lenzuola, scoprendo un popolo con poche inibizioni e che nel sesso cerca sollievo, piacere e un po' di felicità. Gli italiani amano giocare con il sesso, farlo da soli, in due o anche in tre e non disdegnano la pornografia.
Senza complessi - Il Censis ha consultato uomini e donne tra i 18 e i 40 anni e, come scrive la "Repubblica", ha sintetizzato l'esperienza degli italiani come "sesso decomplessato", cioè, appunto, dove tutto è lecito. Non c'è soltanto l'amplesso "ortodosso", ma l'80,7% pratica regolarmente sesso orale, il 33% sesso anale, il 67% la masturbazione in coppia. Gli italiani non si fanno mancare "aiuti" come gadget e video per cercare sempre di più.
Porno no problem - La pornografia nella vita di coppia non è più proibita come un tempo secondo il direttore del Censis Massimiliano Valerii, che spiega: "E' anzi diventata il fulcro di pratiche molto diffuse nella sessualità quotidiana". E questo, aggiunge, si rispecchia nella valutazione del rapporto sesso-amore. Vent'anni fa, l'epoca a cui risale la precedente indagine firmata Censis, solo il 37,5% delle donne riteneva che il sesso senza l'amore fosse possibile, mentre oggi lo pensa il 77,4%.
Contraccezione e no sex - Restiamo invece poco informati sul piano della contraccezione. Tra i millennials solo il 21% dice di utilizzare regolarmente pillola e profilattici durante i rapporti sessuali. E, se da una parte siamo sempre più disinibiti e facciamo tanto sesso, cresce anche l'esercito di chi il sesso non lo pratica mai. Tra i giovani aumenta infatti la percentuale di chi non ha mai avuto un rapporto intimo, per scelta o per caso.
NON FATEVI ROVINARE GLI ORGASMI: IL SESSO IN GRAVIDANZA E' CONSIGLIATO! Laura Avalle per “Libero quotidiano” il 20 maggio 2019. Si possono avere rapporti sessuali in gravidanza? È quanto si chiedono molte coppie in attesa del primo figlio. «La risposta è sì, certamente, se la donna li desidera, se la gestazione ha un decorso normale e se il medico non vede controindicazioni specifiche», risponde Alessandra Graziottin, direttore del Centro di Ginecologia e Sessuologia Medica dell' Ospedale San Raffaele Resnati di Milano. «Non solo: le donne che hanno avuto rapporti desiderati e frequenti da incinte hanno minori complicanze sia durante la gravidanza, sia nel parto e hanno più frequentemente parti a termine con bambini con più elevato Apgar (il voto che il pediatra dà al bimbo alla nascita e che indica il suo stato di benessere o meno: 10 è nascita perfetta con bimbo in gran forma). Inoltre anche il puerperio ha un andamento più sereno, con minori depressioni e crisi. Non ultimo, un marito sessualmente felice in gravidanza è anche un padre migliore e più attento al piccolo». Naturalmente la corrispondenza è biunivoca, come si direbbe in matematica. Nel senso che è più probabile che abbia desiderio e rapporti soddisfacenti la donna che ha una gravidanza normale, in una coppia che si ama e ha molto desiderato quel bimbo. Se i dati scientifici sono rassicuranti, quando è saggio e necessario non avere rapporti completi? Rivolgiamo la domanda ancora alla professoressa Graziottin, che replica così: «L' astinenza è da rispettare quando il decorso della gravidanza è complicato da patologie. Tra cui:
1. minaccia d' aborto o di parto prematuro (ma solo finché dura il problema: dopo non c' è motivo di protrarre l' astinenza per tutta la gravidanza, perché si favorisce un blocco dell' intimità erotica poi difficile da recuperare);
2. ipercontrattilità uterina in trattamento con farmaci volti a rilassare la parete uterina stessa;
3. placenta "previa" (ossia impiantata nella parte inferiore della cavità uterina, fino a coprire in parte o totalmente il versante interno del collo dell' utero, e il cui distacco può provocare emorragie), che sia stata accertata con l' ecografia;
4. dilatazione del collo dell' utero prematura rispetto alla data del parto;
5. rottura prematura delle membrane (ossia del sacco amniotico) in trattamento "conservativo", cioè con farmaci volti a facilitare nel frattempo la maturazione dei polmoni del bambino;
6. infezioni vaginali e/o delle membrane amniotiche ("amnioniti"). L' amnios è il sacco che avvolge in bambino in utero;
7. gestosi (pre-eclampsia ed eclampsia, serissima complicanza della gravidanza con crisi ipertensive gravi).
In tutti questi casi è la donna stessa che istintivamente preferisce evitare l' attività sessuale». E quando è l' uomo a tirarsi indietro? «Ogni uomo, ogni donna, ogni coppia, hanno un loro modo di sentire e vivere questo delicato periodo», sottolinea Graziottin. «Anzi, ricerche recenti hanno mostrato che l' uomo ha una riduzione di desiderio, che aumenta con il progredire della gravidanza, in circa il 48% dei casi. E questo sia per la paura di nuocere alla gravidanza, sia per una percezione disturbante del fatto di sentire il bambino come una presenza viva, oltre che per il progressivo "ingombro" del pancione. Io credo che il compito del medico sia spiegare alla coppia l' importanza di un' intimità sessuale, se desiderata da entrambi, e la valutazione di eventuali controindicazioni. Lasciando poi a ciascuno di trovare la propria misura e la propria musica. L' amore si manifesta in tanti modi ed è saggio rispettare questa unicità, senza voler fare di un unico comportamento l' assoluta normalità che debba per forza essere valida per tutti».
DATEVI UNA MANO. Da “Radio Cusano Campus” il 24 maggio 2019. La Sessuologa Rosamaria Spina è intervenuta nel corso del programma “Genetica Oggi” condotto da Andrea Lupoli su Radio Cusano Campus. "C'è un numero crescente di coppie che si masturbano. Per tanto tempo c'è stata una sorta di tabù, di imbarazzo, all'interno delle coppie nei confronti della masturbazione stessa un po' come se fosse stata considerata una pratica più intima della penetrazione. I nuovi dati raccontano un 67% delle coppie che si masturba in coppia e questo sta ad indicare che molto probabilmente le coppie iniziano a prendere confidenza con certi gesti e comportamenti, non solo da soli ma anche con il partner."
MASTURBAZIONE FEMMINILE. "Mi capitano tante coppie che vivono la masturbazione come un aspetto complementare ai rapporti completi con penetrazione. E' una pratica vista come aggiunta per provare piacere, sia da soli, ossia mostrandosi al partner mentre ci si masturba, oppure reciprocamente come una sorta di preliminare o di completamento."
MASTURBAZIONE RECIPROCA. "La masturbazione è finalmente vista come una pratica dove anche le donne la stanno sperimentando come forma di piacere complementare al rapporto sessuale o di sessualità a se. Le donne hanno capito che possono darsi piacere indipendentemente da un rapporto completo e dalla presenza di un partner. Una donna sorpresa dal proprio partner a masturbarsi, invece che a consumare un rapporto sessuale con lui, diventa campanello di allarme solo se nella coppia ci sono delle insicurezze. La coppia che sta bene, invece, che è complice e ha una sua intimità, in realtà trova questa pratica molto eccitante e piacevole."
MASTURBAZIONE. "Alcune donne praticano la masturbazione ma hanno una difficoltà nel toccare il proprio corpo, quindi per evitare il contatto diretto frequentemente impiegano dei sex-toys. L'uomo li vive ancora come intrusi, come dei sostituti, per questo non sempre è disposto ad accettarli. Ci sono sex toys che hanno una forma particolare e fantasiosa perchè risultano 'meno minacciosi' come la classica “paperella vibratore” con una forma simpatica, colorata e divertente, ma che funziona, spostando l'attenzione sulla dinamica del gioco." "Per l'uomo invece c'è un sex toy dalla forma di un uovo che contiene una membrana che al tatto restituisce la stessa percezione che si ha quando si tocca una vagina. Si usa questo uovo per stimolare il pene come se fosse una penetrazione." "Nella donna è più facile, rispetto che nell'uomo, che ci si abitui all'uso di un sex toys e il rapporto di coppia può passare in secondo piano. Nell'uomo è diverso, ha sempre bisogno di un contatto con un corpo femminile. Può capitare che una donna, che non ha stimolazione mentale nel suo rapporto di coppia e nel sesso, possa trovare più soddisfacente un rapporto con se stessa, con la masturbazione, con o senza sex toys, piuttosto che con un partner."
Da Le Iene il 6 ottobre 2019. Chiude a Torino il primo “Bordoll” italiano, la casa di appuntamenti con “sex dolls”, bambole con cui fare sesso a pagamento. Il bordello torinese della società LumiDolls si era scontrato con i primi problemi già all’apertura con i controlli dell’Asl che l’avevano fatto chiudere per un po’ perché l’attività risultava un “affittacamere”. Aveva riaperto a fine settembre 2018, cambiando pure zona a Torino dopo le polemiche. Ma evidentemente in Italia il business del Bordoll non riesce proprio a partire. Forse anche a causa dell’iter burocratico richiesto. Oltre a prenotare, i clienti dovevano infatti lasciare un documento e registrarsi, cosa che forse ha causato un calo nella clientela. La LumiDolls ha quindi deciso di chiudere definitivamente l’attività. I bordelli con bambole, come ci ha raccontato Cizco nel servizio che potete vedere qui sopra, in altri paesi vanno invece più che bene. La Iena era andata in Germania, a Dortmund, per visitare il primo “Bordoll” aperto in Europa. Qui abbiamo intervistato un cliente della casa di bambole sexy. “Perché fai sesso con le bambole?”, gli ha chiesto la Iena. “Lo trovo meraviglioso, posso fare tutto quello che voglio senza stress”, ci ha detto. “Sono sposato e ho due figli, ma mia moglie sa che vado con le bambole. Non è felice ma non è nemmeno incazzata, è una buona soluzione per gli uomini sposati”.
LittleRedBunny per “The Debrief” il 26 novembre 2019. Per chi non lo sapesse, maggio è stato il mese internazionale della masturbazione. Io sono una “webcam girl” e l’arte dell’autoerotismo è il mio mestiere, la connessione più intima che puoi avere con te stessa, perciò sono in grado di dare una serie di consigli. Innanzitutto non bisogna essere inibiti, dobbiamo accettare che è parte di ciò che siamo. Maturiamo, ci sviluppiamo e cresciamo attraverso la masturbazione. Ci insegna a conoscere il nostro corpo e a darci piacere. Se sei a tuo agio con il tuo corpo, lo sarai anche con gli altri, e non solo a letto.
Evitate la routine. Per anni sono stata una purista, usando solo le mie dita. I “sex toy” mi sembravano strani e ho cercato dei sostituti naturali. Ho comprato zucchine e melanzane di varia misura e a volte ho raggiunto il climax, spesso no. Alla fine ho capitolato sui “sex toys”. Non bisogna essere timidi. Bisogna esplorare e provare più volte, prima di decidere che una cosa non fa per te. La relazione con la masturbazione deve essere identica a quella con un partner, cioè va mantenuta in vita la freschezza. Ma attenti a non desensibilizzarvi. Usare troppo spesso gli accessori erotici vi fa perdere il senso del tocco.
La masturbazione ha un impatto positivo sul rapporto sessuale con il partner. Impari a mostrarti, a dirigerlo, ad ottenere senza chiedere. Masturbarsi davanti al partner e incorporare esibizionismo e voyeurismo può portare la coppia a nuovi livelli di intimità.
Imparate ad essere pazienti. Fate durare il più possibile la masturbazione e costruite l’energia sessuale prima di rilasciarla. Dà più soddisfazione usare l’immaginazione e prendersi del tempo per aumentare la libido. Il sollievo è più grande e intenso. E non dimenticate che le donne possono provare più orgasmi, quindi non siate pigre e sfruttate questa opportunità.
In occasione del mese internazionale della masturbazione “We Vibe” ha fatto la prima ricerca dedicata. Sono stati intervistati 600 tra uomini e donne americani, tra i 20 e i 70 anni: l’85% ne parla con più tranquillità rispetto al passato perché non è più ritenuto un tabù, grazie a internet. L’85% dei “millennial” ne parla coi coetanei, mentre solo il 65% della generazione precedente lo fa.
Gli uomini ne parlano con gli amici più delle donne. (34% contro 29%). Il 45% si è masturbato per la prima volta tra i 13 e 19 anni, le donne anche a 20. Dove ci si masturba con più frequenza? A letto (80%) o sotto la doccia (31%). Gli uomini al letto preferiscono il divano (23%). La terza “destinazione” preferita è la macchina (20% uomini e 19% donne). Il 6% degli uomini opta per l’ufficio. Qualcuno lo fa sugli autobus, in aereo e sul treno.
Quando la temperatura scende, la masturbazione aumenta. L’inverno ha bisogno di calore. Il 63% dice che è più probabile raggiungere un orgasmo da soli che con il partner.
Torino, la casa delle bambole hot chiude: non faceva affari. La decisione della Lumidolls dopo una serie di polemiche e chiusure forzate. Cristina Palazzo il 06 ottobre 2019 su La Repubblica. La casa delle bambole hot lascia Torino. Così finisce la storia dell'attività a luci rosse che si trovava a Borgo Vittoria e che, dopo una serie di controlli dell'Asl e dei "civich" a dicembre aveva riaperto i battenti. Prima di farlo i titolari le avevano tentate tutte. Anche a causa delle polemiche avevano cambiato zona, e anche iter burocratico: con la prenotazione, infatti, era necessario anche lasciare un documento e registrarsi ma questo dettaglio avrebbe comportato un calo delle richieste per gli appuntamenti a luci rosse con le bambole. E così nei giorni scorsi è arrivata la scelta della LumiDolls di abbassare definitivamente la serranda. Già in passato aveva avuto dei problemi: poco più di un anno fa, a settembre, era scattato un "fermo amministrativo" per l'attività che risultava essere un affittacamere. Così dopo il dissequestro era stato trovato un altro locale ed era stato riaperto con le vecchie tariffe, dagli 80 euro per mezz'ora fino ai 180 per due, alla clientela. Che però sembra non essere stata abbastanza da consentire all'attività di resistere.
E ALLORA DILDO! Rosita Rijtano per La Repubblica il 14 maggio 2019. Era salito sul podio il tempo di un entusiasmo. Una vittoria annullata in un soffio e seguita da una squalifica. Fino al nuovo colpo di scena: quel premio s'ha da dare. Torna trionfante Osé: il vibratore femminile vincitore di un Innovation Award alla passata edizione del Ces di Las Vegas, la fiera d'elettronica più importante del mondo. Un riconoscimento amletico: assegnato, poi ritirato per "oscenità e immoralità", e ora nuovamente riconsegnato nelle mani di Lora Haddock, fondatrice della startup dietro Osé, che ringrazia. "Sono contenta che la giuria abbia riconsiderato la nostra idoneità alla competizione e validato l'innovazione di cui è responsabile il nostro team di ingegneri", dice. Una querelle che ha scaldato gli animi del mondo hi-tech lo scorso gennaio. Tutto merito di Osé, un vibratore all'avanguardia ideato dalla startup Lora DiCarlo con la collaborazione della Oregon State University. Un sex toy che può regalare soddisfazioni senza sforzi. Basta indossarlo perché funzioni. Una volta acceso, sfruttando la microrobotica, "riesce a mimare tutta la gamma di sensazioni che possono essere trasmesse da bocca, lingua e dita umane". Il risultato è un'esperienza equiparabile al rapporto con un partner, assicurano sul sito della compagnia. In un primo momento la tecnologia ha convinto la Consumer Technology Association (Cta), l'associazione che organizza l'evento. Poi, inspiegabilmente, il ripensamento. L'oggetto del piacere ha smesso di piacere e si è beccato una squalifica perché "immorale, osceno, indecente, profano o non in linea con l'immagine". Uno schiaffo sessista, considerato che Osé è firmato da un gruppo di donne determinate a sfruttare le ultime innovazioni per soddisfare il proprio diritto al benessere. "Non avrebbe dovuto essere accettato per l'Innovation Awards Program" poiché "non rientra in alcuna delle esistenti categorie di prodotti", hanno provato a giustificarsi i giurati. Una spiegazione che ha determinato la ribellione di Haddock. In lunga lettera di rivendicazioni, la donna ha prima messo in chiaro che Osé si adatta perfettamente alla categoria in cui era stato inserito, cioè robotica e droni. Poi ha accusato l'organizzazione e la fiera di sessismo. "La sessualità maschile può essere esplicita mentre quella femminile viene pesantemente zittita, se non messa al bando", denunciava chiedendo a tutte le donne di unirsi alla sua protesta usando sui social l'hashtag #CESGenderBias. Recriminazioni che non sembrano infondate visto che contemporaneamente una società di realtà virtuale per soli adulti presente a Las Vegas, la Vr Porno, esponeva liberamente i propri prodotti, "offrendo agli uomini della pura pornografia in pubblico". Mentre l'anno prima, sempre tra gli stand della fiera, un'azienda aveva lanciato un robot femminile che "era letteralmente una bambola gonfiabile per uomini". Poche ore e il tam tam ha fatto il giro del mondo. Ci sono voluti quattro mesi, ma alla fine le proteste sono servite. L'organizzazione del Ces si è scusata e ha staccato per la seconda volta l'assegno da due milioni di dollari in favore di Lora DiCarlo e di Osé. Haddock apprezza. Non è mai troppo tardi per godere del giusto riconoscimento. Né per il piacere.
Laura Avalle per “Libero quotidiano”l'8 luglio 2019. Sono sempre più numerose e disposte a tutto le donne del Belpaese decise a ricorrere al ritocchino intimo per cancellare i segni del tempo. Un esercito in rosa di tutte le età: persino le ventenni. Tanto che nel giro di dieci anni si è passati da poche centinaia a circa 6mila l' anno, tra interventi e procedure non chirurgiche. La stima è di Alessandro Littara, fondatore e direttore del Centro di Medicina Sessuale di Milano. «C' è chi chiede l' operazione per ripristinare il piacere perduto (non mancano le mamme, spesso alle prese con i postumi dell' episiotomia - incisione chirurgica che si fa per allargare il canale e favorire il passaggio del bebè), chi lo fa per estetica, chi ha archiviato relazioni durate anni e vuole tornare perfetta per rimettersi in gioco», elenca il noto sessuologo. Così aumentano le richieste, nonostante la crisi. «Si viaggia al ritmo di un +5% l' anno», calcola Littara. Ma quanto si è disposti a spendere? «I costi variano a seconda dell' utilizzo di una pratica chirurgica o mini invasiva», risponde il professore. «Per una labioplastica riduttiva si spende mediamente dai 3.000 ai 5.000 euro, per un ringiovanimento vaginale chirurgico fino a 7.000 euro, mentre l' utilizzo del laser per casi meno complessi ha un costo inferiore ai 3.000 euro. Molto richieste anche le procedure mini invasive di aumento delle grandi labbra, consistenti in filler di acido ialuronico (500 euro circa) o lipofilling (almeno 2.000 euro). E se in alcuni Paesi come il Regno Unito il ritocco intimo può essere rimborsato dal servizio sanitario pubblico, in Italia succede in casi rari, in cui il problema è evidentemente funzionale. «L' aspetto psicologico non è contemplato dal Ssn», spiega Littara. «All' origine di un intervento deve esserci una patologia individuabile da un codice per il rimborso regionale ben preciso. Eppure sarebbe auspicabile che si rendessero "mutuabili" questi interventi: in tal modo si controllerebbero le reali necessità del ritocco, scremando i casi in cui il chirurgo interviene per un tornaconto personale». E qual è la situazione al maschile? «Nell' uomo la richiesta di procedure, chirurgiche e non, per migliorare l' aspetto e le dimensioni del membro, è sempre stata alta. Ma negli ultimi anni, complice un miglioramento delle tecniche, stiamo assistendo ad un vero e proprio boom», racconta Littara. Si parla infatti di oltre 3.000 richieste l' anno e il dato è sicuramente sottostimato, mancando di vero e proprio registro delle procedure a livello nazionale. Peraltro il nostro è considerato un Paese guida nel settore a livello mondiale, all' avanguardia nelle tecniche chirurgiche e nella gestione degli aspetti psicologici. Basti pensare che è italiana l' unica scuola chirurgica di falloplastica al mondo, ed è italiano lo studio con la più numerosa casistica al mondo. Milano in particolare si distingue per ricerca e alto numero di interventi in questo campo, grazie al lavoro del Dottor Alessandro Littara, pioniere del settore. La procedura più richiesta è senz' altro l' intervento combinato di allungamento e ingrossamento del pene, ma sempre maggiore è la richiesta di chirurgia dello scroto (lifting scrotale, correzione di "ali di pipistrello") e l' aumento delle dimensioni del glande tramite filler. Anche in questo caso i costi dipendono dalla procedura utilizzata e variano dai 5.000-7.000 euro per un intervento combinato, sino agli 800-1.000 euro di un filler del glande.
Zeina Ayache per Fanpage.it il 9 agosto 2019. Gli uomini che soffrono di disfunzione erettile tendono ad essere anche meno produttivi sul lavoro e ad avere una peggiore qualità della vita, questo è quanto sostengono gli scienziati che hanno effettuato il loro studio su otto nazioni, tra cui l’Italia, che è risultata quella messa peggio. Vediamo insieme cosa accade agli uomini con disfunzione erettile.
Disfunzione erettile, cos’è? La disfunzione erettile è un disturbo che colpisce gli uomini, non tutti, e non è una malattia. Si tratta di una condizione per cui l’uomo a fatica riesce a mantenere l’erezione del pene, in alcuni casi addirittura ad averla. La disfunzione erettile può essere organica, quindi legata al funzionamento dell’organismo, oppure psicologica, quindi legata a questioni in mentali.
Lo studio. Gli scienziati hanno raccolto informazioni su uomini tra i 40 e i 70 anni provenienti da Brasile, Cina, Francia, Germania, Italia, Spagna, Stati Uniti e Regno Unito, tra questi, mediamente, il 49,7% di loro soffriva di disfunzione erettile. Il Paese che riportava un maggior numero di uomini con disfunzione erettile era l’Italia: il 54,7%. Mettendo a confronto i dati raccolti e l’eventuale presenza di disfunzione erettile tra i soggetti, gli esperti sono giunti alla conclusione che:
- gli uomini che soffrono di disfunzione erettile tendono di più a stare a casa dal lavoro rispetto a quelli senza disfunzione erettile (7,1% vs 3,2%)
- gli uomini con disfunzione erettile tendono a lavorare di più anche se influenzati rispetto a quelli senza disfunzione erettile (22,5% vs 10,1%)
- gli uomini con disfunzione erettile tendono ad essere meno produttivi sul lavoro rispetto a quelli senza disfunzione erettile (24,8% vs 11,2%)
- gli uomini con disfunzione erettile tendono ad essere meno attivi rispetto a quelli senza disfunzione erettile (28,6% vs 14,5%)
In generale, gli uomini con problemi di erezione hanno una qualità della vita, legata al loro stato di salute, peggiore. Lo studio, intitolato “The association of erectile dysfunction with productivity and absenteeism in eight countries globally”, è stato pubblicato su International Journal of Clinical Practice.
Massimo Finzi per Dagospia il 2 settembre 2019. Per disfunzione erettile si intende l’incapacità di raggiungere o mantenere un’erezione sufficiente a condurre un rapporto soddisfacente in presenza di desiderio sessuale. In medicina vale sempre la regola di non fermarsi mai ai sintomi ma di ricercare le cause perché più precisa sarà la diagnosi tanto più risulterà mirata ed efficace la terapia. Pertanto debbono essere esclusi eventuali effetti collaterali delle terapie in corso: alcuni farmaci utilizzati per l’ipertensione, per la prostata, per i disturbi dell’apparato digerente e per il sistema nervoso ecc. Perfino le lozioni anticalvizie possono essere responsabili di un disturbo erettile. Vanno escluse le patologie come il diabete, le gravi malattie del sangue, del fegato e dei reni, le patologie ormonali, quelle del sistema nervoso, le malattie vascolari. Bisogna indagare sull’abuso di alcool, fumo e droghe. Un vasto capitolo è rappresentato dalla condizione psicologica e ambientale. Non si tratta solo di “ansia da prestazione” ma di un complesso rapporto che coinvolge entrambi i partner. Ovviamente la terapia varia a seconda della specificità del caso ma senza dubbio l’introduzione del Viagra ha rappresentato una pietra miliare per questa patologia. La storia della scoperta di questo farmaco è interessante: il centro inglese di ricerca farmacologica della Pfizer aveva sintetizzato il Sildenafil, un inibitore dell’enzima fosfodiesterasi di tipo 5, con lo scopo di migliorare il flusso di sangue a livello delle arterie coronarie. In realtà questa azione risultava molto modesta mentre nei soggetti di sesso maschile si manifestava una frequente, persistente e imbarazzante erezione. Questo effetto collaterale divenne la vera indicazione di questa sostanza conosciuta commercialmente con il nome di Viagra. Ora il prontuario terapeutico si è arricchito e, oltre al Viagra (sildenafil), oggi disponiamo del Cialis (tadalafil), del Levitra (vardenafil) e dello Spedra (avanafanil). Tutti questi farmaci condividono un meccanismo comune di azione che consiste nella inibizione della fosfodiesterasi di tipo 5, con conseguente vasodilatazione dei vasi dei corpi cavernosi del pene. La differenza tra le 4 sostanze è nella rapidità di comparsa dell’effetto che è massima per lo Spedra, nella durata di azione che nel caso del Cialis si prolunga a 36 ore, nella possibilità di poter assumere il farmaco a stomaco pieno o meno ( per il Viagra il livello di riempimento dello stomaco è inversamente proporzionale all’effetto) ma soprattutto nella tolleranza individuale. Il contemporaneo utilizzo di nitrati costituisce una controindicazione all’uso dei suddetti farmaci, così come una rara forma di patologia oculare (retinite pigmentosa). Gli effetti collaterali più frequenti sono: vampate di calore al viso, cefalea, vertigini, palpitazioni, dolori al dorso, reflusso gastro-esofageo, congestione nasale. Analizzando i dati delle vendite di tali farmaci emerge un dato preoccupante: troppo spesso non vengono prescritti e/o utilizzati secondo i precisi protocolli previsti per la cura della disfunzione erettile ma secondo una “commercializzazione della malattia” (disease mongering) o per motivi di rassicurazione personale. Negli utilizzatori si assiste ad un pendolarismo delle farmacie nel senso che raramente la ricetta viene spedita nella farmacia della zona di residenza mentre è più frequente l’acquisto nella farmacia lontana se non addirittura della cittadina vicina dove non si è conosciuti. Tutti questi farmaci, chi in misura maggiore o minore, hanno un limite: necessitano di uno stimolo. Al riguardo ricordo un episodio divertente: alla fine di un convegno su questo tema ero stato avvicinato da un signore accompagnato da una moglie bassa, grassa, irsuta, capigliatura incolta e unta e dalla improbabile confidenza con l’igiene personale. Questo signore si lamentava del mancato effetto del farmaco ed io l’avevo invitato a leggere bene il foglietto illustrativo che lui aveva prontamente tirato fuori da una tasca. Con l’evidenziatore avevo sottolineato la frase finale:” lo stimolo deve essere adeguato”.
DAGONEWS il 5 agosto 2019. I registi lo sanno, i produttori se lo aspettano e i partner di scena contano su di esso, ma che pressione c’è sugli attori porno per assumere droghe? Nel mondo si scoraggia l’uso di prodotti farmaceutici che migliorano le prestazioni; alcuni lo chiamano persino barare. Non l'industria per adulti. Nel porno è la norma. Un ragazzo che fa sesso con la macchina cinematografica puntata addosso non può nascondersi anche se ha una brutta giornata. Si dovrà comunque andare in scena. E sebbene questi uomini possano esibirsi come macchine, hanno un'arma segreta: farmaci per la disfunzione erettile. Poco prima di discutere di come gli uomini del settore soddisfino le rigorose esigenze del loro lavoro, l'attore porno Derrick Pierce, dopo cinque ore di cavalcate, racconta cosa vuol dire soddisfare questo tipo di domanda senza perdere tempo. «Se inizi in questo settore fa parte del tuo lavoro fare tutto il possibile entro limiti ragionevoli - afferma Pierce - Quando stai girando una scena per cinque ore, è bello sapere che se le cose non vanno secondo i piani, c'è un'opzione. Se stai prendendo il Viagra, questo probabilmente aiuterà ad accentuare l'attività ma non risveglierà un pene morto». Ci sono due tipi di attori maschili nel porno, secondo Pierce: quelli che hanno giorni brutti e lo ammettono e quelli che non lo fanno. Secondo Pierce, prendere una strada o un’altra fa la differenza tra i principianti e gli esperti. «È noto che i pivelli, quando si trovano in difficoltà, danno la colpa alla posizione scomoda o all’aria condizionata. Chiedono altri cinque minuti e passano l’ora successiva a masturbarsi mentre affondando. I veterani vengono da te e ti dicono: “Ehi, sarà una giornata di merda, vuoi cancellare le riprese, sostituirmi o vedere se le cose miglioreranno?” Te lo diranno nei primi dieci minuti; non si comporteranno come se non stesse accadendo - dice Pierce - Quindi un regista o un produttore potrebbe chiederti: “Vuoi prendere una pillola? Hai qualcosa che puoi prendere?”». Ma c’è da dire altro. Se l'assunzione della pillola blu trasformasse magicamente il risultato ci sarebbe un parterre molto più ampio di talenti maschili. «Gli interpreti maschili sono assunti sulla base del fatto che abbiano la capacità di impegnarsi a fondo, rimanere in erezione per un lungo periodo e ritardare l’orgasmo - ha affermato l’attore porno Alex Saint - È uno dei motivi per cui è così difficile entrare nel mondo del porno come interprete maschile. Pensare che tutti prendano viagra per girare le scene è un malinteso così come pensare che tutte le ragazze siano drogate». Prendere la pillola blu, insomma, è un comportamento accettabile e non viene stigmatizzato. Johnny Goodluck, altro attore porno, ha aggiunto: «Non usiamo costantemente il Viagra, non fa parte delle regole di ingaggio. È una ciambella di salvataggio, come lo è per tutti gli altri».
UOMINI, CADETE SEMPRE IN FALLO. Laurent Giordano per “le Figaro” il 16 maggio 2019. Quasi la metà degli uomini sogna un pene più lungo: viene visto come un segno di virilità e una garanzia per poter dare piacere. Ma l'orgasmo femminile è più complesso. Questa è una costante del sesso maschile: molti uomini credono ancora che un pene lungo sia garanzia di virilità e sia fondamentale per dare piacere alla propria partner. Secondo un'indagine del 2003 su 52.000 internauti, oltre il 45% degli uomini sogna un pene più lungo. Più sorprendentemente solo il 12% di loro ha la percezione di avere un pene troppo piccolo, semplicemente lo vorrebbero più lungo. «Eppure va detto e ripeto: la lunghezza del pene non influenza l'orgasmo femminile - afferma la dottoressa Marie-Laure Brival, ginecologa e docente universitaria – Il piacere è complesso e nasce principalmente dalla stimolazione del clitoride e delle sue ramificazioni, attorno alla vagina, all'uretra e fino all'ano. Ciò che viene chiamato piacere vaginale deriva dallo sfregamento del terzo inferiore della vagina, dove si trovano queste ramificazioni del clitoride. Un pene di 3-5 cm è sufficiente per raggiungere questa zona sensibile e per eccitare una donna. Tutti gli uomini hanno una lunghezza sufficiente del pene (la media è di 9 cm a riposo e 13 cm in erezione). Ecco perché la maggior parte delle donne non se ne preoccupa».
False credenze maschili. I sondaggi lo confermano: l'85% delle donne si dicono molto soddisfatti del pene del loro partner e quelle che hanno qualcosa da ridire, lamentano dimensioni eccessive rispetto a taglie ridotte. Tra l’altro una vagina non misura più di 12 cm in media. Il piacere femminile, piuttosto, dipende dalla “qualità” delle erezioni e da come viene utilizzato il pene, ma la maggior parte della “ricchezza” del rapporto risiede nei preliminari, nelle carezze, nei massaggi, nelle parole sussurrate nell’orecchio. Le donne hanno bisogno di tempo per raggiungere l’orgasmo, e tutte hanno particolari zone erogene che si devono saper esplorare ed eccitare. Il clitoride e le zone intorno, ma anche la pelle, le orecchie, i piedi. Fa eccezione il periodo dell’ovulazione, quando il desiderio è spesso più intenso e le donne hanno bisogno di essere stimolate per dieci-quindici minuti in media per raggiungere l'orgasmo. Gli uomini, invece, possono facilmente completare un ciclo di eccitazione/erezione/eiaculazione/piacere in tre-cinque minuti. Questa differenza di tempo è all'origine di molti problemi sessuali nella coppia. In effetti, molti uomini continuano a credere che una penetrazione potente e veloce sia l'alfa e l'omega di una sessualità di successo. Questo è particolarmente vero per gli adolescenti per i quali la pornografia è la principale fonte di informazioni sull'argomento. La pornografia contribuisce allo sviluppo di credenze maschili errate che non sono adattate alle aspettative femminili, il che allarga ulteriormente il divario tra uomini e donne. «Purtroppo - osserva la dottoressa Brival - troppo spesso le donne non osano parlare della loro insoddisfazione, e molte simulano per soddisfare il loro compagno ed evitare tensioni». Se l'uomo, quindi, è in grado di ascoltare e trovare la via per essere meno fallocentrico sarà più facile soddisfare la propria partner.
INCURVATIO NON PETITA. Laura Avalle per “Libero quotidiano” il 19 agosto 2019. Vi piacete, avete molti interessi in comune e provate una forte attrazione sessuale l' uno per l' altra. Fisicamente lui è perfetto: alto, bello, in forma peccato che ce l' abbia storto, motivo per il quale non l' avete ancora fatto o, se ci avete provato, non è andata come speravate. Il pene curvo è una situazione più comune di quanto si pensi, che tuttavia sembra essere ancora un tabù: si tratta di una deviazione congenita o acquisita che interessa dal 3 al 6% dei maschi i quali, nonostante il disagio funzionale e l' imbarazzo estetico, non ne parlano con il proprio medico. «Le forme congenite sono malformazioni presenti dalla nascita che però si evidenziano con la pubertà», spiega Alessandro G. Littara, sessuologo e andrologo di Milano. «Nelle forme acquisite, invece, la causa può essere di varia natura. Una di queste è legata a traumi durante l' attività sessuale che, se troppo energica, può causare anche fratture che determinano lo sviluppo di un tessuto cicatriziale e fibrotico che altera l' anatomia del membro. C'è poi la malattia di De La Peyronie: un disturbo chiamato anche "induratio penis plastica" che, oltre alla curvatura, può rendere difficili o impossibili i rapporti sessuali e determina dolore o indolenzimento sia a riposo sia in erezione. Nonostante possa svilupparsi anche in maschi giovani, il picco di frequenza si riscontra nella fascia tra i 40 e i 60 anni (i soggetti diabetici hanno un rischio nove volte maggiore)». Che cosa può fare l'andrologo? Esistono rimedi definitivi? «Oggi disponiamo di soluzioni molto efficaci per la risoluzione di questa condizione invalidante che riguarda non solo l' uomo ma la coppia, perché oltre un certo grado di curvatura il dolore e le difficoltà nella penetrazione riguardano anche il partner», risponde il professor Littara. «Se il problema è congenito, l' unica opzione valida è la chirurgia. Se invece la lesione è acquisita, il primo accorgimento sarà quello di stabilizzare la malattia e provocarne una regressione mediante l'utilizzo di farmaci specifici o altre opzioni terapeutiche quali infiltrazioni locali, laser, ionoforesi e onde d' urto. Una volta stabilizzata la malattia, ci troveremo di fronte a un incurvamento residuo che, se non tollerato, sarà efficacemente trattato con la chirurgia». «La scelta della tecnica più adatta - prosegue il professore - dipende dalla sede della lesione, dalla sua ampiezza, dal grado di curvatura e dalla compromissione o meno dell' erezione. Se l' erezione è conservata potremo limitarci a un intervento di "raddrizzamento" dell' asta, mentre se l' erezione è compromessa potremo comunque ottenere ottimi risultati con l' impianto di una protesi peniena. L'intervento di raddrizzamento dell' asta, di gran lunga il più utilizzato, comporta però un problema: l' accorciamento del pene (si va infatti a togliere una losanga di tessuto dal lato opposto, per rendere uguali i due lati), conseguenza inevitabile e molto male accettata dai pazienti. Per tale motivo, spesso, eseguo nella stessa seduta anche un intervento di allungamento (falloplastica laser di allungamento), che permetterà di minimizzare o addirittura azzerare la perdita di lunghezza».
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 10 maggio 2019. Ogni giorno in Italia un uomo si sottopone ad un intervento di falloplastica, una operazione di modifica del pene che riflette lo specchio dei tempi, se si considera il peso crescente che l' universo maschile sta acquisendo nella domanda di procedure estetiche, ed è ormai accertato che sul fronte della plastica genitale c' è stato di fatto il sorpasso sul gentil sesso. Uno studio tutto italiano, presentato in questi giorni a Milano in occasione dell' International Male Aesthetic Surgery and Medicine, e pubblicato su Scientific Reports, rivista del gruppo Nature, rivela che nel nostro Paese si viaggia al ritmo di almeno 350 interventi all' anno di ritocchi "intimi" maschili, richiesti ed eseguiti allo scopo di raggiungere le dimensioni considerate perfette, quelle che madre natura, motivata apparentemente da reale avarizia, non ha concesso in fatto di centimetri a molti uomini. Non solo. Le richieste che riceve lo staff del Centro di Medicina Sessuale del capoluogo lombardo arrivano addirittura a quota 3mila all' anno, ma vengono accuratamente selezionate in partenza, per accogliere solo gli idonei a questo tipo di procedura chirurgica. Il picco di età della fascia dei richiedenti è tra i 35 e i 50 anni, anche per un fattore di solidità economica, considerando che questo tipo di intervento non è coperto dal Ssn ed ha un costo variabile tra i 4 e gli 8mila euro, oltre al fatto che molti di questi pazienti, dopo aver vissuto qualche disagio all' inizio della attività sessuale ed aver trovato una sorta di equilibrio e sicurezza in una lunga storia con una donna, al giro di boa dei 40 anni, come spesso accade, si sono separati e rimessi in gioco con una nuova partner, sprofondando nuovamente nelle incertezze e nelle ossessioni delle dimensioni, comprese le ansie sopite che tornano a galla. Quasi tutti i pazienti però, prima di arrivare in un centro specializzato, digitano sul motore di ricerca "allungamento del pene" o "enlarge your penis" per informarsi, un sito diventato una locuzione quasi leggendaria per le centinaia di milioni di messaggi, dal quale vengono fuori infinite e grottesche indicazioni, dalle più svariate in tema di chirurgia estetica, fino alle creme, alle pillole a base di erbe, alle attrezzature ad hoc, come gli strumenti per "tirare" o "mungere" l' organo, apparecchi che somigliano a macchine di tortura, pompe che sfruttano la pressione dell' aria e l' effetto "sottovuoto", tutte autentiche bufale, come se il pene fosse un muscolo che più lo tiri e lo manipoli e più tende ad allungarsi. In realtà l' organo sessuale maschile è una struttura complessa in cui ci sono arterie, vene, nervi e corpi cavernosi, il cui coordinamento fisiologico, motorio e sessuale è strettamente collegato con il sistema nervoso, vascolare e urologico, oltre che con quello psicologico del paziente, e nella letteratura scientifica non esistono metodi non chirurgici per allungare il pene o per aumentare la sua grandezza. Per questo in Italia c' è il rischio di finire in mani poco esperte, perché i veri professionisti della penoplastica sono pochissimi, 3 o 4 in tutto sul territorio nazionale, e sempre più spesso questi specialisti sono costretti ad intervenire per correggere i danni eseguiti da altri colleghi, ovvero per rimuovere silicone, acido ialuronico, o granulomi da corpi estranei inseriti nel pene, tutte operazioni riempitive che vanno bene per labbra e zigomi, che sono strutture fisse, ma sono assolutamente incompatibili con un organo che cambia dimensioni nel corso della giornata, che ha diverse funzioni, e che così trattato, durante i rapporti sessuali, finisce per accumulare in varie zone il materiale introdotto, che si organizza e si incista, portando ad esiti bitorzoluti inguardabili dal punto di vista estetico, e che soprattutto ne riducono la funzionalità. Il lavoro scientifico presentato a Milano, invece, che prende in considerazione 355 casi di falloplastica, il più vasto in questo settore, e che ha valutato i risultati con un follow-up di due anni, dimostra che questo tipo di operazioni, se ben condotte, sono sicure e senza complicazioni di erezione o eiaculazione, oltre che soddisfacenti nella quasi totalità dei casi. L'incremento medio ottenuto per la lunghezza del pene è di circa 3 centimetri, mentre per la circonferenza circa il 30% in più, e la tecnica è quella di utilizzare il grasso corporeo, prelevato dal paziente e opportunamente purificato, il quale, una volta reiniettato nel pene, attecchisce perfettamente aumentando il diametro, diventando un tutt' uno con il tessuto del ricevente. In pratica è una sorta di autotrapianto, poiché il deposito lipidico prelevato, non essendo un materiale estraneo, abbatte il rischio di rigetto, ed agisce da riempimento organizzandosi e stabilizzandosi organicamente con le strutture in cui viene depositato. Ma il vero allungamento chirurgico è ottenuto con una metodica che consiste nel distaccare il legamento sospensore, quello che collega il pene al bacino, rilasciando, e quindi rendendo in questo modo visibile, una parte aggiuntiva e trattenuta dell' asta, che guadagna circa 2 centimetri. Quindi non si tratta di un allungamento vero e proprio, ed inoltre sono necessari circa sei mesi di particolari esercizi per evitare che il legamento si rinsaldi. Comunque, tra il taglio chirurgico e l' iniezione di grasso autologo, effettivamente si ha visivamente a livello estetico un aumento della lunghezza e del diametro fallico. Tale procedura prevede una sutura interna usando, anche in questo caso, solo materiali dell' organismo. Una pratica più recente e meno invasiva prevede invece di recidere inferiormente l' attacco dello scroto all' asta, in modo da liberare una parte del pene e dare l' idea che sia più lungo. Questo tipo di intervento richiede 20 minuti, mentre il precedente ne prevede 90 come durata media, si eseguono entrambi in day hospital, con un' anestesia locale (o generale a richiesta), si viene dimessi dopo 4/6 ore, il dolore post-chirurgico è modesto e facilmente controllabile, e si può tornare alla attività lavorativa dopo 4 giorni. La ripresa dell' attività sessuale invece è consigliata dopo un periodo variabile dalle 4 alle 6 settimane. In effetti i risultati sono ritenuti significativi dagli esperti, poiché sappiamo bene che un centimetro in più diventa un chilometro nella mente dell' uomo, in termini di sicurezza ed autostima, ed i pazienti tornano potenti e capaci di avere rapporti senza soffrire più del senso di inadeguatezza. È l' aspetto psicologico infatti ad essere dominante, che agisce come una molla e spinge a bussare al chirurgo nel 70% dei casi, e che, una volta appagato, fa sì che la persona smetta di focalizzare la sua attenzione su un presunto problema di centimetri, per tornare a concentrarsi sul piacere del rapporto. La maggior parte degli uomini che pensa di ricorrere a tecniche di allungamento del pene in realtà non ne ha alcun bisogno, perché spesso sono influenzati da modelli culturali sbagliati e stereotipi, perché ognuno è una storia a sé, e così lo è anche il pene che si ritrova, e non ci sono misure standard, né misure ideali per avere una vita sessuale migliore di altre. Inoltre la lunghezza del fallo da flaccido non dà particolari indizi sulle dimensioni che si raggiungono durante l' erezione, ed aggiungo, per le donne che leggono, che le lunghezze delle mani o dei piedi o del naso, non sono affatto indicatori, come è credenza femminile comune, delle dimensioni del pene, corto o lungo che sia.
Da Gqitalia.it. il 4 maggio 2019. Sei venuto qui alla ricerca di una risposta e una risposta ti darò: il sesso dovrebbe durare un'ora, 34 minuti e 22 secondi, ovvero quanto Fusi di testa. “Shyeah, wright!". Ehm, no, per quanto nutra un sacco di rispetto (etc) per chiunque riesca regolarmente a durare per tutta la durata di un lungometraggio, ovviamente sto scherzando. Non esiste una durata ideale di un amplesso, ma le persone tendono a confondere un sesso protratto più a lungo con un sesso di migliore qualità. Le maratone del sesso sono usate come misura di quanto fosse “calda” una notte di passione. E mentre le sveltine possono essere divertenti, dovrebbero costituire solo un pezzo di una vita sessuale bilanciata. Sono come la parte di caramelle e gelati della piramide alimentare, molto gustosa, ma non per il sostentamento quotidiano. Anche se non esiste un numero magico, nel 2005 uno studio nel Journal of Sexual Medicine ha chiesto a un gruppo di terapeuti di esprimere la propria opinione su quanto tempo dovrebbe durare un amplesso. Le loro linee guida dividevano il sesso in quattro categorie: adeguato, troppo breve, troppo lungo e auspicabile. Hanno valutato il sesso penetrativo durato da 1-2 minuti come "troppo breve" e quello durato 10-30 minuti come "troppo lungo". Quindi, il sesso "adeguato" di 3-7 minuti e quello desiderabile di 7-13 minuti. È difficile ottenere buoni dati sulla quantità di tempo che mediamente un individuo spende per raggiungere il piacere: per caso riesci a traccia di quanto a lungo lo stai facendo mentre lo fai? Questo soprattutto perché il sesso può essere definito in una miriade di modi. Per esempio, alcune persone (e la maggior parte degli studi) considerano tale solo il sesso penetrativo, che non è un modo particolarmente efficace per misurare un incontro sessuale, dal momento che considera molto il punto di vista di Lui, che è un po’ diverso da come la vede una donna rispetto all’orgasmo. Così ho chiesto a un po’ di amiche e coppie omosessuali per quanto tempo avrebbero idealmente voluto che il sesso durasse, e con poche eccezioni, le risposte si sono risolte in un “tra cinque e dieci minuti”, qualcosa di più se considerati anche i preliminari. Una delle interpellate ha riferito che il suo ideale era 10-15 minuti di preliminari e 10 minuti di rapporto: "Trovo che sono piuttosto impaziente a letto, o forse non ho ancora incontrato qualcuno che valga la pena di prendersi più tempo." Un’ altra ha sostenuto: "Mi suona come breve, ma onestamente sto sui 5-10 minuti più circa 15 minuti di preliminari". Un'altra ancora ha invece detto: "In genere mi piace che il sesso duri 15-20 minuti, con il rapporto vero e proprio che vale più o meno un quarto della cosa”. Due etero e una donna omosessuale hanno risposto che la loro sessione di sesso ideale, compresi i preliminari, sarebbe di un'ora o giù di lì, che suona come una bella impresa... Buon per loro! In generale risulta che le persone vorrebbero che il sesso durasse più a lungo di quanto non facciano. Quasi tutti quelli che ho intervistato informalmente ritenevano le proprie risposte sotto la media, quando in realtà quasi tutte erano in linea o superiori alla durata standard, che è di circa 5,4 minuti. Quindi, anche se siamo tutti consapevoli del fatto che stiamo imbrogliando su quanto tempo dedichiamo i nostri “dirty moments”, il sesso non prende chissà quanto tempo, anche per le persone che sono completamente appagate dalle proprie vite sessuali. Non intendo suggerire che il sesso più breve sia migliore. Eppure, secondo un sondaggio di Twitter dal tema "Ti annoi mai durante il sesso penetrativo o desideri mai che finisca in un attimo?" l'82% percento degli 819 partecipanti ha cliccato sulla risposta “sì”. La ragione per cui sentivo di poter proporre tranquillamente la questione è che anch'io mi sono annoiato durante il sesso penetrativo, arrivando anche a distrarmi con pensieri come “ma l’ho pagato il bollo dell’auto?” oppure “com’è possibile che Joan Cusack non abbia ancora avuto un ruolo da protagonista in un film!”. Secondo un altro sondaggio che ho fatto su Twitter a cui hanno risposto 2.380 persone oggetto di sesso penetrativo, la maggior parte (61%) avrebbe voluto che quella porzione del rapporto durasse circa 5-10 minuti (preliminari esclusi). Il 26% aspirerebbe piuttosto a una durata superiore agli 11 minuti. Per lo più, chi nel sesso è il ‘ricevente’ non pensa che una penetrazione più lunga sia migliore, quindi… puoi smettere di pensare a tua nonna che gioca a baseball, o qualunque cosa tu stia facendo per cercare di evitare di venire troppo presto. Morale: secondo i dati, se ha la tentazione di una maratona di sesso in stile martello pneumatico, è meglio lasciar perdere! Stando allo studio, più erano gli atti sessuali della coppia, più c’era probabilità di un orgasmo per entrambi, con il beneficio dei molteplici atti sessuali ancora più significativo per le donne che per gli uomini. La lezione alla fine è che non hai alcun bisogno di fare sesso più a lungo: hai bisogno di fare sesso meglio.
DAGONEWS il 20 novembre 2019. Che le donne amino i preliminari è un dato inconfutabile. Ma non sono le uniche. Parola della sexperta Tracey Cox che, citando un recente studio americano, riporta che uomini e donne sono sostanzialmente d’accordo sulla durata e sulla bontà dei preliminari. Ecco dunque, secondo la sessuologa, una serie di modi facili e innovativi per impressionare il partner e accendere la passione.
Vendete voi stessi. «Scrivete una sorta di “menù” in cui si indica il tariffario su ogni prestazione. Invitate il partner a fate lo stesso. L’idea stimolerà l’erotismo…».
Aggiungete un po' di bollicine. «Aprite una bottiglia di spumante, assicuratevi che il bicchiere sia sempre pieno e abbastanza vicino. Sorseggiarne un po’ sarà la celebrazione della vostra serata».
Mettetevi una parrucca. «C'è un motivo per cui le feste a tema sono così popolari: reinventare se stessi è divertente e sexy. Mettere una parrucca cambierà completamente il vostro aspetto e vi farà sentire diversi… e al vostro risveglio vi sembrerà di aver dormito con una persona nuova».
Giocate in pubblico. «Non intendo lanciarsi andare a baci appassionati sulla metropolitana, ma a un gioco a distanza che ecciterà il vostro partner. Guardatelo negli occhi, succhiatevi un dito, accarezzatevi in maniera discreta. Il contatto visivo è fondamentale anche durante il sesso: tenere gli occhi aperti rende tutto più erotico».
Spogliate il partner, ma resta vestito. «Si tratta di fare ciò che non è nella norma, creando uno scenario insolito. Rimanere vestiti mentre il partner è nudo sviluppa un'interessante dinamica di potere».
Esplorate nuove aree. «La pancia è disseminata di punti che creano piacere, in particolare dall’ombelico fino all'osso pubico. Accarezza la zona con la punta delle dita o la lingua. Succhia le dita dei piedi e fai un massaggio: i riflessologi dicono che le nostre pulsioni sessuali sono direttamente collegate a un punto di pressione del piede sotto la caviglia».
Raddoppiate la stimolazione. «Pizzica i capezzoli, il collo o il seno. Con l’altra mano fai una pressione, piuttosto forte, tra le gambe sul perineo per stimolare indirettamente la prostata o il punto G».
Prendetevi il vostro tempo. «Più lunga è la sensazione di eccitazione dovuta ai preliminari, migliore sarà l'orgasmo. Fate del sesso orale, passate alla penetrazione e poi tornate indietro. Il vostro partner impazzirà».
Appellatevi al loro lato narcisistico. «Portatelo in piedi di fronte a uno specchio a figura intera e seducetelo da dietro. Giocate con i capezzoli, baciatelo sul collo, passate le mani sul suo corpo, spogliatevi entrambi prima di passare al contatto corpo a corpo. Al vostro partner non è concesso girarvi o toccarvi: sarete voi che lo farete arrivare all’amplesso con la masturbazione».
Simona Sirianni per gqitalia.it il 6 ottobre 2019. Galileo Galilei lo aveva capito prima degli altri: «l’universo è scritto in lingua matematica». Quindi, se la matematica si applica a tutto, perché applicarla al sesso e non mirare anche a una formula per il rapporto lungo il giusto? Andiamo al punto: è possibile stabilire quanto dovrebbe durare un rapporto sessuale per essere considerato soddisfacente e appagante? La risposta alla domanda che sicuramente ci siamo posti tutti una volta nella vita, è sì e ce la fornisce proprio una formula matematica. Secondo una ricerca pubblicata sul Journal of Sexual Medicine qualche anno fa (l’unica ufficiale) la durata media di un incontro sessuale, senza contare i preliminari, è di 5,4 minuti. Vi sentite sollevati, vero? Non pensavate? Ma capiamo come sono stati rilevati questi dati. Per svolgere l’indagine, sono state intervistate 500 coppie e i risultati hanno rivelato che il tempo poteva variare da 33 secondi (nessun sorrisetto, perché la brevità era inversamente proporzionale alle volte) fino a 44 minuti (che onestamente non è più nemmeno sesso, ma un docufilm). Secondo un altro studio invece, in questo caso della Pennsylvania State University, il rapporto sessuale dovrebbe durare tra 3 (per considerarlo atto vero e proprio) e 13 minuti (per considerarlo desiderabile). È chiaro che questi sono dati più "scientifici" (si fa per dire), ma aldilà delle formule, quale è considerato il tempo ideale dalle coppie? Secondo le diverse testimonianze raccolte da esperti e terapeuti la risposta dei propri pazienti è stata:
“adeguati", da tre a sette minuti;
"desiderabile", da 7 a 13 minuti;
"troppo corto" per uno o due minuti;
"troppo lungo" per 10-30 minuti (chissà cosa avranno pensato di quelli secondo cui la durata dovrebbe essere di 44 minuti…)
Ok, quindi, ora che la maggior parte di voi probabilmente si è rasserenato, l’importante però è aver ben presente un concetto: la camera da letto non è il set di un film a luci rosse dove si obbligati a strafare, rischiando peraltro di peggiorare la situazione per colpa dell’ansia di prestazione. Non ce n’è bisogno. Detto questo, ricordate anche la decenza e la dignità! E che la camera da letto non è nemmeno l’oratorio… Insomma, come in tutte le cose, la giusta misura solitamente dovrebbe accontentare a tutti.
Michele Razzetti per vanityfair.it il 17 novembre 2019. Cosa ne pensereste se una sera dalla libreria di casa poteste estrarre, invece di un tomo romantico, un atlante dedicato alla durata a letto degli uomini? Non tanto per scegliere la prossima meta del vostro viaggio, nel caso in cui siate single, quanto più per essere consapevoli di cosa potreste aspettarvi a letto da un uomo non italiano. Poi, per carità, sì, alcuni paesi sono noti per un turismo sessuale al femminile. Certi sono davvero impensabili, come l’Indonesia e in particolare le isole Gili. Qui sono molte le signore di mezza Europa (Italia compresa) attratte dai beach boy locali. Si tratta di boy nel vero senso della parola, perché in genere sono sulla ventina e, a dirla tutta, sono abbastanza lontani dal concetto di “fustacchione”: sono bassetti, pochissimi peli e hanno sguardi in genere piuttosto femminili. Eppure, spopolano e infrangono i cuori di molte speranzose turiste. Non sappiamo di preciso quale sia il segreto dei giovani indonesiani, ma sappiamo invece che l’aspetto fisico non è tutto quando si parla di attrazione. Vero è, però, che le capacità sessuali un po’ contano, soprattutto per far colpo nei primi periodi. Così nella gallery abbiamo creato un mini atlante delle durate medie degli uomini, ricavate da alcuni studi disponibili. Sfogliatela, per curiosità, ma tenendo sempre bene a mente che una durata “giusta” non esiste. Uno studio dell’Università di Utrecht ha individuato, ad esempio, una forbice che spazia dai 33 secondi ai 44 minuti, con una durata media di 5,4 minuti. Un range bello ampio, a ben vedere, ma di fatto «l’eiaculazione è un fenomeno in cui intervengono moltissimi fattori di natura psicologica, organica, culturale» spiega Luca Pierleoni, sessuologo e psicoterapeuta della SISP. Il senso di durata giusta cambia a seconda dell’orientamento sessuale: il tempo influisce meno sulle coppie omosessuali rispetto a quelle eterosessuali, dove «un’eiaculazione precoce può determinare un’insoddisfazione forte per la donna». Ma anche qui non tutte le coppie ricercano prestazioni eterne: ci sono donne che raggiungono l’orgasmo in tempi brevi, altre per cui «un rapporto sessuale “lungo” può risultare addirittura fastidioso». Conta poi anche l’elemento culturale e l’educazione che si è ricevuta. «Nelle famiglie in cui c’è una forte educazione religiosa, ad esempio, può passare il messaggio che la sessualità sia qualcosa di “sporco” e che come tale deve essere liquidata in tempi rapidi». Infine, dovremmo tenere presente che nel corso del tempo noi stessi cambiamo. L’eiaculazione può subire variazioni anche “solo” per un periodo di stress. «Cambiamenti sia positivi sia negativi, ma anche la frequenza dei rapporti sessuali, possono generare importanti variazioni nel tempo che l’uomo impiega per raggiungere il piacere. Condizioni emotive di maggiore serenità, di armonia relazionale e bassi livelli di ansia generalmente hanno un impatto positivo sulla durata del rapporto sessuale, senza dimenticare però che ”naturalmente” ogni uomo ha un suo range temporale che lo porta ad avere fisiologicamente un tempo maggiore o minore» conclude Pierleoni.
Gran Bretagna. Sul gradino più alto del podio nello studio dell’Università di Utrecht, gli inglesi con una durata media di 7,6 minuti.
Stati Uniti. Al secondo posto gli statunitensi con 7 minuti di media.
Spagna. Secondo un sondaggio di LELO, brand di giocattoli sessuali di lusso, che ha coinvolto 400 spagnoli, la durata della maggior parte degli intervistati nella penisola iberica è compresa fra i 10 e i 20 minuti. Se parliamo invece di media totale, la durata si abbassa a 5,8 minuti secondo la ricerca dell’Università di Utrecht.
Olanda. Sempre secondo i dati dell’Università di Utrecht, la media della durata degli uomini olandesi è di 5,1 minuti.
Turchia. Maglia “nera” ai turchi stando ai dati dell’Università di Utrecht: 3,7 minuti.
Malesia. Secondo un dato riportato da Focus, in Malesia esiste un popolo per il quale è normale eiaculare dopo 15-30 secondi!
Il nostro sondaggio. Anche noi però abbiamo condotto un piccolo sondaggio; le intervistate italiane hanno indicato cinque nazioni degne di nota: Brasile, Argentina, Grecia, Camerun e Lussemburgo!
E' meglio in menopausa. Elisabetta Esposito per Il Giornale il 12 agosto 2019. Il sesso dopo i 50 anni migliora o peggiora? È una domanda che ha interessato, nel corso degli anni, non solo l'opinione pubblica, ma anche numerosi studi. Per le donne in menopausa ci sono dei fattori perlopiù positivi: fatta eccezione per qualche disturbo ormonale tipico di questa fase di vita, non vi è più il timore di una gravidanza indesiderata. In più, si può contare sull’esperienza maturata nel tempo e quindi una maggiore conoscenza del proprio corpo e delle tecniche preferite. Per gli uomini, invece, vi potrebbero essere problematiche relative al peggioramento della circolazione sanguigna e della funzionalità erettile, tuttavia a volte superabili a livello farmacologico. Così, un giornalista di Libero ha rivolto una sorta di sondaggio ai propri contatti Facebook, per scoprire come essi vivano il sesso a 50 anni: naturalmente c’è chi ha testimoniato, via messaggio privato sul social network, una libido molto viva, mentre altri hanno detto di non ricordare neppure più come si faccia. Ma la maggior parte sembrano orientati verso la prima ipotesi. "Dopo i 50 il sesso si gusta di più; coinvolge tanto la mente quanto il corpo": così ha risposto qualcuno, mentre altri hanno chiosato: "Posso garantirti che, raggiunti i 58, c'è un diavolo in me". D’altra parte, le conoscenze mediche di oggi - che consentono una vita più lunga e una migliore qualità grazie al fitness e all’alimentazione sana - permettono ai cinquantenni di non essere più considerati troppo vicini alla terza età. Tanto che gli studi indicano come una donna su due riesca ad avere sesso appagante anche a 70 anni. Uno dei grandi vantaggi del sesso a 50 anni è la creatività: tra le tante risposte c’è chi crede che i propri coetanei siano di gran lunga meglio dei giovani, proprio per la capacità di sperimentare tra le lenzuola. "La mia vita sessuale di 52enne sarebbe appagante se soltanto trovassi uomini capaci di portare a termine un rapporto. E non parlo solo dei miei coetanei, bensì anche dei più giovincelli, che hanno la pretesa di intrattenere il partner attraverso giochi erotici che si fermano ai soli preliminari", ha dichiarato infatti un'altra utente.
“A LETTO NON C’È DATA DI SCADENZA”. Valeria Pini per “la Repubblica Salute” l'11 settembre 2019. Una sana vita sessuale fa bene a tutte le età. Ma se una donna a 60 anni si sente desiderata, diventa più sicura. Secondo Roberta Rossi, presidente della Federazione italiana di sessuologia scientifica, è un aspetto importante della salute femminile anche più in avanti con l' età.
Perché il sesso fa bene al fisico della donna?
«Tutti i parametri vitali ne traggono beneficio. Se la persona è in buone condizioni di salute, con l' atto sessuale vengono sollecitati battito cardiaco e pressione. Ma anche se prende farmaci per la pressione può comunque avere rapporti sessuali. L' importante è sempre chiedere un parere a uno specialista».
A cosa bisogna fare attenzione?
«Le donne che hanno problemi di salute devono evitare emozioni molto forti. Vanno privilegiati rapporti lenti. Si può arrivare all' orgasmo anche lentamente, assaporando le sensazioni di piacere. Bisogna evitare di avere due o tre rapporti sessuali di seguito. E le posizioni acrobatiche sono bandite: fanno aumentare il battito cardiaco velocemente».
Il corpo, però, cambia. Il problema della secchezza vaginale?
«Oggi esistono cure di ultima generazione prive di ormoni. Creme e terapie ormonali sostitutive. Aiutano a mantenere l' elasticità e a evitare i dolori durante i rapporti sessuali».
Come cambia il sesso a 60 anni?
«C' è più tempo per esaltare gli aspetti sensoriali del rapporto. Le carezze e la stimolazione reciproca diventano più importanti».
Che effetto ha l' orgasmo sulla donna a questa età?
«Regala una sensazione di benessere e attiva il buonumore. Fra l' altro una ricerca recente su donne con l' artrite reumatoide, rivela che le pazienti che fanno sesso regolarmente gestiscono meglio il dolore».
E fino a che età a una donna fa bene fare l' amore?
«Si può arrivare a 85 anni. Lo si può fare finché si è in salute. Non c' è una data di scadenza».
Federico Mereta per “la Repubblica Salute” l'11 settembre 2019. Il respiro si fa più affannoso, i battiti più numerosi. E la pressione aumenta. Il sesso impone partecipazione ai maschi e quindi rappresenta un momento di stress. Secondo Ciro Indolfi, presidente della Società italiana di Cardiologia, «l' età non è un limite per l' amore a patto che si riconoscano i propri limiti, ci siano condizioni psicologiche ottimali, il/la partner abituale inducono tranquillità, e si conosca bene il proprio stato di salute».
A cosa prestare attenzione?
«Chi ha problemi cardiovascolari, dovrebbe parlare con il medico, senza negarsi a priori per il timore di star male l' attività sessuale. Attenzione alle "scappatelle": lo stress organizzativo e l'ansia da prestazione possono creare un vortice emotivo che si riflette sul benessere di cuore ed arterie».
Il sesso può causare problemi?
«Eventi cardiovascolari, come attacchi di cuore o dolore toracico causati da malattie cardiache - si verificano raramente durante il sesso, poiché l' attività sessuale è di solito per un breve periodo. Ci sono persone che rimandano l' attività sessuale quando in realtà è questa è relativamente sicura: a volte è il partner che chiede serenità in questo senso. Bisogna parlare con il medico. La riabilitazione cardiaca e l' attività fisica regolare possono ridurre il rischio di complicanze legate all' attività sessuale».
Come bisogna comportarsi?
«Gli anziani che non hanno altre patologie e che fanno un' attività fisica normale senza avere sintomi come il dolore oppressivo retrosternale o il respiro corto, possono andare avanti con l' attività sessuale. Per chi soffre di problemi cardiovascolari e ha avuto un infarto, il medico offre indicazioni.
Non si devono abbandonare le cure in corso. Se la malattia cardiovascolare è instabile o se i suoi sintomi sono gravi, è necessario stabilizzare la malattia con i farmaci o con procedure interventistiche come lo stent coronarico o sostituzioni valvolari prima del "via libera"».
NONNETTE SCATENATE. DAGONEWS l'11 novembre 2019. L'HIV è in aumento tra le donne anziane perché rimangono sessualmente attive e non considerano i rischi del sesso non protetto. Secondo il PRIME, uno dei più grandi studi sull'HIV e sull'invecchiamento nelle donne di tutto il mondo, sono aumentate di cinque volte le donne di età compresa tra 45 e 56 anni che ricevono cure per l'HIV. Gli esperti pensano che il crescente tasso di divorzi e un atteggiamento più liberale nei confronti del sesso contribuiscono all’aumento che viene comunque registrato in gruppi che hanno un livello di istruzione basso e non fanno prevenzione. Le persone che sono uscite da lunghi matrimoni o che hanno vissuto un lutto possono avere rapporti sessuali non protetti senza considerare i rischi. A volte le donne hanno avuto difficoltà a distinguere i sintomi della menopausa dai sintomi correlati all'HIV. La dottoressa Shema Tariq ha dichiarato: «Il trattamento per l'HIV è avanzato al punto che le persone vivono una vita lunga e sana. Se guardi alle donne in particolare, nell'ultimo decennio abbiamo visto un aumento di cinque volte del numero di coloro che vivono con l'HIV tra i 40 e i 50 anni».
“INVITO LE BADANTI A DARSI AGLI ANZIANI”. Da vvox.it il 14 settembre 2019. “Il sesso in terza età è importante. Invito tutte le badanti di questi poveri anziani oltre che ad accudirli anche a darsi loro; la badante ha il dovere morale di far star bene a 360 gradi il suo assistito”. E’ il singolare appello da chi della nobile arte del piacere ne ha fatto un mestiere, Elena Sonzogni, in arte Lena, riportato dal blog Notizieaudaci. Esuberante e sinuosa, la trentacinquenne si è distinta anche per le sue provocazioni che finiscono quasi sempre per scatenare accesi dibattiti sui social. In tour a Vicenza in occasione della famosa Fiera dell’oro, Lena rivela un personale desiderio: “Mi piacerebbe molto venire casa per casa a soddisfare intimamente tutti i vecchietti che da anni non hanno più una vita attiva sotto quel punto di vista ma purtroppo non sono wonder woman, quindi faccio ciò che posso”. Da qui l’appello alle badanti di curare in tutto e per tutto le persone che hanno raggiunto una certa età e che da tempo non vivono più emozioni particolari. Elena Sonzogni chiude sottolineando di essere disponibile anche per una consulenza speciale. “Contattatemi, vi darò ripetizioni”
SESSO E VOLENTIERI. Valeria Pini per “la Repubblica Salute” il 12 settembre 2019. Un'altra volta ancora. Un nuovo amore che può essere ancora più profondo delle storie avute in gioventù. Perché oggi capita sempre più spesso di rimettersi in gioco e innamorarsi dopo i 60 anni. Accade a causa delle tante separazioni, per la maggiore libertà e perché "gli amanti maturi" non sono più un tabù sociale. Così l' epoca della pensione regala tempo per fare nuovi incontri. E dopo una vita di corsa, fra lavoro e figli, arriva il momento per pensare a se stessi e capire cosa si desidera veramente. «I 60 anni di oggi - spiega Donata Francescato, direttore scientifico dell' Associazione per lo sviluppo psicologico dell' individuo e della Comunità e autrice di Amarsi da grandi - sono i 40 anni del secolo scorso. L'amore è diventato più libero e una persona matura avendo fatto esperienze diverse conosce meglio i propri desideri e limiti. Ma non dobbiamo dimenticare che per vivere relazioni soddisfacenti occorre che migliorino i contesti ambientali. A volte, noi italiani, siamo troppo concentrati sui nostri desideri e trascuriamo quelli del partner. Questo non aiuta mai l' amore». Il nostro paese è fra quelli europei con il più alto tasso di over 65, poco meno di 14 milioni (dati Istat). Per loro, dopo anni di lavoro, si apre un nuovo capitolo della vita in cui è possibile reinventarsi e coltivare le proprie passioni. E oggi il tabù dell' età sembra dimenticato, mentre scopriamo che l' amore e il sesso aiutano a mantenerci in forma. «Un corpo sano - spiega Rossella Nappi, professoressa di Ginecologia all' università di Pavia e al Policlinico San Matteo - può fare sesso a tutte le età. Le donne che hanno rapporti sessuali in menopausa soffrono meno di atrofia vaginale. Il sesso è anche un toccasana per il metabolismo e per il sistema cardiovascolare». Un effetto positivo che si registra anche negli uomini dopo i 60. «I rapporti stimolano la produzione di testosterone che in questa fase della vita naturalmente cala, contribuendo al benessere dell' individuo. Anche i pazienti che si sono operati di prostata possono far sesso. E questo li aiuta a stare bene, ricorda Aldo Franco De Rose, andrologo del Policlinico San Martino Genova. Ci vuole comunque coraggio per rimettersi in gioco quando non si è più giovani. Non è facile trovare la persona giusta, ma oggi siti di incontro online e chat hanno reso più facile l' approccio. Rimane sempre la paura del primo appuntamento. «Il primo faccia a faccia porta con sé un' ansia benefica. È un momento stimolante. Poi c' è il timore di mostrarsi nudi con un corpo non più giovane, perché ci vediamo brutti e non desiderabili. Ma dobbiamo ricordare che l' attrazione sessuale conferma che diventa bello ciò che ci piace e se due anziani si piacciono questo impaccio iniziale viene di solito gioiosamente superato», spiega Donata Francescato. Il sesso cambia con il passare degli anni e può anche migliorare, perché c' è più tempo da dedicare all' altro. «Bisogna sfatare il mito - aggiunge Francescato - che solo corpi giovani e belli possono godere. In molte indagini è emerso che oggi molti anziani, dai 60 ai 90, continuano ad avere una buona vita sessuale. Non separando in modo compulsivo il sesso dall' amore, volendosi bene». Secondo uno studio dell' Università di Cambridge, compiuto su 6.000 sessantenni, il livello di benessere è più alto fra coloro che sono attivi sessualmente, condizione che si associa a una maggiore longevità. Mentre ricerche precedenti, segnalano migliori parametri vitali fra gli over 60 che fanno sesso. Negli amori tardivi i partner sono più maturi e cercano di evitare gli errori fatti in passato. Sono meno malleabili rispetto ai giovani, ma più consapevoli dei propri desideri.
«Chi capisce cosa non ha funzionato, senza dare tutte le colpe ad un partner sbagliato, fa scelte migliori. Ma dalle statistiche emerge - dice Francescato - che i secondi matrimoni si rompono di più perché molti hanno la coazione a ripetere, scelgono sempre lo stesso tipo di partner. E così fallisce anche il terzo o il quarto rapporto sentimentale. Per questo tipo di disturbo sono molto utili i gruppi di mutuo aiuto».
Oggi le occasioni sono di più anche perché ci sono più single. Per fare durare queste relazioni è bene evitare di fare confronti con gli ex e mettersi in gioco per cambiare le proprie abitudini. Ma come affrontare le delusioni in caso di fallimento?
«Se ci si sente capace di conseguire dei cambiamenti, le cose saranno più semplici. Chi si sente invece impotente, reagirà soffrendo, immaginando un futuro più cupo. Chi ha fiducia in sé - dice Francescato - si farà consolare dagli amici, si impegnerà nel lavoro o aderendo a movimenti politici o al volontariato. Impegnarsi con altri per raggiungere un obiettivo comune migliora la salute. E potrebbe regalarci un nuovo amore».
A TUTTO TESTOSTERONE. Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 29 maggio 2019. Negli uomini a partire dai 40 anni il testosterone scende di circa l' 1% all' anno, e dopo i 60 anni si può avere una riduzione dei livelli tale da dare sintomi evidenti. Questa condizione fisiologica, chiamata andropausa, e che equivale più o meno alla menopausa femminile, è stata l' argomento principale dell' ultimo Congresso Nazionale della Società Italiana di Andrologia (Sia) che si è tenuto nel fine settimana a Bari, perché negli ultimi due decenni il calo dell' ormone maschile per eccellenza è risultato sempre più diffuso e soprattutto è risultato anticipato a partire dai 40 anni. È stato stimato che quasi due milioni di italiani in questa età hanno un deficit di testosterone, ai quali si aggiunge circa un milione di over 60 che presentano la stessa carenza ormonale. La preoccupazione degli esperti si è rivolta non tanto agli effetti classici del calo, quali la diminuzione del desiderio o l' insorgere di problemi sessuali, quanto alle altre patologie concomitanti favorite dalla ridotta protezione ormonale, quali le malattie cardiovascolari, l' osteoporosi, l' obesità, il diabete, fino alla compromissione delle funzioni cognitive. Il testosterone infatti è fondamentale per mantenere l' equilibrio psico-fisico dell' uomo, ed il suo abbassamento non deve preoccupare chi lo accusa solo sotto fra le lenzuola, ma soprattutto per le conseguenze che può avere sulla salute generale. Il deficit di testosterone porta infatti ad un aumento di due volte e mezzo il rischio di mortalità cardiovascolare nell' arco di 10 anni rispetto a chi ha livelli più elevati, indipendentemente da altri fattori, come fumo ed alcol, fa salire del 50% il pericolo di ammalarsi di diabete, ed è correlato anche all' osteoporosi, tanto che un anziano su due con frattura del femore ne presenta una forte carenza. Il testosterone nell' uomo è deputato principalmente allo sviluppo degli organi genitali, dei caratteri sessuali secondari, come la crescita della barba, la distribuzione dei peli, il timbro della voce e la muscolatura, e nell' età puberale interviene anche sullo sviluppo scheletrico e sull' allungamento delle ossa. Nell'uomo adulto il testosterone gioca un ruolo importante per quanto riguarda la sessualità, poiché contribuisce a garantire la fertilità, in quanto stimola la maturazione degli spermatozoi nei testicoli, influenza la qualità e la quantità dello sperma, agendo sulle vie seminali e sulla prostata, e regola il desiderio e la soddisfazione sessuale, determinando l' inizio e la fine dell' erezione e dell' eiaculazione. Ma, al pari degli estrogeni femminili, l' ormone maschile svolge una funzione ancora più determinante sull' apparato muscolo-scheletrico, sulla circolazione sanguigna e sulla salute generale, intesa come protezione da malattie metaboliche croniche, e migliora anche le facoltà cognitive diminuendo il rischio di depressione e di demenza. La produzione di questo ormone dura tutta la vita, inizia già nell' età fetale, e tra gli 11 e i 18 anni la sua sintesi aumenta rapidamente fino a raggiungere il livello di 5-7 mg al giorno dell' età adulta, per proseguire con un declino fisiologico tra i 2-3 mg dai 70 anni in poi, con molte differenze individuali, perché un maschio poco virile può raggiungere a 20 anni una produzione testosteronica pari a quella di cui dispone un maschio molto virile di 60 anni, come un uomo di 70 anni può possedere meno della metà del testosterone che aveva nel sangue a 20 anni. La sintesi dell' ormone maschile è influenzata da molti fattori, ma comunque dopo i 40 anni, non appena si presentano sintomi come stanchezza muscolare, apatia e riduzione della velocità di crescita della barba (i due segnali principali di deficit ormonale) è bene controllare il suo livello ematico, non solo per ridare vigore alla passione fisica, sessuale e intellettuale, ma per evitare il calo progressivo favorente le complicanze generali succitate. Oggi circa un terzo delle donne che entrano in menopausa decidono di seguire la Terapia Sostitutiva (Tos) assumendo lo stesso dosaggio ormonale presente nel periodo fertile, non tanto per prolungare la giovinezza o ritardare l' invecchiamento, quanto per allontanare i disturbi dovuti al calo degli estrogeni che, come per l' uomo, sono di rischio vascolare, cardiaco, osseo e depressivo. Anche nell' andropausa, infatti, può manifestarsi uno stato di irritabilità e depressione, mancanza di forza e di iniziative, difficoltà di erezione, minore produzione di liquido seminale e problemi urinari, ma, al contrario di quella femminile, quella maschile non avviene mai in maniera netta e veloce, ma sempre in modo lento e progressivo, dando la possibilità di adattarsi armonicamente alla nuova condizione, e anche per tale motivo questa condizione non viene quasi mai corretta farmacologicamente. Molte evidenze scientifiche, però, suggeriscono anche agli uomini di riequilibrare i livelli fisiologici di testosterone una volta entrati in andropausa conclamata, soprattutto se insorta in età precoce, non per la protezione dell'attività sessuale bensì a scopo preventivo, cioè per allontanare il rischio di complicanze organiche. Il testosterone però è un ormone che non deve mai essere assunto senza controllo medico, come fanno spesso i culturisti abbinandolo agli steroidi anabolizzanti, e mai prima di accertare il suo diminuito dosaggio nel sangue, perché anche il sovradosaggio può dare ripercussioni negative. È bene sottolineare inoltre, che l' associazione tra i livelli di testosterone ed aggressività che in genere viene invocata nell' uomo è una credenza popolare, poiché sebbene gli uomini siano in genere più aggressivi delle donne, nei grandi criminali della storia non sono stati trovati maggiori livelli di questo ormone rispetto alle persone dello stesso sesso che non delinquono. L' assunzione di testosterone per ritardare l' andropausa è finalizzata alla cura e alla prevenzione dei disturbi provocati da tale condizione a lungo termine, mentre nel breve termine si assiste ad un netto miglioramento dell' umore e ad una maggiore grinta nell' affrontare la vita quotidiana, inclusa quella sessuale. Tale terapia sostitutiva è controindicata nei soggetti che hanno un cancro alla prostata o che per familiarità sono soggetti a questa malattia, anche se gli studi scientifici non hanno trovato un aumento di rischio di sviluppo della neoplasia prostatica. La somministrazione del testosterone avviene per via transdermica (in gel da spalmare sulla pelle) oppure per via intramuscolare, e può risultare assai utile in molte condizioni poiché l' obiettivo terapeutico è semplicemente di aggiungere quel tanto che basta per riportare il livello ormonale nella norma. Negli Usa, in Canada e in Nuova Zelanda dopo il 2010 si è avuto un aumento esplosivo delle vendite di testosterone nell' invecchiamento e nei problemi età correlati, facendo pressione sul decadimento delle condizioni fisiche e della libido dopo i 70 anni, mentre lo scopo principale, come nelle donne, è quello di evitare il progredire delle complicanze che l' abbassamento di tale ormone sessuale provoca nel genere maschile.
10 miti sull’orientamento sessuale sfatati dalla scienza. Un professore americano di sesso e psicologia, grazie a un blog di successo, demolisce pregiudizi e luoghi comuni sui diversi orientamenti sessuali, usando studi scientifici e ricerche universitarie, scrive Emma Desai il 29 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera". A conclusione del mese dedicato all’apertura e al dialogo legato ai vari Gay Pride, in tutto il mondo, resta ancora una questione aperta, incompresa, e oggetto di fantasiose leggende e incredibili miti: la sessualità LGBT. Justin J. Lehmiller, professore americano di psicologia, specializzato in sessualità e docente al Kinsey Institute dell’Università dell’Indiana ha iniziato nel 2011 un blog di grande successo, chiamato semplicemente Sex & Psychology (sesso e psicologia) con queste esatte premesse: eliminare gli stereotipi legati alla sessualità, anche e soprattutto di genere. «Volevo creare uno spazio digitale dove le persone potessero imparare qualcosa sugli ultimi risultati scientifici riguardanti sesso, amore e relazioni», ci racconta il dottore Lehmiller, che in questi giorni sta per pubblicare il suo prossimo libro Tell me what you want: the science of sexual desire and how it can help you improve your sex life (Dimmi quello che vuoi: la scienza del desidero come migliorare la propria vita sessuale).
Il professore e il blog. «La ricerca in ambito sessuale è spesso mal rappresentata e oggetto di sensazionalismo sui media, per questo motivo volevo stabilire uno spazio nel quale il pubblico potesse accedere a informazioni scientifiche in modo responsabile, e mediate da un uomo di scienza» aggiunge. Le sue ricerche spaziano dalle fantasie da letto al sesso occasionale, fino al tema delle relazioni extraconiugali. «Ho capito nel tempo che i blog sono molto utili ed efficaci per tradurre la ricerca per il grande pubblico che può realmente usare per migliorare la propria vita sessuale e le proprie relazioni».
Sfatare i miti. Lo scienziato, fin dall’inizio della sua avventura digitale, ha scelto in particolare di lavorare su miti e leggende legate all’orientamento sessuale, sfatandoli a suon di ricerche scientifiche. «Basandomi sulle domande che mi sono state poste dagli studenti nel corso delle mie lezioni universitarie, ma anche sui quesiti che mi sono arrivati via email dai lettori, mi sono reso conto che quella dell’orientamento sessuale è un’area dove le persone hanno ancora in mente una serie di stereotipi straordinariamente approssimativi, oppure una serie di false credenze» ci racconta Lehmiller. «Per fortuna, d’altro canto, cresce il numero di studi scientifici legati proprio a quest’area, studi che possono essere usati per aiutare a correggere una serie di luoghi comuni e fraintendimenti che, oltretutto, possono essere pericolosi».
Ecco quindi nella nostra gallery, i 10 miti sull’orientamento sessuale sfatati dal dottor Lehmiller sul suo blog.
10 miti sull’orientamento sessuale (sfatati dalla scienza). Lo psicosessuologo americano Justin J. Lehmiller sul suo blog di successo demolisce pregiudizi e luoghi comuni sui diversi orientamenti sessuali, usando studi scientifici e ricerche universitarie di Justin J. Lehmiller
1. L’omosessualità è contagiosa. Justin J. Lehmiller, professore americano di sesso e psicologia, nel suo blog di successo Sex & Psychology cerca di demolire pregiudizi e luoghi comuni nei confronti dei diversi orientamenti sessuali usando studi scientifici e ricerche universitarie. Ecco il primo dei 10 miti che raccolto in occasione del mese del Gay Pride: Le ricerche non hanno mai avuto successo nel provare che l’attrazione per lo stesso sesso si trasmetta tramite contatto sociale. Al contrario, un recente studio condotto su larga scala ha provato che l’attrazione per lo stesso sesso non si “diffonde” all’interno di un gruppo di adolescenti coetanei. Allo stesso modo un’altra ricerca ha provato che una coppia di genitori gay non ha più probabilità di crescere figli gay di una coppia eterosessuale.
2. Si può “guarire” dall’omosessualità. Le ricerche su soggetti adulti che hanno tentato di cambiare il loro orientamento (tramite pratiche religiose o di altro tipo) hanno dimostrato che questo tipo di trattamenti non sono solo inefficaci ma, spesso, anche potenzialmente dannosi.
3. Se fai “crossdressing” sei gay. Uomini che si vestono con abiti da donna? Gli studi suggeriscono che la maggior parte di loro sono uomini eterosessuali sposati e, nonostante ci siano uomini gay che amino il cosiddetto “crossdressing”, non c’è nessuna relazione tra questa preferenza e l’essere gay.
4. Le lesbiche fanno poco sesso. Questo luogo comune gira da qualche tempo, è arrivato il momento di aggiustarne il tiro. È vero che gli studi condotti sulle coppie lesbiche dimostrano che c’è una tendenza ad avere meno rapporti sessuali rispetto ad altre tipologie di coppie, ma si tratta di un dato che può trarre in errore: è infatti provato che le coppie al femminile dedicano un lasso di tempo più lungo e il livello generale di soddisfazione sessuale, sempre secondo questi studi, non è inferiore a quello di altre coppie.
5. I bisessuali sono gay. Un altro mito da sfatare è quello che vuole i bisessuali come gay che non hanno ancora fatto il loro coming out. Non è così: in alcuni casi potrebbe trattarsi di una bisessualità di transizione, ma questo fatto non annulla l’identità sessuale della persona che si ritiene bisessuale. Inoltre un numero crescente di studi (qui e qui alcune ricerche sul tema) supporta il fatto che la bisessualità sia un orientamento sessuale distinto.
6. I bisessuali sono attratti da tutti. Essere bisessuale significa avere la capacità di sentirsi attratti da uomini e donne, ma non significa che questa attrazione sia ugualmente forte per ciascun sesso. Ad esempio una ricerca sugli uomini bisex ha scoperto che in genere dimostrano maggiore eccitazione nei confronti di un sesso, alcuni nei confronti delle donne, altri degli uomini. Allo stesso modi studi sulle donne bisessuali hanno dimostrato che non ci sono eguali livelli di eccitazione nei confronti di uomini o di donne.
7. Uno fa la moglie, l’altro il marito. Sulle coppie dello stesso sesso, vige lo stereotipo secondo il quale uno dei due partner è necessariamente il “marito”, l’altro la “moglie”. Nonostante questa sia una descrizione diffusa e riproposta dai media per descrivere le coppie dello stesso sesso, la realtà è che le coppie delle stesso sesso sono meno propense delle coppie eterosessuali ad adottare dei ruoli rigidi all’interno della coppia. Gli studi al contrario ci dicono che tendono a condividere potere e responsabilità in modo più equo.
8. I gay fanno soprattutto sesso anale. Un pregiudizio vuole che il sesso anale sia più comune tra gli uomini gay. Eppure questo non si avvicina alla realtà: una ricerca ha infatti evidenziato che sesso orale e masturbazione reciproca sono di gran lunga pratiche più comuni, viceversa gli ultimi dati ci mostrano come il sesso anale sia ormai abbastanza comune tra gli eterosessuali.
9. Alle lesbiche piacciono le forbici. La posizione delle “forbici”, favorendo una frizione vulvare, è qualcosa che alcune coppie lesbiche praticano, ma gli studi sul tema ci dimostrano che, come in tutte le altre coppie, ci sono una varietà di comportamenti sessuali che appaiono altrettanto comuni tra lesbiche e donne bisessuali, compresi sesso orale e masturbazione reciproca.
10. I genitori gay non sono bravi come gli etero. Un’ampia produzione scientifica ha dimostrato che i bambini crescono bene indipendentemente dall’orientamento sessuale dei genitori, inoltre uno studio recente (oltre a provare che il coming out di un ragazzo adottato non abbia alcuna relazione con l’orientamento dei suoi genitori adottivi) ha evidenziato che le coppie dello stesso sesso sono più propense ad adottare anche bambini problematici e con disabilità, rispetto alle coppie etero.
Sesso, ecco le bufale più comuni. Smascherate le bufale più comuni sul sesso, che si diffondono facilmente anche grazie ai social: ecco quali sono le leggende a cui non credere, scrive Maria Rizzo, Martedì 19/06/2018, su "Il Giornale". Di bufale sul sesso, o meglio false credenze e miti da sfatare che non aiutano a vivere appieno la sessualità, ne sono nate parecchie sin dalle origini dell'uomo. Eppure negli ultimi tempi il Web, complici anche i social network, ha contribuito a diffonderle in maniera incontrollata. Il portale ISS Salute dell’Istituto Superiore di Sanità ha quindi smascherato le falsità più comuni, spiegando esattamente quali siano i fattori a cui credere e quali, invece, dimenticare. La luna, il calendario e la temperatura possono influire sul sesso del nascituro. Nulla di più sbagliato:
Non si può favorire la nascita di un maschio o di una femmina ricorrendo a tecniche non scientifiche;
La masturbazione fa diventare ciechi. Si tratta di un'informazione non veritiera, seppur molto popolare, che trae origine da un opuscolo anonimo del 1712;
L'uso degli assorbenti interni fa perdere la verginità. Il ricorso a normali tamponi igienici non equivale né a un rapporto sessuale, né a una penetrazione: non si corrono quindi rischi sul fronte della verginità;
La sterilità è un problema che interessa principalmente le donne. È una bufala fra le più diffuse, poiché può colpire tanto il genere femminile quanto quello maschile;
Le visite dall'andrologo da giovani sono inutili, se non ci sono sintomi. Dato che gran parte delle patologie che riducono la fertilità non hanno sintomi, la convinzione che non vi sia bisogno di una visita specialistica a qualsiasi età è errata;
Una pillola può porre rimedio all'impotenza in poco tempo. Non è così, occorre una visita specialistica per indagare l'origine e le cause dell'impotenza, così da avviare un trattamento mirato.
Non si può rimanere incinta durante il ciclo mestruale. Un mito fra i più diffusi, tuttavia gli spermatozoi possono sopravvivere nelle vie genitali femminili fino a una settimana dopo il rapporto, rendendo possibile la fecondazione;
Durante il primo rapporto sessuale non si può rimanere incinta. Falso: la perdita della verginità non influisce assolutamente sulla capacità di concepire;
Il coito interrotto previene la gravidanza. Anche in questo caso si tratta un falso mito, perché il liquido pre-eiaculatorio può ugualmente contenere spermatozoi capaci di fecondare l'ovulo;
Con i rapporti orali non si trasmettono le malattie sessuali. Il contatto tra sperma o liquidi vaginali e la mucosa della bocca, in realtà, può favorire il contagio;
L'HIV è un problema solo degli omosessuali e di chi si apparta con le prostitute. Il contagio da HIV può colpire tutti, senza adeguate protezioni come il condom. Secondo i dati dell'ISS, negli ultimi 25 anni i casi di infezione tra gli eterosessuali sono infatti notevolmente aumentati. Queste dunque le bufale più comuni sul sesso, a cui è bene non credere, come sottolineato dall'Istituto Superiore di Sanità.
La sterilità riguarda solo le donne: i 10 miti da sfatare sul sesso. «È vero che se ho rapporti sessuali durante il ciclo non posso restare incinta? E che il papilloma virus infetta solo le donne?». Il portale ISS Salute dell’Istituto Superiore di Sanità ha smascherato le bufale più diffuse sul web che riguardano la sessualità fornendo spiegazioni scientifiche per capire che cosa è vero e che cosa è falso, scrive Cristina Marrone il 19 giugno 2018 su "Il Corriere della Sera".
La sterilità interessa principalmente le donne. FALSO - La sterilità non è un problema solo femminile, ma può colpire tanto l’uomo quanto la donna e riguarda, complessivamente, circa il 15% delle coppie. La sterilità maschile è un importante problema medico e sociale ed è alla base di circa la metà delle cause di sterilità di coppia. Secondo i dati raccolti dalla Società Italiana di Andrologia e Medicina della Sessualità, in Italia circa 1 uomo su 3 è a rischio di sterilità. Il Registro Nazionale sulla Procreazione Medicalmente Assistita dell’Istituto Superiore di Sanità riporta che, tra le coppie che si rivolgono alla procreazione assistita, nel 29,3% dei casi si tratta di sterilità maschile, nel 37,1% di sterilità o infertilità femminile, nel 17,6% di sterilità di entrambi. Bisogna distinguere tra sterilità ed infertilità; la prima indica l’incapacità di concepire, la seconda l’impossibilità di portare a termine la gravidanza. Ma quand’è che si parla di sterilità? L’Organizzazione Mondiale della Sanità parla di sterilità in caso di mancato concepimento dopo un periodo di almeno 12 mesi di regolari rapporti sessuali non protetti. Le cause, sia maschili che femminili, possono essere molteplici. Tra i principali fattori di rischio comportamentali per entrambi si annoverano il fumo, l’obesità o l’eccessiva magrezza, la sedentarietà o l’eccessiva attività fisica e il doping. Tra le malattie che possono impedire la procreazione, in entrambi i generi, abbiamo in primis le malattie infettive sessualmente trasmissibili. Altre cause patologiche nella donna possono essere le alterazioni tubariche, le malattie infiammatorie pelviche, i fibromi uterini, l’endometriosi e le alterazioni ormonali e ovulatorie, mentre negli uomini abbiamo condizioni che alterano la produzione ormonale e/o la struttura e la funzione del testicolo e le patologie prostatiche.
Ho il flusso mestruale, non posso rimanere incinta. FALSO - È possibile rimanere incinta, anche se non è molto probabile, se si hanno rapporti sessuali durante le mestruazioni. Infatti, gli spermatozoi possono sopravvivere nelle vie genitali femminili fino ad 1 settimana dopo il rapporto, mantenendo per tutto questo tempo la capacità di fecondare l’ovulo al momento dell’ovulazione. Molte donne sono convinte che praticare sesso durante le mestruazioni le protegga da gravidanze indesiderate. Questa credenza va sfatata. Infatti è possibile concepire anche durante o subito dopo le mestruazioni se si hanno rapporti senza l’uso di metodi anticoncezionali. Ciò è dovuto alla sopravvivenza dello sperma maschile fino a 7 giorni dopo il rapporto sessuale nelle vie genitali femminili. Questo significa che è possibile rimanere incinta se si hanno rapporti sessuali durante il ciclo mestruale e anche poco dopo la fine delle mestruazioni, soprattutto quando il ciclo è breve e l’ovulazione avviene precocemente. È, quindi, essenziale utilizzare metodi anticoncezionali in ogni fase del ciclo mestruale, in modo da scongiurare gravidanze non volute. Inoltre, durante le mestruazioni è più che mai presente il rischio di contrarre infezioni trasmesse per via sessuale per cui è fondamentale avere rapporti protetti utilizzando il preservativo.
Nei giovani la visita dall’andrologo è inutile se non ci sono sintomi. FALSO - Gran parte delle patologie che riducono la fertilità sono asintomatiche; questa assenza di segnali da parte del proprio organismo porta molti giovani ragazzi alla convinzione che non sia importante verificare la propria fertilità prima che emerga qualche problema evidente. Questo ritardo nella diagnosi può far perdere tempo prezioso durante il quale si potrebbero curare, con successo, molte delle condizioni che causano sterilità. Le malattie del testicolo sono le più frequenti cause di sterilità. In particolare, il ben noto varicocele colpisce 1 uomo su 5 nel nostro Paese ed è diagnosticato in quasi la metà degli uomini infertili. Altre problematiche che si riscontrano con frequenza crescente sono il criptorchidismo, cioè la mancata discesa del testicolo nello scroto durante lo sviluppo fetale, i tumori testicolari e le infiammazioni delle vie genitali. Visti i crescenti problemi di fertilità in Italia (circa 1 coppia su 5 ha difficoltà a concepire un figlio), è importante che i giovani uomini superino il timore di sottoporsi alla visita andrologica che permette di identificare e risolvere molte delle problematiche citate. Durante la visita, il medico andrologo approfondisce la storia della persona focalizzandosi sulle abitudini di vita, la storia familiare e le eventuali malattie già presenti; se lo ritiene opportuno procede con alcuni esami di approfondimento come lo spermiogramma (che studia la quantità e il funzionamento degli spermatozoi) o l’ecografia ed, infine, imposta un percorso di cura. La fertilità va costruita fin da giovani!
Durante il primo rapporto sessuale non si può rimanere incinta. FALSO - Anche se è alla sua prima volta una donna può rimanere incinta; infatti, la condizione di “prima volta” non influisce assolutamente sulla capacità di concepire un figlio. Una volta che una donna ha iniziato ad ovulare (mese precedente alla prima mestruazione) ogni rapporto sessuale può finire in una gravidanza. Soprattutto tra gli adolescenti è diffusa la falsa credenza che una donna non possa rimanere incinta la prima volta che ha un rapporto sessuale. Lo conferma anche il National Health Service inglese che ribadisce la possibilità per una donna, che abbia già iniziato ad avere mestruazioni, di poter concepire un bambino anche se è la prima volta che fa sesso. Se si vogliono evitare gravidanze indesiderate è importante usare, fin dal primo rapporto, metodi anticoncezionali; è fondamentale parlarne con il proprio partner ed assicurarsi di utilizzarli correttamente. Inoltre, è essenziale, fin dalla prima volta, proteggersi contro le infezioni sessualmente trasmesse, avendo sempre rapporti protetti mediante l’uso del preservativo. È fondamentale, anche, che ogni donna, prima di iniziare ad avere rapporti sessuali, si rivolga ad un ginecologo che le comunicherà tutte le informazioni di cui ha bisogno.
Il papilloma virus infetta solo le donne. FALSO - Attualmente si stima che fino al 65-70% dei maschi contrae un’infezione da papilloma virus durante la vita. Nelle donne il picco di infezioni si ha verso i 20-25 anni, mentre negli uomini non c’è un’età maggiormente colpita. Molti ragazzi pensano che l’infezione da papilloma virus (HPV) non li riguardi e che sia un problema solo delle loro coetanee. Non è così! Questo falso mito è stato alimentato dal fatto che in molti paesi l’attenzione si è focalizzata sulla popolazione femminile in quanto l’HPV causa il tumore della cervice uterina; ma l’HPV causa anche i condilomi ano-genitali, i tumori ano-genitali e i tumori della testa-collo, sia negli uomini che nelle donne, trasmettendosi generalmente attraverso rapporti sessuali non protetti. In Italia, uno dei sistemi di sorveglianza sentinella dell’Istituto Superiore di Sanità per le infezioni sessualmente trasmesse mostra la grande diffusione di condilomi ano-genitali nei maschi, soprattutto tra i giovani con meno di 25 anni, con un aumento preoccupante negli ultimi anni (il numero di casi è duplicato tra il 2004 e il 2015) . Negli uomini i condilomi ano-genitali sono la manifestazione più frequente dell’infezione da HPV; tuttavia, anche se più rari, l’80-95% dei tumori anali, almeno il 50% dei tumori del pene e il 45-90% dei tumori della testa e del collo, nell’uomo sono associati all’HPV. Spesso le persone con un’infezione da HPV non mostrano sintomi particolari ma possono trasmettere il virus HPV al proprio partner. Per questo è indispensabile proteggersi attraverso l’uso del preservativo nei rapporti sessuali con un partner che non abbia fatto il test per HPV. Nel nostro paese l’offerta pubblica gratuita della vaccinazione contro l’HPV è rivolta sia alle femmine che ai maschi di 12 anni.
Il varicocele non serve trattarlo da piccoli. FALSO - Il varicocele ha una influenza negativa sia sulla crescita che sulla futura funzione del testicolo per cui, anche quando non ci sono le indicazioni al trattamento chirurgico, è opportuno effettuare controlli andrologici periodici. Con il termine varicocele si intende la dilatazione delle vene del testicolo. Essa è una delle più frequenti patologie dell’apparato genitale maschile e si osserva, quasi esclusivamente, nel periodo prepuberale e puberale (11-19 anni). Il trattamento di questa patologia è chirurgico e viene eseguito solo in particolari condizioni quali: presenza di dolore e/o senso di peso, ridotte dimensioni del testicolo colpito, varicocele palpabile o visibile (3° e 4° grado) o quando, terminato lo sviluppo puberale, si accerta un’alterazione della fertilità. L’incidenza del varicocele varia dal 2 al 15% nei bambini in età scolare e nel 93% dei casi interessa il testicolo sinistro, per struttura anatomica del sistema venoso. Le cause del varicocele sono molteplici: nelle forme primarie, probabilmente una debolezza congenita delle pareti venose associata ad incontinenza delle valvole, mentre, più raramente come accade nel varicocele secondario, una compressione della vena renale. Questa patologia è una causa importante, ma reversibile di ipofertilità o infertilità. Probabilmente il danno cellulare è dovuto alla lunga stasi venosa a cui conseguono accumulo di sostanze tossiche, riduzione dell’ossigeno disponibile e aumento della temperatura locale.
Sono impotente...ho bisogno della «pillolina»! Le cause dell’impotenza possono essere molto diverse: di tipo fisico (malattie endocrine, vascolari, neurologiche, diabete etc.) o psicologico (ansia, depressione, stress etc.) o di ambedue i tipi. È questa la motivazione per cui l’uso dei farmaci non è sempre la soluzione migliore; va, invece, identificata la terapia giusta eliminando anche eventuali fattori di rischio. Molti uomini pensano che, facendosi prescrivere un farmaco o addirittura prendendolo senza aver consultato un medico, possano porre rimedio alla propria impotenza in poco tempo, senza modificare il proprio stile di vita e senza sottoporsi ad accertamenti ulteriori: questo mito è falso. Nell’impotenza di origine psicologica è, infatti, indicata la psicoterapia, utile a identificare ansie personali o conflitti della coppia che possono aver causato questo deficit. In questo caso l’uso dei farmaci è richiesto solo se il disturbo è associato a specifiche condizioni, per esempio in presenza di depressione. Nei casi di impotenza di origine fisica o legata a problemi endocrini, invece, è indicato l’uso di farmaci. Oltre a questo, però, è importantissimo modificare anche alcuni fattori di rischio come il fumo, l’abuso di alcol, l’uso di droghe, lo scarso esercizio fisico, il sovrappeso e l’obesità. È fondamentale, quindi, che ogni uomo con impotenza si rivolga al proprio medico prima di iniziare a prendere qualsiasi tipo di «pillolina» che, come ogni farmaco, può presentare effetti collaterali e provocare disturbi di vario tipo, soprattutto cardiaci.
Ormai non ci si ammala più di Aids. FALSO - I dati del Centro Operativo AIDS dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) mostrano come, nel 2016, si siano registrati circa 800 nuovi casi di AIDS e 4000 nuove infezioni da HIV che, aggiunti a quelli già presenti, portano a circa 130.000 il numero totale delle persone sieropositive in Italia. Da qualche anno, complici anche i media che ne parlano poco o in maniera sbagliata, si è diffusa la falsa credenza che nessuno si ammali più della Sindrome da Immunodeficienza Acquisita (AIDS). L’ultimo rapporto dell’ISS demolisce questo mito: l’HIV (virus che causa l’AIDS) è molto diffuso in Italia, principalmente attraverso rapporti sessuali (sia eterosessuali che omosessuali) non protetti. Infatti, i tempi in cui l’AIDS era dovuto allo scambio di siringhe tra tossicodipendenti è finito (erano gli anni ‘80 e ‘90): oggi il vero rischio si corre quando si ha un rapporto sessuale senza usare il preservativo. Oggi ci sono dei farmaci (antiretrovirali) che fortunatamente rallentano il progredire della malattia ma non la guariscono: l’AIDS rimane una malattia letale. Per evitare di ammalarsi di AIDS, malattia che indebolisce il sistema immunitario provocando gravi infezioni, polmoniti, meningiti e tumori, è importantissimo scongiurare di infettarsi con l’HIV avendo sempre rapporti sessuali protetti ed evitando comportamenti a rischio, come lo scambio di siringhe con altre persone. Prima di sviluppare i sintomi dell’AIDS, una persona sieropositiva rimane asintomatica per molti anni e quindi non è possibile capire se è infetta. Per questo molte persone che sono sieropositive non hanno ancora scoperto d esserlo perché non hanno fatto un test per l’HIV. Ecco perché è così importante usare sempre il preservativo quando si hanno rapporti sessuali con partner di cui non conosciamo il risultato del test HIV. In caso di rapporto sessuale senza preservativo o di altri comportamenti a rischio, è indispensabile sottoporsi al test specifico per l’HIV che si effettua attraverso un normale prelievo di sangue. Per eseguire il test, nella strutture pubbliche, non serve ricetta medica. Il test è gratuito e anonimo Il Servizio Sanitario Nazionale, per le persone positive al test HIV, prevede un’assistenza medica gratuita e una tempestiva terapia farmacologica che permette, oggi, di vivere meglio e più a lungo.
Non posso rimanere incinta con il coito interrotto. FALSO - Anche con il coito interrotto è possibile rimanere incinta poiché il liquido pre-eiaculatorio, emesso prima dell’orgasmo, può ugualmente fecondare l’ovulo femminile; inoltre, è bene ricordare che questa pratica non protegge dalle infezioni sessualmente trasmesse. Ancora oggi molte coppie sono convinte che interrompere la penetrazione poco prima dell’eiaculazione sia un metodo efficace per evitare una gravidanza: questa convinzione non ha riscontri su base scientifica. In questi casi il rischio di una gravidanza è legato alla presenza di spermatozoi nelle secrezioni che precedono l’eiaculazione durante un rapporto sessuale. Questa piccola quantità di spermatozoi è in grado di fecondare un ovocita. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che la percentuale di donne che ha avuto una gravidanza indesiderata impiegando il metodo del coito interrotto durante il primo anno di utilizzo, varia dal 4 al 27% a seconda dell’attenzione che si ha nel praticarlo. Inoltre, questo tipo di pratica anticoncezionale non evita la trasmissione di batteri e virus per via sessuale che sono contenuti nel liquido pre-eiaculatorio. È, quindi, importante avere sempre rapporti protetti mediante l’uso del preservativo invece di affidarsi al coito interrotto.
Con i rapporti orali non si trasmettono le malattie sessuali. FALSO - Anche i rapporti orali presentano un rischio di trasmissione di malattie sessuali a causa del contatto tra lo sperma o i liquidi vaginali e la mucosa della bocca. Molte persone sono convinte che, avendo solo rapporti orali, siano protette dalle infezioni trasmesse per via sessuale: questo è un altro falso mito! È vero che questo tipo di rapporto presenta un rischio di contagio inferiore rispetto a quello vaginale o anale, ma l’HIV o la sifilide, per esempio, possono essere trasmessi attraverso il contatto della mucosa della bocca con lo sperma o i liquidi vaginali. Questo rischio aumenta se ci sono delle piccole ferite o lesioni (anche non visibili a occhio nudo) sui genitali o nella bocca, oppure se ci sono alterazioni gengivali o sanguinamento gengivale: in questi casi lo sperma o il liquido vaginale (infetti) entrano in contatto diretto con le ferite aperte presenti in bocca ed i microrganismi possono così infettare chi ha praticato il rapporto orale. Anche le altre infezioni sessualmente trasmesse, come la gonorrea, l’epatite B, l’herpes genitale e l’infezione da papilloma virus, possono diffondersi attraverso il sesso orale mediante gli stessi meccanismi. In particolare, se il papilloma virus infetta la bocca o la gola può causare delle lesioni che possono evolvere in cancro della bocca, del collo o della faringe. Per tutti questi motivi, tale pratica sessuale non è certamente da considerarsi sicura, soprattutto se compiuta con partner che non abbiano effettuato uno screening completo per le infezioni sessualmente trasmesse. Anche durante questa pratica è, quindi, importante utilizzare metodi di protezione, come il preservativo o i dental dam (sottilissimi fogli in lattice) che impediscono il contatto tra lo sperma, i liquidi vaginali, il sangue e la mucosa della bocca.
Tumori della bocca, quanto ne sapete? Sesso orale (e scarsa igiene) fra le cause. Pubblicato lunedì, 16 settembre 2019 da Corriere.it. «Scendi dalle nuvole». «Esci dal guscio». «Non mettere la testa sotto la sabbia». Sono i tre messaggi lanciati quest’anno dalla campagna Tieni la testa sul collo , un invito a non sottovalutare i tumori della testa e del collo e a sottoporsi ai controlli diagnostici necessari. L’iniziativa è promossa dall’Associazione Italiana di Oncologia Cervico-Cefalica (AIOCC), con il patrocinio del Ministero della Salute e realizzata con il contributo non condizionato di Merck, in occasione della Make Sense Campaign 2019, iniziativa europea di sensibilizzazione sui tumori della testa e del collo che dal 16 al 20 settembre metterà in campo numerose iniziative su tutto il territorio nazionale. «Circa 30 Centri specialistici di tutta Italia apriranno le porte al pubblico per favorire una cultura della prevenzione e della diagnosi tempestiva nel trattamento dei tumori testa-collo – sottolinea Valentino Valentini, Presidente AIOCC -. Si potranno ricevere informazioni anche attraverso il materiale informativo che sarà distribuito, effettuare screening gratuiti e ricorrere, in caso di bisogno, all’ausilio di uno specialista».
Da La Stampa il 2 settembre 2019. Il numero delle persone colpite da tumore alla gola continua a crescere in Italia e nel mondo e, nel prossimo decennio, è destinato ad aumentare in maniera esponenziale. Il principale responsabile è il Virus del Papilloma Umano (HPV), un'infezione molto diffusa, trasmessa prevalentemente per via sessuale e nella maggior parte dei casi asintomatica. A lanciare l'allarme sono gli esperti internazionali coinvolti nel trattamento dei tumori dell'orofaringe che per la prima volta si riuniranno in Italia, a Roma, in occasione del 7 Congresso mondiale dell'International Academy of Oral Oncology (IAOO) in programma dall'1 al 3 settembre. «Negli ultimi dieci anni i tumori orofaringei sono aumentati del 300%, soprattutto in relazione all'aumento di infezioni da Papilloma Virus responsabile, in Italia, del 40% dei casi, percentuale che sale all'85% negli Stati Uniti. Tuttavia ci aspettiamo un'ulteriore crescita di questi tumori legata al virus poichè la prevalenza è 18 volte superiore rispetto al passato», spiega il presidente del Congresso Giuseppe Spriano, responsabile Otorinolaringoiatria dell'IRCCS Humanitas e docente di Humanitas University. Ad aprire il Congresso Mondiale il professor Harald Zur Hausen, medico e professore emerito tedesco, vincitore del Premio Nobel per la Medicina nel 2008 per aver scoperto la correlazione tra virus e tumori. «Fino all'inizio di questo secolo, quasi il 20% dell'incidenza globale del tumore è stata legata a vari tipi di infezioni, tra cui virus, batteri e parassiti. Oggi esistono crescenti evidenze che questa percentuale sta aumentando. Attualmente stiamo calcolando che fino al 50% di tutti i tumori ha alcuni collegamenti con eventi infettivi», afferma Harald Zur Hausen. I tumori testa-collo rappresentano il 20% di tutti i tumori maligni nell'uomo e sono un gruppo di neoplasie che origina principalmente dalle cellule squamose dei tessuti di organi quali labbra, cavo orale, lingua, gola, laringe, faringe, cavità nasali e seni paranasali, ma anche da ghiandole salivari, tiroide, cute del viso e del collo, orbita. In Italia si stima che vi siano ogni anno circa 6.500 nuovi casi di tumori del cavo orale e della faringe e poco meno, circa 5.500, di tumori della laringe; i tumori della tiroide sono meno frequenti, più numerosi nella donna, e sono circa 1.000-1.500 nuovi casi all'anno. La sopravvivenza globale è migliore rispetto a quella di tumori di altre sedi, generalmente più aggressivi, con una media di guarigioni che va dal 50-60% a quasi il 90% per i tumori tiroidei.
· Realdo Colombo. L’Uomo che ha scoperto il clitoride.
Giulia Villoresi per “il Venerdì di Repubblica” il 4 dicembre 2019. Secondo un’indagine della Società italiana di ginecologia, una giovane italiana su cinque non ha alcuna educazione sessuale ed e vittima di bufale online. Tra queste, il 56 per cento non conosce la posizione esatta del foro dell’uretra e di quello vaginale; il quattro pensa che un bagno caldo sia una valida alternativa alla pillola del giorno dopo e il sette usa la Coca-Cola allo stesso scopo. In America, come testimonia Jennifer Gunter, le cose vanno ancora peggio. Canadese di origini, californiana d’adozione, Gunter – ginecologa, ostetrica e specialista in terapie del dolore pelvico – ha deciso di demolire tutte le falsità sull’apparato riproduttivo della donna. La sua battaglia pubblica e iniziata nel 2011 con l’apertura di un blog (drjengunter. com) dove prova a smontare miti duri a morire: la dieta non influisce sulla salute della vagina; la pillola contraccettiva non fa aumentare di peso; non c’è relazione tra l’età della prima mestruazione e quella dell’ingresso in menopausa; non esiste un orgasmo vaginale (quello che si raggiunge con la penetrazione passa comunque per la stimolazione del clitoride). E inserire nella vagina un ovulo di giada non migliora la salute e la vitalità sessuale. Di quest’ultima pratica, qualcuno lo ricorderà, si e parlato nel 2017, quando l’attrice Gwyneth Paltrow la raccomando alle lettrici di Goop, il suo sito web, che fattura 250 milioni di dollari l’anno dispensando «consigli medici all’avanguardia per la cura e il benessere femminile». Nella fattispecie, si raccomandava un uso quotidiano degli ovuli – sponsorizzati a 66 dollari l’uno – per stimolare la contrazione spontanea dei muscoli pelvici, favorendo cosi l’orgasmo e “l’equilibrio ormonale”. Gunter reagì con una lettera aperta diventata virale: l’unica cosa che gli ovuli favoriscono, spiegava, e la proliferazione di batteri; non c’è rapporto tra esercizi pelvici e produzione ormonale; e i muscoli della vagina non sono fatti per contrarsi continuamente. Nella lettera erano citate anche un altro paio di bufale apparse su Goop: i danni del reggiseno (accusato di aumentare il rischio di tumore alla mammella) e i benefici della vaporizzazione vaginale, che consiste nel sedersi su un bacino d’acqua bollente mischiata a erbe per «detergere l’utero».
Gwyneth Paltrow e stata poi condannata (per gli ovuli) a pagare una multa di 145 mila dollari per pubblicità ingannevole. Ma la campagna di debunking di Jennifer Gunter – definita da una fan di Goop «l’Anticristo della vagina» – non si ferma: ha una rubrica sul New York Times, conduce uno show sulla salute femminile e ha appena pubblicato un libro che e già bestseller: The Vagina Bible (Penguin Random House), “La Bibbia della vagina”, e un manuale chiaro, meticoloso e demistificante sull’intero scibile ginecologico. Scopo: insegnare alle donne a «distinguere il mito dalla medicina». Ce n’era davvero bisogno?
«Si» risponde Gunter. «Per secoli hanno raccontato bugie sul corpo femminile per escludere le donne dalla società: “Il tuo utero e pieno di tossine”, “Sei impura”. I siti come Goop stanno facendo la stessa cosa: parlano di emancipazione femminile, ma mentono alle donne sul loro corpo. Tutta questa insistenza sullo stile di vita naturale, sulla purezza, di fatto continua a promuovere l’idea che la donna sia sporca. Vedi la vaporizzazione vaginale per “pulire” l’utero. Ma pulirlo da cosa? Questo e patriarcato travestito da femminismo, marketing spacciato per informazione scientifica». Gunter parla di vaginal shame, vergogna della vagina, che addebita anche all’incapacità dei medici di ascoltare le pazienti, e di liberarsi da una visione distorta del corpo femminile. «Se il dottore ti riceve per quindici minuti al massimo e non da credito al tuo disagio» spiega, «e chiaro che finirai per ascoltare chi dice che tutto ciò che stai provando e reale». A trarne profitto sono i falsi scienziati e l’industria cosmetica, soprattutto quella bio. «Tutti parlano di Big Pharma. Ma almeno Big Pharma testa i farmaci. Certo, non pubblica tutti i dati. Ma “Big Natural” non ne pubblica nessuno». Buona parte dei prodotti per la cura femminile, spiega Gunter, e inutile, o dannosa. Prendiamo l’igiene: qualsiasi cosa che non sia un detergente intimo delicato – quindi saponi, spry deodoranti, salviette, lavande – danneggia la mucosa protettiva e altera la flora batterica aumentando il rischio di vaginiti. Ci sono persino studi secondo cui lavarsi con normale sapone aumenterebbe il rischio di contrarre l’Hiv (probabilmente perchè la mucosa, privata di una parte del manto protettivo, e piu esposta ai microtraumi). Eppure, ino al 40 per cento delle donne americane usa la lavanda vaginale una volta al mese. «In alcuni Paesi si e anche diffusa la pratica “rigenerativa” di soffiare in vagina dell’ozono» racconta Gunter. «Si tratta di un gas tossico. Penso non ci sia bisogno di aggiungere altro». In realtà, in ambito ginecologico sembra che non esistano informazioni scontate. Basta monitorare forum e siti. Gunter, che lo fa di continuo, ha deciso di stilare l’elenco delle cose da non inserire in vagina: prezzemolo (per provocare le mestruazioni), aglio (per curare la candida), unguento mentolato (per deodorare), «creme illuminanti» («per donare alle grandi e piccole labbra una luminosità iridescente» spiega una pubblicità), i «glitter vaginali» («per renderti magicamente deliziosa»). «Il vaginal shame fa circolare molti soldi» commenta Gunter. «Dagli anni Novanta ho visto aumentare drammaticamente il numero di pazienti che credono di avere un disturbo, quando sono normalissime. Qualcuno, spesso un partner, ha detto loro che hanno secrezioni troppo abbondanti, un odore spiacevole o che le loro labbra sono troppo grosse. Ci sono madri che vengono da me preoccupate per la misura delle piccole labbra delle iglie». Nel 50 per cento delle donne queste sporgono oltre le grandi labbra: il 75 per cento di loro pensa che non sia normale e molte ricorrono alla chirurgia plastica per rimpicciolirle, un intervento le cui conseguenze a lungo termine sono ignote. Lo stesso vale per i trattamenti di ringiovanimento vaginale, come le iniezioni di collagene nelle pareti della vagina e quelle nel clitoride di gel piastrinico, un prodotto di derivazione ematica che stimola la proliferazione cellulare. «Un crimine» dice Gunter «perchè non esistono dati sugli effetti di questo trattamento». E la vagina non e l’unico orifizio a cui si interessa Big Natural: di recente il cardiologo Alejandro Junger ha suggerito su Goop di irrigare il colon con del caffe, proponendo un kit fai-da-te da 135 dollari. Peccato che nel 2011 uno studio della Georgetown University School of Medicine abbia stabilito che il lavaggio del colon – pratica sempre più diffusa – non da benefici, ma solo effetti collaterali.
Alessandra Menzani per liberoquotidiano.it il 19 novembre 2019. Piero e Alberto Angela sono divulgatori? Bene, allora Violeta Benini è una «divulvatrice». D' altronde ognuno ha la propria specializzazione e la signora, a dispetto del soprannome e del bizzarro slogan sul profilo Instagram, «per un mondo pieno di clitoridi, peni ed unicorni felici», è una professionista serissima. Violeta con una sola «T», argentina, ostetrica, un curriculum lunghissimo di studi e conferenze, si occupa dell' organo riproduttivo femminile a 360 gradi e unisce il sacro e il profano. Da un lato il mondo del piacere carnale, i giocattoli erotici (è in grado di consigliare i più adatti alla singola fisionomia), i suggerimenti sessuali e compagnia cantante; dall' altro il tema delicatissimo del pavimento pelvico (o perineo), quella parte nel basso addome della donna che durante e dopo la gravidanza collassa e che, se non allenata, provoca danni anche importanti. Se ci riflettiamo bene quella parte del corpo femminile è l' origine della vita: benvengano le specialiste in materia. Come è nato il nome «divulvatrice»? «Me lo ha dato la editor che correggeva i miei articoli per un sito di sexy shop», spiega a Libero Violeta. Le sue consulenze, di persona, via WhatsApp o Skype, arrivano a costare fino a 200 euro. Spaziano dalla «valutazione del pavimento pelvico» ai consigli sulle coppette mestruali, contraccettivi o assorbenti lavabili. La sua agenda è pienissima: fino a gennaio non ha posto libero. Lei riceve a Milano e Livorno. Seguitissima su Instagram - La sua attività è esplosa un anno fa. «Vengono da me soprattutto le donne, non prendo le coppie: per loro secondo me sono meglio gli psicologi o sessuologi». Dalla valutazione del pavimento pelvico dipendono diverse problematiche che Violeta cura con esercizi fisici e fitoterapia: «Dolori mestruali, dolori nella penetrazione, difficoltà a raggiungere l'orgasmo». Ha sessantanovemila seguaci su Instagram e un sito ricchissimo. La sezione dedicata alla «sessualità consapevole» è uno scrigno di curiosità e perle illuminanti: clitoride tridimensionale francese, fumetti erotici, falli, squirting, doccini per autoerotismo, vibratori, diaframmi, condom, lubrificanti; non c' è un tema, una sfumatura, che sfugga alla sapiente Violeta. Sicuramente ne sa più lei di queste faccende che Rocco Siffredi. Scopriamo, grazie all' ostetrica, addirittura che esiste l' Asmr, l' orgasmo di testa: «Non esiste prova scientifica», dice l' esperta, «ma chi lo ha provato parla di una scossa lungo la colonna». Violeta tratta le cicatrici vulvari e si aggiorna sempre: sta frequentando un master in educazione del pavimento pelvico che dura un anno. Fa anche formazione. «In generale le donne danno troppe cose per scontato: dovrebbero ascoltarsi di più», dice a Libero. Peni parlanti - Su Instagram affronta anche temi di attualità come «gli assorbenti beni di lusso» e il gradino per i piedi per andare meglio di corpo e salvare il perineo. Alcune foto, come immaginabile, sono state censurate dal bigotto social. Ma se ne è salvata una, quella di un pene. Violeta, per par condicio, non trascura l' organo riproduttivo maschile, anzi lo fa parlare. «Ciao, io sono un pene e spesso mi sento discriminato perché qua #divulvate praticamente per clitoridi felici. E io? Non posso essere felice anche io?. Certo che sì». Sui social mostra con orgoglio falli e vagine realizzate da lei all' uncinetto e si definisce una «ostetrica artigiana con il pallino per la cucina». «Ho una grande collezione di sextoy che uso per il mio lavoro, per poterli spiegare alle donne e alle coppie, nonchè per poter suggerire il modello più adatto alla singola persona». Violeta è un personaggio ormai leggendario da quando il blog Le sex en rose l' ha incontrata e lei ha preteso di fare l' intervista nuda e che pure la giornalista fosse senza vestiti. Più di cosi?
PATATA IN MOSTRA. Giordano Tedoldi per “Libero quotidiano” il 4 ottobre 2019. Il 16 novembre aprirà a Londra, a Camden Market, il primo Museo della Vagina. Nasce grazie a una campagna di crowdfunding che ha raccolto 50mila sterline (oltre 56mila euro). Come ogni museo, anche questo ha lo scopo di insegnare qualcosa, e in particolare tutto ciò che riguarda l' igiene e la salute dell' organo genitale femminile nel suo complesso, del quale, in sondaggi effettuati non molti anni fa, molte donne (per tacere degli uomini) ignoravano la conformazione e, quando veniva chiesto loro di disegnarlo, ne uscivano fantasiosi sgorbi. Non è un caso dunque che la fondatrice del museo lo descriva come «il primo museo vero e proprio dedicato all' anatomia ginecologica» e, in collaborazione con le associazioni reali di Ostetricia e Ginecologia, le sue attività si svilupperanno in mostre d' arte, recite teatrali, laboratori e serate comiche, filmati su argomenti come il consenso, l' immagine del corpo, la salute mentale e ovviamente la sessualità, nel duplice intento di far conoscere l' anatomia della vagina e di «combattere lo stigma sul corpo e il pregiudizio sui genitali, considerati indipendentemente da età, sesso e genere», una frase un po' convoluta per dire «combattere la vergogna del proprio sesso», che naturalmente non ha nessuna ragione d' essere. In verità, è da molto tempo che il tema del corpo è liberamente discusso, senza temere tabù di alcun genere, soprattutto per merito della letteratura femminile. Ed è abbastanza significativo che l' idea di un Museo della vagina sia venuta alla direttrice Florence Schechter nel 2017, dopo aver visitato, in Islanda, il Museo fallologico, che espone la più grande collezione di peni. Schechter, constatata l' inesistenza di un analogo museo per la vulva, ha provveduto a crearlo, con un ristabilimento di eguaglianza tipico del pensiero femminista. Che un museo di questo genere sia importante, lo dice anche il fatto che alcune associazioni inglesi per la lotta contro il cancro alla cervice uterina hanno rivelato che molte donne tra i 25 e i 29 anni non si sottopongono allo screening cervicale perché «si sentono troppo imbarazzate». Il museo offrirà anche programmi rivolti ai bambini e alle famiglie, proprio per liberare i giovani da superflui pudori, insegnando loro a discutere di sessualità come una cosa naturale. «La vagina è una parte del corpo che dovrebbe essere celebrata», ha affermato alla BBC la direttrice Schechter, esprimendo un' opinione condivisibile dalle femmine e dai maschi, «il museo è un modo fantastico per diffondere il messaggio che non c' è nulla di vergognoso o offensivo circa le vagine o le vulve». Sono previste anche consulenze e contributi di medici a sostegno di donne e transessuali. A questo proposito, il museo, che sarà a ingresso libero, intende essere "inclusivo" verso tutti i generi sessuali, dal momento che, come dice Schechter, «non chiunque ha una vagina è una donna, e non ogni donna ha una vagina», affermazione che costituisce uno dei pilastri portanti della controversa teoria gender, secondo la quale il proprio genere sessuale è una "scelta culturale" o comunque un sentimento indipendente dalla conformazione degli organi sessuali primari. La prima mostra in programma al Museo della Vagina di Londra sarà «Muff Busters: Vagina Myth and How to Fight Them» sui miti che circondano la vagina e come combatterli. Comunque la si pensi, se esiste un museo sul fallo è giusto che esista un museo sulla vagina. Si può non condividere la teoria gender (e noi non la condividiamo in tutti i suoi aspetti) ma è certo che la sessualità, come si vede dal terremoto del movimento "Metoo", è ancora un argomento divisivo, a proposito del quale è facile che a momenti di maggiore libertà, consapevolezza o trasgressione seguano atteggiamenti non lontani dalla bigotteria, e spesso ciò accade non solo nelle società, ma anche nelle singole persone che possono cambiare atteggiamento più volte a riguardo. Una maggiore conoscenza di sé, del proprio corpo, e delle complesse, delicate dinamiche con cui si costruisce un rapporto con il desiderio e la sessualità, non possono che essere un beneficio, purché sia una vera conoscenza, cioè spregiudicata, e non un indottrinamento, rischio che però ci pare non si corra in questo caso.
Dieci cose che (forse) ancora non sai sulla tua vagina. Tratte dal libro "Vengo prima io" della sessuologa Roberta Rossi, una guida al piacere femminile realizzata grazie alle esperienze di 16mila donne. Benedetta Perilli il 28 Ottobre 2019 su La Repubblica. Un libro che parla di piacere femminile. Sì, ce ne è ancora bisogno, soprattutto di un testo come "Vengo prima io", scritto per Fabbri Editori da Roberta Rossi, sessuologa e psicoterapeuta dell’Istituto di Sessuologia Clinica di Roma e Presidente della Federazione Italiana di Sessuologia Scientifica. E' un libro, più precisamente una guida all'orgasmo delle donne, scritto dalle donne. Perché quello che si trova sfogliando le 350 pagine che lo compongono altro non è che la risposta alle domande ricevute da oltre 16mila donne. Ovvero quelle che hanno espresso le loro opinioni e raccontato le loro esperienze partendo da un questionario pubblicato online da Roberta Rossi, che nella sezione Salute di Repubblica.it ha un blog. Dall'anatomia all'autoerotismo, dal clitoride al sesso orale, dalla penetrazione vaginale alla sessualità anale, passando per temi come i sex toys, le fantasie sessuali, la sessualità in coppia, nelle varie fasi della vita, la pornografia, l'educazione sessuale e la contraccezione. Un libro importante, da leggere da sole ma soprattutto con il partner, da utilizzare come base per parlare con i figli, da non sottovalutare. Perché anche le più esperte, quelle che credono di conoscersi bene, troveranno alcuni spunti interessanti. Noi ne abbiamo selezionati dieci, dieci approfondimenti che forse ad alcuni faranno sorridire - perché considerati banali - o forse stupiranno, spiegati con degli estratti dal testo di Roberta Rossi. Eccoli.
1- Conoscete Shere Hite? La prima donna a chiedere alle donne di raccontare le loro esperienze, dopo anni di predominanza maschile nella sessuologia, è stata la studiosa e scrittrice Shere Hite. Nei primi anni Settanta grazie alla sessuologa tedesca le donne iniziarono a parlare del loro piacere e si scoprì "tanto per fare un solo esempio, che moltissime donne non raggiungevano l’orgasmo durante il rapporto sessuale penetrativo mentre questo avveniva regolarmente con l’autoerotismo e che, con ogni probabilità, tale risultato non era da considerarsi anomalo o disfunzionale", spiega Chiara Simonelli, professoressa dell'Università La Sapienza, nella prefazione del libro. Per iniziare a parlare di vagina, insomma, è importante ricordare il lavoro e il valore di pionere della sessuologia come Share Hite che ancora oggi è attiva nel campo della consulenza. Perché se negli Settanta, e anche grazie ai movimenti femministi, le donne hanno imparato a gestire la loro vagina, solo oggi iniziano a conoscerla meglio.
2- No, la vulva non è la vagina. Lo spiega perfettamente Roberta Rossi nelle pagine di 'Vengo prima io': "La vulva è la zona che comprende tutti gli organi sessuali visibili dall’esterno. È delimitata in alto dal pube (se vogliamo essere precise, dalla sinfisi pubica, cioè il punto in cui si uniscono le due ossa del bacino, sul davanti), in basso dall’ano, lateralmente dalle pieghe inguinali. Può essere che finora l’abbiate chiamata vagina, invece di vulva: è molto comune, ma è un’imprecisione. La prima, lo si indovina facilmente, è la vagina: un canale decisamente elastico, che collega il collo dell’utero alla vulva. Quando siamo in piedi, la vagina si estende in alto e leggermente indietro, tra l’uretra nella parte anteriore e il retto nella parte posteriore".
3- Orgasmo vaginale e orgasmo clitorideo sono la stessa cosa. "O, meglio, c’è un solo tipo di orgasmo: l’orgasmo. Differenziare tra orgasmo clitorideo e orgasmo vaginale è fuorviante: ci porta a pensare che tra le due sensazioni esista una differenza fondamentale che invece non c’è. La maggior parte delle donne arriva al piacere con una stimolazione diretta o indiretta del clitoride. Usiamo la definizione di “stimolazione indiretta” del clitoride per quei casi in cui, durante la penetrazione, le grandi e piccole labbra si tendono o muovono per via della vostra posizione o dei movimenti che fate insieme ai partner, causando una frizione o una trazione meccanica sul clitoride. Quindi, anche se in quei momenti non lo state stimolando attivamente (non lo state toccando con mani o sex toys, né voi né i vostri partner, insomma), il clitoride viene comunque coinvolto: indirettamente, appunto. E conta molto di più della penetrazione che state ricevendo, dal punto di vista del vostro piacere. Le donne che riportano di aver avuto un orgasmo durante la penetrazione probabilmente non sono consapevoli del fatto che il clitoride è sempre coinvolto e per questo motivo parlano di orgasmo vaginale".
4- Le donne eiaculano (no, non è lo squirting) ed è merito delle ghiandole di Skene. "Sono due piccoli organi di forma tondeggiante, si trovano nella zona del vestibolo della vagina vicino all’orifizio uretrale (cioè l’apertura da dove esce l’urina), ma sono all’interno, in profondità, quindi è impossibile vederle o toccarle da fuori. Comunicano con l’esterno attraverso due tubicini, i dotti di Skene. Queste ghiandole sono considerate la versione femminile della prostata maschile. Negli uomini, la funzione principale della prostata è quella di produrre ed emettere il liquido prostatico, una delle sostanze che compongono lo sperma. Le ghiandole di Skene, invece, sono ritenute le possibili responsabili – in alcune donne – della cosiddetta eiaculazione femminile, cioè il rilascio, in piccole quantità (tenete bene a mente questo dettaglio), di un fluido denso e biancastro nel momento dell’orgasmo.
5- Il punto g non è un punto e si chiama cuv. "Nella parte interna e superiore della vagina, a circa tre centimetri di profondità, c’è una zona – percepibile solo quando la vagina è in stato di eccitazione – in cui si incontrano parte del clitoride interno (perché il clitoride è soprattutto interno, ricordate?), parte dell’uretra e della superficie della parete interna della vagina stessa. Quest’area è chiamata cuv per via delle iniziali delle strutture interessate (clitoride, uretra, vagina) che in qualche modo sono coinvolte nella risposta sessuale. Per individuarla potete inserire un dito o due all’interno della vagina tenendo il palmo rivolto verso l’alto e provare con un movimento simile a quello che fareste se voleste solleticarvi, muovendo la punta delle dita verso il palmo, da dentro".
6- La vagina non è fatta per procurare piacere. "Per molte donne è una notizia sorprendente, considerate tutte le informazioni contraddittorie o false che ricevono nel corso della vita riguardo ai loro genitali, eppure le cose stanno così: fatta eccezione per la zona cuv, che sembra essere molto sensibile ma con cui si riesce a interagire solo quando si è molto eccitate, la vagina, di per sé, non è fatta per procurare piacere. Non aspettatevi quindi di raggiungere l’orgasmo soltanto con la penetrazione. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: è fondamentale che ci sia anche una stimolazione diretta o indiretta del clitoride. E un buon livello di eccitazione".
7- La differenza tra vaginismo e dispareunia. "La dispareunia è una condizione clinica che fa sì che si provi dolore durante un rapporto vaginale. In questo caso, al contrario rispetto a quello che succede con il vaginismo, la penetrazione è possibile, ma lo sfregamento del pene o dei sex toys sulle pareti interne della vagina provoca dolore. Se il problema è che non siete abbastanza lubrificate, si risolve facilmente con una maggiore quantità (e qualità!) di stimolazioni, l’uso di un lubrificante e la certezza che la vostra mente sia nel posto giusto, lì con voi, e vi permetta di rilassarvi completamente".
8- Tutta colpa di Freud. "Facciamo un passo indietro. Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, agli inizi del Novecento rese popolare l’idea che le donne mature avessero un orgasmo vaginale mentre le donne inesperte, ma soprattutto immature, godessero per la stimolazione del clitoride. Non c’era alcuna prova scientifica a sostegno di questa teoria, tanto che lui stesso, qualche anno dopo, dichiarò di essersi sbagliato e ammise che la sessualità femminile era molto più complessa di come lui l’aveva inizialmente descritta".
9- Non esiste una vulva brutta. "Alcune di voi hanno preoccupazioni di tipo estetico riguardo alla propria vulva, specialmente rispetto alle piccole labbra. Vogliamo dirvi una cosa, però: le vulve “brutte” non esistono. Non ci sono una forma “giusta” e una “sbagliata”. Semplicemente ogni donna ha la sua. Il giudizio negativo o la sensazione di disagio che a volte proviamo per questa parte del nostro corpo derivano spesso da messaggi che ci sono stati trasmessi durante l’infanzia o da esperienze che abbiamo vissuto".
10- Sì, soffiare nella vagina è pericoloso. Alla domanda raccolta nei questionari: «È vero che non bisogna soffiare nel canale della vagina?» la risposta di Roberta Rossi è ferma: "È vero: non va fatto assolutamente! È una pratica pericolosa: potrebbe provocare un’embolia. È raro ma è possibile. Se il tuo partner o la tua partner comincia a soffiarti nella vagina, fermalo/a subito e spiegaglielo".
DAGONEWS il 4 ottobre 2019. Non sapete se la vostra vagina ha un aspetto normale? Ce lo rivela il chirurgo plastico britannico Ben Khoda, che ogni mese incontra 250 donne che sono in cerca di risposte sull’aspetto delle loro parti intime. In realtà non esiste una forma standard: le labbra vaginali sono come una qualsiasi parte del corpo e il modo in cui le labbra interne ed esterne appaiono fa parte del nostro patrimonio genetico. «È un'idea sbagliata comune che le vagine dovrebbero apparire in un certo modo - ha spiegato Ben - Proprio come variano le dimensioni, la forma o la circonferenza delle parti intime degli uomini, così succede anche per le donne. Le differenze più comuni nelle labbra sono la forma e le dimensioni, tuttavia anche lo spessore e il colore variano. Ecco gli otto tipi di labbra più frequenti:
Labbra asimmetriche o non uniformi. Alcune donne sono consapevoli che le loro labbra vaginali hanno lunghezze diverse. Una parte può essere nascosta dentro la vagina, mentre l'altra pende leggermente. Proprio come le sopracciglia, alcune sono come sorelle, ma non gemelle.
Labbra esterne curve. Altre donne hanno le labbra vaginali curve, meglio descritte come un “fiore”. Per quanto siano carine, le donne che le hanno percepiscono la propria vagina come troppo larga e la preferirebbero più stretta.
Labbra interne prominenti. A volte le labbra interne delle labbra pendono sotto le labbra esterne, il che può causare disagio in alcune donne. Tuttavia, non esiste una proporzione.
Labbra esterne prominenti. Il rovescio della medaglia: alcune donne hanno le labbra esterne leggermente allentate, mantenendo l'interno della vagina nascosta come una piccola tasca.
Labbra esterne lunghe. Le labbra esterne possono anche essere più lunghe e possono persino sfiorare le gambe, ma non necessariamente sporgere. Ancora una volta, questo è del tutto normale e non dovresti aver paura di abbracciare una lunghezza extra!
Piccole labbra aperte. Molte donne hanno le piccole labbra minuscole che lasciano visibile il resto della vagina.
Piccole labbra chiuse. Molte altre donne hanno piccole labbra vaginali che nascondono completamente la vagina.
Labbra interne visibili o allargate. Ultimo ma non meno importante, alcune donne hanno le labbra interne allargate che possono causare disagio fisico, poiché è esposta la parte maggiore della pelle vaginale sensibile.
"Viene prima lei", il libro che svela i segreti meglio nascosti del piacere femminile: maschietti avvisati. Nicoletta Orlandi Posti su Libero Quotidiano il 31 Ottobre 2019. Partiamo dai fondamentali. Per una donna non c'è un orgasmo giusto o uno migliore di un altro. E non è vero che solo la penetrazione vaginale può provocare quell'estasi di sensi che ci rimette in pace con il mondo, che ci fa sentire libere, felici, appagate. Per godere, noi donne, abbiamo bisogno della consapevolezza del nostro sé, delle nostre esigenze e dei nostri desideri. Solo se ci conosciamo a fondo, solo se conosciamo il nostro corpo e sappiamo farlo reagire alle stimolazioni - siano esse autoindotte o sollecitate dal partner - possiamo venir travolte da quello tsunami di piacere che parte dal cervello e fa vibrare ogni singola cellula fino a farla diventare un tutt' uno con l' universo. Bisogna pensare al sesso come un viaggio: se lo consideriamo solamente come una corsa per raggiungere la destinazione, una volata per raggiungere l' orgasmo, privandoci delle delizie del percorso stesso, esso perde buona parte della sua intensità che è data proprio dalla somma degli infiniti e gustosi istanti che alimentano il piacere e ci conducono alla meta finale. Facile a dirsi, più difficile farlo. Purtroppo non sempre i rapporti sessuali che le donne hanno sono soddisfacenti: colpa dei dubbi, della confusione, della vergogna, dei falsi miti, dei sensi di colpa e soprattutto della disinformazione. Ecco allora che la psicoterapeuta Roberta Rossi, con quasi 30 anni di esperienza in sessuologia clinica alle spalle, ha deciso di "interrogare" le donne, con un questionario on-line, per provare a capire quale sia il nostro rapporto con la sessualità e, in particolare, con l' orgasmo. Hanno risposto in 16mila e di fronte a così tanti dubbi ha voluto rispondere con il libro Vengo prima io (Fabbri Editore, 340 pagine, 17 euro). Con una scrittura elegante, un tono pacato e mai giudicante, la dottoressa, che è anche presidente della Federazione Italiana di Sessuologia Scientifica, accompagna chi legge alla scoperta del corpo femminile, della sessualità, delle fantasia, della contraccezione, delle difficoltà ed evoluzioni nell' intimità dalla pubertà a oltre la menopausa in maniera trasversale. Il volume - che è a tutti gli effetti un lavoro corale - innanzitutto risponde a dubbi di carattere scientifico. A cominciare dalla differenza tra l' eiaculazione femminile e lo "squirting". Sono due cose differenti: i liquidi che le caratterizzano hanno origine da strutture diverse e l' orgasmo arriva indipendentemente se si verificano. Altro capitolo fondamentale è quello dedicato alla clitoride (sì proprio al femminile, come viene catalogato il termine nel 1792 dal Vocabolario degli Accademici della Crusca). «Differenziare tra orgasmo clitorideo e orgasmo vaginale è fuorviante: ci porta a pensare che tra le due sensazioni esista una differenza fondamentale che invece non c' è», puntualizza Roberta Rossi. Le donne che sostengono di aver avuto un orgasmo durante la penetrazione probabilmente non sono consapevoli del fatto che la clitoride è sempre coinvolta e per questo motivo parlano di orgasmo vaginale. Nel libro viene inoltre spiegata la differenza tra vulva e vagina, si sfata il mito del famoso "punto G" (non è affatto un punto, si chiama Cuv ed è un' area che si trova tra clitoride, uretra e vagina) e viene definitivamente chiarito che la vagina non è fatta per procurare piacere. «Per molte donne», dice la sessuologa, «è una notizia sorprendente, considerate tutte le informazioni contraddittorie o false che ricevono nel corso della vita riguardo ai loro genitali. Eppure le cose stanno così: fatta eccezione per la zona Cuv, che sembra essere molto sensibile ma con cui si riesce a interagire solo quando si è molto eccitate, la vagina, di per sé, non è fatta per procurare piacere. Non aspettatevi quindi di raggiungere l' orgasmo soltanto con la penetrazione». Vengo prima io, a questo proposito parla in maniera schietta di masturbazione («Fate tutto con calma», consiglia la psicoterapeuta, «dirigetevi lentamente verso la zona esterna dei genitali, giocate con le mani e con i diversi tipi di tocco e movimento, con o senza mutande»); di sex toy (giocattoli per adulti che stimolano, provocano o accrescono il piacere: è dimostrato che chi li usa in coppia mantiene livelli più alti di desiderio ed è più soddisfatto della propria relazione); di penetrazione anale (per chi non l' ha mai provata la dottoressa consiglia di usare prima qualcosa di dimensioni ridotte, come, per esempio, un dito). Ma nel volume viene affrontata anche la pornografia femminista, le fantasie sessuali, i rapporti orali e il "cunnilingus", la pratica in cui i genitali femminili vengono stimolati con la bocca, la lingua e le labbra. Sarà il vostro corpo a guidare il partner: unico consiglio non frenatevi. La dottoressa Rossi si rivolge principalmente alle donne, ma può essere utile pure agli uomini. L' ideale sarebbe di leggerlo in coppia. Il libro si chiude con un augurio che condividiamo: «Speriamo di avervi aiutate nella ricerca della vostra strada verso il piacere, e che d' ora in avanti, da sole o in compagnia, possiate percorrerla con gioia». Nicoletta Orlandi Posti
DAGONEWS il 31 ottobre 2019. È un dato di fatto: uomini e donne mentono sul sesso per diversi motivi. Le donne tendono a mentire per sembrare sessualmente più innocenti, mentre gli uomini per sembrare dei bravi ragazzi, per fare sesso o per non impegnarsi sentimentalmente. Quindi non tutte le bugie sono malvagie o uguali. Ma ce ne sono alcune da non sottovalutare. Tracey Cox rivela quali sono le 10 menzogne dette dagli uomini sulle quali porre un attimo di attenzione.
Mi sono fatto le analisi qualche mese fa. Questa è una bugia malvagia: sta dicendo che spera che tu faccia sesso con lui senza usare il preservativo. O non ha nessun preservativo a portata di mano o non vuole indossarne uno. Il problema è che, anche se ha fatto tutti i test recentemente, come si fa a sapere cosa è successo dopo? Come si può sapere con che tipo di donne (o uomini) ha dormito dopo le analisi? Quando vai a letto con una persona senza preservativo, stai facendo sesso con tutti quelli con cui è andata prima. Ecco come affrontare il problema: digli che è fantastico che si sottoponga regolarmente a test e chiedi di andare a rifarli insieme.
Non raggiungo l'orgasmo con un preservativo. Questo valeva quando i preservativi erano spessi e scomodi. Le versioni high-tech, super sottili e ad alta sensibilità di oggi sono così confortevoli che si sentono a malapena. Anche contro l’allergia al lattice ci sono soluzioni alternative.
Questo non è mai successo prima. Quando dice questa frase sta solo cercando di salvare la faccia perché non è riuscito a raggiungere un’erezione. Potrebbe essere capitato perché è troppo ubriaco o perché è troppo emozionato e ha l’ansia da prestazione. Nel secondo caso è spesso lusinghiero: vuole disperatamente essere un amante perfetto e l'ansia sta influenzando la sua capacità di essere all'altezza della situazione. Se invece non rientra in nessuno dei due casi il risultato sarà farti sentire come se la colpa fosse tua.
Di solito duro molto più a lungo. Se non avere un'erezione è la sua più grande paura, finire troppo presto è al secondo posto solo per un pelo. Ciò di cui la maggior parte degli uomini non si rende conto è che la le donne sono meno preoccupate di quanto si possa credere del fatto che l’uomo possa raggiungere il climax. Se succede all'inizio della relazione, vuol dire che non è in grado di controllarsi. Se succede più in la nella storia vuol dire che si è innamorato del mito che le donne amano fare sesso per ore.
Fantastico solo su di te. È incredibilmente ingenuo pensare che sia così. Gli uomini hanno spesso fantasie su altre donne anche mentre si fa sesso. Se lui non lo ammette è perché ha paura della gelosia.
Sei la migliore amante che io abbia avuto. A volte lo dice perché lo pensa veramente. Ma in altri casi lo sta dicendo solo per sentirsi dire la stessa cosa. La cosa migliore è non chiedere: è ovvio che la risposta sarà una bugia.
Hai un sapore fantastico. Molte donne si preoccupano di come odorano o di che sapore hanno. È inutile chiedere se al tuo lui piace: alcuni diranno una bugia per farti godere fino alla fine.
Non mi masturbo quasi mai. La maggior parte degli uomini sotto i 25 anni si masturba almeno una volta al giorno. Sopra i 25 anni accade una o due volte alla settimana. Perché mente? Ha paura che possa essere visto come un disperato o una persona ossessionata dal sesso.
Posso capire se una donna ha avuto un orgasmo. Nessun uomo può dire se hai avuto un orgasmo. L'unica persona che lo sa è la donna. Non ci sono segni: alcune hanno un arrossamento sul torace o il clitoride sensibile, ma questo non succede a tutte le donne. È una menzogna delirante e fastidiosamente narcisistica.
Voglio solo dormire. Quando dice così bisogna essere disposte a tutto. In alcuni casi potrebbe essere vero, in altri magari si avvicinerà per delle coccole, ma vorrà altro. Se non vi conoscete e lui ti sta invitando a casa, devi sapere a cosa vai incontro: è uno stratagemma per fare sesso. se gli andrà bene accetterai, in caso contrario la serata sarà finita.
VOLETE UNA VAGINA CAPACE DI DONARVI GRANDI PIACERI? DAGONEWS l'11 settembre 2019. Tra mestruazioni, cambiamenti ormonali e il parto, le povere vagine soffrono molto. Ma c’è un modo per preservarla e ce lo spiega Tracey Cox che ci dice tutto ciò che c’è da sapere per una vagina felice e sana.
L'esercizio. Gli esercizi per il pavimento pelvico non garantiscono solo una vagina più stretta, ma aumentano la sensibilità, aumentano il desiderio sessuale, intensificano l'orgasmo e possono aiutarti a diventare multiorgasmica. Aiutano anche a ridurre la tensione sugli organi pelvici e migliorano la funzione della vescica e dell'intestino. Innanzitutto, trova il muscolo del tuo PC interrompendo la pipì (cerca di non strizzare contemporaneamente il sedere o la pancia). Dopo averlo isolato, stringi e contrai, tenendolo in tensione per alcuni secondi, quindi rilascia. Inizia con ripetizioni di 25 e fai due serie al giorno. Si tratta di arrivare fino a circa 50 ripetizioni, più volte al giorno, ma mantenendo la compressione più a lungo. Questo è l’esercizio di base, ma se vuoi davvero arrivare a un risultato più velocemente adotta la seguente routine:
Sdraiati o siediti sul bordo del letto o della sedia e inserisci due dita nella vagina, fino alla seconda nocca. Stringi il muscolo del PC attorno alle dita. Spero che sentirai la vagina contrarsi attorno alle dita. (Se non è così, fai una o due settimane di esercizi base di Kegel per metterli in forma).
Allarga le dita come per fare un segno di pace, ma tienile rilassate. Ora contrai i muscoli e cerca di unire le dita, usando solo il muscolo. Prova a contrarre e tenere premuto per 10 secondi, quindi rilassati per 10. Cerca di ripetere 10 ripetizioni, due volte al giorno.
Oggetti di cui non fidarsi. Ce ne sono molti là fuori, disposti a farti perdere solo soldi.
Bombe vaginali glitterate. La "Passion Dust" è un nuovo prodotto che dovrebbe aiutare a "gestire" le perdite vaginali. È una capsula piena di gelatina, glitter commestibili (a base di zucchero) e altri ingredienti, da inserire nella vagina almeno un'ora prima di fare sesso. Inutile dire che non è stato approvato dalla FDA e pochi ginecologi lo raccomandano. I batteri cattivi si nutrono di zucchero e possono produrre masse infiammatorie sulla parete vaginale.
Oak galls. Le Oak galls sono piccole palline che crescono sugli alberi e che si formano quando un certo tipo di vespa perfora le querce per depositare larve. Alcuni credono che se macinate, aiutino a rafforzare e a far diventare più stretta la vagina. Di conseguenza, le nuove mamme le acquistano online e le schiacciano e le mettono nelle loro vagine. Sembra scemo ... e lo è. Tutto ciò che fanno è asciugare la vagina rimuovendo lo strato mucoso protettivo, rendendo il sesso doloroso.
Uova di giada. Il sito web di Gwyneth afferma che l'inserimento di un uovo di giada aumenta gli orgasmi, migliora il tono dei muscoli vaginali, l'equilibrio ormonale e "l'energia femminile" in generale. Gli scienziati hanno implorato di non seguire questo consiglio, dicendo che nessuna delle affermazioni era supportata da una ricerca seria.
Piercing vaginale. Alcune donne perforano il loro clitoride, le labbra interne o esterne perché piace l'aspetto che assume la propria vagina o perché pensano che aiuti a stimolare il clitoride durante il sesso. Non è così e tra l’altro se non ti affidi a una clinica sicura rischi infezioni e perdita di sensibilità.
Un buon aiuto. Monitor per il pavimento pelvico o kit di allenamento. I ginecologi li consigliano perché sono sicuri e aiutano solo a ridare elasticità al pavimento pelvico.
Le coppette per il ciclo. Queste sono un'alternativa ecologica agli assorbenti interni. Realizzate in materiale morbido, le inserisci nella vagina per raccogliere il flusso mestruale, svuotandole alcune volte al giorno. Sono perfettamente sicure da usare, sono riutilizzabile e molte donne le consigliano.
Il sesso cambia. Come, quando e quanto spesso fai sesso influenza fortemente la forma della tua vagina. Fai pipì prima e dopo il sesso per scovare i batteri, soprattutto se sei incline alla cistite.
Fai sesso regolarmente. La vagina è un canale muscolare e come gli altri muscoli del nostro corpo, ha bisogno di esercizio fisico. Fare sesso - almeno una volta alla settimana - manterrà i muscoli tonici e le pareti vaginali flessibili. Se non hai un partner, masturbati alcune volte a settimana - fino all'orgasmo - per ottenere gli stessi benefici per la salute.
Utilizza un lubrificante di buona qualità. La secchezza vaginale è la principale causa del sesso doloroso e l'uso di lubrificante aiuta a proteggere le delicate pareti della vagina.
Usa i preservativi. Se hai avuto rapporti sessuali non protetti, sei a rischio di avere un'infezione a trasmissione sessuale. Tra i segnali ci sono la secrezione vaginale, verruche, ulcere o piaghe, ma molte infezioni sono prive di sintomi.
Non fare mai sesso anale e poi sesso vaginale. Cambia il preservativo o prima pulisci a fondo il suo pene. I batteri dell'ano non appartengono alla vagina e aumentano il rischio di infezioni.
Mantieni puliti i sex toys. Segui le istruzioni, ma la maggior parte puoi lavarli con acqua calda e sapone. Puliscili dopo ogni utilizzo.
Non fare sesso prima senza preliminari e non aspettarti di raggiungere l'orgasmo solo attraverso la penetrazione. I preliminari non sono un lusso, ma una necessità per la lubrificazione. Inoltre non aspettarti di raggiungere l'orgasmo solo attraverso la penetrazione. Solo il 20-30% delle donne può raggiungere l'orgasmo durante il rapporto senza ulteriore stimolazione del clitoride. Non c'è niente di sbagliato, è la biologia. Il clitoride è fuori dalla vagina!
Altri consigli per una vagina felice e sano. Ecco alcune regole di base da seguire:
Sostituisci frequentemente i tamponi e non utilizzare assorbenti "deodorati". Non lasciare gli assorbenti interni dentro durante la notte. Indossa biancheria intima di cotone al 100%, o nessuna. L'obiettivo è mantenere la vagina fresca e il cotone lascia entrare l'aria e assorbe l'umidità. Evita il perizoma se sei sensibile.
Non indossare abiti attillati. Occhi alle passeggiate in bici: sono ottime per la salute, ma i seggiolini per bici possono causare intorpidimento genitale. I pantaloncini da ciclista sono imbottiti per un motivo. Indossali.
Non utilizzare alcun tipo di spray, deodorante vaginale, olio profumato, bagnoschiuma, olio da bagno o talco, salviette profumate o saponi o lavaggi profumati. Interrompono l'equilibrio dei batteri e irritano. Una vagina sana ha un odore leggermente acido, ma non sgradevole. Se la tua non ha un buon odore, consulta il medico. È probabile che si tratti di vaginosi batterica che può essere facilmente trattata con antibiotici.
Assicurati che la biancheria intima sia lavata e risciacquata correttamente. Il detersivo per bucato può irritare. Quando ti asciughi passa da davanti a dietro con la carta igienica: impedisci il trasferimento di batteri dal sedere alla vagina.
Esercizio fisico: migliora il flusso sanguigno essenziale per l'eccitazione sessuale e per mantenere elastico il rivestimento vaginale. Smettete di fumare. È collegato al cancro cervicale. Fate prevenzione per il cancro alla cervice. Non assumere antibiotici a meno che non sia necessario. Aumentano il rischio di infezione vaginale perché uccidono i batteri buoni e cattivi che cambiano la flora nella vagina, favorendo la crescita di altre infezioni.
Da Il Post il 27 settembre 2019. Alla fine del 2018 la sessuologa Roberta Rossi e la casa editrice Fabbri Editori hanno usato un questionario online per provare a capire quale sia il rapporto delle donne italiane con la propria sessualità e, in particolare, con l’orgasmo. Sono temi di cui si legge molto sulle riviste femminili, ma su cui non abbiamo dati a livello nazionale. Al questionario di Rossi hanno risposto più di 16mila donne (tra i 15 e i 70 anni, con età media di 33 anni, eterosessuali per il 92 per cento). Questa carenza di dati è stata in parte colmata, e ora c’è un libro che risponde ai dubbi più comuni sulla sessualità delle donne, basato proprio sulle risposte e sulle statistiche emerse grazie al questionario. Si intitola “Vengo prima io” ed è in libreria da ieri. Partendo dalle risposte al questionario Rossi, che è anche psicoterapeuta ed è la presidente della Federazione Italiana di Sessuologia Scientifica, ha creato una guida sui principali aspetti della vita sessuale collaborando con Giulia Balducci, peraltro giornalista del Post. Il libro, così come il questionario, li copre tutti: la masturbazione, l’orgasmo, il sesso orale, la penetrazione, il sesso anale, le fantasie sessuali, i sex toy, il sesso come parte di un rapporto di coppia, la pornografia, l’educazione sessuale e la contraccezione. Oltre a rispondere a dubbi di carattere scientifico (per esempio spiega tutto quello che sappiamo per certo sull’eiaculazione femminile, il cosiddetto squirting), Vengo prima io dà vari consigli su come affrontare i propri problemi legati alla sessualità, vincendo le proprie insicurezze, e come parlare di questo tema con altre persone: dal proprio partner alle proprie figlie. Si rivolge principalmente alle donne, ma può essere utile anche agli uomini: se le donne per prime hanno dubbi e insicurezze sulla propria sessualità, è più che naturale che anche gli uomini li abbiano. Pubblichiamo un estratto del libro dal capitolo dedicato alla penetrazione vaginale che spiega, in primo luogo, che non deve per forza essere considerata la «pratica sessuale per eccellenza», anche per le donne eterosessuali.
Se quando pensiamo al sesso ci viene subito in mente la penetrazione vaginale, e perchè dal punto di vista sociale e culturale e considerata la pratica sessuale per eccellenza, almeno dalle persone eterosessuali. Questa convinzione affonda le radici molto in profondità, basti riflettere sul fatto che, fisiologicamente parlando, e la modalità più sicura per procreare. Se quindi consideriamo (come e stato fatto fino a tempi recentissimi) il sesso unicamente come strumento per avere figli, ecco che il ragionamento “fila”. Prima dell’invenzione della pillola, alle donne veniva “insegnato” a svolgere un ruolo passivo nella sessualità di coppia; difficilmente prendevano l’iniziativa, difficilmente erano consapevoli di quello che procurava loro piacere, difficilmente gestivano l’atto: la loro sessualità era al servizio di quella maschile e non c’era spazio per la soddisfazione personale. Con l’avvento della pillola le donne hanno potuto cominciare ad apprezzare la sessualità penetrativa con meno preoccupazioni, a esplorare il proprio piacere e a dedicargli spazio. La situazione e migliorata, ma da alcune delle vostre domande emerge che c’è ancora un po’ di strada da compiere. Facciamo quindi chiarezza: la penetrazione vaginale e una pratica piuttosto comune e frequente – il 95% di voi, infatti, ha dichiarato di aver avuto rapporti che la comprendessero –, ma e soltanto una delle pratiche a vostra disposizione. Anche se scientificamente si parla di “rapporti completi” quando c’è la penetrazione, questa non esaurisce l’esperienza sessuale in tutto e per tutto e non va considerata il “sesso per eccellenza”. La vostra attività sessuale può essere perfettamente soddisfacente e “completa” anche se non comprende la penetrazione vaginale. La penetrazione vaginale consiste nell’inserire qualcosa all’interno della vagina: può essere l’organo maschile, una o più dita, oppure vibratori e sex toys fatti apposta (evitate oggetti di uso comune). Il tipo di penetrazione più diffuso – proprio perchè viene considerato il rapporto standard per le coppie eterosessuali – e quello che prevede la penetrazione della vagina attraverso il pene. Il 45% delle donne statunitensi tra i 25 e i 69 anni, per esempio, dice di avere un rapporto penetrativo pene/vagina circa due volte al mese (facciamo sempre riferimento a dati internazionali perchè purtroppo in Italia non si fanno ricerche di questo tipo). Abbiamo già descritto la vagina e abbiamo già parlato di come cambia durante la fase di eccitazione, ma vediamolo più nel dettaglio. A riposo, e lunga tra i 7 e i 9 centimetri circa e ha un diametro di circa 2. In fase di eccitazione può arrivare fino a 9,5-10,5 centimetri di lunghezza e a 5-6 centimetri di diametro. Non stupitevi se queste misure non corrispondono a quelle di un pene eretto (o a quelle del sex toy che utilizzate). Nonostante le sensazioni che provate durante un rapporto sessuale penetrativo possano farvi pensare il contrario, il pene non penetra mai completamente la vagina in tutta la sua lunghezza per motivi strettamente fisici: il canale vaginale non e perpendicolare al corpo femminile e il pene in erezione non e tangenziale al corpo.
«E normale che non mi sia mai capitato di provare un orgasmo soltanto con la penetrazione vaginale?»
«Perchè, nonostante l’uomo che mi possiede sia colui che adoro e che mi calza sessualmente, non riesco a raggiungere l’orgasmo con la penetrazione vaginale? Tra noi ci sono fantasia, preliminari, amore, desiderio, ma niente, non succede.»
Per molte donne e una notizia sorprendente, considerate tutte le informazioni contraddittorie o false che ricevono nel corso della vita riguardo ai loro genitali, eppure le cose stanno cosi: fatta eccezione per la zona cuv, che sembra essere molto sensibile ma con cui si riesce a interagire solo quando si e molto eccitate, la vagina, di per se, non e fatta per procurare piacere. Non aspettatevi quindi di raggiungere l’orgasmo soltanto con la penetrazione. Non ci stancheremo mai di ripeterlo: e fondamentale che ci sia anche una stimolazione diretta o indiretta del clitoride. E un buon livello di eccitazione.
«Ancora adesso che ho esperienza e sto da otto anni con lo stesso partner, sento dolore durante la penetrazione, almeno all’inizio del rapporto. E normale? Ogni tanto penso di non essere abbastanza eccitata e di aver bisogno di più preliminari, ma non so se il motivo e quello.»
Prendetevi cura di tutte le zone erogene, non soltanto dei genitali. Non dimenticate, poi, che anche la mente e una zona erogena e deve essere coinvolta: stimolatela con le fantasie. Solo in questo modo la penetrazione vaginale sarà piacevole. Se invece trascurate il resto del corpo, se non coinvolgete il clitoride, se non siete presenti ed eccitate “di testa” e avete fretta di arrivare alla penetrazione, potreste incontrare qualche ostacolo: potreste rendervi conto che la penetrazione in quel momento e impossibile, oppure provare dolore.
«Perchè a volte mi capita di non desiderare la penetrazione vera e propria ma altre pratiche meno “invasive”?»
Soffermatevi un momento a riflettere su alcuni aspetti di un rapporto sessuale: in che momento si e verificato? Chi ha preso l’iniziativa e come? Spesso non ci facciamo caso, invece e importante perchè il sesso sia “buono”. Provate quindi a ricordare: vi e mai capitato di avvicinarvi al partner o alla partner con l’idea di coinvolgerli in un rapporto e ottenere soltanto un rifiuto? Oppure che proprio nel corso di un rapporto sessuale abbiate pensato che il partner o la partner, insistendo con una determinata pratica, avrebbe ottenuto il risultato opposto a quello desiderato? Sono situazioni comuni e il modo più utile per affrontarle e parlarsi, cercando sempre di non ferirsi, ma sforzandosi di conoscersi meglio e di capire che cosa pensa e che cosa prova l’altro. La penetrazione potrebbe anche – legittimamente – non essere la cosa di cui avete voglia in quel momento, e questo non significa che non desideriate più il partner, ma che magari preferite fare altro: se siete chiare ed esplicite sui vostri desideri vi potrete godere meglio l’esperienza ed eviterete di trasmettere messaggi non veritieri.
Posizioni e coinvolgimento attivo.
«C’e una posizione che facilita l’orgasmo durante la penetrazione vaginale?»
Le posizioni tra cui scegliere per la penetrazione vaginale sono tante: preferitene una che vi dia la possibilità di muovervi come volete e di essere le protagoniste del rapporto. Una recente ricerca, infatti, ha scoperto che più mobilita hanno le donne durante il rapporto vaginale, più e facile che raggiungano il piacere e che imparare «a oscillare con il bacino e il tronco avanti e indietro durante il rapporto vaginale potrebbe facilitare il raggiungimento dell’orgasmo».
«Molto bello: posizione io sopra il compagno.»
Se state voi sopra, a cavalcioni sul partner che sta seduto o sdraiato, potete gestire tutto: la profondità, il movimento, il ritmo. E se vi inclinate, inoltre, potreste riuscire a stimolare anche il clitoride mentre vi muovete, per strofinamento.
«Adoro la posizione di lato, “a cucchiaio” e quando durante la penetrazione lui mi tocca i capezzoli e il clitoride.»
Una buona alternativa, un po’ più comoda, e quella in cui siete sdraiate su un fianco e date la schiena al partner, steso nella stessa posizione dietro di voi: in questo caso il vostro bacino e libero di muoversi come preferisce, senza la pressione del corpo del partner sopra di voi. C’è un altro tipo di movimento, meno evidente, che potete sperimentare durante il rapporto vaginale: le contrazioni della muscolatura che circonda la vagina. Abbiamo già parlato di quanto e importante per la salute sessuale femminile che questi muscoli siano tonici. Contrarli ritmicamente, alla velocita che preferite, durante la penetrazione, aumenta la vostra sensibilità e il vostro coinvolgimento. Se il partner e un uomo, il suo pene viene avvolto dalle pareti vaginali che lo stringono e lo rilasciano, e questo tipo di contrazione produce una sorta di massaggio stimolante per entrambi. Non e necessario che diventiate “ginnaste della vagina”, ma non dimenticate che la partecipazione attiva durante la penetrazione migliora le vostre sensazioni.
Solo una delle possibilità.
«Vorrei avere dei consigli su come gestire la vita sessuale con il mio partner affrontando bene (e senza far star male nessuno) il fatto che la penetrazione non mi piace cosi tanto e che vorrei riceverla con minore frequenza.»
«Come mai e più difficile raggiungere l’orgasmo con la penetrazione vaginale piuttosto che con i preliminari?»
Bisogna cambiare la prospettiva sul rapporto vaginale. Provate a uscire dallo schema di pensiero secondo il quale la penetrazione vaginale e il punto d’arrivo e tutte le altre pratiche sono “solo preliminari”. Un incontro sessuale e fatto da diversi tipi di stimolazioni e interazioni, tutte ugualmente valide e importanti; provate dunque ad arrivare alla penetrazione vaginale quando avete già esplorato altri modi per toccarvi e stare insieme in modo piacevole, arrivateci dopo aver avuto – voi – un orgasmo grazie per esempio ad altri tipi di stimolazione.
Jaci Stephen per “Mail On Line” l'1 dicembre 2019. Ho trascorso ben 57 Natale in Gran Bretagna, tutti in famiglia, quest’anno ho scelto di passarlo da sola a New York. Le donne si stanno abituando a stare da sole. Dei quasi otto milioni di nuclei composti da una sola persona, in Gran Bretagna, il 54% è composto da donne. E’ un boom generato dai divorzi a tarda età o dalle single irriducibili. Nonostante io non abbia figli, trovo questa festività sfiancante. Troppa roba da comprare, troppo nervosismo. Non si può stare due ore in fila per comprare un tacchino o per uscire dal parcheggio di un centro commerciale. Mollo a casa mia madre e il cane. Mi sento in colpa? Chiaro, il senso di colpa è nel DNA femminile. Ma ho bisogno di una pausa e non vedo l’ora di stare da sola. E’ liberatorio. Nessuna tradizione da onorare, nessun pavimento da lavare dopo che gli ospiti ti hanno messo sottosopra casa, nessuna lavastoviglie da riempire. Quando non hai più la pressione di essere una madre, moglie o padrona di casa perfetta, ti senti più viva. Vedi Alyson Reay, 52enne tornata single dopo 12 anni di matrimonio: «Gli amici mi invitano di qua e di là ma io non vedo l’ora di passare il fine settimana da sola». O Tricia Cusden, 69 anni: «Con il mio ex ci alterniamo: un anno tengo i bambini a Natale con me, un anno li tiene lui. Così non sono certo stata a casa davanti al camino. Me sono andata in giro per il mondo, e senza il Natale tra i piedi, il tempo è volato». Rachel Linstead, 39 anni, passa il Natale da sola da sette anni: «E’ l’unico giorno dell’anno che dedico completamente a me stessa. Spengo telefono e wi fi e faccio quello che mi pare. Può sembrare da egoista, ma mi rende felice». Io me ne andrò in giro per New York e non litigherò con mia madre che vuole sentire il discorso della Regina alla nazione. Ho 58 anni e New York è il posto giusto per me. In Gran Bretagna mi trattano come una vecchia che aspetta di morire. I giovani mi parlano ad alta voce o lentamente anche se non sono sorda, la società mi fa sentire inutile e invisibile. Non è così, a New York. La mia famiglia sa che la amo, non c’è bisogno di dimostrarlo la notte di Natale. E d’altronde, ad essere onesti, quanti fanno il Natale in famiglia perché sono obbligati e quanti perché lo desiderano davvero?
Dagospia il 29 novembre 2019. Da “Radio Cusano Campus”. La Sessuologa Rosamaria Spina è intervenuta questa mattina nel corso del programma “Genetica Oggi” condotto da Andrea Lupoli su Radio Cusano Campus. “Fare l’albero di Natale potrebbe favorire il sesso e un riavvicinamento dal punto di vista sentimentale. Ad un mio paziente -ha raccontato la sessuologa Spina - è capitato, dopo un periodo difficile dove non si parlavano più è arrivato il periodo degli addobbi natalizi. Lei nel prendere le decorazioni gli ha chiesto: ‘non vieni a prendere le palline dell’albero?’ e lui avvicinandosi mentre lei era sulla scala l’ha palpeggiata un po’ come primo approccio. Si crea dunque una apertura emotiva e sessuale e può trasformarsi in un momento in cui si unisce l’utile al dilettevole.” “Possiamo dire che i giorni degli addobbi Natalizi sono i più propizi per il sesso, spesso legato all’8 Dicembre, se ne fa molto di più rispetto al 24-25-26 che credo siano da escludere al 100% anche perché sono feste che si passano con le famiglie riunite e spesso ho pazienti che si vergognano a fare sesso sapendo che i suoceri o i propri genitori sono nella stanza accanto. Fra cena della Vigilia, il pranzo di Natale e poi Santo Stefano, la nostra cultura alimentare crea un evidente ostacolo a livello sessuale vista la ricchezza dei piatti e delle portate.” “Quando si fa il Presepe si ha un atteggiamento diverso che temo non concili il rapporto sessuale. Aiuta molto di più fare l’albero di Natale. La maternità del Presepe porta, soprattutto la donna, ad avere un atteggiamento diverso perché entra in gioco la procreazione non il divertimento. Quando ci si avvicina al rapporto per procreare entra in gioco un atteggiamento quasi ‘mistico’ come quando si fa appunto il presepe. Soprattutto se parliamo di donne.”
SESSO. Posizioni sessuali, le 8 più piacevoli per gli uomini. Gqitalia.it il 28 ottobre 2019. Vuoi impazzire di piacere? Allora prova queste opzioni che ti faranno sfuggire alla routine e alla noia. Siamo realistici, il sesso è il meglio, ma a volte diventa noioso quando ricadiamo sempre nella stessa posizione. Meglio provare alcune delle posizioni sessuali che sono più piacevoli per gli uomini (se non tutte). Esistono altre opzioni oltre al tu sopra di lei o lei sopra di te? La risposta alla domanda è sì e noi uomini preferiamo posizioni sessuali che diano maggiore senso di piacere attraverso la vista e la possanza. In Reddit qualcuno ha posto la stessa domanda e gli utenti hanno risposto con opzioni che, oltre alla stimolazione fisica, causano piacere attraverso l'osservazione del corpo, i gesti, gli atteggiamenti che la tua partner ha durante l'atto sessuale. Molti altri hanno proposto posizioni che implicano il sentire di avere il controllo e una maggiore profondità di penetrazione. Queste sono le otto posizioni più popolari proposte dagli utenti:
1. Cowgirl reverse. Devi sdraiarti sulla schiena e lei si siederà sul tuo organo genitale eretto, dandoti le spalle.
La partner può stabilire il ritmo di penetrazione a suo piacimento e, allo stesso tempo, tu puoi accompagnarla tenendola per i fianchi.
2. Il trapezio. Qui è lei a essere sdraiata sulla schiena, mentre tu percorri il suo corpo dalle ginocchia alla bocca e poi cominci la penetrazione. Puoi impostare il ritmo. L'ideale è aumentare l'intensità e la forza dei movimenti.
3. Il drago. Lei deve sdraiarsi a pancia in giù su un cuscino ad altezza del pube. Deve sollevare i glutei e inarcare il corpo in modo da godere di una penetrazione più profonda. Tu dovresti metterti sulla sua schiena, aggrappandoti alle sue mani (che potrebbero essere sopra la testa).
4. L'amazzone. Devi sdraiarti sulla schiena e circondarla con le gambe intorno ai glutei. Lei si mette in posizione accovacciata su di te, seduta sul tuo membro in erezione. Quindi entrambi vi prendere le mani e spingete (tu in avanti, lei all'indietro). Il flusso di forza più il ritmo di penetrazione renderanno questa esperienza indimenticabile.
5. Gambe in spalla. Un grande classico. Lei deve sdraiarsi sulla schiena e mettere le gambe sopra le tue spalle. Durante la penetrazione, inclinati per entrare in contatto con le sue cosce, raggiungendo la profondità che entrambi desiderate. Occhio: se sei molto ben dotato, ti consigliamo di non praticarlo, perché potresti darle fastidio o farle male.
6. Il loto. Questa posizione è piuttosto estrema (e eccitante). Devi sederti a gambe incrociate mentre lei si siede su di te, mentre con le gambe abbraccia il tuo petto. Il trucco per lei qui è muovere i fianchi e tenere il passo. Lo adorerai.
7. La scala. Devi stare in piedi su una scala, simulando il movimento di salire un gradino (una gamba su e una giù), cercando di essere sul bordo dei gradini in modo che lei possa avvicinarsi, stare di fronte al tuo sesso e iniziare la penetrazione.
8. Allineamento coitale. Lei deve avere le gambe unite, tu separate. Quindi devi spingerti verso la tua vagina con la forza degli arti. Se esegui correttamente il movimento, sarai in grado di stimolare il suo "monte di Venere", cioè il tessuto adiposo che copre le ossa pelviche e che si trova sotto la pelle. La penetrazione sarà di soli 2,5 centimetri, ma con ciò è sufficiente vivere un piacere estremo. Adesso, tutti a provare ciascuna delle posizioni sessuali più piacevoli. È un dato di fatto che conoscere prima queste posizioni non solo ti aiuterà a migliorare il sesso, ma migliorerà la tua erezione e sarai in grado di controllare il momento dell'eiaculazione (qualcosa che è difficile per molti di noi).
Posizioni sessuali tradizionali, come migliorarle. Cecilia Uzzo il 4 novembre 2015 su gqitalia.it. Tanto bistrattate, anche le posizioni più classiche vi possono far fare scintille: basta sapere come personalizzare il missionario (in versione 2.0), le varianti del doggy style e quando lei sta sopra. Si fa in fretta a spacciarsi per stalloni, la verità è che l'unica che può confermare o rovinare la tua reputazione da "migliore amante che tu abbia mai avuto" è lei, la partner. Il discorso potrebbe filare anche al contrario, se non fosse per un piccolo particolare: una donna può fingere l'orgasmo, un uomo no. Certo, ci sono amplessi che possono lasciare un ricordo migliori di altri, ma se ragioniamo nell'ottica più semplicistica, cioè "una buona/ottima/decente prestazione sessuale è quando lei raggiunge (almeno) un orgasmo", allora sì che la responsabilità della tua reputazione torna completamente nelle mani, anzi, nella mente e nella parole che lei userà per descriverti come amante. Tralasciando tutto quello che riguarda l'arte della seduzione, i preliminari, etc, volendo sintetizzare le problematiche che si possono incontrare sulla strada dell'orgasmo, è giocoforza restringere il campo sulle posizioni sessuali. Che spesso sono sottovalutate per certi aspetti e sopravvalutate per altri. La regola di base, in materia di posizioni, è: scordati tutto quello che pensi di aver imparato dai porno. I film per adulti sono divertenti, ma non sono la miglior guida in materia, come hai pensato per anni: gli attori porno, nella vita reale, non fanno sesso solo come li vedi fare nei porno. Quindi, prima di lanciarti nella prossima maratona "Tutte le posizioni del Kamasutra + quelle che ho visto in tot anni di porno", prova a partire da quelle classiche. Che, se eseguite seguendo alcune dritte, saranno molto, molto soddisfacenti, per entrambi: non avrai più bisogno di proporle posizioni assurde "che ho visto in un film", per convincerla che ci sai fare. Anzi, che "sei il miglior amante che lei abbia mai avuto".
Missionario 2.0.
1°suggerimento. Sollevale le gambe, facendo in modo che i suoi polpacci si appoggino alle tue spalle. Questo consente una penetrazione più profonda - e, per lei, la sensazione che tu sia più dotato della realtà. Se poi lei riesce a inclinarsi ancora di più all'indietro, riuscirai a spingere ancora più a fondo.
2° suggerimento. Che siate sul letto o altrove, cerca di trovare un cuscino e mettiglielo sotto il sedere: il suo bacino sarà più alto e inclinato e la penetrazione sarà più profonda.
3° suggerimento. Se invece lei rimane sdraiata ma piega le ginocchia ad angolo retto (o ve le avvolge intorno), in modo che i vostri fianchi aderiscano perfettamente, oltre alla penetrazione, ci sarà anche la stimolazione clitoridea, data dalla sfregamento del vostro osso pubico.
Doggy Style in 3 varianti.
Pronati. Si comincia con il Doggy Style tradizionale, poi quando sei ben dentro di lei, spingila a pancia in giù: avrai ulteriore via libera al suo punto G (che già è ben stimolato nelle posizioni da dietro) e lei ti sentirà davvero in profondità, specie se stringe le gambe da sdraiata.
Gioca con gli angoli. A volte, anche nel doggy style, è tutta questione di trovare l'angolo giusto: è più semplice se lei si appoggia sugli avambracci e tiene il sedere in alto. Poi, puoi chiederle di avvicinare o allargare le gambe, in base a come ti senti meglio dentro di lei.
Allargale tu, le gambe. Prova ad allargare tu le gambe, tenendo lei in mezzo: lei si sentirà più raccolta e tu potrai penetrarla più profondamente e la sentirai più stretta.
Doggy Style evolution - laterale. Forse, più che una variante del doggy style, è un'altra posizione, nota anche "a cucchiaio". L'importante è che il bacino di lei sia un po'più in alto del tuo, almeno all'inizio - puoi chiederle di alzare una gamba per favorire l'ingresso. Ricordati che qui, più che la spinta, contano anche i movimenti rotatori.
Lei sopra.
Usa la testa(ta). È la posizione più rischiosa per la tua virilità: il pericolo di scivolare fuori e che lei ti atterri sopra è sempre alto. Però puoi tentare di limitare il rischio: non stare proprio sdraiato, ma appoggia la schiena alla testata del letto o a un mucchio di cuscini. In questo modo, dietro di te si formerà un angolo di 45°, ritenuto l'ideale perché entrambi sentiate il più possible.
Gioca al trampolino di lancio. Cominciate con lei sopra in modo tradizionale (tu sotto sdraiato). Poi lei deve stendersi su di te, in modo da essere perfettamente allineata, mentre si appoggia sulle braccia come a fare le flessioni. Lei userà le tue gambe come trampolino, mentre i suoi seni saranno oscillanti proprio davanti ai tuoi occhi (e bocca).
Così lontani, così vicini. Appoggia il sedere sui cuscini e apri leggermente le gambe: lei sarà leggermente sotto di te e per cavalcarti dovrà appoggiarsi all'indietro sulle tue gambe.
Sesso, 5 posizioni che le donne non sopportano a letto. Francesca Favotto su Gqitalia.it il 30 novembre 2018. Anche a letto, è questione di gusti: davanti a molte delle situazioni preferite dagli uomini, le donne storcono il naso. Quali? Come si intitolava quel famoso libro? “Le donne vengono da Venere e gli uomini da Marte”. Bene, il concetto vale anche nel sesso. Soprattutto nel sesso. Il letto è un terreno di gioco dove ogni coppia decide le sue regole: ognuno è libero di fare sesso come meglio crede, come più si diverte. Spesso però anche tra partner c'è grande disaccordo su cosa fare a letto: quello che piace a uno o l'latro pensa che possa far piacere, in un attimo può trasformarsi in motivo di disappunto, o anche malessere, per l'altro. Certo, non bisogna generalizzare: c'è chi a letto è più sperimentale e avventuroso e ama fare sesso nelle posizioni più strane, ma c'è anche chi non apprezza alcune di quelle più classiche. Forzare le cose è controproducente: non solo rovina l'atmosfera sul momento, ma rendere difficili le future sex session, con uno dei due che finisce per inventarsi scuse diverse per evitare, rimandare, finire in fretta. Ecco le posizioni, oggettive o metaforiche, che a letto la maggior parte delle donne mal sopporta: occhio soprattutto all'ultima. Ecco, quella è una "posizione" intesa come modo di vedere la cosa che non dovrebbe passare nemmeno per l'anticamera del cervello.
La posizione del missionario? Sì, ma con relativa parsimonia. La sua monotonia, oltre a essere argomento di conversazione per molti, è spunto comico quasi usurato per nella nostra commedia all'italiana (e che sia televisiva o cinematografica poco cambia). Senza varianti potrebbe diventare una noiosa prigionia. E poi, diciamolo, per l'uomo non è nemmeno comoda.
L'amore di spalle? Dipende. Se la cosa è gradita a entrambi, bene; ma se capisci che lei è a disagio per motivi fisici, emotivi o legati a proprie ferme convinzioni morali, è il caso di abbandonare l'idea. Nel sesso, come in amore, bisogna ascoltarsi. Meglio il cucchiaio: abbracciati e vicini, è una posizione molto romantica che lascia più spazio anche alle coccole.
La variazione costante rischia di deconcentrarla e annoiarla. Cambiare continuamente posizione e rivoltarla come un calzino in genere non la entusiasma, anzi. Non farla sentire come una Barbie dentro una dimostrazione con bambolotti o peggio come un attrezzo ginnico. Le cose a letto si fanno sempre in due… a meno che, per diletto, non si sia in tre o quattro.
Quella lì che ricorda il segno del cancro e di cui tutti parlano un po’ a sproposito (aka 69). Il dubbio è che sia come uno di quei romanzi che tutti comprano, ma poi non leggono e finiscono per stare in bella vista. Il motivo? Può essere sgradevole per uno dei due oppure per entrambi può risultare così gradevole da diventare di gestione molto complicata. Richiede molto più autocontrollo di quanto non si pensi e anche una certa capacità di ascoltare e adeguarsi l’uno al ritmo dell’altro. Ci avevi mai fatto caso?
Farlo senza preservativo. Far finta di niente, scaldare l'atmosfera e uscirsene che si preferisce senza sul più bello, è una cosa capace di smorzare anche gli animi più eccitati, oltre a essere da irresponsabili in caso di rapporti occasionali. Alla donna questa cosa non trasmette un buon messaggio ma poca attenzione per la propria salute e quella altrui, così come poca attenzione per cosa ne pensi l'altro in generale. Indossatelo sempre. La scusa che con il preservativo diminuisce la vostra sensibilità fisica non attacca più: quelli di nuova generazione sono studiati per garantire una prestazione ottimale per entrambi. Perciò, indossatelo, per il bene vostro e della partner e per un sesso senza pensieri.
Donne dominanti nella sessualità, le posizioni preferite. Di Simona Sirianni il 30 settembre 2019 su gqitalia.it. Non è affatto vero che una donna che sappia essere attiva e passiva all'uomo non piaccia. Anzi...Le donne dominanti nella sessualità sono sempre di più. Non è affatto una novità che, di questi tempi, la passività non sia più tanto femminile e anche se nel sesso, millenni di storia ci hanno raccontato che così doveva essere e che quando non succedeva la donna era da considerare una poco di buono, oggi la ribellione anche sotto le lenzuola è esplosa. Un erotismo fatto di scambi di ruolo, è un erotismo che funziona alla grande: e, infatti, anche all’uomo ogni tanto piace essere dominato (solo a letto, per carità) e lasciare alla partner il controllo dell’eros come meglio preferisce. Fare un passo indietro nella gestione dell’amplesso e una donna che sappia essere attiva e passiva insieme affascina il genere maschile. Intanto perché ha una visuale completa del corpo femminile che si muove ritmicamente su di lui e poi perché riesce ad osservare le espressioni del volto mentre si prova piacere. Di solito sono due i generi di uomo che preferiscono la donna dominante: gli amanti molto sicuro di sé, quelli che non hanno nessuna incertezza sulla propria virilità, ma anche coloro che desiderano, almeno durante l’amore, «deresponsabilizzarsi». Alle donne, invece, spesso piace essere dominanti per due motivi: intanto perché soddisfano quella componente di esibizionismo presente in ognuno di noi, ma soprattutto perché riescono ad avere il totale il controllo sul piacere. Essendo, infatti, loro a guidare, sarà più semplice raggiungere il piacere nei tempi più congeniali. L’unica paura che spesso le blocca ad assumere questo ruolo è il perfezionismo estetico, ovvero che tutti i difetti (molti solo nella loro testa) siano esposti senza veli. Ma in questo caso, basta usare qualche stratagemma: tipo, anziché stare eretta sopra di lui, piegarsi contro il suo corpo. Poi, nel momento in cui ci si sentirà più sicure, verrà spontaneo rialzarsi e lasciarsi guardare. In ogni caso, per venirvi in aiuto, riassumiamo alcune posizioni perfette se a lei piace essere dominante. Vi diamo solo il nome e la difficoltà lasciandovi la sorpresa di andare a curiosare sul kamasutra per scoprire di cosa si tratta. Magari insieme.
Il paziente - Difficoltà: 2
La tenaglia - Difficoltà: 2
Il serpente - Difficoltà: 1
Il vitello - Difficoltà: 1
Il gradino - Difficoltà: 1
La mela - Difficoltà: 1
La posizione di Andromaca - Difficoltà: 2
La libellula -Difficoltà: 4
La rana - Difficoltà: 2
L'altalena - Difficoltà: 2
Gli orgasmi delle donne e le posizioni che amano di più. Redazione gqitalia.it 26 maggio 2012. C'è chi parla di un orgasmo unico, chi dice che ne esiste uno vaginale e uno clitorideo: fatto sta che far godere una donna non è cosa da poco. Scoprite quali sono le posizioni preferite e quanti tipi di godimento sono possibili. Se già far godere una donna è impresa ardua, una serie di saggi, riassunti sul sito Livescience, rivelano che non esiste una maniera univoca per farlo. Ad esempio, basti considerare che non esiste un unico orgasmo, ma ce ne sono almeno due: quello clitorideo e quello vaginale. Le mille variabili e sfumature che decretano il raggiungimento di un orgasmo non dipendono dal consenso assenso e dai mille gridolini della partner: in realtà capire precisamente quali punti la donna stimola durante la masturbazione è molto più difficile di quanto si possa pensare. Il ginecologo francese Odile Buisson sostiene nel suo saggio, per esempio, che la parete anteriore della vagina è inestricabilmente connessa con le parti interne del clitoride, per cui stimolare la vagina senza attivare il clitoride può essere quasi impossibile: se la teoria venisse interpretata così «l'orgasmo vaginale» sarebbe simil cosa dell'orgasmo clitorideo. Altre ricerche però tendono a suggerire che esistono due diversi tipi di orgasmo femminile. Barry Komisaruk della Rutgers University ha condotto diversi studi in cui sono stati analizzati con una risonanza magnetica funzionale il cervello di donne mentre si masturbavano. Dai risultati si è evinto che le aree sensoriali del cervello si attivano in risposta alla stimolazione. «Se la stimolazione della vagina sta semplicemente lavorando per via delle stimolazioni del clitoride, la stimolazione vaginale e la stimolazione del clitoride dovrebbero attivare esattamente la stessa area della corteccia sensoriale», ha detto Komisaruk. «Ma non lo fanno», ha aggiunto. Secondo le teorie di Komisaruk, infatti, le aree cerebrali attivate dalla stimolazione del clitoride, del collo dell'utero e della vagina sono diverse e si sovrappongono. Ma quali sono le posizioni sessuali preferite dalle donne, quelle che possono aiutare gli uomini a farle godere di più? In primis c'è la posizione del ragno, considerata il massimo per il piacere femminile perché stimola il punto G (la donna inclina il bacino o inarca la schiena fino a trovare l'angolo che le procura il massimo piacere). I partner sono seduti l'uno di fronte all'altro, ed entrambi hanno un ruolo attivo. Poi c'è la posizione del cucchiaio: lateralmente l'uomo può stimolare il clitoride della donna fino a quando sentirà avvicinarsi l'orgasmo di lei. Infine la posizione della pecorina, permette la massima stimolazione del punto G oltre che psicologicamente eccitare la donna.
L’AMORE RENDE CIECHI, MA ANCHE IL SESSO NON SCHERZA! DAGONEWS l'1 dicembre 2019. L’amore rende ciechi, ma il sesso non scherza nemmeno. Louanne Ward, coach relazionale, rivela come fare sesso all’inizio di una relazione non aiuta a valutare complessivamente una persona. «È una delle più belle emozioni, ma quando sei nelle prime fasi vedi la persona in modo diverso perché sei accecato dalla passione». Quindi quali errori in camera da letto fanno le coppie?
1. Essere sopraffatti dalla lussuria. Spesso quando incontriamo qualcuno di nuovo cadiamo in una fase instabile di infatuazione in cui può essere difficile valutare chiaramente chi ci è davanti. «All'improvviso vedi più aspetti positivi che negativi e non vedi ciò che poi vedrai in futuro con chiarezza e che potrebbe non piacerti».
2. Dimenticare che le sostanze chimiche rilasciate durante il sesso sono "accecanti". Fare sesso rilascia dopamina, un neurotrasmettitore associato al piacere. Più si condividono emozioni forti più si ha una certa dipendenza. Questo rende difficile pensare razionalmente in un momento in cui la tua mente pensa solo a una cosa. «Non hai nemmeno bisogno di stare con quella persona. Il semplice pensiero, tocco, odore o sapore del tuo amante può fornire creare un’impenna della dopamina che finirà per accecarti costruendo un’immagine falsa».
3. Usare il sesso come strumento per fare pace dopo una rissa. Associare il sesso alla polemica può creare gravi problemi alla tua relazione. «Usare il sesso come strumento per recuperare dopo una discussione e avvicinarsi quando ci si sente insicuri è un ottimo modo per entrare in connessione, ma alla lunga non farà affrontare i problemi. Sarà come mettere la polvere sotto al tappeto».
4. Non fare sesso abbastanza spesso. Senza contatto fisico e intimità il tuo benessere e la tua salute mentale possono essere influenzati. «Inizi a notare tutte le cose sbagliate in una relazione e difficilmente riuscirai a vedere le cose in maniera diversa. Sebbene non debba essere un evento programmato, dovrebbe essere qualcosa di cui tu e il tuo parlate spesso».
5. Andare contro gli standard morali. Nel fervore del momento le persone possono concordare su cose che normalmente non sarebbero disposte a fare. «Questo porterà un conseguente senso di colpa, vergogna e sorprese inaspettate e indesiderate».
PATATA NOVELLA. Da Adnkronos il 25 settembre 2019. Parti intime imperfette o invecchiate, con fastidi e disagi: per le donne italiane non è più un tabù e cresce la richiesta del ritocco. "Come il resto del corpo, i genitali femminili esterni vanno incontro a un processo di invecchiamento - spiega Daniele Spirito, chirurgo plastico di Roma e docente presso la cattedra di Chirurgia plastica dell'Università degli Studi di Milano - Le grandi labbra perdono tessuto adiposo e quindi volume, mentre le piccole labbra possono subire un allungamento verso il basso diventando più sporgenti. Il passare del tempo può infatti causare perdita di tonicità, problemi che possono interessare anche donne più giovani dopo eventi naturali come la gravidanza o il parto". "In questi casi la ninfomeiosi, letteralmente divisione (meiosi) delle ninfee, ovvero delle piccole labbra, è la tecnica chirurgica di ringiovanimento dei genitali esterni più praticata". Come funziona l'intervento? "Consiste nella riduzione delle piccole labbra attraverso la rimozione della parte in eccesso e contestualmente, a seconda dell'esigenza della singola paziente, nell'ingrandimento delle grandi labbra mediante l'infiltrazione di grasso autologo. In questo modo - assicura Spirito - si ripristina una giusta proporzione, dando un conforto estetico ed eliminando fastidi e disagi. L'intervento viene eseguito in anestesia locale con sedazione, in regime di Day hospital". "I risultati sono soddisfacenti e anche il recupero è molto veloce senza particolari complicazioni. E' necessario però - aggiunge Spirito - un periodo di riposo e astenersi dalle attività sportive per 15 giorni e da quella sessuale per circa un mese dall'intervento". Non solo. "Spesso, soprattutto nelle donne che hanno perso molti chili, il clitoride subisce un abbassamento - conclude l'esperto - in questi casi si può agire sollevandolo".
Antonello Piroso per “la Verità” il 26 novembre 2019. Problema: come realizzare un'intervista sulle problematiche dell' organo sessuale femminile con Paolo Mezzana - ospite di giornali e trasmissioni tv, dottore in chirurgia plastica e ricostruttiva, specializzato in ginecologia estetica e funzionale - senza scadere nel pecoreccio, sia pure involontario? Soluzione: ispirandosi più a Piero Angela che a Rocco Siffredi, e scegliendo con cura termini e immagini (per un ripasso ironico rimando allo strepitoso intervento di Roberto Benigni nel Fantastico 1991, show del sabato sera di Rai 1, quando davanti a una Raffaella Carrà in ambasce si scatenò nella declinazione delle varie definizioni del sesso femminile e maschile, da "patonza" a "sventrapapere"). Mezzana ha scritto un libro, I dialoghi della vagina, dieci capitoli per le storie di altrettante donne, da contrapporre ai Monologhi della vagina, portati in scena a New York nel 1996 da Eve Ensler, che li ricavò da racconti e pensieri sulla propria vagina provenienti da oltre duecento donne (il successo da allora è stato globale: migliaia di rappresentazioni in tutto il mondo, premi internazionali, una versione per la tv prodotta da Hbo, il canale nell' orbita Warner che fattura 2 miliardi di dollari l' anno). Mezzana presenta il suo lavoro oggi a Roma, intervistato dal conduttore Rai Alberto Matano.
Spera di ottenere anche lei un riscontro planetario?
«No, mi auguro piuttosto di portare l' attenzione delle donne, e dei partner (uomini o donne, non c' è differenza) che a loro si accompagnano, su alcune patologie che possono rendere faticosa, complicata e dolorosa la propria sessualità».
Però per quale motivo parafrasare quel celeberrimo titolo?
«Per segnare una cesura. I monologhi erano quelli di donne (ovvero: delle loro vagine, termine su cui è poi necessaria una precisazione) che urlavano il proprio malessere, con una specie di manifesto slogan veterofemminista».
Tipo: «L' utero è mio e me lo gestisco io»?
«Esatto. Qui invece abbiamo il dialogo, ovvero: il confronto. Delle donne con il proprio sesso, in modo da poter poi affrontare al meglio la relazione con il partner».
Oltre a essere una raccolta di storie di fantasia, è quindi anche una sorta di «manuale di servizio»?
«Sì. Le trame nascono dalle confessioni che ho raccolto in tanti anni di professione, mi sono sforzato di romanzarle curandone però, da neofita, la scrittura e la forma».
Se Alberto Moravia ha scritto Io e lui sui rapporti con il proprio organo, il suo libro vuole mettere a fuoco la dialettica tra «lei e lei». Quell' oscuro oggetto del desiderio.
«Senza compiacimenti voyeuristici. Le donne devono imparare a parlare innanzitutto con se stesse, a conoscersi meglio. Il mio è un viaggio nell' intimità femminile, la sua parte più segreta, che poi è quella da cui si genera la vita».
L' origine del mondo, come da imperituro dipinto di Gustave Courbet. Che puntualizzazione voleva fare?
«Terminologica: vagina si usa per indicare tout court l' organo genitale femminile».
Una sineddoche: la parte per il tutto.
«In realtà tecnicamente quella parola riguarda l' interno. L' esterno si chiama vulva».
Grazie della precisazione. Quali sono i disturbi più frequenti che portano una donna a voler farsi aiutare chirurgicamente?
«Distinguiamo subito: ci sono problemi fisici e disagi psichici. La prima cosa che un medico deve fare è capire qual è la molla che spinge una donna a formulare una richiesta di soccorso. L' approccio deve essere olistico, di ascolto. Se l' istruttoria si chiude nel segno della necessità di un intervento, si procede».
Qualche numero?
«Ufficialmente nel 2018 sono state certificate 7.200 operazioni, numero largamente sottostimato perché non tutti i medici fanno parte dell' Aigef, l' associazione italiana di ginecologia estetica e funzionale, a sua volta parte dell' Esag, l' omologa a livello europeo. Il ritmo di crescita è comunque del 20% annuo».
Vogliamo citare qualche patologia?
«Rifacendomi ai capitoli del mio libro, abbiamo donne sofferenti di vulvodinia, 15 su 100 secondo le statistiche, che lamentano un "bruciore insopportabile", tipo spilli, che si ha quando c' è una proliferazione dei terminali nervosi, la sensibilità aumenta a tal punto da trasformarsi in dolore perfino nell' infilarsi i pantaloni, e quindi prescindendo da contatti fisici sessuali. Ci sono poi pazienti afflitte da dispareunia: patiscono una reale, quasi insopportabile, difficoltà all' accoppiamento, che può subentrare per esempio in menopausa per un fisiologico restringimento. Donne che presentano condilomi causa infezione da Hpv, il papillomavirus (che nelle tipologie "ad alto rischio" sono potenziali fattori di insorgenza del cancro, discorso che riguarda anche gli uomini, motivo per cui sarebbe il caso di vaccinarsi). E poi le vittime di infibulazione, una vera e propria mutilazione genitale a livello esterno, con l' asportazione di parti e ricucitura della vulva».
Una pratica abominevole, legata più a fattori culturali o religiosi?
«Entrambi, aggiungendo quelli geografici. Parliamo di alcune regioni dell' Africa, della penisola araba, del Sud Est asiatico. E se sicuramente avviene in Paesi che sono in tutto o in parte di religione musulmana, va detto che per esempio in Niger è stato rilevato come anche una donna cristiana su due sia infibulata. La tradizione è più forte della fede. Il tutto per mantenere la purezza, l' illibatezza della donna».
La verginità come valore.
«Che è presente ancora anche nel nostro Paese. Vada a Orgosolo, in Sardegna, dove si venera Antonia Mesina, una Maria Goretti della Barbagia, assassinata da un suo compaesano nel 1935 a colpi di pietra. Anche per questo un intervento molto richiesto è quello dell' imenoplastica, il rifacimento della membrana. Per ovviare preventivamente al problema, in Cina e in Giappone si sono inventati un rimedio meraviglioso».
In che senso preventivamente?
«Per rimanere vergini, e quindi non dover poi appellarsi al chirurgo per il ripristino dell' illibatezza, utilizzano un sacchettino interno che si rompe durante il rapporto, rilasciando un liquido rosso che simula...».
Ok, dottore, ho capito. Altra patologia ricorrente?
«Il transessualismo, che non è banalmente solo un fenomeno di costume. Parliamo di soggetti che vivono l' indicibile tormento di sentirsi donne intrappolate in corpo maschile. Io ho raccolto confessioni di persone che vorrebbero attenzioni da parte di uomini eterosessuali perché loro si considerano femmine a tutti gli effetti».
E invece?
«Personalmente ritengo che un uomo che frequenta trans come minimo sia bisessuale. Ponendosi quasi sempre in modalità "passiva"».
Per capirci: non saremmo in presenza di donne con un pene, bensì di uomini con il seno?
«Per capirci, diciamo così».
Gli interventi chirurgici che lei pratica sono molto invasivi, a colpi di bisturi?
«Per carità, il minimo indispensabile. Parliamo piuttosto di laserterapia, ozonoterapia, tossine botuliniche, acido ialuronico, anidride carbonica, sedute di radiofrequenza e infiltrazioni, trattamenti mirati su aree molto circoscritte».
Fin qui abbiamo parlato di tematiche funzionali. In cosa consiste invece la chirurgia intima "estetica"?
«Molte donne ritengono che il proprio organo presenti delle malformazioni, per esempio circa le dimensioni delle pieghe cutanee dette "labbra", grandi e piccole, oppure abbia un aspetto pregiudizievole».
Cioè?
«Il colore. Con l' andare dell' età c' è una crescita della melatonina lì localizzata, la pelle da rosa diventa marrone, e quindi si chiede al medico di correggere il difetto con uno "sbiancamento"».
Ah, come quando Giorgio Forattini disegnò un Massimo D' Alema che «sbianchettava» la lista Mitrokhin.
«Ma sa qual è il problema quanto a misure e cromatismi? Il consumo di materiale a luci rosse».
Perché anche le donne guardano video porno e si fanno suggestionare dalle attrici hard?
«Che sono tutte giovani, hanno il basso ventre modellato, di color rosa pesca, e naturalmente totalmente depilato. Il che è uno sbaglio: la cosiddetta depilazione alla brasiliana, con la rimozione totale dei peli pubici, è un fattore sfavorevole perché elimina una prima, fondamentale barriera per preservare l' igiene e la salute intima».
Abbandoniamo l' altra metà del cielo e passiamo ai maschietti. La difficoltà a parlare e affrontare le proprie disfunzioni credo riguardi anche noi.
«Scherza? Gli uomini si preoccupano e si rivolgono allo specialista molto più delle donne. Il viagra e gli altri prodotti simili hanno risolto il problema "erettile" da un punto di vista farmacologico (cui si affiancano gli strumenti meccanici: le protesi e le "pompette") ma ci sono poi le questioni morfologiche, vedi: l' incurvamento, che impongono un' operazione di falloplastica. Senza dimenticare l' ossessione delle dimensioni, per cui la richiesta è di un allungamento e/o ingrossamento, ottenibile con il silicone».
Come labbra e seni? Interessante. Immagino però non sia sempre e solo un problema psicologico...
«No: ci sono casi di ipotrofia peniena conclamata, definiamolo un sottodimensionamento evidente, ma al tempo stesso ci sono "fissazioni" sulle misure che nascono, anche qui, dall' abbuffata di porno online».
Se vedi performance che durano ore, con virilità "ragguardevoli", e poi fai il confronto con te stesso...
«Il rischio di deprimersi è alto (ride). Ma basterebbe riflettere su quanto c' è di artefatto, chimico, finto in quelle prestazioni, per trovare più di un motivo di consolazione. Sa come si dice, volendo concludere con una battuta?».
Parlo per me: «Mal comune, mezzo gaudio»?
«Preferisco la metafora sportiva: "L' importante è partecipare"».
LA VULVA SI DIVULGA (E SI PRESERVA). Da Radio Cusano Campus il 14 luglio 2019. La Sessuologa Rosamaria Spina è intervenuta nel corso del programma “Genetica Oggi” condotto da Andrea Lupoli su Radio Cusano Campus, riguardo il tema dei cosmetici vaginali. "La vulva invecchia come accade al resto del corpo, esistono creme pensate per migliorare l'aspetto e anche il tono e l'elasticità di questa parte del corpo così come le sensazioni che può provare durante il rapporto o nell'autoerotismo. Sono prodotti molto ricercati con fragranze molto ricercate spesso a base di acido ialuronico per andare a ringiovanire le grandi labbra, le piccole labbra e ottenere una sorta di 'lifting vaginale'." "Dobbiamo pensare ad una cosa: le persone si prendono cura di ogni parte del corpo truccandosi, sistemando i capelli, lavando i denti e facendo la doccia e mettendo il profumo. Quando però parliamo di zone intime facciamo il minimo indispensabile quando in realtà un po' tutte le donne dovrebbero imparare a prendersi cura delle proprie zone intime proprio come si fa con qualunque altra parte del corpo, senza relegarla ad un'area di seconda categoria. Può quindi essere importante utilizzare questi prodotti che esulano un po' da quelli per l'igiene intima." "Il Ph vaginale è un ph fisiologicamente acido con un suo odore naturale tendenzialmente acido appunto, non a tutti gli uomini questo odore risulta gradevole soprattutto quando magari è un po' più acido rispetto alla norma. Questi prodotti possono aiutare a mitigare questo odore favorendo il cunnilingus da parte degli uomini." "Esistono poi da tempo i deodoranti vaginali ma spesso quando ne parlo ai miei pazienti restano sorpresi. Però non vengono pubblicizzati e tante volte non si trovano nei negozi ma solo on-line. Da un po' di tempo a questa parte il mercato però si è evoluto aggiungendo ai deodoranti vaginali i profumi vaginali. Sono dei profumi spesso 100% vegani o prodotti naturali che non alterano il ph vaginale ma creano delle fragranze che possono risultare più piacevoli e più eccitanti anche proprio durante il rapporto sessuale. Ovviamente sono profumi sempre più impiegati poco prima di un rapporto sessuale. Visto il periodo estivo poi ricordiamoci che anche le parti intime sudano e forse è il caso di prendersi cura di loro anche usando questi profumi." "L'odore vaginale non è legato ad una scarsa igiene personale, è un odore caratteristico come quello della pelle che ognuno di noi ha, possiamo avere un odore della pelle più acre, più dolce o più pungente che cambia da persona a persona. Lo stesso si verifica a livello vaginale. L'interno della vagina presenta batteri 'buoni' che mantengono il ph fisiologico. La vagina è inoltre autopulente, proprio la produzione di muco cervicale serve non solo a mentenere in equilibrio questo Ph fisiologico, ma svolge anche una funzione di pulizia della vagina stessa."
REALDO COLOMBO. L’UOMO CHE HA SCOPERTO IL CLITORIDE. Barbara Costa per pangea news il 29 aprile 2019. “Se la tocchi mentre la donna è bramosa di sesso, molto eccitata, e come in preda a frenesia vuole ardentemente un uomo, questa parte si indurisce e si allunga alquanto. Gentilissimo lettore, non vi sono dubbi: essa è la sede preminente del piacere femminile”. È il 1559, e Realdo Colombo dà la notizia al mondo: le donne in mezzo alle gambe, dentro il sesso, hanno qualcosa, “una sorta di pene, come i maschi, una protuberanza” che se stimolata provoca “strani spasimi nervosi”. Realdo Colombo era sicurissimo: questa ‘cosa’ c’è, ce l’hanno tutte, tutte ne godono, lui ne aveva ‘testate’ a decine. Quello che Realdo chiamò “Amor Veneris vel dulcedo”, è un altro, romantico nome del clitoride. Realdo Colombo era un anatomista, insegnava all’università, ed è morto pochi mesi dopo la pubblicazione del suo Sull’anatomia, manuale frutto di “studi che mi sono costati tanta fatica, e che diranno la verità sul corpo umano”. Riguardo al clitoride, Realdo non si era fermato alla mera osservazione visiva, empiricamente scoprendone qualità erettili ed erogene: “Se lo strofini a un pene, o lo tocchi anche solo con un dito, a causa del piacere, produce un seme che si spande di ogni parte, più veloce dell’aria”. Questo ‘seme’ sono le secrezioni vaginali, per Realdo “lo sperma della donna, denso, ed eccellentemente concotto”, prodotto nell’utero dai “testicoli femminili, leggermente più grandi e sodi di quelli maschili”. Realdo c’aveva visto bene, ma era un uomo del ’500, e a quel tempo gli organi sessuali femminili non avevano nomi propri né relative funzioni in quanto non ancora ‘distinti’ da quelli maschili. Realdo ragionava secondo un punto di vista maschio-centrico e monosessuale, cioè aveva come unico modello base e riconosciuto punto di riferimento scientifico e culturale il corpo maschile, di cui quello femminile era ritenuto una versione incompiuta, con organi genitali acerbi, incapaci di svilupparsi all’esterno, e perciò “rimasti rovesciati all’interno”. Bisognerà aspettare il 1700 affinché agli organi sessuali femminili siano riconosciuti proprietà, nomi e ruoli specifici. Realdo Colombo passò i suoi guai a causa del clitoride: prima che nel libro, informò doverosamente i suoi superiori della ‘novità’, ed essi non la presero bene: lo denunciarono per eresia. L’invidia accademica lo travolse: Gabriele Falloppio, suo collega e forse suo alunno, obiettò che il clitoride lo aveva scoperto prima lui e prova ne era il suo Osservazioni di Anatomia, libro uscito dopo quello di Colombo, ma che l’autore vantava contenesse nozioni antecedenti. Falloppio accusò il morto Colombo di plagio, altri accusarono Falloppio di essere lui il copione, e da Copenaghen Kaspar Bartholin tuonò contro i colleghi italiani, nient’altro che due vanagloriosi: “L’invenzione o la prima osservazione di quella ‘parte’”, precisò Bartholin, “è nota fin dal II secolo”. E nel 1548, 11 anni prima del libro di Colombo, l’anatomista inglese Thomas Vicary aveva notato che “la vulva ha nel mezzo una membrana, detta in latino tentigo”, che però per Vicary niente c’entrava col sesso e col piacere: “Da essa fuoriesce l’urina, che altrimenti si riverserebbe dappertutto nella vulva”, e Vicary credeva pure che la tentigo fosse lì per mantenere stabile la temperatura corporea alterata dall’aria che entrava attraverso la fessura vaginale (!). Realdo Colombo non riversò le sue attenzioni sesso-anatomiche solo sul clitoride e nel suo libro, alla sezione “a proposito di cose che di rado accadono in anatomia”, ci racconta di un caso di “incertezza sessuale” che lo aveva grandemente colpito: quello di un ermafrodita “il cui pene non superava la lunghezza né lo spessore di un mignolo” mentre “l’apertura della sua vulva era così stretta, che a stento la punta d’un mignolo poteva passarvi”. Colombo chiama questo ermafrodita “donna”, capisce che questa persona si “sente” tale, ma non può aiutarla in nessun modo: “Voleva che le tagliassi il pene con un coltello, per lei un ostacolo quando desiderava il rapporto con un uomo, e di allargarle l’apertura della vulva, sì da renderla capace di ricevere un pene. Ma la dissuasi. L’operazione l’avrebbe uccisa”. Realdo Colombo l’ha scoperto e gli ha dato medaglia orgasmica, ma a inizio ’900 arriva Freud, a offendere e a rompere le scatole al clitoride: l’assunto che le donne provino un piacere clitorideo prima della penetrazione maschile, quando finalmente grazie all’uomo e al suo pene raggiungono il piacere vaginale cioè per Freud quello vero, è una stupidata che ha fatto e fa incaz*are: senza chiedere lumi non dico al clitoride, ma a nessuna tra le sue proprietarie, strafatto di coca quindi con buona parte di cellule cerebrali bruciate, Freud mette le donne in balìa orgasmica del maschio, stabilendo che se ti tocchi o ti fai stimolare da un uomo senza penetrazione penica, o se godi della titillazione ma non con un pene dentro, sei immatura nonché sessualmente deficitaria. Sebbene Alfred Kinsey nel suo celebre Rapporto abbia ridato dignità al clitoride e al suo orgasmo, è stata Simone de Beauvoir, ne Il Secondo Sesso, a sbugiardare a dovere il saputello. Le femministe anni ’70 hanno invece ‘usato’ il clitoride, e il suo orgasmo, come riscatto dalle soffocanti pretese maschili: tra loro, in campo letterario, va di dovere ricordata Carla Lonzi che ne La donna clitoridea e la donna vaginale, orgogliosamente scrive che il piacere vaginale è stolta creazione della società patriarcale, che per dominare ha bisogno di un modello di donna passivo, legato indissolubilmente alla procreazione: “Il matriarcato è una mitica epoca di donne vaginali glorificate, ma la donna non è la grande-madre, la vagina del mondo, bensì la piccola clitoride per la sua liberazione”.
· La femmina. Nei secoli infedele.
Giordano Tedoldi per “Libero quotidiano” il 17 novembre 2019. Senza una buona quota di figli illegittimi - ovvero, detto con il termine brutale e giustamente caduto in disuso che si usava fino a qualche tempo fa, di bastardi - chissà quanti romanzi, film, opere liriche commoventi e appassionanti ci saremmo persi. Eppure, a giudicare da un recente studio dell' università di Lovanio (con la collaborazione di quella di Bologna) emerge che, almeno in una parte dell' Europa, quella (di certo più puritana) dei Paesi Bassi e del Belgio, negli ultimi cinquecento anni la "produzione" di figli illegittimi è stata molto più bassa di quel che si crederebbe. I ricercatori hanno analizzato il cromosoma Y e i dati genealogici di 513 coppie di uomini, tutti volontari residenti in Olanda o in Belgio. Secondo i dati genealogici, ogni coppia risulta avere un antenato comune nella linea paterna, pertanto dovrebbe avere identici cromosomi Y. Se così non fosse, e si trovasse invece una discrepanza, questa indicherebbe che il soggetto in questione è frutto di un adulterio (e dunque i dati genealogici sono falsi), ovvero, come la chiamano gli scienziati, di una paternità extraconiugale. Si penserebbe che i ricercatori abbiano trovato chissà quanti figli illegittimi nel periodo preso in esame, che copre oltre cinque secoli. E invece le ricerche hanno confermato che il 99 per cento degli individui è effettivamente derivato dal medesimo Dna patrilineare, ovvero, i dati genealogici sono esatti: per la stragrande maggioranza dei casi non ci sono figli illegittimi. La quota di figli illegittimi risulta essere solo un misero 1 percento. Naturalmente lo studio non ha fatto che prendere in esame coppie dei Paesi Bassi, e si possono fare molte riflessioni circa la morale particolarmente restrittiva di quella regione (dove specialmente il protestantesimo è stato influente), dove pure, specialmente nella pittura, che è stata una delle sue manifestazioni artistiche più fiorenti, spesso si satireggiava la nascita di un figlio illegittimo, come in un celebre dipinto di Jan Steen, "La celebrazione della nascita", dove un ricco mercante fiammingo mostra colui che crede essere proprio figlio a parenti e amici, e alle sue spalle un personaggio fa l' inequivocabile segno delle corna. È interessante però notare dove e quando si verificò il picco della (comunque modesta) infedeltà. Questo si ebbe, così attesta lo studio, nell' Ottocento, soprattutto nelle città più densamente popolate e prospere a seguito della Rivoluzione industriale. D' altro canto, i rapporti extraconiugali sarebbero stati più frequenti non nelle classi agiate ma, al contrario, tra le famiglie di operai e in generale presso i più poveri. Così ad esempio il tasso di figli nati fuori dal matrimonio va da un insignificante 0,5 per cento presso le classi alte o i contadini che vivevano in zone rurali o città scarsamente abitate, mentre sale fino a un 5-6 percento qualora si prendano in esame le classi più basse residenti in città popolose. Gli studiosi non sanno dare una spiegazione certa a questi numeri, ma fanno alcune ipotesi: il fatto che le donne più povere fossero più facilmente soggette a violenze, le quali naturalmente non venivano denunciate (o se lo erano, non c' erano conseguenze per il perpetratore, che quindi poteva perseverare); il fatto che nelle città maggiormente popolate e dense di traffici ci fosse più "anonimità", e quindi un minore controllo sulle scappatelle extraconiugali rispetto, ad esempio, alla vita contadina dove tutti si conoscevano e una relazione segreta era impossibile da mantenere. E allora, quella del "figlio illegittimo" sarebbe una favola, un mito letterario? Maarten Larmuseau, coautore dello studio, ne è convinto. L' uomo europeo (perlomeno dell' Europa dei Paesi Bassi) sarebbe stato molto più fedele di quello che le arti ci hanno fatto credere, e le donne molto meno libertine. O perlomeno, quando si intrecciavano relazioni adulterine, si stava ben attenti a non generare prole o, forse, e questo lo studio non lo dice, a sbarazzarsene senza tanti complimenti cancellando poi ogni traccia del "frutto della colpa".
IL MIGLIOR AMICO DELLE DONNE. Oscar Grazioli per “il Giornale” il 9 settembre 2019. Immaginate una donna bruna e magra, probabilmente sulla cinquantina, in un campo di sgambamento per cani, che attira l' attenzione di un conoscente psicologo, il quale sta facendo fare due passi al suo Border Collie. Quando lui si avvicina lei farfuglia, un po' imbarazzata. «Sei uno psicologo, quindi forse potresti dirmi perché trovo più comodo dormire con Jake piuttosto che con Warren». Sulle prime lo psicologo non capisce, tanto più che non ricorda chi sono Jake e Warren. Oltre tutto è difficile che venga apostrofato in mezzo a un campo di sgambamento per cani ponendogli domande che riguardano la sfera sessuale delle persone. In effetti pare parecchio insolito. Pensa e ripensa, allo psicologo viene in mente che Warren è il marito, mentre Jake è il Labrador al guinzaglio accanto a lei. La donna, quasi inconsapevole della momentanea confusione dello psicologo, continua a raccontargli la sua storia: «Sai, il lavoro di Warren consiste nell' organizzare conferenze mediche, quindi è spesso fuori casa per due settimane o più, ogni volta. Quando è a casa, Jake non è ammesso sul letto ma dorme su un tappetino in un angolo della stanza. Quando invece Warren è via per lavoro, Jake dorme con me, sul letto. Amo mio marito, ma nondimeno tendo a sentirmi più a mio agio quando Jake è sul letto, e quando mi alzo la mattina mi sento più riposata come se la qualità del mio sonno fosse migliore di quando dormivo accanto Warren.
Francamente sono molto perplessa per questa faccenda. La ritieni normale?». Questo dialogo introduce un problema reale che coinvolge soprattutto il sesso femminile. In realtà, secondo una recente ricerca di un team di scienziati guidato da Christy Hoffman del Dipartimento di comportamento animale, ecologia e conservazione al Canisius College di Buffalo, New York, questa donna stava descrivendo una situazione comune. Il gruppo di ricerca di Hoffman si è proposto di esplorare gli impatti che gli animali domestici hanno sulla qualità del sonno umano. Per fare questo hanno condotto un sondaggio su Internet e raccolto dati da 962 donne adulte negli Stati Uniti. In questo particolare gruppo, hanno rilevato che il 55% delle donne nel campione condivideva i propri letti con almeno un cane e il 31% condivideva i propri letti con almeno un gatto. Il 57% delle intervistate ha anche segnalato la presenza contemporanea di un partner umano nel letto. Apparentemente, gli esseri umani e gli animali domestici competono per i «diritti di sonno» poiché le donne che condividevano il letto con un partner umano avevano meno probabilità di condividere il letto con un cane rispetto a quelle che non avevano un partner umano sotto alle coperte. Se ci concentriamo sulla percezione della qualità del sonno, da parte delle donne, coloro che hanno condiviso i loro letti con un cane hanno riportato un sonno significativamente migliore e più riposante. Hanno anche affermato che i loro cani avevano meno probabilità di interrompere il riposo rispetto ai loro partner umani. Utilizzando una scala che misurava il tono emotivo che avevano provato a letto, i ricercatori hanno scoperto che le donne si sentivano più a loro agio e più sicure quando dormivano con un cane rispetto a quando dormivano con un altro umano. Purtroppo per i gattofili, dall' indagine è emerso che quando il partner a quattro zampe è un gatto non si verifica la stessa situazione. Senza tanto girarci intorno hanno riferito che un gatto sul letto rompe le scatole tanto quanto un uomo. Questo però è spiegabile semplicemente per le diverse caratteristiche delle due specie. Il cane trascorre circa il 75% della notte a riposo nel letto, mentre il gatto, con il suo più alto livello di attività notturna, va dentro e fuori dal letto molte volte. Un po' come l' uomo con la prostata ingrossata di un famoso spot pubblicitario televisivo.
NEI SECOLI INFEDELE. Da Leggo il 9 settembre 2019. Da Elena di Troia a Novella 2000, dalle poesie di Catullo a Giovannona coscialunga, film cult della commedia sexy degli anni ‘70: un viaggio tra arte, letteratura e cultura pop per raccontare oltre duemila anni di infedeltà al femminile. L’idea è venuta a Gleeden, il più importante sito per gli incontri extraconiugali d’Europa con oltre 5 milioni e mezzo di iscritti, che, in occasione del suo decimo anniversario, inaugurerà il prossimo 23 settembre a Milano la mostra "Così fan tutte". L’infedeltà femminile dall’antichità a oggi, curata da Vittorio Sgarbi con la consulenza della storica dell’arte ed ex conservatrice del Musée d’Orsay Beatrice Avanzi. La mostra, che sarà presentata con una lectio magistralis di Vittorio Sgarbi il 24 settembre alle ore 18, vuole raccontare come l’infedeltà coniugale, in particolare quella femminile, faccia parte del tessuto storico della società occidentale sin dall’alba dei tempi e come ne abbia plasmato storia, costumi e cultura: attraverso installazioni, video e fotografie la mostra condurrà i visitatori in un vero e proprio viaggio interattivo dentro un tema controverso ma che da sempre ha ispirato poeti, scrittori e artisti di ogni epoca. “L’infedeltà femminile è uno dei grandi motori dell’arte e della letteratura - spiega Vittorio Sgarbi -L’Iliade, il più importante poema dell’antichità, inizia con una storia di tradimento; la Bibbia stessa, da Adamo ed Eva in poi, è una sequenza di infedeltà tra uomini e donne e tra gli uomini e Dio. Le pagine che tutti ricordiamo della Divina Commedia sono quelle in cui Dante incontra i due amanti Paolo e Francesca. L’erotismo è alla base di alcuni dei quadri più famosi della storia dell’arte, ma anche di molte opere liriche e letterarie, dalla sensuale Carmen alla tragica Madame Bovary. Insomma, l’infedeltà è da sempre una forza che scuote gli animi e determina le azioni di uomini e donne, in egual misura: l’infedeltà muove il mondo”. La mostra realizzata da Gleeden, si sviluppa attraverso un percorso cronologico che non trascura le figure delle grandi regine e nobildonne infedeli della storia (da Lucrezia Borgia a Maria Antonietta a Caterina II di Russia), le opere nate nel secolo dei libertini e le eroine romantiche di Flaubert e Tolstoj. Ampio spazio è dedicato alla cultura pop, con un omaggio a Sergio Martino, regista di alcune delle più famose commedie di genere italiane (due titoli su tutti: Giovannona coscialunga disonorata con onore e La moglie in vacanza, l’amante in città, entrambi con Edvige Fenech) e un’area dedicata all’infedeltà attraverso la lente dei settimanali gossip con il contributo di Roberto Alessi, direttore di Novella 2000 e autorità indiscussa nel campo delle corna VIP. Così fan tutte L’infedeltà femminile dall’antichità a oggi a cura di Vittorio Sgarbi
LA PARTE OSCURA DELL’AMORE. Giulia Ciarapica per “il Messaggero” il 9 settembre 2019. «Creo un bisogno perché lo so sentire (). Comincerà a capitarle di analizzare le persone e catalogarle o giudicarle partendo dal loro odore: il contrasto di puzzo e profumo rappresenta l'eterna competizione tra il bene e il male». È innegabile che un simile passaggio ricordi, seppur in modo vago, un romanzo come Il profumo di Süskind, e per certi aspetti l'ultimo lavoro di Camilla Baresani Gelosia, uscito per La nave di Teseo, è in grado di creare un collegamento tra la caratteristica principale del protagonista di Profumo, Grenouille, dotato di un olfatto sovrumano ma del tutto privo di un odore proprio, con il talento chiamiamolo così di Antonio Gargiulo, che con i profumi lavora e che in mezzo ai profumi in qualche modo ci vive, creando bisogni perché, appunto, li sa sentire. Quello della Baresani non è di certo un romanzo sugli odori, eppure delle fragranze più pungenti, e a tratti anche invasive, ne è impregnato. Antonio, anacaprese doc, è nel suo studio quando, dopo mesi in cui non si sentivano, riceve una chiamata da Sonia, la sua ex amante, che gli chiede di rivederlo per comunicargli un fatto importante. L'incontro, però, non si svolge come previsto, perché accade qualcosa che nessuno dei due aveva preventivato. Si apre così questa storia di intrecci e di gelosie, di piccole e grandi vendette e di amori consumati a metà, logorati dal tempo e dalla crisi, anche economica; una storia fatta soprattutto di incertezze, di dubbi e di convinzioni fragili, che crollano a volte ancor prima di nascere. Si apre così, quindi, una narrazione ad incastro, in cui si alternano, strutturalmente parlando, capitoli in cui al punto di vista di Antonio si sostituisce poi il punto di vista di Sonia e poi ancora quello di Bettina, moglie di Antonio, alle prese con un camping sul lago di Garda, donna incompleta, pervasa come pure Sonia, ma per motivi differenti da un perenne senso di colpa nei confronti della vita. E cosa c'entrano i profumi? Oltre agli odori che ogni personaggio sprigiona attraverso parole, discorsi, gesti e azioni a posteriori, ci sono le fragranze che Antonio pensa per i clienti: decide di gettarsi nel ramo delle «amenities» dopo avere scoperto che «spruzzando in un disco-bar essenze di acqua marina, menta e arancia, i clienti ballano più a lungo», dunque dopo aver intuito che con i profumi sapientemente miscelati in quelle boccette di shampoo, bagnoschiuma e creme varie che troviamo negli hotel si può creare un buon mercato di lavoro puntando sulle necessità di chi quei flaconcini poi vorrebbe portarseli a casa. Una piccola dipendenza da profumo, dunque, perché il profumo non è solo un criterio di distinzione tra il bene e il male, ma può essere foriero di ricordi, portavoce di una memoria come una madeleine proustiana, per intenderci e, allo stesso tempo, può diventare un elemento di descrizione e narrazione del presente: i profumi raccontano una persona, un luogo, un momento, e ne cristallizzano il ricordo. Immersi in queste fragranze avvolgenti e pericolose, i protagonisti di Gelosia si amano covando, ognuno a suo modo, una forma di gelosia che li porterà lontano: non alla scoperta di una qualche verità, ma in un viaggio alla scoperta dei loro limiti. Se Antonio è l'uomo forte che rassicura Bettina, che le concede il lusso di sentirsi amata e desiderata per come è lei che suo padre non l'ha mai conosciuto perché l'ha rifiutata prima ancora che nascesse dall'altra parte Sonia, afflitta dal senso di colpa per aver causato la morte accidentale della cugina, trova in Antonio, il suo capo (a cui darà sempre del lei anche mentre fanno l'amore), il punto di arrivo per un riscatto personale, come donna, amante e professionista. Camilla Baresani mette in scena una grande storia contemporanea, osservando da vicino la psicologia sottile e imprevedibile degli esseri umani, raccontando in modo magistrale l'esistenza confusa, e annodata nei drammi economici e sociali dell'Italia di oggi, di donne e uomini, femmine e maschi, che partono dalla crisi e alla crisi arrivano, palesando le proprie fragilità grazie a quel sentimento subdolo e potente chiamato gelosia. Che non è un'esplosione, un fiotto di rabbia, uno scoppio di dolore; è un cammino, a volte anche molto lento, che ci offre tutto il tempo di analizzare, comprendere, male interpretare e poi agire. Come accade sovente nelle storie della Howard, anche la Baresani in Gelosia si è spinta a narrare il territorio minato e indecifrabile dei sentimenti umani, e l'ha fatto con una penna così lucida, così limpida, semplice al punto tale che la pagina scorre sotto gli occhi senza che il lettore se ne renda quasi conto, da non lasciare scampo: senza colpo ferire, senza quasi accorgersene, si arriva ad un passo dal burrone e poi si cade giù. Come accade nei migliori romanzi.
· Gelosia, quando il tormento diventa una malattia.
La gelosia che viene da lontano, dall’antica Grecia rischia di rovinare i rapporti familiari e di amicizia. È senso comune che la gelosia sia un moto dell’animo diverso dalla invidia, tuttavia in alcune lingue le differenze si fanno sfumate e, del resto, i greci e i latini confusero spesso i due termini. Giorgio Villa il 26 giugno 2019 su Il Dubbio. È senso comune che la gelosia sia un moto dell’animo diverso dalla invidia, tuttavia in alcune lingue le differenze si fanno sfumate e, del resto, i greci e i latini confusero spesso i due termini. Etimologicamente la gelosia deriva dal greco zélos che significa zelo, ammirazione, vivo desiderio, invidia e gelosia. Gli zelòti costituirono una setta di irriducibili sostenitori della legge e della indipendenza ebraica. 960 zeloti si diedero la morte in occasione della caduta della fortezza di Masada nel 74 d. C.. Quindi la gelosia indicherebbe più propriamente il desiderio di conservare il possesso di un bene che ci appartiene e, al contempo l’avversione contro coloro che sospettiamo pretendano lo stesso bene. La psicologia spicciola ci suggerisce numerosi esempi di gelosia partendo dal fatto che è raro provare gelosia per un lontano parente, mentre è comune provarla per un fratello che si avverte, a torto o a ragione, aver ricevuto più cure e attenzioni dai genitori. Allo stesso modo possiamo essere gelosi delle nostre bellezze naturali e temere che i turisti ce le deturpino soprattutto se costoro sono francesi, tedeschi o slavi, mentre non abbiamo lo stesso timore verso, faccio per dire, gli uruguayani, gli eschimesi o i samoani. Voglio dire che la gelosia è spesso una questione fraterna e di vicinanza. Gli zii materni di mia moglie si contendevano l’attenzione della madre, la mitica nonna Argia. In occasione della festa per un suo compleanno Carletto, il maggiore, al momento del brindisi si esibì nella interpretazione della famosa canzone “Mamma son tanto felice” che aveva preparato da tempo. Attaccò con il lungo recitativo: “Mamma son tanto felice Perché ritorno da te. La mia canzone ti dice ch’è il più bel giorno per me. Mamma son tanto felice Viver lontano perché?” A questo punto fece una pausa, raccolse il fiato e per poter erompere nel possente: “Mamma, solo per te la mia canzone vola…” Ma Piero, fratello minore e rinomato trombettista nella banda del paese, lo precedette nell’assolo. Pare che si sia sfiorata la rissa. Una accezione particolare merita il vocabolo regionale gelosia indicante le persiane che si soleva tenere chiuse per nascondere le donne dagli sguardi indiscreti. Ovviamente questo termine è inconcepibile nel Nord Europa dove il concetto di privacy è tale per cui non è pensabile che ci si debba difendere dagli sguardi altrui. Ad esempio ad Amsterdam non ci sono praticamente tende alle finestre delle case private e gli abitanti circolano in totale deshabillé senza minimamente curarsi degli sguardi dei passanti che, in effetti, non ci fanno il minimo caso. L’invidia, parente dell’odio, è lo stato d’animo per cui ci si duole di un bene altrui. L’etimologia latina in-videre avrebbe due interpretazioni. Da una parte indicherebbe “guardare di mal occhio” con tutte le implicazioni magiche connesse a ciò ( ad esempio il classico malocchio). D’altra parte “in” verrebbe letto come “non”, cioè non vedere, stornare la vista dalla felicità altrui. In questo senso in slavo si esprime il concetto di odio con il termine niena-vidiri, letteralmente “non poter vedere”. Dante nel XIII canto del Purgatorio condanna gli invidiosi a stare appoggiati, immobili, lungo la ripa della seconda cornice con le ciglia cucite con del fil di ferro come gli sparvieri non ancora addestrati. Il Poeta avrebbe voluto indicare che l’invidia serra gli occhi dell’intelletto a chi ne è soggiogato. Vi è anche una accezione positiva della invidia che indicherebbe, in questo caso, il dolore per non poter attingere alla perfezione di un proprio modello e il desiderio di giungervi. Questo genere di invidia/ ammirazione ci può spingere, talora, alla emulazione dei nostri modelli. Personalmente penso di averla provata nei confronti dei miei fratelli maggiori dei quali ammiravo i successi scolastici che credevo per me inattingibili. Si conservava in casa un grosso quaderno, di quelli, per intendersi, con la copertina nera e i bordi delle pagine rossi sul quale nostra madre aveva trascritto i più bei temi dei miei fratelli. Ogni tanto, la sera dopo cena, i più belli venivano letti a tavola suscitando una generale ammirazione. Mi sembrava impossibile raggiungere la concinnitas di Beppe o l’ingegnosa espressività di Marco. Anche mia sorella ed io stesso avevamo ottimi voti e riscuotevamo dei successi, vincendo regolarmente premi e borse di studio, ma per noi non giunse mai l’ambito onore di essere registrati nel quadernone rosso-nero grazie alla meticolosa calligrafia della mamma. Probabilmente, con quattro figli da accudire, si era stancata. Nel tentativo di emulare i miei fratelli mi spinsi consapevolmente a cercare di imitarne, almeno, la calligrafia, come se questo esercizio potesse giovarmi nella ricerca del successo scolastico. Del resto ricordo alcune annotazioni della mia adorata maestra, la signora Lilia Lingua Valsecchi, che scriveva in calce ad alcuni miei temi: “Pensierini, buoni. Calligrafia, bestione!” Nel corso dei miei studi liceali, poi, ricorrevo spesso alla consultazione dei manuali che loro avevano studiato anni prima, sempre con il chiaro scopo di emularli. Quando decidemmo di propiziare l’arrivo del nostro primo figlio fummo accompagnati in questa attesa da un folto gruppo di amici che erano anch’essi in procinto di compiere la stessa scelta. Fra questi, tuttavia, una coppia espresse chiaramente, anche se in modo garbato, la propria disapprovazione. Per loro una coppia perfetta doveva bastare a se stessa e non “distrarsi” con le inevitabili beghe della genitorialità. Un mese prima della nascita del nostro bambino ci invitarono a cena cosa, peraltro, molto frequente all’epoca e naturalmente reciproca. Ci prepararono un menù insolitamente raffinato, servito su piatti preziosi di fine porcellana, e con posate d’argento e calici di cristallo. Mia moglie ed io ne fummo piacevolmente sorpresi anche perché non sapevamo che quella era una cena di addio. Dopo questa cena le telefonate di questi amici cessarono e garbatamente rifiutarono tutti i nostri inviti accampando le scuse più varie. Naturalmente non parteciparono per nulla alla nostra gioia per la nascita di nostro figlio Nicola. La cosa ancor più singolare era che io ero stato da loro scelto come medico di fiducia e, quindi, negli anni successivi venni da loro consultato più volte per questioni mediche. Tuttavia in occasione di questi incontri “professionali” non fecero il minimo cenno al nostro bambino, né alla nostra lunga consuetudine amicale fatta di interessi, viaggi e passioni comuni. Comprendemmo, non senza dolore, che una forte gelosia aveva impedito ai nostri amici non solo di gioire con noi, ma anche di continuare a frequentarci, quasi fossimo diventati dei reprobi. Tahar Ben Jalloun nel suo libro L’amicizia ( Einaudi, 1995) esprime qualcosa di analogo quando racconta che alcuni scrittori e poeti marocchini troncarono i rapporti con lui quando cominciò ad avere un meritato successo con le sue opere pubblicate dapprima in Francia e, poi, in tutto il mondo. Nei detti popolari si afferma spesso che “i figli portano ricchezza” e credo di confermarlo anche attraverso la mia esperienza: non si tratta, ovviamente, di ricchezza materiale in senso stretto quanto piuttosto di ricchezza emotiva e di allegria. La mia famiglia di origine con noi quattro figli era vista come una famiglia felice e, sotto sotto, invidiata nella cerchia dei parenti. Infatti quando tutti e quattro ci allontanammo da Lecco, la nostra città natale per seguire i nostri studi e le nostre carriere i nostri genitori ci confessarono, con un po’ di tristezza, che qualche parente e conoscente avesse commentato con loro questo fatto con una punta di sadica soddisfazione con frasi del tipo. “Avete visto che succede ad avere figli che vanno bene negli studi e che si laureano?”
Gelosia, quando il tormento diventa una malattia e rischia di rovinare le proprie relazioni. Pubblicato domenica, 19 maggio 2019 da Monica Virgili su Corriere.it. Per gli scienziati è un’emozione primaria. Per Shakespeare «un mostro con gli occhi verdi». E per tutte le persone che la vivono (o la subiscono) un tormento di cui farebbero volentieri a meno. Poche espressioni dell’animo umano sono state indagate come la gelosia, groviglio di pulsioni e sentimenti alla base di reazioni anche violente. Il saggio dello psichiatra americano Robert L. Leahy ne ipotizza la soluzione fin dal titolo: La cura della gelosia (Erickson ed.), e indaga cause ed effetti di quella che definisce un’emozione tragica, perché contiene un mix potenzialmente esplosivo di «amore intenso e paura intensa» che spingono ad azioni che a loro volta generano sensi di colpa, vergogna e alla fine anche qualche dubbio sulla propria sanità mentale. Difficile ammetterlo, ma chi non sperimenta tutta questa gamma di sensazioni dopo aver ceduto all’impulso di spiare il cellulare del partner, controllarne l’estratto conto o seguirlo per strada? I dizionari spiegano la gelosia con il «timore, il sospetto o la certezza di perdere la persona che si ama». Effetto collaterale inevitabile dell’amore, attiva nella nostra testa un meccanismo che Leahy spiega con la metafora della «mente gelosa»: una specie di pilota automatico prende il comando e dirotta i nostri pensieri e azioni. Se il percorso causa-effetto è semplice, più complesso è rispondere alla domanda: qual è il punto in cui il sentimento si trasforma in malattia? «Nell’elenco delle patologie psichiatriche non rientra la gelosia» riconosce Donatella Marazziti, docente a contratto del Dipartimento di psichiatria dell’Università di Pisa. «Ma quando eccede nell’intensità e nella persistenza da fenomeno normale diventa patologico, e si nasconde dentro “contenitori” che possono essere stati d’ansia o persino psicosi». Questione di dosi, insomma, perché se è del tutto normale avvertire una fitta quando percepiamo come minaccioso qualcosa o qualcuno, c’è da farsi qualche domanda se questa sensazione diventa un pensiero ossessivo e magari neanche giustificato dalle circostanze. Il difficile, anche per chi di mestiere indaga la mente, è interpretare i sintomi. «La sofferenza è sempre un segnale da non sottovalutare» spiega Marazziti, che ai meccanismi biologici dei disturbi dell’umore, d’ansia e dell’innamoramento ha dedicato molti studi. «Spesso le azioni dettate dalla gelosia si confondono con quelle legate ai disturbi dell’umore, agli stati depressivi o al comportamento ossessivo-compulsivo. Se si manifesta come delirio, rientra nelle psicosi». Niente di nuovo, già nell’Ottocento la forma delirante, che è spesso la molla di azioni violente, era stata descritta come «Sindrome di Otello». A pochi viene in mente di rivolgersi al medico per attenuare gli attacchi che rischiano di trasformarli in stalker e rovinano la vita di relazione. Un errore perché le cure in grado di dare sollievo ci sarebbero. «Non è usuale che un paziente dica “sono geloso”, di solito chi chiede aiuto è spinto da altri sintomi» conferma Marazziti. «Non c’è, ovviamente, una pillola per la gelosia ma curando il disturbo che la contiene, che sia ansia o depressione, anche questo sentimento si attenua». Il trattamento giusto dipende dalla situazione, se la psicoterapia aiuta nei casi più lievi e medi, quando il disturbo è grave è necessario intervenire farmacologicamente per riequilibrare il meccanismo della serotonina (il neurotrasmettitore responsabile tra l’altro del tono dell’umore). «Diversi studi hanno provato che nel cervello di un ansioso o di un geloso si attivano le stesse zone, si tratta di aree antichissime da “cervello del rettile”, che rispondono a meccanismi ancestrali come la paura, l’ansia» precisa Marazziti. «Indirettamente lo ha dimostrato anche la terapia contro il Parkinson, quando si danno farmaci dopaminergici in questi pazienti si scatenano deliri di gelosia». Il problema, dunque si risolve, anche se non è detto che sia sempre necessario. «La normalità non è non avvertire la gelosia, ma saperla gestire» ricorda Marazziti. In fondo, provare gelosia è molto diverso dall’agire con gelosia.
· Sesso animale.
I cani gay. DAGONEWS il 7 giugno 2019. Un nuovo documentario ha rivelato che è possibile che gli animali abbiano preferenze dello stesso sesso. In “My Gay Dog and Other Animals”, andato in onda su Channel 4, alcuni medici veterinari esperti di comportamento animale hanno decodificato le relazioni gay di alcuni cani i cui padroni sono certi abbiamo preferenze verso altri cagnolini dello stesso sesso. L’esperto Leon Towers ha messo alla prova le preferenze di un levriero, dopo che il proprietario Matt Tipper, 34 anni, Bath, ha rivelato che Franco preferisce il suo altro cane, Norman, a qualsiasi altra femmina. Anche davanti all’esperto Franco ha montato Norman e sembrava non aver alcun intenzione di mollare la sua “preda”. Nemmeno quando è entrata in scena una cagnolina in calore. «È il test finale per capire le tendenze sessuali» ha spiegato Leon. E infatti, mentre Norman ha deciso di abbandonare la sessione di sesso per seguire la femmina, Franco si è dimostrato completamente disinteressato continuando a seguire il suo amico a quattro zampe che lo aveva interrotto sul più bello. «È palese che Franco preferisce i cani maschi, mentre Norman è bisessuale». Ma non sono solo i cani maschi ad avere tendenze omosessuali. Anche due carlini femmine hanno dimostrato di avere un rapporto più intimo, infischiandosene del maschio che gironzolava a pochi metri da loro.
SESSO FLUIDO ANIMALE. ANCHE TRA IENE, CALAMARI E INSETTI CI SONO TRANSGENDER E TRAVESTITI, NON SIAMO GLI UNICI - ALCUNI ANIMALI SANNO CHE A VOLTE CONVIENE FINGERE O CAMBIARE DEL TUTTO PARROCCHIA. Il maschio della seppia plangon mostra alla femmina il suo vero aspetto maschile per sedurla, mentre al suo rivale esibisce colori femminili. Il clitoride delle femmine di iena è così gonfio da essere uno "pseudo-pene". Il pesce pappagallo invece è totalmente ermafrodita... Liz Langley per Nationalgeographic.it il 30 marzo 2019. Sono millenni che l'uomo si traveste da donna - si pensi al teatro dell'antica Grecia - e viceversa. Ma non siamo gli unici animali capaci di fingerci del genere opposto. Per esempio, il calamaro opalescente femmina può esibire per un attimo falsi testicoli per porre fine ad attenzioni maschili indesiderate (nella foto, due maschi di Doryteuthis opalescens con centinaia di uova al largo della California). Ammettiamolo: chi più, chi meno, tutti cambiamo a seconda della persona che abbiamo davanti. Certamente, però, non in modo così letterale quanto la seppia. Il maschio della seppia Sepia plangon mostra davvero un lato diverso di sé in base alla compagnia, specialmente se questa è mista. Uno studio della Macquarie University di Sydney ha scoperto che i maschi possono trasformarsi in modo da apparire femmine, ma solo da un lato. Quando si trova in mezzo tra un altro maschio e una femmina, il maschio mostra a quest'ultima il suo vero aspetto, maschile, per sedurla, mentre al suo rivale esibisce colori femminili. In questo modo il maschio rivale crederà di vedere due femmine, senza accorgersi del corteggiamento amoroso che si sta consumando sotto i suoi occhi.
Di tutti i rituali amorosi del mondo animale, il groviglio formato dai serpenti mentre si accoppiano è di certo uno di quelli che più lascia a bocca aperta, anche per le sue sembianze orgiastiche. A Manitoba, in Canada, che vanta la maggiore concentrazione al mondo di serpenti giarrettiera (nella foto), i maschi emergono lentamente dal letargo, storditi, dopo otto mesi trascorsi nella terra fredda. Per quanto addormentati, sono già protesi alla ricerca di femmine con cui accoppiarsi. In quello stesso momento, però, ci sono alcuni maschi che invece preferiscono fingersi femmine. Secondo i biologi questo comportamento è dovuto ad alcuni vantaggi di sopravvivenza di cui godono le femmine. Quando le femmine emergono dal letargo, vengono infatti ben presto assalite in massa dai pretendenti maschi; questo vale anche per i maschi che si fingono femmine. I serpenti che si trovano al centro dei grovigli che si formano nella fase dell'accoppiamento sono quindi più riparati dai predatori (i maschi intontiti sono facile preda degli uccelli). Inoltre tutto quel calore corporeo trasferito consente alle "finte femmine" di riscaldarsi più rapidamente e diventare presto più agili per poter avere più chance di non trasformarsi in un pasto.
Nel regno animale non sono, però, soltanto i maschi a mostrare caratteristiche del sesso opposto. Le femmine di iena maculata (nella foto) sono socialmente dominanti, più grandi e più aggressive dei maschi. Ma non è solo il loro comportamento a risultare mascolino: il loro clitoride è così gonfio che spesso viene definito come uno "pseudo-pene". È capace di erezione, e la femmina lo usa per accoppiarsi, urinare e partorire. Le femmine sono anche dotate di una struttura che sembra uno scroto. Distinguere un maschio da una femmina è quindi molto difficile anche da vicino. Esistono alcune teorie per spiegare lo pseudo-pene della iena femmina, ma non si è arrivati ancora a una spiegazione definitiva.
Ci sono alcuni animali che, piuttosto che fingere di cambiare genere, lo cambiano davvero. Il pesce pagliaccio, per esempio, nasce sempre maschio. Se la femmina muore, però, il maschio dominante può cambiare sesso e diventare femmina. A quel punto sarà un altro maschio a diventare il maschio dominante.
Il pesce pappagallo comincia invece la sua vita come maschio o femmina, ma possiede gli organi sessuali di entrambi i sessi. È un ermafrodita proteroginico, che significa che può trasformarsi da femmina a maschio. Alcune femmine diventano "supermaschi", cioè maschi più grandi e dotati di una colorazione particolarmente brillante.
Il pesce falco è il più "aperto": è stato dimostrato che può cambiare sesso in entrambe le direzioni, trasformandosi sia da femmina a maschio che da maschio a femmina. Si potrebbe dire che c'è qualcosa di poetico nel fatto che l'oceano ospiti una fluidità di genere così elegante. In questa foto un pesce falco vicino a una stella corona di spine che sta per mangiare un corallo in Messico.
La cimice dei pipistrelli africana deve il suo nome all'abitudine di succhiare il sangue dai pipistrelli (qualche volta lo fa anche dagli esseri umani). La cosa più interessante di questi insetti sono le strategie legate alla loro identità sessuale che hanno sviluppato per sopravvivere all'accoppiamento. Come le cimici da letto, anche queste cimici praticano l'"inseminazione traumatica", in cui i maschi trafiggono l'addome delle femmine con il pene, simile a un ago, iniettando lo sperma direttamente nel loro flusso sanguigno, in un processo che può nuocere alla femmina. Talvolta i maschi riservano questo trattamento anche a individui del loro stesso genere. Per tutelarsi le femmine hanno sviluppato paragenitali, un genitale a forma di imbuto che guida il pene all'interno di un'area con cellule immuni. I maschi, a loro volta, hanno sviluppato una propria versione di questi paragenitali. Allora le femmine hanno cominciato a imitare l'imitazione del maschio dei paragenitali femminili, che sembra essere ancora più efficace. Femmine che imitano maschi che imitano femmine... A sentirlo fa girare la testa, eppure deve avere un senso, visto che queste cimici continuano a riprodursi.
· La famiglia naturale animale.
«Fedeli per natura»: gli animali che prediligono la monogamia. Pubblicato martedì, 7 maggio 2019 su Corriere.it. Anche nel regno animale esistono specie che — spesso per esigenze riproduttive o di sopravvivenza (anche della prole) — mantengono relazioni stabili con il proprio partner. Bisogna distinguere — spiegano gli etologi — tra monogamia sociale (che riguarda la cura dei piccoli) e sessuale (che implica anche l’esclusività dell’accoppiamento). La monogamia è massima tra gli uccelli, mentre non è molto diffusa tra i mammiferi, come si legge in Elementi di ecologia di Robert e Thomas Smith. I più famosi «monogami» sono i cigni, tanto che l’immagine dei due esemplari con i colli intrecciati a formare un cuore è diventata il simbolo della passione per eccellenza. Come raccontava qui sul Corriere della Sera l'etologo Danilo Mainardi, «il cigno è monogamo e tutto di lui lo dice: non c’è alcun dimorfismo sessuale, cioè mancano caratteri distintivi fra i sessi, come di regola accade nelle specie che formano coppie stabili, per la vita. Non servono effetti speciali, come ad esempio al pavone con la sua ruota, quando hai garantito per la vita il tuo partner al fianco. Il cigno è così: maschio e femmina non si distinguono. Ma merita davvero di essere simbolo di fedeltà coniugale? Le ricerche dicono il contrario. Sono fedifraghi i cigni. Lo dicono le analisi del dna fatte da ricercatori che hanno rivelato nelle nidiate numerosi figli illegittimi, frutto di segreti convegni extraconiugali. Come si spiega? Il patto monogamico è conveniente per allevare la prole, ma un pizzico di infedeltà fa bene a entrambi e anche alla specie».
Elogio delle famiglie naturali. Pubblicato giovedì, 28 marzo 2019 da Corriere.it. Qui vogliamo tessere le lodi della famiglia naturale. Per esempio, quella degli elefanti, tra gli animali più intelligenti del creato. I gruppi familiari sono composti da femmine. I maschi vivono per conto loro. A dirla tutta non sono neanche tanto socievoli. Le femmine lo sono e ogni tanto si concedono un’escursione in un gruppo di maschi, nel quale sono accolte piuttosto bene. Poi se ne tornano a casa. I maschi vivono tra loro, quando vogliono accoppiarsi si allontanano, fanno quanto hanno in mente di fare e poi via di nuovo. I piccoli non sono affare loro. Ma ogni nuovo nato è accudito da tutto il branco. Non oseremmo definirla una famiglia allargata. Ma solo per eccesso di femmine.
Ci sono poi i suricati, che sono manguste pensate dalla natura per i cartoni animati e hanno una regina, un po’ come le api (ma le api sono molto piccole e assomigliano poco agli uomini per cui non ce ne occupiamo). Le aspiranti regine non sono gentili. Lottano con le unghie e con i denti per il potere. Una volta ottenuto il titolo, la vincitrice regna incontrastata sul gruppo. È la prima a uscire dalla tana e decide dove si va a caccia. Ha un marito, che serve a fare figli. No, anzi, a fare cuccioli serve la regina: l’80% dei piccoli sono figli suoi. Poiché non è bene che la regina faccia anche da balia, se ne occupano le zie e il resto della gang, una ventina di individui in tutto. Quando li si guarda tutti in piedi a scrutare preoccupati l’orizzonte in effetti si può pensare che siano zii perfino iperprotettivi.
Cuccioli di canguro. I canguri vivono in gruppi che si chiamano mobs. Cioè sono gli esseri umani che hanno deciso che le formazioni in cui si organizzano i vari tipi di canguri si chiamano mobs. Contano da due a un centinaio di membri: uno è il maschio dominante, gli altri sono femmine adulti e piccoli di entrambi i sessi. E gli altri maschi adulti? Creano problemi, nel senso che tentano di continuo di accoppiarsi con le femmine e far fuori il maschio dominante. Ci riescono spesso: il boss ha in genere vita breve, anche solo un anno. Dopodiché gli altri maschi lo cacciano dal mob e per lui finisce male. Le femmine no: vanno d’accordo fra di loro e trovano i cuccioli simpatici.
Bonobo. Questa struttura ad harem si ritrova spesso anche tra i nostri parenti più stretti, le grandi scimmie (le piccole fanno caso a sé). Ma anche loro sono piuttosto fantasiose nelle combinazioni familiari, al punto che i bonobo, ormai celebri per la loro allegra disposizione a far l’amore anziché la guerra, vivono in una società matriarcale. Qualcuno dice che lo abbiano fatto, in un passato remoto, anche gli esseri umani. Ma sono ovviamente illazioni e le rare tribù umane che ancora praticano questo sistema sono in via d’estinzione. Comunque da qualche tempo c’è chi si rammarica che sembriamo (noi umani) assomigliare più agli scimpanzé, aggressivi e patriarcali, che ai bonobo, piuttosto pacifici (non del tutto, ovvio) e matriarcali. La colpa pare sia del fiume Congo che, circa un milione di anni fa cambiò il suo corso e divise le due specie che, non sapendo nuotare, non si sono più scambiate visite e materiale genetico.
Orsi polari. A noi piacciono le famiglie naturali ma in effetti dobbiamo ammettere che gli orsi polari sono davvero orsi (in senso di carattere): il maschio, quand’è nella giusta disposizione, annusa la femmina a distanza di chilometri e, quando la scova, si comporta da vero tenerone. I due si annusano, rotolano, strofinano, giocano per ore. Dopodiché avviene il miracolo, nel senso che l’ovulo fertilizzato s’impianta nell’utero della femmina a distanza di mesi dall’accoppiamento, generalmente in autunno. Così i cuccioli nascono al caldo. Senza poter mai sapere chi è il loro papà, che da quella volta delle capriole non si è più visto.
Un pinguino imperatore con il pulcino. Ci confortano di più i pinguini imperatori che hanno trovato un metodo ingegnoso quanto faticosissimo di restare sempre insieme: fatto l’uovo, la femmina lo affida al maschio che lo cova. Lei, con il pretesto di andare a cercare cibo, sparisce per mesi. Torna, ma non si fa festa a lungo, perché a questo punto a partire è il maschio. E si sa come finiscono queste faccende. Però se l’anno successivo i due hanno la fortuna di rincontrarsi tra milioni di pinguini, rifanno tutto da capo.
L’antechino è senza dubbio un modello di riferimento per molti maschi della nostra specie. Ma a lui va a finire male. Sarebbe un marsupiale, come il canguro, ma sembra un topo e già questo è un indizio. Quando arriva verso i 12 mesi di età, il maschio scopre l’amore. A questo punto si accoppia freneticamente con tutte le femmine disponibili che incontra. Fino a quando, devastato da tanta attività sessuale, non muore, ucciso dal troppo testosterone e dallo sforzo. Le femmine, immaginiamo sbigottite ma sollevate, possono invece vivere due o tre anni.
Un quoll. La stessa pessima abitudine di morire dopo gli accoppiamenti appartiene ai quoll, che non sono creature mitologiche, o almeno non lo sono più di tanto (rischiano di estinguersi). Sono una via di mezzo tra un topo e un gatto e sono a pois. Fra l’altro, il maschio muore sfinito dopo il tour sessuale, le femmine fanno fino a 20 piccoli ma poiché hanno soltanto sei mammelle, i cuccioli che scalciano meglio i fratellini sopravvivono. Gli altri muoiono. Non li prendiamo a esempio né per il concetto di “fraternità”, né, ahimè, per quello di sorellanza. Gli uomini, si sa, appartengono tutti alla stessa razza, per cui devono essere le deviazioni dei corsi dei fiumi e altri accidenti climatici ad aver creato tanta varietà nelle loro famiglie naturali. Che però a noi non piacciono tutte e questo è abbastanza in contraddizione con il nostro amore per le famiglie naturali delle altre specie. Della poligamia, per esempio, non apprezziamo alcune caratteristiche, tipo la mancanza di reciprocità. Della rara poliandria ci insospettisce il carico di lavoro domestico per la prescelta. In ogni caso va sottolineato che, nel corso dei secoli, alle donne non è andata granché.
Gli ateniesi hanno inventato la democrazia ma avevano un concetto articolato e poco democratico di amore e famiglia. E si sarebbero davvero stupiti del fatto che noi giudichiamo non “naturale” la pederastia, ossia l’amore per gli adolescenti, soprattutto dello stesso sesso, tanto quanto ci guardano stupiti i popoli che praticano la pedofilia, dando in mogli bambine di dieci anni a uomini di quaranta, che di mogli ne hanno già un po’. In Yemen non è prevista un’età minima per il matrimonio. Ma ovviamente tutti sanno che nell’antica Roma le bambine venivano consegnate ai mariti verso i 12 anni e che alcune lapidi segnalano di spose (morte) più giovani. E queste sono le nostre radici.
Lo stesso accadeva in Palestina, anche se lì si sono verificati anche fenomeni straordinari. Non così rari, a dirla tutta: Rea Silvia, si dice, aveva avuto i suoi gemelli, Romolo e Remo, dal dio Marte; Olimpiade, la madre di Alessandro Magno, sosteneva di essere stata messa incinta da Zeus. Valeva anche il contrario: Enea, l’eroe troiano, nacque dall’amore tra il padre umano, Anchise, e la dea Afrodite. Giulio Cesare e Ottaviano Augusto, che ne era nipote e figlio adottivo, facevano parecchio affidamento su questa parentela divina. D’altra parte, i romani dimostrarono una notevole fantasia in quanto a combinazioni familiari: per esempio, Catone Uticense e Ortensio il retore erano molto amici. Al punto che Ortensio voleva imparentarsi con Catone. Poiché l’omosessualità era diffusa ma non poteva sfociare nel matrimonio che, per i romani, aveva sostanzialmente obiettivi riproduttivi, Ortensio chiese a Catone di dargli in sposa la figlia Porzia, che però era sposata.
Poco male, direte: a Roma c’era il divorzio. Già, ma Porzia non volle e Catone, pur potendo, non insistette. In altri casi insistettero i padri e pure i mariti: Augusto sposò Livia, “ceduta” dal marito Tiberio Claudio Nerone, subito dopo il parto di lei e quello della moglie di Augusto stesso, Scribonia. In ogni caso la storia di Catone e Ortensio finì in modo davvero naturale: Catone cedette temporaneamente la moglie Marzia che, nel 56 a.C. andò in sposa ad Ortensio, allora 60enne, e gli diede due figli. Dopo sei anni, Ortensio morì e Catone riprese Marzia. Ditemi se questo non è un bell’esempio di concordia tra maschi. Già, Marzia non pare sia stata consultata. Ma anche ciò è stato a lungo considerato “naturale”. E questo è il motivo per cui, a pensarci bene, la parola “naturale” ci sembra troppo variabile nel tempo e nello spazio per costituire una certezza. E questo anche al netto delle mutazioni climatiche che, per esempio, inducono da millenni fenomeni naturali come le migrazioni.
A tanta naturalità però, dobbiamo ammetterlo, le donne hanno spesso replicato con altrettanto naturale ironia: nel suo testamento Giulia Farnese (1475-1524) lasciò al fratello un letto matrimoniale, materassi e pezzi di biancheria varia. Perché era stato grazie al letto, ovvero alla sua relazione con Rodrigo Borgia, cardinale e poi papa, che suo fratello Alessandro era stato fatto cardinale. Il papa aveva diversi figli, si sa, ma si preoccupò molto per loro, anche se erano illegittimi. E questo è molto naturale. Si dice che fu cattivo, ma i figli sono figli e questo, soprattutto in Italia, fa passare per naturali anche cose che sarebbero proibite. Adesso sembra che pesco nel torbido, ma per capirci: papa Sergio III (che regnò dal 904 al 911) ebbe un figlio dall’intraprendente Marozia, che era già sposata. E il ragazzo, più tardi, divenne papa con il nome di Giovanni XI. Recitava l’epitaffio di Sergio, sulla sua tomba nella Basilica lateranense: «Ciascuno si avvicini al sepolcro degno di rispetto del beato papa… il pastore ama tutto il suo gregge nel contempo…». L’amore, sembra lasciar intuire questa scritta, è grande e ha tante forme. Lui sì, l’amore, è naturale.
· Il Sonno è femmina.
IL SONNO È FEMMINA. Viviana Persiani per “Libero Quotidiano” il 19 aprile 2019. Anche la scienza attesta quello che, quotidianamente, è sotto gli occhi di ogni donna. Noi femmine tendiamo ad usare il cervello più dei maschi e, quindi, per recuperare, necessitiamo di dormire più tempo di loro. Secondo Jim Horne, neuroscienziato e direttore del Centro di ricerca sul sonno dell' università di Loughborough (Regno Unito), lo scarto tra i due sessi dovrebbe essere di 20 minuti. In pratica, noi signore, rispetto al cosiddetto sesso forte, abbiamo un innato multitasking, sappiamo affrontare più impegni contemporaneamente, passiamo da un' attività all' altra senza colpo ferire, siamo in grado di districarci meglio tra imprevisti e difficoltà. Chiaro che, poi, quando tocchiamo il letto, siamo sfinite, abbiamo bisogno di ricaricare le pile. Oddio, anche il divano non è male. Di solito, lui arriva bello riposato dalla giornata lavorativa, magari ci ha infilato pure la palestra e si stravacca davanti al televisore proponendoti di vedere film dalla durata infinita, che, al confronto, i 220 minuti de I Dieci Comandamenti sembrano un cortometraggio. E tu, che già ti trascini modello zombie verso le 22.30, dopo aver finito di svuotare la lavatrice, steso i panni, preparato i vestiti per l' indomani per tutta la famiglia, messo su il sugo, pensato al menu del giorno successivo, ti accasci sulla seduta in pelle con il cervello già abbandonato nelle braccia di Morfeo. «Vediamo La corazzata Potëmkin?». Domanda retorica, la sua, perché il telecomando è saldamente nelle sue mani, neanche fosse lo scettro del Trono di Spade, già puntato sul canale Cinema. E tu che, magari, avresti voglia di un Grande Fratello, giusto per mettere la testa in modalità stand-by, ti devi sorbire il film in lingua originale con sottotitoli, «perché così si gusta meglio». Logico che non fanno in tempo a passare tutti i titoli di testa che tu già stai ronfando sonoramente. «Ma dormi già?», chiede lui, e tu vorresti dire «Ma fatti gli affari tuoi...», ma con pazienza francescana, invece, gli sussurri «Riposo gli occhi», che è il modo politicamente corretto di dire «Sto dormendo della grossa». E, quando, dopo aver spento la tv, si va finalmente a letto, lui ti guarda e ti chiede, con fare ingenuo, «Dormi già?». «No, mi preparo per andare in discoteca a ballare il Tuca Tuca» vorresti urlargli, ma, candida come Santa Chiara, gli sussurri «Sì, sono stanca». E per fortuna il suo «Come mai?», rimane lettera morta perché già stiamo dormendo. Per modo di dire, perché noi donne, è sempre la scienza a dimostrarlo, abbiamo il sonno più fragile di quello dell' uomo, facilmente suggestionabile dai rumori e, soprattutto, in allerta h 24 per le esigenze della famiglia. Siamo sempre sul chi va là, con l' orecchio vigile. Mica come lui che, spenta la luce, inizia ad esibirsi nella Sinfonia in Do maggiore, Opera 23, per russata nasale. E così, la nostra necessità di dormire di più va a farsi benedire. Non a caso, l' insonnia è diffusa soprattutto tra le donne. Il che implica, in alcuni casi, anche ansia e depressione. Eppure, la mattina dopo, ci alziamo come se nulla fosse, pronte a ripartire per un' altra giornata dove, come Gustav Thöni, dovremo guizzare tra i mille paletti dei nostri impegni. E mentre voi avete già vestito i figli, preparato la colazione, spazzato per terra, lui, in pigiama, esclama: «Ho dormito poco stanotte», dando vita al primo vaffa di giornata.
· I Rapporti Gay in politica.
GLI AMORI ETERO NON FANNO STORIA NELLA DC. BEN PIÙ IMPORTANTI SONO I RAPPORTI GAY. Repubblica.it il 15 ottobre 2019. - Il leader Fiorentino Sullo, classe 1921, fu uno dei leader della sinistra Dc. Nato a Paternopoli, nell’Avellinese, fu eletto alla Costituente. Poi parlamentare per 6 legislature consecutive, fino al 1976, quando - passato al Psdi dopo la rottura con la sua Dc - non si ripresentò. Nel 1979 tornò alla Camera, poi il rientro nella Dc dove il suo delfino, Ciriaco De Mita, lo aveva sostituito come capocorrente irpino. Nel 1983 l’ultima elezione alla Camera. Tra i suoi incarichi ministeriali, i Trasporti nel governo Tambroni da cui si dimise per il sostegno Msi all’esecutivo. È morto nel 2000. Ma gli amori etero non fanno storia nella Dc. Ben più importanti sono i rapporti gay. Emilio Colombo proprio per questo non sarà mai candidato alla presidenza della Repubblica, pur avendo le carte in regole per aspirare alla carica. Nessuno, mai, si incaricherà di opporsi alla sua candidatura, semplicemente nessuno, mai, lo candiderà (la Dc era così, per chi non se lo ricordasse). Emilio Colombo, Mariano Rumor e Fiorentino Sullo erano soprannominati le “Sorelle Bandiera” e neanche tanto riservatamente, se in un famoso congresso Dc i delegati hanno apertamente applaudito alle “Sorelle Bandiera”. Il vicentino Mariano Rumor arriva a fare il Presidente del consiglio e si narra che nel suo studio privato romano avesse un balcone con una splendida vista sulla città e che invitasse i giovani virgulti ad affacciarsi per poterne poi contemplare le forme. Fiorentino Sullo, originario della provincia di Avellino, diventa più volte ministro, ma l'ostracismo di Amintore Fanfani verso di lui si fa talmente forte che abbandona la Dc per passare al Psdi. Ma la censura è continuata almeno fino agli anni ‘70. Le uniche pubblicazioni che parlavano regolarmente del tema erano testate di destra, segnatamente “Il Borghese" e "Lo specchio", che quasi ad ogni numero sceglievano un omosessuale che fosse anche una figura pubblica e lo massacravano. Successe a Fiorentino Sullo, ministro Dc che fu costretto a sposarsi... per poi scoprire che il matrimonio combinato era una trappola mediatica, grazie alla quale "Il Borghese" – insufflato dai colleghi di partito dello stesso Sullo – lo fece a pezzi. Il deputato Fiorentino Sullo è oggetto, tra il 1960 e il 1964, di una violenta campagna a stampa che insinua o addirittura afferma apertamente la sua omosessualità, cosa all'epoca quasi inaudita. Gianna Preda, nei suoi Appunti proibiti del 12 maggio 1960 su "Il Borghese" scrive: « "Ho rivisto il basista Fiorentino Sullo, dopo le sue dimissioni. Aveva ritrovato la consueta scontentezza che però, nel suo viso di latte e di rose, non riesce mai a sembrare ribellione. Soltanto per un attimo ho visto ravvivarsi quel volto corrucciato. E' accaduto quando l'autista, un giovanotto bruno e piacente, gli si è avvicinato chiamandolo confidenzialmente per nome. In quel momento, notai che gli occhi di Sullo brillavano, teneri e vivi. Rievocando quel fuggevole episodio, provo ancora oggi un senso di imbarazzo: come se fossi stata testimone di qualcosa che non avrei dovuto vedere»". » Per Emiliano Di Marco la campagna era "basata su un vecchio dossieraggio del SIFAR che risaliva al periodo in cui (Sullo, ndr.) era stato Ministro dei Trasporti del governo Tambroni, nel 1960".
Le sorelle Bandiera. Da Mussolini alla Dc, il sesso ai tempi del potere. L'Inkiesta 22 maggio 2011. Il sesso compulsivo dei potenti non è certo una novità: la storia rigurgita di personaggi che badano solo alla quantità, che praticano un sesso onanistico mirato all'autosoddisfazione e che non ha alcun riguardo per la donna in quel momento coinvolta. Una contessa veneziana racconta di esser stata un sera portata (consenziente) nella stanza occupata in quel momento da Napoleone Bonaparte, al tempo semplice generale, che aveva appena messo fine alla millenaria storia della Serenissima. Bonaparte è assiso alla sua scrivania, quando la donna entra nemmeno si volta, le dice di spogliarsi e sistemarsi nel letto, cosa che la tapina fa. A un certo punto il generale corso si alza, si congiunge per un tempo brevissimo (minuti? Più probabilmente secondi) con la contessa, si riassetta, si rimette alla scrivania e invita la nobildonna a rivestirsi e a levarsi dai piedi. La scena si ripeteva più o meno ogni sera. Un vero e proprio malato di sesso è Vittorio Emanuele II. Non passa giorno senza che il primo re d'Italia grugnisca in piemontese di portargli una donna, cosa che gli efficienti servizi di sicurezza di Casa Savoia fanno. Gli consegnano una donna purchessia con la quale re Vittorio ha un velocissimo rapporto e poi, saziato all'istante, la paga e la manda via. Ma chi fa giungere al parossismo questo tipo di bulimia sessuale è Benito Mussolini. Come andassero le cose lo spiega Mimmo Franzinelli, storico del fascismo, a Gorizia per èStoria, che ha curato l'edizione dei diari di Claretta Petacci 1939-40 appena uscita con Rizzoli. «La novità di Mussolini – spiega – è il culto della personalità. Non aveva bisogno che la polizia segreta gli procurasse le donne, perché gli si offrivano spontaneamente. L'Archivio centrale dello Stato, a Roma, conserva una quantità di lettere di femmine in delirio che gli chiedono un incontro». A gestire il traffico è il segretario del duce, Quinto Navarra, che conoscendo gusti e attitudini del capo sceglie tra le lettere le donne che più si avvicinino alle sue esigenze. Gli incontri avvenivano a Palazzo Venezia, spesso truccati da udienze. Le donne venivano introdotte nell'ufficio del capo del governo, dove veniva consumato un rapporto di natura conigliesca sulla scrivania, sul tappeto, sul divano. In questo modo Mussolini vedeva rassicurata la sua mascolinità con donne che non avrebbe mai più rivisto. E cambia anche il rapporto delle donne con lui: sono soddisfatte di esser state toccate, di averlo visto da vicino, di aver subito una sorta di imposizione taumaturgica da parte del maschio più maschio d'Italia. Erano donne di tutte le classi sociali, dalla popolana alla principessa, in deliquio per aver soddisfatto le voglie del simbolo della virilità. Tutto ciò accadeva mentre Mussolini aveva Claretta Petacci come amante e Rachele come moglie. «Nemmeno una donna giovane e desiderabile come la Petacci lo soddisfaceva», sottolinea Franzinelli. In compenso non disdegnava di prendersi ulteriori extra, come la giornalista francese (e spia tedesca) Magda de Fontanges che, ammaliata dal maschio latino, gli si concede durante un'intervista. La Petacci è gelosissima, nonostante questo (o forse proprio per questo) Mussolini la informa regolarmente delle altre, facendola infuriare. Claretta scrive nei suoi diari che Mussolini continua ad avere rapporti, seppur molto diradati, con Rachele. La moglie ogni tanto lo cerca, imponendogli di adempiere ai doveri coniugali e lui si concede purché lei si levi di torno e lo lasci in pace. «Avevano anche un gergo», osserva Franzinelli, «Mussolini diceva alla Petacci: “Oggi ho pagato il tributo”, lei capiva, lo insultava, piangeva, si disperava perché lo voleva tutto per lei». Nel dopoguerra, con i democristiani cambia tutto. Nelle zone più bianche, tipo Veneto, se un politico diccì si fa l'amante viene convocato in Curia e il vescovo in persona gli impone di tornare all'ovile. Questo testimonia due cose: che si stava ben attenti alla non ricattabilità dei politici e che i veri capi della Dc erano i vescovi. C'erano eccezioni, naturalmente: Mario Scelba ha per amante una signora romana dalla quale ha avuto anche una figlia segreta. Ma quando il “ministro di polizia” non è più in posizione tale da poter far saltare qualche testa e si oppone al neonato centrosinistra, si vede recapitare in busta chiusa una foto di lui con l'amante al tavolini di un bar. Sono i servizi segreti: gli vogliono far capire che sanno e che è meglio se ne stia buono. Ma gli amori etero non fanno storia nella Dc. Ben più importanti sono i rapporti gay. Emilio Colombo proprio per questo non sarà mai candidato alla presidenza della Repubblica, pur avendo le carte in regole per aspirare alla carica. Nessuno, mai, si incaricherà di opporsi alla sua candidatura, semplicemente nessuno, mai, lo candiderà (la Dc era così, per chi non se lo ricordasse). Emilio Colombo, Mariano Rumor e Fiorentino Sullo erano soprannominati le “Sorelle Bandiera” e neanche tanto riservatamente, se in un famoso congresso Dc i delegati hanno apertamente applaudito alle “Sorelle Bandiera”. Il vicentino Mariano Rumor arriva a fare il Presidente del consiglio e si narra che nel suo studio privato romano avesse un balcone con una splendida vista sulla città e che invitasse i giovani virgulti ad affacciarsi per poterne poi contemplare le forme. Fiorentino Sullo, originario della provincia di Avellino, diventa più volte ministro, ma l'ostracismo di Amintore Fanfani verso di lui si fa talmente forte che abbandona la Dc per passare al Psdi. Ormai da qualche anno non è più un segreto che Bettino Craxi abbia a lungo avuto per amante Ania Pieroni, un'attrice romana, e che abbia avuto una più breve relazione con la pornostar Moana Pozzi. Ben più misteriosa è invece la storia di un politico della Seconda repubblica che avrebbe avuto una crisi dovuta a un'overdose di Viagra durante un rapporto con una show girl.
Felice chi è diverso. Regia: Amelio Gianni. Soggetto e sceneggiatura: Gianni Amelio; fotografia: Luan Amelio; montaggio: Cecilia Pagliarani; interpreti: Giorgio Bongiovanni, Nicola Calì, Francesco Cocola, Pieralberto Marchesini, Roberto Pagliero, Claudio Mori, Alba Montori, Aldo Sebastiani, Corrado Levi, Ciro Cascina, Agostino Raff, Ninetto Davoli, John Francis Lane, Fernando Nigiro, Mosè Bottazzi, Paolo Poli, Lucy Salani, Roberto David, Glauco Bettera; produzione: Istituto Luce Cinecittà, Rai Cinema, in collaborazione con Cubovision di Telecom Italia; distribuzione: Istituto Luce Cinecittà; origine: Italia, 2014; durata: 93’.
Trama: Viaggio in un'Italia segreta, raramente svelata dalle cineprese: l’Italia del mondo omosessuale così com’è stato vissuto nel Novecento, dai primi del secolo agli anni ‘80, quando si sono diffusi sulla scia di certi movimenti americani, i primi tentativi di “liberazione”.
Critica Alberto Crespi, l’Unità, 11/2/2014): (…) Felice chi è diverso, nuovo lavoro di Gianni Amelio, (…) parla di un tema importante come l'omosessualità, e lo fa in modo al tempo stesso spietato e tenero: spietato nei confronti di tutti coloro che dal fascismo in poi hanno demonizzato gli omosessuali richiudendoli in un ghetto culturale ed esistenziale, chiamandoli di volta in volta «invertiti», «capovolti», «finocchi»; tenero per lo sguardo solidale con cui dà la parola a 19 persone, di cui solo due o tre famose o relativamente note, che raccontano la propria esperienza. Di queste persone, 18 sono anziane, raccontano un'Italia in cui ci si doveva nascondere, fingere un «machismo» che non c'era, rifugiarsi nel matrimonio di facciata e nel segreto; l'ultimo è un ragazzo bello e coraggioso, che costruisce un ponte verso un futuro – si spera – migliore. Il titolo viene da una poesia di Sandro Penna: «Felice chi è diverso essendo egli diverso / ma guai a chi è diverso essendo egli comune». La legge, nel film, Paolo Poli: ed è obbligatorio spendere due parole su questo uomo stupendo, che racconta un'omosessualità serenamente accettata e, quasi, «aiutata» da un padre incredibile, che non ha mai trattato Paolo e sua sorella Lucia con nemmeno un grammo di rifiuto o di condiscendenza. Poli incarna letteralmente, nel film, il primo dei due versi di Penna. Quasi tutti gli altri intervistati, purtroppo, si riconoscono loro malgrado nel secondo: i disperati tentativi di essere insieme «diversi» e «comuni», di cercare un'accettazione salvando le apparenze, provocano inevitabilmente storie dolorose. Uno di loro, addirittura, arriva a dire: «Ho superato la mia disgrazia "grazie" a una disgrazia ancora peggiore: essendo orfano non ho mai dovuto confessare a mio padre e a mia madre di essere omosessuale». (…) Partiamo dall'idea del film, e dagli straordinari spezzoni dl repertorio che hai ritrovato. «L'idea è molto lineare: un resoconto su come l'omosessualità è stata vista dai media italiani nel ‘900, alternato alle parole di alcuni omosessuali che raccontano se stessi. Per il repertorio è stato decisivo l'aiuto di Francesco Costabile, un diplomato del CSC, assieme al quale ho avuto una sorpresa negativa: c'è pochissimo materiale disponibile. Me l'aspettavo negli anni del fascismo, quando l'ordine del silenzio arrivava dall'alto. Ma la censura è continuata almeno fino agli anni ‘70. Le uniche pubblicazioni che parlavano regolarmente del tema erano testate di destra, segnatamente “Il Borghese" e "Lo specchio", che quasi ad ogni numero sceglievano un omosessuale che fosse anche una figura pubblica e lo massacravano. Successe a Fiorentino Sullo, ministro Dc che fu costretto a sposarsi... per poi scoprire che il matrimonio combinato era una trappola mediatica, grazie alla quale "Il Borghese" – insufflato dai colleghi di partito dello stesso Sullo – lo fece a pezzi. Ritagli di stampa, comunque, pochi; spezzoni tv ancora meno. Per la Rai degli anni ‘50 e ‘60 era un argomento tabù. Due brani Rai inclusi nel film, uno sketch di Raimondo Vianello e una confessione amara di Umberto Bindi, in realtà non andarono in onda. Furono censurati. Al cinema si comincia a parlarne negli anni '60. Allora era molto popolare il sarto Schuberth, e nei film italiani c'erano spesso piccoli ruoli di sarti effeminati».
Veniamo agli intervistati. Molti di loro rifiutano la definizione di «gay». «Non piace neanche a me, poi vedremo perché. Fra coloro che oggi viaggiano intorno agli 80 anni c'è un pensiero diffuso che potrei semplificare così: si stava meglio quando si stava peggio. Non esporsi era più protettivo, favoriva un'attività sessuale proibita ma intensa. Sono quelli che Paolo Poli definisce i rapporti "alla cosacca", dietro un portone, senza che nessuno sapesse e vedesse. Secondo me chi pensa questo parla di omosessualità ma non di omoaffettività, che è la parola chiave. Prima ancora dell'orgoglio gay, prima del matrimonio fra omosessuali, dovrebbe essere ribadita ad alta voce la possibilità di amare e di essere amati. La parola "gay", dicevamo: la trovo ingiusta perché cementifica una diversità che deve rimanere tale, perché tutti – etero, omo, lesbiche – siamo individui diversi gli uni dagli altri. Sì, "gay" ha azzerato la sfumatura di insulto che c'era in altre parole, come "frocio" e simili. Però ha fatto di ogni erba un fascio, cancellando le individualità. Sandro Penna, sentendo parlare di "gay", si rivolterebbe nella tomba. Come Pasolini, credo. Per capire cosa significa questa parola mi piace ricordare una barzelletta napoletana: un figlio va dal padre e gli dice, papà, sono gay. E il padre comincia a chiedergli: ma ce l'hai un bel lavoro? Ce l'hai una bella macchina? Hai dei bei vestiti? Hai un attico a Posillipo? Il figlio risponde sempre no, e il padre conclude: allora, figlio mio, non sei gay, si' solo nu' ricchione!».
Hai scoperto, nel corso di questo viaggio, qualcosa che non conoscevi?
«L'acqua calda».
In che senso?
«Ho scoperto che tutti, uomini e donne, omo ed etero, abbiamo gli stessi problemi. Un ragazzo lasciato dal suo compagno soffre come un ragazzo lasciato dalla fidanzata. Tutti dobbiamo imparare ad amare senza essere incasellati. Se c'è un atto politico, nel film, è un atto di solidarietà. Sogno un mondo in cui un documentario simile non sia più necessario, dove le istituzioni imparino ad essere meno crudeli. Papa Francesco sta regalando speranza. Prima, da lì, venivano solo anatemi. Anche dal suo predecessore».
Alberto Crespi, l’Unità, 11/2/2014
Servizi segreti e omosessualità. Da wikipink.org. Testo di Stefano Bolognini, liberamente editabile.
In Italia. Non esistono analisi complessive in Italia sul rapporto tra servizi segreti e omosessualità. A partire dalla fine dell'Ottocento, però, in numerose occasioni sono emerse testimonianze dirette o documenti sull'uso da parte dell'intelligence italiana dell'omosessualità (o della pedofilia) per screditare, ricattare o, al contrario, proteggere dagli scandali personalità pubbliche. E' inoltre provata l'attività di dossieraggio e raccolta d'informazioni dei servizi segreti, con schedature relative alle preferenze sessuali di politici e uomini di potere.
Il campo di studio è ancora inesplorato, ad eccezione di un'intervista del mensile "Pride" allo storico Aldo Giannuli pubblicata nel marzo 2016. In questa voce sono raccolti alcuni casi che aiutano a fare luce sui metodi dei servizi italiani e nei quali il coinvolgimento delle attività di intelligence risulterebbe diretto.
Il caso Lobbia (1869). Il 5 giugno 1869 il deputato Cristiano Lobbia denuncia, nel corso di una seduta del Parlamento, di essere in possesso di documenti sullo scandalo e la corruzione nella concessione sui monopoli dei tabacchi alla “Regia manifattura dei tabacchi”. Nella notte fra il 15 e il 16 giugno 1869 Lobbia subisce dapprima, in via dell'Amorino a Firenze (all'epoca capitale d'Italia), un'aggressione con tentativo di accoltellamento. Dopo l'attentato Lobbia è continuamente pedinato e spiato: « "strani figuri sparivano dietro gli angoli delle strade, o sbucavano improvvisamente sulle scale. La magistratura tentava in tutti i modi di demolire l'attentato di via dell'Amorino, mettendo sotto accusa Lobbia e i suoi amici, che avevano costretto il Parlamento a votare l'inchiesta".» Successivamente, con una montatura ben congegnata, Lobbia è accusato di omosessualità e, dopo un processo che ebbe ampia eco sulla stampa, messo a tacere stroncando definitivamente la sua carriera politica.
Il metodo Giolitti (fine Ottocento). Massimo Consoli spiega che la prassi di screditare personaggi politici scomodi facendoli passare per omosessuali o per pedofili era tutt'altro che rara nell'Italia repubblicana: « “Giorgio Bocca, bravissimo come sempre ed altrettanto come sempre informatissimo, nella sua rubrica “Il Cittadino e il Potere”, che cura settimanalmente su "L’Espresso", ci informa di una particolare “strategia politica” giolittiana (n. 14 del 6 aprile 1975). Giovanni Giolitti, capo del governo dal maggio 1892 al novembre 1893, poi leader della corrente non-interventista agli albori della Prima Guerra Mondiale, ancora al governo nel giugno del 1920 fino al 1 luglio dell’anno successivo, il “grande” Giolitti, dunque, quando non riusciva a contrastare con i fatti e con la dialettica un proprio avversario politico, gli metteva alle calcagna i propri scagnozzi fin quando il malcapitato entrava, per necessità fisiologiche, in una toilette pubblica, o di un ristorante, o di un vagone letto. All’improvviso, gli veniva infilato nella “ritirata” un ragazzino sui dieci anni preventivamente istruito, che urlava, sbraitava, chiedeva aiuto, fino a far accorrere gente e, naturalmente, il commissario di polizia che si trovava “stranamente” nei paraggi, proprio lì vicino, che prendeva atto del “fattaccio”, delle testimonianze, della situazione “evidentemente” scabrosa, e relazionava a chi di dovere, a chi se ne sarebbe servito per rovinare l’uomo politico, per ricattarlo, per imbavagliarlo”. » Il caso in oggetto è povero di documentazione a supporto ed è qui riportato per attestare che la prassi risulterebbe continuativa nella recente storia italiana. Andrebbe però provato il coinvolgimento diretto dei servizi segreti.
Umberto II di Savoia e l'OVRA. Umberto II nel 1944. Durante il fascismo i servizi segreti raccolgono un dossier sulle relazioni omosessuali dell'erede al trono Umberto II di Savoia, sospettato d'essere antifascista. Mussolini intendeva servirsene nel caso la monarchia gli si fosse rivelata ostile. Il dossier era fra quelli che egli portò con sé a Salò, e secondo il diario dell'uomo politico monarchico Falcone Lucifero esso fu recuperato durante l'arresto di Mussolini, e consegnato a lui, che provvide personalmente a bruciarlo.
Il dossieraggio del SIFAR (1959). Il Servizio informazioni forze armate (SIFAR), il servizio segreto militare italiano attivo dal 1949 al 1996, aggiorna gli schedari e, nel febbraio 1959, avvia un dossieraggio esteso a tutti i parlamentari. Secondo Mimmo Franzinelli, che richiama una direttiva: « Di ogni deputato e senatore si registrano "note sulle qualità intellettuali e di carattere; precedenti penali e politici; cenni sul servizio militare; attività; contratti; incarichi ricoperti ed ogni altra notizia che possa comunque interessare l'Ufficio". La direttiva non tiene conto delle garanzie parlamentari. Lo spionaggio riguarda più la sfera provata della vita pubblica, con la solerte raccolta di vociferazioni - più o meno fondate - su relazioni extraconiugali, figliolanze illegittime, frequentazioni omosessuali, episodi di nepotismo, casi di corruzione e quant'altro. »
Il Caso Laconi (Anni Cinquanta?) Lo storico Aldo Giannuli dichiara di aver reperito, nel corso delle sue ricerche, una nota confidenziale al Ministero dell'Interno sull'omosessualità dell'onorevole del PCI Renzo Laconi, che rivestì anche il ruolo di segretario di Presidenza della Camera a Montecitorio. Secondo un'agenzia stampa diffusa da "Il Velino" nel 2007: « L’esponente del Pci aveva una grande capacità oratoria. La periferia del partito se lo contendeva. Per Togliatti quel deputato era scomodo. Così furono fatte girare strane voci sul suo conto. La “colpa” di Laconi era quella di vivere da solo con la madre e di fare una vita ritirata. I dirigenti del partito gli fecero il vuoto intorno. E Laconi fu nominato segretario del Pci in Sardegna per toglierlo dal circolo della grande politica romana. »
I controlli sul Generale di Corpo d'Armata (1962). Nella Relazione sulla documentazione, concernente gli «omissis» dell'inchiesta SIFAR[10] della Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, trasmessa il 28 dicembre 1990 al Presidente del Consiglio dei ministri ai Presidenti delle due Camere e alla Commissione stessa, emerge come l'attività di spionaggio in Italia, tra il 1956 e il 1962, si concentrasse anche nella ricerca di "notizie scandalistiche sulle massime cariche militari" relative all'omosessualità. In particolare il generale Giovanni de Lorenzo, « "sia come Capo del SIFAR dal 1956 al 15 ottobre 1962, sia come Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri, ha impiegato direttamente i Centri C.S. di Roma e periferici per il controllo sistematico della vita privata di taluni Ufficiali Generali di Corpo d'Armata in servizio, con il preciso intento di scoprire notizie scandalistiche da sottoporre al Capo di Staio Maggiore della Difesa e dell'Esercito e direttamente al Ministro della Difesa" giustificando l'attività "con la doverosa preoccupazione di salvaguardare il prestigio delle massime cariche militari". » Tra i casi ritenuti rilevanti ("gravi", ndr.) dalla Commissione quello di "un anziano Generale di Corpo d'Armata che ricopriva una delle massime cariche militari, alla quale aspirava lo stesso Capo Servizio": « Questi , nel 1962,"incaricava personalmente un sottufficiale dei Carabinieri di un Centro C.S. periferico di effettuare delle ricerche presso un alto comando ed individuare gli indirizzi degli ex attendenti di quel Generale nel periodo-1954/1957; quindi vedere di rintracciarli presso le loro abitazioni e cercare di raccogliere e registrare occultamente eventuali confidenze che si potevano ricavare su presunti rapporti omosessuali del loro superiore. (Omissis). A malgrado [sic] lo zelo del sottufficiale, che si preoccupava di non deludere l'aspettativa del Capo Servizio, i risultati furono negativi in quanto nemmeno l'intervento di un ufficiale tecnico altamente qualificato riuscì a far trarre notizie concrete dalle registrazioni raccolte. » Secondo la Commissione "quest'episodio è stato assai significativo, perché era più che mai evidente l'intenzione di trovare comunque dei gravi motivi di scandalo tali da rendere impossibile la permanenza di quel rispettabile Generale nella carica che ricopriva con tanta serietà e dignità".
L'Ufficiale di stato maggiore (Anni '60). Nel 1961 Giò Stajano, tra i primi omosessuali visibili in Italia, è coinvolto dai servizi segreti per far dimettere un ufficiale dello Stato maggiore dell’esercito. Fu sufficiente che alloggiasse nello stesso albergo del generale senza mai incontrarlo, per raggiungere l’obiettivo. Stajano racconta: « (un capo di stato maggiore dell'esercito, ndr.) era inviso a un altro graduato che ambiva a prendere il suo posto, per cui un parente di questo generale mi avvicinò tramite un amico gay, eravamo intorno al '62 '63, proponendomi un compenso di 500 000 lire se avessi alloggiato per due giorni a Verona nello stesso albergo in cui era ospite questo generale, cosa che io feci. Dovevo soltanto cercare di avvicinarlo - mi avevano fatto vedere una sua foto (...). Dopo qualche giorno a Roma mi contattarono uomini dei servizi segreti, io ero stata preavvisata, per domandarmi se fosse vero che avevo avuto rapporti con questo generale... e io ovviamente negai, così come mi era stato suggerito, per far loro credere invece che era vero! Mi vennero a prendere a casa un mattino (...) e là c'era un tavolo lungo con un sacco di gente seduta, alcuni in divisa, e cominciarono a chiedermi se conoscevo questo generale L.R., però il nome non lo mettere... Io dissi che non lo conoscevo che ero stata in quell'albergo per motivi miei, che era stata una combinazione (...) e alla fine mi fecero firmare una dichiarazione. Fatto sta che la settimana dopo i giornali pubblicarono la notizia che il generale L.R. aveva dato le dimissioni e che al suo posto era succeduto il generale A. Adesso sono morti tutti e due. Ero diventata un elemento destabilizzante. »
Il caso Sullo (Anni Sessanta). Il deputato Fiorentino Sullo è oggetto, tra il 1960 e il 1964, di una violenta campagna a stampa che insinua o addirittura afferma apertamente la sua omosessualità, cosa all'epoca quasi inaudita. Gianna Preda, nei suoi Appunti proibiti del 12 maggio 1960 su "Il Borghese" scrive: « "Ho rivisto il basista Fiorentino Sullo, dopo le sue dimissioni. Aveva ritrovato la consueta scontentezza che però, nel suo viso di latte e di rose, non riesce mai a sembrare ribellione. Soltanto per un attimo ho visto ravvivarsi quel volto corrucciato. E' accaduto quando l'autista, un giovanotto bruno e piacente, gli si è avvicinato chiamandolo confidenzialmente per nome. In quel momento, notai che gli occhi di Sullo brillavano, teneri e vivi. Rievocando quel fuggevole episodio, provo ancora oggi un senso di imbarazzo: come se fossi stata testimone di qualcosa che non avrei dovuto vedere»". » Per Emiliano Di Marco la campagna era "basata su un vecchio dossieraggio del SIFAR che risaliva al periodo in cui (Sullo, ndr.) era stato Ministro dei Trasporti del governo Tambroni, nel 1960".
L'Onorevole Emilio Colombo (1971). Il generale Gianadelio Maletti durante la sua audizione davanti alla Commissione parlamentare d'inchiesta sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi, il 3 marzo 1997, relativa a fatti occorsi nel 1971, dichiara: « Il nostro paese non era politicamente sano. I Servizi venivano usati per schedare, per – diciamolo pure – ricattare; di quei circa 100.000 fascicoli, forse un po’ meno, che sono stati bruciati, molti riguardavano beghe personali, “corna” di uomini politici, di cardinali, di professionisti e così via. Ora, in un clima del genere, un Servizio che con il generale De Lorenzo si era già orientato a un impiego politico più che ad un impiego professionale, di intelligence, non ha fatto che scendere lungo una china di adesione alla domanda politica, di resa alle pretese di alcuni uomini politici. Non è per un caso, per esempio, che poco dopo l’arrivo al Servizio fui convocato dal mio caposervizio, il quale mi chiese se potevamo far pubblicare delle fotografie, nelle quali si vedeva un noto ed importante personaggio democristiano in costume da bagno sul terrazzo della sua casa (credo in un quartiere alto di Roma) accanto ad un efebo, in carne e ossa. La domanda fu questa: “possiamo far pubblicare questa fotografia?”. Risposi al generale che quella fotografia era chiaramente un collage. Sono state appiccicate insieme due fotografie: un signore che sta facendo un bagno di sole in terrazzo e un giovanotto nudo o seminudo che gli sta di fronte in piedi. (...) Questo era il Servizio nel 1971, quando i due episodi si sono verificati a breve distanza di tempo l'uno dall'altro. Mi dispiace parlarne qui perché sono pettegolezzi. Ne parlo a una Commissione di signori parlamentari e ritengo che sia mio dovere dire che il Servizio non era un vero servizio informazioni all'epoca: era un servizio di pettegolezzi, purtroppo abbandonato a se stesso, senza un appoggio politico, senza un avallo politico, lasciato andare per i fatti suoi e, qualora avesse sbagliato, colpito duramente per questa sua autonomia e queste sue iniziative.» Il deputato Grimoldi, di Rifondazione Comunista, replica: "Lei ha affermato precedentemente che i Servizi erano, in un certo senso, subalterni ai politici e ai servizi di altri paesi. Generale, questa non è una novità perché l'esempio da lei presentato di un uomo politico fotografato con un giovane nudo era noto a tutta l'Italia e tutta l'Italia rideva di questo, come del fatto che la moglie di un importante uomo politico avesse delle relazioni addirittura con degli autisti. Ma i servizi non si potevano servire di queste notizie, generale, perché qui non siamo in America; in America, il candidato alla Presidenza che ha una "scappatella" con una segretaria ci rimette la candidatura, mentre in Italia, fortunatamente, non siamo mai arrivati a questo livello.". Aldo Giannuli, nel 2009, riconosce nell'onorevole Emilio Colombo (1920-2013), allora presidente del Consiglio della Democrazia Cristiana, l'uomo oggetto dell'interesse dei servizi segreti: « Ancora, l'ex capo dell'Ufficio D, Gianadelio Maletti, durante la sua audizione davanti alla Commissione Stragi dichiarò tranquillamente che il servizio controllava un Presidente del Consiglio democristiano notoriamente omosessuale e, un giorno, fotografò «un giovane in tenuta adamitica» sulla terrazza del suo attico. » Questa interpretazione sarà ripresa successivamente da numerose testate[16] e, al di là della veridicità del coinvolgimento del politico nella vicenda (Meletti parla solo di "un noto ed importante personaggio democristiano "), le dichiarazioni del generale gettano luce, in questo caso, sui metodi ricattatori dei servizi segreti italiani in relazione all'omosessualità dei personaggi pubblici.
Il caso Marrazzo (2009). Il 23 ottobre 2009 è diffusa la notizia che il Presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo sarebbe stato sorpreso e ricattato da quattro carabinieri perché filmato durante un "rapporto mercenario" con una transessuale. Un video ritrarrebbe l'incontro tra il politico e la trans in un appartamento di via Gradoli con ben visibili, su un tavolino, alcune dosi di cocaina. Il 27 ottobre Marrazzo si dimette da Presidente della Regione a seguito dell'enorme scandalo scatenato dalla notizia. Il 20 novembre Brenda, una delle due transessuali coinvolte nello scandalo, viene trovata morta, soffocata dal fumo di un incendio scoppiato nel suo appartamento. Anche Gianguerino Cafasso, uno dei testimone-chiave del ricatto, era già stato trovato morto per overdose di cocaina il 12 settembre precedente. Il 19 aprile 2010 la Corte di Cassazione ha dichiarato Marrazzo vittima di un complotto organizzato da Carabinieri infedeli che avrebbero organizzato accuratamente "riprese le cui finalità non erano certo quelle di assicurare, a fini di giustizia, le tracce di reati, o di individuare i colpevoli di condotte delittuose, ma solo di registrare situazioni scabrose per ottenere indebiti vantaggi". Aldo Giannuli nota: « "Una cosa è certa: l’appartamento dove è avvenuta la retata, in via Gradoli 96 è allo stesso numero civico che aveva ospitato, trent’anni prima, un covo dei brigatisti coinvolti nel caso Moro. Ora, è vero che ci sono indirizzi sfigati dove se deve succedere qualcosa sempre là succede. Il sospetto che sorge legittimamente è che quello fosse un appartamento usato dai servizi per lavori di questo tipo. E che le trans che erano lì fossero spie del servizio militare". »
Il caso Regeni (2016). Giulio Regeni, un dottorando in commercio e sviluppo internazionale al dipartimento di politica e studi internazionali dell’università di Cambridge, scompare a Il Cairo, dove si trova per lavorare alla sua tesi, il 25 gennaio 2016 ed è trovato assassinato, il 3 febbraio, all'estrema periferia della città. Il cadavere si presenta semi nudo e con segni di tortura. Le circostanze della morte, la reticenza delle autorità egiziane nel fornire informazioni agli inquirenti italiani, lo scontro tra Governo italiano e egiziano susseguente all'omicidio e il coinvolgimento (ipotizzato dai commentatori) degli apparati di sicurezza civili e militari e della polizia egiziana nel sequestro del giovane, rimandano a una responsabilità diretta dei servizi segreti egiziani nell'omicidio. Immediatamente dopo la scoperta del cadavere incominciano a circolare voci sulla presunta omosessualità di Regeni, che lasciano intendere che l'omicidio possa avere un movente sessuale o legato all'omofobia islamica. Questa non è però l'unica spiegazione della morte che cortocircuita sui media: si passa, versione dopo versione, dall'incidente stradale, all'omicidio a sfondo omosessuale, all'atto criminale fino all'uccisione per mano di spie dei Fratelli Musulmani compiuto per creare imbarazzo al governo di Al Sisi. Una fonte anonima (ritenuta non credibile), il 6 aprile 2016, rivela al quotidiano "La Repubblica" l'uso strumentale dell'omosessualità nel caso Regeni come depistaggio: « Dopo la sua morte, sempre secondo quello che sostiene l'anonimo, "Giulio viene messo in una cella frigorifera dell'ospedale militare di Kobri al Qubba, sotto stretta sorveglianza e in attesa che si decida che farne". La "decisione viene presa in una riunione tra Al Sisi, il ministro dell'Interno, i capi dei due Servizi segreti, il capo di gabinetto della Presidenza e la consigliera per la sicurezza nazionale Fayza Abu al Naja", nelle stesse ore in cui il ministro Guidi arriva al Cairo chiedendo conto della scomparsa di Regeni. "Nella riunione venne deciso di far apparire la questione come un reato a scopo di rapina a sfondo omosessuale e di gettare il corpo sul ciglio di una strada denudandone la parte inferiore. Il corpo fu quindi trasferito di notte dall'ospedale militare di Kobri a bordo di un'ambulanza scortata dai Servizi segreti e lasciato lungo la strada Cairo-Alessandria". »
· Non è un paese per gay. Non è un paese per etero.
Eurovision Song Contest 2020, l’Ungheria si ritira: «Troppi gay». Pubblicato giovedì, 28 novembre 2019 da Corriere.it. L’Ungheria si sarebbe ritirata dall’Eurovision Song Contest perché «troppo gay» per il governo di destra del Paese. Al contest del 2020 a Rotterdam sarà la prima volta che l’Ungheria non gareggerà dal 2010, con il Paese in gara 19 volte dal 1993. E secondo i rumors, la crescente retorica omofobica nel Paese sarebbe il motivo alla base della cancellazione. Una fonte di MTVA, l’emittente nazionale, ha riferito al quotidiano britannico «The Guardian» l’ipotesi che la connessione di Eurovision con la cultura LGBTQ+ sia la ragione per cui l’Ungheria non sarà in competizione. MTVA ha così motivato in un comunicato la decisione di ritirarsi dalla gara canora: «Invece di prendere parte all’Eurovision Song Contest nel 2020, sosterremo le preziose produzioni create dai talenti della musica pop ungherese». Tuttavia, il sito web ungherese index.hu ha citato fonti dai media pubblici che affermano che l’Eurovision è «troppo gay». Un rappresentante del primo ministro ungherese Viktor Orbán ha definito le dichiarazioni «notizie false». András Bencsik, eminente commentatore televisivo ed editore della rivista pro-governativa «Magyar Demokrata», ha definito Eurovision una «flottiglia omosessuale». Ha commentato: «Accolgo con favore la decisione che l’Ungheria non faccia parte della flottiglia omosessuale a cui è stata ridotta questa competizione canora internazionale in cui «la distruzione della pubblica decenza avviene tramite travestiti che strillano e donne barbute». Il primo ministro Orbán ha lanciato una politica del «prima di tutto la famiglia» per aumentare i tassi di natalità e aiutare le famiglie «tradizionali», mentre ha ripetutamente affermato che il matrimonio dovrebbe essere solo tra un uomo e una donna. E László Kövér, presidente del parlamento ungherese, ha paragonato l’adozione da parte di coppie dello stesso sesso alla pedofilia, affermando: «Moralmente, non c’è differenza tra il comportamento di un pedofilo e il comportamento di qualcuno che fa tali richieste».
Eurovision, l’Ungheria si ritira dalla competizione: “Troppo gay-friendly”. Secondo quanto riferito dal quotidiano britannico The Guardian che cita una fonte dell'emittente nazionale Mtva, il contest sarebbe "Lgbtq+" friendly. Un commentatore televisivo l'aveva definito una "flottiglia omosessuale". La Repubblica il 28 novembre 2019. BUDAPEST - Per la prima volta dal 2010, l'Ungheria non parteciperà all'Eurovision Song Contest che nel 2020 si terrà a Rotterdam. La gara di canzoni per i paesi membri dell'Unione Europea di Radiodiffusione, e organizzazione che raccoglie alcune delle principali emittenti nazionali d'Europa, secondo quanto riferito dal quotidiano britannico The Guardian che cita una fonte dell'emittente nazionale Mtva, il contest è "troppo gay" per il Paese di Viktor Orban. Nel 2010 l’Ungheria non partecipò alla gara per via delle gravi difficoltà economiche di Mtva, che aveva dovuto affrontare un taglio di più del 50 per cento del budget, ora secondo la fonte il ritiro sarebbe dovuto alla vocazione troppo "Lgbtq+" friendly dell'Eurovision. "Invece di prendere parte all'Eurovision Song Contest nel 2020, sosterremo le preziose produzioni create dai talenti della musica pop ungherese" dice Mtve in un comunicato per spiegare la decisione. Orbán porta avanti da tempo una pesante propaganda a favore della famiglia tradizionale. Qualche mese fa il portavoce del parlamento ungherese aveva associato l'omosessualità alla pedofilia. Un famoso commentatore televisivo, András Bencsik, editore della rivista filo Orban Magyar Demokrata, ha definito l'Eurovision una "flottiglia omosessuale". "Accolgo con favore la decisione che l'Ungheria non faccia parte della flottiglia omosessuale a cui è stata ridotta questa competizione canora internazionale" scrive Bencsik "in cui la distruzione della pubblica decenza avviene tramite travestiti che strillano e donne barbute". Il riferimento a Conchita Wurst, che ha rappresentato l'Austria, vincendo, l'Eurovision Song Contest del 2014 di Copenaghen. La selezione di Conchita Wursts scatenò molte polemiche in Austria, nei giorni successivi alla sua vittoria più di 31mila persone s'iscrissero alla pagina Facebook Anti-Wurst. Sebbene il sito web ungherese dex.hu citi fonti dai media pubblici che sosterrebbero questa tesi, un rappresentante del primo ministro Orbán l'ha definita una "fake news".
Transgender sul web, «picchiata a Sharm el-Sheikh perché sono trans». Il Messaggero Giovedì 22 Agosto 2019. Episodio di discriminazione in Egitto. Bloccata in aeroporto al suo arrivo a Sharm el Sheik, sputi, offese e anche a calci da parte della polizia perché in Egitto le persone transessuali «non sono gradite». È quanto denuncia Federica Mauriello, transgender partenopea socia dell'Associazione Transessuale Napoli che ha sollevato il caso attraverso un post su FB. Secondo quanto racconta Federica in una intervista rilasciata al sito web GayNews, tutto sarebbe avvenuto lo scorso 16 agosto. «Sembrava che fosse andato tutto bene - racconta - ma quando hanno notato che sulla mia carta di identità elettronica erano riportati i dati anagrafici al maschile, mi hanno bloccata in aeroporto per una notte». «Non mi hanno dato alcuna spiegazione valida», dice ancora la trans, «mi hanno fatto capire in modo molto chiaro che le persone trans non sono gradite. Ai poliziotti non è bastato non farmi entrare in Egitto: mi hanno offesa, presa a calci e sputato addosso». Le forze dell'ordine non le avrebbero neppure consentito di usare il telefono per mettersi in contatto con i suoi parenti: «Per fortuna un ragazzo di Napoli mi ha fatto usare il suo telefono per chiamare mia sorella». Federica annuncia di voler chiedere un risarcimento ma soprattutto di volere rendere noto a cosa vanno incontro i trans che si recano in vacanza in Egitto.
(Ansa 24 agosto 2019) Due transessuali di Bitonto (Bari) sono stati bloccati e trattenuti dalla polizia aeroportuale egiziana al loro arrivo ieri a Sharm El Sheik, dove si erano recati in vacanza con due loro amici: lo ha detto all'ANSA la sorella di uno di loro, Ivana Sannicandro. Si tratta di Cosimo "Loredana" Corallo, 43 anni, e Michele "Mikela" Sannicandro, di 45 anni. Tecnicamente il fermo provvisorio, in attesa di essere rimpatriati in Italia, sarebbe dovuto al fatto che le autorità egiziane non ritengono validi i loro documenti, ma gli amici parlano di visto negato per il loro orientamento sessuale. "Mia sorella è stata fermata in aeroporto - racconta all'ANSA Ivana Sannicandro -, la motivazione è che pensano che i documenti non corrispondano a lei, a loro. Non sono documenti falsi, ma pensano non siano loro in quanto trans". Al momento la famiglia non ha ancora interpellato un avvocato, né sa quando è previsto il rientro in Italia: "Ma è certo che se non rientrano oggi, vado io", afferma la sorella.
“MI HANNO LICENZIATO PERCHÉ SONO TRANS”. Elena Tebano per corriere.it il 15 ottobre 2019. «In queste settimane hanno portato a esempio per gli altri docenti il mio approccio con gli studenti, poi ieri all’improvviso mi hanno licenziata, sostenendo che il mio metodo di insegnamento non va bene. Io temo che a non andargli più bene, invece, sia la mia transessualità: forse qualcuno si è lamentato con i dirigenti e hanno cercato il primo pretesto per mandarmi via». Giovanna Cristina Vivinetto, 25 anni, è una poetessa, vincitrice con il suo «Dolore Minimo» del Premio Viareggio opera prima per la poesia. Fino a ieri insegnava letteratura italiana al triennio del liceo linguistico dell’istituto paritario Kennedy di Roma, dove era stata assunta — fresca di laurea — il 23 settembre scorso. Ieri il licenziamento, denunciato in un lungo sfogo su facebook: «Temo che il problema sia che sono transessuale — spiega al telefono Vivinetto —. Mi hanno dato altre motivazioni ufficiali: che sono indietro con il programma, che spiego troppo velocemente (ma allora come faccio a essere indietro con il programma?), che quando parlo sono confusa e insicura, che non mi faccio rispettare dai ragazzi, che sono “troppo poeta” per fare l’insegnante. Però finora nessuno mi aveva chiesto di cambiare il mio modo di far lezione, a differenza di quanto è successo ad altri insegnanti della stessa scuola, e i ragazzi mi hanno sempre mostrato apprezzamento ed entusiasmo». «Prima di essere assunta, c’era già stato un serrato confronto tra la preside (che non mi voleva e che mi ha licenziata) e la proprietaria della scuola (che invece puntava sulla mia assunzione e fino a ieri è stata indecisa se tenermi ancora)», aggiunge Vivinetto. Secondo il racconto di Vivinetto, infatti, in un’iniziale colloquio la proprietaria della scuola Daniela Cozzolino le aveva detto di volerla assumere. Ma poco dopo aveva ricevuto una chiamata dalla dirigente Vincenzina Piccolino che le spiegava di dover assumere un altro docente «abilitato» e inviato il pomeriggio precedente dal Provveditorato agli studi. Poi poco dopo una nuova telefona ta della proprietaria: «Mi disse che voleva il mio libro e avrebbe parlato con tutti i docenti per discutere dell’opportunità di assumermi — cosa che poi non è avvenuta — e che potevo tranquillamente dire ai ragazzi che sono transessuale». Contattata al telefono l’amministrazione della scuola ha rivendicato la correttezza del licenziamento ma si è rifiutata di commentare la vicenda.
Professoressa licenziata da scuola: “Nessuna ragione valida, forse perché sono trans?”. Una professoressa di Roma ha denunciato di essere stata denunciata dalla scuola paritaria dove aveva iniziato a insegnare da due settimane con motivazioni false e poco chiare. Secondo la sua versione, i motivi sarebbero altri: ossia quello di aver preso tre giorni di malattia per una febbre e l’essere una donna transessuale. Natascia Grbic su Fanpage il 15 ottobre 2019. Un duro sfogo su Facebook che in poche ore ha raggiunto centinaia di like e commenti. Una vicenda che, se fosse confermata, sarebbe la testimonianza di una discriminazione. Una professoressa di Roma, Giovanna Cristina Vivinetto, è stata licenziata dopo appena due settimane di servizio dalla scuola privata in cui aveva iniziato a lavorare dall'inizio dell'anno. Giovanna era stata assunta direttamente con un contratto a progetto che iniziava il 23 settembre e scadeva l'8 giugno, "con possibilità di risoluzione anticipata dando un preavviso di quindici giorni". Secondo quanto riportato dall'insegnante, le motivazioni del licenziamento sarebbero state poco chiare e contraddittorie. Anzi, si sarebbero configurate come una vera e propria scusa. I veri motivi, infatti, sarebbero altri. Ossia l'aver preso tre giorni di malattia per una febbre batterica la scorsa settimana e il fatto di essere una donna transessuale. "Credo in sostanza che le motivazioni di questo gesto, ai miei occhi imprevisto, ingiustificato e imprevedibile, risiedano altrove, ma non voglio indagare questo altrove. Probabilmente a loro è pesata la mia assenza per malattia, dal momento che una scuola privata spesso sfrutta e non guarda in faccia nessuno (ieri mattina c'era già la nuova docente a sostituirmi). Probabilmente c'entra il fatto che io sia una donna transessuale, e questo sarebbe già molto più triste e ingiusto. E non voglio pensarci". Raggiunta telefonicamente da Fanpage.it, Giovanna ha spiegato che molto probabilmente qualche genitore ha saputo che tra i docenti c'era una donna transessuale e si è andato a lamentare. "Questa cosa mi fa sorridere anche perché per la legge sono una donna".
Il licenziamento di Giovanna, professoressa transessuale allontanata da scuola. Giovanna Cristina Vivinetto è stata assunta all'inizio di settembre da una scuola paritaria di Roma ed è stata licenziata ieri in tronco "con motivazioni confuse, nebulose e, in sostanza, poco credibili". Il licenziamento è avvenuto subito dopo la fine della malattia quando, una volta giunta a scuola, è stata chiamata nell'ufficio della preside. Che avrebbe riferito di alcune lamentele da parte dei ragazzi. "In classe mi hanno sempre riferito tutt'altro, giudizi entusiastici del tipo: "Prof., che bello rivederla oggi! È proprio un piacere" o "È la nostra docente preferita perché riesce a spiegare bene risultando molto simpatica", oppure, a fine lezione, "Che belle le sue spiegazioni!". Ma quando ho fatto presenti queste impressioni, mi è stato detto: "Giovanna, i ragazzi sono infami, ti dicono una cosa e poi a noi vengono a dirne un'altra: non devi mai credergli". Eppure in due settimane i ragazzi venivano da me per confidarmi i loro problemi, gli eventi di ‘bullismo' dentro la scuola, i loro desideri e aspirazioni. Volevano leggere le mie poesie, scriverne di loro pugno. Uno di loro è venuto a portarmi il suo prezioso quaderno con tutte le sue poesie scritte a mano. Un altro ha preso coraggio e ha letto in classe una sua poesia "che aveva vinto un concorso".
"Mi hanno detto di non rimettere piede a scuola". Sono molte le persone che in queste ore stanno scrivendo commenti di solidarietà a Giovanna. Tra loro c'è chi ipotizza che il licenziamento sia stato deciso proprio per la sua transessualità, e che molto probabilmente sia avvenuto a causa delle lamentele di alcuni genitori. Anche perché, precisa Giovanna nei commenti al post, "nessun docente è mai stato mandato via, e l'unica allontanata è quella transessuale". Giovanna ha spiegato che inizialmente non sapeva se raccontare o meno la vicenda. "Non volevo si pensasse che stavo sfruttando la mia transessualità – ha dichiarato – Ieri ero addirittura convinta di essere io il problema in quanto docente, ma poi ho visto che molte cose non mi tornavano. E soprattutto che in due settimane non si può capire quanto vale un'insegnante". Nonostante il preavviso sia stato fatto partire da ieri, le hanno detto di "non rimettere più piede a scuola". Le pagheranno comunque i giorni ma non vogliono più vederla nei corridoi.
Giovanna Cristina Vivinetto il 15 ottobre 2019 sulla su apagina Facebook. "Il fatto è questo: dopo appena due settimane di servizio, ieri la scuola paritaria che mi ha assunta mi ha licenziata in tronco, con motivazioni confuse, nebulose e, in sostanza, poco credibili.
L'antefatto: prima di essere assunta, c'era stato un serrato confronto tra la preside (che non mi voleva e che mi ha licenziata) e la proprietaria della scuola (che invece puntava sulla mia assunzione e fino a ieri è stata indecisa se tenermi ancora).
Le motivazioni del licenziamento: ho preso tre giorni di malattia la scorsa settimana per una forte tonsillite batterica con febbre a 39. Durante questi tre giorni di assenza, dice la preside, i ragazzi e i genitori "hanno trovato il coraggio" e sono andati a lamentarsi. Tra tutti i docenti, proprio di me e per le seguenti problematiche:
1) sono indietro col programma;
2) spiego troppo velocemente (contraddizione con il primo punto);
3) quando spiego sembro confusa e insicura, a tal punto che non si capisce dove voglia andare a parare;
4) non riesco a farmi rispettare dai ragazzi;
5) le mie spiegazioni sconfinano su argomenti non attinenti al programma;
6) non riesco a fare presa ed essere coinvolgente;
7) non ho la tempra del docente perché, per "vocazione", sono una poeta tout court;
8) la mia forma mentis è troppo "da scrittore e letterato" e poco da docente, e questo significa che "da artista" quale sono, le mie spiegazioni sono improntate a cose che non hanno attinenza con la realtà, ma a voli pindarici tipici degli artisti lunatici e imprevedibili.
Ora, dopo cinque anni di studi letterari e tutta l'esperienza fatta da "oratrice" nel corso gli ultimi due anni in giro per l'Italia, vi immaginate mentre spiego gli Inni sacri e le tre edizioni dei Promessi sposi di Manzoni e nel frattempo parlo di tutt'altro passando di palo in frasca? Oppure sembrare confusa nel definire i caratteri del romanzo epico-cavalleresco o incerta nell'esporre i primi documenti in volgare? Mi sembra assurdo solo a pensarlo.
Senza contare che i ragazzi in classe mi hanno sempre riferito tutt'altro, giudizi entusiastici del tipo: "Prof., che bello rivederla oggi! È proprio un piacere" o "È la nostra docente preferita perché riesce a spiegare bene risultando molto simpatica", oppure, a fine lezione, "Che belle le sue spiegazioni!". Ma quando ho fatto presenti queste impressioni, mi è stato detto: "Giovanna, i ragazzi sono infami, ti dicono una cosa e poi a noi vengono a dirne un'altra: non devi mai credergli". Eppure in due settimane i ragazzi venivano da me per confidarmi i loro problemi, gli eventi di 'bullismo' dentro la scuola, i loro desideri e aspirazioni. Volevano leggere le mie poesie, scriverne di loro pugno. Uno di loro è venuto a portarmi il suo prezioso quaderno con tutte le sue poesie scritte a mano. Un altro ha preso coraggio e ha letto in classe una sua poesia "che aveva vinto un concorso".
Credo in sostanza che le motivazioni di questo gesto, ai miei occhi imprevisto, ingiustificato e imprevedibile, risiedano altrove, ma non voglio indagare questo altrove. Probabilmente a loro è pesata la mia assenza per malattia, dal momento che una scuola privata spesso sfrutta e non guarda in faccia nessuno (ieri mattina c'era già la nuova docente a sostituirmi). Probabilmente c'entra il fatto che io sia una donna transessuale, e questo sarebbe già molto più triste e ingiusto. E non voglio pensarci.
Resta che mi spiace e che la serietà e la professionalità per assurdo non si trovano in quei luoghi dove dovrebbero essere date per scontate perché da li passa la cosa più preziosa che abbiamo, il nostro futuro.
Perdonate l'amarezza dello sfogo".
La destra sta smantellando, città per città, tutti gli strumenti in difesa delle persone Lgbt. Dall'Emilia all'Umbria, dalle città toscane a quelle friulane: negli ultimi mesi le amministrazioni di centrodestra stanno distruggendo tutti i passi in avanti fatti sul territorio per contrastare l'omotransfobia. Ecco come. Simone Alliva il 22 ottobre 2019 su L'Espresso. C'è un silenzio organizzato intorno ai movimenti anti-lgbt che in questi ultimi anni hanno riempito pagine, studi televisivi e piazze. Silenzio e reticenza sono il segnale più chiaro che si parla poco perché si sta agendo tanto. Nelle istituzioni, nelle regioni, nei piccoli comuni l'influenza dei vari Pro-Vita e Citizen Go sta spingendo fuori dalla porta tutte quelle tutele e quelle iniziative che difendono sul territorio le persone Lgbt. L'ultima minaccia pende sulla regione Emilia-Romagna che, dopo il voto regionale del 26 gennaio, potrebbe verniciarsi di verde Lega. È stata lanciata da Massimiliano Pompignoli, consigliere regionale che promette di abolire la legge sull'omofobia: «Una legge marchetta per gli omosessuali. Non necessaria». Roberta Mori la presidente (Pd) della Commissione Parità in regione non minimizza la promessa leghista: «Pompignoli ci sta dicendo la verità, perché da relatrice di maggioranza di quella legge ricordo perfettamente l'ostruzionismo feroce delle destre in aula, che ci ha costretti a una seduta fiume di oltre 40 ore, durante la quale sono stati presentati emendamenti bestiali, irricevibili, di una gravità inaudita». Gli attacchi ripetuti contro le iniziative non hanno solo un valore simbolico. Come spiega Vincenzo Branà già presidente del Circolo Arcigay Il Cassero: «Le leggi regionali sono strumenti molto efficaci. Hanno anche clausole finanziarie che dispongono l'investimento di fondi ad hoc. Se la legge penale, mai approvata in Italia, interviene quando la discriminazione e la violenza si sono già consumate, le leggi regionali, al contrario, sono di prevenzione e contrasto, cioè mettono in campo azioni che tentano di modificare i contesti in cui l'odio cresce e si nutre». È proprio sulle azioni concrete di contrasto all'omotransfobia che interviene questo vento di destra sull'Italia. Il comune di Siena è stato l'ultimo in ordine di tempo ad uscire dalla Rete Ready, la rete nazionale delle pubbliche amministrazioni contro le discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere. Segue una lunga lista: i comuni di Pistoia, Trieste, Piacenza, Sesto San Giovanni, Udine e la regione del Friuli Venezia Giulia che hanno abbandonato una rete che grazie a dei finanziamenti avviava corsi di aggiornamento, formazione e sensibilizzazione su tutti i livelli. Così mentre in Parlamento vengono presentate proposte di legge contro l'omotransfobia, la cultura educativa del nostro paese subisce un arresto. Il disegno è semplice: espellere le associazioni che sul territorio tutelano le minoranze, inserire dentro quelle che le discriminano. Massimo Prearo, ricercatore del dipartimento di scienze umane dell'università di Verona, autore, con Sara Garbagnoli, del libro La crociata anti-gender (Kaplan), spiega la strategia: «I movimenti anti-gender stanno seguendo una traiettoria di entrismo che li sta portando dentro le istituzioni e che è stata favorita da vari momenti elettorali: amministrative, politiche, europee. Hanno stretto alleanze con Fratelli d'Italia e Lega. Un processo visibile dal 2016. È una vera e propria svolta politica che ha ricevuto la sua spinta grazie alla campagna per il referendum costituzionale. Una battaglia che ha dato l'opportunità a questi comitati di fare una campagna elettorale, la prima campagna elettorale, e di comprendere che c'era il margine per ottenere dei posti in parlamento nelle amministrazioni locali».
La strategia dei Pro-Vita. La conseguenza di un lungo lavorio di fondo. Quella delle unioni civili, spiega Prearo, fu infatti una lotta di movimento, una lotta di piazza scandita dai Family Day, dai sit-in di fronte al parlamento, dai presidi davanti alle scuole che facevano educazione alle differenze. La logica dietro è stata, secondo Prearo, «di puro scambio politico: stringiamo le alleanze per fare campagna insieme». È stato come cambiare categoria, ascendere a un livello più alto: se prima quei politici erano soltanto “ospiti illustri” durante i convegni contro le unioni civili, contro l'aborto organizzati da Difendiamo I Nostri Figli, nel giro di due anni sono diventati soci. Un lavoro di cantiere che è diventato sempre più forte nelle campagne per le amministrative 2017 e poi nelle politiche 2018. Troviamo così conferenze organizzate dalla Lega dove il nome di Massimo Gandolfini e di uno poco sconosciuto avvocato Pillon compaiono senza la dicitura “Difendiamo i nostri figli”. Ma con quel blu del carroccio. Simbolo certo di un assorbimento. E di un baratto: io ti do il mio appoggio e tu mi dai il posto in Parlamento. «Bisogna ripensare al 2017. L'idea di cambiare le cose dall'interno nasce lì» spiega sempre il professor Prearo: «Abbiamo cominciato con le mozioni contro l'aborto e adesso si procede con una rete che in nome della difesa della famiglia entra nei comuni. Si stanno muovendo dall'interno. È un'azione non più solo politica della campagna fatta di manifesti e slogan, ma politica e istituzionale. Nella forma che è anche quella della politica pubblica, quella degli atti amministrativi, dei decreti, delle leggi, per questo più pericolosa».
Il vento nero dei diritti sull'Italia. La missione silenziosa dei pro-vita mira a spezzare quel filo sottile che lega istituzioni locali e tutte quelle associazioni che tutelano le minoranze. Esempio è quello che avviene a Genova, dove il sindaco Marco Bucci ha aderito all'accordo dei comuni liguri in difesa della "famiglia tradizionale" proposto dal Forum Ligure delle Famiglie. Lo sguardo è rivolto a Sanremo dove nel 2020 si terrà la "Biennale della Famiglia". Una specie di Congresso di Verona. Nell'attesa si costruisce una rete di “difesa della famiglia tradizionale”. La prima cosa è stata l'istituzione nel dicembre 2017 dell'Agenzia per la famiglia che ha lo scopo di “difendere” la famiglia tradizionale. Alla guida dell'Agenzia c'è Simonetta Saveri, giovane avvocata che due anni fa coordinava l'agenzia “senza percepire alcun compenso” come dichiarò Bucci. Oggi guadagna 10 mila euro più 400 di rivalsa per contributo previdenziale, più 2.500 euro di fondo per l'attività dell'Agenzia. Su questa scelta pende un'interrogazione del consigliere Pd Alessandro Terrile che a L'Espresso spiega: «L'agenzia è un grande punto interrogativo. La linea di fondo delle sue attività, non numerose, è quella che esistono delle forze oscure che mettono in pericolo la famiglia tradizionale e quindi bisogna difenderla. Una posizione da Sentinelle in Piedi». È questo del resto il leitmotiv dell'amministrazione genovese che mentre toglie il patrocinio al Pride, istituisce il “registro delle famiglie” dove si possono iscrivere soltanto le famiglie sposata; fuori restano gli uniti civilmente, le coppie more uxorio, i padri e le madri single. “Il registro dei buoni” lo definisce Terrile. Una scelta politica che diventa concreta nel momento in cui il comune ad esempio “che spesso mette dei fondi a disposizione dei cittadini, lo usa per comunicare la possibilità di bandi e concorsi escludendo di conseguenza chi non ne fa parte” Un'amministrazione che in nome della “tradizione” ha messo alla porta non solo le famiglie arcobaleno ma tutti i nuclei familiari che non rispondono alla forma padre, madre, figli.
Toscana doppia. Poco più a Sud della città della Lanterna, in Toscana ci si imbatte in una condizione schizofrenica. Con una mano dal 2016 la regione, attraverso la Rete Ready, stanzia dei finanziamenti annuali finalizzati a promuovere la non discriminazione per orientamento sessuale e identità di genere e per rafforzare la collaborazione tra le pubbliche amministrazioni. Con l'altra mano vorrebbe elargire quasi duecentomila euro al Forum Pro-vita anti-abortista e anti-Lgbt. Andiamo per ordine. Negli anni passati, al cambio di colore dell'amministrazione, sono usciti Arezzo, Pisa, Pistoia, Siena, e Cortona. «Uscire vuol dire non poter utilizzare delle risorse mirate al contrasto delle discriminazioni», spiega Barbara Caponi la Presidente dell'associazione Lgbt Ireos. «Uscire è davvero una scelta ideologica, entrarci no perché nel concreto ci aiuta a portare avanti progetti amministrativi». Sono progetti che hanno avuto con un costo minimo un vero impatto sulla comunità come spiega Natascia Maesi, responsabile Politiche di genere nella segreteria nazionale di Arcigay: «Abbiamo realizzato a Siena “Orientiamoci alle differenze”, il primo progetto di formazione per operatori di sportello specializzati in tematiche LGBTQI ma anche “ProfPresente” un corso gratuito per gli insegnanti che offriva strumenti agli insegnanti a prevenire o affrontare il bullismo omotransfobico». Sono moltissimi i racconti degli insegnanti che sono stati in grado di aiutare ragazzi e ragazze sull'orlo del precipizio e disinnescato la miccia delle derive omo e transfobiche. Progetti che Siena non potrà più realizzare. Mentre la città regionale ha deciso lo stanziamento di 195mila euro al forum Provita per i prossimi tre anni. Una situazione che molti consiglieri definiscono “strana”. Dopo le proteste dei movimenti femministi e le iniziative dei consiglieri di opposizione, l'accordo pur non essendo stato ritirato è rimasto “sospeso” e l'erogazione delle nove tranche di finanziamento al forum “congelate”.
Il Friuli della Lega. Non va meglio in Friuli Venezia Giulia dove la giunta guidata dal leghista Massimiliano Fedriga ha dato lo stop al progetto contro il bullismo omotransfobico “A scuola per conoscerci”. No al patrocinio e quindi al contributo di sedicimila euro. Sono stati cancellati così 10 anni di impegno nel territorio con 30 istituzioni scolastiche impegnate, 12.357 studenti interessati, 11 psicologhe 5.317 ore di volontariato erogate. Nel 2011 Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, conferì ad Arcigay Arcilesbica Trieste una medaglia di bronzo per l'iniziativa virtuosa. Oggi a L'Espresso Davide Zotti, insegnante e responsabile educativo non nega qualche preoccupazione sul futuro del progetto e sul destino dei ragazzi e delle ragazze coinvolte: «Nell'ultimo anno, prima che arrivasse la Lega, la regione aveva messo nella legge di bilancio regionale proprio un comma che sosteneva il progetto che dava 16 mila euro per svolgere questa attività. Cancellato quello e usciti dalla Rete Ready abbiamo perso ogni finanziamento». La motivazione è stata espressa dall'assessore a lavoro, istruzione e famiglia: «Abbiamo un'altra linea politica». Una risposta che lascia perplesso Zotti e le associazioni coinvolte: «Come se gli adolescenti fosse un mercato della politica, come se questo paese, questa regione non avesse un problema chiaro di odio omotransfobico. Vuol dire non affrontare più il problema dell'omofobia nella scuola questo è il messaggio che arriva». Il progetto, inserito nelle scuole durante le ore curriculari, mirava attraverso l'aiuto di esperti, psicologi, insegnanti a stanare la cultura omofobica. La violenza omofobica, fatta di aggressioni fisiche o verbali, va distinta dalla cultura omofobica, che è disseminata nei linguaggi, negli atteggiamenti, negli sguardi, nelle barriere invisibili buone a separare i «diversi» dai «normali»: se sei «così» non sei uno di noi, devi restare solo o con quelli come te. Grazie al confronto e alla comunicazione i giovani si mettono in gioco riuscendo a «sbloccare» il meccanismo dell'esclusione. Diventerà adesso tutto più difficile, racconta Zotti che però non si scoraggia: «Noi andremo avanti con una raccolta fondi dal basso e speriamo di riuscire ad affrontare per quest'anno l'attività».
Prossimo obiettivo anti-gender: Umbria. E va avanti quasi in solitudine anche la città di Perugia: da anni è protagonista di scontri con l'amministrazione di centrodestra guidata dal sindaco Romizi. Qui, dove il 27 ottobre si giocherà una partita importante come quella delle regionali, il tentativo di uscire dalla Rete Ready è dietro l'angolo. Come racconta Stefano Bucaioni, presidente di Omophalos: «Nell'ultimo consiglio della precedente consiliatura hanno tentato di cancellare l'adesione della Rete Ready. Rallentato dalla maggioranza. Era tra le promesse elettorali della Lega che avendo conquistato una maggioranza più composita ha adesso le mani libere». A fine settembre si è svolto Il Festival della Famiglia fortemente voluto dall'amministrazione di Perugia e che ha visto protagonista numerose associazioni che ruotano intorno al congresso di Verona. Tra queste “Famiglie Numerose” dalle quale il senatore Pillon è stato membro direttivo. «Abbiamo sempre chiesto aiuto a regione e comune - spiega Bucaioni - La prima ha sempre contribuito, il comune è sempre rimasto in silenzio». L'Umbria nonostante non faccia parte della Rete Ready, si è distinta per passi virtuosi verso le inclusioni: dal 2003 con la riforma dello statuto e l'inserimento delle norme contro la discriminazione sull'orientamento sessuale, tra le prime regioni a farlo. L'approvazione della legge regionale contro l'omofobia transfobia nel 2017. «Il pericolo adesso è la Lega-Fratelli d'Italia che minaccia l'abrogazione della legge contro l'omofobia-transfobia, molto importante per la comunità perché più che una sanzione sostiene strumenti di prevenzione alla lotta contro l'omotransfobia». E dire che i progetti realizzati soltanto in due anni sono tanti: un protocollo contro le discriminazioni firmato dagli enti locali, una ricerca sulla situazione del bullismo omofobo nelle scuole dell'Umbria (bloccata dal ministro leghista Bussetti in prima battuta, ripartita con il cambio di maggioranza). «La nostra preoccupazione è veder abrogare questi progressi e buttare via 10 anni di lavoro che abbiamo speso per tirare fuori una legge». Se il 27 ottobre, come dicono tutti qui, arriverà in regione un vento nuovo, potrebbe fare anche questo: spazzare gli ultimi residui di tutela e prevenzione.
«Frocio, ti spacco le ossa»: viaggio nel Paese dell'omofobia. Violenze, minacce, discriminazioni. Cronache delle aggressioni che raccontano un’Italia sommersa dall’odio verso le persone gay, lesbiche e trans. Con la connivenza del nuovo clima politico. Simone Alliva l'08 febbraio 2019 su L'Espresso. «Frocio fermati! Ti facciamo la festa di capodanno». Siamo a Perugia, sono le cinque di notte del primo gennaio 2019. Lorenzo ha festeggiato il nuovo anno con gli amici. Lascia il locale: «Forse ero vestito in maniera troppo eccessiva». Cinque ragazzi iniziano a pedinarlo per le vie della città. Lo ricoprono di insulti, lo minacciano. «Vieni qua che ti sistemiamo». In pieno centro storico. Bisogna immaginare la scena: Lorenzo pochi metri più avanti, a passo svelto vuole raggiungere la macchina. Dietro cinque ragazzi che gli urlano addosso. Ad assistere indifferente la città: i proprietari dei locali rimasti aperti, gli studenti per le strade. «Mi guardavo intorno, non interessava a nessuno. Io ero la preda, loro cinque i cacciatori». Non è una storia eccezionale, è una delle tante storie che ci presenta il nuovo volto dell’Italia. Quello anti-lgbt, omofobo, violento. Ed è finita bene: «Ho cercato di percorrere le vie più illuminate. Arrivato in macchina, mi sono fiondato dentro e sono partito». Resta la paura: «Sto molto attento a quello che indosso, a quello che potrebbe succedermi se cerco di dare troppo nell’occhio». Le cronache delle aggressioni raccontano di un Paese sprofondato nell’odio. Sono tutte dell’ultimo anno, tutte legate alla nuova Italia. Quella del cambiamento, quella del prima gli italiani. Non è bastata l’approvazione della legge che ha introdotto le unioni tra persone dello stesso sesso. Il dibattito pubblico che ne ha caratterizzato l’iter è stato avvelenato. Il 4 marzo è stato come fare marcia indietro al tempo: l’Italia consegnata a chi prometteva di abolire le unioni civili, di cacciare “le streghe” che nelle scuole fanno educazione di genere, di curare gli omosessuali spingendoli all’eterosessualità. In questo Paese, dove niente è come sembra, il tempo vira e va nella direzione del vento, e non sempre è in avanti. C’è M. che ha 16 anni, viene massacrato di botte fino a perdere coscienza il 21 luglio a Torino, perché? «Cammina come un frocio». A Palermo, invece, una coppia di 14 e 15 anni, seduta su una panchina in pieno centro, viene raggiunta prima dagli insulti poi da pugni in bocca, in faccia e da un colpo di casco in testa. Da nord a sud. Le vittime sono omosessuali, lesbiche, trans ma anche eterosessuali. Come i due muratori di Bologna, aggrediti da un 41enne che li ha prima sommersi di insulti omofobi per poi sfondare con un pugno il finestrino della loro macchina. Erano saliti in auto per prendere una bottiglietta, l’uomo ha frainteso la situazione e li ha aggrediti. Se nel monitoraggio dei media presentato il 17 maggio del 2018 Arcigay censiva 119 storie di omotransfobia riportate nella stampa, con addirittura 4 omicidi riconducibili al movente omotransfobico, le cronache che vanno dal 1 giugno a oggi raccontano un’Italia sommersa dall’odio verso le persone gay, lesbiche e trans. Tra giugno e luglio, ad esempio, sono stati ben 32 gli episodi, per un totale di 39 vittime, delle quali 22 nel solo mese di giugno e 17 a luglio. La media, in passato, era poco più di 9 vittime al mese. Numeri al ribasso, perché non tutte le vittime hanno il coraggio di sporgere denuncia. Le cifre e le storie sono comunque il preludio dell’anno che verrà. «È l’aria che si respira in questi ultimi tempi. Non che non sia mai successo prima. Ma chi aggredisce adesso si sente spalleggiato, rappresentato da chi ci governa», spiega Sebastiano Secci, presidente del Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli di Roma, che nel mese di novembre ha trovato di fronte alla propria sede un sacco colmo di letame e un grande striscione con la scritta “Lgbt = Abominio perverso! Famiglia è Tradizione”. «Facciamo le riunioni la sera e fuori le macchine sfrecciano urlandoci di tutto, dagli insulti alle minacce. Non ci sentiamo tranquilli». Gli attivisti Lgbt sono diventati un bersaglio particolare di ostilità e campagne d’odio. Associazioni e locali erano considerate zone franche, dove sentirsi a casa. Oggi non più. oltre agli atti vandalici alle sedi associative, ci sono le aggressioni, le minacce esplicite di morte. È il caso di Cathy La Torre, presidente di Gay Lex e storica attivista del Mit (Movimento Identità Trans): «Da giugno ricevevo foto sempre di pistole puntate verso di me», racconta a L’Espresso. «È partito tutto con un account fake: ero in bici e mi arrivò questo messaggio: “Pedala e al più presto ti arriverà un colpo di pistola in fronte”, i messaggi riportavano che nemmeno la protezione della polizia mi avrebbe aiutata». Così la vita di Cathy cambia radicalmente: «Sono stata sotto regime di controllo: protezione a vicinanza. Ho fatto tutti i Pride con la scorta e ho modificato il mio stile di vita». Solo tra marzo e giugno Cathy La Torre ha ricevuto una media di 800 messaggi a settimana tra minacce e offese. Nel mese di agosto in soli tre giorni diventano 2200, aveva criticato l’occupazione illegittima di CasaPound. «Non si fermano. Hanno inviato anche alla polizia minacce nei miei confronti. Ho 20 anni di attivismo alle spalle, solo tre anni fa una cosa del genere era impensabile». Proprio la persona Lgbt è diventata il nemico pubblico dell’Italia di estrema destra. Sono moltissimi gli episodi in cui l’ostilità nei confronti delle persone Lgbt viene espressa dalla galassia nera apertamente, con l’appoggio delle frange estremiste cattoliche. A Roma, Federico di 21 anni viene accerchiato da quattro uomini e insultato: «Pezzente, voi froci siete peggio degli zingari». Dopo avergli puntato un coltello sulla schiena viene pestato: pugni in faccia, calci nelle parti intime. Lo picchiano così tanto da farlo cadere a terra con la faccia piena di sangue. «Erano in quattro coi bomber neri e uno aveva la croce celtica tatuata sulla nuca». Nel mese di settembre viene presa di mira una scuola popolare di Milano che offre corsi di lingua agli stranieri. Le scritte sono le solite: insulti agli omosessuali, svastiche. Ci sono anche degli slogan pro Salvini. Rompere il muro dell’omofobia non è facile, a volte si parla ma si resta inascoltati, altre volte chi vede preferisce chiudere gli occhi. Andrea e Angelo hanno rischiato la vita, più volte, hanno denunciato le aggressioni e per questo hanno perso il lavoro. Succede a Verona, terra di Romeo e Giulietta, universalmente nota come la città dell’amore. Trasfigurata ne “la città a favore della vita” da una mozione anti-aborto leghista approvata dal Consiglio comunale. La storia di Angelo e Andrea racconta, in filigrana, questa Italia. Fascista, omofoba e indifferente. Spiega quello che non vediamo e quello che siamo diventati. «La nostra vita è cambiata radicalmente». È l’11 agosto, piazza Bra in centro, fuori da una gelateria Andrea e Angelo vengono insultati da un gruppo di ragazzi: «Culattoni di merda, rotti in culo». «Perché ci tenevamo per mano», spiega Angelo. Vengono subito dopo schiaffeggiati e spintonati. Poco più in là individuano dei vigili: «Ci siamo avvicinati per chiedere aiuto, il vigile non voleva capire. Dopo pochissimo si è avvicinato anche uno degli aggressori, ha toccato la spalla al vigile e gli ha detto “non vedi che sono due froci di merda?”. Il vigile lo ha mandato via senza fare nulla». Dopo l’episodio i poliziotti della Digos hanno individuato e denunciato un ventunenne originario della Romania. Ma l’incubo di Andrea e Angelo comincia proprio da questa inquadratura: la denuncia, il clamore, una grande manifestazione di piazza “Mano nella mano contro l’omofobia” promossa dalle associazioni. «Forse se quella sera i vigili avessero fatto attenzione questo incubo non sarebbe mai iniziato». È la notte del 12 settembre, Andrea sente dei rumori nel cortile di casa. Apre la porta e viene travolto da un getto di benzina che lo colpisce in pieno volto. All’esterno l’abitazione viene ricoperta da una serie di scritte con la bomboletta nera, svastiche accompagnate da frasi come: “Culattoni bruciate” e ancora “Vi metteremo tutti nelle camere a gas”. Circa 30 litri di benzina per cospargere la casa. Anche qui: denuncia, clamore da parte dei media ma zero solidarietà dalle istituzioni. «Il sindaco Sboarina anzi ci ha attaccato», fuma di rabbia Angelo, «dice che non ha nulla contro di noi ma lui è per la famiglia naturale». Federico Sboarina, avvocato cattolicissimo soprannominato sindaco chierichetto, a marzo ospiterà il Congresso delle Famiglie, il summit mondiale delle associazioni anti-lgbt cattoliche e di destra. «Verona è sempre stata così ma adesso è peggio. Tutto intorno lo è. Noi abbiamo perso il lavoro. Abbiamo un’impresa edile e i nostri clienti hanno sempre saputo di noi. Tre anni fa io e Andrea ci siamo sposati in Spagna. Dopo la denuncia, l’esposizione mediatica, i clienti hanno disdetto tutto. Si vergognavano». La cortina di omotransfobia attraversa le istituzioni e si diffonde nel tessuto sociale serrando porte e finestre: le strutture alberghiere rifiutano le persone Lgbt, i locali pubblici vietano di baciarsi o tenersi per mano, le case in affitto vengono negate. Ai primi di giugno Valentina risponde ad un annuncio in cui chiedevano disponibilità di ragazze per lo stand delle pistole sul Lungotevere. Un lavoro estivo, da svolgersi tra luglio e agosto. Viene rifiutata perché troppo mascolina: «Prima capisci qualcosa sulla tua identità poi ti potrai proporre per lavori in cui si cercano ragazze». Il 21 dello stesso mese due ragazze si scambiano un bacio all’interno del caffè Mc Donald’s a Napoli, vengono sgridate e invitate a uscire: «Una signora ci guardava con disprezzo e paura». Nel mese di agosto Ivy 19 anni, iscritta all’università di Lettere di Palermo, non riesce a trovare una stanza in affitto: «Mi hanno chiuso il telefono in faccia dopo che ho detto che ero trans. Oppure mi hanno detto esplicitamente che le altre ragazze non sarebbero state tranquille». E sempre nel mese di agosto a Casarano, in provincia di Lecce, un proprietario di casa si rifiuta di concedere l’affitto a una coppia gay. «Preferisco affittare casa ad una famiglia normale», dichiara l’uomo all’agente immobiliare che, pur avendo già incassato la caparra, ha dovuto dare la notizia alla coppia, ormai già pronta a trasferirsi. Questa Italia diventa anche il paese dell’altro mondo. Del mondo sottosopra, capovolto, dove sono gli studenti a bullizzare i professori. Come è successo a un insegnante di Imola che per un anno ha sopportato insulti, scritte volgari alla lavagna nella quasi totale indifferenza degli altri docenti e della preside. Il tentativo del vicepreside, che aveva dato inizio a un percorso disciplinare, soffocato dai genitori «che non si sono mai preoccupati di chiedere scusa all’insegnante dei loro figli». La denuncia arriva a fine maggio da un amico dell’insegnante, anch’egli vittima di attacchi omofobi, con una lettera pubblicata dal sito Gaynews.it, testata diretta da Franco Grillini. Ancora più grave il comportamento della dirigente scolastica: «Non gli ha espresso solidarietà, né si è presentata ai collegi straordinari dei docenti per l’adozione di provvedimenti disciplinari. Anzi, ha cancellato dal registro elettronico le note che facevano riferimento a questi gravi atti». La preside sulla vicenda ha chiesto il silenzio. Gli alunni? «Penso che abbiano capito il messaggio», ha risposto, «non so se con l’insegnante si sono scusati tutti, ma di certo i genitori hanno capito». Eppure rompere il silenzio dopo una violenza sarebbe la prima risposta da dare. La violenza cerca un alleato nel senso di colpa, nel “te la sei cercata”; aggredisce la vittima e la fa tacere. Dire “mi hanno aggredito” e indicare l’aggressore è la prima mossa per allentare la catena dell’omofobia. Ma non è facile compierla. Nel 2017 nel centro di Bari una coppia in vacanza in Puglia, è stata prima insultata mentre usciva da un locale. Successivamente picchiata: calci e pugni per essere poi essere rapinata. Il tribunale di Bari ha condannato il 31 gennaio 2019 i tre aggressori a due anni di reclusione. Per il giudice un «pestaggio animalesco a sfondo sessista», «brutale». Le vittime «per paura di ritorsioni» - come da loro dichiarato - non si sono costituite parte civile. «Un segnale», commenta Gabriele Piazzoni, segretario nazionale di Arcigay. «L’assenza di una legge penale di contrasto dell’omotransfobia espone le vittime a una condizione di vulnerabilità estrema, da cui legittimamente si mettono al riparo. Perciò spesso non denunciano o addirittura rinunciano a quel poco di giustizia che è loro dovuta. Trattata il più delle volte come materia da talk show, ridefinita ogni volta nelle contrapposizioni degli opinionisti di turno. Una questione di opinioni, insomma, delegata dalla politica, in modo pilatesco, ai tribunali popolari».
NON È UN PAESE PER GAY. Giordano Stabile per La Stampa il 21 agosto 2019. L’Autorità palestinese ha messo al bando le attività del gruppo per i diritti degli omosessuali e dei transgender Al-Qaws, fondato nel 2001 e che finora aveva operato senza restrizioni in Cisgiordania. La polizia ha proibito alcuni eventi previsti nelle principali città palestinesi. Il portavoce Louai Irzeiqat ha spiegato che tali attività sono «contrarie agli ideali e ai valori della società palestinese». Il governo di Ramallah è laico e finora non aveva ceduto alle pressione dei movimenti islamici conservatori, che considerano l’omosessualità un crimine punito dalla sharia. Per questo i gruppi che difendono i diritti dei Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali, transgender) hanno finora operato senza grossi problemi. Al-Qaws è uno dei più importanti e promuove la tolleranza e la diversità sessuale all’interno della società palestinese. E’ anche forte l’influenza di Israele, dove c’è molta tolleranza e da anni si svolgono massicci gay pride a Tel Aviv. Il gruppo ha condannato «le persecuzioni, intimidazioni, le minacce di arresto da parte della polizia o singoli individui». In una dichiarazione postata sulle reti sociali Al-Qaws invita la polizia e la società palestinese «a concentrarsi nella lotta contro l’occupazione e altre forme di violenza che stanno facendo a pezzi il tessuto delicato della nostra società e i nostri valori, invece di perseguitare attivisti che lavorano instancabilmente per mettere fine a ogni forma di violenza».
Gli omofobi non si vergognano più del loro odio. E l'aumento delle violenze lo dimostra. Schiaffi, aggressioni, discriminazioni quotidiane. Fino alla tragedia di Umberto, ucciso con un pugno perché gay. A quattro mesi dalla nostra inchiesta "Caccia all'omo" gli episodi sono in continua crescita. E l'asticella si è alzata perché gli aggressori non hanno paura. Simona Alliva il 16 maggio 2019 su L'Espresso. Lo massacra sul pianerottolo di casa con un bastone a cui aveva conficcato tre chiodi arrugginiti. Colpi alla schiena, a una mano. Non si ferma finché la moglie accanto non lo implora. La vittima rimane a terra. È il vicino di casa. Non sopportava la vista di aver come dirimpettaio una persona transessuale. Prima gli insulti sui social, dal vivo e poi l’assalto. È successo 15 giorni fa a Varcaturo una frazione del comune di Giugliano in Campania. È l’omotransfoba che cresce, è un'onda che sommerge il paese. L’Italia della caccia all’omo, come raccontato da L’Espresso soltanto quattro mesi fa, non è cambiata. L’assalto alle persone Lgbt continua nel benestare di un governo che presenzia a eventi come “Il Congresso della Famiglie”, dove gli omosessuali vengono paragonati a persone malate da curare. L’omofobia lievita, si passa dagli insulti ai calci, dalle offese alle aggressioni fisiche. Ma resta un reato «fantasma», commesso da chi trova la complicità della indifferenza altrui. Percorrendo questi ultimi mesi a ritroso ci troviamo di fronte a u n anno nero per le persone Lgbt . Un anno che non risparmia neanche gli attivisti. «“Al rogo”, “pedofilia colorata”, “giù di manganello”, “figli di cani”, “merce da termovalorizzare”, “radere al suolo per il bene dei normali”, “se comandavo io eravate tutte saponette”. Questo è il tenore di commenti che suscitano le associazioni sui social. Il 2 maggio il Presidente di Omphalos LGBTI, Stefano Bucaioni, denuncia alla Procura della Repubblica di Perugia depositando 19 pagini di insulti ricevuti soltanto tra il mese di febbraio e fine aprile. Proprio aprile diventa il mese più torbido. Un mese che si lascia alle spalle il discusso “Congresso della Famiglia” ma non i suoi miasmi. Mentre ad Arezzo un ragazzo viene strattonato da buttafuori di un locale al coro «Vai via frocio di merda», a Lodi si organizzano seminari sulla felicità vietati alle persone omosessuali: «Possono partecipare solo se desiderano praticare il celibato”. Il 16 aprile a Bologna due ragazzi appena usciti da un locale vengono circondati da sei coetanei: “Hanno cominciato a darci schiaffi, pugni e calci” racconta uno dei due “prima al mio amico, poi a me”. Lo schema non cambia: dalle domande provocatorie (“Hai il pene o la f...?”) alle botte. Fino alle minacce “Se lo dite a qualcuno torniamo con i coltelli”. Sei contro due. Un match irregolare su qualunque ring. La violenza passa sui social: a Padova due ragazze nella Casa dello studente Copernico in via Tiepolo, vengono ricoperte di insulti perché lesbiche, viene così chiesto loro di abbandonare lo stabile. Una cortina velenosa che penetra fin dentro i luoghi di lavoro: il 20 aprile una ragazza viene isolata dai colleghi che scoprono il suo orientamento sessuale: “lesbica”. Il 3 marzo il sindaco di Potendera Brini sostenuto da Ceccardi e Ziello annuncia fiero: “sono normale nella mia famiglia non ci sono gay”. A Massa, Giulia all’anagrafe nasce come Tiberio, nonostante abbia completato tre anni fa il percorso di transizione al genere femminile, la successiva rettificazione anagrafica tarda ad arrivare per via di una burocrazia lenta e farraginosa. Quarant’anni, operaia in una tintoria industriale trova una casa sul mare: “il sogno di una vita”. Versa i soldi necessari, compila i documenti. Qui il proprietario si rende conto: Giulia un tempo era Tiberio. Cambia idea. Niente affitto. Il 25 febbraio a Roma un ragazzo viene fatto scendere da un taxi. Aveva chiesto all’autista di fermarsi a un distributore automatico per comprare delle sigarette. Gli aveva dato del “tu”. “Del tu lo dai ai tuoi simili, frocio scendi subito”. Ci sono vari livelli di omofobia. Si pratica aggredendo con le parole, con i pugni, con i calci. Ostacolando il percorso delle leggi. Favorendo terapie di «riparazione». È un’opera di dissuasione. È il mondo giallo-verde, diviso in normali e deviati. Chi aggredisce non ha più paura né vergogna, si specchia in chi ci governa, nella maggioranza di «normali», della continuità della specie che va protetta, del mondo che precipita e va fermato. Magari con un pugno come quello che ha ucciso Umberto Rainieri l'artista 53enne di origini abruzzesi col nome d'arte Nniet Brovdi. Un pugno in pieno volto che lo ha fatto cadere sull'asfalto dove ha sbattuto violentemente la testa. “Ucciso dall’omofobia” ha raccontato l'ex compagno, Fabio Giuffrè. È quello che resta in questa Italia dove l’unica legge che vige è quella primordiale. La legge dell’odio contro chi non si può difendere. Come Umberto Rainieri. Circondando dal branco. Ora Umberto non c’è più. La caccia all’omo continua.
NON E’ UN PAESE PER GAY. Da Repubblica il 19 aprile 2019. Per proteggersi da insulti, intimidazioni e angherie una coppia gay di Grezzana (Verona) ha deciso di erigere all'esterno della propria casa un 'muro' di lamiera lungo l'intero perimetro come protezione. Ma per il Comune quella recinzione è abusiva e va rimossa. Andrea Gardoni e il suo compagno Angelo, 24 e 59 anni, i due protagonisti del caso riportato dal "Corriere del Veneto", sposati a Barcellona quattro anni fa ma celibi per la legge italiana, raccontano che le vessazioni sono iniziate tempo fa. Prima Andrea si è visto investire da una secchiata di benzina, poi la coppia ha trovato le gomme dell'auto tagliate, quindi sul muro esterno qualcuno ha disegnato una svastica. Infine un mese fa ai due, che fanno il muratore e l'elettricista, è stato recapitato un volantino nella cassetta delle lettere con minacce di morte e insulti. Da qui la decisione di alzare letteralmente un muro metallico per proteggersi, ritenuto abusivo dall'amministrazione municipale che ha intimato alla coppia di toglierlo. "Nessuno vede la nostra fatica di vivere - si sfogano - il dramma che stiamo vivendo, i guasti che farebbe su ogni altra coppia il discredito, sotto assedio. Anche il nostro amore si sta guastando, litighiamo sempre di più".
NON E’ UN PAESE PER ETERO. Antonio Palma per Da Fanpage il 19 aprile 2019. Qualcuno lo ha già bollato come una provocazione mentre per altri si tratta di un discriminazione al contrario, di certo però l'annuncio di lavoro lanciato dal titolare di un salone di bellezza in Trentino Alto Adige su facebook sta facendo molto discutere sul social. "Cerco parrucchiere uomo e gay e ovviamente bravo da assumere" recita infatti l'avviso che Andrea Caputo ha deciso di rilanciare online per cercare di trovare la persona adatta da assumere per dargli una mano nel suo salone di Rovereto, nella provincia autonoma di Trento. Il diretto interessato, interpellato dal quotidiano locale Trentino, dal suo canto assicura che la trovata dell'annuncio a mezzo social non è né una provocazione né una forma di pubblicità, né una discriminazione nei confronti degli eterosessuali ma solo la voglia di trovare la persona adatta al ruolo offerto. Caputo infatti ha idee molto precise sulla persona da assumere che, oltre ad avere capacità ed esperienza come parrucchiere, deve avere anche una predisposizione per il contatto con il cliente e le tendenze del momento. E in questo campo, secondo l'esercente, i gay avrebbero una marcia in più. "Nessuna malizia, nessun ammiccamento, cerco un parrucchiere, ovviamente mi serve bravo. E per esperienza posso dire che nel nostro mestiere, i gay hanno quasi sempre una marcia in più" ha dichiarato infatti l'uomo al quotidiano, spiegando: "Sono più estrosi, più sensibili alle esigenze del cliente, più attenti alla moda". Mettere in chiaro nell'annuncio la volontà di assumere anche persone gay però, ha precisato Caputo, deriva dalla volontà di evitare che ci fosse anche solo il sospetto di una discriminazione e preclusione verso gli omosessuali. Ad ogni modo, ha concluso l'uomo, "i candidati saranno messi alla prova e quello che riterremo più bravo sarà assunto. Gay o non gay che sia".
· E’ un paese per Gay.
Francesco Borgonovo per “la Verità” il 20 novembre 2019. Solo nell'ultima settimana sono emersi diversi casi di omofobia, una vera escalation a cui dobbiamo porre fine». Alessandro Zan del Partito democratico ha tutto l' interesse a tenere alta la tensione. Dopo tutto è il relatore della nuova legge contro l' omofobia. Di cui, stando ai progressisti italiani, il nostro Paese ha assoluto bisogno. Il 24 ottobre la Commissione giustizia della Camera ha iniziato l'esame della proposta e Zan appare molto soddisfatto: «L'iter della legge contro l'omotransfobia registri nuovi passi avanti», spiega. «Abbiamo abbinato alla mia proposta di legge i testi a prima firma Boldrini e Scalfarotto: l' obiettivo è giungere a un testo base unificato che tenga conto di tutte le proposte pervenute». Non ci sono soltanto le proposte giunte da sinistra. Anche l' azzurra Giusi Bartolozzi ha deciso di presentare la sua, e secondo Zan «è un bel segnale che anche Forza Italia, pur essendo all' opposizione, abbia annunciato di voler presentare una proposta propria». A suo dire, ciò «dimostra che la gran parte delle forze politiche in Parlamento vuole raggiungere un risultato concreto contro l' odio e le violenze omotransfobiche. Sono soddisfatto del clima che accompagna i lavori: ora è tempo di accelerare e dare risposte concrete». Che sia il momento di premere sull' acceleratore lo pensano in molti. Il 13 novembre, nella sala monumentale del Consiglio dei ministri, è stato presentato un progetto chiamato «End Sogi Discrimination», finanziato con il programma Rec della Commissione europea e promosso dal Consiglio d' Europa, dall' associazione Cild (Coalizione Italiana per le Libertà Civili). Come spiega Gaynews, «obiettivi principali dell' iniziativa saranno l' avvicinamento delle legislazioni dei Paesi coinvolti alle raccomandazioni del Consiglio d' Europa e la costruzione di contro-narrative al discorso d' odio». Ovviamente, nel corso della presentazione (a cui ha partecipato pure il direttore dell' Unar Triantafillos Loukarelis) si è insistito parecchio sul fatto che l' Italia non ha ancora una legge contro l'omotransfobia. Insomma, anche questo progetto finanziato dalla Commissione europea serve a far pressione affinché sia approvata la famigerata «norma anti odio». Il punto è: davvero esiste una emergenza omofobia in Italia come sostengono Zan, Laura Boldrini, Maria Elena Boschi e via dicendo? La questione se l' è posta Carlo Giovanardi di Idea, che già in passato si è battuto (con successo) per scongiurare l' approvazione delle leggi bavaglio in materia di sesso e genere. Giovanardi si è rivolto all' Oscad, ovvero l' Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori della Polizia di Stato. Si tratta dell' ente pubblico che raccoglie le segnalazioni dei cittadini, delle associazioni Lgbt e della medesima Unar (l' organismo contro la discriminazione della presidenza del Consiglio) riguardo ai cosiddetti crimini d' odio. La risposta è stata piuttosto articolata, e comprensiva di grafici che in parte riportiamo in queste pagine. Secondo l' Oscad, tra il 10 settembre2010 e il 31 dicembre 2018 sono giunte 2.553 segnalazioni di «crimini d' odio». Di queste, 1.157 riguardano i cosiddetti «hate crime», mentre 371 sono gli «hate speech» (discorsi di odio). È interessante notare la specifica che fanno gli esperti della polizia, quando spiegano che le segnalazioni Oscad «non consentono di valutare - da un punto di vista statistico - il fenomeno dei crimini d' odio, in quanto il numero di segnalazioni che pervengono è influenzato, tra l' altro, dalla sensibilità dei potenziali segnalanti, condizionate anche dall' attenzione mediatica del momento». Significa che il numero delle segnalazioni può cambiare a seconda dell' attenzione mediatica, dunque la propaganda martellante sull' omofobia potrebbe farle aumentare. In ogni caso, vediamo di analizzare i dati ufficiali disponibili. A un esame attento, si scopre che ben il 58,7% dei crimini e discorsi di odio riguarda le discriminazioni etniche e razziali, mentre il 19,4% ha a che fare con il credo religioso. Significa che, sul totale delle segnalazioni, quelle riguardanti l' orientamento sessuale sono appena il 13%, mentre quelle riguardanti l' identità di genere sono lo 0,9%. In totale parliamo di 214 segnalazioni tra il 2010 e il 2018. Vuol dire poco più di 26 casi in media ogni anno. Un numero statisticamente quasi insignificante. Stando ai dati della polizia, le aggressioni fisiche segnalate in 10 anni sono state 176, cioè 22 in media l' anno. Ovvio: anche una sola aggressione è grave e spregevole. Ma se guardiamo i numeri delle violenze sessuali (dati riportati dal Sole 24 Ore nel 2018 e relativi al 2016), ci rendiamo conto che tra i due fenomeni non c' è paragone. Parliamo di 7.600 stupri denunciati in un anno contro 176 aggressioni in 8 anni. Le violenze sessuali, fra l' altro, da qualche tempo sono in calo. Se dovessimo basarci su ciò che sostengono alcuni giornali e alcuni politici, dovremmo dedurre che, al contrario, le violenze omofobe sono in aumento. Ma non è così. Il dato più interessante fra quelli riportati dall' Oscad è quello riguardante la percentuale di denunce per omotransfobia sul totale delle segnalazioni di odio. Notiamo che, nel 2010, i casi di omofobia erano il 33,3% del totale. Nel 2018 sono appena il 15,5%. Non solo: il calo è stato costante. Nel 2016, infatti, le segnalazioni omofobiche erano il 15,9%, nel 2017 il 17,8%. Insomma, gli ultimi numeri ufficiali disponibili mostrano che gli attacchi al popolo arcobaleno sono in diminuzione, soprattutto rispetto ad alcuni anni fa. «I dati confermano che l' obiettivo della proposta dell' onorevole Zan sull' omofobia», dice Carlo Giovanardi, «non è quello di contrastare una inesistente emergenza nazionale, ma un lucido disegno volto a perseguire penalmente chiunque diffonda idee conformi ai valori della nostra Costituzione, tipo che il matrimonio può esistere soltanto tra uomo e donna, che i bambini hanno diritto ad avere un padre ed una madre naturali o adottivi, che l' utero in affitto deve rimanere un crimine eccetera». In effetti, se consideriamo che l' attenzione mediatica è altissima e che il numero delle segnalazioni complessive aumenta, comprendiamo che l' emergenza omofobia semplicemente non esiste. Intendiamoci: nessuno nega che esistano casi di violenze orribili, che vanno combattuti. Ma parlare di emergenza serve solo a sostenere l' approvazione di una legge il cui vero scopo è piuttosto chiaro: limitare la libertà di espressione e di pensiero.
Il premier gay e la premier lesbica: la foto impossibile solo fino a pochi anni fa. Pubblicato giovedì, 12 settembre 2019 da Elena Tebano su Corriere.it. Il primo ministro del Lussemburgo Xavier Bettel e il marito Gauthier Destenay hanno incontrato la prima ministra della Serbia Ana Brnabic e la sua compagna Milica Djurdjic. Un normale incontro tra capi di governo, che però dà l’idea di quanto sia cambiate le cose (almeno in Europa) in pochissimi anni: è quello tra la prima ministra serba Ana Brnabic e il premier lussemburghese Xavier Bettel. Fotografati con i rispettivi partner: la compagna di lei e il marito di lui. Un’immagine che solo pochi anni fa sarebbe stata impensabile. Brnabic lunedì e martedì aveva in programma una visita di Stato in Lussemburgo, su invito di Bettel. Ufficialmente per partecipare alle celebrazioni del 75esimo anniversario della liberazione del Paese dal fascismo e parlare di cooperazione economica. In realtà per discutere della possibile entrata nell’Unione europea della Serbia. I due capi di governo, però, si sono visti informalmente anche il giorno prima, con i rispettivi partner. Il giornalista britannico Benjamin Butterworth ha postato su Twitter la foto di quell’incontro con un commento: «Questa foto dall’aspetto normale è una novità storica: il primo ministro lussemburghese e suo marito incontrano la prima ministra serba e la sua compagna. I progressi sembrano spesso troppo lenti. Ma sono reali, e vale la pena di festeggiare». Bettel è diventato il primo premier lussemburghese apertamente gay nel 2013. Quando due anni dopo il suo Paese ha legalizzato le nozze tra persone dello stesso sesso ha sposato l’architetto Gauthier Destenay. Brnabic, che a febbraio ha avuto un figlio con la compagna Milica Djurdjic, come scrive Pinknews, è diventata la prima ministra della Serbia nel 2017, anno in cui ha partecipato anche al Gay Pride del Paese. Un gesto non scontato, visto che solo pochi anni prima, nel 2010, la manifestazione è stata attaccata da gruppi di omofobi e integralisti cristiano-ortodossi, per poi essere vietata «per motivi di ordine pubblico» nei due anni successivi. Da quanto guida il governo Brnabic partecipa spesso a eventi ufficiali accompagnata da Djurdjic, di professione medico. Finora ci sono stati solo cinque capi di governo apertamente gay o lesbiche (oltre a loro l’ex premier islandese Jóhanna Sigurðardóttir eletta nel 2009 — la prima — , quello del Belgio Elio Di Rupo e quello irlandese Leo Varadkar). L’enfasi in questo caso è sull’«apertamente»: non è noto quanti lo siano stati segretamente — anche se è noto, per esempio, che l’ex first lady americana Eleanor Roosevelt aveva una relazione con la giornalista Lorena Hickok, mentre era alla Casa Bianca.
· I fumetti sono gay.
Brasile, sindaco di Rio censura bacio gay tra Avengers: scoppia la protesta. La Corte: "Illegale". La decisione di Marcelo Crivella di confiscare il libro Avengers: The Children’s Crusade crea una reazione da supereroi. Lo YouTuber Felipe Neto, 34 milioni di followers, ha acquistato 14 mila libri su temi LGBT e li ha distribuiti gratuitamente. L'immagine del bacio della Marvel è esposta nei chioschi di tutto il paese e pubblicata in prima pagina dal quotidiano più importante del Brasile. Katia Riccardi il 9 settembre 2019 su La Repubblica. La reazione alla censura di un bacio in Brasile stavolta è stata da supereroi. Il sindaco di Rio de Janeiro, Marcelo Crivella, durante il fine settimana aveva ordinato infatti che un fumetto degli Avengers fosse rimosso dal festival del libro. Conteneva l'immagine di due uomini che si baciano, due eroi. Troppo per Crivella secondo il quale il fumetto doveva essere confiscato dalla Biennale Internazionale del Libro di Rio per "proteggere i nostri figli" da "contenuti non adatti ai minori". Il fumetto proibito è Avengers: The Children’s Crusade del 2010, dove i supereroi Hulkling e Wiccan, fidanzati, si baciano. Il sindaco ha ordinato ai funzionari di sequestrare tutte le copie del libro, scritto e illustrato da Allan Heinberg e Jim Cheung. In un video pubblicato su Twitter, Crivella, protestante evangelico ed ex vescovo della Chiesa universale del Regno di Dio, aveva spiegato come non fosse "giusto che i bambini abbiano accesso ad argomenti non adatti alla loro età". Il sindaco, secondo il quale le persone omosessuali sono "vittime di un terribile male", con la sua decisione aveva l'obiettivo di "far rispettare la legge e difendere la famiglia". I fumetti dovrebbero comunque essere sigillati e con, ben visibile, l'avvertimento sul contenuto in conformità con The Child and Adolescent Statute (ECA). Ed è scoppiata la protesta. Un popolare YouTuber brasiliano, Felipe Neto, oltre 34 milioni di followers, ha acquistato 14 mila libri su temi LGBT e li ha distribuiti gratuitamente al salone. L'immagine del bacio della Marvel è stata esposta nei chioschi di tutto il paese. Editori e scrittori hanno accusato il sindaco di censura. E il quotidiano più importante del Brasile, Folha de São Paulo, sabato ha pubblicato la foto del bacio grande, in prima pagina.
Poi ci sono stati i supereoi. Gli organizzatori del salone del libro hanno rifiutato di aderire. Secondo quanto riferisce il quotidiano brasiliano O Globo, otto dei nove stand che vendono fumetti al festival non avevano il libro, mentre nel nono il fumetto era esaurito già due giorni prima della dichiarazione del sindaco. Che è riuscita comunque ad ottenere il risultato opposto: subito dopo le copie di Young Avengers: the Children's Crusade sono andate a ruba, esaurite in pochi giorni. Il fumetto era stato già contestato alcuni giorni prima del sindaco, anche dal consigliere di Rio Alexandre Isquierdo che lo aveva criticato durante un discorso al municipio e su Instagram aveva dichiarato come diffondesse "il concetto di omosessualità ai bambini", aggiungendo: "I genitori non si accorgono del contenuto se non dopo. Un crimine terribile". Ma oggi la Corte Suprema brasiliana ha chiuso la questione dichiarando illegale il divieto di qualsiasi pubblicazione LGBT. Secondo il procuratore Dias Toffoli la decisione di Crivella viola infatti la garanzia costituzionale dell'uguaglianza per tutti. A giugno la Corte suprema federale si era pronunciata per criminalizzare l'omofobia, classificandola come un crimine simile al razzismo. È stato un passo importante per le minoranze sessuali in uno dei paesi del mondo più avversi alla comunità LGBT. Decisione criticata però dal presidente Jair Bolsonaro, non proprio esente in passato da dichiarazioni omofobe. Non proprio un eroe.
· La tv è gay. Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay.
“Per lavorare in tv serve il patentino da gay e da tossico”. L’accusa di Fabio Testi. Adolfo Spezzaferro il 22 Dicembre 2018 su ilprimatonazionale.it Fabio Testi, volto noto del cinema e della tv a partire dagli anni ’70, da tempo non si vede più sulle reti nazionali. Per un motivo ben preciso, a detta dell’attore: non è né gay né drogato. In un’intervista a Radio Cusano Campus l’attore lancia un’accusa pesante contro i network televisi italiani: “Per lavorare in Rai e Mediaset servono patentini da gay e tossici“. Dove il “patentino” equivale anche a una disponibilità in quel senso, pure se gay non si è. “Sai quanti ne ho visti di amici miei che hanno accettato? Io mi sono trovato a metà film col regista che mi diceva se non accetti vai a casa e io dicevo ‘Ok vado a casa’. Ma sai quanti sono caduti e sono scesi a compromessi?”, rivela Testi in chiaro riferimento al “Me Too” italiano. “Per lavorare in Rai devo fare un tesserino da gay, poi uno da tossico per lavorare nell’altro ambiente. Ormai in Italia il lavoro artistico si è limitato a certi gruppi, dove io son tagliato fuori perché sono troppo quadrato. Io non ho tesserino e allora mi lasciano a casa così non gli rompo i coglioni”, spiega l’attore. Sul fronte della politica, emerge un altro dettaglio che completa il quadro. Testi infatti non disdegna l’attuale ministro dell’Interno. Fatto che – si sa – suona come una bestemmia nel mondo dello spettacolo italiano. “Tra Salvini e Di Maio ovviamente sono per Salvini. Prima di criticarli e di metterli alla gogna, vediamo cosa faranno e soprattutto ricordiamoci cos’hanno fatto i precedenti governi. Io ho tre figli che lavorano all’estero perché purtroppo non hanno la possibilità di lavorare in Italia, si sono formati qui e non possono lavorare nel nostro Paese”, conclude l’attore. Insomma Testi, protagonista di film importanti come “Il giardino dei Finzi Contini”, “Camorra e i “Guappi” e famoso anche all’estero (tra le sue ex compagne ci sono Ursula Andress e Charlotte Rampling), è fuori dai giochi anche per ragioni politiche, a quanto pare. E dopo queste affermazioni assolutamente fuori dal coro del pensiero unico e politicamente scorrette, sarà ancora più difficile vederlo nuovamente sui nostri schermi. Adolfo Spezzaferro
Fabio Canino: "Quando feci coming out, sembravo l'unico gay in tv". Intervistato dalla trasmissione radiofonica I Lunatici, Fabio Canino ha parlato del suo coming out e del suo ultimo libro. Gianni Nencini, Giovedì 06/06/2019, su Il Giornale. Ospite della trasmissione I Lunatici di Rai Radio 2, Fabio Canino ha parlato del suo coming out, di diritti gay e del suo ultimo romanzo. Il giudice di Ballando con le stelle ha rivendicato il fatto di essere stato uno dei primi gay dichiarati nella televisione italiana: "Il mio coming out avvenne in un momento in cui nessuno lo faceva, sembrava fossi l’unico gay in televisione". Fabio Canino scende poi nei particolari e ricorda come avvenne la sua dichiarazione: "Parlando al Costanzo Show di tradimenti io rivelai che ero stato tradito dal mio fidanzato". "Passò un bel messaggio, non era importante se a tradirmi fosse stato un uomo o una donna, ma semplicemente che anche io ero stato tradito, come le altre persone presenti su quel palco", ha aggiunto soddisfatto. Canino ha raccontato di non avere brutti ricordi del periodo del suo coming out ma adesso, secondo il conduttore fiorentino, la situazione è cambiata in peggio: "Oggi invece c’è un rigurgito, se fino a un anno e mezzo fa i messaggi negativi erano tre su dieci ora sono cinque su dieci". Fabio entra nel dettaglio di questi messaggi: "Ci sono persone che scrivono frocio fascista o frocio comunista". E poi commenta ironico: "Sono anche un po’ confusi. Perché finché si tratta di frocio siamo d’accordo tutti, ma fascista proprio no". Recentemente Canino ha dato alle stampe il libro "Le parole che mancano al cuore", un romanzo che racconta la relazione tra due calciatori di Serie A: "È una storia d’amore contrastata, mi piace raccontarla in un momento in cui si vuole distruggere qualunque tipo di differenza e di diversità". Secondo Fabio, proprio il sentimento è l'unica risposta all'odio: "L’amore riguarda tutti. È l’unica chiave di comunicazione universale. Anche il peggior omofobo e il peggior razzista una volta nella vita si sarà innamorato".
GAY IN TV… NON SI STA ESAGERANDO? Andrea Satta il 3 dicembre 2018. Mentre sono in attesa di eliminare la mia vecchia televisione a tubo catodico ancora perfettamente funzionate (ma che emana così tante radiazioni che deve essere alimentata col plutonio) e, che mi venga recapitato l’ultimo regalino che mi sono fatto, ieri sera, stanco dal lavoro mi sono guardato finalmente, con grave ritardo, il film conclusivo alla serie tv Sense8. La serie non ha avuto il successo che si meritava, per mano del tema e del metodo usato. Storie contorte che s’intrecciano in un’unione sia mentale che fisica che va ben oltre ciò che la tv ha da sempre mostrato. Sarà fantascienza, ma anche nelle evidenti cadute di stile (a tratti persino ridicole e non so quanto siano volute), Sense8 resta una perla difficilmente dimenticabile. Ma per il mio primo post nel mese di dicembre, voglio parlare facendo una riflessione/provocazione su come le serie tv si stiano evolvendo, includendo, non si capisce bene per quale motivo anche per i fini della storia narrata, personaggi omosessuali. Se in Sense8 non ho nulla da eccepire e buona parte della sua matrice ruota su questo aspetto, per gli altri non li capisco. Mi offrono lo spunto per dire che le tv seguono le mode e non il desiderio di sensibilizzare l’opinione pubblica. Quasi fossero costrette ad inserire gioco forza personaggi omosessuali. Due su tre serie tv horror viste molto di recente e tutte targate Netflix (Le terrificanti avventure di Sabrina, Hill House e Requiem), riportano personaggi gay e solo nell’ultimo dei titoli citati non vi è traccia di questa forzatura. Il perché la reputo una forzatura la dirò in seguito. In Sabrina è inspiegabile e palesemente inutile ai fini della storia e dell’evoluzione narrativa il personaggio di Ambrose. In Hill House lo studio, molto più approfondito dei personaggi, hanno reso assolutamente realistico e credibile il ruolo di Kate Siegel (ma in questo caso c’è la mano sapiente di Mike Flanagan a non lasciare nulla al caso). Senza dimenticare il bellissimo personaggio dell’avvocatessa in Jessica Jones. The 100 segue la stessa corrente in cui mi associo nell’esprimere un perché? che non costruisce ne forma sostanza alla storia. Sembrano essere buttati lì, per compiacere qualcuno o gruppi in particolare. Nell’osannata serie tv The Handmaid’s Tale (Il racconto dell’ancella), nel racconto non c’è traccia di personaggi gay (lo dico perché l’ho letto molto tempo fa). Nella serie tv, si! Perché? Perché andava inclusa? Persino in Star Trek Discovery hanno inserito il ruolo di due ufficiali omosessuali. Non c’è nulla di male, ma nelle serie tv precedenti non si è mai toccato questo tasto nei personaggi della flotta astrale… ed ora… Flup, eccoli spuntare dal nulla! Ma, Star Trek su certe cose è sempre stata all’avanguardia e molto coraggiosa in talune tematiche quindi si salva in corner ( e lo dico da Trekkie sfegatato). Stessa cosa per Orpahn Black, Grace & Frankie, il super sopravalutatissimo Modern Family (lo giuro, non capisco cosa ci sia di divertente in questa serie tv) e qualche altro che ora non mi viene in mente. Con l’omosessualità non si scherza perché si gioca con le emozioni delle persone, perciò le mie parole sono dettate da ciò che osservo con i miei occhi e con la mente: una banale analisi, molto personale di quanto finora visto e, per quanto mi riguarda, sta diventando norma vederli sempre più spesso nelle serie tv come nei cinema. Un cliché che alla lunga annoia e che non costruisce nulla di concreto. Per esempio in Orange is the new black, ha già stufato e la perdita di ascolto, dopo le prime due stagioni, dimostrano di avere perso lo sprint iniziale (ma il motivo è l’esagerata diversificazione a briciole dei personaggi, rendendo il ruolo di Piper addirittura secondario – un errore che NON si deve mai fare poiché lo spettatore non ha più un punto di riferimento preciso da seguire). Spesso i suoi personaggi sono troppo caricati e sembrano uno spot per i movimenti Lgbt. Invece, proprio come in Hill House, o nel dimenticato Six Feet Under, i personaggi devono essere veri e la condizione omosessuale secondaria ai personaggi della storia. Ciò non toglie che il movimento Lgbt in cui dice che nelle serie tv i gay sono troppo pochi e muoiono velocemente abbia realmente rotto i maroni. Il tanto osannato Will & Grace (che mi diverte veramente molto), rappresenta i gay in modo stereotipato. Ridi, ma proprio come in Modern family – che a me non fa ridere, i gay NON ne escono bene. Anzi, sono ridicolizzati a petulanti isteriche. Insomma, in conclusione a questa mia personalissima analisi, non si gioca sui sentimenti delle persone e certi personaggi è meglio non metterli o spingerli all’eccesso (in Sense8, alcune provocazioni sono per l’appunto provocazioni, come nel fotogramma finale, capace di rovinare la poesia e il sentimento di appartenenza che accomunava i personaggi e noi spettatori). Sta diventando pericolosamente una moda che alla lunga stanca. The L World ha un suo perché ed era fatta magistralmente e questa è la strada da intraprendere, senza forzature ad ogni costo. I casi di storie con gay fatte molto bene ci sono e come citato in alcuni dei titoli precedenti, sono esempi da seguire. Il resto? Moda e già questo la dice lunga sul suo valore educativo. I movimenti lgbt non capiscono che non si può obbligare le persone ad accettarli per la loro natura. Bisogna insegnargli il rispetto con pazienza e perseveranza. Spingersi oltre, può causare danni irreversibili e il sentimento di stanchezza si sta già palesando. Ma sembrano non accorgersene come petulanti isteriche.
I gay in tv sono un cliché, come tutto il resto. I personaggi del piccolo schermo una volta vivevano di quello che sapevano fare, della loro arte, oggi solo dei loro cliché. Per fortuna, però, ci sono le eccezioni. Matteo Giorgi su Rollingstone.it il 30 gennaio 2019. Vorrei cominciare questo post nella maniera più trombona possibile, quasi come se fossi uno di quelli che verranno sotto questo articolo a scrivere “Eh, ma che declivio ha preso Rolling Stone, prima parlava solo del rock vero mentre ora se dedica a li froci! Che brutta fine!” E che froci aggiungerei io! Sì, perché io me la ricordo nella mia gioventù quando in prima serata c’erano Leopoldo Mastelloni, Paolo Poli, Amanda Lear, Renato Zero inciuciato e libero nella versione pre-democristiana. Ricordo Mario Mieli in tuta da operaio e tacchi a spillo con gli operai dell’Alfa Romeo nel programma Tabù Tabù datato 1978. Ma ricordo anche Aldo Busi, che fa letteratura ad Amici, le Cronache marziane di Fabio Canino (che appena hanno cominciato a macinare ascolti sono state sospese), Eva Robin’s che presenta lo spin-off di Non è la RAI. Sembra quasi sia passato un secolo. Ma cazzo, è passato davvero un secolo! E le cose, ahimè, non sono certo migliorate. Tanto da indurre un movimento americano (LGBT fans deserve better) a chiedere che la comunità omosessuale sia rappresentata degnamente in tv. E se in America solo l’11% delle serie ha personaggi LGBT, nemmeno nel 16% dei casi le loro storie finiscono a lieto fine. A tal proposito rimembro quello che Luca Guadagnino ha dichiarato alla presentazione del meraviglioso Chiamami col tuo nome: «Molti non hanno finanziato il film proprio perché mancavano i cliché (…) come la presenza di un antagonista, che di solito alla fine permette agli amanti di superare ogni avversità o, se si tratta di una storia gay, di soccombere. Viceversa qui c’è un atteggiamento di supporto del mondo esterno, che mi ha dato la libertà di essere molto vicino ai miei personaggi». Probabilmente in una fiction italiana il padre, più che un discorso, avrebbe razzolato il buon Elio di mazzate. Riassumendo, in Italia, il gay deve essere macchiettistico, un po’ caricaturale, un po’ stereotipo e soprattutto etero normalizzato. Avete notato, ad esempio, che non esiste una “sessualizzazione” del gay televisivo? Anche nel dorato mondo di Uomini e donne (che pur ha fatto tanto per far sì che la casalinga di Voghera o più probabilmente di Reggio Calabria, potesse capire che esistono gay senza ciuffi biondi e pailettes, ma solo con rigorose t-shirt extralarge) mentre gli altri tronisti danno tutto il coatto di sé, tra pettorali ignudi, collanoni dorati che se ti piglia il riflesso t’acceca e soprattutto capaci di combinarne di tutti i colori in tutti i luoghi e tutti i laghi, il povero tronista gay si presenta con un “ciao, io ho un grave problema: ho la vitiligine.” Il tronista gay è quello che più di altri aspira alla suddetta “etero normalizzazione”, da famiglia tradizionale. Quello da matrimonio, figli, bulldog francese rigorosamente “per tutta la vita” (e senza bacio in diretta fino alla prima notte di nozze), se ci scappa pure la messa della domenica facciamo felici anche i vicini. Poi vabbè fuori dal mondo di “Uomini & donne”, il gay di regime e da salotto è quello “contrario al matrimonio”, “I figli poi mai sia”, “Certe cose si fanno nelle mura domestiche per non turbare” e “ho tanti amici eterosessuali!” Non occorre che vi faccia nomi, vero? Certo esistono le eccezioni, come Drusilla Foer, regina dei teatri italiani e vera rivelazione di X Factor di quest’anno e Costantino Della Gherardesca, il gay intellettuale da prima serata che fortunatamente rompe buona parte dei cliché: parla spesso di psicofarmaci, si definisce antisociale e descrive la realtà per quello che è: pane al pane vino al vino. «La monogamia non è naturale, è un’imposizione del cristianesimo. Gli omosessuali di oggi hanno copiato uno stile evangelico americano da coppia monogama cristiana che non mi appartiene affatto. Si sono conformati e hanno scelto la famiglia, anche come realtà economica». Peccato che i suoi programmi abbiano uno share da monoscopio notturno di Rai 1. Fatto questo lunghissimo excursus vado ad una chiosa sacrosanta, anche per un gay militante di vecchia data come me: sentire dire la frase fatta “i gay in televisione non mi rappresentano” ha un po’ stancato. Perché se ben ci pensate non è che le altre categorie se la cavino meglio eh. Una domenica, distrutto dall’influenza, mi sono sorbito salotti dove cantanti italiane parlavano di fantasmi e donne raccontavano della loro extrasensoriale esperienza con la loro ottava di seno. Insomma, Francesca Cipriani, che urla disperata da un elicottero, rappresenta forse tutte le giovani ragazze italiane? Gemma di Uomini e Donne è forse la portabandiera di tutte le “signore” di settant’anni? I personaggi televisivi, che una volta vivevano di quello che sapevano fare e della loro arte, oggi semplicemente vivono nei loro cliché. Sempre più omologati e racchiusi in archetipi che servono semplicemente a identificare più velocemente un concetto o una categoria: la soubrette dal seno rifatto, il tronista in cerca di visibilità, il calciatore sciupafemmine, e il gay sopra le righe. E qui andiamo all’ultimo problema legato alla rappresentazione televisiva delle persone omosessuali in tv: ce ne sono poche. O meglio, ce ne sono tantissime (e noi lo sappiamo) ma poche sono quelle che hanno fatto coming out e che quindi vengono ciclicamente invitati quando si parla dell’argomento. Fino a quel momento, fino a quando molti artisti continueranno a negare (a volte anche in modo decisamente imbarazzante) la propria natura o rilasceranno interviste dove parlano del proprio compagno o compagna usando termini come “amica di una vita” o convivente (penso anche a chi recentemente presentando il proprio disco ha avuto il coraggio di dire “Beh, se io fossi lesbica non avrei paura a dirlo” causando una sonora risata tra i giornalisti intervenuti) sarà inevitabile ritrovare in televisione le stesse persone.
Persone che, ci piaccia o no, hanno avuto le palle per dichiararsi al pubblico. Quindi, dico a te giornalista, dico a te celeberrimo cuoco di prima serata, dico a te attrice di fiction, dico a te cantante: fai coming out. (E poi decidi se cantare di amori etero o gay, chissenefrega).
“A MEDIASET SONO QUASI TUTTI FINOCCHI”. Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 28 gennaio 2019.
Platinette, pensaci tu: abbiamo sbagliato con quel titolo, «Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay»?
«Il titolo non mi è piaciuto ma, per dirla come Adrian, francamente me ne infischio. La tutela dei diritti degli omosessuali è sacrosanta però deve accompagnarsi alla capacità di essere obiettivi e alla determinazione di non voler fare le vittime a tutti i costi».
Quindi secondo te il titolo non era offensivo?
«Io non mi sono offeso. Erano chiari l' intento provocatorio e scherzoso e la mancanza di una volontà di insultare. Potrei dire che non è dei più riusciti, perché l' allegoria è poco simpatica e l' effetto non è stato goliardico, ma bisogna essere pronti a ironizzare. Abbassiamo i cannoni di Navarone, perché il titolo di Libero non provoca dei danni reali alla comunità gay».
Qualcuno sostiene che fomenterebbe l' omofobia?
«Prima che finocchio o gay, io sulla carta d'identità ho scritto italiano, mi rapporto con questo Paese e ti dico che noi omosessuali non abbiamo più bisogno di invocare quote e fare battaglie di categoria che affermino il diritto alla nostra diversità per mirare poi a essere trattati come gli altri. Ormai in Italia siamo ovunque, pienamente accettati. Non c' è intolleranza verso di noi. Guarda la tv, che è il metro popolare del mondo attuale: è innamorata dei gay, non c' è un programma nel quale non compariamo, spesso piazzati sopra un altarino. Quando ero giovane, giravo le balere della bassa padana a fare spettacoli con un gruppo di travestiti. Uno di loro, brutta come la morte, oggi fa il preside a Salerno, e magari la sera si traveste ancora. Più integrati di così».
Se ci difendi troppo, complichi ancora di più la nostra situazione: a che gioco giochi?
«Allora ti dico che il titolo non era aggressivo nei confronti dei gay ma un po' superficiale sì. Si prestava a diverse interpretazioni perché, come ha spiegato Umberto Eco nella sua fenomenologia della tv, ognuno ha la propria percezione della realtà. Il guaio della destra è che è un po' grossolana quando affronta la realtà, e questo è un imprinting duro da far sparire. In fondo è vero, i gay aumentano di numero e di potere, ma c' era un modo più elegante per dirlo. In questo dovete imparare dalla sinistra, che ha più classe e sfumature e perciò riesce a essere violenta e razzista senza destare scandalo».
Perché la butti in politica?
«La tutela dei gay è diventata un campo esclusivo della sinistra e questo mi infastidisce perché sfuggo il pregiudizio ideologico per cui non si può essere gay se non si è di sinistra. Se così fosse, Berlusconi dovrebbe chiudere Mediaset, dove sono quasi tutti finocchi. Quando Pannella si alleò con Silvio, io scoppiai di gioia: credevo molto nella rivoluzione liberale e libertaria, finalmente si poteva essere omosessuali e di destra. Poi ahimé, andò tutto a puttane».
Mi interessa il concetto del razzismo della sinistra.
«La sinistra fa della difesa dei diritti e delle diversità la propria bandiera ma poi ha un'incapacità strutturale di ammettere che ci possano essere valori, opinioni e principi validi al di fuori dei suoi steccati. È una vera e propria occupazione ideologica del potere: non lo dicono apertamente ma nei fatti non riconoscono possibilità di alternativa al pensiero dominante. Lo scontro attuale sugli immigrati ne è una prova lampante».
Spiegami.
«Non ti sembrano troppe quattro canzoni sui migranti al Festival di Sanremo? È il Festival della canzone italiana o dell' impegno? È quello il veicolo? Se hai la villa a Lampedusa, aprila ai migranti anziché fare i concerti sull' isola con i tuoi amici in nome dei profughi. Accogliamo i migranti in nome del rispetto della diversità? Ma allora, sempre in onore di quel principio, curiamoci di non emarginare gli italiani diversi dai radical chic e adoperiamoci perché gli immigrati non siano costretti a scappare dai loro Paesi in quanto diversi. Sai che penso? Anche in tema di gay, la sinistra parla, parla, ma poi non è che faccia molto per noi».
Tu ci vuoi inguaiare?
«Si vantano per la legge sulle unioni civili, ma guardiamo i numeri: si sono sposati in pochi e di questi in molti hanno già divorziato, si è rivelata un flop, però bisogna continuare a sostenere che è stata un' iniziativa di grande successo».
Conta il principio affermato, non credi?
«Io ringrazio il mio dna che mi ha fatto essere diverso, liberandomi dalla prigionia di legami famigliari a cui sono costretti gli eterosessuali. La mia famiglia me la scelgo io, ed è libera da doveri e contratti. Non faccio unioni civili e tantomeno pretenderei viaggi di nozze scontati come uno sposino. Sono frocio, scusa la parola ma per me non è volgare, e me ne vanto. Faccio della mia diversità un' arma di progresso, se inseguo i parametri eterosessuali finisco per regredire. Non andrei mai a comprarmi un figlio, lo riterrei un atto egoistico».
Anche gli eterosessuali fanno i figli per egoismo...
«Comprarlo però è un gesto volgare, perché dimostra che con il denaro tutto è possibile. Ti ripeto, usciamo dai luoghi comuni. La sinistra è per i gay, ma poi l' unica legge contro l'omofobia l'ha fatta Mara Carfagna. Bella com'è, ha messo insieme la Concia e la Mussolini e si è sbattuta per difendere persone diverse da lei e che oggi non le sono riconoscenti».
Stiamo divagando: scherzare sui gay si può o no?
«Certo che si può, pensa ai film di Ferzan Ozpetek o alle carnevalate di Cristiano Malgioglio, perfettamente consapevole di mettersi in ridicolo, o ai film degli anni Settanta».
Già, ma loro sono gay dichiarati e gli anni '70 sono lontani...
«Lo scherzo è ammesso, ma attenti ai toni grossolani. Serve uno sforzo per comprendere la sensibilità altrui. Se si intuisce la volontà di non offendere, a quel punto lo scherzo può favorire anche un incontro. La vostra è stata una bordata non intenzionale e le reazioni critiche che avete avuto erano prevedibili, anche se io non le condivido, perché un titolo va preso come tale, non è la verità assoluta e ha una vita di 24 ore. Il vostro è un po' da osteria padana ma non lede nessun diritto e non merita tante polemiche».
Perché dici che avremmo dovuto prevedere tutto questo pandemonio?
«Perché questa società è pervasa da un' irriducibile voglia di militanza. Gli statalisti della froceria sono in servizio perenne e alimentano polemiche degni di una portineria. A me invece interessano i diritti e il dibattito culturale. Basta con i piagnistei, trovo insopportabile il vittimismo».
Raccolgo la sfida: quando ho iniziato questo lavoro esisteva un giornale, Cuore, settimanale di resistenza umana, il quale metteva la figa tra le prime tre ragioni per vivere, oltre ad ammazzare Jovanotti, che ai tempi cantava «Ciao mamma» e a sinistra ancora non avevano capito che era dei loro. Se io facessi una cosa del genere oggi, mi chiuderebbero, tant' è che dopo il nostro titolo Cinquestelle ha detto che vuole toglierci immediatamente i finanziamenti pubblici: stiamo andando verso una fase oscurantista della società e dell' informazione?
«Voglio essere ancora provocatorio: ben venga l' oscurantismo, perché dal suo eccesso nascerà la ribellione che porterà allo smascheramento delle ipocrisie. Guarda cos' è successo con il #metoo: in un anno siamo passati dalle denunce della Argento al grande produttore Weinstein, al ragazzino che accusava Asia di stupro, fino al contratto tra lei e Corona per avere un flirt e agli interrogativi delle femministe se non stavano esagerando. Da dramma a farsa. Certe reazioni oscurantiste esagerate finiscono per rivelarsi un boomerang. Il mio timore non è il nuovo oscurantismo, ma che esso sia finto. Ho il sospetto che lo scandalo sessuale che ha travolto l' attore Kevin Spacey per fatti di trent' anni fa alla fine non sia stato che una via per chiudere una serie, House of Cards, che non funzionava più e costava».
L'hai sparata grossa...
«Che vuoi, io sogno un ritorno agli anni Sessanta, quella meravigliosa società borgese, che consentiva a tutti di fare tutto, purché nulla diventasse motivo di discussione».
Ma era una società ipocrita...
«Oggi la società è altrettanto ipocrita ma non è in grado di produrre i risultati di ieri perché l' ipocrisia è diventata istituzionale e non è più privata. Sono pratico, io. Il Sessantotto ha liberalizzato il sesso ma ha prodotto disastri. Io andavo a battere davanti alle fabbriche e gli operai, costretti dall' ideologia, avevano paura a dirmi di no perché si sarebbero sentiti sorpassati. Un tempo una porno attrice come Marilyn Monroe o Joan Crawford poteva diventare una diva e un modesto attore poteva diventare presidente degli Usa e abbattere i comunismi russo e cinese. Oggi abbiamo politici che diventano attori riempiendoci di selfie e dirette facebook».
Cosa pensi degli inviti a boicottare Libero dopo il nostro titolo?
«Ne penso tutto il male possibile. È una violenza, una reazione peggiore del danno prodotto dal titolo, che rischia di rivelarsi un boomerang su chi la mette in atto. Chi vuole battersi perché i gay siano accolti, accolga anche la diversità di Libero, pure se non lo condivide. Altrimenti finite per essere voi i veri discriminati».
Probabilmente saremo processati, come ci difenderesti?
«Processati? E perché? Non ci sono reati».
L' Ordine dei Giornalisti ti processa anche se non commetti reati. Come ce la caviamo? Dovremmo paragonarci ai gay e sostenere che noi di Libero siamo una categoria di giornalisti discriminati?
«Voi dovreste fare meno titoli che scaldano il pentolone e la sinistra non dovrebbe incazzarsi per i vostri titoli. Io farei una leggera ammissione di colpevolezza, per calmare le acque e rendere più democratico il monarca. Poi mi dichiarerei disponibile a emendare, magari facendo i servizi sociali presso una discoteca gay, per compensare il danno morale».
Non ci sarebbe un' alternativa?
«Beh, saresti spiritoso. Alla fine però, più che dei gay, io sarei preoccupato dall' aumento dei fessi. Tra questi vi è anche chi si scandalizza per voi ma non è colto da sconcerto per il fatto che gli immigrati arrivino in Italia e non in Grecia, che siamo guidati da una serie di improvvisati che ancora non ci hanno chiarito dove vogliono portarci, e che un ministro passi da un dicastero all' altro in spregio a ogni competenza. Ma dove si preparano, alle serali?».
Libero: "Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay". La Nuova Bussola Quotidiana il 25-01-2019. Ieri il quotidiano Libero titolava: “Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay”. Il sottosegretario con delega all'Editoria Vito Crimi, dichiara: "Avvierò immediatamente una procedura interna per vagliare la possibilità di bloccare l'erogazione dei fondi residui spettanti a un giornale che offende la dignità di tutti gli italiani e ferisce la democrazia''. Il vicepremier Luigi Di Maio gli fa eco: "Abbiamo fatto bene o no a tagliare i fondi a giornali del genere? Scriveranno queste idiozie senza più un euro di fondi pubblici". Di suo Vittorio Feltri, direttore di Libero, così ribatte: "L'omofobia ce l'ha in testa chi ci critica. Chi ci spara addosso ha letto solo il titolo ma non il testo, in caso contrario avrebbe scoperto che quei dati ci sono stati forniti dalle stesse associazioni gay. Di cosa ci si offende? E' un dato di fatto, abbiamo citato delle cifre, cosa c'è da indignarsi?"
Polemica su titolo Libero, Crimi: "Valutiamo blocco fondi". Adnkronos il 23/01/2019. E' polemica su Libero che oggi titola in prima pagina: "Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay". Il sottosegretario con delega all'Editoria Vito Crimi, dicendo di provare "disgusto" per quel titolo, annuncia: "Avvierò immediatamente una procedura interna per vagliare la possibilità di bloccare l'erogazione dei fondi residui spettanti a un giornale che offende la dignità di tutti gli italiani e ferisce la democrazia''. Il vicepremier Luigi Di Maio va su Facebook all'attacco del quotidiano diretto da Vittorio Feltri: "Abbiamo fatto bene o no a tagliare i fondi a giornali del genere? Scriveranno queste idiozie senza più un euro di fondi pubblici".
LA REPLICA DI FELTRI - Feltri replica così alle polemiche: "L'omofobia ce l'ha in testa chi ci critica". "Chi ci spara addosso - dice il direttore di Libero all'Adnkronos - ha letto solo il titolo ma non il testo, in caso contrario avrebbe scoperto che quei dati ci sono stati forniti dalle stesse associazioni gay. Di cosa ci si offende?". "E' un dato di fatto - sottolinea - abbiamo citato delle cifre, cosa c'è da indignarsi?". Quanto alla notizia dell'avvio della procedura interna per vagliare la possibilità di bloccare l'erogazione dei fondi residui spettanti al quotidiano, Feltri afferma: "Si parla da mesi del blocco dei fondi, chiamano i giornalisti 'puttane' e nessuno si scandalizza. Danno soldi a cani e porci e poi - conclude - dicono che siamo noi a uccidere la democrazia".
FNSI - Sulla polemica interviene la Federazione nazionale della Stampa italiana. "Il ministro Luigi Di Maio e il sottosegretario all'Editoria Vito Crimi - scrivono in una nota Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Fnsi - continuano ad avere un approccio sbagliato nei confronti del mondo dell'informazione. La giusta condanna di ogni forma di discriminazione e del linguaggio offensivo delle diversità, al quale si abbandona oggi il titolo di apertura del quotidiano Libero, non può giustificare in alcun modo - si sottolinea - la rivendicazione del ministro e del sottosegretario di cancellare qualsiasi forma di sostegno all'editoria". "Trasformare critiche legittime e condivisibili in provvedimenti di carattere ritorsivo è sbagliato, oltre che ingiusto".
LUXURIA - Intervenendo sulle polemiche Vladimir Luxuria dice all'Adnkronos: "Un titolo inaccettabile perché genera un'associazione negativa tra due elementi accostati l'uno all'altro, il calo di Pil e fatturato da una parte e l'aumento dei gay dall'altra. Come se le due cose si potessero paragonare, cosa c'entra? Aggiungendo 'c'è poco da stare allegri' al titolo di prima pagina, si dà a intendere che le due cose dovrebbero essere considerate entrambe in modo negativo, come se invece di gay si parlasse di criminalità. Quel titolo - conclude - è il prodotto di un clima preoccupante che si respira in Italia, sempre più omofobo".
Bufera su Libero, Feltri: "Chi ci spara addosso ha letto solo il titolo". Adnkronos 23/01/2019. "L'omofobia ce l'ha in testa chi ci critica". Il direttore di 'Libero' Vittorio Feltri replica così alle polemiche suscitate dal titolo di oggi del quotidiano ('Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay'). "Chi ci spara addosso - dice all'Adnkronos - ha letto solo il titolo ma non il testo, in caso contrario avrebbe scoperto che quei dati ci sono stati forniti dalle stesse associazioni gay. Di cosa ci si offende? Se calano fatturato e Pil c'è qualcuno che se ne rallegra? E' un titolo fattuale, come direbbe Crozza". "E' un dato di fatto - sottolinea - abbiamo citato delle cifre, cosa c'è da indignarsi? Dov'è il problema, non si può dire che aumentano i gay? Siamo forse in Iran?". Quanto alla notizia dell'avvio della procedura interna per vagliare la possibilità di bloccare l'erogazione dei fondi residui spettanti al quotidiano, come annunciato dal sottosegretario con delega all'editoria Vito Crimi, Feltri dichiara: "Si parla da mesi del blocco dei fondi, chiamano i giornalisti 'puttane' e nessuno si scandalizza. Danno soldi a cani e porci e poi - conclude - dicono che siamo noi a uccidere la democrazia". ''Il titolo sui Gay? Sono gli unici che non sentono la crisi, Non si può dire? Secondo me invece il governo non si può permettere di censurare un giornale. Ci chiudesse allora, non capisco cosa voglia da noi''. Nessun dubbio nel difendere la prima pagina nemmeno per Pietro Senaldi, direttore editoriale del quotidiano. ''Noi facciamo dei titoli normali - dice - quello di oggi non offende nessuno e in futuro continueremo a fare titoli così, comprensibili e normali. E su questo diritto si è pronunciata anche la Federazione della Stampa''. Senaldi invita a leggere titolo e articolo: ''Dire che aumentano i gay è irriguardoso? A me non sembra. Non c'e' alcun giudizio di merito. Non apre contro i gay. Se si legge l'articolo si capisce che il paese è in crisi e gli unici a non sentirla sono gli omosessuali che aumentano. Dire che aumentano i cinesi è irriguardoso? Non si può scrivere? Forse il fatto che aumentano è un problema per qualcuno, ma non per noi''. Il direttore invita a leggere anche gli altri giornali: ''Tutti aprono sul fatto che la Germania non manda una nave nell'operazione Sophia e i cattivi sono gli italiani. Ma siamo impazziti? Calano fatturato e Pil e la gente si preoccupa che aumentano gli omosessuali. Sinceramente non capisco''.
Dagospia il 24 gennaio 2019. Questa mattina a "Non Stop News", la trasmissione di approndimento condotta da Pierluigi Diaco, Fulvio Giuliani e Giusi Legrenzi su Rtl 102.5, c'è stato uno scontro molto accesso tra lo stesso Diaco (unito civilmente al suo compagno Alessio Orsingher nel novembre scorso) e il direttore editoriale di Libero, Pietro Senaldi. Motivo la prima pagina di "Libero" di ieri che titolava: "Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay". Diaco fa notare a Senaldi che "la sessualità non è una patente di identità ma un dettaglio di una cosa più complessa chiamata personalità. Il genere sessuale non fa la persona. Il vostro titolo oltre che inelegante e pure vagamente omofobo".
Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 24 gennaio 2019. Ieri Libero apriva il giornale con il titolo «Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay». Ero convinto che la notizia di cui preoccuparsi fosse quella economica, alla prima riga. Invece che il Paese vada in malora pare non interessi a nessuno, è scoppiato un putiferio sulla seconda parte, che ha scatenato l'ira della fazione grillina del governo, delle associazioni omosessuali e della nutrita schiera di benpensanti di cui il Paese abbonda, tutti specializzati a sentenziare senza prima leggere, in base ai pregiudizi che hanno in testa e ai dettami del politicamente corretto. Ma d' altronde, come diceva Albert Einstein, che non era proprio un idiota, «è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio». E noi di Libero siamo oggetto di pregiudizio, sbagliamo per definizione. José Mourinho, se si interessasse ai nostri guai, ci definirebbe vittime di razzismo intellettuale. Ci processano perché abbiamo detto che sono in crescita gli omosessuali. Dove sta l' offesa? È fattuale, taglierebbe corto Crozza. La cosiddetta società civile e le associazioni lgbt - se così si dice - hanno speso anni a convincere i gay a non vergognarsi e a fare outing, spiegando che non c' è nulla di male se un uomo preferisce un altro uomo a una donna. Quando però questi vincono le loro paure ed escono dal guscio ecco che, se un quotidiano riporta la notizia, finisce nell' occhio del ciclone. Eravamo fiduciosi che fosse una statistica che facesse piacere alla comunità gay, tant' è che il caporedattore di Gaynews, Francesco Lepore, che abbiamo intervistato sull' argomento, l' ha commentata con entusiasmo. Purtroppo però dobbiamo constatare che c' è gente a cui il nostro titolo non è piaciuto; evidentemente non sono contenti dell' aumento della comunità omo, che invece a noi non fa né caldo né freddo, la riteniamo semplicemente una notizia da dare perché segna un' importante mutazione della nostra società. Per pudore chiamiamo sui giornali e in tv gli omosessuali «gay» e non nei mille altri modi in cui la gente, anche chi oggi punta il dito contro di noi, li battezza volgarmente a telecamere spente. Poi però basta che un giornale non amato dai sacerdoti del politicamente corretto scriva che essi sono più oggi di ieri perché la notizia diventi indecente. L' omofobia ce l' ha in testa chi ci critica, senza neppure averci letto. A noi invece il boom della comunità omo non imbarazza e lo raccontiamo con innocenza. Ma forse il problema non è il fatto in sé, quanto che l' abbiamo riportato noi, viene il sospetto. L' avesse fatto qualcun altro, sarebbe filato tutto liscio. Non vorrei tirarmela, ma denuncio alla Federazione Nazionale della Stampa una campagna mediatica di intimidazione ai danni della nostra testata. Volete la prova? Siamo stati perseguiti dall' Ordine dei Giornalisti per il nostro «Patata bollente», riferito alle disavventure amministrative e sentimentali della sindaca Raggi. L' Ordine però non ha fatto nulla contro il direttore di Chi, Alfonso Signorini, condannato dal tribunale per aver sostenuto le stesse cose, solo in toni più espliciti. Perché Signorini no e io sì? Meglio non approfondire, ognuno si dia una risposta, ma è evidente che i discriminati siamo noi, non i gay. Il nostro titolo non offende e non ghettizza. Non si può più scrivere gay sui giornali? Ce lo dicano, ci adegueremo, a patto che valga per tutti. Ma a quel punto ci ritroveremmo in Iran, dove se qualcuno enfatizzasse che i gay aumentano finirebbe sulla forca, non in una democrazia occidentale. Ci fanno notare: che nesso c' è tra il calo del fatturato e del Pil e l' aumento dei gay? Nessuno diretto, e infatti nella titolazione non abbiamo legato le due notizie con un rapporto causa-effetto. Abbiamo scattato una fotografia del Paese, specificando nel sommario che l' Italia è economicamente a terra e gli omosessuali sono gli unici a non sentire la crisi, tant' è che aumentano. Non piace il titolo? Non comprateci, ma lasciateci in pace. Abbiamo aperto in quel modo solo perché la notizia ci sembrava più interessante di quella a cui la maggioranza degli altri giornali ha deciso di dare la massima rilevanza ieri, ovverosia la rinuncia della Germania, in polemica con il ministro Salvini, di inviare una nave in più nel Mediterraneo per salvare i profughi. Ognuno fa le sue scelte. Berlino non vuole soccorrere i migranti e usa il Viminale come pretesto per sfilarsi e i nostri giornali, anziché fare le pulci alla Merkel, ne approfittano per attaccare il governo accusandolo di nazismo e danno a prescindere ragione alla Germania, malgrado sul tema abbia un curriculum più ricco del nostro. Questa è disinformazione, ma nessuno si scandalizza, nessuno apre giudizi. Va di moda solo il processo a noi. In particolare ci attaccano i grillini. Si starebbero attivando per tagliare immediatamente ogni tipo di contributo a Libero. «Bisogna stare sul mercato», dicono. Ma in realtà tolgono i soldi solo a chi li critica e li aumentano a chi canta nel loro coro, come le radio, e per noi studiano leggi speciali, sullo stile di quelle per gli ebrei negli anni Trenta. Infatti hanno in mente per Libero la soluzione finale e non si preoccupano neppure di nasconderlo. La coppia Luigi Di Maio, vicepremier, e Vito Crimi, sottosegretario all' Editoria - secco e bombarda, ma sarebbe meglio chiamarli Minus e Habens - vuole avviare una procedura per chiuderci subito. È un comportamento talmente liberticida da aver meritato perfino le critiche della Federazione Nazionale della Stampa, che giudica l' iniziativa «ritorsiva, sbagliata e ingiusta» e accusa Minus e Habens di «usare il manganello contro la categoria per consumare vendette e regolamenti di conti». Cari governanti, delle due una: o Libero è un giornalaccio che non vale nulla, come dite, e allora non si capisce perché ve ne curiate così tanto, oppure vi dà fastidio, perché non vi piace quel che dice, e perciò che gli muoviate guerra dai vostri scranni di governo configura un attacco alla libertà di stampa e alla Costituzione. Da alfieri della democrazia diretta, dovreste fare di tutto perché sopravviva, per difendere, con la nostra, la vostra libertà, come diceva Voltaire, che aveva un pensiero più raffinato di Rousseau. Visto che vi interessate delle nostre miserie, permetteteci di occuparci brevemente delle vostre. Non perdete tempo con Libero, avete cose più importanti alle quali pensare. Gli italiani non vi giudicheranno sui contributi alla stampa, ma sulla promessa che avete fatto di abolire la povertà. Come denunciato dal nostro titolo («calano fatturato e Pil»), siete ancora lontani dall' impresa, e forse è proprio questo, più che la parte sugli omosessuali, ad avervi fatto saltare la mosca al naso. A destare scandalo, in questo Paese che si scalda solo per le cavolate, dovreste essere voi, che organizzate una festa per il varo dello stipendio a chi non lavora e mandate sul palco un comico a dire: «I grillini mi hanno dato una poltrona all' Unesco perché non conosco la geografia, ma d' altronde è giusto così, basta con questi plurilaureati». E giù applausi. Uno spot all' ignoranza e all' incompetenza, bel programma per centrare l' obiettivo del boom economico che avete di recente promesso. Chi si somiglia si piglia, forse per questo siamo destinati a non andare d' accordo.
Dago Spia il 23 gennaio 2019. Riceviamo e pubblichiamo da FILIPPO FACCI: «Caro Dago, da autore dell’articolo “Calano fatturato e Pil, ma aumentano i gay», pubblicato su Libero e tema di scandalo, vorrei tanto sapere - tra coloro che invocano la chiusura o la morte finanziaria di Libero - quanti hanno anche letto l’articolo a cui il famigerato titolo si riferisce, che è fatto dalla redazione come sempre capita coi titoli. Vorrei sapere quanti, nel caso, oserebbero parlare ancora di omofobia, che ricordiamo: corrisponde a un reato. E siccome però nessuno ha commesso reati – basta leggere - i fatti restano che alcuni governanti dei Cinque Stelle vogliono chiudere un giornale che non è mai stato tenero con loro. Tutti difesero Charlie Hebdo e la libertà di espressione, senza bisogno di condividerne i contenuti: in Italia questo non vale». Filippo Facci
(askanews il 23 gennaio 2019.) – “Provo disgusto per il titolo del giornale Libero. Un giornale che riceve soldi pubblici che prima pubblica titoli razzisti contro, poi oggi anche omofobi. Avvierò immediatamente una procedura interna per vagliare la possibilità di bloccare l’erogazione dei fondi residui spettanti ad un giornale che offende la dignità di tutti gli italiani e ferisce la democrazia. Mi aspetto che il giornalismo che tanto vede in noi il nemico, faccia sentire la sua voce. Probabilmente chi distrugge la credibilità della stampa sono proprio alcuni giornalisti”. Lo ha detto in una nota Vito Crimi, sottosegretario con delega all’Editoria. Questo il titolo di apertura del quotidiano Libero, direttore responsabile Pietro Senaldi:”C’è poco da stare allegri, calano fatturato e pil ma aumentano i gay”.
Da Adnkronos il 23 gennaio 2019. E' bufera su Libero che oggi titola in prima pagina: "Calano fatturato e Pil ma aumentano i gay". Il vicepremier Luigi Di Maio va su Facebook all'attacco del quotidiano diretto da Vittorio Feltri: "Abbiamo fatto bene o no a tagliare i fondi a giornali del genere? Scriveranno queste idiozie senza più un euro di fondi pubblici. Vito Crimi - ha ricordato - ha avviato la procedura che azzererà i finanziamenti pubblici entro i prossimi tre anni". Il sottosegretario con delega all'Editoria dice a proposito del titolo di 'Libero': "Provo disgusto ". "Un giornale - scrive in una nota Crimi - che riceve soldi pubblici che prima pubblica titoli razzisti contro, poi oggi anche omofobi. Avvierò immediatamente - annuncia - una procedura interna per vagliare la possibilità di bloccare l'erogazione dei fondi residui spettanti a un giornale che offende la dignità di tutti gli italiani e ferisce la democrazia''. ''Mi aspetto che il giornalismo che tanto vede in noi il nemico -avverte Crimi - faccia sentire la sua voce. Probabilmente, chi distrugge la credibilità della stampa sono proprio alcuni giornalisti''. Su Twitter, Manlio Di Stefano, sottosegretario M5S agli affari esteri, scrive: "Titoli del genere, così come quello sui terroni, creano discriminazione e fomentano odio. L'ordine dei giornalisti ha il dovere - sottolinea - di intervenire tempestivamente. Tagliare i fondi a giornali come questo è doveroso. Questa non è informazione! NonLeggoLibero". Esprime la sua indignazione anche Alessandro Zan, deputato del Pd e da sempre attivista per i diritti Lgbt, che parla di "un titolo ignobile, fatto da un direttore disperato per il crollo delle vendite di copie del suo giornale". "Non è che i gay - dice l'esponente dem all'Adnkronos - aumentano o gli etero diminuiscono, perché l'orientamento sessuale di una persona non si decide, ma semplicemente si nasce così. E' la condizione umana della persona, tutto qui. Se mai oggi, fortunatamente, i gay e le lesbiche di questo paese si dichiarano in famiglia, agli amici e nei posti di lavoro e questa è la condizione e il presupposto fondamentale per essere felice come tutti gli altri". "Questo titolo - avverte Zan - evoca ancora l'omossessualità come colpa o come cosa di cui vergognarsi, perché alcuni (fortunatamente oggi la minoranza), vorrebbero ancora che gli omosessuali fossero nascosti e invisibili nella società''.
Io e te, Pierluigi Diaco piange per il marito Alessio Orsingher. Il conduttore del format di Rai 1 si è lasciato andare ad un momento di commozione, nello studio televisivo dell'ultima puntata di Io e te. Serena Granato, Domenica 08/09/2019 su Il Giornale. Nel corso dell'ultima puntata di Io e te, trasmessa lo scorso venerdì 6 settembre, Pierluigi Diaco si è lasciato andare ad un momento di commozione e condivisione con il fedele pubblico di Rai 1. Il format Io e te è giunto al termine, passando il testimone alla trasmissione condotta da Caterina Balivo, Vieni da me, che tornerà nel palinsesto Rai lunedì 9 settembre. E, in occasione della puntata finale del suo programma, Diaco ha intervistato Maurizio Costanzo, il quale ha officiato la sua unione civile, celebrata nel 2017, con Alessio Orsingher. Così, nel corso dell'ultima diretta, che segna l'addio alla stagione estiva in tv di Io e te, Diaco ha voluto ritagliarsi uno spazio in trasmissione, da dedicare ai telespettatori. "Non vi nascondo l'emozione dell'incontro con Maurizio (Maurizio Costanzo, ndr) -ha esordito il conduttore nel corso della sua confessione intimista con il pubblico -. Volevo prendermi qualche minuto per noi. Ho iniziato a quindici anni a fare questo mestiere, tra radio e televisione, ho commesso tanti errori, ho dovuto governare la parte più spigolosa del mio carattere. Ho avuto varie occasione di lavorare in Rai, occasioni anche perse, perché non ero strutturato dal punto di vista comportamentale. Negli anni ho anche fatto un percorso. Devo l'uomo che sono diventato alla mia famiglia, alla mia mamma, alle mie tre sorelle. Ma devo la mia serenità e questo programma , che in realtà non si chiama "Io e te" e neanche "Io e voi", ma si chiama "Io e Alessio", la cosa a cui tengo di più".
La dedica di Diaco a Io e te. Dopo aver parlato al suo pubblico, Pierluigi Diaco (42 anni) ha voluto destinare una dedica a cuore aperto all'uomo che è riuscito a stravolgere la sua vita, il giornalista di La7 Alessio Orsingher (33 anni): "È il mio nucleo familiare. Mi rendo conto che per alcuni, chiamare famiglia due persone dello stesso sesso è un po' forte. Forse avete anche ragione, forse no. Non sta a me stabilirlo. Ho sempre tentato di accompagnare per mano anche chi è avverso a questo tipo di amore, alla conoscenza di questo sentimento. Non credo di avere la verità in tasca, non credo di essere perfetto, non credo di poter essere depositario di verità e di fare lezioni agli altri su come si deve vivere e su che sentimenti si debba avere. Quello che so è che da quando ho incontrato Alessio e nella mia vita è entrato Ugo, il mio cuore ha un altro modo di battere. Voglio condividere con voi la canzone del cuore mia, di Alessio e di Ugo".
Pierluigi Diaco: età, altezza, peso, il marito Alessio e i figli. Caffeinamagazine.it il 17 luglio 2019. Pierluigi Diaco ha un passato da idolo in tv e nel giornalismo addirittura prima della maturità, a 15 anni già faceva intervista ai politici su Italia Radio mentre a 16 anni era sul piccolo schermo a Tele Monte Carlo. Nel 1992 Pierluigi Diaco è tra i fondatori del Coordinamento Antimafia a Roma: in quegli stessi anni aderisce al Movimento per la Democrazia – La Rete. Nel 1995 debutta nel programma “TMC Giovani” nel 1995. Nella stessa stagione 1995-1996 conduce il programma Generazione X poi passa alle reti Rai. Qui conduce “La cantina” e “Maglioni marroni”. Qualche anno dopo Pierluigi Diaco arriva a Sky con il programma di approfondimento ‘’C’è Diaco’’. Conosciuto anche per l’attività di speaker radiofonico a Rtl 102.5, nel 2010 Pierluigi Diaco torna in Rai al timone di “Uno Mattina”, mentre l’anno successivo parteciperà come autore di “Bontà Loro” di Maurizio Costanzo. Opinionista fisso di “Domenica In”, raggiunge la notorietà anche con il programma “Io e Te”, una trasmissione piena d confronti e interviste svolte tra conduttore e ospiti in studio, e che punta tutta sull’emozionalità. In studio insieme a lui ci sono anche la comica Valeria Graci e Sandra Milo.
Pierluigi Diaco è sposato con il giornalista Alessio Orsingher. Il 16 novembre del 2017 Alessio e Perluigi si sono detti ”sì”. La coppia ha scelto una chiesa sconsacrata per unirsi in matrimonio con pochi amici e parenti. A celebrare l’unione civile è stato il collega e amico storico di Diaco, Maurizio Costanzo. Mentre una dei testimoni è stata l’autrice televisiva Irene Ghergo. La cerimonia civile è stata seguita da un piccolo ricevimento rigorosamente per familiari e amici più intimi, mentre gli invitati hanno avuto il divieto assoluto di condividere scatti sui social. Pierluigi e Alessio si sono conosciuti nel 2015 ad una festa. Qualche mese prima delle nozze Pierluigi Diaco aveva parlato della sua situazione sentimentale, raccontando della convivenza col compagno: “Convivo con il mio compagno, Alessio. È la prima volta che ne parlo. Nei weekend, quando posso prendermi una pausa dal lavoro, andiamo al mare. Spesso al cinema. Abbiamo un bassotto molto simpatico, si chiama Ugo. Per molti anni, sono stato insicuro. Ho conosciuto la sicurezza quando l’ho incontrato. Alessio è una persona che mi sta affianco, non davanti. Tra i due, che sono colleghi, condividendo la professione giornalistica, sembra esserci tanto feeling. “Non credo nelle definizioni. – aveva detto – La sessualità è un dettaglio della personalità, non una patente d’identità. Non mi sono mai chiesto se ero etero, bisessuale o che altro. Ho sempre condiviso serenamente le mie storie con amici e familiari. Non sono stato sereno, semmai, dentro relazioni in cui la sessualità non si univa al sentimento. Poi, quando le due cose coincidono, è un momento: lo senti, è l’amore“. Pierluigi Diaco è alto un metro e settantasette centimetri per un peso di settantasei chili. È nato a Roma il 23 giugno del 1977, all’età di cinque anni è diventato orfano di padre e la mamma si è trovata a 39 anni a crescere tre figli.
Chi è Alessio Orsingher marito di Pierluigi Diaco: età, lavoro e carriera. Amalfi Notizie il 6 Settembre 2019. Alessio Orsingher è uno dei giornalisti più amati e conosciuti del piccolo schermo. Grazie alla sua simpatia e alla sua professionalità, ha conquistato l’ammirazione di migliaia di persone che lo seguono con affetto.
Chi è Alessio Orsingher marito Pierluigi Diaco: età, lavoro e carriera. Alessio Orsingher è nato il 19 febbraio del 1986 a Massa. Sin da giovanissimo si avvicina al mondo dello sport. In gioventù ha avuto anche una parentesi nel mondo della pallavolo che gli ha dato grandi soddisfazioni. Dopo il diploma ha conseguito la laurea in Scienze Giuridiche all’Università di Pisa. Per far diventare la sua passione per il giornalismo un vero e proprio mestiere, ha preso parte al Master in Giornalismo “Walter Tobagi” di Milano. La sua carriera si è sviluppata poi in televisione. In questa stagione è stato uno dei protagonisti della trasmissione Tagadà in onda su La7. In pochi sapevano della relazione tra Alessio Orsingher e Pierluigi Diaco fino al 2017 quando quest’ultimo ha rivelato al mondo l’intenzione di convolare a nozze. Il 16 novembre del 2017 Alessio e Perluigi si sono detti ”sì”. La coppia ha scelto una chiesa sconsacrata per unirsi in matrimonio con pochi amici e parenti. E’ stato proprio Diaco a rivelare nella prima puntata della sua nuova trasmissione in onda su Rai 1 Io e te che da quando conosce il compagno la sua vita è cambiata in meglio. In un’intervista hanno raccontato che tra di loro è stato un vero e proprio un colpo di fulmine dal quale sono stati travolti entrambi.
· Il sesso della moda è Gay.
IL SESSO DELLA MODA È DA SEMPRE GAY. Quirino Conti per DAGOSPIA l'8 agosto 2019. Girarci attorno con aria pudibonda e suffragista è persino ridicolo: il sesso della Moda non è da sempre che verde; come quel garofano esibito allusivamente all’occhiello da Oscar Wilde. E in quota verde sopravvivono ormai i residui esemplari di stilisti non ancora fatti fuori dall’agguerrita invadenza di ex assistenti professioniste per decenni in lamentose quote rosa. Nonostante la stessa idea platonica del mestiere sia sempre e ancora configurata sul prototipo Valentino, e i coming out di Versace, Dolce & Gabbana e Armani – solo per citarne alcuni – abbiano reso pressoché insostituibile nello Stile quel certo genere di plastica identità. Del resto, nei due cicli che vanno dal 1919 al ’39 e dal 1940 ai ’90, solo un pugno di nomi rilevanti era retto a Parigi da “creatrici”. Che tuttavia, al nascere, nonostante il fasto e l’internazionalità, assai poco differivano per sostanza dal modello Sorelle Materassi descritto da Palazzeschi: come le più diverse “Sorelle” artigiane del gran lusso sostenute da schiere di giovanottini ipersensibili nell’ombra, prima che la professione richiedesse una struttura più intellettuale e autori provati. Ora la svolta, soprattutto dopo l’avvento degli elefantiaci grandi gruppi: che non avendo alcuna disposizione culturale per lanciare nulla e nessuno, per stretta ottusità burocratica arraffano dal cassetto di casa quel che vi trovano – persino del pane raffermo – non volendo lasciare vuota una poltrona neppure per un semestre. Altre erano le storie di chi arrivava a Roma, Firenze e Milano (come pure a Parigi) con il cosiddetto sogno nel cuore e nelle carni; riuscendo a spuntare dal nulla dopo protratte e anonime esperienze fino a divenire tutto quel che ci racconta la storia del made in Italy. E non c’era giornale di moda che non coltivasse con stupore e ammirazione questi centauri dello Stile: eccezionalmente capricciosi ma pure gentili, generosi, intelligenti, e talora persino bellissimi e ricchi. Comunque anomali e diversi, in uno specifico già presente nel cinema, in letteratura, così come nelle arti in genere. Fino a vere genialità: come Armani, ad esempio, soffocato a ogni passo da adepte e vestali. Intanto che Mariuccia Mandelli (in arte Krizia) lagnava una solitudine impietosa; guardata dall’ufficialità dell’ambiente con simpatia ma pur sempre come un’intrusa. E tale appariva stando agli standard del tempo. Quando agli applausi non si voleva altro che la fragilità intenerente di un poeta à la Yves Saint Laurent; anche allo stremo (oh, le mamme!). Giacché persino quelle sussurrate abitudini notturne divenivano amabili agli occhi di coltivate signore in genere con noiosissime figure maschili accanto. Ora, invece – salvo rare e preziose eccezioni: dal codice Prada alla scuola romana di Fendi, al virtuosismo di Sarah Burton, Simone Rocha e di poche altre –, perlopiù loquaci badesse, volenterose veterane della fotocopia. Mentre tutto si spegne in un regime segnato ormai da sparuti esemplari in quota verde. E persino in Vaticano, allarmati, si cerca un qualsiasi alibi pur di arginare lo scalpitio di impetuose Superiore desiderose solo di divenire diaconesse. Ma per i fallocratici Signori della Moda tutto questo ha poca importanza: basta far girare un fatturato da un marchio in perdita all’altro.
· L’omosessualità.
Mariella Bussolati per "it.businessinsider.com" il 12 dicembre 2019. Perché esiste l’omosessualità, e soprattutto perché è diffusa anche in oltre 1.500 specie animali? Non è un paradosso, visto che in teoria l’adattamento premia chi si riproduce di più e dunque si accoppia con l’altro sesso? Secondo ricercatori della Yale School of Forestry & Environmental Studies questo tipo di comportamento non è una variazione rispetto a una normalità. Potrebbe invece essere parte di qualcosa ancestrale che, se è stato mantenuto nel corso dell’evoluzione, evidentemente ha portato benefici. Non è niente di nuovo, ma qualcosa che risale alle origini della vita e che si è sviluppato contemporaneamente all’altro tipo di sessualità. Nella loro ricerca sostengono che nessuno finora ne aveva capito le cause perché si è sempre pensato che l’eterosessualità fosse la regola, e l’omosessualità una deviazione. Molti biologi hanno creduto che avesse un alto prezzo evolutivo e, di conseguenza, fosse una aberrazione. Charles Darwin aveva sostenuto che la selezione sessuale era il motore dei cambiamenti, e la produzione di figli sembrava essere fondamentale. Se si cambia invece prospettiva emergono altri aspetti: l’accoppiamento ha costi evidenti, sia in termini di energia spesa per la conquista, sia in termini di tempo. Inoltre spesso non porta a un risultato: competizione, età, qualità di sperma e ovuli, stato di benessere sono fattori determinanti. Infatti negli animali andare con l’altro sesso non è una norma incontrovertibile: è più vero invece che non esiste una netta divisione ma spesso si rivolgono a tutti i sessi. Probabilmente, è la conclusione degli studiosi, una attrazione senza discriminazioni sessuali è la condizione originale e dunque deve essere necessariamente stata positiva. La bisessualità è venuta prima. L’eterosessualità esclusiva potrebbe essere una derivazione che si è presentata solo quando alcune specie hanno effettivamente conquistato caratteristiche distinte tra maschio e femmina. Se l’omosessualità non fosse stata utile, sarebbe scomparsa. Così non è stato. D’altronde gli animali esibiscono sessualità molto varie che non necessariamente generano una prole, e che vengono rivolte, oltre allo stesso sesso, anche nei confronti di specie diverse, oggetti inanimati, cadaveri e anche a se stessi. La strada dell’omosessualità non quindi è un problema che richiede una soluzione, ma qualcosa di molto radicato. Gli evoluzionisti della Yale sostengono che la domanda che la scienza si è sempre posta, ovvero perché esiste, andrebbe sostituita da un altra: perché non dovrebbe esistere? Fanno sesso con lo stesso genere animali di tutti i tipi, vertebrati e invertebrati: l’oca delle nevi, il pinguino, che forma coppie stabili e alleva piccoli, il rospo comune, il bisonte americano, il cane, il delfino, il leone, il macaco e perfino il moscerino della frutta. E’ dunque un comportamento naturale e consolidato che andrebbe considerato come neutrale, ovvero non porta necessariamente effetti negativi. Gli individui sono più inclini ad accoppiarsi con più partner e in molte specie, per esempio negli insetti, l’accoppiamento con lo stesso sesso potrebbe essere dovuto al caso, e alla effettiva incapacità di distinguere il genere. Nei primi animali che hanno fatto sesso non c’erano grandi distinzioni, e la fatica di riconoscere l’altro avrebbe rallentato il processo. Nel necroforo, un coleottero, il riconoscimento c’è e viene però fatta una scelta: i maschi si accoppiano con altri maschi quando la concorrenza per avere una femmina diventa alta, i tempi di corteggiamento si allungano e il rischio di avere un rifiuto è alto. Lo fanno per poter esercitare i loro rituali anche quando non portano al successo riproduttivo. Un modo per tenersi in esercizio aspettando momenti migliori. Ci sono lati positivi anche per l’uomo. Una ricerca dell’Università di Padova e Trento ha dimostrato che le madri e le zie di uomini gay tendono ad avere più figli. E mentre uno studio pubblicato di Science ha rivelato che non esiste nessun gene che impone l’omosessualità, potrebbe essere invece l’espressione di una combinazione di diverse varianti genetiche che agiscono anche sulla riproduzione. Se l’omosessualità si è mantenuta è perché porta benefici evolutivi riconoscibili. Nei delfini e nei bonobo, che hanno società complesse, ha appunto un valore sociale. E sono proprie queste specie dove è più diffusa. Uomo compreso. Nei mammiferi marini infatti avviene soprattutto tra i giovani maschi e serve a rinforzare i rapporti nel gruppo. Nei bonobo, dove è diffuso nelle femmine, aiuta a stabilire gerarchie. Il team della Yale non ha dubbi: è ragionevole pensare che siamo spontaneamente sia eterosessuali che omosessuali. L’espressione della sessualità può variare nel corso della vita e all’interno delle popolazioni, ed è una dimostrazione del fatto che, naturalmente, non c’è discriminazione. E’ il risultato di una serie di processi adattativi che comprendono una continua variazione tra le due possibilità.
Migranti, la Cassazione: "Accogliere gay non protetti nel loro paese". La Suprema Corte accoglie ricorso di un cittadino della Costa d'Avorio: "Verificare tutela anche se in quello Stato l'omosessualità non è considerata un reato". Scrive il 23 aprile 2019 La Repubblica. Prima di negare lo status di rifugiati ai migranti che dichiarano di essere omosessuali e di rischiare la vita se rimpatriati a causa del loro orientamento sessuale, si deve accertare se nei Paesi d'origine non solo non ci siano leggi discriminatorie ma anche verificare che le autorità del luogo apprestino "adeguata tutela" per i gay, ad esempio se colpiti da "persecuzioni" di tipo familiare. Lo sottolinea la Cassazione che ha accolto il ricorso di un cittadino gay della Costa d'Avorio, minacciato dai parenti. Al migrante protagonista di questa vicenda giudiziaria arrivata fino alla Suprema Corte, la Commissione territoriale di Crotone, non aveva concesso lo status di rifugiato sottolineando che "in Costa d'Avorio al contrario di altri stati africani, l'omosessualità non è considerata un reato, né lo Stato presenta una condizione di conflitto armato o violenza diffusa". Per gli "ermellini" questo non basta: serve accertare l'adeguata protezione statale per minacce provenienti da soggetti privati. Bakayoko Aboubakar S. aveva infatti raccontato che era di religione musulmana, coniugato con due figli, e diventato oggetto "di disprezzo e accuse da parte di sua moglie e di suo padre" che era imam del villaggio, "dopo aver intrattenuto una relazione omosessuale". Aveva deciso di fuggire quando il suo partner era stato "ucciso in circostanze non note, a suo dire ad opera di suo padre", l'imam. Per la Cassazione "non è conforme a diritto" aver negato la protezione a Bakayoko senza accertare se nel suo Paese sarebbe tutelato dalle minacce dei parenti. Il caso si riapre.
PARLANO LORELLA CIPRO E ROSY MOGAVERO, LE DUE MARINAIE CHE SI SONO UNITE CIVILMENTE. Antonella Baccaro per il “Corriere della Sera” del 3 aprile 2019. Lorella e Rosy (e i loro cinque bulldog) sono l' immagine della felicità. Il tenente di vascello Cipro e il nocchiere Mogavero, fresche spose immortalate sorridenti sotto un ponte di sciabole della Marina, foto diventata virale, non si aspettavano tanto clamore. E nemmeno gli auguri e i complimenti della ministra della Difesa, Elisabetta Trenta, che le considera esempio di «una importante evoluzione culturale, nelle Forze Armate e nel nostro Paese».
«Abbiamo ricevuto molti commenti: la stragrande maggioranza complimenti per il nostro coraggio. Ma non ci sentiamo così coraggiose: per noi il matrimonio è l' evoluzione naturale dell' amore» dicono quasi all' unisono.
Ma sull' unione civile non tutti la pensano così. Vi ha spiazzato la Trenta?
Rosy: «Cogliamo l' occasione per ringraziare la ministra che ci ha onorato con il suo augurio».
Siete pronte per la visibilità che vi è piovuta addosso o vi spaventa?
Rosy: «Non l' avevamo prevista. Ma ci fa piacere perché non ci siamo mai sentite diverse ed è bello poter raccontare quello che non tutti possono ancora dire».
Avete mai avuto difficoltà a farvi accettare nella Marina?
Lorella: «No. Per me la difficoltà sul lavoro non c' è stata. Lo scoglio è stato mio padre: un uomo del Sud (la famiglia è di Trinitapoli in Puglia, ndr) , tutto di un pezzo. Sono riuscita a rivelargli la mia relazione e l' intenzione di sposarmi appena un mese prima delle nozze».
Torniamo alle reazioni in Marina.
Lorella: «Sono sempre stata riservata sulle mie frequentazioni, fino a quando sono arrivata a La Spezia e al mio equipaggio ho rivelato subito la mia relazione con Rosy».
E come è andata?
Lorella: «La Marina è una grande famiglia. Mi sono sentita subito a mio agio. La Difesa considera i suoi uomini e le sue donne in uniforme per la loro professionalità. E riconosce che la serenità derivante dal potersi esprimere liberamente anche nella sfera privata abbia risvolti positivi nel lavoro».
Quanto tempo fa vi siete conosciute?
Rosy: «Quattro anni fa a Taranto. Entrambe frequentavamo dei corsi. E Lorella ha affittato casa davanti alla mia. Una sera, rientrando, ho notato subito i suoi cani, lei non l' ho proprio notata... (ride) Ma poi abbiamo iniziato a conoscerci e a vivere insieme».
Anche per te è stato difficile rivelarti in famiglia?
Rosy: «Io della mia inclinazione ho preso coscienza piano piano. Sono stata fidanzata quattro anni con un ragazzo prima di innamorarmi di una donna. Ne ho parlato subito ai miei, giù a Palermo».
Con quali reazioni?
Rosy: «Mio padre ha detto che lo infastidiva di più il fatto che fumassi. Mia madre mi ha fatto intendere che l' aveva già capito. Ho avuto subito il massimo dell' appoggio».
E adesso siete qua. Niente viaggio di nozze?
Lorella: «Adesso sono il comandante di nave Leonardo. Lo faremo a settembre, alla fine del comando».
Meta?
Lorella: «Sto convincendo Rosy andare nella Polinesia francese. Ma lei ha paura dell' aereo».
Potreste andarci in nave...
Lorella: «Preferirei cambiare mezzo...».
Avete mai lavorato sulla stessa nave? Vorreste farlo?
«No!» . Risposta corale.
E a fare una famiglia ci pensate?
Lunga pausa. Lorella: «Sta parlando dei cani? - ridono -. Certo che sento l' esigenza di una famiglia: ho subìto la separazione dei miei. Vorremmo tanto adottare un bambino, ma in Italia non si può. Ed è vietata anche la fecondazione assistita. In futuro magari penseremo di andare all' estero per farla».
Lorella, lei sul suo profilo Facebook cita spesso la giornalista Oriana Fallaci.
«La rabbia e l' orgoglio è stato il libro più bello che ho letto. Mi è piaciuto quel suo sentirsi italiana e io ho molto forte il sentimento "Patria e onore". Amo l' Italia e darei la vita per il mio Paese».
Intanto lei ha salvato la vita a tanti migranti.
«Ero ad Augusta con i pattugliatori in piena missione Mare nostrum e sì, ne abbiamo salvati tanti. Era il nostro compito, lo abbiamo svolto con coscienza».
Estratto dell’articolo di Nadia Campini per “la Repubblica” del 3 aprile 2019.
(…) Quando avete deciso di rendere pubblica la vostra relazione con l' unione civile? Avete avuto paura di dirlo ai vostri colleghi?
Lorella : «Veramente lo scoglio più grosso è stato dirlo a mio padre, ho avuto il coraggio di farlo solo un mese fa, lui non sapeva che avevo una relazione con una donna, ho rimandato per quasi quattro anni prima di dargli la notizia fino a quando mi sono decisa e gli ho detto: "Papà ti devo dire una cosa, ma se tu sei dalla mia parte mi sento di affrontare il resto del mondo, sto con Rosy e voglio fare l' unione civile con lei". E lui mi ha risposto: "Se non sono io dalla tua parte chi dovrebbe esserci?». L' ho abbracciato forte forte, non me lo aspettavo, è stato più facile del previsto. E mi ha fatto il regalo più bello, venendo a partecipare alla cerimonia».
R.: «A casa mia invece lo sapevano da tempo. Quando ho dato la notizia, mio padre, mi ha risposto che se lo sarebbe aspettato».
Fuori servizio partecipate alle battaglie civili per il riconoscimento dei diritti?
L. : «Non quanto vorremmo. Per lavoro siamo molto spesso lontano da casa e quel poco tempo che riusciamo a vivere sulla terra ferma lo passiamo insieme e con i nostri cani.
Speriamo che il nostro esempio serva a qualcuno».
Avete pensato in futuro alla possibilità di avere un figlio?
L. : «A noi piacerebbe tantissimo poter adottare un figlio».
R. : «Ora non è possibile, ci penseremo più avanti».
(…) Perché celebrare l' unione civile in alta uniforme?
R.: «L' uniforme è quello che siamo, la nostra vita di tutti i giorni, fa parte di noi e volevamo onorarla indossandola in un momento così importante».
ORIANA FALLACI SULL’OMOSESSUALITÀ. Oriana Fallaci - Storia di un'Italiana. L’omosessualità in sé non mi turba affatto. Non mi chiedo nemmeno da che cosa dipenda. Mi dà fastidio, invece, quando (come il femminismo) si trasforma in ideologia. In categoria, in partito, in lobby economico-cultural-sessuale. E grazie a ciò diventa uno strumento politico, un’arma di ricatto, un abuso Sexually Correct. O-fai-quello-che-voglio-io-o-ti-faccio-perdere-le-elezioni. Pensi al massiccio voto con cui in America ricattarono Clinton e con cui in Spagna hanno ricattato Zapatero. Sicché il primo provvedimento che Clinton prese appena eletto fu quello di inserire gli omosessuali nell’esercito e uno dei primi presi da Zapatero è stato quello di rovesciare il concetto biologico di famiglia nonché autorizzare il matrimonio e l’adozione gay. Un essere umano nasce da due individui di sesso diverso. Un pesce, un uccello, un elefante, un insetto, lo stesso. Per essere concepiti, ci vuole un ovulo e uno spermatozoo. Che ci piaccia o no, su questo pianeta la vita funziona così. Bè, alcuni esperti di biogenetica sostengono che in futuro si potrà fare a meno dello spermatozoo. Ma dell’ovulo no. Sia che si tratti di mammiferi sia che si tratti di ovipari, l’ovulo ci vorrà sempre. L’ovulo, l’uovo, che nel caso degli esseri umani sta dentro un ventre di donna e che fecondato si trasforma in una stilla di Vita poi in un germoglio di Vita, e attraverso il meraviglioso viaggio della gravidanza diventa un’altra Vita. Un altro essere umano. Infatti sono assolutamente convinta che a guidare l’innamoramento o il trasporto dei sensi sia l’istinto di sopravvivenza cioè la necessità di continuare la specie. Vivere anche quando siamo morti, continuare attraverso chi viene e verrà dopo di noi. E sono ossessionata dal concetto di maternità. Oh, non mi fraintenda: capisco anche il concetto di paternità. Lo vedrà nel mio romanzo, se farò in tempo a finirlo. Lo capisco così bene che parteggio con tutta l’anima pei padri divorziati che reclamano la custodia del figlio. Condanno i giudici che quel figlio lo affidano all’ex-moglie e basta, e ritengo che nella nostra società oggi si trovino più buoni padri che buone madri. (Segua la cronaca. Quando un padre impazzito ammazza un figlio, ammazza anche sé stesso. Quando una madre impazzita ammazza un figlio, non si ammazza affatto e va dal parrucchiere). Ma essendo donna, e in più una donna ferita dalla sfortuna di non esser riuscita ad avere figli, capisco meglio il concetto di maternità………Ma qualcun altro me lo chiederà. Quindi ecco. Un omosessuale maschio l’ovulo non ce l’ha. Il ventre di donna, l’utero per trapiantarcelo, nemmeno. E non c’è biogenetica al mondo che possa risolvergli tale problema. Clonazione inclusa. L’omosessuale femmina, si, l’ovulo ce l’ha. Il ventre di donna necessario a fargli compiere il meraviglioso viaggio che porta una stilla di Vita a diventare un germoglio di Vita poi un’altra Vita, un altro essere umano, idem. Ma la sua partner non può fecondarla. Sicché se non si unisce a un uomo o non chiede a un uomo per-favore-dammi-qualche-spermatozoo, si trova nelle stesse condizioni dell’omosessuale maschio. E a priori, non perché è sfortunata e i suoi bambini muoiono prima di nascere, non partecipa alla continuazione della sua specie. Al dovere di perpetuare la sua specie attraverso chi viene e verrà dopo di lei. Con quale diritto, dunque, una coppia di omosessuali (maschi o femmine) chiede d’adottare un bambino? Con quale diritto pretende d’allevare un bambino dentro una visione distorta della Vita cioè con due babbi o due mamme al posto del babbo o della mamma? E nel caso di due omosessuali maschi, con quale diritto la coppia si serve d’un ventre di donna per procurarsi un bambino e magari comprarselo come si compra un’automobile? Con quale diritto, insomma, ruba a una donna la pena e il miracolo della maternità? Il diritto che il signor Zapatero ha inventato per pagare il suo debito verso gli omosessuali che hanno votato per lui?!? Io quando parlano di adozione-gay mi sento derubata nel mio ventre di donna. Anche se non ho bambini mi sento usata, sfruttata, come una mucca che partorisce vitelli destinati al mattatoio. E nell’immagine di due uomini o di due donne che col neonato in mezzo recitano la commedia di Maria Vergine e San Giuseppe vedo qualcosa di mostruosamente sbagliato. Qualcosa che mi offende anzi mi umilia come donna, come mamma mancata, mamma sfortunata. E come cittadina. Sicché offesa e umiliata dico: mi indigna il silenzio, l’ipocrisia, la vigliaccheria, che circonda questa faccenda. Mi infuria la gente che tace, che ha paura di parlarne, di dire la verità. E la verità è che le leggi dello Stato non possono ignorare le leggi della Natura. Non possono falsare con l’ambiguità delle parole «genitori» e «coniugi» le Leggi della Vita. Lo Stato non può consegnare un bambino, cioè una creatura indifesa e ignara, a genitori coi quali egli vivrà credendo che si nasce da due babbi o due mamme non da un babbo e una mamma. E a chi ricatta con la storia dei bambini senza cibo o senza casa (storia che oltretutto non regge in quanto la nostra società abbonda di coppie normali e pronte ad adottarli) rispondo: un bambino non è un cane o un gatto da nutrire e basta, alloggiare e basta. E’ un essere umano, un cittadino, con diritti inalienabili. Ben più inalienabili dei diritti o presunti diritti di due omosessuali con le smanie materne o paterne. E il primo di questi diritti è sapere come si nasce sul nostro pianeta, come funziona la Vita nella nostra specie. Cosa più che possibile con una madre senza marito. Del tutto impossibile con due «genitori» del medesimo sesso. Oriana Fallaci
L.G.B.T.I.? Da Il Corriere.it dell'11 marzo 2019. Imma Battaglia. L’attivista e leader del movimento Lgbt ha raccontato la sua esperienza a Non è l’Arena su La7 per portare all’attenzione il trauma che anche da bambini si può provare per essere gay.
EVA GRIMALDI E IMMA BATTAGLIA SI SPOSANO, MICCIO SARÀ IL WEDDING PLANNER. Da Il Messaggero.it dell'11 marzo 2019. Era nell'aria. Una foto rubata lo scorso autunno, li aveva immortalati in quel di Roma, nel quartiere Piramide, dove la dolce attrice Eva Grimaldi e la sua Imma Battaglia, storica attivista del movimento LGBT italiano, erano state sorprese in compagnia del bridal designer Enzo Miccio, il wedding planner più noto della televisione italiana che, dopo il matrimonio Bossari-Lagerbäck, sembra esser pronto ad accompagnare le due prossime future spose verso l'unione civile più clamorosa di sempre. Per la prima volta in Italia infatti, due donne note al pubblico, ognuna per la propria vicenda personale e lavorativa, convoleranno a giuste nozze dopo una storia d'amore lunga più di otto anni. Un'unione quella della coppia Grimaldi-Battaglia, che si svolgerà a Maggio 2019 in un luogo ancora non definito dall'entourage, ma che quasi certamente sarà a Roma, dove la coppia convive da anni. L'unione tra le due, accompagnata dai due hashtag scelti dalla coppia ( #EvaImmaWeddingDay e #LePromesseSpose ), era già stata annunciata lo scorso giugno 2018, ma la storia d'amore fu resa nota da una trasognante Eva durante l'Isola dei Famosi 2017. Per ora non trapelano informazioni, se non quella che vede il wedding designer impegnato nell'organizzazione di quello che si preannuncia un grande evento. Top secret restano la data, il tema e la location, ma Enzo Miccio, abituato ai matrimoni sotto i riflettori, ha in mente già qualcosa. «Sarà un matrimonio che parlerà di Eva e di Imma, del loro amore, del loro percorso come coppia e delle loro passioni. Un vero e proprio inno alla semplicità e all'amore, senza mai dimenticare l'anima militante di questo sentimento», conclude Miccio.
Spirlì: “Per me, vecchia checca, il Gay Pride è un carnevale osceno”, scrive Edoardo Sylos Labini il 09/03/2019 su Il Giornale Off. Era molto atteso ieri sera al Mondadori Store di piazza del Duomo il faccia e faccia che avrei dovuto moderare tra lo scrittore omosessuale Nino Spirlì e la conduttrice tv rappresentante del mondo LGTB Vladimir Luxuria. Un confronto su alcuni temi affrontati da punti di vista diversi, ognuno con le proprie convinzioni e le proprie idee. Luxuria però non si è presentata all’evento giustificandosi con lo sciopero dei mezzi pubblici, che invece erano regolarmente assicurati con tanto di tabella dei treni che sarebbero comunque partiti. Mi spiace perchè conosco la sua simpatia e il suo mettersi in gioco. In questi anni ho avuto il piacere di intervistare nella mia rassegna prima al Manzoni di Milano e poi al Mondadori in Duomo da Giancarlo Giannini a Carla Fracci da Alex Zanardi a Lorella Cuccarini da Lavia a Vittorio Sgarbi, grandi nomi dello Spettacolo e della Cultura italiana, che si sono sempre presentati all’appuntamento con grande disponibilità e professionalità. La serata, naturalmente, è stata comunque un successo con l’autore del “Diario di una vecchia checca” che ha sfoderato autoironia ed umanità in un mondo dove finzione e banalità spesso prendono il sopravvento.
Nino benvenuto al Mondadori OFF, allora ti aspettavi l’assenza di Luxuria in questo faccia a faccia?
«Avrei potuto giocare i numeri al lotto: avrei festeggiato con la vincita del terno secco sulla ruota del Gay Pride! Come era immaginabile, il “personaggio” ha disertato il palcoscenico della vita. Luxuria ha preferito fuggire davanti al “nemico”, all’omosessuale onesto che non vive apparecchiato di bugie e compromessi. Che non fa finta di indossare vite non sue, che non piange o ride solamente a favore di telecamera. Che non si sprezzemola in giro per programmi televisivi. Certo, non è facile trovarsi davanti a uno specchio spietato che ti riporta la tua menzogna e te la spalma sulla pelle. Anni e anni di risolini amari, contro chiunque fosse diverso dall’ordine che hanno cercato, cercano e cercheranno di imporre come nuovo ordine, si sarebbero frantumati davanti a me, un ricchione alla vecchia maniera, che, pur nella sua eccentricità, non ha mai fatto della propria omosessualità un vanto o un motivo di orgoglio».
Perché parli di personaggio?
«Perché se tutti dovessero parlare dei personaggi che interpretano o hanno interpretato anziché di se stessi allora io ti dovrei chiamare Nerone, d’Annunzio, dovrei chiamarti in un sacco di modi! Ma la vita non è un palcoscenico, non è un set televisivo in cui tutto è apparecchiato in modo da sembrare vero. Io che ho fatto l’autore televisivo per Forum per quasi vent’ anni ne so qualcosa, dovevo costruire bugie, storie inventate. Tu dirai e allora perché lo facevi? Perché mi davano i soldi! Perché in TV funziona così, in TV si può mentire, si possono dire le bugie, ad esempio si può fingere di essere donna o uomo, onesti o disonesti…»
Tu Nino hai sempre fatto, in modo molto autoironico, la distinzione tra omosessuale e gay.
«Io innanzitutto credo che se non torniamo alla lingua del posto in cui siamo nati non ci capiamo. In Calabria ad esempio omosessuale si dice ricchione. Io voglio essere ricchione. Così come si è busoni in Veneto, finocchi a Roma eccetera… queste non sono parole che devono spaventare. A me a dire il vero a spaventarmi è la parola gay… Io ero ricchione anche quando mio padre stava morendo, ma non ero gay. Gay significa allegro, gay è un’offesa perché significa leggero, gay è una categoria che si usa ma che non è reale perché non rispecchia le singole personalità. Vorrei pensare che ci sono tante sessualità quante persone ci son in questo momento sulla terra, non si può categorizzare. Se la analizziamo è la parola gay ad essere offensiva, il gay pride è un carnevale osceno. Poteva essere utile nell’America degli anni ’70. In America serviva questa esasperazione del gay pride, ma da noi, in Italia, una terra che è patria di pastori e contadini tutto questo non serve. Perché secondo voi i pastori che stanno fuori casa per mesi e mesi che fanno? Un buco nella roccia? E i navigatori, i marinai? Gli italiani popoli di esploratori, in mezzo al mare come pensate che facessero? L’omosessualità da noi è stata sempre vissuta con discrezione, senza bisogno di fare spettacolo. Lo scandalo nei confronti nell’omosessualità è arrivato insieme al boom economico. Questo ha creato in Italia una borghesia finta che ha fatto sorgere la necessita di dover essere puliti, di dover fare in modo che gli altri non potessero parlare male di noi. Prendete Von Gloeden che ha fotografato i giovani pescatori, contadini dipingendo un sud poetico… andate a cercarlo, vi renderete conto di che cosa significava per questi ragazzi farsi fotografare. Tutto questo è molto distante dal Gay Pride».
E allora parliamo anche di Guido Keller, ci vuoi raccontare chi era?
«Keller è stato un combattente, un grande soldato, eroe della Prima Guerra Mondiale e braccio destro o musa di Gabriele d’Annunzio nella storica occupazione di Fiume. Pensate che accanto alla tomba di d’Annunzio adesso c’è quella di Keller… e lui era dichiaratamente omosessuale. Lui e moltissimi altri legionari di Fiume erano omosessuali. Loro eroi della trincea della Grande Guerra, arditi e uomini coraggiosi a Fiume camminavano mano nella mano. Ma attenzione, omosessuale non significa parlare da scemo e trasformare tutto al femminile, queste sono le strade orride che l’omosessualità ha percorso in Italia e che hanno terrorizzato molti genitori. Omosessuale è qualcosa di preciso, le effeminatezze servono a ben poco. Io capisco che ci siano dei ragazzi che nascono in un corpo che non gli appartiene. Chi nasce in un corpo che non gli appartiene deve fare di tutto per sentirsi a proprio agio, ma non va definito omosessuale. Prendete questo “benedetto” mondo arcobaleno che tutela i diritti LGBT D Q A I E… voi capite che io da ricchione calabrese non ho oggettivamente nulla a che vedere con queste persone? Ognuno ha il proprio modo di essere che non è assimilabile ad una categoria. Peraltro, nella stringa dei diritti tutelati dall’arcobaleno manca la E, manca l’eterosessuale. Questo succede perché adesso se dici che sei etero si mettono a ridere e dicono che l’etero non esiste. Ecco perché che ci fosse stato stasera Vladimiro Guadagno – perché questo è il suo nome -, avremmo fatto simpaticamente a “botte”. Peraltro Vladimiro Guadagno mi sembra che prenda anche un vitalizio come ex parlamentare. Ma se ora si chiama Luxuria e non Guadagno allora perché continua a prendere i soldi di quel tizio?»
Nel numero di marzo del mensile #CulturaIdentità tu racconti che cosa vuol dire essere omosessuale nell’entroterra calabro 40 anni fa.
«A Tauranova il pregiudizio non c’è mai stato… Io, dopo 32 anni passati tra Roma, Parigi e altre città, ora che ho deciso di tornare in Calabria, sono tornato così, con le borse, gli aneli, gli scialli e io oggi vado in giro così, senza problemi, perché nessuno quando mi vede fa una battutina. Io nel 1984 dissi a mio padre che ero omosessuale e chissà cosa mi aspettavo. C’è da dire che io ho avuto la fortuna di aver avuto un padre illuminato, io unico figlio maschio e mio padre unico figlio maschio, ha accettato la mia omosessualità senza fare una piega».
Lo racconti Nino, anche nel tuo libro Diario di una vecchia checca…
«Io sono vedovo di mio padre dal ’99, il mio grande amore è lui. Io gli ho affidato tutta la mia vita, tra di noi non ci sono mai stati segreti. Non tutti hanno questa fortuna: la fortuna di avere un padre così illuminato e in generale una famiglia così splendida. Però, questo lo dico a tutti quelli che non hanno avuto la mia stessa fortuna, è importante avere la forza, la pazienza e il coraggio di dire la verità, di andare dalla radice, chi ci ha generato, e cercare nella loro accettazione la nostra felicità».
E invece con tua madre che rapporto hai?
«Tra di noi c’è un intreccio di anime. Mia madre è una donna incredibile, non si è mai scandalizzata di nulla. Ogni volta che tornavo a casa ed ero in compagnia diceva “la vostra camera è pronta, vi ho preparato le crepes, vi ho cucinato i cannelloni”, nel momento in cui ci vedeva in due lei diceva “vi”, non usava il “ti” escludendo l’altro, non mi ha mai dato del tu se ero con qualcuno, anche se poi sapeva che quella relazione sarebbe durata quanto un gelato sul cono».
Oggi quanto è importante il valore della famiglia? Noi siamo in un moneto in Italia in cui la famiglia è completamente scardinata, tu ti sei scagliato contro le adozioni gay.
«Sì, io credo che gli omosessuali debbano fare un po’ un passo indietro. Ora, a prescindere dal fatto che ci siano dei diritti che sono davvero importanti, come l’amore – L’amore dev’essere rispettato a priori, non importa che siano ragazzi con ragazze, ragazzi con ragazzi, ragazze con ragazze – ciò non toglie che la Famiglia abbia delle necessità “Altre”. Il riconoscimento delle coppie, e dei loro diritti, credo sia la cosa più giusta e sacrosanta. Qualche anno fa un caro amico, attore tra l’altro, si è ammalato di un brutto male, è durato si e no 3 mesi, i suoi familiari che lo avevano completamente allontanato negli anni precedenti in quanto omosessuale, intervenuti come avvoltoi hanno impedito al compagno di stare con lui, di parlare con i medici, cacciandolo via di casa, la sua casa, e cancellando tutto ciò che di buono c’era stato tra i due ragazzi. Gli omosessuali, però, devono fare un passo indietro nelle pretese. I bambini hanno diritto ad avere un equilibrio affettivo in cui sia presente il mascolino e il femminino. La potenza e la dolcezza. Il padre e la madre. Sia come archetipo che come “ingrediente materiale”. Padre e Madre si compensano nell’educazione dei figli e, insieme e diversi, li arricchiscono. Due padri senza mamma o due mamme senza padre NON sono natura, norma, regola. La pretesa genitorialità omosessuale è un arroganza che non può e non deve essere consentita».
Nel tuo libro, Diario di una vecchia checca, tu racconti cosa voglia dire subire una violenza sulla propria pelle. Prima parlavamo del coraggio, coraggio è anche raccontare una violenza subita?
«Io mediamente sono un po’ un chiacchierone, però questa cosa l’ho dovuta fare maturare a lungo, non erano anni in cui avrei vinto, né nella società civile né in un’aula di tribunale: Giuseppe, che poi è un nome fittizio, era uno degli uomini più potenti non solo della Capitale ma anche di tutta Italia. Mi ha stuprato e malmenato con due energumeni riducendomi in coma. Giuseppe era un uomo sposato con figli, si era invaghito in maniera folle di me dopo avermi visto in uno dei salotti romani che frequentavo ai tempi, quando avevo 24-25 anni. Quell’uomo fece follie per avermi e quindi io deciso di provarci, dopo tre mesi però scelsi di chiudere la nostra storia. Ero più maturo io a quell’età di lui che aveva quasi cinquant’anni. Lui era abituato ad ottenere tutto quello che voleva e l’idea che un ragazzetto potesse mandarlo via non gli piaceva proprio, per cui ha usato tutte le armi a sua disposizione per tenermi vicino a sé. Una giornalista che ha letto il libro quando è uscito, ha cercato il mio numero e mi ha chiamato dopo due giorni per dirmi: “pensavo che lo stupro fosse una cosa che riguardava solo le donne”. Non è così, lo stupro è stupro».
Uscirà a breve il tuo nuovo libro “Malumbra e mala carne”.
«E’ una storia ambientata nella Palermo degli anni 80’ e racconta di una violenza domestica drammatica e della possibilità di riscattarsi. Quando ti pestano, pestano ogni cellula del tuo essere, anche quelle lontane dal punto in cui è arrivato il colpo. Tutte le cellule vengono pestate e il ricordo se lo passano tra di loro per sempre, non c’è un giorno in cui il messaggio del pestaggio non venga perpetuato, tu vivi da pestato per tutta la vita. Lo stupro non è una cosa che si cura, si c’è lo psicologo, ma è un messaggio che rimane dentro tutta la vita. Quando ridi, quando racconti una barzelletta, la racconti da stuprato, ecco perché non bisogna consentirle queste violenze».
Oggi è l’8 marzo, secondo te ha senso la festa della donna?
«No. Intanto stabiliamo una cosa: l’8 marzo non doveva essere un giorno di festa, al limite il ricordo di una giornata amara, sarebbe stato forse meglio spostarla di data ogni anno in modo tale che non diventasse un’abitudine. Donne, uomini, tutti coloro che sono ancora vivi, e coloro i quali non ci sono più, vanno rispettati 24h su 24h, 365 giorni l’anno, per tutta la vita e per tutti gli anni che verranno nella storia dell’umanità. Inutile fare i buoni fidanzati, mariti e compagni l’8 marzo o il 14 febbraio se poi il giorno dopo ci si manda a fare in culo».
In quei vent’anni a Roma ne hai viste di tutti i colori, raccontaci del rapporto oggi in Italia tra omosessualità e Chiesa.
«Facciamo una distinzione: ciò di cui si occupano maggiormente oggi le cronache sono i pedofili. Io ho una grande fede, ma davanti ai pedofili mi farei il segno della croce e gli staccherei il collo, senza neanche dovermi poi confessare, proprio come se fosse una missione mistica. Un conto invece sono i poveri preti froci. I preti omosessuali sono una realtà così come i preti puttanieri, ce ne sono da tutte le parti. Io direi che potrebbe ormai finire quest’inutile tradizione che impone la castità senza dogmi della chiesa. Si può essere casti nel cuore avendo qualcuno al proprio fianco. Se vuoi sapere quanti preti ho avuto nella mia vita te lo dico, ho avuto 3 preti ed un seminarista».
Chi è che ha massacrato di più il mondo omosessuale?
«Nessuno o pochi sanno che quel famoso Ernesto Che Guevara, è stato l’ideatore, il progettista e il costruttore dei campi di concentramento su tutta Cuba per gli omosessuali, erano gli anni Sessanta. Quando un omosessuale mi dice di essere comunista io gli ricordo che da Stalin fino a Brežnev e quindi sino agli anni Settanta, in tutti i paesi sovietici, gli omosessuali venivano deportati in Siberia o, quando gli andava bene, venivano rinchiusi nei manicomi e gli venivano fatte le punture di acqua e sale per farli impazzire. Allora, si può essere froci e comunisti? Io direi informatevi. Perché i nazisti ci incenerivano, i fascisti ci prendevano a calci in culo e ci mandavano a Carbonia, ma i comunisti non ci hanno di certo amati. In Cina, Mao, non faceva neanche pensare ad un uomo di essere omosessuale, lo ammazzava prima. In tutta l’Indocina l’omosessualità è stata un reato, in Birmania lo è ancora oggi… senza parlare dei paesi islamici. In Iran ci impiccano, in Iraq ci buttano dai palazzi, questo è l’Islam. E quando fanno poi le manifestazioni gli omosessuali con le bandiere arcobaleno girano insieme agli islamici integralisti, dico ma allora siete cretine, vi ammazzano!»
· L’omocittadinanza.
Migranti. Cassazione: essere gay non è sufficiente per chiedere l’asilo. Scrive lunedì, 29, ottobre, 2018 Antonio Amorosi su Affari Italiani. E’ finita la pacchia, direbbe Matteo Salvini. Gli immigrati omosessuali che hanno subito atti di persecuzione, violenza fisica o psichica, inclusa la violenza sessuale o diretta contro il proprio orientamento possono chiedere asilo internazionale in Italia. Difficile però capire chi finge e chi davvero corre un pericolo, con tutta la complessità che ancora oggi comporta il dichiararsi omosessuale. Diversi mediatori culturali raccontano che i richiedenti asilo, spesso semplici migranti economici, sostengano di essere omosessuali solo per trarne un vantaggio, riferendo anche storie di violenze tutte simili fra loro, come se avessero ricevuto delle imbeccate da chi cura le loro domande. I migranti richiedenti asilo gay possono anche essere riconosciuti in quanto tali ricevendo una “protezione sussidiaria”. In sostanza non sei un profugo, cioè non provieni da una guerra ma sei stato discriminato. Questo tipo di protezione si chiama “protezione sussidiaria”, riservata a varie tipologie di soggetti. Tra questi vi sono appunto anche i migranti omosessuali che nel Paese di origine sono stati vittime, per il proprio orientamento sessuale, di un atto di violenza, sono per questo considerabili in pericolo di vita, sono discriminati o lo sono stati. Nel 2015 hanno ricevuto in Italia lo status di “protezione sussidiaria” 10.225 richiedenti. Nel 2016 12.873. Nel 2017 solo 6.880 (dati ministero dell’Interno). A fronte di un numero di domande totali annue esaminate oscillanti tra le 71.000 e le 91.000. Vi ricordate quando in Italia la leva militare era discriminatoria per gli omosessuali? Con l’effetto, che dopo anni di derisione, discriminazioni e nonnismo, chi si dichiarava gay era esonerato dalla leva? L’Arcigay ricorda in un suo scritto la delirante normativa che vi era a monte: “l’esonero degli omosessuali dal servizio di leva con il famoso articolo 28/62 che parlava di ‘inversione sessuale’”, o “ l’articolo 41 comma b del DPR 1008/85 che parlava di ‘devianza sessuale’ e “l’articolo 30 del decreto del Ministro della Difesa del 29 novembre 1995 che parlava dei ‘disturbi della sessualità’”, così come “ l’articolo 15 (‘psichiatria’) del decreto del Ministro della Difesa del 26 marzo 1999 (entrato in vigore l’1 ottobre 1999) che parlava al comma ‘i’ di ‘parafilie e i disturbi della identità di genere’”. La questione gay, che è servita anche a tanti che non lo erano per essere esonerati dalla leva, si è traslata sui richiedenti asilo politico. Ma oggi cambia tutto, con un’ordinanza della Corte di Cassazione. Se è giusto proteggere gli omosessuali perseguitati e concedere loro l’asilo, la condizione di omosessuale di per sé non è sufficiente per chiedere la protezione internazionale. Deve essere accertata l’autenticità dell’orientamento sessuale del richiedente protezione o che il richiedente corra un pericolo reale o che nel Paese di provenienza c’è un reale pericolo di discriminazione sessuale. E’ una decisione della Corte di Cassazione, sez. VI Civile, 1 che con l’ordinanza n. 22416/18, depositata il 13 settembre scorso, ha respinto definitivamente la domanda presentata da un uomo di origini nigeriane che ha proposto ricorso contro una sentenza avversa. Per i giudici è decisiva la constatazione che in Nigeria l’omosessualità non è considerata reato. Sono sì vietati i matrimoni tra gay ma questo non comporta un pericolo di chi lo sia. E gli episodi di discriminazione verificatisi sono stati estremamente limitati. Il nigeriano sosteneva “di correre seri pericoli in caso di ritorno in patria per la sua condizione di omosessuale”. Orientamento sessuale dell’uomo, secondo la Cassazione, che si fonda esclusivamente sul racconto del nigeriano stesso, “racconto da lui reso, peraltro confuso e poco credibile”, scrivono nel dispositivo quelli dell’Alta corte. Nel dettaglio l’uomo descrive un episodio di violenza non consumata in cui l’aggressore sarebbe anche stato ucciso. La Cassazione ha valutato anche che “la situazione sociale politica in Nigeria non fosse connotata da episodi di violenza di intolleranza nei confronti degli omosessuali”. Aggiungendo che “non risulta che i Nigeria l’omosessualità costituisca reato, desumendosi (dal rapporto Uman Rights Watch del 2017) esclusivamente l’introduzione del divieto di matrimonio tra persone dello stesso sesso. Senza peraltro alcuna legittimazione degli abusi contro gli omosessuali”. Per la corte di Cassazione è chiaro che in Nigeria l’ordinamento giuridico non si intromette nella vita dei cittadini omosessuali, “compromettendo la loro libertà personale e li pone in una situazione oggettiva di persecuzione, tale da giustificare la concessione richiesta”. Gli stessi conflitti politici esistenti nel sud della Nigeria, non sono così gravi e diffusi da accettare le richieste dell’uomo. Il nigeriano aveva presentato la stessa richiesta alla Corte d’appello di Brescia, dove era stata rigettata. Da qui la domanda di intervento della Cassazione. La prima sezione civile della Cassazione, con sentenza N.11176/2019, ha stabilito che va verificata la tutela anche se l’omosessualità non è considerata un reato nello stato del richiedente la protezione internazionale. L’assenza di norme che vietino, direttamente o indirettamente, i rapporti consensuali tra persone dello stesso sesso, non è risolutiva per escludere la protezione internazionale. Per la corte di Cassazione la statuizione della Corte d’Appello di Catanzaro, non è conforme al diritto :“non appare sufficiente l’accertamento che nello stato di provenienza del ricorrente, la Costa D’Avorio, l’omosessualità non è considerata alla stregua di reato, dovendo altresì accertarsi la sussistenza, in tale paese, di adeguata protezione, a fronte delle gravissime minacce provenienti da soggetti privati. La Corte territoriale ha infine omesso di valutare la sussistenza della condizione di vulnerabilità del ricorrente, alla luce della particolare situazione personale prospettata nel ricorso e del concreto pericolo che egli possa subire, in conseguenza della propria condizione di omosessualità, trattamenti degradanti e la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani al di sotto dello statuto della dignità personale in caso di rimpatrio” .
L'ultima sentenza della Cassazione: "Accogliere i migranti gay se a rischio nel loro Paese". Per la Suprema Corte prima di negare lo Status occorre accertare che nei Paesi d'origine non ci siano leggi discriminatorie e una "adeguata tutela" per i gay. Scrive Stefano Damiano, Martedì 23/04/2019, su Il Giornale. La Cassazione ha accolto il ricorso di un cittadino della Costa d'Avorio aprendo una nuova pagina nel riconoscimento dello status di rifugiato a seguito di discriminazioni di tipo sessuale. Secondo la sentenza della Suprema corte, prima di negare lo status di rifugiati ai migranti che dichiarano di essere omosessuali e di rischiare la vita se rimpatriati a causa del loro orientamento sessuale, deve essere accertato dalle autorità competenti che nei Paesi d'origine non solo non ci siano leggi discriminatorie; inoltre occorre anche verificare vi sia una "adeguata tutela" per i gay ad esempio se colpiti da "persecuzioni" di tipo familiare. A Bakayoko Aboubakar S. fu negato lo status di rifugiato politico nonostante la persecuzione nei suoi confronti nel Paese di origine. Il cittadino ivoriano, musulmano, coniugato con due figli, era oggetto “di disprezzo e accuse da parte di sua moglie e di suo padre”, l'imam del villaggio, a causa di una relazione omosessuale intrattenuta con il partner, successivamente “ucciso in circostanze non note, a suo dire ad opera di suo padre”. Pertanto Bakayoko Aboubakar S. aveva deciso di fuggire ma lo status di rifugiato gli era stato negato dalla Commissione territoriale di Crotone, perché “in Costa d’Avorio al contrario di altri stati africani, l’omosessualità non è considerata un reato, ne lo Stato presenta una condizione di conflitto armato o violenza diffusa”. Ma il fatto che non vi sia una legge discriminante non è sufficiente e, pertanto, è essenziale accertare una "adeguata tutela" per i gay ad esempio se colpiti da "persecuzioni" di tipo familiare. Ora la Cassazione ha accolto il suo ricorso intimato allo Stato italiano di concedere lo status di “protezione” all'ivoriano.
Accogliere gli immigrati gay se il loro Paese non li tutela”. La sentenza della Cassazione. Scrive Cristina Gauri il 23 Aprile 2019 su Primato Nazionale. Prima di respingere la richiesta di status di rifugiati agli immigrati che dichiarano la propria omosessualità e di essere a rischio di persecuzione, le autorità competenti dovranno verificare che nei Paesi d’origine non solo non esistano leggi discriminatorie, ma anche controllare che i governi locali li supportino con “adeguata tutela” per i gay, nel caso, ad esempio, che essi siano colpiti da “persecuzioni di tipo familiare”. Lo ha stabilito la Cassazione accogliendo il ricorso di un cittadino gay della Costa d’Avorio, Bakayoko Aboubakar, costretto a emigrare in Italia perché, a sua detta, era minacciato dai parenti. La Commissione territoriale di Crotone, non aveva riconosciuto all’uomo lo status di rifugiato poiché “in Costa d’Avorio al contrario di altri stati africani, l’omosessualità non è considerata un reato, né lo Stato presenta una condizione di conflitto armato o violenza diffusa”. Ma per i giudici della Corte l’assenza di una legge contro l’omosessualità non è condizione sufficiente per la negazione dello status: occorre verificare che via sia un’opportuna “protezione statale per minacce provenienti da soggetti privati”. L’immigrato aveva infatti riferito di essere di religione musulmana,sposato e con due figli, bersaglio continuo “di disprezzo e accuse da parte di sua moglie e di suo padre” che era imam del villaggio, “dopo aver intrattenuto una relazione omosessuale”. Quando il suo partner era stato “ucciso in circostanze non note, a suo dire ad opera di suo padre”, Bakayoko Aboubakar aveva deciso di fuggire verso l’Italia. Per gli “ermellini” della Cassazione “non è conforme a diritto” avere respinto la richiesta di protezione a Bakayoko senza verificare se in Costa D’Avorio esista o meno la tutela dalle persecuzioni parentali nel caso di dichiarata omosessualità. Il caso apre diverse questioni, tra cui: come è possibile verificare l’omosessualità di una persona? Gli immigrati che fanno richiesta dello status a causa del loro orientamento sessuale dovranno essere creduti sulla parola? Chi vigilerà su coloro che inevitabilmente tenteranno di dichiararsi omosessuali per ottenere asilo politico? Quella del coming out non potrebbe diventare dunque l’ennesima storiella che si andrà ad aggiungere alle altre inventate dagli “aspiranti rifugiati”? Cristina Gauri.
La Cassazione: «I migranti gay vanno accolti sempre se sono discriminati nel loro Paese». Scrive martedì 23 aprile Lucio Meo su Il Secolo D'Italia. Gli fu negato lo status di rifugiato politico nonostante la condizione di persecuzione che il migrante viveva nel proprio Paese. Ecco perché la Cassazione ha accolto il suo ricorso e ha ordinato allo Stato italiano di accogliere e concedere lo status di “protezione” a un cittadino ivoriano, Bakayoko Aboubakar S., musulmano, coniugato con due figli, e diventato oggetto “di disprezzo e accuse da parte di sua moglie e di suo padre” che era imam del villaggio, “dopo aver intrattenuto una relazione omosessuale”. L’uomo aveva deciso di fuggire quando il suo partner era stato “ucciso in circostanze non note, a suo dire ad opera di suo padre”, l’imam. Secondo la Cassazione prima di negare lo status di rifugiati ai migranti che dichiarano di essere omosessuali e di rischiare la vita se rimpatriati a causa del loro orientamento sessuale, si deve accertare se nei Paesi d’origine non solo non ci siano leggi discriminatorie ma anche verificare che le autorità del luogo apprestino «adeguata tutela» per i gay, ad esempio se colpiti da «persecuzioni» di tipo familiare. Inizialmente al migrante protagonista di questa vicenda la Commissione territoriale di Crotone, non aveva concesso lo status di rifugiato sottolineando che “in Costa d’Avorio al contrario di altri stati africani, l’omosessualità non è considerata un reato, nè lo Stato presenta una condizione di conflitto armato o violenza diffusa”.
Marcello Veneziani - Pagina autorizzata Facebook 24 aprile 2019: Per la Cassazione un migrante se si professa perseguitato in famiglia, magari perché gay va accolto in Italia. Ma è un incubo o una farsa? Chiunque potrà dirsi perseguitato domestico e noi dovremo accoglierlo. Passaporto diplomatico per i gay e reddito di omocittadinanza.
GUAI A CHI TOCCA I GAY. Simona Berterame per Fanpage l'8 maggio 2019. Gay Center e Arcigay Roma hanno vinto la causa contro Radio Globo. Si tratta dell'epilogo di una turbolenta battaglia a colpi di social network iniziata nel settembre 2018. Durante la trasmissione mattutina "The Morning Show", lo speaker Roberto Marchetti aveva pronunciato questa frase riguardo a due ragazzi gay che si baciano: «Mi fermo a guardare o perché non siamo abituati a guardare o perché semplicemente non è normale e provavo anche un certo disgusto». A seguito di questa dichiarazione le associazioni lgbt avevano immediatamente chiesto agli sponsor di cessare le loro pubblicità su Radio Globo, facendo partire una campagna sui propri social. Radio Globo per questo motivo ha citato in giudizio Gay Center e Arcigay che oggi hanno comunicato attraverso una nota stampa di aver vinto la causa. Tale sentenza sancisce per la prima volta come legittima l’azione delle associazioni gay contro le attività discriminatore di un media, affermando come lecita l'obiezione commerciale, condannando Radio Globo alle spese processuali. “Oggi il Tribunale Civile di Roma ci dà ragione – dichiara Fabrizio Marrazzo, portavoce Gay Center – affermando che la nostra azione è stata legittima e che la radio non prendendo di fatto le distanze dal suo speaker, non può lamentarsi delle nostre azioni. Questa sentenza è molto importante perché per la prima volta stabilisce come legittima l’azione delle associazioni gay contro le attività discriminatore di un media". Dello stesso avviso è Francesco Angeli, Presidente Arcigay Roma che dichiara: "La sentenza evidenzia il contenuto omofobo delle dichiarazioni del conduttore di Radio Globo e la non presa di distanza da parte della radio sull'accaduto. Di conseguenza viene legittimato il diritto di critica da parte dell'associazione Arcigay Roma, legato all'art 21 della Costituzione, di esprimersi liberamente sulle dichiarazioni della radio, richiedendone, come accaduto a settembre, le scuse ufficiali. La sentenza inoltre conferma come legittima l'azione verso gli sponsor, espressa come appello per interrompere il sostegno economico alla Radio, confermando che mai la Radio, dopo le dichiarazioni omofobe del settembre 2018 del conduttore di Radio Globo, ha espresso una posizione di distanza da queste". E Marrazzo coglie l'occasione per accendere i riflettori sulla mancata legge sull'omofobia nel nostro paese: "Purtroppo come si evince dalla sentenza l’assenza di una legge contro l’omofobia non ci da strumenti reali di contrasto alle discriminazioni, per questo sollecitiamo il parlamento ad approvare al più presto una legge contro l’omofobia. Inoltre, ci auguriamo che Radio Globo si scusi con gli utenti lesbiche, gay e trans e non ripeta più affermazioni discriminatore”.
· Tutto il mondo è lesbo.
“IL BINARISMO DI GENERE? NON ESISTE”. DAGONEWS il 2 ottobre 2019. È stata una femminista per tutta la sua carriera ed è costantemente impegnata a difendere i diritti delle donne. Ma ora Helen Mirren ha ammesso di non credere nel binarismo di genere e pensa che ogni persona sia "a metà strada” dall'essere maschio o femmina. «Sono giunta alla conclusione molto tempo fa che non c'è il nero e non c'è il bianco, e siamo tutti da qualche parte nel mezzo di un meraviglioso mix tra maschio e femmina - ha detto Helen - Non esiste il binarismo di genere, il maschio o la femmina. Non ci credo affatto. L'attrice, 74 anni, ha affermato che la maggior parte degli attori e delle attrici ha caratteristiche maschili e femminili e lei pensa di avere un “forte lato maschile”. «Penso di essere stata molto fortunata a fare l'attrice e a muovermi nel mondo della recitazione e del teatro, perché penso che tanti attori abbiano sia caratteristiche da uomo e da donne dentro di loro - ha detto - Molti grandi attori maschili, in realtà sono molto femminili. Molte attrici molto forti hanno un lato maschile molto accentuato». Helen ha aggiunto di essere una di loro e di avere un gran "numero di qualità maschili". «Odio parlare dei miei sentimenti, non voglio mai andare dal dottore e sono un brillante lettore di mappe. Ho molte di quelle che la gente potrebbe definire qualità maschili. Ma di certo sembro una donna».
TUTTO IL MONDO E’ LESBO. Wednesday Martin per “New York Observer” il 6 agosto 2019. Nelle 133 culture analizzate dall’antropologa Meredith Small non ce ne è una senza infedeltà. Possono stupire i nomi delle coppie, ma non la pratica. Da quando le donne sono diventate forza-lavoro, economicamente autonome, il divario con gli uomini, a livello di affari extraconiugali, non esiste quasi più. Soprattutto se parliamo di ambienti ricchi. Mi trovavo a chiacchierare con alcune donne molto ricche e mi hanno chiesto: «Hai mai sentito parlare di “The pussy whisperers”? Le allenatrici che in estate hanno rapporti sessuali con le clienti degli Hamptons?». Le “lesbiche del sabato sera”, le “bi-curiose”, le “Marble-sposate ma lesbiche”, sono tutte categorie emerse di recente e che indicano la flessibilità sessuale delle donne. E’ il loro momento d’oro. Ci sono party dedicati (tipo lo Skirt Club di Londra, Miami e Manhattan) e studi che confermano le preferenze fluide femminili. Ad Hollywood come agli Hamptons (la zona più chic di New York), le donne rincorrono la perfezione fisica, fanno regolarmente esercizi e si affidano alle sciamane del corpo per essere in forma. Altrettanto di consueto ci finiscono a letto, ma non lo considerano un tradimento. Ho incontrato uomini dell’ambiente che mi hanno raccontato di moltissime istruttrici che hanno relazioni con le clienti sposate, e ho incontrato anche molte istruttrici che mi hanno confermato la tendenza. Una mi confessa: «Vengono spesso da me dicendomi che mi pensano in continuazione. Le mie colleghe qui mischiano spesso affari e piacere con clienti etero, a volte usiamo la connessione erotica per motivarle di più». Secondo le statistiche quasi tutte le donne hanno desiderio per altre donne, anche se non tutte passano dalla fantasia alla realtà. E non è una cosa solo occidentale: a Lesotho, in Sudafrica, le donne il cui uomo è lontano per lavoro, hanno una “motsoalle”, un’amica speciale, e in Suriname, le donne “mati” hanno rapporti con maschi e femmine, mentre in Namibia le “Kung”, le adolescenti, hanno quasi tutte le prime esperienze sessuali fra loro. E’ sempre esistito poi negli ambienti esclusivamente femminili, nelle prigioni come nelle scuole. Si è parlato di “lesbianismo di circostanza“, di sessualità dipendente da segregazione, di “effetto harem”, per spiegare che le donne che condividono a lungo uno stesso spazio, sopperiscono facilmente all’assenza di uomini, alimentando il loro lato sessualmente fluido. La dipendenza finanziaria e l’appartenenza ad una cultura conservatrice, rende le donne ostaggio della norma eterosessuale, ma agli Hamptons le donne hanno soldi e potere, socializzano, passano molto tempo insieme, si occupano soprattutto del proprio corpo, guidate da affascinanti trainer, mentre i mariti sono in città a lavorare. Hanno mille opportunità a portata di mano. Sono gay finché i mariti non tornano a casa.
· La violenza di genere e la disparità di trattamento.
Violenza sulle donne, lo strano caso del convegno dove i relatori sono tutti uomini. Pubblicato giovedì, 24 ottobre 2019 da Corriere.it. La donna che nella locandina si tiene la testa tra le mani, probabilmente non lo fa perché ha appena subìto una violenza, ma perché ha visto l’elenco dei relatori. Tutti maschi. Nel convegno intitolato «Dai maltrattamenti all’omicidio. L’analisi della legislazione in materia di violenza di genere» che si svolgerà il 4 novembre presso la Corte d’Appello di Roma nell’«Aula Europa», sono maschi i «dottori» che faranno i saluti: Giovanni Mammone, primo presidente della Corte di Cassazione, e Giovanni Salvi, procuratore generale della Repubblica di Roma. Sono maschi gli 8 relatori: Maurizio Block, procuratore generale militare presso la Corte di Cassazione, Francesco Paolo Tronca, consigliere di Stato, Costantino De Robbio, gip del Tribunale di Roma, Stefano Pizza, sostituto procuratore presso il Tribunale di Roma, Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, Roberto De Vita, presidente dell’Osservatorio IT e sicurezza Eurispes, Fabio Iadeluca, sociologo e criminologo, Michele Scillia, criminologo. Ed è maschio il moderatore: Pierpaolo Rivello, già procuratore generale militare presso la Corte di Cassazione. È bizzarro che sul tema della violenza di genere, dove il genere che la subisce di più è quello femminile, non sia stata prevista almeno la voce di una donna (non diciamo quattro, come prevede la legge Golfo-Mosca per i cda delle aziende quotate in Borsa). Sul perché di questa assenza (che faceva già notare su Twitter la giornalista di SkyTG24 Mariangela Pira), gli organizzatori con noi al telefono hanno replicato che «tutte le donne contattate erano già impegnate il 4 novembre». Da cui si potrebbe concludere che le donne lavorano molto più degli uomini. Ma resta aperta una domanda? Davvero non c’erano altre magistrate, sociologhe, criminologhe da consultare? E poi ci sarebbe qualcosa da ridire anche sui relatori: hanno giudicato normale questo schieramento soltanto maschile? Perché, in realtà, un’alternativa era possibile. Lo scorso fine settimana si è svolto a Trento il Focus-Live, un Festival dedicato alla scienza. Carlo Miniussi, direttore del Centro Mente e Cervello dell’Università di Trento, doveva intervenire sul ruolo del tempo nell’interazione tra percezione e azione. Ma quando si è reso conto che le relatrici erano pochissime ha chiesto di farsi sostituire dalla collega Simona Monaco. E gli organizzatori hanno accolto subito il cambio.
Letture anti-violenza bloccate dal preside. Alunna protesta: sospesa. Pubblicato venerdì, 06 dicembre 2019 da Corriere.it. Il 25 novembre scorso, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, una studentessa di un liceo di Crema — arrabbiata con il preside che aveva negato agli alunni di leggere alcune storie di donne vittime della prepotenza degli uomini, costringendoli a togliere dalla porta di ogni classe i fiocchetti rossi — su Facebook aveva denunciato: «Mi vergogno sempre di più della scuola che frequento». Lo sfogo social le è costato due giorni di sospensione. Ed è scoppiata la polemica. Il primo a sollevarla era stato Matteo Piloni, consigliere regionale del Pd, che dopo aver sentito studenti e genitori, aveva scritto al Provveditore agli studi, Fabio Molinari, chiedendogli di effettuare una verifica e di intervenire. Al fianco della studentessa punita, ora si è schierata la sindaca Stefania Bonaldi. L’atto di accusa della ragazza è contenuto in un post di 25 righe, dai toni duri: «Oggi, 25 novembre, è la giornata contro la violenza sulle donne. Era stata proposta un’attività, nella quale sarebbero state lette delle storie di donne vittime di violenza all’interfono in tutta la scuola e fatto un minuto di silenzio per tutte le donne che sono state addirittura uccise (in Italia circa 140 solo l’anno scorso)». Poi, l’attacco al preside dell’istituto superiore: «Si è rifiutato. Assieme ad una professoressa, si è lamentato dell’iniziativa dei rappresentanti, obbligandoli persino a staccare tutti i fiocchetti attaccati alle porte, come se avessero fatto un atto indicibile e scandaloso. Volevo dire solo una cosa: l’atto indicibile e scandaloso l’avete fatto voi, autorità di questa scuola, che ci dovreste dare l’esempio. Eppure ora ci troviamo noi, ragazzi tra i 14 e i 19 anni, a dare una lezione di vita a voi. Vergognatevi». Il preside finito nella bufera ha spiegato le ragioni del suo veto: «Non è stato presentato alcun progetto, quindi non poteva esserci alcuna autorizzazione. Esistono procedure molto semplici: i ragazzi avrebbero dovuto presentare la richiesta con un docente e non avremmo avuto alcun motivo per vietare la manifestazione. Ci sono delle regole alle quali tutti dobbiamo sottostare». Su Facebook, parla di «disagio profondo», la sindaca Bonaldi. Un disagio che «istintivamente, mi ha spinto ad offrire la vicinanza, di madre e di cittadina, a questa giovane cremasca e alla sua famiglia». Come sindaco, «nelle sedi opportune» Bonaldi avanzerà tre richieste. La prima: «Chiederò cosa dobbiamo attenderci quando chi condanna la prepotenza degli uomini e cerca di ribellarsi, con l’audacia della gioventù e fede nella democrazia, viene fermato e poi punito». La seconda: «Chiederò che tipo di pedagogia c’è dietro a tutto questo. Qualcuno me lo dovrà spiegare, perché anche sforzandomi, non riesco a vederla». Infine, «chiederò che tipo di società stiamo costruendo, se i violenti possono prendere liberamente campo, e ogni tre giorni si consuma un femminicidio».
Y la culpa no era mia, la ribellione cilena è a ritmo di musica. Francesco Redig de Campos il 5 Dicembre 2019 su Il Dubbio. La danza delle donne di Santiago diventa un coro globale. È un ballo ipnotico un tamburo, una base elettronica e pochi semplici passi le ragazze bendate si inginocchiano e intonano un canto contro il femminicidio molto più efficace di mille slogan. L’eterna polemica che caratterizza la vita di noi musicisti vuole che siamo attratti solo dall’elemento tecnico e non da quello emotivo della musica. Personalmente ritengo che la parabola evolutiva del rock si sia chiusa tra la fine degli anni ottanta e i primi novanta, ma che al tempo stesso considero Bob Marley, che certo non era un campione di intonazione, parte dell’olimpo delle cose meravigliose successe nel secolo scorso Lo stesso vale per l’attenzione che anche negli anni più bui ho riservato ai Ramones, tanto da assistere a un loro concerto nel 1989 in cui ci saranno state sì e no duecento persone, oppure ai misconosciuti gruppi che a New York negli anni settanta avevano contribuito a creare quei suoni che oggi, a parte citazioni ultra colte comprese da pochi adepti ( su tutte mi viene in mente “Vinyl”), sono completamente dimenticati e penso a band quali i Bad Brains e le New York Dolls. Questa convinzione non viene neanche scalfita quando racconto che i cori degli alpini, per inciso quelli fino a qualche anno fa in cui non erano presenti le donne ( non me ne vogliate amiche, ma c’è tutto un filone che dura da secoli che privilegia il canto corale dei soli uomini, culminato nell’incontro tra Paolo VI e Strawinsky in cui alla domanda su cosa potesse fare la chiesa per la musica, il sommo compositore russo rispose: «Santità, restituisca i castrati alla musica» ), mi commuovono all’inverosimile. E che lo stesso effetto mi fa il canto gregoriano, da non confondersi con la ben più articolata polifonia rinascimentale, e la melurgia proprio del rito bizantino che sono generalmente dei canti monodici ( una sola linea melodica prima di accompagnamento) con brevi sprazzi di armonizzazioni su intervalli estremamente consonanti che a confronto i Sex Pistols prevedono, nella loro ignoranza, una serie di conoscenze che possono essere assimilabili al confronto di un servo della gleba medievale e una qualsiasi persona in grado di cambiare una lampadina, guidare una macchina o di far funzionare uno smartphone. Nell’universo di internet da giorni sono diventate virali le immagini di un flash mob inventato dalle donne cilene che ha già preso piede in tutto il Sud America diventando un ballo di protesta globale molto più efficace di mille slogan. na schiera di donne che su un tamburo o una base elettronica batte esclusivamente pulsazioni omogenee scandendo un testo con una serie di rivendicazioni che dovrebbero essere patrimonio comune, ma che ancora stentano ad affermarsi. Potentissimo. Innanzitutto l’elemento visivo, le donne specie prima che diventasse un fenomeno di massa con enormi folle che lo recitano, sono tutte bendate. Non ne so bene il motivo, posso solo immaginare che in qualche modo si ricolleghi al tempo di Pinochet in cui era prassi comune bendare i detenuti che senza alcun capo d’accusa venivano rinchiusi a Villa Grimaldi. Di certo è che è un ulteriore elemento che cattura l’attenzione e l’immaginario di chi si trova a guardarlo. La prima volta che l’ho visto non ero in grado di capire il testo, certo la frase « Y la culpa no era mia, ni di dònde estaba, ni como vestia » lasciava intendere a grandi linee l’argomento, ma in sé non credo che abbia avuto un gran ruolo nell’appassionarmi così tanto. Ho sempre pensato che, per giudicare un fenomeno musicale, sia un privilegio non conoscere bene le lingue e quindi non farsi influenzare dal potere evocativo dei testi. Di tutti gli eroi cui mi sono appassionato nella vita, l’elemento testuale è sempre arrivato dopo. Se mi piaceva la musica, poi potevo leggere il testo sulla “mutanda” del vinile, poi sul libretto del cd e poi se era il caso mi sforzavo di tradurre. Ma era l’ elemento di “ciò che non si può dire a parole” che mi risvegliava l’interesse. Però effettivamente, in questa performance c’è veramente poco di creativo tale da catturare l’attenzione di una persona che della musica ha fatto la sua professione. Una pulsazione basica e un gruppo di persone che recitano una filastrocca, ma nonostante ciò sono giorni che non riesco a togliermelo dalla testa. Qual’è l’elemento che mi colpisce e che personalmente me lo fa collocare tra i brani più riusciti degli ultimi anni? Qual è il potere della musica nel dare forza ai vari messaggi che veicola? Se ognuno di noi facesse mente locale su quante poesie è in grado di recitare a memoria e quanti testi di canzoni, nella stragrande maggioranza dei casi il rapporto sarebbe intorno, se non superiore, a sei a uno. Poi c’è anche da notare che secondo i pionieri della musicologia, la musica non nasce per essere ascoltata. Ascoltare la musica è una prerogativa che si sviluppa in due soli posti nel mondo. L’India meridionale e nella Grecia. La tesi più comune vuole che le funzioni della musica siano quelle di accompagnare riti religiosi, il lavoro e la danza. E sicuramente senza l’impatto visivo delle donne che fanno dei semplici passi, si inginocchiano con le mani dietro la testa per quattro volte sulle parole “femminicidio, impunità per l’assassino, sparizione, violenza” e soprattutto il momento in cui ripetono «el violador es tu» indicando davanti ( e mettendoci tutti noi davanti alle nostre responsabilità) e la successiva pausa per tutta la battuta e il primo quarto di quella successiva in cui resta solo la pulsazione che riporta agli elementi archetipici comuni, probabilmente, a tutti gli esseri umani ( il battito cardiaco, l’alternarsi del giorno e della notte e delle stagioni), contribuisce in maniera determinante al successo di questa iniziativa. Bisogna però fare attenzione all’incombente effetto macarena che potrebbe trasformarlo in una sorta di ballo di gruppo sminunendone i contenuti e alla voglia ecumenica di tradurlo. Negli anni settanta “El pueblo unido” fu il simbolo della protesta dei giovani di tutto il mondo e nessuno si preoccupò mai del fatto che non fosse compreso il testo.
Ecco lo scaffale per un femminismo maschile. Libri che parlano di donne ma che gli uomini farebbero molto bene a leggere: dalla Gruber a Murgia e Tagliaferri, da Chimamanda Ngozi Adichie a Le disobbedienti della Rasy. Paolo Di Paolo il 25 novembre 2019 su L'Espresso. Cari uomini, se pensate che il femminismo sia una questione da donne siete fuori strada. Quando si parla di disuguaglianza, di pari e dispari opportunità, di violenza di genere (nel 2017 in Italia si sono contati 123 femminicidi, praticamente uno ogni tre giorni), il maschio-tipo - compreso quello attrezzato culturalmente - suppone di potersi (magari con gentilezza) distrarre. Per fortuna Lilli Gruber, nelle pagine del recente “Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone” (Solferino), lo dice con nettezza: la battaglia non può essere solo nostra. Certo, «nessun uomo sa essere femminista quanto una donna», ma urge presa di coscienza - e conseguente azione - dell’universo maschile e maschilista. Gruber enumera dati «agghiaccianti e deprimenti» (quanti Paesi raggiungeranno la parità di genere entro il 2030? Nessuno), e conclude: «Penso che le risposte che do a lettrici e lettori, quando mi accusano di essere troppo agguerrita, dovrebbero essere ben più drastiche. La parità non è raggiunta e chi dice il contrario è ignorante o in malafede. Molestie sessuali, lavoro gratuito, discriminazioni, violenza per strada, in ufficio, a casa. E diseguaglianze salariali, precarietà professionale, opportunità di carriera negate, maternità negata, salute negata». Il quadro è inoppugnabile. E il pamphlet di Gruber è prezioso anche per come richiama alla responsabilità gli uomini, per come punta il dito sui club maschili e misogini più che mai solidi e attivi nella politica, nella cultura, per come ci mette di fronte a rigurgiti (pesanti) e non solo verbali di paternalismo e machismo. D’altra parte, «chi ha detto che la virilità abbia a che fare con l’inaffidabilità, o con la volgarità, o con le pulsioni incontrollabili?». Vale la pena iscriversi a corsi accelerati di femminismo per uomini, se ne fossero istituiti. E pensare, con Dacia Maraini, che ragionava sul tema nel suo “Corpo felice” (Rizzoli), che si possa educare un figlio a essere femminista. Intanto, fornirlo di biblioteca utile. Qualche titolo? Chiaro e di facile lettura, “Morgana” (Mondadori), già bestseller, in cui Michela Murgia e Chiara Tagliaferri raccontano storie di donne «strane, difficili, non convenzionali e persino stronze», a dimostrazione del fatto che adeguarsi al desiderio del maschio non è (e non è stata) l’unica strada possibile. Ce n’è una alternativa, più impervia, e passano di lì - ribelli e rivoluzionarie - Caterina da Siena e Moana Pozzi, Marina Abramovic e le sorelle Brontë. Sandra Petrignani sceglie proprio le scrittici per il suo affondo nel “Lessico femminile” (Laterza): un insolito libro dei libri, un palinsesto di letture diverse, stratificate nel tempo, che portano in luce una verità speciale. Come narrano, come hanno narrato il mondo le donne? Costrette al silenzio per secoli, hanno guadagnato libertà anche per via di scrittura. «L’umanità che dà la linea al mondo», scrive Petrignani, «è perlopiù di genere maschile. Forse il pensiero delle donne, inseparabile dalla materialità delle cose, dall’urgenza della vita, ha una chance in più». Un immenso, esaltante scaffale radiografato in meno di duecento pagine: da Blixen a Woolf, da Yourcenar a Toni Morrison, da Duras a Jamaica Kincaid, a Annie Ernaux. Di nuovo in libreria con “L’evento”, asciutto romanzo di quasi vent’anni fa recuperato come sempre da L’Orma. L’evento è un aborto. Ernaux è consapevole di come un racconto come questo «provochi irritazione, o repulsione, che sia tacciato di cattivo gusto». Ma se non andasse fino in fondo, contribuirebbe - spiega - «a oscurare la realtà delle donne, schierandomi dalla parte della dominazione maschile del mondo». Così, raccontare diventa una forma di disobbedienza, un tentativo di rottura degli schemi. “Le disobbedienti” che Elisabetta Rasy raduna (e ritrae splendidamente) nel suo volume così intitolato per Mondadori hanno combattuto una lotta corpo a corpo con il proprio tempo, «hanno dovuto superare ostacoli, impossibilità, incomprensioni, condanne. Per questo sono state maestre di disobbedienza, Artemisia Gentileschi come Frida Kahlo». Ma ammirare non basta, c’è un gran lavoro da fare. Sugli uomini, certo. “Diventare uomini. Relazioni maschili senza oppressioni” (Settenove) uno strumento utile. Si può distruggere da dentro il sistema patriarcale? Lorenzo Gasparrini, l’autore, se lo chiede e prova a rispondere: perché probabilmente anti-sessisti non si nasce, ma si può diventare. Ottimo regalo di Natale per padri e figli. Magari in abbinamento all’aureo “Cara Ijeawele” (Einaudi) di Chimamanda Ngozi Adichie. La grande scrittrice nigeriana dà a un’amica quindici consigli per crescere una bambina femminista. «Di’ a Chizalum che le donne, in realtà, non hanno bisogno di essere difese e onorate; hanno solo bisogno di essere trattate alla pari come esseri umani. C’è una sfumatura di paternalismo nell’idea che le donne debbano essere onorate e difese perché sono donne. Mi fa pensare alla cavalleria, e il presupposto della cavalleria è la debolezza femminile».
Inchiesta. «Ho solo ammazzato mia moglie, ora mi rifaccio una vita». Pene leggere. Libertà riacquistata. E ritorno alle violenze. I dati e le storie del femminicidio, un fenomeno in crescita. E ancora drammaticamente sottovalutato. Emanuela Valente il 25 novembre 2019 su L'Espresso.
«Massimo tre giorni e mi deve far uscire, c’ho da fare. Ho solo sparato a mia moglie». Armando Nuccetelli non ha dubbi, non ha fatto niente di grave, niente che meriti una pena più lunga di tre giorni. In fondo ha solo sparato a sua moglie, Assunta Finizio detta Susy, madre di suo figlio, dopo una vita di violenze. E lui c’ha da fare. Cosa hanno da fare gli uomini, dopo che hanno ucciso le donne? Nel caso di Nuccetelli lo sapremo solo tra una quindicina di anni, o forse meno, quando avrà finito di scontare la pena già dimezzata in appello. Ma in molti altri casi sappiamo già com’è la vita normale di lui dopo la morte di lei.
È il 2003. Diego Armando Mancuso ha 30 anni e lavora come muratore a Milano. La sua fidanzata, Monica Ravizza, estetista di 28 anni, è incinta ma non vuole sposarlo. Lui la accoltella e dà fuoco al corpo. Viene condannato in primo grado a 18 anni, poi ridotti a 16 anni e 8 mesi, ma 5 anni dopo è fuori grazie all’indulto. Ora lavora per un’azienda comunale, ha uno stipendio e la sua vita è tornata normale.
Luca Ferrari compie 20 anni il 14 marzo 1996, va con la macchina a prendere la fidanzatina a scuola, a Reggio Emilia. Jessica ha 17 anni, quando esce da scuola sale sull’auto di un altro. Luca “non ci vede più” eppure riesce a colpirla con 43 coltellate. La condanna in primo grado all’ergastolo viene ridotta a 23 anni in appello. È libero dal 2012 (16 anni dopo il delitto). In un’intervista chiede: «Per favore, dimenticatemi: sto cercando di rifarmi una vita».
Anche Alex Maggiolini aveva 20 anni quando, il 2 marzo 1991, violenta e poi strangola la fidanzata, Rossana Jane Wade, studentessa 19enne, e ne getta il corpo nei pressi di un casello ferroviario in disuso a Fiorenzuola, nel piacentino. Condannato a 23 anni in primo grado e a 15 anni e 8 mesi in via definitiva, torna libero dopo 12 anni. In carcere si è laureato, tornato libero si sposa e compra casa a Piacenza, proprio vicino alla casa della mamma di Jane.
Massimiliano Gilardoni è tornato a vivere proprio dove abitava la donna che ha ucciso, a Bellagio, vicino ai genitori di lei. Era sposato e aspettava un figlio, eppure continuava a corteggiarla, ma Anna continuava a respingerlo e lui, il 10 aprile del 2002 la sgozza. Condannato in primo grado a 16 anni, ridotti in appello a 14 anni e 6 mesi, esce dal carcere dopo appena 2 mesi ottenendo i domiciliari in una casa di cura. Tra indulto e sconti di pena è tornato libero dopo 10 anni, ma il padre di Anna è meglio che non lo sappia.
Il padre di Barbara Bellerofonte non può crederci: quel ragazzo che lavora nel chiosco di Montepaone, un piccolo centro in provincia di Catanzaro, è proprio lui, Luigi Campise: il 24enne che due anni prima ha scaricato una raffica di proiettili sulla fidanzatina. La ragazza, appena diciottenne, muore con una pallottola nella testa dopo un mese di atroci sofferenze. Luigi viene condannato a 30 anni di reclusione, ridotti a 16 in appello. Come mai è libero e lavora nel bar al centro del paese? Il padre di Barbara lo chiede al Ministro, che invia gli ispettori e scopre che «è stata erroneamente applicata la buona condotta». Dal canto suo, Campise rilascia interviste in cui si dice pentito e pronto a pagare il suo debito: da quel giorno non è più andato a mangiare una pizza e non si è comprato neanche una maglietta.
Alcuni uomini che hanno ucciso le donne riescono a ricominciare. Spesso in carcere studiano, come il marito di Elena Ceste, Michele Buonincontri, o Carlo Lissi, autore della strage di Motta Visconti, che ne approfittano per laurearsi. Alcuni apprendono una professione, da utilizzare una volta fuori. Ma troppi tornano a commettere reati contro le donne. La recidiva degli uomini violenti è straordinariamente alta, come dimostrano i numeri raccolti dalla banca dati Istat sulla violenza alle donne: su 585 condannati nel 2017 per omicidio volontario consumato, 432 avevano già precedenti penali e, tra coloro che tornano a delinquere, oltre il 50 per cento commette lo stesso reato. Percentuali simili a quelle dell’omicidio volontario tentato. Per quanto riguarda i maltrattamenti in famiglia e sui minori, su 2699 condanne, oltre un terzo riguarda soggetti con precedenti penali. Tra i 357 recidivi, quasi il 50 per cento torna a essere maltrattante. Anche la violenza sessuale presenta una ripetitività: su 1568 condannati, circa la metà aveva precedenti penali alle spalle e, di 157 recidivi, 64 commettono nuovamente lo stesso reato.
Alcune storie hanno avuto maggiore risalto mediatico, come i crimini ripetuti commessi da Angelo Izzo, Luca Delfino, Danilo Restivo. Ma ve ne sono molte altre, meno conosciute ma non meno atroci. Gaetano De Carlo, carrozziere 55enne di Vailate, negli ultimi anni era stato denunciato oltre 7 volte da almeno 4 donne. Ma nessuno aveva inserito quelle denunce nei data base e lui non aveva subito alcun processo. Così, la mattina del 30 giugno 2010, Gaetano si mette in macchina e va prima a Riva Di Chieri, in provincia di Torino, dove ammazza a colpi di pistola Maria Montanaro. Poi si rimette in macchina e raggiunge Rivolta D’Adda, vicino Cremona, dove uccide Sonia Balconi, una giovane mamma che tormentava da anni. Altre due ex di De Carlo che lo avevano denunciato si salvano probabilmente solo perché lui si suicida prima di raggiungerle.
I reati di genere sono tra quelli che maggiormente influiscono sulla vita altrui, eppure solo in pochi casi vengono puniti con il massimo della pena prevista: le condanne per omicidio volontario tentato nella maggior parte dei casi non arrivano a dieci anni, quelle per violenza sessuale si fermano a un anno e pochi mesi, come quelle per maltrattamenti in famiglia o verso i minori. Prima dell’entrata in vigore del codice rosso, molti hanno potuto usufruire anche degli sconti concessi dal rito abbreviato, oltre alla possibilità di dimezzare le pene in appello e ottenere permessi premio, libertà vigilata e sconti di pena.
«Il ridimensionamento della violenza contro le donne è diffuso in tutti i contesti, è un problema culturale che troppo spesso si riscontra anche all’interno delle aule di giustizia, dove non solo i testimoni ma le stesse vittime e purtroppo anche molti giudici tendono a ridimensionare la gravità dell’accaduto», dice il magistrato Paola Di Nicola. «Ben venga il codice rosso, che innalza anche se di poco le pene minime, ma è un segnale necessario: la pena è la rappresentazione della gravità che lo Stato attribuisce a un reato. Se la pena è bassa, vuol dire che quel reato non è molto grave e anche la persona che lo subisce ha poco valore. In Italia non esiste uno studio specifico sui provvedimenti giudiziari nei casi di violenza di genere, ma sarebbe opportuno e necessario per capire la situazione, che è quella di un generico ridimensionamento sia del reato sia della persona che ne è vittima: non solo le sentenze attribuiscono pene lievi, ma fanno anche largo uso di benefici e attenuanti. Questo fa sì che da parte delle donne vi sia un senso di svalutazione e resa, mentre gli uomini violenti possono godere di un senso di impunità. Le vittime non chiedono pene esemplari, ma semplicemente che venga punito il reato». Il ridimensionamento della violenza sembra invece la normale prassi. Capita così che qualcuno trascorra davvero in carcere solo un paio di giorni. È accaduto ad esempio a Renato Di Felice, 53enne contabile che il 24 ottobre del 2003 uccide con due coltellate la moglie 49enne, Maria Concetta Pitasi, ginecologa, davanti alla loro figlia sedicenne. Per lui il Pm aveva chiesto 14 anni, ma il Gup gliene ha dati 6. Poi, tra l’indulto e altre circostanze, ha trascorso in carcere solo pochi giorni e ha dichiarato che uccidere la moglie «è stata una liberazione». Il racconto dei femminicidi è spesso condito da spiegazioni come lo stress, la depressione, il raptus e la follia, l’incapacità di accettare un rifiuto o l’abbandono, la paura di perdere la donna della propria vita o l’altruismo estremo per non vederla più soffrire. Attenuanti che entrano anche nelle sentenze, come la recente “tempesta emotiva” di Michele Castaldo (poi respinta in Cassazione) per l’omicidio di Olga Mattei, o la “gelosia” che nel 2011 è valsa l’assoluzione di Gianfranco Turolo per l’uccisione della moglie.
Danut Daniel Barbo ha comprato il coltello con cui uccide Ofelia giusto il giorno prima, ma l’esclusione della premeditazione gli evita l’ergastolo. Nessuna premeditazione neanche per Marco Manzini, che l’11 febbraio 2009 uccide la moglie Giulia Galiotto nel garage di casa, chiude il corpo in un sacco che getta nel fiume e mette in scena un falso suicidio. Neanche Salvatore Parolisi è stato crudele quando ha ucciso Melania Rea con 35 coltellate.
La concessione di sconti e permessi, la possibilità di uscire dal carcere o la concessione dei domiciliari, sono previsti dal sistema giudiziario, ma talvolta rappresentano un pericolo per la vittima: dov’è il confine tra diritti del colpevole e tutela della vittima?
Paolo Pergher, cuoco 46enne di Trento, nel mese di luglio del 2002 accoltella la moglie Rita Trettel, ottiene i domiciliari e tre mesi dopo la strangola. Oggi è libero e pubblicizza su Internet il suo ristorante albergo Edelweiss.
Aveva già tentato di ammazzarla una volta, la bella Anna Rosa, quando a luglio del 2005 l’aveva accoltellata, davanti al figlio di appena 7 anni, nell’androne della loro casa a Matera. Ma lei si era salvata e lui era stato condannato: 12 anni e 6 mesi, ridotti a 8 anni e 4 mesi con rito abbreviato. Poi gli erano stati concessi i domiciliari: a 300 metri dalla casa di lei, che così può tormentare ogni giorno. L’appello riduce ulteriormente la pena a 6 anni, e con l’indulto del 2009 Paolo Chieco è libero. L’8 dicembre 2010 la uccide. La Corte d’Assise d’appello lo condanna a 30 anni.
Loredana Colucci ha 41 anni e vive ad Albenga. Ha denunciato il marito che ha tentato di ucciderla, e lui è finito in carcere per due mesi prima di ottenere i domiciliari. Da allora ha continuato a minacciarla, e per tre volte lei lo ha denunciato. Ma per tre volte il sostituto procuratore del tribunale d’Imperia, Filippo Maffeo, dice no all’arresto di Mohamed Aziz el Mountassir detto Simone, 52 anni, giardiniere, che il 2 giugno 2015, all’ora di pranzo, massacra a coltellate l’ex moglie davanti alla loro figlia 13enne.
L’aveva violentata quando lei aveva appena 14 anni. Deborah Rizzato era poco più che una bambina, ma lo ha denunciato e mandato in galera. Tre anni dopo, Emiliano Santangelo è di nuovo libero e per 7 lunghissimi i anni la perseguita, la minaccia e la aggredisce. La mattina del 25 novembre 2005 l’aspetta nel parcheggio della fabbrica dove Deborah lavorava come operaia tessile, la investe con la macchina la uccide a coltellate.
L’aveva ridotta in fin di vita con 4 coltellate al collo, ma lei si era salvata e lui era stato condannato a 8 anni di reclusione. 10 mesi dopo era già agli arresti domiciliari. Così Luigi Faccetti, 24 anni, tende un tranello a Emiliana e finisce di ucciderla con un numero di coltellate impossibile da stabilire, forse più di 80. Condannato a 30 anni con rito abbreviato.
Asilan Agaj godeva di ottima reputazione a Cave, il piccolo centro vicino Roma dove abitava con la famiglia e lavorava in una impresa edile. In regola, una vita tranquilla e normale, una moglie e due figli. Fino a quando, il 20 ottobre 2001, sfonda a picconate il cranio della moglie, Enkelejda, 32 anni. Condannato in appello a 14 anni di reclusione, dopo 9 è di nuovo libero, conosce Brunilda e va a vivere con lei a Sutri, vicino Viterbo. L’11 novembre 2014 la uccide a coltellate.
Il 10 settembre 2011, in provincia di Venezia, Franco Manzato, 48 anni, sgozza la seconda moglie, Elena Para, con 14 coltellate. Undici anni prima aveva tentato di uccidere la prima moglie a colpi di forbice. Condannato a 28 anni di reclusione ridotti a 20 in appello. Anche Massimo Ciccarelli era stato denunciato dalla prima moglie e ha strangolato la seconda.
Luigi Alfarano era già stato incriminato pe violenza sessuale e violenza aggravata privata, ma aveva patteggiato. Federica, sua moglie, voleva lasciarlo, ma lui l’ha massacrata di botte e ha ucciso anche il figlio, Andrea, di appena 4 anni. Alla clemenza verso gli uomini violenti, si aggiunge la diffidenza verso le donne che chiedono aiuto. Tre denunce su quattro vengono archiviate, spesso con conseguenze irreparabili.
Deborah Ballesio aveva denunciato l’ex marito Domenico Massari ben 19 volte prima che lui la uccidesse con 6 colpi di pistola (Savona, 13 luglio 2019); Marianna Manduca aveva presentato 12 denunce contro l’ex marito Saverio Nolfo, che l’ha uccisa con 12 coltellate (Catania, 3 ottobre 2007). Monica Da Boit aveva chiesto l’intervento della pattuglia la notte in cui Giampaolo Regazzini l’ha massacrata (Verona, 14 ottobre 2005) ma non era arrivato nessuno. E ancora: Silvia Mantovani, uccisa da Aldo Cagna dopo 6 anni di minacce; Maria Carmela Isgrò, strangolata dall’ex marito Nicola Siracusa; Stefania Cancelliere, massacrata a colpi di mattarello dall’ex marito, il primario oculista Roberto Colombo cui erano state sequestrate le armi dopo la denuncia per minacce. Il capo della polizia Gabrielli, interpellato sulla vicenda di Ester Pasqualoni (l’onocologa di Teramo uccisa da uno stalker dopo 10 anni di denunce) ha dichiarato: «Mica possiamo incarcerare tutti gli stalker».
Maria Novella De Luca per “la Repubblica” il 21 novembre 2019. «Le donne, spesso, non hanno la forza di raccontare. Ma i corpi e le lesioni parlano per loro, rivelano vertigini di orrore quotidiano. Per questo ho deciso di mostrare la violenza domestica come la vediamo noi al pronto soccorso: ossa rotte, nasi spaccati, occhi pesti, mani fratturate, polsi slogati, gambe rotte, coltellate, bruciature, morsi, segni di strangolamento, ferite da torture con pezzi di vetro. O addirittura un pugnale nella schiena. Lo scenario di una guerra nascosta nelle mura di casa che i numeri non riescono a raccontare ». Maria Grazia Vantadori, 59 anni, è una coraggiosa chirurga dell' ospedale San Carlo di Milano che ha deciso di esporre "l' invisibile" delle sue pazienti. Ossia le loro radiografie (anonime) che raccontano le sevizie subite da mariti, ex mariti, compagni, fidanzati. Una mostra estrema e tragica, organizzata per la Giornata contro al violenza sulle donne del 25 novembre, insieme alla Fondazione Pangea, che sarà inaugurata oggi nell'atrio dell' ospedale San Carlo. Qui dove Maria Grazia Vantadori non soltanto fa la chirurga da 26 anni («mi raccomando - dice - chirurga non chirurgo») ma è la referente del Casd, centro ascolto soccorso donna. «In tutti questi anni di prima linea, ho visto centinaia e centinaia di radiografie di donne con lesioni di ogni tipo, anche gravissime. Anche di fronte all'evidenza - dice Vantadori - molte continuavano a negare che gli autori di quelle sevizie fossero i loro mariti e familiari. Per paura, vergogna, timore di perdere i figli. Pur nel rischio di essere uccise». Una negazione della violenza domestica drammatica, che però i corpi martoriati invece rivelano. Fino all' estremo di una donna arrivata al San Carlo con un pugnale conficcato nella schiena. «Sì, quella donna è sopravvissuta, anzi una sopravvissuta. Perché la sfida del nostro centro - dice Vantadori - è non solo soccorrere, ma anche aiutare le pazienti a uscire da quella schiavitù. Chi le accoglie deve saper decodificare i loro silenzi, comprendere quelle le lesioni incompatibili con quanto le donne narrano». Segni di strangolamento sul collo, insomma, sono ben difficili da giustificare con una caduta sulle scale, ma possono essere invece, proprio per la parte del corpo aggredita, dice Vantadori, «la pericolosa anticamera del femminicidio ». Quindi il secondo passaggio, dopo il pronto soccorso, è quello del centro di ascolto dell' ospedale stesso, dove le donne trovano un percorso: verso una casa rifugio, verso una separazione, verso un sostegno psicologico. Una mostra dura, innovativa, ma emblematica, che ha messo insieme l' ospedale San Carlo di Milano, l'associazione Pangea e Reama, un network di mutuo aiuto tra associazioni e soggetti per il contrasto alla violenza sulle donne. Perché è soltanto trovando una rete che ci si può affrancare da prigioni come quelle che raccontano (o tacciono) le donne che arrivano nei pronto soccorso. Spiega Simona Lanzoni, vicepresidente di Pangea: «Con la rete Reama abbiamo voluto creare intorno alle donne un circuito in grado di supportarle, ma anche chiedere la reale applicazione della Convenzione di Instanbul». La violenza sulle donne, ha ricordato Matteo Stocco, direttore dell' azienda socio sanitaria Santi Paolo e Carlo «è una grave violazione dei diritti umani». Ricorda Vantadori: «Ho visto donne dell' alta società massacrate dai loro mariti e immigrate poverissime con le ossa rotte. La violenza domestica non ha censo né razza, colpisce tutte. Molte grazie all' accesso pronto soccorso si sono poi salvate, alcune, purtroppo no. Ed è a loro che penso».
Pacca sul culo e stupri rituali. Augusto Bassi il 22 novembre 2019 su Il Giornale. «Aveva toccato il sedere ad una conoscente, un’amica che frequentava con lui un centro di Musica in città. Lei però non ha gradito e lo ha denunciato. Ha ritenuto quel gesto, quella mano posata in modo irrispettoso sul suo sedere, quell’approccio per lei eccessivo una vera violenza tanto fare nome e cognome di quel coetaneo che, a suo dire, era andato oltre. Ieri la Corte d’Appello ha confermato la condanna di primo grado a un anno e due mesi di reclusione», si legge su l’Adige.it, per il sollucchero di Laura, Cristina, Teodolinda e delle tante femministe implacabili, in perenne campagna militare contro il maschio testosteronico e molestatore. Nel mentre, su una pagina di Lettera Donna che avevo salvato leggo che migliaia di ragazze africane sono vittima di stupro come arma di guerra. Il primo Paese nella black list è il Congo. L’Onu ha denunciato oltre 3mila casi nel 2018. Stupri, schiavitù sessuale, prostituzione, gravidanza e aborto forzati, sterilizzazione forzata «non sono una fatalità», chiarisce giovevolmente l’Onu, «dunque possono e devono essere evitate». Se già la precisazione delle Nazioni Unite andrebbe qualificata e quindi perseguita come crimine contro l’umanità, vi sono orrori ancor più strazianti: «Ciò che è successo qui, dal 2013 al 2016, è un fatto che dovrebbe scioccare il mondo; dovrebbe togliere il fiato a tutti: 44 bambine, dai 2 agli 11 anni, sono state prelevate di notte, condotte nella foresta e poi ripetutamente violentate da uomini armati», raccontava l’Espresso già qualche tempo fa. «Il territorio è pieno di gruppi ribelli e gli autori dell’atrocità risultano essere stati dei miliziani del deputato provinciale Frédéric Batumike, che ora è in carcere con i suoi 74 uomini ed è in attesa di essere processato per violenza sessuale e crimini contro l’umanità. La ragione? Probabilmente una credenza magica. Le indagini fanno supporre che sia stato uno stregone a dire a questi uomini di violentare delle vergini, perché così facendo avrebbero ottenuto protezione dai proiettili in battaglia e trovato delle vene d’oro, là dove fosse stato versato il sangue delle bambine. Inoltre, in molti credono che il rapporto con una donna illibata sia una cura contro l’hiv». Oggi passeggiavo nei pressi del Ponte delle Sirenette del Tettamanzi, fra i sentieri di Parco Sempione, quando un uomo mi si avvicina con fare confidenziale e mi chiede se voglio droga. Gli piace il mio cane, non molto ricambiato. Ci parlo. Mi dice di chiamarsi Serge e di venire dal Congo, ma perde in fretta interesse e si allontana per pedinare due turiste tedesche. Che meraviglioso toboga di storie e destini il diritto di asilo! Quando avremo accolto, fra i tanti spacciatori per bene, anche un po’ di ex miliziani violentatori di vergini, apprendisti stregoni, maniaci della profilassi, femministi militanti del continente africano e offerto loro il permesso di soggiorno per motivi umanitari, faremo spiegare dalle nostre terzomondiste signore al loro boschereccio testosterone che in Trentino-Alto Adige per una pacca sul culo si finisce in galera.
Violenza, dallo Stato meno di un euro per ogni donna maltrattata. Pubblicato martedì, 29 ottobre 2019 su Corriere.it da Fausta Chiesa. L’Istat ha pubblicato la prima indagine: nel 2017 si sono rivolte ai Centri antiviolenza 43.467 donne. La denuncia dell’associazione Di.Re: «Pochi fondi». «Nel 2017 i fondi pubblici per i centri antiviolenza sono stati 12 milioni di euro, che - se divisi per il numero delle donne accolte secondo l’Istat - fa meno di un euro al giorno, 76 centesimi per la precisione». Il calcolo è di Mariangela Zanni, consigliera di «D.i.Re» (Donne in Rete contro la violenza) ed è stato possibile grazie ai dati emersi dalla prima indagine dell’Istat sui 281 Centri antiviolenza (Cav) realizzata in collaborazione con il Dipartimento per le Pari opportunità, il Consiglio nazionale per le ricerche e le Regioni e pubblicata il 28 ottobre. «Una cifra ridicola - prosegue Zanni - che spiega il dato Istat sul massiccio ricorso al volontariato da parte dei centri antiviolenza, nonostante essi siano un tassello imprescindibile del Piano nazionale antiviolenza». Nel 2017 si sono rivolte ai Centri antiviolenza 43.467 donne, ovvero 15,5 ogni 10mila, il 67,2 per cento delle quali ha iniziato un percorso di uscita da una vita di soprusi e maltrattamenti. Ogni Centro ha accolto in media 172 donne (il 25,7% dei Centri ha avuto un’utenza inferiore a 40 donne, il 6,7% superiore a 500) e lavora con un numero medio di 115 donne che hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza. «La variabilità territoriale - scrive l’Istat - è elevatissima: 22,5 per 10mila le donne accolte dai Centri del Nordest, 18,8 per 10mila nel Centro. Tassi di accoglienza più elevati si riscontrano in Emilia Romagna, Sardegna, Friuli Venezia Giulia, Provincia Autonoma di Bolzano, Abruzzo, Toscana e Umbria. Anche per le donne che hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza, il Nord-est presenta tassi più elevati (16,6 contro 10,7 per 10mila donne della media nazionale). La capacità di supportare le donne dipende poi molto dal radicamento sul territorio dei Centri antiviolenza: maggiore sono gli anni di apertura, maggiore è il numero di donne che vi si recano». Per l’Istituto di statistica, l’offerta delle strutture che si occupano di aiutare le vittime di violenza e la loro prole è ancora insufficiente. La legge di ratifica della Convenzione di Istanbul del 2013 individua come obiettivo quello di avere un Cav ogni diecimila abitanti. Al 31 dicembre 2017 sono risultati attivi nel nostro Paese 281 centri antiviolenza, pari a 0,05 centri per 10mila abitanti. «Considerando il dato calcolato sulle vittime che hanno subito violenza fisica o sessuale negli ultimi 5 anni , l’indicatore di copertura dei centri su 10mila vittime è pari a 1, con un minimo nel Lazio (0,2) e un massimo in Valle d’Aosta (2,3)» scrive l’Istat, che definisce «ancora insufficiente l’offerta dei Centri antiviolenza». «Il quadro che emerge dalla rilevazione sui centri antiviolenza pubblicata da Istat e relativa al 2017 - ha commentato Lella Palladino, presidente di D.i.Re - conferma le criticità che la rete da sempre e continuamente mette in evidenza. I centri antiviolenza sono troppo pochi, con interi territori scoperti, personale solo parzialmente retribuito, risorse assolutamente al di sotto del bisogno». Eppure i centri esistenti svolgono un ottimo lavoro, come scrive sempre l’Istat: «Ottima la reperibilità offerta dalle strutture, aperte in media 5,1 giorni a settimana per circa 7 ore al giorno. La quasi totalità ha attivato diverse modalità per esserlo in modo continuativo, dal numero verde alla segreteria telefonica. L’89,7% dei centri assicura ascolto cinque o più giorni a settimana, e solo il 2% non ha adottato soluzioni di continuità h 24, ma comunque aderisce al servizio di chiamate urgenti allo 1522. Molti, inoltre, i servizi offerti in risposta all’esigenza di personalizzazione dei percorsi per superare abusi e sopraffazioni subite».
Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 7 novembre 2019. Da accusatrice ad accusata, da vittima di revenge porn ad autrice di pornovendette. Il caso di Ilaria Di Roberto, una 29enne di Cori, piccolo centro in provincia di Latina, passata negli ultimi due mesi da sconosciuta aspirante scrittrice a simbolo nazionale del cyberbullismo, da ieri si è complicato enormemente. Dopo che la ragazza ha denunciato a più riprese di subire da tempo attacchi pesantissimi tramite internet e soprattutto tramite i social network, con tanto di fotomontaggi in cui viene mostrata in pose oscene, oltre a raggiri da parte di quella che lei definisce una cybersetta, ora è lei accusata di aver fatto tormentare due giovani, inserendo i numeri di telefono di quest' ultimi su un sito porno per omosessuali. Una vicenda per cui ieri mattina la polizia postale di Latina ha perquisito la casa della 29enne, che è stata denunciata e su cui sta compiendo approfondimenti il sostituto procuratore di Latina, Valentina Giammaria. Ilaria Di Roberto occupa da settimane con le sue denunce le pagine dei quotidiani, partecipa a trasmissioni radio e tv, dal salotto Rai de " I fatti vostri" a quello di " Pomeriggio Cinque", fino a " Storie Italiane". Ha denunciato la realizzazione di falsi profili social a sfondo sessuale, che l' hanno fatta diventare vittima di revenge porn, e di essere stata truffata da una cybersetta, che l' avrebbe anche costretta a tatuarsi il loro simbolo e a firmare una cambiale dopo una seduti di ipnosi telefonica. Un inferno. Ha auspicato che dopo la sua denuncia venisse fatta giustizia, specificando di temere per la sua vita. Una vittima ritenuta attendibile dalle stesse istituzioni. Tanto che domani è previsto un intervento della giovane a un seminario sul bullismo e il cyberbullismo organizzato dalla Curia vescovile e dalla Provincia di Latina, a cui interverranno politici ed esperti. Un appuntamento per il quale a Di Roberto sono state affidate le conclusioni come autrice del libro Anima, « tratto dalla sua storia vera, vittima di bullismo, cyberbullismo e cyberstalking». Alla stessa polizia postale sono però arrivate le denunce di due giovani, che dopo aver avuto dei rapporti con Di Roberto si sarebbero trovati il loro nome e il loro numero di telefono su un sito porno, venendo tempestati di telefonate di uomini che chiedevano loro prestazioni. Aperta un' indagine, sarebbe già emerso che al sito pornografico, con sede all' estero, i numeri di quei giovani sarebbero stati dati proprio dalla 29enne tramite il suo telefonino. E ieri mattina per quella che era la vittima per eccellenza del revenge porn sono arrivate perquisizione e denuncia su una pornovendetta ancora tutta da chiarire.
Ragazza di 19 anni denuncia di essere stata stuprata, poi ritratta. Ora è sotto processo. Pubblicato sabato, 19 ottobre 2019 da Corriere.it. Dovrebbe essere all’università la ragazzina britannica che lo scorso luglio, durante una vacanza a Cipro, aveva denunciato di essere stata violentata da una dozzina di ragazzi israeliani in un hotel di Ayia Napa che avevano filmato e diffuso la scena come nel peggiore «revenge porn». Invece la teenager, che ha appena compiuto 19 anni, è in attesa del processo che la vede imputata per falsa denuncia. Sì perché la giovane, dopo essere stata sottoposta a un lungo interrogatorio della polizia, ha ritrattato tutto. E i dodici israeliani tra i 16 e i 18 anni erano tornati in patria accolti come eroi mentre lei è stata arrestata e ha passato quasi due mesi in carcere. Come nella miniserie tv americana Unbelievable, che si basa su una vicenda vera, alla fine sotto accusa ci finisce lei, la presunta vittima che però ora denuncia di essere stata sottoposta a pressioni psicologiche per ritrattare. Sicuramente il caso di violenza sessuale rappresentava un danno economico per Cipro che attrae un milione trecentomila turisti britannici e 230mila israeliani ogni anno. Dopo la denuncia diverse giovani britanniche erano state richiamate in patria dai genitori in ansia per la loro incolumità. Così nei primi giorni di agosto la presunta vittima era stata convocata al posto di polizia e sottoposta a diverse ore di interrogatorio: «Mi dissero che se non avessi firmato la dichiarazione in cui ritrattavo tutto, avrebbero arrestato i miei amici» ha raccontato durante l’udienza in tribunale qualche giorno fa. La ragazza ha anche detto di non aver avuto la possibilità di un avere al suo fianco un avvocato e nemmeno un interprete. Per Michael Polak di Justice Abroad, l’organzzazione internazionale creata per aiutare coloro che cercano di farsi strada attraverso i sistemi giudiziari stranieri, con tutti gli ostacoli che presentano, ci sono diverse anomalie: «La polizia non fatto rilievi nella stanza d’albergo dove è avvenuto il presunto stupro né ha organizzato un riconoscimento dei presunti violentatori. Dai cellulari dei ragazzi israeliani non sono stati scaricati i messaggi e questo è scioccante, perché è una delle prime cose che ci sia aspetta siano fatte. Inoltre non c’è alcun video dell’interrogatorio cui è stata sottoposta la ragazza». «Ogni volta che la ragazza entra in tribunale viene stuprata nuovamente a causa dell’attenzione mediatica che il caso suscita» ha detto Elena Karaoli, della Women Lobby di Cipro. Ad influenzare l’esito della vicenda, secondo Susana Pavlou, direttrice dell’Istituto Mediterraneo per gli studi di genere a Nicosia, devono essere state le forti relazioni diplomatiche tra Israele e Cipro. «I giovani israeliani sono tornati in patria senza neanche una tirata d’orecchie nonostante avessero messo in circolazione i video in cui si vedeva la ragazza avere rapporti sessuali con loro». Il processo riprenderà il primo novembre quando sarà ascoltato uno psicologo britannico che certificherà come la ragazza soffra di un disturbo da trauma. Probabilmente la giovane non tornerà a casa prima di Natale.
Tenta di sgozzare la compagna, 11 anni fa uccise la fidanzata. A salvare la donna l’intervento di alcuni passanti. L’uomo era in permesso di lavoro fuori dal carcere. Il Dubbio il 19 ottobre 2019. Ha tentato di sgozzare la compagna che lo voleva lasciare dopo che aveva scoperto che l’uomo, un tunisino 36enne, era detenuto nel carcere delle Vallette di Torino per aver ucciso nel 2008 a Bergamo con due coltellate una ragazza 21enne, Alessandra M., all’epoca sua fidanzata. L’uomo, che per quell’omicidio era stato condannato a 12 anni, aveva il permesso di assentarsi dal carcere per motivi lavorativi poiché prestava servizio cameriere in un bistrot e doveva rientrare in carcere alle 2. La vittima, una donna torinese di 44 anni che facendo alcune ricerche aveva scoperto i motivi per cui il suo compagno si trovava detenuto, aveva annunciato all’uomo di voler interrompere la relazione. Sabato sera intorno all’una, scesi da un mezzo pubblico poco distante da casa della donna, alla periferia del capoluogo piemontese, i due stavano discutendo quando all’improvviso il 36enne ha aggredito la compagna di schiena e l’ha ripetutamente colpita con una bottiglia di vetro, provocandole gravi ferite al volto, tanto che dovrà essere sottoposta a un intervento di ricostruzione maxillofacciale. A notare l’aggressione alcuni passanti che sono intervenuti chiedendo l’aiuto di una volante che stava transitando nella zona: dopo aver prestato i primi soccorsi alla vittima, gli agenti hanno rintracciato poco distante l’aggressore che, nel tentativo di fuggire, è caduto riportando alcune escoriazioni. Ora è piantonato in ospedale con l’accusa di tentato omicidio. A raccontare l’accaduto ai poliziotti è stata la stessa donna che, nonostante fosse gravemente ferita, ha detto che a colpirla era stato il compagno, aggiungendo che a salvarle la vita è stata la grande sciarpa che indossava, che aveva impedito che venissero colpiti organi vitali. (Fonte: Adnkronos)
Carlotta Rocci per “la Repubblica” il 20 ottobre 2019. Mohamed Safi, 36 anni, aveva già ucciso una donna e per questo era stato condannato a 12 anni di carcere da scontare a Torino. Concetta, 42 anni, però non lo sapeva quando lo ha conosciuto, non aveva mai sentito il nome di Alessandra Mainolfi, amante di Mohamed che all' epoca era sposato, uccisa a Bergamo con due coltellate al petto, il 9 giugno 2008 perché, come lei, aveva deciso di lasciarlo. Lo ha scoperto per caso, trovando su internet il nome e la storia dell' uomo con cui aveva una relazione da metà aprile. «Mi chiedevo perché di giorno non fosse raggiungibile e perché avesse sempre orari strani», ha spiegato alla polizia. Poi ha scoperto che quelli erano gli orari disposti dal carcere per permettere al detenuto di svolgere la sua attività lavorativa fuori dal penitenziario in un bistrò alla periferia di Torino. È allora che ha avuto paura e ha deciso di troncare la relazione ma ieri notte lui ha cercato di ucciderla. Ha provato a sgozzarla con un coccio di bottiglia trovato in strada. «Mi ha salvato la sciarpa o sarei morta», ha detto la donna, ma niente le ha protetto il volto completamente sfigurato dai colpi di Mohamed che l' ha aggredita a due passi da casa, in corso Giulio Cesare. È l' una di notte e lui dovrebbe essere già sulla via di ritorno verso il carcere dove deve rientrare entro le 2 e invece la coppia è sul tram numero 4, il più lungo della città che però non porta al penitenziario. Lui l'aggredisce appena scendono. Una volante del commissariato Barriera di Milano diretto dal vicequestore Alice Rolando arresta l' uomo per tentato omicidio pochi minuti dopo, con i vestiti completamente imbrattati di sangue, mentre cerca di scappare. Concetta viene operata, il vetro le ha reciso il nervo facciale: «Una brutta lesione dal punto di vista estetico e funzionale», spiega Giorgio Merlino, primario del reparto di chirurgia estetica del Maria Vittoria che le ha ricostruito il nervo. In ospedale ci sono i parenti di Concetta, i figli e i genitori. «Non sapevamo nemmeno che quell' uomo esistesse, è un incubo, un fulmine a ciel sereno», dice il padre. C'è tanto dolore ma soprattutto rabbia verso chi ha provato a togliere a Concetta la possibilità di sorridere e verso una giustizia che «fa schifo e non ci protegge». Mohamed godeva della possibilità di lavorare dentro al carcere dal 2015,e dal 2017, su proposta del direttore con il benestare del magistrato di sorveglianza, era stato assegnato al lavoro esterno come cameriere. Aveva un' ora e mezza di tempo per raggiungere il bistrò e altrettanto tempo per tornare in cella con i mezzi pubblici. Da un anno e mezzo si muoveva in autonomia senza che nessuno lo accompagnasse. Tutte le carte che riguardano il detenuto sono state acquisite dalla procura e il guardasigilli Antonio Bonafede ha annunciato l' invio degli ispettori in carcere per controllare se l' uomo avesse tutti i requisiti per godere della possibilità di lavorare, un percorso che serve per il reinserimento sociale dei detenuti in vista della fine della pena e che normalmente - spiega Marco Ferrero, responsabile di Pausa Caffé, la cooperativa che aveva accolto Mohamed - abbattono il rischio di recidiva dei reati». I datori di lavoro del killer di Bergamo, sconvolti dall' accaduto, ieri non hanno aperto il ristorante. L'aggressione a Concetta solleva, intanto, le polemiche dei sindacati di polizia e penitenziaria che denunciano un «eccessivo permessivismo» nella concessione di margini di libertà ai detenuti. Tre donne, la sindaca di Torino Chiara Appendino, la vicepresidente del Senato Anna Rossomando e la cantante Fiorella Mannoia tornano a parlare di emergenza in fatto di violenza sulle donne.
«Prima ti ammazzo, e poi mi ammazzo io»: aveva ucciso la ex, tenta di sgozzare la compagna. Pubblicato sabato, 19 ottobre 2019 da Corriere.it. Torino - «Prima ti ammazzo, e poi mi ammazzo io». Dopo aver afferrato una bottiglia di vetro e aver sfigurato il volto dell’ex amante, Mohamed Safi ha tentato di sgozzarla. Non ci è riuscito soltanto perché lei, riversa a terra in una pozza di sangue, aveva una sciarpa spessa. «Non riusciva a togliermela, solo per questo ho evitato il peggio», ha detto la donna, tramortita, alla polizia, intervenuta a salvarla in corso Giulio Cesare, a Torino, verso la mezzanotte di venerdì. Quel che Concetta, torinese di 43 anni, aveva scoperto poco prima dell’ultima — e quasi fatale — lite con Safi, è che quell’uomo, bello e sempre sorridente, non era soltanto un tunisino di 36 anni che faceva il cameriere, ma un assassino. Una persona violenta, che nel 2008 a Bergamo aveva ucciso una fanciulla di 21 anni di cui s’era invaghito, Alessandra Mainolfi. Safi era stato condannato a 12 anni. In virtù della «buona condotta», nel 2015 aveva iniziato a lavorare nel panificio del carcere di Alessandria. Nel maggio del 2017, il grande salto: un lavoro vero, fuori dalla galera, per la cooperativa Pausa café. Al Palagiustizia Safi lo conoscevano tutti, fino al giugno scorso. Faceva i caffè a magistrati, giudici, avvocati. Dopo era stato trasferito in un bar di Grugliasco. «L’ho conosciuto ad aprile, su una chat», ha raccontato Concetta agli agenti del commissariato Barriera di Milano. «Non mi aveva detto di essere un detenuto, e nemmeno di aver ammazzato una donna, sono stata io a scoprirlo», ha rivelato la donna, separata e con due figli. «Mi ero insospettita — ha detto la 43enne — perché non poteva mai fermarsi a dormire con me, così navigando su Internet, ho scoperto il suo passato». Quando Concetta annuncia a Safi che la loro relazione è finita, lui non si rassegna. Venerdì sera, pare dopo il lavoro, Safi vede Concetta in un bar di via Sansovino. Dovrebbe essere il famoso «ultimo saluto». E finisce in tragedia, come ogni volta, perché Safi non lascia andare Concetta, ma la segue sul tram. «Sono scesa in via Lauro Rossi e lui era dietro di me, in via Verres mi ha aggredita e mi sono ritrovata faccia a terra», è il ricordo di lei. Concetta urla, attira i passanti e la volante che in quel momento passa di lì. L’arresto del tunisino è immediato. La vittima viene operata dall’equipe di chirurgia plastica all’ospedale Maria Vittoria: ha il nervo facciale distrutto. Anche Safi resta ferito, nel colpire la donna, e sbatte la testa cadendo a terra. Verrà piantonato al repartino delle Molinette. «Era un lavoratore modello, un ottimo barista», afferma Marco Ferrero, presidente della cooperativa di recupero sociale Pausa café. Safi ora risponde di tentato omicidio aggravato. Era in carcere da 11 anni: gli mancava un anno per finire di scontare la pena per l’omicidio di Alessandra Mainolfi. La sorella Valentina vive ancora a Pradalunga, vicino a Bergamo. Ieri ha preferito non esprimersi. «Soffre ancora», spiega una parente. Il tunisino adesso non rischia solo la condanna per avere aggredito Concetta. Ieri il Guardasigilli, Alfonso Bonafede, ha sollecitato l’ispettorato del ministero della Giustizia a compiere accertamenti riguardo all’utilizzo dei permessi. Non è chiaro infatti come Safi potesse incontrare la sua amante, visto che, nell’orario in cui era fuori dal carcere — tra le 15 e le 2 — era tenuto a lavorare.
Da Ansa il 9 settembre 2019. Ferma un'auto di notte per strada chiedendo aiuto per la moglie, ma è una scusa per fermare una giovane donna e violentarla per ore. La polizia dopo 12 ore lo ha identificato e fermato. E' la ricostruzione della brutale aggressione avvenuta la scorsa settimana nel Ragusano per cui è indagato un 26enne di Vittoria. Ad accusarlo la testimonianza della vittima che lo riconosce in foto e immagini di telecamere di videosorveglianza. L'uomo ha minacciato la donna di morte: "so tutto di te, se parli ammazzo te e la tua famiglia". Il 26enne nel 2018 era stato condannato per sequestro di persona, violenza sessuale aggravata e rapina. L'aggressione è avvenuta la notte del 2 settembre scorso. La vittima stava rientrando a casa quando per strada ha visto un uomo che chiedeva aiuto. Lui si è avvicinato e le ha detto che la moglie si era sentita male e che aveva bisogno di chiamare i soccorsi. In realtà l'uomo con la moglie, ricostruirà dopo la polizia, aveva litigato. E svela subito le sue intenzioni minacciando di uccidere la giovane donna con una grossa pietra. Lui si è messo alla guida dell'auto e ha portato la sua vittima vicino al cimitero di un paese del Ragusano dove le ha rubato la borsa e letto ad alta voce le generalità della donna, minacciando di morte lei e la sua famiglia. Subito dopo ha abusato di lei in auto. Poi l'ha portata su una spiaggia del Ragusano dove si è lamentato della moglie e le ha raccontato della lite che aveva avuto con lei poco prima. Dopo l'ha riportata nuovamente vicino al cimitero e ha abusato nuovamente di lei. Infine si è fatto lasciare vicino casa, ma prima di scendere dall'auto è tornato a minacciare la donna di morte. La giovane donna ha cercato aiuto cercando i suoi amici, che avevano però i cellulari spenti. Come una sua cara amica alla quale manda un messaggio vocale ricostruendo le tre ore di violenza subìta. Infine si è recata in ospedale, dove i medici hanno chiamato la polizia che ha avviato le indagini, che hanno portato al fermo eseguito dalla squadra mobile. Il Gip di Ragusa ha convalidato il fermo per sequestro di persona, violenza sessuale aggravata e rapina ed emesso nei suoi confronti un'ordinanza di custodia cautelare in carcere. Durante l'interrogatorio di garanzia l'indagato si è avvalso della facoltà di non rispondere. L'uomo è stato individuato da personale della squadra mobile della Questura di Ragusa anche dalla visione di immagini di telecamere di sicurezza. Ad indicarlo la vittima tra le foto che le ha mostrato la polizia perché nel 2018 era stato condannato per sequestro di persona, violenza sessuale aggravata e rapina.
«Mi aiuti, mia moglie sta male». Ferma una ragazza e la violenta per ore. Pubblicato lunedì, 09 settembre 2019 da Corriere.it. Ferma un’auto di notte per strada chiedendo aiuto per la moglie, ma è una scusa per fermare una giovane donna e violentarla per ore. La polizia dopo 12 ore lo ha identificato e fermato. È la ricostruzione della brutale aggressione avvenuta la scorsa settimana nel Ragusano per cui è indagato un 26enne di Vittoria. Ad accusarlo la testimonianza della vittima che lo riconosce in foto e immagini di telecamere di videosorveglianza. L’uomo ha minacciato la donna di morte: «So tutto di te, se parli ammazzo te e la tua famiglia». Il 26enne nel 2018 era stato condannato per sequestro di persona, violenza sessuale aggravata e rapina. L’aggressione è avvenuta la notte del 2 settembre scorso. La vittima stava rientrando a casa quando per strada ha visto un uomo che chiedeva aiuto. Lui si è avvicinato e le ha detto che la moglie si era sentita male e che aveva bisogno di chiamare i soccorsi. In realtà l’uomo con la moglie, ricostruirà dopo la polizia, aveva litigato. E svela subito le sue intenzioni minacciando di uccidere la giovane donna con una grossa pietra. Lui si è messo alla guida dell’auto e ha portato la sua vittima vicino al cimitero di un paese del Ragusano dove le ha rubato la borsa e letto ad alta voce le generalità della donna, minacciando di morte lei e la sua famiglia. Subito dopo ha abusato di lei in auto. Poi l’ha portata su una spiaggia del Ragusano dove si è lamentato della moglie e le ha raccontato della lite che aveva avuto con lei poco prima. Dopo l’ha riportata nuovamente vicino al cimitero e ha abusato nuovamente di lei. Infine si è fatto lasciare vicino casa, ma prima di scendere dall’auto è tornato a minacciare la donna di morte. La giovane donna ha cercato aiuto cercando i suoi amici, che hanno però i cellulari spenti. Come una sua cara amica alla quale manda un messaggio vocale ricostruendo le tre ore di violenza subita. Infine si è recata in ospedale, dove i medici hanno chiamato la polizia che ha avviato le indagini, che hanno portato al fermo eseguito dalla squadra mobile. Il Gip di Ragusa ha convalidato il fermo per sequestro di persona, violenza sessuale aggravata e rapina ed emesso nei suoi confronti un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Durante l’interrogatorio di garanzia l’indagato si è avvalso della facoltà di non rispondere. L’uomo è stato individuato da personale della squadra mobile della Questura di Ragusa anche dalla visione di immagini di telecamere di sicurezza. Ad indicarlo la vittima tra le foto che le ha mostrato la polizia perché nel 2018 era stato condannato per sequestro di persona, violenza sessuale aggravata e rapina.
Dalla pagina Instagram di Carmelo Abbate il 9 settembre 2019: Lui è Sergio. Ha 26 anni. Vive a Vittoria, in provincia di Ragusa. Ha una moglie e 2 figli. Lui è uno che prende tutto come viene, perché ha scoperto che programmare questa vita non conviene. È il suo manifesto. Sergio cerca una prostituta tra gli annunci di Bakeka. È il 2018. Le dà appuntamento a Ragusa. La carica sullo scooter e la porta a Vittoria. Si ferma in una zona isolata. La minaccia, le ruba i soldi e la violenta. Lei riesce a fuggire. Va dalla polizia e lo denuncia. Sergio viene arrestato e processato per sequestro di persona, rapina e violenza sessuale. Ha precedenti per furti in abitazioni e spaccio. È il maggio del 2018. Viene condannato a 2 anni e mezzo di carcere. Fa 4 giorni di galera. Giorni. Gli concedono gli arresti domiciliari. Ci rimane fino al febbraio del 2019, quando i giudici gli aprono le porte di casa. Sergio è libero di andare in giro a prendere la vita come viene, con il solo obbligo di dimora. È il 2 settembre. Lei è una giovane donna di Vittoria. Sta rientrando a casa dalla sua festa di compleanno. È sola in auto, dietro ha i regali e un pezzo di torta per i genitori. Per strada c’è un uomo. Chiede aiuto. Dice che la moglie ha avuto un malore. Ha bisogno di chiamare i soccorsi. La donna prende il telefono. Lui glielo strappa dalle mani. Infila il braccio nel finestrino e apre lo sportello. La minaccia con una pietra. La ucciderà se non fa quello che vuole. Lei è terrorizzata. Obbedisce. Lui sale. Guida fino al cimitero di Vittoria. Le ruba 250 euro. Legge la sua carta d’identità. Ora sa tutto su di lei. Minaccia la sua famiglia. La stupra. Una, due volte. Rimette in moto. Guida fino a Marina di Ragusa. La fa scendere in spiaggia. Si lamenta della moglie. Poi la riporta a Vittoria. La violenta di nuovo. La fa guidare fino a una piazzetta. Le dice che la ucciderà se non tiene la bocca chiusa. Se ne va, ripreso da una telecamera. Lei chiama i genitori. La portano in ospedale. Chiamano la polizia. Le mostrano delle foto. Sergio Palumbo viene arrestato. La polizia di Ragusa non esclude che abbia commesso altre violenze, e invita eventuali vittime a denunciare.
Codice rosso, ingorgo negli uffici. Appello di 10 magistrati. Pubblicato mercoledì, 02 ottobre 2019 su Corriere.it da Luigi Ferrarella. Boom di denunce. I pm di Milano scrivono al procuratore Greco: «Gravi disagi». Aumentano gli arretrati. In nove mesi +41% di pendenze. Il «codice rosso», nome-slogan della legge che dal 9 agosto impone una trattazione prioritaria dei casi di violenza di genere, stressa i ranghi già in affanno della Procura e manda in fibrillazione organizzativa (sui disequilibri nei carichi di lavoro tra vari pool) il V dipartimento titolare della materia. Dove tutti e dieci i pm scrivono al procuratore Francesco Greco (e per conoscenza al loro procuratore aggiunto Letizia Mannella) una lettera dai toni inconsueti, «…considerato che già il 23 luglio le veniva rappresentata dal procuratore aggiunto e da tutti i pm la situazione di grave disagio», e «considerato che tali disfunzioni erano già state rilevate e a Lei rappresentate anche nel corso di precedenti riunioni». Perciò i 10 pm, mettendo le mani avanti rispetto al +41% di pendenze in 9 mesi (1.100 fascicoli in più di arretrato), allegano le statistiche sugli 8 pool. Esse mostrano ad esempio che in agosto il V ha «incamerato il doppio dei fascicoli del IV» (truffe, reati informatici e tutela dei consumatori) «e il triplo di quelli del VII» (furti, rapine, estorsioni, omicidi); per non parlare dei numeri dieci volte più smilzi del III pool «Affari internazionali» (unico in Italia). E sulla scorta di questi numeri i pm fanno 8 richieste: dall’aumento dell’organico all’esonero da taluni fascicoli, fino allo spostamento di parte dei casi di «codice rosso» sui pm di turno, o all’assegnazione a pioggia a tutti i pm del 10% dei maltrattamenti e stalking. In una riunione successiva alla lettera il procuratore Greco non ne ha gradito i toni, ha invitato i pm a non assumere mentalità impiegatizie in reciproci rimproveri statistici, ha affermato che i numeri non sarebbero del tutto esatti, e comunque ha difeso la propria scelta organizzativa di investire molto nella materia economico-finanziaria da sempre frontiera dell’ufficio milanese, da due anni affidata (con taglio più transnazionale) a 6 pm dell’aggiunto Fabio De Pasquale. E questo anche a dispetto dei numeri molto più bassi di fascicoli di corruzione internazionale o riciclaggio, pur al netto delle richieste di collaborazione dall’estero (non contenute nei numeri della lettera). Del resto è sempre arduo comparare lavori che assorbono molte energie e tempo in maniera differente: nel V pool spesso con l’urgenza di dover chiedere arresti per proteggere le donne in pericolo, nel III pool spesso con la difficoltà di coltivare i rapporti «diplomatici» con autorità straniere senza le cui rogatorie si è ciechi. Se ne riparlerà nell’assemblea generale della Procura, annunciata da Greco. Intanto un temporaneo punto di incontro sarà probabilmente un provvedimento con il quale il procuratore disporrà che per 6 mesi i pm del V pool siano esonerati dall’assegnazione dei procedimenti ordinari.
Tutti i limiti del "codice Rosso". La recente normativa contro le violenze in famiglia ha grosse carenze come dimostrano i recenti fatti di cronaca. Daniela Missaglia il 6 settembre 2019 su Panorama. Francesco Greco, capo della Procura di Milano, parlando di un recente caso culminato con l’omicidio di una donna già vittima di maltrattamenti da parte del marito, ha amaramente chiosato: “Nessuno vuole contestare il codice rosso, dico che sta diventando un problema a livello pratico, il problema è come gestirlo. Da quando è entrato in vigore il codice rosso, ci sono 30 allarmi al giorno, pari al numero di casi che vengono immediatamente segnalati in Procura dalle forze dell'ordine, e questo ci impedisce di concentrarci sui casi più gravi". A far da sfondo a questo amaro sfogo la triste fine di Adriana Signorelli, uccisa con cinque coltellate nella notte a cavallo fra il 31 agosto ed il 1° settembre dal marito, Aurelio Galluccio, già protagonista di plurime minacce ed atti molto violenti nei suoi confronti, terrore non solo della donna ma anche di tutti i vicini della stessa, avendo tentato di dar fuoco al palazzo. Il paradosso è che la donna aveva recentemente denunciato un'ennesima aggressione da parte dell'uomo, attivando quindi il "Codice Rosso", procedura prevista dalla nuova legge a tutela delle vittime di maltrattamenti in famiglia, stalking e violenze sessuali. Adriana Signorelli era stata anche sentita dalla Polizia Giudiziaria che - informando prontamente la Procura ed in attesa di provvedimenti - le aveva consigliato prudenzialmente di cambiare casa. Come se i problemi si potessero risolvere dalla "coda" e non all’origine. La riflessione che s’impone abbraccia due temi. Da un lato quello dell’impotenza o quanto meno dei limiti degli strumenti per prevenire una vera e propria ecatombe, le violenze in famiglia, tanto che un omicidio su due, in Italia, viene commesso in tale ambito. Dall’altro quello dell’impianto normativo, sempre più sovrabbondante che, come ha commentato il Procuratore capo, Francesco Greco, rischia di rendere più complicata la concreta tutela delle vittime. I due temi si intrecciano e si sovrappongono con il risultato che i crimini familiari aumentano, anziché regredire ed è uno stillicidio quotidiano. Ben vengano, dunque, leggi come il “Codice Rosso” per procedure sempre più snelle, punizioni severe, attivazioni immediate della Procura, ma il rischio è di innestare un motore da Formula Uno su un’utilitaria, credendo possa così vincere il Gran Premio di Monza. E’ un dato di fatto che le nostre Forze dell’Ordine, di certo competenti e preparate, così come i Magistrati, siano in numero limitato ed oberati di lavoro cosicchè, giocoforza, risulta oggi impossibile selezionare i casi davvero urgenti. Al riguardo, peraltro, mi domando da sempre perché anziché allontanare la vittima dall’abitazione, magari con i figli al seguito, non si prelevi al volo il violento mettendolo, lui si, in comunità con un serio e rigido programma di supporto psicologico. Si potrebbe obiettare che nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario. Giusto, ma allora si stabilisca che, in caso di diniego al percorso psicologico di recupero, l’aggressore venga trattenuto nelle patrie galere o in comunità protette, per il doppio della pena, facendo lavori di pubblica utilità. Fantascienza? No, non credo. Sarebbe molto più semplice ed economico invertire il criterio dell’allontanamento. In questo modo, tra l’altro, si prenderebbero due piccioni con una fava: l’attuale meravigliosa costellazione di ONLUS e cooperative sociali (invito tutti i lettori ad andare a vedere le infinite ragnatele societarie delle comunità e relativi bilanci) che ricevono soldi e appannaggi pubblici milionari, potrebbero essere impiegate a tale scopo. Con buona pace della Commissione Bilancio che benedirebbe una legge che inverta la rotta degli allontanamenti, con un considerevole risparmio di tutti noi contribuenti. Violenti trasformati in lavoratori modello con attività non retribuita a favore della collettività, per un minimo di 8 ore ogni giorno, e rieducati all’interno di strutture protette, fatte apposta per loro. Perché su un punto non concordo con l’autorevole pensiero del dott. Francesco Greco: il femminicidio non nasce da una “follia umana” ma è un fenomeno che cova a lungo in una mente deviata, accecata dalla rabbia e dalla possessività. Paolo Crepet parla di feudalismo affettivo di uomini che pensano alla moglie come “roba mia” e dunque ne possono fare quello che vogliono. Uomini che prima di compiere l’atto finale non possono non aver lanciato dei segnali. Ed è dunque su quei segnali che dobbiamo agire in prevenzione. Nel modo più adeguato e senza cadere nella trappola di leggi dal nome di una serie Netflix, di vago sapore propagandistico, ma di nessun impatto pratico se non quello di intasare anziché agevolare la soluzione dei casi gravi.
Violenza domestica: troppe leggi e male applicate. La storia di Amina è uno spaccato dell'assurdità della Giustizia italiana tra un numero assurdo di leggi in contrasto tra loro. Daniela Missaglia il 27 luglio 2019 su Panorama. Aggiungere leggi su leggi serve?
Fu Dio, secondo la dottrina, a stabilire le prime rudimentali regole imponendole nel giardino dell’Eden ad Adamo ed Eva che, fatalmente, le violarono. Oggi ogni Stato sovrano è retto da reticolati di norme più o meno complesse tant’è che Abramo Lincoln disse: “tre cose formano una nazione: la sua terra, il suo popolo, e le sue leggi”. Eppure la legge, se disapplicata, non serve a nulla, diventa un vuoto simulacro scritto sui tomi. Sono dunque convinta che solo il preciso raccordo e coordinamento fra gli organi ed i poteri dello Stato preposti a ridisegnarle, affinarle, applicarle, eseguirle, possa rendere migliore una nazione e la vita concreta dei cittadini.
Ma è proprio qui il punto dolente. Da un lato la magistratura esercita il proprio ruolo con discrezionalità eccessiva, dall’altro il potere legislativo prolifera norme spesso incoerenti e senza raccordo con le precedenti, dall’altro, ancora, le Forze dell’Ordine vivono la difficoltà di veder frustrati i propri sforzi e non trovano adeguato supporto né dal potere giudiziario né da quello esecutivo. Esempio illuminante è ciò che succede con la violenza domestica, ambito in cui norme vecchie e nuove stanno facendo da cerchio intorno ad un fenomeno sociale grave ed ingravescente, con conseguente rischio di fallire l’obiettivo di arginarlo. La difficoltà potrebbe essere superata rovesciando la prassi di confinare in comunità donne e bambini vittime di violenza domestica. Ragionando al contrario non sarebbe più giusto rinchiudere il violento in apposite comunità, magari impiegandolo in lavori socialmente utili e lasciare nelle loro case le vittime? Perché costringere chi ha già subito violenza a cambiare le proprie abitudini di vita andando in comunità, sottostando ad altre non meno terribili vicissitudini fatte di colloqui, relazioni dei servizi sociali e tribunali per i minorenni che inevitabilmente verrebbero coinvolti? Anche a livello economico, mi sembra proprio che il ragionamento al contrario non potrebbe che funzionare.
Amina, per esempio, è l’ultima donna che ho aiutato in questo modo. Sposata con un connazionale violento e padrone che picchiava lei ed i figli ad ogni piè sospinto: bastava una camicia bianca fra i colorati, una cena non gradita, una telefonata che dava adito a pretestuose scenate di gelosia. Per anni Amina ha conservato per sé, sul viso e sul corpo, i segni di questa barbarie, vuoi per paura, vuoi per una cultura d’origine remissiva, vuoi per sfiducia, anche perché, la prima ed unica volta che si era recata alla vicina stazione di Polizia, il caso era stato gestito come un normale dissidio fra coniugi e Amina aveva percepito un chiaro ridimensionamento dell’accaduto. Un giorno però è il figlio più piccolo, vedendo la madre frustata a sangue e strangolata dal padre, a chiamare le Forze dell’Ordine che le consigliano di recarsi al Pronto Soccorso. I sanitari, ormai preparati a questa piaga, la mettono in contatto con un Centro Antiviolenza che si fa parte diligente di informare la magistratura ed i Servizi Sociali territoriali i quali, come di norma, la mettono in lista d’attesa, con i figli, per entrare in una comunità protetta, sradicandola dall’ambiente domestico. Il tutto mentre il Pubblico Ministero svolge le indagini ma, in assenza di flagranza, non può emettere provvedimenti cautelari immediati nei confronti dell’orco. Per strano possa sembrare, è bastato presentare un ordine di protezione alla sezione specializzata di famiglia del Tribunale di Milano e il Giudice, ha disposto l’allontanamento coatto, attraverso le Forze dell’Ordine, del marito violento e l’intimazione al medesimo di non avvicinamento.
Morale? Le leggi servono solo se applicate in modo coordinato ed intelligente, altrimenti si rivelano solo "spot" controproducenti che attivano iter inutili e farraginosi. Perché Amina ed i suoi figli avrebbero dovuto riparare in una comunità perdendo l’habitat di vita in favore di chi, con le sue violenze, l’aveva messa in tale condizione? A che serve l’attivazione disordinata di Servizi Sociali, PM, Tribunale per i Minorenni se ciò che offrono a donne come Amina è una tutela palliativa che, nel solco di tempi lunghi della giustizia, lascia un potenziale carnefice nella propria casa? A che serve, oggi, la permanenza stessa dei Tribunali per i Minorenni sotto-organico, in un contesto che ha evidenziato la cattiva gestione della giustizia minorile attraverso giudici onorari, servizi sociali, sindaci? Certi errori, per essere sicuri di non caderci più, bisogna estirparli alla radice attraverso una radicale riforma del diritto di famiglia, non tanto dal punto di vista normativo - le leggi ci sono - ma dell’apparato atto a definire le crisi: sezioni specializzate, iper-specializzate, con magistrati ad hoc appositamente formati e competenti, in ogni Tribunale, abolizione dei giudici minorili e coordinamento molto più stretto con le i giudici penali, le Forze dell’Ordine, i centri anti-violenza, i presidi ospedalieri, liste di avvocati d’ufficio iscritti in un apposito albo con competenze peculiari di diritto di famiglia. E possibilmente i violenti, quelli sì, nelle comunità: c’è così tanto bisogno di manovalanza. Loro devono rimediare, riparare, impegnarsi, non solo psicologicamente, ma facendo fatica fisica e lavori pesanti, che ormai non vuole fare più nessuno, che li ridimensionino nel loro potente ego che nasconde solo fragilità e meschinità. Così si salva Amina e tutte coloro che vivono e vivranno la sua situazione, con buona pace della Commissione bilancio che anziché stanziare ulteriori fondi per supportare le nuove leggi anti violenza ne trarrebbe solo beneficio.
“ADESSO VAI A CASA E STAI ZITTA, TANTO NON TI CREDERÀ NESSUNO”. Valentina Errante e Maria Letizia Riganelli per “il Messaggero” il 30 aprile 2019. Una manciata di minuti in più e quei video sarebbero spariti dalla memoria dei telefoni. Stavano per cancellare le tracce dello scempio e della brutale violenza, quando, all' alba del 12 aprile, gli investigatori si sono presentati da Francesco Chiricozzi e Riccardo Licci. La mobile e la Digos di Viterbo, guidate da Fabio Zampaglione e Fabrizio Moschino, hanno bussato alla porta di casa dei due esponenti di Casapound alla ricerca di prove che li inchiodassero. E in pochi minuti si sono ritrovati a guardare le immagini dell' orrore: uno stupro durato almeno tre ore. I due protagonisti si alternavano, riprendendosi a vicenda. Licci, quelle immagini, le aveva già rimosse, ma sul telefonino del consigliere comunale di Vallerano, il piccolo comune del viterbese dove Chiricozzi era stato eletto con Casapound, i file erano ancora presenti. E adesso sono quei video a inchiodare i due indagati, confermando la denunce della vittima. Entrambi devono rispondere di violenza di gruppo, aggravata dalle condizioni di inferiorità della vittima, e lesioni aggravate. Non hanno battuto ciglio quando ieri gli agenti si sono presentati. Chiricozzi avrebbe ostentato la sua sicurezza, di certo nessun pentimento. Arrogante anche di fronte alle manette. I due ragazzi, 19 e 21 anni, l' 11 aprile avevano pianificato la serata. Parlano al telefono e decidono che è la giornata giusta per un giro in centro a Viterbo. Prima di uscire da casa il selfie d'ordinanza, postato su Instragram, al grido di #vestitimale, #comportatimale. Chiricozzi, oltre alle chiavi della macchina, prende anche quelle di Old Manners, il locale e sede di Casapound, a piazza Sallupara. Un circolo a uso esclusivo delle tartarughe del viterbese e del circondario. L'11 aprile il pub degli estremisti neri è chiuso. Quindi a completa disposizione dei due. La nottata parte. In centro si gira per locali. E tra un bar e un pub, Chiricozzi e Lizzi incontrano una ragazza. Lei è più grande, ha 36 anni. Le offrono da bere in un locale e poi la invitano al loro pub. «Abbiamo le chiavi, vieni con noi berremo gratis». La ragazza si lascia convincere, è già brilla quando arrivano a piazza Sallupara. Chiavi in mano, i tre entrano nel circolo e si chiudono la porta alle spalle. Stanno ancora bevendo quando la 36enne, comincia a subire gli approcci sessuali di uno dei due, li respinge, prova a fuggire, ma viene stesa a terra con un pugno. La colpiscono ripetutamente. Calci e altri pugni. La donna perde i sensi. A questo punto accendono i telefoni e riprendono la violenza. A turno i due, per ore, seviziano e violentano la vittima. Si incitano a vicenda. Furia, depravazione e onnipotenza si scatenano fino alle prime ore del giorno dopo. Quando i due, soddisfatti del venerdì sera, raccolgono la donna come uno straccio e la depositano davanti alla sua abitazione. «Adesso vai a casa e stai zitta, nessuno ti crederà». La trentenne però non sale a casa, trova la forza di andare al pronto soccorso. Qui viene visitata e immediatamente parte la denuncia. I dettagli sono orribili. Per la donna la prognosi è di sette giorni. La polizia interviene immediatamente, raccoglie le testimonianze della vittima, che racconta quello che ricorda. Le sue parole sono confuse, perché per ore è rimasta priva di conoscenza. Non sa se ha gridato, se ha pianto. Ma sa che i suoi aguzzini erano due. E in due l' hanno portata al pub di Casapound. La Mobile avvisa i colleghi della Digos. Sono quasi tutti schedati, Chiricozzi è sottoposto a Daspo e imputato per i calci e i pugni a un ragazzino che, sui social, aveva ironizzato su Casapound. Il riconoscimento, attraverso le foto, avviene in pochi minuti. L' informativa urgentissima arriva in procura. Due ore dopo, gli agenti si presentano in casa dei due indagati per una formale perquisizione. Vengono sequestrati i telefoni. E qui gli inquirenti scoprono i video della violenza. «È stata inaudita - sottolineano-. La donna è stata abusata più volte prima da uno e poi dall' altro per alcune ore, fino a quando non è stata abbandonata sotto casa». La misura cautelare in carcere è scattata. La polizia all' alba ha trascinato i due indagati, difesi dagli avvocati Giovanni Labate e Marco Valerio Mazzatosta, in carcere. Oggi, durante interrogatorio di garanzia in carcere, potrebbero anche raccontare la loro versione della storia o avvalersi della facoltà di non rispondere. «E' stata un' indagine afferma il procuratore capo Paolo Auriemma messa in atto con estrema puntualità e accuratezza. La tempestività, prima che i video venissero cancellati, è stata fondamentale perché non c' è stato niente di casuale».
«Aspettiamo un bimbo, ti amo», lui la uccide: così Antonino Borgia ha massacrato Ana Di Piazza. Pubblicato domenica, 24 novembre 2019 da Corriere.it. «Ma che fai? Molla il coltello aspettiamo un bambino, io ti amo», ha detto Ana Maria al suo assassino prima di essere finita. Aveva trent’ anni Ana Maria Lacramioara Di Piazza, era di origine romena ed era stata adottata da una famiglia di Giardinello, piccolo centro in provincia di Palermo. Da circa un anno aveva una relazione con un uomo sposato, l’ imprenditore 51enne di Partinico Antonino Borgia. È stato lui a ucciderla a bastonate e a coltellate. Poi ha cercato di nasconderne il cadavere in campagna, ha lavato il furgone, dove si era consumato il delitto, s’ è fatto una doccia ed è anche andato dal barbiere. I carabinieri di Partinico sono risaliti al responsabile dell’ ennesimo caso di femminicidio in poche ore. Questo anche grazie alle testimonianze di un paio di cittadini. Uno ha visto la scena della violenza ripresa dalle sue telecamere di sicurezza. Un altro ha avvertito i carabinieri di avere visto una donna insanguinata scappare da un furgone ed essere inseguita da un uomo senza pantaloni. A quel furgone si è risalti, e lì si sarebbe trovata una macchia di sangue malgrado fosse stato lavato. E poi è stato rinvenuto il coltello, abbandonato nelle campagne tra Balestrate e Partinico dove il corpo era stato maldestramente occultato. Borgia messo sotto torchio ha confessato, sentito dal pm Chiara Capaluongo della procura di Palermo, che indaga coordinata dall’aggiunto Annamaria Picozzi. L’uomo, accusato di omicidio, occultamento di cadavere e procurato aborto, ha detto di avere ricevuto richieste di denaro dalla ragazza che minacciava di rivelare alla moglie la loro relazione. Ma un paio di amiche di Ana Maria, che preferiscono non apparire con il proprio nome, raccontano al Corriere che la ragazza non aveva nessuna intenzione di ricattare l’uomo, di cui peraltro aveva celato l’identità anche quando aveva confidato alle amiche della gravidanza; ma che i soldi, si parla di tremila euro, le servivano per curarsi, perché la gestazione procedeva con delle difficoltà. E Ana Maria non lavorava, dopo l’ultimo impiego da lavapiatti risalente a diversi mesi fa. È finita così la vita di Ana e del suo bambino mai nato, la vita semplice di una ragazza che amava cantare, descritta come sorridente, umile e solare da chi le voleva bene. Si era appartata per l’ ultima volta con Borgia nei pressi di un cantiere dell’ impresa edile del compagno. Poi una discussione, le prime violenze dell’ uomo, lei che scappa, lui che la raggiunge e la convince a rimontare in auto e che lì però la finisce. Sul cadavere c’ era anche il segno di una coltellata alla gola. L’autopsia stabilirà se quello è stato il colpo fatale in questo delitto consumato alla vigilia della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne.
"Voleva 3mila euro, altrimenti avrebbe rivelato tutto a mia moglie". La confessione dell'assassino di Ana. Borgia sapeva che Ana era incinta. Nel video ripreso dalla telecamera di sorveglianza si vede l'uomo che l'accoltella mentre lei continua a ripetere: "Ma che fai? Io ti amo" Huffingtonpost.it il 24/11/2019. Il litigio perché lei voleva rendere nota la loro relazione alla moglie dell’amante, e per non farlo voleva soldi, poi la prima coltellata, e quindi la conferma della rivelazione fatta due settimane fa con un messaggino al telefono: “Sono incinta, aspetto il tuo bambino, ti amo”. E quando tutto sembrava risolto col viaggio verso l’ospedale ecco le bastonate in testa e la coltellata alla gola. Così è morta Maria Lacramioara Di Piazza, 30 anni, uccisa dall’imprenditore Antonino Borgia, 51 anni, tra Partinico e Balestrate vicino Palermo. Un femminicidio atroce proprio a ridosso della giornata internazionale contro la violenza sulle donne che si celebra lunedì. Un omicidio feroce per le modalità e per la totale insensibilità dell’assassino che ha ucciso la donna dopo aver saputo che lei era incinta, e poi, dopo il delitto ha continuato la sua routine come se nulla fosse. La scena iniziale dell’aggressione è impressa su una memoria digitale ripresa dalla videocamera di sicurezza di una villa, che ha registrato anche l’audio, ed è stata portata da un testimone ai carabinieri. L’assassino è stato arrestato e ha confessato. E’ accusato di omicidio, porto illegale di arma, occultamento di cadavere, procurato aborto. L’autopsia dovrà chiarire se la donna era in stato interessante. Ana Maria, di origini romene, residente a Giardinello (Pa), era stata adottata da una coppia del piccolo centro in provincia di Palermo, ha un figlio di 11 anni, e aveva da un anno una relazione con Borgia. Ieri verso le 7 i due si sono incontrati allo svincolo di Partinico. Lei è salita a bordo del furgone bianco che si è spostato verso Balestrate. La vittima aveva chiesto dei soldi all’uomo - ha raccontato lui agli inquirenti - circa 3 mila euro dicendogli che altrimenti avrebbe raccontato tutto alla moglie. La sera prima Borgia aveva promesso di darglieli. “Due settimane fa - ha sostenuto l’indagato - lei era in Romania e mi ha mandato un messaggio in cui mi ha scritto che si era fatta tutti gli esami perché era svenuta e aveva scoperto di essere incinta. Mi ha detto che il figlio era mio e che non poteva portare avanti la gravidanza perché già aveva un figlio e la madre l’avrebbe mandata via di casa”. Una volta arrivati in una zona dove l’imprenditore, che ha una ditta che realizza piscine, aveva un cantiere, i due avrebbero iniziato a litigare. Borgia ha preso un coltello da cucina con lama seghettata e ha colpito la donna alla pancia. Lei ha tentato di fuggire e l’uomo l’ha rincorsa facendola risalire sul furgone e promettendole che l’avrebbe portata in ospedale. Sono le 7.38, la scena viene ripresa dalla videocamera e nel filmato si vede e si sente la donna urlare “Ma che fai aspettiamo un bambino, io ti amo. Tu mi ami? Buttalo quel coltello. Devo morire? Dimmelo devo morire?”. L’imprenditore sembra calmarsi (il coltello sarà ritrovato dai carabinieri sporco di sangue), ha fatto risalire Ana sul furgone e si è diretto verso l’ospedale. Sono le otto e i due sono nei pressi del ponte dell’autostrada all’altezza di Partinico. Qui riprendono a litigare. Il furgone si è fermato. Ana apre lo sportello e tenta di fuggire. Alla scena ha assistito una donna: è lei che darà l’allarme ai carabinieri che cominciano a indagare. Borgia ha preso un bastone e ha colpito la vittima più volte alla testa poi le ha tagliato la gola. Ha avvolto il cadavere in lenzuola e coperte, ha legato tutto con una corda e ha nascosto il corpo in campagna ricoprendolo di sterpaglie. Poi è risalito sul furgone ed è andato a fare colazione in un bar, ha pulito il mezzo e ha cominciato normalmente gli incontri di lavoro. Nel pomeriggio dopo aver mangiato, Borgia è andato anche dal barbiere. L’uomo è stato poi fermato e portato in caserma per essere interrogato. Alle 17.20 il proprietario della villa che ha il sistema di videosorveglianza va alla caserma dei carabinieri di Balestrate portando la memoria con le immagini. Gli investigatori chiudono il cerchio. Borgia confessa fa ritrovare il cadavere e viene portato in carcere.
Partinico, uccisa donna a coltellate: fermato l'amante. Leopoldo Gargano per il “Giornale di Sicilia” il 26 novembre 2019. Il giorno della sua morte doveva andare in ospedale. A Petralia Sottana per sottoporsi ad un intervento in «day hospital». Di che tipo? Perché un viaggio da Partinico a Petralia? La madre non lo sa, ma un dato è certo. Nell'ospedale di Petralia fino ad un paio di anni fa si facevano più aborti che nascite, oltre 300 rispetto ad una settantina di parti. Adesso nascite non ce ne sono più, il reparto è stato dismesso, ma le interruzioni di gravidanza continuano (siamo a circa 150 all'anno), in giorni stabiliti, almeno un paio la settimana. E arrivano donne da tutta la Sicilia. È probabile dunque che la povera Ana Maria Lactimoara Di Piazza, se non fosse stata uccisa dal suo amante Antonino Borgia, proprio lo scorso venerdì avrebbe abortito. Una scelta estrema e certamente sofferta, dettata dai tanti problemi della ragazza, già madre-single di un ragazzino di 11 anni. A raccontare il retroscena è la madre della giovane e in parte questo racconto è confermato dalle stesse parole dell'assassino. Che ieri mattina è comparso davanti al giudice ed ha confermato in tutti i particolari la confessione resa subito dopo il suo arresto. È stato ascoltato dal gip per quasi due ore, l'interrogatorio è stato so-speso diverse volte perché lui si è messo a piangere ed ha ripetuto: «Cosa ho fatto...». Il giudice ha disposto la custodia cautelare in carcere.
L'interrogatorio della madre. La signora Anna Maria Di Piazza, madre adottiva della ragazza è stata sentita dai carabinieri nella notte tra venerdì e sabato. Proprio in quelle ore Borgia raccontava ai carabinieri quello che aveva combinato, la lite e poi le coltellate alla ragazza che gli aveva detto di aspettare un figlio da lui. La mamma di Ana viene condotta in caserma e dice che «la figlia aveva avuto da sempre un regime di vita giudicato «libertino - scrivono gli inquirenti nel provvedimento di fermo a carico di Borgia - e riferiva dell'esistenza di un bambino di undici anni, avuto dalla figlia adottiva con un ragazzo tunisino».
Il day hospital. E poi racconta un particolare impor-tante. «Precisava di essere a conoscenza del fatto - si legge - che la figlia adottiva si sarebbe dovuta sottoporre nella giornata del 22 novembre (cioè venerdì) ad un intervento in day hospital presso l'ospedale di Petralia, dichiarando di avere visto la ragazza per l'ultima volta la sera, intorno alle 23.30, del precedente giovedì, 21 novembre». La circostanza del possibile aborto, previsto proprio per il giorno della sua morte, viene in parte confermata anche dalle parole di Borgia che fin da subito ha detto ai carabinieri che la vittima aveva intenzione di interrompere la gravidanza. A suo dire lei aveva appreso di essere incinta due settima-ne prima quando era andata in Romania e si era sentita male. «Mi aveva detto che il figlio era mio - ha confessato Borgia -, e che non poteva portare avanti la gravidanza perché già aveva un figlio e la madre l'avrebbe mandata via da casa».
«Cosa ho fatto...». Ana aveva avuto una vita per niente facile, un passato pieno di problemi e un presente molto precario. Un'infanzia tormentata, lavori saltuari, cameriera nei locali notturni, forse una frequentazione con gli stupefacenti, di-verse relazioni. Nulla in ogni caso che possa lontanamente giustificare la fi-ne che ha fatto. E proprio sull'esistenza di altri rapporti sentimentali ha insistito ieri Borgia, difeso dall'avvocato Salvatore Bonnì, durante la convalida del fermo. Si è presentato come un uomo un ginocchio che aveva commesso una atrocità senza nemmeno sapere il perché. «Non so cosa mi è passato per la testa, non so cosa ho fatto - ha detto l'arrestato -. Ho distrutto la mia vita e quella della mia famiglia». Ma un dettaglio in più, sollecitato dagli investigatori, ha tenuto a rivelarlo. Borgia ha detto che la Ana Maria aveva altre relazioni e con lui non c'era affatto una rapporto stabile. Solo incontri saltuari, finalizzati ad una sola cosa, fin quando lei gli ha detto che aspettava un bambino. La successiva, pressante, richiesta di denaro da parte di lei, ha dichiarato Borgia, lo ha fatto uscire fuori di testa.
Il cliente che non arriva. Come in tutti gli omicidi, quando il contesto è ormai ben delineato, c'è però sempre una semplice circostanza che fa precipitare le cose, che fa scattare la furia omicida. E in questo caso è il mancato arrivo di un cliente di Borgia. Venerdì mattina l'assassino infatti aveva deciso di dare del denaro ad Ana Maria, magari non 3000 euro co-me chiedeva lei, ma comunque qual-cosa. Ma, come lui stesso ha ripetuto ieri, non è stato possibile. Il cliente che gli doveva pagare un lavoro non si è presentato, lui assieme ad Ana, lo ha aspettato e nel frattempo hanno avuto l'ultimo rapporto sessuale dentro il furgone della ditta. Non appena terminato, la ragazza gli avrebbe chiesto di nuovo del denaro, lui non ne aveva e la situazione è precipitata. Ha temuto che l'amante rivelasse tutto alla moglie e l'ha accoltellata come un ossesso. Diversi fendenti, come è emerso durante l'autopsia eseguita ieri, i cui risultati si conosceranno tra 40 giorni. Ma si conosce già la prima relazione del medico legale che ha visto il corpo abbandonato in campagna. «Era in posizione fetale, legato minuziosa-mente con una corda - si legge nel fermo -. Presentava ferite all'addome ed il capo quasi completamente sgozza-to, con profonde recisioni alla gola».
Maria Novella De Luca e Maria Elena Vincenzi per “la Repubblica” il 26 novembre 2019. Lui era il figlio di un politico democristiano, lei una ragazzina di sedici anni. Lui la stupra in una notte di primavera del 2012, lei si ritrova al pronto soccorso con il corpo devastato e l' adolescenza in pezzi. Si incontrano a Roma, vicino a Castel Sant' Angelo, mentre Giulia (nome di fantasia), studentessa di un famoso liceo scientifico, aspetta l' autobus per tornare a casa. Lui, 35 anni, modi gentili, le propone un passaggio. Lei accetta. Il resto è un incubo lungo una notte, nove anni e due processi. «Ricordare mi fa ancora gelare il sangue», dice Giulia. L' arresto di lui, nel 2012, sconvolge il mondo politico, nonostante il padre magistrato e senatore sia morto da qualche anno. Nessuno crede a Giulia, nonostante i referti del pronto soccorso. In primo grado, nel 2015, lo stupratore viene assolto, "per insufficienza di prove". «Dicevano che ero ubriaca, non potevo ricordare e dunque ero consenziente». Ma Giulia può contare su una tenacissima mamma e su una ancor più tenace avvocata, Teresa Manente. Il suo violentatore viene condannato a gennaio del 2019 a sei anni e mezzo. «La cosa più dolorosa? Tutti quelli che dicevano che me l' ero andata a cercare, perché avevo accettato il suo passaggio », mormora Giulia.
Per questo allora il suo aggressore venne assolto?
«Di quella notte che tante volte ho ricostruito, lottando con una parte della mia mente che voleva soltanto cancellare, oggi ho ricordo netto e terribile. Lui mi ha stuprato e io non sono stata creduta. Un incubo, ma so che accade a tante donne».
Può provare a raccontare?
«Era primavera, tardo pomeriggio e stavo tornando a casa. Avevo una maglietta a maniche corte. Aspettavo l' autobus, il numero 40, c' era una fontanella accanto alla fermata. Lui si è avvicinato, mi ha fatto un complimento, abbiamo iniziato a parlare. Era gentile, educato, ben vestito, mi ha detto che faceva l' avvocato. L' autobus non passava, ho accettato il suo passaggio».
Ma non l' ha accompagnata a casa.
«A casa mi avrebbe riportato tante ore dopo, stordita e violentata. Quello che ricordo, anche ricostruito attraverso le indagini, sono tanti diversi locali dove lui mi faceva bere, poi un ristorante. E l' aggressione, quando ormai però non ero più né lucida né in grado di difendermi».
Il processo di secondo grado ha dimostrato che lui la portò in un locale di via Veneto, poi al ristorante "Assunta Madre" nonostante lei chiedesse di poter tornare a casa. Facendola bere ripetutamente. Per poi violentarla in un luogo sconosciuto.
«Mi sono ritrovata a notte fonda, sotto il portone di casa, con i pantaloni al contrario e sporca di sangue. Tanto. Confusa. So di aver raccontato al ginecologo dell' ospedale come erano avvenuti i fatti, ma in tribunale, incredibilmente, quel medico affermò che a lui avevo detto "mi è piaciuto". Lei ha mai visto un rapporto d' amore in cui una si ritrova piena di sangue?».
Eppure il suo stupratore viene assolto.
«Già. Una brutta botta, anche se in quei mesi, dopo lo stupro, vivevo come in trance. Provavo a dimenticare e non ci riuscivo. Secondo i giudici non era stata una violenza, avevo accettato il passaggio, dunque il mio assenso era sottinteso. E il fatto che fossi ubriaca mi rendeva meno attendibile. Purtroppo con questa "colpa" ho dovuto fare i conti a lungo».
Perché Giulia?
«Perché ero stata azzardata, avevo bevuto, insomma una ragazza incauta e facile. Me lo dissero le mie amiche, anche un ragazzo con cui tentai di avere una storia. No, non ero stata incauta, avevo sedici anni e non pensavo di incontrare un mostro».
Oggi lei ha 24 anni e un compagno.
"Sì, finalmente, dopo anni di solitudine, in cui incontravo soltanto persone sbagliate, adesso sono serena. La verità è che dopo quella violenza ho rischiato di deragliare. Come se ci fosse una parte di me attratta dal buio».
Come si è salvata?
«La mia famiglia, la psicoterapia e la laurea in Psicologia dell' infanzia. Lavorerò con i bambini e gli adolescenti. Nessuno si deve azzardare a fargli del male».
Sua madre, la procura e la sua avvocata non si sono mai arrese. Il suo aggressore è stato condannato. Una bella vittoria.
«In appello la mia storia è stata creduta. Era evidente che lui mi avesse fatto bere per aggredirmi. Avevo 16 anni, lui 35. Pensi che uno dei suoi avvocati abita nel mio palazzo. Ogni volta che lo incontravo mi veniva la nausea. Adesso non più».
Lui è libero però.
«Non mi ha più cercata per fortuna. E comunque dopo quell' assurda assoluzione, in cui sembrava quasi che lo stupro me lo fossi andata a cercare, ora la giustizia è stata giusta. Spero possa servire a tutte le donne che denunciano gli stupratori e non vengono credute».
Come vede il futuro?
(Giulia finalmente ride). «Come tutti i ragazzi della mia età che si laureano e cercano una strada. Ma dopo che quell'uomo è stato condannato ho sentito che potevo essere, finalmente, libera».
Dall’account twitter di Vittorio Feltri il 26 novembre 2019. Una signora brasiliana in provincia di Rieti ha bruciato vivo, dopo averlo cosparso di benzina, il marito. Che è morto. Ma la cosa, non essendo un femminicidio, lascia le femministe nella più totale indifferenza. Uccidere un maschio è un reato minore.
Michele Giuliano per il “Giornale di Sicilia” il 27 novembre 2019. «Era un violento, mi alzava le mani e per questo lo lasciai 20 anni fa». Parole come un macigno quelle di Michelle Arminio, 49 anni, ex moglie di Antonino Borgia, l'imprenditore di 51 anni di Partinico accusato dell'omicidio di Ana Di Piazza, la trentenne di Giardinello trovata senza vita in aperta campagna venerdì scorso, letteralmente massacrata da coltellate e bastonate. Borgia sarebbe stato anche più volte denunciato dall'allora consorte nel 1998 ma non vi fu mai un seguito giudiziario: «All'inizio del nostro rapporto era allegro, anche se vulnerabile ma con il tempo si è rivelato con il suo vero carattere - racconta la Arminio - sino a spingersi ad alzarmi le mani. Si è mostrato prepotente, irruento e poco riflessivo. Quando chiedevo spiegazioni mi diceva "io sono un uomo e tu una donna". Lo denunciai per maltrattamenti e minacce ma tutto cadde in prescrizione». Dunque, anche se non ci fu mai un processo, il 51enne imprenditore avrebbe già mostrato questo suo lato caratteriale violento in passato secondo il racconto dell'ex moglie che dice di averlo lasciato proprio per questo motivo: «Rincasava tardi e quando chiedevo spiegazioni diventava violento - aggiunge ancora Michelle Arminio -. La sua famiglia a cui mi sono rivolta lo difendeva e lo giustificava. Quando ho capito che per me e mio figlio davanti c'era questo incubo mi sono separata. Avere delle amanti lo considerava normale. Scoprii che anche quando stava con me aveva altre relazioni. Quando ho saputo dell'omicidio io e mio figlio siamo rimasti sconvolti, sapevamo di questo suo carattere irruento, ma non potevamo immaginare che sarebbe arrivato a tanto. Il mio pensiero lo rivolgo alla vittima e al bambino che portava in grembo». Gli amici della vittima, che lunedì sera hanno partecipato ad un corteo a Partinico contro il femminicidio in memoria anche di Ana, confermano che sapevano che fosse incinta ma la giovane non volle farsi aiutare: «Non abbiamo mai capito il perché fosse così schiva» racconta Giovanni Lodato, ex fidanzato della trentenne di Giardinello. Era proprio lui in testa al corteo partecipato da circa 200 persone che hanno sfidato il maltempo. ll serpentone si è snodato da piazza Municipio ed ha raggiunto piazza Garibaldi, passando da via Crispi e corso dei Mille. In piazza Garibaldi un piccolo momento di riflessione con il silenzio e poi una poesia letta proprio da Giovanni Lodato, apparso particolarmente scosso come le amiche che conoscevano Ana. La vittima è morta a causa di 10 coltellate che le sono state inferte lungo il busto e sul collo. In grembo aveva un bambino di tre mesi. Queste le prime evidenze emerse dall'esame autoptico sul corpo della povera ragazza. Tra 40 giorni sarà depositata la perizia medico-legale completa. Nelle motivazioni che ieri hanno portato il Gip di Palermo a lasciare in carcere Borgia c'è proprio l'efferatezza del gesto. In pratica Ana ha sofferto le pene dell'inferno, come oltretutto confermato dal suo stesso assassino che ha raccontato ai carabinieri che la donna era «molto sofferente». Borgia ha avuto due diverse colluttazioni con la sua vittima: la prima davanti al cancello di un'abitazione in contrada Foce a Balestrate, dove già aveva accoltellato una prima volta Ana; la seconda qualche chilometro più avanti sulla statale 113 a Partinico dove la 30enne è stata finita con altre coltellate e con delle bastonate in testa. Nell'ordinanza dell'applicazione della misura cautelare in carcere il Gip Cristina Lo Bue evidenzia «la particolare efferatezza della condotta del Borgia, realizzata con inaudita violenza ed evidente crudeltà attraverso una pluralità di azioni, sempre più cruente, nell'arco di poche ore, determinando la prolungata agonia della donna». Tutto si sarebbe consumato nell'arco di pochi minuti. Messo con le spalle al muro, in seguito ai riscontri investigativi suffragati da alcuni testimoni e dalle telecamere di videosorveglianza di un villino in contrada Foce, l'imprenditore è crollato ed ha confessa tutto, anche il movente. In pratica ha raccontato ai carabinieri che l'amante l'avrebbe messo alle strette e che lo aveva minacciato di consegnarli soldi altrimenti avrebbe raccontato tutto alla moglie. A questo punto sarebbe scoppiata la violenta lite che si è sviluppata a due riprese con il tragico epilogo.
Lara Sirignano per “il Messaggero” il 29 novembre 2019. Racconta di 18 anni di idillio, di un amore senza «macchie». Parla di una vita serena distrutta da una tragedia folle. Maria Cagnina, l'imprenditrice palermitana moglie dell'uomo che venerdì scorso, ha massacrato di botte e sgozzato l'amante Ana Lacramioara, è ancora sotto choc. Non riesce a capire cosa abbia indotto il marito a compiere un gesto tanto atroce. Non sa spiegarselo. E accenna alla follia, al raptus che avrebbe armato la mano di Antonino Borgia, l'uomo con cui ha condiviso la vita per anni. «Forse si sentiva in trappola racconta recentemente era spesso pensieroso e mi aveva confessato che voleva vendere tutto (i due hanno una ditta che realizza piscine) e di voler andare a vivere in America». Borgia, dunque, era inquieto, accennava a voler cambiare aria, probabilmente cercava una soluzione ai problemi sorti con l'amante. Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, la vittima da mesi chiedeva denaro all'uomo minacciandolo di raccontare alla moglie della loro relazione. Il giorno del delitto, dopo una violenta lite, dopo essere stata aggredita, Ana gli avrebbe anche rivelato di essere incinta. Ma la versione del raptus male si concilia con quanto l'assassino ha fatto dopo aver ucciso la ragazza. L'imprenditore ha ripulito il furgone all'interno del quale aveva sgozzato Ana, poi è andato a fare colazione al bar e a tagliarsi i capelli. Una serie di azioni tese a costituirsi un alibi e decise con assoluta lucidità. Borgia, inquadrato da videocamere di sorveglianza mentre trascina sul suo furgone la ragazza, che tentava di fuggire, ha cercato di far sparire tutte le tracce che lo avrebbero incastrato e ha confessato l'assassinio solo dopo il fermo. Le immagini rubate dalle videocamere, che hanno intercettato perfino il grido di aiuto della vittima, e il racconto di due testimoni, però, non gli hanno dato scampo. Davanti ai pm Borgia si è detto pentito, ma il gip, pur non convalidando il fermo, ha disposto la custodia cautelare in carcere. «Ha sbagliato dice la moglie ha fatto una cosa atroce, ma non posso abbandonarlo. Spero solo che non siano i miei figli a pagare tutto questo». «Condividevamo il lavoro, trascorrevamo insieme tutto il giorno racconta ma non mi ha mai fatto del male, non è mai stato violento né con me né con i bambini». Borgia, però, anni fa fu denunciato dalla prima moglie per maltrattamenti: un passato che Maria Cagnina conosceva. L'autopsia, che ha accertato che la ragazza è stata uccisa con 10 coltellate, l'ultima delle quali alla gola, ha confermato che la vittima aspettava un bimbo ed era al quarto mese di gravidanza. Borgia, che dopo il delitto ha nascosto il corpo della donna tra i cespugli, è accusato di omicidio, procurato aborto e occultamento di cadavere. «Quello che ha fatto è tremendo dice la moglie Penso a quella povera ragazza e sento che entrambe siamo vittime». Maria ha perso l'illusione di una esistenza normale. Ana ha perso la vita.
Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 27 novembre 2019. E se avessero ragione i talebani, i sauditi, senza arrivare all' Isis? Se non fossero le donne ad essere in pericolo in quanto donne, ma fossero loro, le femmine, a costituire un pericolo pubblico in quanto femmine? A causa di un'arma micidiale, il loro corpo; in grado di sconvolgere il fragile corpo del maschio o per lo meno la parte meno controllabile del maschio. Ogni centimetro di nudità oltre alla caviglia, è un proiettile, quindi la necessaria difesa, non della donna ma dell' uomo, sarebbe obbligare lei a celarsi dentro chador o niqab: un talebanesimo italiano atto a salvare lui da un malsano comportamento di cui sarebbe la vera vittima, e poi magari quella strilla, lui è costretto a picchiarla o a eliminarla, e ti rovina la vita facendoti finire in prigione per qualche anno. Si vorrebbe sapere cosa hanno risposto all' Istat gli intervistati ambosessi su eventuali responsabilità maschili: o sociali. E per esempio la violenza oggi è nel linguaggio, nella politica, in strada (sulle strisce e con bastone rischi sempre di essere travolta tra insulti di vario genere porno), in ogni tipo di rapporto, nella rabbia insensata, nell' odio non solo per il diverso ma anche per l'uguale. Questa colpa del nudo è poi la più scema: ci sono ragazze tipo 80 chili, orgogliose della loro panciona nuda che se la nascondessero sarebbero più facilmente fonte di peccato virile, ci sono mariti che esibiscono felici al supermercato la loro amata in sottoveste, i settimanali di gossip mostrano solo donne di gran successo, modelli cui aspirare, sempre in tanga e posizionate in modo che la lettrice e si presume il lettore, si trovi sempre in un mare di natiche, sino forse a non volerne sapere più. Il sondaggio avrà chiesto ai soli maschi se la loro mamma anche femminista, amandoli visceralmente in quanto maschi, ha fatto loro credere di essere più forti, più importanti, degni della massima venerazione e sottomissione, rispetto alle cosiddette femminucce? Che nel frattempo crescevano più libere, amate senza necessità di traguardi, inventandosi un futuro in cui sarebbero state tutto ma non madri come la loro mamma, mentre i fratelli l' avrebbero cercata nelle altre donne vuoi madonna vuoi peccatrice, ovviamente non trovandola? Il sondaggio accenna al fatto che sono più al Sud le donne che si lasciano pestare tanto poi passa, e gli uomini convinti, a parte il loro fascino irresistibile che piega ogni ripulsa, che se una sciocchina proprio non vuole si salva, anche se lui è un lottatore di Sumo e lei una bambolina di 40 chili. A parte il sondaggio conosco non poche signore che prendono a pentolate il marito o al primo suo gesto antipatico se ne vanno in albergo e non ne vogliono più sapere: e a lui, per fortuna biologica o familiare o geografica, magari organizza vendette tremendissime, però di tipo finanziario o familiare, ma mai le darebbe quello schiaffo con cui ogni notte sogna di umiliarla. Negli anni 70-80 divennero notizia i processi per stupro e il giornalismo maschilista, terrorizzato dalle femministe, cominciò a mandare le sue cosiddette firme: le più ardite pro stuprata, le altre pro stupratore ovviamente innocente. Erano magnifiche sceneggiate, le mamme dell' accusato si accanivano contro la sporcacciona che lo aveva fatto peccare e gli avvocati rivelavano che la sedicente stuprata avendo già avuto un fidanzato non poteva essere vergine e quindi era da escludersi lo stupro, trattandosi di mero eccesso di palpeggiamento: nel frattempo le femministe creavano corsi di karate antiviolenza: se ci furono vittime maschi, la cronaca non lo dice. Intanto questa è stata una bella occasione per vagheggiare soldi dello Stato per programmi di difesa delle donne contro la violenza se non per gli uomini di dissuasione alla violenza. Non ci si pensa, pare sempre una cosa che devono risolvere le donne. Ognuno ha detto la sua compresa me e speriamo in bene.
ASSASSINO IN PREDA A TEMPESTA EMOTIVA. Pena dimezzata “Colpa del rito abbreviato”. Fa discutere la decisione di dimezzare la pena di un assassino perché in preda ad una tempesta emotiva, scrive il 02.03.2019 Davide Giancristofaro Alberti su Il Sussidiario. L’assassino era in preda ad una tempesta emotiva, un’attenuante che riduce la sua pena da 30 a 16 anni di carcere. Sta facendo discutere, e non poco, la decisione della corte d’appello d’assise di Bologna, che per l’omicidio della 46enne Olga Matei, ammazzata nel 2016 a mani nude dal 57enne Michele Castaldo, ha appunto deciso di tenere conto dello stato emotivo dello stesso assassino, dimezzandogli la durata della detenzione: «Lo scandalo non è tanto la concessione delle attenuanti – le parole dell’avvocato di parte civile, Filippo Airaudo, ai microfoni de La Stampa – cioè la valutazione della corte per cui l’imputato avrebbe agito sotto effetto di un raptus, un’interpretazione forse generosa, quanto la scelta del rito abbreviato per un reato grave come l’omicidio, rito che prevede riduzioni automatiche della pena pari a un terzo». L’omicidio volontario prevedere l’ergastolo, ma essendo stato chiesto l’abbreviato si scende ad una pena massima di 30 anni di carcere. «A questo punto – ha aggiunto il legale – la riduzione di un terzo ha fatto raggiungere i 16 anni. Il problema vero, in altre parole, è il rito abbreviato applicato all’omicidio». Una decisione che sta facendo discutere. (aggiornamento di Davide Giancristofaro)
ASSASSINO IN PREDA A TEMPESTA EMOTIVA: È POLEMICA. Il Coordinamento Antiviolenza 21 luglio Palermo ha commentato la sentenza del Tribunale di Bologna sul femminicidio di Olga Matei, giudicandola un «grave passo indietro nella battaglia contro la violenza sulle donne». Questo perché «si minimizza l’efferatezza di un delitto giustificandola con uno stato psichico, “la tempesta emotiva”». Il timore è che in futuro possa essere «invocata come attenuante in altri casi». Il Coordinamento Antiviolenza 21 luglio Palermo, come riportato da Askanews, evidenzia «la pesantezza di un clima culturale ogni giorno più arretrato che mette a repentaglio decenni di lotte e di conquiste delle donne, oltre che le loro stesse vite». Inoltre, spiega che «il messaggio di questa sentenza è in piena sintonia con quella legge. L’assassino di Olga Matei, invece di avere un ergastolo, sarà fuori in dieci anni». Poi l’ultimo affondo: «Il delitto d’onore è stato abrogato nel 1981, ma il messaggio di questa sentenza è in piena sintonia con quella legge». (agg. di Silvana Palazzo)
LA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA. Sta suscitando diverse polemiche la sentenza della Corte di appello di Bologna che ha ridotto di quasi la metà la pena a Michele Castaldo, 57 anni, l’uomo che il 5 ottobre 2016 uccise a mani nude Olga Matei, la donna con cui aveva una relazione da un mese e che strangolò a mani nude a Riccione. Come riportato da Il Resto del Carlino, però, a suscitare scalpore sono soprattutto le motivazioni dello sconto di pena: Castaldo, infatti, secondo i giudici uccise in preda ad una “tempesta emotiva” determinata dalla gelosia che dunque può attenuare la responsabilità di chi uccide. Pur riconoscendo l’aggravante dei motivi abietti e futili, i giudici hanno ridotto la pena a 16 anni dai 30 iniziali sanciti dal Gup di Rimini. Castaldo, parlando alla Corte, aveva detto:”Non c’è giorno che non pensi a quello che ho fatto che non pianga per Olga. Non ci sono parole per quello che ho fatto, e voglio che le mie case vadano a sua figlia. (agg. di Dario D’angelo)
UCCISE IN PREDA A TEMPESTA EMOTIVA. Era in preda ad una tempesta emotiva quando ha ucciso la sua fidanzata, e per questo il giudice ha ridotto la sua pena da 30 anni a 16. Sta facendo discutere, e non poco, la sentenza della corte d’appello di Bologna, che ha quasi dimezzato la durata del carcere per Michele Castaldo, 57enne di Cesena omicida reo-confesso di Olga Matei. La 46enne moldava venne strangolata dal suo aguzzino il 5 ottobre del 2016 a Riccione, in provincia di Rimini, un assassinio brutale per cui lo stesso Castaldo era stato condannato a 30 anni in primo grado dal Gup di Rimini per l’omicidio con l’aggravante dei motivi futili e abietti. Il pg Paolo Giovagnoli, di fronte alla corte di assise di appello bolognese, aveva chiesto lo scorso 16 novembre la conferma della pena, ma i giudici l’hanno ridotta concedendo le attenuanti generiche.
PENA DIMEZZATA A MICHELE CASTALDO. Come si legge nella motivazione della sentenza, la decisione di dimezzare gli anni di carcere è stata presa prima di tutto a seguito della confessione dello stesso omicida. Secondariamente, si legge che la gelosia provata dall’uomo determinò in lui, «a causa delle sue poco felici esperienze di vita una soverchiante tempesta emotiva e passionale che si manifestò subito dopo anche col teatrale tentativo di suicidio». Una condizione che secondo i giudici è stata ritenuta «idonea a influire sulla misura della responsabilità penale». Un caso che fa discutere, visto che Castaldo avrebbe dovuto inizialmente scontare l’ergastolo, poi ridotto a 30 anni con il rito abbreviato. Ora l’ulteriore riduzione della condanna a 16 anni, che potrebbero diminuire nuovamente tenendo conto dello sconto applicabile per buona condotta di 45 giorni ogni semestre. Olga e Michele si frequentavano da solo un mese, e la vittima voleva troncare la relazione con quell’uomo che le manifestava troppa insicurezza: non ce la farà mai, morirà fra le mani di quello sconosciuto.
Bologna, uccise una donna per una "tempesta emotiva": pena dimezzata. Sentenza della Corte d'Appello: da 30 a 16 anni per il fidanzato geloso. L'avvocato che tutela la sorella della vittima: "Impossibile un verdetto così". Il ministro Bongiorno: "Ritorno al passato", scrive il 02 marzo 2019 La Repubblica. Una 'tempesta emotiva' determinata dalla gelosia può attenuare la responsabilità di chi uccide. Anche sulla base di questo ragionamento la Corte di appello di Bologna ha quasi dimezzato la pena a Michele Castaldo, 57 anni, omicida reo confesso di Olga Matei, la donna con cui aveva una relazione da un mese e che strangolò a mani nude il 5 ottobre 2016 a Riccione (Rimini). In primo grado l'uomo era stato condannato a 30 anni dal Gup di Rimini, per omicidio aggravato dai motivi abietti e futili. Davanti alla Corte di assise di appello di Bologna il pg Paolo Giovagnoli, nell'udienza del 16 novembre, aveva chiesto la conferma della sentenza. Ma i giudici, pur riconoscendo l'aggravante, hanno ridotto la pena a 16 anni, concedendo le attenuanti generiche.
Le motivazioni della sentenza. Nella sentenza, da poco depositata, si spiega che la decisione deriva in primo luogo dalla valutazione positiva della confessione. Inoltre, si legge nell'atto, sebbene la gelosia provata dall'imputato fosse un sentimento "certamente immotivato e inidoneo a inficiare la sua capacità di autodeterminazione", tuttavia essa determinò in lui, "a causa delle sue poco felici esperienze di vita" quella che il perito psichiatrico che lo analizzò definì una "soverchiante tempesta emotiva e passionale", che in effetti, "si manifestò subito dopo anche col teatrale tentativo di suicidio". Una condizione, questa, "idonea a influire sulla misura della responsabilità penale". E così la condanna (ergastolo, ridotto a 30 anni per il rito abbreviato) è passata a 16 anni (24 anni, ridotti di un terzo sempre per il rito) per un brutale omicidio che avvenne dopo una lite tra due persone che si frequentavano da poco. Olga, di fronte a un uomo che le manifestava insicurezza e paura di essere tradito, gli mostrò indifferenza e gli chiese di andarsene. "Ho perso la testa perché lei non voleva più stare con me. Le ho detto che lei doveva essere mia e di nessun altro. L'ho stretta al collo e l'ho strangolata", raccontò Castaldo. Una volta tornato a casa bevve del vino con farmaci, provando a uccidersi. "Cambia lavoro, l'ho uccisa e mi sto togliendo la vita, non indovini un c.", scrisse lui in un messaggio a una cartomante, che frequentava da un po' di tempo.
"Impossibile un verdetto così". L'avvocato Lara Cecchini, che rappresenta la sorella di Olga, Nina Pascal, afferma che la donna "si attendeva giustizia e invece si trova con un'ingiustizia, dopo aver perso la sorella". Per il legale dopo una confessione come quella di Castaldo "era impossibile attendersi un verdetto di questo tipo. La mia assistita si attendeva ancora giustizia e se l'attende tutt'oggi. I termini per il ricorso in Cassazione da parte della Procura ci sono".
Il ministro Bongiorno: "Ritorno al passato". "Massimo rispetto per la sentenza e per i giudici, ma in alcuni passaggi mi sembra un ritorno a un passato remoto. Non ho nessuna nostalgia del delitto d'onore e dell'idea della donna come essere inferiore". Così su Twitter Giulia Bongiorno, ministro per la Pubblica amministrazione e avvocatessa, impegnata da anni al fianco delle donne vittime di stalking, commenta la sentenza.
La difesa: "Intendere espressione infelice in senso ampio". "Quelle parole vanno intese in senso ampio e leggendo le perizie dei professionisti che si sono occupati del caso". Lo spiega l'avvocato Monica Castiglioni, difensore di Michele Castaldo. Secondo l'avvocatessa le espressioni, "forse un po' infelici" vanno comunque lette "in un contesto della sentenza molto più ampio. Le generiche sono state valutate equivalenti con le aggravanti: sui motivi abietti e futili non si discute". Ma sono state concesse anche per l'incensuratezza di Castaldo, oltre che per la confessione, per il fatto che ha iniziato a risarcire il danno alle parti civili "e che ha avuto comunque un trascorso tale che il giudice di prime cure autorizzò la perizia psichiatrica: era seguito dal centro di igiene mentale e aveva tentato due suicidi". Inoltre per il calcolo della pena bisogna tenere conto che "è un conteggio giuridico". Se c'è l'abbreviato "è il legislatore che prevede che si diminuisca di un terzo secco: si può discutere se questo debba valere anche per gli omicidi". Ma dal punto di vista giuridico, "non c'è nulla su cui dibattere".
Valente (Pd): "Precedente pericolosissimo". "Se l'impostazione emersa in queste prime anticipazioni di stampa dovesse essere confermata, ci troveremmo sicuramente di fronte ad un precedente pericolosissimo". Così la presidente della commissione Femminicidio, Valeria Valente, senatrice del Pd, commenta la sentenza di Bologna. "Così rischiano di annullarsi anni di battaglie e di conquista di diritti fondamentali per le donne. È forse poi giunta l'ora di aprire una riflessione e fare una verifica sulle modalità con le quali vengono eseguite perizie e consulenze, talvolta redatte in modo così burocratico da risultare poco accurate e puntuali, e che finiscono in ogni caso per essere determinanti nella valutazione del giudice" afferma Valente che ricorda: "Nel nostro Paese sono innumerevoli i casi di violenza provocati da moventi di questo tipo. Bisogna intervenire al più presto: non possiamo e non dobbiamo accettare una un arretramento giuridico e culturale di questo genere che può lasciare spazio a inaccettabili impunità".
“Non ho sdoganato il delitto d’onore, ma quell’uomo era fragile e debole”. Michele Castaldo,57 anni, in tribunale: confessò l'omicidio della sua fidanzata, strangolata a mani nude il 5 ottobre 2016. Il femminicidio di Riccione. Tempesta emotiva, il giudice che ha dimezzato la pena si difende. Il caso finisce in Cassazione, scrive Rosario Di Raimondo il 4 marzo 2019 su La Repubblica. Lui, abituato a giudicare, è finito sul banco degli imputati. Dal suo ufficio in piazza dei Tribunali, nella sede della Corte d'Appello di Bologna, Orazio Pescatore allarga le braccia e dice che no, "non c'è stato alcun riconoscimento di attenuanti all'omicidio per gelosia, non era questa la nostra intenzione. E non c'entra nulla il delitto d'onore". Fuori dai palazzi di giustizia infuoca la polemica per la sentenza che ha ridotto da 30 a 16 anni la condanna di Michele Castaldo, l'assassino di Olga Matei. Le donne organizzano manifestazioni contro quella "tempesta emotiva" che ha trovato spazio nelle motivazioni. La procura generale, che in aula aveva chiesto la conferma della sentenza di primo grado, farà ricorso in Cassazione.
Pescatore, 63anni, una lunga carriera in magistratura, che quella sentenza l'ha scritta, si dice "meravigliato", si difende: "Il nostro compito era valutare la vita dell'imputato, la personalità nel suo complesso. Come si fa sempre in questi casi. L'imputato, alle sue spalle, aveva due o tre episodi significativi che hanno avuto conseguenze sulla sua psiche. Quando si discute della pena si valuta la personalità, nella perizia si è tenuto conto del vissuto fragile e debole, che però non giustifica nulla - precisa, quasi a evitare nuove polemiche - . Nelle valutazione delle attenuanti generiche ci sono tanti fattori da tenere in considerazione. Castaldo aveva alle spalle una storia pesante, era debole in questo senso, era già stato in cura, soffriva di depressione". A metà mattina, il giudice entra nell'ufficio del presidente della Corte d'Appello Giuseppe Colonna. Che più tardi, con una lunga nota, gli fa da scudo. "La gelosia non è stata considerata motivo di attenuazione del trattamento, anzi, al contrario, motivo di aggravamento", precisa. "La misura della responsabilità (sotto il profilo del dolo) era comunque condizionata dalle infelici esperienze di vita, affettiva, pregressa dell'imputato, che in passato avevano comportato anche la necessità di cure psichiatriche, che avevano amplificato il suo timore di abbandono". Questo, per Colonna, è l'aspetto rilevante nella decisione di concedere le attenuanti generiche a Castaldo, "al di là della frase, che è comunque tratta testualmente dal perito: "soverchiante tempesta emotiva e passionale"". Senza dimenticare altre due attenuanti, elementi "oggettivi e ineccepibili": la confessione dell'imputato e il tentativo di risarcire la figlia della vittima, la bimba che Olga aveva adottato assieme all'ex marito.
Doveva essere acqua sul fuoco. Non è bastata. Oggi alle 12.45 la rete delle donne scende in piazza a Bologna contro la sentenza, proprio sotto la sede della Corte d'Appello. Tra le promotrici, l'ex senatrice Pd Francesca Puglisi, dell'associazione Towanda: "In Italia, ogni 72 ore, una donna muore per mano del suo compagno. Non c'è giustificazione o attenuante per un uomo che strangola una donna, non c'è raptus o gelosia che tenga. Facciamo uscire dal Medioevo giuridico qualche magistrato". Parteciperà un'ampia galassia di sigle: Arci, Centro delle Donne di Bologna, Casa delle Donne per non subire violenza, Arcigay il Cassero, Udi. A Riccione, la città di Olga Matei, uccisa in casa il 5 ottobre 2016, le amiche della vittima organizzano una fiaccolata per l'8 marzo, alle 20, nel giorno della festa delle donne. La sindaca Renata Tosi sarà al loro fianco: "Ritengo questa sentenza un passo indietro nel passato, con il rischio di vanificare anni di lotte e battaglie contro il fenomeno del femminicidio".
L'avvocata dell'omicida, Monica Castiglioni, fa sapere: "Fino a pochi giorni fa il mio assistito lavorava nel carcere di Ferrara, dove è detenuto. Poi si è reso necessario il trasferimento in una sezione protetta".
MENARE LA PROPRIA MOGLIE OGNI TANTO NON È REATO (SE SI È DEPRESSI). Elisabetta Reguitti per Il Fatto Quotidiano il 15 giugno 2019. Menare una tantum la compagna non è reato. Un uomo di 60 anni di Pavia è stato assolto dall’accusa di maltrattamenti contro la moglie. Bisogna attendere per leggere le motivazioni ma intanto la notizia è che il tribunale di Pavia ha scagionato l’uomo sulla base delle considerazioni dello psichiatra che aveva rilevato come il marito – al momento dei fatti – era in preda a uno stato depressivo dovuto alla separazione matrimoniale. E’ il quotidiano Il Giorno di Pavia a dare la notizia. All’uomo era stato contestato il reato previsto all’articolo 572 del codice penale e all’articolo 582, maltrattamenti e lesioni. La donna aveva sporto denuncia e l’uomo era stato incriminato e portato a processo. La coppia viveva a Pavia con i due figli. Una separazione matrimoniale spesso è un evento traumatico per chi la deve affrontare. Un dolore personale oltre che della stessa coppia. Ma personalmente ritengo che questa decisione sia una mancanza di rispetto. Qualsiasi donna abbia avuto modo di provare su se stessa l’aggressività di un uomo sa che non è fisicamente possibile reagire. Un uomo ha più forza fisica di una donna sempre e comunque. Ritengo anche non esista al mondo nessun motivo che giustifichi aggressività e violenza su un’altra persona. Sono certa che quell’uomo fosse disperato, non nutro dubbi sul fatto che fosse potuto crollare in un profondo stato depressivo. Soprattutto se ha amato tanto quella stessa donna sulla quale però ha sfogato la sua disperazione, forse anche la sua rabbia. Nel corso del procedimento giudiziario ha avuto grande peso il parere di un perito, un medico psichiatra, che aveva stabilito come al momento dei fatti l’imputato non fosse capace di intendere e di volere, “perché in quel periodo si trovava in uno stato depressivo e di forte stress causato dal difficile momento dovuto alla separazione dalla coniuge”. Antonio Savio legale del marito ha dichiarato come “Non sia stata applicata nessuna misura di sicurezza perché il mio assistito è stato dichiarato non socialmente pericoloso, in quanto lo stato depressivo era strettamente legato solo a quel periodo. Il perito è stato attento a valutare la situazione umana”. Sempre a proposito di situazioni umane è bene forse ricordare che secondo il numero verde attivato dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio – sulla violenza di genere -, nei solo mesi di dicembre, gennaio e febbraio, in media sono arrivate 100 chiamate al giorno. Secondo gli ultimi dati Istat al 2014), in Italia il 31,5% delle donne tra i 16 e 70 anni (6,7 milioni) nella sua vita ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2% vittima di violenza fisica, il 21% sessuale, il 5,4% ha fatto i conti con forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentato stupro (746 mila).
Uccise la moglie, «era mosso da delusione». Condannato a 16 anni. Pubblicato mercoledì, 13 marzo 2019 da Corriere.it. Il pm aveva chiesto una pena di 30 anni per un uomo che aveva ucciso la compagna: la colpì con diverse coltellate al petto dopo aver scoperto che non aveva mantenuto la promessa di lasciare l’amante. Il giudice, per questo, ha concesso le attenuanti generiche e lo ha condannato a 16 anni. Accade a Genova. Nella motivazione della sentenza si legge che l’uomo ha colpito perché mosso «da un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento» secondo quanto scrive Il Secolo XIX. Javier Napoleon Pareja Gamboa, un operaio ecuadoriano di 52 anni, aveva ucciso la moglie Jenny Angela Coello Reyes, di 46 anni, nell’aprile scorso nel loro appartamento a Rivarolo. La pena è stata ridotta in parte per il riconoscimento delle attenuanti e in parte per lo sconto previsto dal rito abbreviato. A oggi, scrive la testata, procura e difensori non hanno presentato ricorsi.
Genova, uccise la compagna: condannato con l'attenuante della "delusione". Il legale: "Torna il delitto d'onore". Il pm aveva chiesto 30 anni, il giudice applica gli sconti di pena per l'attenuante e il rito abbreviato e lo condanna a 16 anni: "Era disperato", scrive Marco Lignana il 13 marzo 2019 su La Repubblica. Sentenza shock a Genova su una donna uccisa dal marito pochi giorni dopo quella della Corte d'Appello di Bologna sulla "tempesta emotiva" come attenuante. Il pm aveva chiesto una pena di 30 anni per un uomo che aveva ucciso la compagna: la colpì con diverse coltellate al petto dopo aver scoperto che non aveva mantenuto la promessa di lasciare l'amante. Il giudice, per questo, ha concesso le attenuanti generiche e ha condannato l'uxoricida a 16 anni. Accade a Genova. Nella motivazione della sentenza si legge che l'uomo ha colpito perché mosso "da un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento". Nella motivazione da una parte ci sono i rimandi a "una pena severa perché nulla può giustificare l'uccisione di un essere umano", ma in altri passaggi si evidenzia che l'uomo ha colpito perché mosso "da un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento, ha agito sotto la spinta di uno stato d'animo molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile". E ancora: "Non ha agito sotto la spinta di un moto di gelosia fine a se stesso, per l'incapacità di accettare che la moglie potesse preferirgli un altro uomo, ma come reazione al comportamento della donna, del tutto contraddittorio che lo ha illuso e disilluso allo stesso tempo". Le attenuanti, combinate con lo sconto di un terzo della pena previsto dal rito abbreviato con cui è stato celebrato il processo, hanno portato alla pena di 16 anni, rispetto ai 30 chiesti dal pubblico ministero Gabriella Marino L'omicida è Javier Napoleon Pareja Gamboa, ecuadoriano di 52 anni. La vittima, una connazionale dell'assassino, si chiamava Jenny Angela Coello Reyes, 46 anni. L'omicidio avvenne nell'aprile del 2018 nel loro appartamento di via Fillak, a Rivarolo. Durissimo il commento dell'avvocato della parte civile: "Con questa motivazione è stato riesumato il delitto d'onore - dice Giuseppe Maria Gallo che assiste i familiari di Jenny Angela Coello Reyes - . Ormai assistiamo a un orientamento più culturale che giuridico, gli omicidi a sfondo passionale sono inseriti in un circuito di tempesta emotiva. Ma quali omicidi di questo tipo non avvengono in uno stato emotivo di questo genere - argomenta Gallo - ?. E' tautologico". "Questa sentenza di Genova anticipa quella di Bologna", prosegue l'avvocato parlando del caso: la condanna infatti è stata emessa a dicembre scorso, prima della pronuncia diventata ormai nota della Corte d'Appello di Bologna che fa riferimento alla 'tempesta emotiva', come circostanza attenuante nei confronti di un 57 enne condannato per l'omicidio della compagna. "Indubbiamente - aggiunge ancora l'avvocato - sono state date circostanze attenuanti generiche ed è in questo che consisterebbe la 'tempesta emotiva' che il giudice genovese non definisce così ma è quella che ha prodotto l'abbattimento della pena insieme al rito abbreviato". Mentre i familiari e parti civili di fatto non possono impugnare la sentenza, ad oggi non sono arrivati ricorsi dalla procura. "Le nostre richieste economiche come parte civile sono state accolte - sottolinea Gallo - ma l'imputato non potrà risarcire neanche un euro. Sono accolte ma virtualmente. In più ci tolgono linfa per produrre un appello perché l'accoglimento integrale ci preclude la possibilità di impugnare non avendo titolo giuridico per farlo". "Ho sollecitato anche il pm ad appellarsi a questa sentenza - conclude il legale - Il termine scade il 21 marzo ma il pm stesso, su istanza della difesa, ha già comunicato che non impugnerà". "La legge sul codice rosso è un punto di svolta importante. Un via libera celere ed all'unanimità su questo testo dimostrerà quanto alta sia l'attenzione sul tema". Lo dice il ministro della giustizia Alfonso Bonafede riferendosi, con i cronisti in Transatlantico, alla sentenza di Genova. "Da ministro della Giustizia non commento le sentenze e rispetto l'autonomia e l'indipendenza della magistratura. Sul codice rosso c'è un impegno concreto", ribadisce. "Nessuna attenuante andrebbe riconosciuta nei femminicidi. Preoccupa l'orientamento di alcuni Tribunali che hanno dato pene ridotte riconoscendo motivi emotivi in chi ha ucciso". Lo afferma Francesca Chiavacci, presidente nazionale dell'Arci, commentando la sentenza del Tribunale di Genova che ha ridotto la condanna all'uomo che uccise la sua compagna. "Riconoscere - prosegue - condizioni quali la gelosia, la delusione, sottolinea la visione che nelle coppie la donna non è libera di scegliere di lasciare un uomo. E se lo fa in qualche modo viene giustificata l'estrema reazione dell'uomo. Il numero di femminicidi in Italia è rimasto pressoché invariato nonostante gli omicidi in assoluto siano diminuiti. L'emergenza è che si sta affermando un modello più culturale che giudiziario che nei rapporti tra uomo e donna fa sì che l'uomo si senta legittimato a uccidere quando qualcosa va storto. Purtroppo - conclude - simili sentenze alimentano questo schema che condanna tutte le donne".
«Angela era ambigua»: concesse le attenuanti al marito che l’ha uccisa. Il 52enne Pareja, condannato a 16 anni di carcere per omicidio, «ha agito come reazione al comportamento della donna, del tutto incoerente e contraddittorio», scrive Simona Musco il 14 Marzo 2019 su Il Dubbio. A tratti a subire il processo sembra essere la vittima. Cioè Angela Reyes Coello, 46 anni, uccisa lo scorso anno nella sua casa in via Fillak, a Certosa (Ge), dal marito, Javier Napoleon Pareja Gamboa, operaio di 52 anni. Per lui, a dicembre dello scorso anno, è arrivata una condanna a 16 anni in abbreviato, a fronte di una richiesta, da parte dell’accusa, di 30 anni. Ma a far discutere, ancora una volta, sono le parole utilizzate dal giudice, Silvia Carpanini, nel concedere le attenuanti all’autore del delitto. Perché «l’impulso che ha portato Pareja a colpire la moglie con il coltello è scaturito da un sentimento molto forte ed improvviso». Non è stata «la spinta della gelosia» ad armarlo, dopo un violento litigio con la moglie, ma «un misto di rabbia e di disperazione, profonda delusione e risentimento, il tutto acuito dai fumi dell’alcol, dalla stanchezza per il lungo viaggio e dal comportamento sempre più ambiguo di Angela». Insomma, un po’ è stata colpa sua. Perché non può sostenersi «che Pareja abbia dato semplicemente sfogo a una sua innata propensione alla violenza, certamente ha agito sotto la spinta di uno stato d’animo molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile». C’è da comprenderlo, dunque, perché quell’estremo gesto è stata la reazione al comportamento della moglie fedifraga, «del tutto incoerente e contraddittorio, che l’ha illuso e disilluso nello stesso tempo, l’ha indotto a uscire dal volontario isolamento in cui si era ritirato proprio per lasciare spazio alle sue scelte, con la promessa di un futuro insieme, ma tutto questo invano». Eppure, ammette la giudice, «non può parlarsi di provocazione». A svelare la storia è stato il Secolo XIX, che ieri ha pubblicato alcuni stralci della sentenza. Una decisione, commenta il legale della famiglia della vittima, Giuseppe Maria Gallo, che riporta al concetto di delitto d’onore. «Si tratta di una sentenza dura – commenta al Dubbio – anche perché non possiamo impugnare questa decisione, avendo ottenuto quanto avevamo chiesto: il risarcimento dei danni alla famiglia, che, comunque, non lo vedrà mai, essendo l’imputato nullatenente. Ho chiesto al pm – anche lei donna – di fare appello per una pena più equa, ma ha respinto formalmente la mia richiesta in quanto la sentenza, dice, è ben motivata». È toccato al legale, dunque, informare la famiglia sull’esito del processo. «Per loro è difficile capire – sottolinea – anche perché si insinua in questo alveo questo concetto della tempesta emotiva, questa apoteosi del nulla. È chiaro che il motivo scatenante di un omicidio di tipo passionale è quello, mi sembra tautologico. Non si può motivare in questi termini la scelta di infliggere quella pena. Forse il legislatore dovrebbe interrogarsi perché qui si producono effetti assimilabili al quelli del vecchio delitto d’onore. Questa situazione rischia di determinare un effetto boomerang, abbassa l’asticella al punto che l’idea di compiere un omicidio potrà essere valutata diversamente sapendo che ci si potrà schermare dietro questo tipo di concetti». La storia è quella di un rapporto tormentato, fatto di tradimenti da parte della donna, alcol e liti. L’uomo rientra a Genova dall’Ecuador la sera prima del delitto, dopo essere stato via per alcuni mesi proprio per via di una situazione diventata ormai insostenibile. Angela lo ha convinto a rientrare, pur senza aver davvero cambiato vita, secondo la ricostruzione avallata dalla giudice. Che rispetto a quanto avvenuto il giorno del delitto non fa che fidarsi principalmente della versione fornita da Pareja. «Appena giunto dall’Ecuador per ricongiungersi alla moglie si rende subito conto che la donna non è cambiata: beve ancora molto e la relazione» con l’altro uomo «non è affatto cessata. I due sono in casa, discutono, bevono e ancora discutono e, in un impeto d’ira, l’imputato afferra un groppo coltello in cucina e colpisce Angela con un unico fendente che perfora il polmone e ne determina in pochissimi minuti la morte». Pareja, prima di accorgersi della morte della moglie, va via di casa e viene ritrovato soltanto due giorni dopo, in stato confusionale e sporco di sangue. Confessa subito, cercando di convincere gli investigatori del fatto che la moglie «tenesse con le mani il coltello, quasi a volerlo attirare contro di sé, incitando il marito a colpirla». Una ricostruzione poco verosimile, scrive il giudice. Che però crede al resto. Agli insulti, ad esempio, quando lei gli avrebbe urlato di non essere abbastanza uomo da colpirla o gli avrebbe detto «di fare schifo». E poco incide, sulla decisione, il fatto che «Pareja sia un uomo di indole aggressiva, che tende a reagire in modo violento ai torti subiti». L’uomo è tornato in Italia «convinto dalle insistenze della moglie e non può che confidare che sia cambiata, pronta a ricominciare una nuova fase della loro vita coniugale. Ma Angela scrive il giudice – non è affatto cambiata e l’imputato se ne rende conto subito». Non è decisa, prima gli dichiara amore e poi disprezzo, facendo «impazzire il marito». Ed è d’altronde credibile che la donna, «completamente ubriaca, contraddittoria e incoerente come sempre» abbia provocato Pareja mettendo in dubbio la sua capacità di dimostrarsi uomo. Certo, ammette il giudice, «la scena non ha testimoni ma è indiscutibile che i toni della discussione si siano molto accesi e che la donna completamente ubriaca possa aver fatto o detto qualcosa». Nessun omicidio, salvo che per legittima difesa, è giustificabile, afferma infine il gup. Ma Pareja, che non ha premeditato il delitto e ha esaurito la sua disperazione con un unico colpo – mortale -, «non ha agito sotto la spinta di un moto di gelosia fine a sé stesso, per l’incapacità di accettare che la moglie potesse preferirgli un altro uomo, ma come reazione al comportamento della donna, del tutto incoerente e contraddittorio». Insomma, per colpa di Angela.
M. Ind. per “la Stampa” il 14 marzo 2019. «Ci sono omicidi e omicidi, anche un killer può in qualche modo fare pena. E pure a mio marito, che a volte mi chiede come sono possibili certe sentenze, spiego che le regole del diritto sono una cosa, le emozioni dell'opinione pubblica un'altra». Silvia Carpanini è il giudice del caso di Genova e accetta di spiegare il verdetto, seduta nel suo ufficio in tribunale.
Lei definisce «non incomprensibile» il comportamento di un uomo che ha ucciso una donna a coltellate. Non è inaccettabile come attenuante?
«Tutti commentano le sentenze e ne hanno la facoltà, in pochi conoscono sul serio i processi nei dettagli. Ribadisco: ci sono delitti che sono "meglio", altri che sono "peggio"».
E questo era «meglio»?
«L'imputato aveva già lasciato quella donna, era tornato in Sudamerica esasperato dal fatto che lei avesse una vita extraconiugale, diciamo, intensa, per lui umiliante. La ex lo ha supplicato di riprovarci, gli ha pagato il biglietto dell'aereo, hanno cenato e bevuto insieme poco dopo essersi riabbracciati. E poi è stato chiaro che, persino la notte precedente, l'amante aveva dormito con lei, proprio nella casa dove il marito stava rientrando, sebbene in precedenza gli avesse fornito tutt' altro tipo di rassicurazione».
È sufficiente per giustificare un massacro?
«No, tant'è che Javier Gamboa ha preso sedici anni, e mi pare che proprio nella sentenza sia rimarcata più volte la gravità del suo gesto. Semmai, quel che ha patito è sufficiente per compensare le aggravanti».
Contro il pronunciamento c'è una levata di scudi trasversale: Matteo Salvini, Mara Carfagna, la sinistra.
«Con tutto il rispetto per il lavoro dei giornalisti, tendo a non leggere i commenti alle sentenze, in particolare alle mie».
Come si fa a spiegare una scelta del genere a chi non è un giurista?
«Sarebbe bello se nessuna delle parti coinvolte in un processo avesse mai contraccolpi psicologici, ma può capitare e chi sceglie di fare il giudice lo mette in conto, sa che arriveranno momenti controversi. È il nostro lavoro: l'indignazione delle vittime è comprensibile, un po' meno l'enfasi strumentale degli avvocati, che lavorano ai fianchi sollevando certi polveroni. E ripeto: anche un assassino può fare pena».
Il killer quindi le faceva pena?
«Ha vagato per un paio di notti, si è lasciato catturare: per certi aspetti sì, faceva pena. Non ha premeditato per giorni il suo raid, non ha infierito con trenta coltellate come mi è capitato di vedere in altre occasioni molto più truculente».
Prima Bologna con l'attenuante della «tempesta emotiva», oggi Genova. Si re-interpretano in chiave più garantista i femminicidi?
«Ma figuriamoci. A parte che, giuro, non conosco il caso di Bologna, ricordiamoci che è doveroso per un magistrato valutare ogni dettaglio a monte d' un crimine. La legge prevede massimi e minimi di pena, altrimenti per un omicidio faremmo sentenze fotocopia: ergastolo o trent' anni, a prescindere dalla storia. Sarebbe più giusto?».
Quest'uomo ha straziato per gelosia una donna disarmata.
«Sì, ma insisto sul fatto che non tutti i casi sono identici: se un automobilista investe una famiglia sulle strisce, in pieno giorno, ubriaco, ha la stessa responsabilità di quello che guidava sobrio, di notte, in una strada senza illuminazione? E guardate che la mia è stata una decisione condivisa».
Cioè?
«Mi sono confrontata con il capo dell'ufficio (Franca Borzone, ndr) e abbiamo convenuto in pieno sull'impostazione e la compensazione attenuanti/aggravanti».
Le era già capitato di finire nel mirino di media e politica?
(Carpanini nel 2012 scontò la condanna a un giornalista accusato di violenza sessuale poiché la vittima, sua ex, lo aveva cercato «in piena notte andando a casa sua»). «Io ricordo solo due casi: l'assoluzione di alcuni 'ndranghetisti, e lì era una sottile questione teorica. E l'assoluzione dell'allora capo della polizia Gianni De Gennaro per i depistaggi sul caso Diaz e il G8. Lo ha manlevato pure la Cassazione. E comunque ogni processo ha una storia a sé».
Giusi Fasano per “il Corriere della Sera” il 14 marzo 2019. «Ho preso una decisione ponderata e l'ho motivata con una sentenza. Si tratta del libero convincimento di un giudice, non c' è niente di cui discutere e men che meno c' è da polemizzare. Ciascuno è libero di dire quel che ritiene, ovviamente, ma di certo io in questa polemica non ci voglio entrare». È sera e la voce di Silvia Carpanini arriva dalla sua casa di Genova, la città dove lavora come presidente aggiunto della sezione Gip.
Le motivazioni della sua sentenza stanno sollevando un polverone, lo sa vero?
«Guardi, non intendo giustificare quello che ho scritto. Basta leggere per capire che siamo dentro i confini del diritto, e per me è questo che conta. Del resto esistono strumenti precisi per esprimere contrarietà a una sentenza: se il pubblico ministero non è d' accordo può impugnarla».
Il ministro Salvini si è detto «senza parole» e dice che «chi ammazza così deve marcire in galera».
«Con tutto il rispetto, Salvini può pensarla come meglio crede. È evidente che io la penso diversamente. La gente è libera di criticare, fare, anche ritenere discutibile la mia decisione, per carità. Ma vale sempre e per tutti il fatto che bisognerebbe conoscere bene i casi prima di criticare...».
Lei ha concesso le attenuanti generiche all'assassino perché la sua è stata una «reazione al comportamento della donna» che lo avrebbe «illuso e disilluso».
«Scusi. Questo signore se n'era andato volontariamente in Ecuador proprio per lasciare spazio alle scelte della moglie. Lei lo fa tornare promettendogli un futuro e lui scopre invece che praticamente c'era l'amante in casa. Tutto nel giro di poche ore. Era un caso in cui non erano mai state contestate né la premeditazione né i futili motivi. Niente può giustificare un omicidio, è chiaro. Ma c' è omicidio e omicidio, c' è dolo e dolo».
Qui di che dolo parliamo?
«Ho ritenuto che si trattasse di dolo d' impeto e ritengo di aver motivato nel dettaglio la mia decisione. Punto. Sto già andando oltre: non è una difesa della mia scelta perché non c' è nulla da difendere. E poi dov' è scritto?».
Cosa?
«Non è scritto da nessuna parte che le attenuanti generiche non si debbano dare per i casi di omicidio. Devono essere date in relazione alle circostanze del reato e io ho semplicemente applicato norme che il codice prevede e l'ho fatto in modo argomentato.
Non tutti gli omicidi prendono 30 anni di pena».
Le attenuanti facevano la differenza per determinare la pena, però.
«È vero. E infatti sono state al centro della discussione».
Quando ha depositato la sentenza?
«Prima di Natale. Stamattina (ieri, ndr) quando mi hanno chiesto di quel caso e mi hanno detto che se ne discuteva sono cascata dalla luna».
Dopo Bologna e l'ormai famosa «tempesta emotiva» una sentenza come la sua non passa inosservata. Lei ha letto del caso bolognese?
«Solo qualche titolo e non intendo commentare».
Si è parlato allora e si parla adesso di ritorno al delitto d' onore.
«Non c' entra assolutamente niente. Comunque: tutta questa polemica non mi sconvolge, non è la prima e non sarà l'ultima. Quel che per me è certo è che un processo non debba essere esemplare».
SE A VIOLENTARE È UNA DONNA NON È STUPRO, scrive Francesco Borgonovo per “la Verità” il 13 marzo 2019. Può darsi che la questione sia vagamente brutale, ma provate a rifletterci un secondo: che cosa sarebbe successo se la professoressa di Prato fosse stata un professore? La vicenda di cronaca è nota. Una donna di 35 anni - sposata e con un figlio di 7 anni - dava ripetizioni a un minorenne. La signora era una «amica di famiglia», ma invece di aiutare il ragazzino a imparare l'inglese aveva rapporti sessuali con lui, lo tempestava di messaggi d' amore e di gelosia. Di più: la relazione sessuale è sfociata in una gravidanza, e infatti la donna è diventata di nuovo mamma di un bambino che ora ha 5 mesi. Il padre, lo ha rivelato l'esame del Dna, è proprio lo studente a cui dava ripetizioni. Un adolescente che aveva 13 anni quando la tresca proibita è iniziata e ora ne ha compiuti 14. I media italiani, da giorni, trattano tutta questa vicenda come una storiella pruriginosa, boccaccesca. Come una curiosità morbosetta tipica della provincia. Sulla trentacinquenne non abbiamo letto editoriali furenti, commenti indignati, tirate moralistiche. Eppure la legge italiana parla chiaro. L' età del consenso è fissata a 14 anni. E già è un limite sorprendente. In altri Paesi, di solito considerati più «liberali», le soglie sono più alte: in Svezia l'età del consenso è 15, in Finlandia, Belgio, Olanda e Gran Bretagna è 16 anni. In Italia, al di sotto dei 14 anni, c' è reato anche se il minorenne è consenziente. Le pene vanno dai 5 ai 10 anni di reclusione. Certo, una eventuale condanna può essere ridotta di due terzi a seconda del rapporto che esiste tra il maggiorenne e il minorenne. Bisogna considerare se sia affettivo a meno, quali siano le condizioni fisiche e psicologiche del minore, quale sia il «grado di coartazione esercitato sulla vittima», eccetera. In ogni caso, parliamo di un reato, e anche piuttosto grave. Una forma di violenza che una donna di 35 anni ha esercitato su un minorenne, che per altro le era stato affidato da amici. Come mai, allora, non siamo sommersi da una pioggia di indignazione? Ripetiamo la domanda: che sarebbe accaduto se un uomo di 35 anni avesse avuto rapporti con una sua allieva tredicenne? Di sicuro avremmo visto fior di trasmissioni televisive sul tema. Avremmo sentito parlare della violenza connaturata al maschio, si sarebbe discusso per l'ennesima volta delle molestie di cui le donne sono vittime. Di sicuro, qualcuno sarebbe giunto a invocare la castrazione chimica. Però, nel caso di Prato, a commettere un reato è stata una donna. E allora tutto diventa meno grave, meno sgradevole, meno sconvolgente. La violenza non è più una violenza, ma una vicenda curiosa, che turba ma nemmeno troppo. Perché, si sa, l'uomo - a qualunque età - è comunque un assatanato, il rapporto gli fa piacere comunque, anche se è minorenne. Se la vittima è un maschio, non è una vittima.
Per le femministe è inaccettabile 16 anni di carcere per un femminicidio, mentre è accettabilissimo 16 anni di carcere per un infanticidio…
Caso Cogne, Franzoni è libera: pena scontata. 16 anni ridotti a 10 per indulto e buona condotta. Era stata condannata per l'omicidio del figlio Samuele di tre anni, morto il 30 gennaio 2002. Dal 2014 era ai domiciliari. Aveva ottenuto il beneficio del lavoro esterno in una coop sociale e alcuni permessi per stare a casa con i due figli. Il più piccolo era nato un anno dopo il delitto, scrive il Fatto Quotidiano il 7 Febbraio 2019. Nel 2008 era stata condannata a 16 anni di carcere per l’omicidio del figlio Samuele ma “da fine settembre o inizio ottobre” Annamaria Franzoni è tornata in libertà. La pena si è ridotta a poco più di 10 anni di reclusione grazie a tre anni di indulto e ai 45 giorni di ‘sconto‘ per buona condotta ottenuti ogni sei mesi trascorsi sia in carcere che ai domiciliari. “La notizia – aggiunge l’avvocato Cristiano Prestinenzi che la difende insieme ai colleghi Paola Salvio e Lorenzo Imperato – si è saputa solo adesso, con diversi mesi di ritardo, anche perché la nostra assistita voleva mantenere il massimo riserbo”. Savio aggiunge poi che “il raggiungimento del fine pena non deve suscitare stupore”, visto che “si tratta di un calcolo matematico frutto dei benefici penitenziari di legge che prevedono 45 giorni di sconto di pena ogni semestre di detenzione patito”. Dal 2014 Franzoni si trovava ai domiciliari. Condannata nel 2008 a 16 anni per l’omicidio del figlio Samuele di tre anni, a Cogne, in Valle d’Aosta, il 30 gennaio 2002, nelle scorse settimane è stata informata dal tribunale di sorveglianza di Bologna che la sua pena è espiata. Torna in libertà con mesi di anticipo rispetto alle previsioni grazie alla buona condotta. Da giugno 2014 era ai domiciliari a Ripoli Santa Cristina, sull’Appennino bolognese. Franzoni, che si è sempre proclamata innocente, era stata condannata in via definitiva il 21 maggio 2008, quando la Cassazione aveva confermato la sentenza della Corte d’Appello di Torino: la stessa notte era entrata nel carcere di Bologna, dove è rimasta fino al 2014. Poi è rimasta per quasi cinque anni ai domiciliari, ottenendo però il beneficio del lavoro esterno in una coop sociale e alcuni permessi per stare a casa con i due figli. Il più piccolo era nato un anno dopo il delitto. Il processo – È il 30 gennaio 2002 quando il piccolo Samuele, di appena tre anni, viene ucciso nella villetta di Montroz dove vive con i genitori e il fratellino. I soccorritori, chiamati dalla madre, Annamaria Franzoni, lo trovano con gravissime ferite alla testa: il piccolo morirà poco dopo. Annamaria viene accusata dell’omicidio del figlio, che è stato ripetutamente colpito da un corpo contundente, ma si proclama innocente fin dall’inizio e non cambierà mai versione. Dal 14 al 30 marzo 2002, la mamma di Samuele viene rinchiusa nel carcere di Torino, per essere poi scarcerata su decisione del Tribunale del riesame che accoglie il ricorso presentato dal legale della donna. Per il Tribunale gli indizi non sono sufficienti, ma la decisione viene a sua volta annullata il 10 giugno dalla Cassazione, che rimanda tutto ad un nuovo collegio giudicante del Tribunale della libertà che questa volta, il 4 ottobre del 2002, dichiara valido l’ordine di custodia per la Franzoni. La perizia psichiatrica – Poco dopo la procura di Torino apre un fascicolo, il cosiddetto ‘Cogne bis’, in cui si ipotizza la creazione di false prove: 11 gli indagati, fra cui i Lorenzi e il loro legale. Del caso principale si torna a parlare il 2 novembre, quando l’avvocato Taormina presenta il ricorso in appello. Il secondo grado di giudizio si apre il 16 novembre 2005 nel tribunale di Torino. La battaglia inizia già dalla prima udienza, quando il pg Vittorio Corsi chiede una nuova perizia psichiatrica che viene depositata nel mese di giugno. I periti, che hanno lavorato solo sulle carte e sulle registrazioni di alcune trasmissioni televisive perché Franzoni ha rifiutato di sottoporsi a un nuovo esame, concludono per un vizio parziale di mente e parlano di “stato crepuscolare orientato”. Annamaria era stata interrogata qualche giorno dopo l’inizio del dibattimento e ancora una volta ai giudici aveva ribadito la sua innocenza. Nuovi sopralluoghi, perizie neurologiche e tecniche, interrogatori e colpi di scena caratterizzano anche il processo d’appello che si protrae per oltre un anno e mezzo. Il legale Carlo Taormina nel novembre 2006 rinuncia al mandato in aperta contestazione con la Corte e con quella che per lui, come ha ripetuto più volte, è “una sentenza già scritta”. Prima che il provvedimento diventi definitivo, il gip aostano, però, lo ritira per cessate esigenze cautelari. La donna resta indagata a piede libero. A difenderla, ora, c’è l’avvocato Carlo Taormina che il 25 giugno 2002 la famiglia Franzoni include nel collegio difensivo, provocando l’uscita di scena di Carlo Federico Grosso, che l’aveva assistita subito dopo il delitto. Intanto, l’8 aprile 2002, Annamaria a Novara incontra i periti incaricati di accertare la sua capacità di intendere e di volere. La perizia stabilirà che Annamaria è sana di mente e che lo era anche al momento dell’omicidio. La condanna – Il 19 luglio 2004 il gup di Aosta, Eugenio Gramola, condanna la mamma di Cogne a trent’anni di carcere, il massimo della pena previsto con il rito abbreviato (scelto dalla difesa). Per Annamaria, che nel frattempo ha avuto un nuovo figlio, Gioele, però non si aprono le porte del carcere. Insieme al marito Stefano Lorenzi e ai due figli si ‘rifugia’ nel paese natale, protetta dalla famiglia che non ha mai smesso di credere nella sua innocenza, e aspetta l’appello. A fine di luglio l’avvocato Taormina consegna un esposto alla guardia di finanza di Roma a nome dei Lorenzi. Nel documento viene fatto il nome di quello che, secondo la difesa, sarebbe il vero assassino. D’ora in avanti sarà un legale d’ufficio ad occuparsi del processo, l’avvocato Paola Savio, che dopo qualche mese diventa avvocato di fiducia. Il procuratore generale, Vittorio Corsi e l’avvocato Savio si confrontano per due udienze ciascuno. Il primo, al termine di una requisitoria durata diverse ore, nella quale, uno dopo l’altro, analizza tutti gli elementi ‘clou’ del processo, dall’arma del delitto (mai trovata), al pigiama, dagli zoccoli, al calzino mancante, al ruolo che la famiglia Franzoni ha svolto negli anni in cui si è dipanata la vicenda, chiede, per Annamaria la conferma della sentenza di primo grado, 30 anni, non senza prima averla invitata a confessare ed aver invocato la ‘pietas’ della Corte. L’avvocato difensore risponde con due giornate di arringa durante le quali ribatte punto per punto alle affermazioni dell’accusa e al termine chiede l’assoluzione piena per la sua cliente. Qualche giorno dopo il pg replica, conferma la sua accusa e chiede nuovamente ad Annamaria il coraggio della confessione, mentre la difesa il coraggio lo chiede alla Corte. La parola fine tocca, però ad Annamaria. Tra le lacrime ribadisce la sua innocenza e chiede giustizia. La Corte però decide diversamente e dopo oltre 9 ore di Camera di Consiglio la condanna a 16 anni per l’omicidio del figlio (13 con l’indulto). Contro la sentenza, i legali presentano ricorso in Cassazione che verrà respinta il 21 maggio 2008 confermando la sentenza emessa poco più di un anno prima dalla Corte d’Assise di Torino. Anna Maria Franzoni aspetta la sentenza a Ripoli Santa Cristina, sull’Appennino tosco-emiliano, a casa di un’amica. La detenzione e i domiciliari – E a casa la raggiungono i carabinieri per notificarle l’arresto e trasferirla in carcere a Bologna. Il 5 settembre 2012 viene respinta la sua richiesta di avvalersi degli arresti domiciliari. Il 10 dicembre 2013, Franzoni ripropone la richiesta al Tribunale di Sorveglianza di Bologna una nuova richiesta di assegnazione ai domiciliari. È in questo contesto che viene ordinata l’ultima perizia psichiatrica, quella che, riguardo al rischio di recidiva, sostiene che la donna sia ‘socialmente pericolosa’. Di parere opposto, invece, le conclusioni del consulente della difesa, professor Pietro Pietrini. In seguito viene depositata l’integrazione della perizia, richiesta dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna, in base a cui per Franzoni c’è la possibilità di risocializzazione, dentro ma anche fuori dal carcere. Nel giugno 2014 il Tribunale di sorveglianza concede i domiciliari a Franzoni, che dal 7 ottobre 2013 lavora in una cooperativa sociale legata al carcere Dozza di Bologna, dove cuce borse, astucci e altri accessori. Nei giorni scorsi finisce di scontare definitivamente la pena, con anticipo grazia a degli sconti di pena.
DUE PESI E DUE MISURE.
Ufficiale donna della Marina dice "bamboccio" a un collega dell'Esercito. Condannata. Un caso di bullismo al femminile nelle Forze armate. Lo ha deciso la Corte d'Appello militare di Roma. Dovrà versare tremila euro alla Cassa delle ammende, scrive il 4 marzo 2019 La Repubblica. "Non ti meriti il mio saluto, bamboccio … anzi, quasi quasi ti mando a fare in c."... Per questa offesa, rivolta un tenente di vascello dell'Esercito, una donna ufficiale di Marina, al termine di un lungo iter giudiziario, è stata condannata in via definitiva al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di tremila euro alla Cassa delle ammende. E' il portale infodifesa.it a ricostruire la vicenda. La Corte militare di appello di Roma aveva confermato la sentenza emessa nel 2017 dal Tribunale militare di Napoli che condannava a tre mesi di reclusione la donna, tenente di vascello della Brigata San Marco, per aver offeso il decoro di un tenente del Genio Militare, pronunciando quelle frasi ingiuriose nei suoi confronti. La vicenda è arrivata in Cassazione, ma per l'ufficiale di Marina c'è stata la conferma del verdetto d'appello. La Suprema Corte ha infatti rigettato il ricorso della donna ufficiale, ritenendolo infondato.
La Cassazione sul "Me Too" della soldatessa: niente sconti all'ufficiale che l'ha offesa. I supremi giudici: "Basta con insulti e allusioni sessuali nei confronti delle donne in divisa da parte dei loro superiori e commilitoni, colpiscono la dignità della persona e la funzionalità delle Forze armate". Confermata la condanna a tre mesi per ingiuria aggravata, scrive il 4 marzo 2019 La Repubblica. Pieno appoggio della Cassazione al 'Me too' che si leva dalle caserme. Basta con insulti e allusioni sessuali nei confronti delle donne in divisa da parte dei loro superiori e commilitoni, questi comportamenti - avvertono i supremi giudici - non meritano sconti e attenuanti perché oltre ad offendere la dignità di chi li riceve, minano quelle regole di comportamento "la cui osservanza è strumentale alle basilari esigenze di coesione e, dunque, di funzionalità delle Forze Armate". Così gli 'ermellini' hanno confermato la condanna a tre mesi di reclusione per ingiuria aggravata - pena sospesa - per un ufficiale che a mensa aveva esortato una soldatessa ad "effettuare un rapporto sessuale orale a un militare presente". La donna caporalmaggiore aveva subito lasciato il tavolo. Per la Cassazione frasi del genere non sono una "amenità" come sostenuto dall'ufficiale ma hanno un "significato spregiativo penalmente rilevante" e sono una "offesa alla dignità della persona" e i militari sono tenuti "a una più rigorosa osservanza di regole di comportamento, anche di comune senso civico". Oltre all'offesa, la soldatessa che ha denunciato l'ufficiale imputato in questa vicenda - Armando Tateo di 42 anni con un precedente penale e una pluralità di punizioni disciplinari all'attivo - ha dovuto subire anche l'omertà degli altri militari seduti allo stesso tavolo e che avevano assistito "all'uso di un linguaggio tanto volgare e arrogante" ma in dibattimento avevano "negato di avere udito la frase offensiva". Per uno degli 'omertosi', racconta il verdetto della Cassazione, è stato possibile contestargli di aver mentito su come erano andate le cose dato che "in sede di indagini aveva raccontato il medesimo episodio" riferito dalla soldatessa "ed aveva riportato le identiche parole ingiuriose". In sostanza i commensali presenti si erano limitati a dire che la soldatessa "era andata via colpita e innervosita" e il maresciallo al quale si era subito rivolta confermava che quello era il racconto fatto dalla donna "nell'immediatezza del fatto". In primo grado il Tribunale militare di Verona nel 2015 aveva negato la concessione delle attenuanti all'ufficiale e la stessa cosa ha fatto la Corte d'appello militare di Roma che nel 2018 ha escluso che il fatto possa considerarsi di "particolare tenuità" in considerazione "del disprezzo dimostrato e della indifferenza verso il proprio grado", inoltre il precedente penale e le punizioni subite impedivano altri benefici "oltre la sospensione condizionale della pena". Ora la Cassazione ha reso vano anche l'ultimo tentativo dell'ufficiale di screditare la soldatessa dicendo che la reazione della donna era solo "il rifiuto del racconto a sfondo erotico che lui stava facendo ai commensali" e che il contesto di "particolare amenità" doveva indurre a concedergli le attenuanti. Gli 'ermellini' - che hanno dichiarato inammissibile il ricorso dell'imputato condannandolo anche a pagare tremila euro alla Cassa delle ammende - hanno replicato che le "contestazioni effettuate in dibattimento hanno consentito di verificare che quanto accaduto alla persona offesa era stato ben avvertito dai presenti".
Islam, la moglie musulmana: "Per il Corano non è stupro, la donna è proprietà". Il video che indigna il mondo, scrive l'11 marzo 2019 Libero Quotidiano. Sta facendo il giro del mondo il video di un’irachena, moglie di un jihadista, che giustifica gli stupri commessi ai danni delle donne yazidi. "Non si tratta di stupro, visto che loro sono di nostra proprietà, per l'Islam sono schiave. Chi sono io per mettere in dubbio il libro sacro?". L’attenuante dunque verrebbe proprio dal Corano, in particolare da alcuni versetti. Peccato però che lei il testo sacro non l’abbia mai letto, come ammette nei minuti successivi del video. Gli yazidi sono considerati dai fondamentalisti islamici degli "adoratori del diavolo" perché le loro pratiche si rifanno ad antichi culti mediorientali. Dunque le loro donne sono state rapite e usate come schiave costrette a soddisfare gli appetiti sessuali degli jihadisti. Follia su follia dunque.
Chi sono gli uomini che picchiano le donne. Normali, misogini, sadici. Sono padri, mariti, ma prima di tutto figli. Non riescono ad amare e maltrattano le partner per vendetta. A volte, accettano di essere aiutati, ma non prima di aver negato qualsiasi responsabilità. Le ammissioni arrivano centellinate, ma quando il velo si spezza, il percorso può dar loro di nuovo la dignità, scrive Elena Testi il 7 marzo 2019 su L'Espresso. Attende il momento giusto. Si apposta. Tra le mani un bastone. La osserva da lontano, poi si avvicina e colpisce. Una volta, due volte. Continua fino a quando lei non sviene. L’asfalto accoglie il corpo offeso dalla violenza. Lui scappa, sentendo degli occhi indiscreti pronti a fermare quello che si potrebbe tramutare in un omicidio. Sale in auto e va in commissariato. «L’ho picchiata», confessa in un atto liberatorio. «Mi aveva lasciato», spiega. Un’ossessione costante per quella donna, arrivata da un posto lontano. Prima stalker, poi aggressore, subito dopo carcerato. E infine pronto a un percorso di riabilitazione. Uomini normali, uomini misogini, uomini sadici. Padri, mariti, ma prima di tutto figli. Non c’è età. Il motivo, a volte, rimane sconosciuto. Bisogna prendere il loro passato, stenderlo in lunghe sedute di psicoterapia per comprendere da dove e chi ha innestato il virus dell’odio contro le donne che sfocia in offese ripetute, in percosse, in atteggiamenti ossessivi. Secondo gli ultimi dati forniti dall'Istat sono 2 milioni e 800 mila le vittime di violenza da parte di un partner o un ex partner. Una mattanza in crescita che può arrivare all'atto più brutale: il femminicidio. Percorrono i corridoi del Centro di Ascolto per Uomini Maltrattanti, a volte spinti dalle stesse vittime, in altri casi, rarissimi, capiscono da soli che esiste un problema. Accettano di essere aiutati, ma non prima di aver negato qualsiasi responsabilità. Le ammissioni arrivano centellinate, ma quando il velo si spezza, il percorso può dar loro di nuovo la dignità di padri, mariti, fidanzati.
Ha più di 30 anni e la tendenza a distruggere ogni rapporti per gelosia retroattiva. Il problema è la presenza degli ex fidanzati. «Duro massimo un mese, poi non riesco ad andare avanti. Voglio imparare ad amare», si è presentato così subito dopo aver pronunciato il suo nome. Colto, raffinato, ma schiavo dell’antica pretesa che una donna deve essere illibata, pura e casta. Difficile distruggere i costrutti mentali, l’arcaica visione. «Si sentono vittime delle donne che hanno al loro fianco – spiega Andrea Bernetti, responsabile del Centro di Ascolto per Uomini Maltrattanti –, picchiare e offendere diventa una vendetta del loro sentirsi oppressi e non oppressori». La violenza trova una giustificazione, un appiglio per essere legittima. Nelle menti di questi uomini incapaci di amare si instilla la certezza di non essere loro gli aguzzini.
Ha più di 40 anni, una carriera brillante, si innamora e dopo quattro anni di relazione, sposa una donna che ha un figlio. Neanche un anno e lei si tramuta in una zavorra da «mantenere», un essere che «è non in grado di allevare quel figlio avuto da una precedente relazione», una donna che gli ruba il tempo, prima dedicato a «cena, uscite con gli amici, aperitivi». Ma lui non ha colpa delle percosse, degli insulti costanti, lui è l’unica vittima. E allora capire il problema diventa difficile, anzi difficilissimo. In alcuni casi quasi impossibile. Il più delle volte sono figli calpestati da genitori poco attenti o violenti. Crescono con l’esempio di un padre che ha vessato la madre, credono che lo schema uomo-padrone e donna-sottomessa possa essere ripetuto, poi le certezze si sgretolano di fronte alla realtà. Il contesto economico non ha importanza: ricchi o poveri, tutti possono essere violenti. La combo letale si manifesta per motivi socio-culturali e, in alcuni casi, relazioni complesse con le proprie compagne.
Ha poco più di trenta anni. È fuggito per il terrore di entrare in un giro sbagliato. Alla violenza fisica preferisce la distruzione di tutto ciò che lo circonda. Non conosce limiti, non ha regole. È convinto che la madre dei suoi figli debba vivere ai margini: non parlare, non intromettersi nelle scelte, non lavorare. La rabbia è costante. Il punto di rottura arriva quando, lei esasperata, chiama il 112. Arrivano i carabinieri e trovano la casa completamente distrutta. I figli vengono portati in una casa famiglia. Lui decide di andare al Centro, lei non lo lascia. Iniziano il percorso insieme. Ma non sempre c'è chi è in grado di perdonare. L'amore per sé stessi e per i figli prevale.
C’è lui, sadico, ipnotizzato dalla distruzione. L’infanzia con una madre che non ha concesso nulla, neanche un incoraggiamento. Inizia una storia con l’intento di maltrattare ogni donna. Una vendetta che si consuma in mesi di sdegno, valige gettate dalla finestra e poi un repentino pentimento che dura il tempo di ricominciare il gioco dall’inizio. Il suo odio lo porta a non riconoscere l’autorità del genere femminile. Ed eccolo mentre rimane muto davanti alla psicologa oppure la paga e fugge via o la insulta per il gusto di farlo. «Molti – sottolinea sempre Andrea Bernetti – si sentono destabilizzati di fronte all’emancipazione femminile, comprendono che questa epoca ha tolto loro il potere dell’autorità. Usano la forza per riportare la società a uno stadio embrionale in cui l’uomo per sentirsi tale non ha bisogno di dimostrare nulla». La donna viene vista madre, oggetto di tentazione, un cosa da possedere senza contraddittorio.
Ha preso una mazza. Ha iniziato a colpirla in testa. La paura costante che lei potesse tradirlo. È un messaggio spedito da un collega che fa esplodere definitivamente la frustrazione. Il tormento diviene quotidiano, fino a quando la maestra del figlio non si rende conto dell’inaspettato. Lui ha tentato la cura, ma la presenza di uno spettro costante lo ha reso prigioniero. Ogni regalo, una violenza se non ripagato con gratitudine. Ogni sorriso, l’inizio di un litigio se percepito poco sincero. Lei è stata contretta ad andare in una casa rifugio.
È un bollettino di guerra senza armistizio. Sono solo cinquanta gli uomini che hanno deciso quest'anno di capire come fermare la violenza. «Non si può costringere nessuno – chiosa Andrea Bernetti – ma forse in alcuni casi si potrebbe dare una scelta a queste persone. Chiedere loro se intendono intraprendere un percorso». Ma ancora sembra esserci spazio solo per raptus o “tempeste emotive”, come nella sentenza della Corte d'Appello di Bologna per il femminicidio di Olga Matei.
A destra e a sinistra il machismo è trasversale. Figure paterne come quella invocata da Prodi. Grandi conquistatori alla Berlusconi. Leghisti circondati da deputate obbedienti. Partitelli di sinistra intasati dai maschi. E le donne sono le grandi assenti della politica, scrive Giulia Blasi il 28 febbraio 2019 su L'Espresso. Romano Prodi dice che l’Italia e il Pd hanno bisogno di un padre. Una figura «[…] autorevole, che sappia finalmente ascoltare, riconciliare, tranquillizzare ma anche decidere». È il 2019, e a fronte della crisi dei progressisti in tutto il mondo e della necessaria ridiscussione dei modelli a cui siamo ancorati, lo stato della sinistra in Italia si riassume ancora così: in un dialogo che assimila la leadership alla figura paterna. Un affare fra maschi, in cui il potere del padre si manifesta nella sua accezione più benevola, ma non per questo meno tossica. Sparare sul Pd è uno sport molto diffuso, di questi tempi, per la logica secondo cui c’è più gusto a prendere a calci la gente quando è a terra. E che il Partito Democratico di errori ne abbia fatti, e clamorosi, anche e soprattutto in materia di inclusione attiva di donne e minoranze, è un dato che pochi, a questo punto, si sentono di discutere: da un partito relativamente giovane, fondato poco più di una decina di anni fa, era legittimo aspettarsi che fosse più ricettivo rispetto ad altri alla creazione di un nuovo genere di leadership, più diffusa, più collegiale, piuttosto che alla riproposizione delle solite vecchie dinamiche di cooptazione, allargate di quando in quando alle donne disponibili e disposte a fare da gregarie. Quando il Pd arriva sulla scena, Berlusconi ha già imposto il modello del partito personalistico, in cui il leader sostituisce le idee. È un modello in cui le donne sono organiche alla visione di un capo che propone e dispone (con metodi di selezione più o meno discutibili). Forza Italia è un partito padronale e funziona, ma avvelena il terreno della discussione politica, lo intossica di un machismo intollerabile. Per far fronte a Berlusconi bisogna essere più Berlusconi di lui, e nessuno ce la fa. Oppure bisogna batterlo sul terreno dell’autorevolezza, della fermezza, della capacità di tenere il punto. E qui ritorna Romano Prodi, unico vero avversario dell’allora Cavaliere e unico in grado di batterlo: Prodi. Eppure è in quella classe dirigente preparata e bonaria ma incapace di autocritica profonda che è annidato il nocciolo del problema: una classe dirigente competente quanto incapace di esaminare se stessa e il maschilismo da cui è inevitabilmente affetta. «Se ci sono donne nel Pd si facciano avanti»: quella lanciata da Carlo Calenda su Twitter è quasi una sfida, forte di una posizione di privilegio più o meno consapevole. L’assunto è che se non si fanno avanti è perché non ci sono, non mostrano il carisma e la visione necessarie a farsi leader: questo è il pensiero dominante in un partito che anno dopo anno ha continuato a riproporre una visione della politica maschile e maschiocentrica, in cui le donne erano poco più che un punto nel programma, più che altro alla voce “mamme”.
Se a sinistra la visione è questa, figuriamoci se è possibile lamentarsi dello squilibrio di genere in partiti come la Lega di Salvini, che non si fa problemi a mostrare aperto disprezzo per le donne in generale e le femministe in particolare. Gli esempi non mancano - dal fantoccio di Laura Boldrini esibito alla manifestazione fino alle più recenti dichiarazioni sulla volontà di promuovere una legge contro la violenza di genere “dopo anni di chiacchiere femministe”, appunto - ma per chi ancora nutrisse dei dubbi dovrebbe essere sufficiente la lettura integrale dell’agghiacciante Ddl Pillon sull’affido condiviso. Dalla gestione Salvini della fu Lega Nord non dobbiamo aspettarci molto più che la cooptazione di donne disposte a non mettere mai in discussione lo status quo: efficienti ancelle del potere costituito, saldamente in mano ai maschi. Se non altro Berlusconi ha fiuto per capire da che parte tira il vento, ed è più bravo a lasciare le briglie sul collo alle donne del suo schieramento. Prima di tutte Mara Carfagna, emersa trionfante dalla stagione delle “vergini offerte al drago” grazie a considerevoli doti personali e a una certa eleganza comunicativa. Stiamo comunque parlando di un partito verticistico, il cui impianto ideologico è stato creato dallo stesso uomo che fra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80 ha riempito la televisione italiana di donnine seminude e ammiccanti, non persone desideranti ma oggetti di un desiderio superficiale. A Berlusconi dobbiamo, fra le altre cose, l’abolizione delle norme che impedivano le cosiddette “dimissioni in bianco” da far firmare all’attivazione di un contratto con una dipendente, in caso questa rimanesse incinta, e la legge 40 sulla fecondazione assistita, da allora dichiarata più volte incostituzionale ma rimasta intatta nel nostro ordinamento. Leader non si nasce, si diventa, ma nessuno si improvvisa o può figurarsi leader se non ha modelli di riferimento in cui rivedersi. Il meccanismo di selezione delle candidature all’interno del Movimento 5 Stelle, quelle Parlamentarie aperte a chiunque, ha contribuito ad aumentare il numero di donne nelle due Camere, ma non sembra avere inciso sull’indirizzo apertamente misogino del governo. Al momento gli unici due partiti a leadership femminile sono Fratelli d’Italia, guidato da Giorgia Meloni, e Possibile, che dopo le dimissioni del fondatore Civati ha eletto segretaria Beatrice Brignone. Entrambi sono partiti di minoranza, con Fratelli d’Italia che presenta un impianto sostanzialmente identico a quello della Lega nei contenuti se non nei metodi, e Possibile che paga la partecipazione all’esperienza fallimentare di LeU, una formazione annunciata al mondo da una stretta di mano fra quattro uomini e una serie di uscite più che rivelatrici da parte di Pietro Grasso, altra figura paterna scelta per condurre il gregge.
È l’assenza del femminismo, l’ostinazione nel considerarlo un movimento di frangia, a pesare più di tutto nel rapporto fra la politica italiana e le donne. Femminismo come pratica di inclusione, come cultura di riferimento intorno a cui modellare l’azione, il linguaggio, lo stile di leadership. Ci si raggruppa, invece, sperduti, intorno a quello che è più bravo a fare la voce grossa. Si confonde la partecipazione femminile con le mancette elettorali. “Donne! Venite con noi!” gridava Maurizio Martina dal palco di Piazza del Popolo, non più tardi di settembre 2017. Da allora, non ci si è ancora chiarito il perché. Alla faccia della parità.
Giulia Bongiorno: «A tutte le donne di destra dico di lottare per la parità», scrive giovedì, 07 marzo 2019, Il Corriere.it.
Ministro o ministra?
«Ministro. È un ruolo. Mi pare una deminutio declinarlo in base al genere. Avvocato, non avvocata».
Ministro Bongiorno, la Lega l’ha portata in Parlamento e al governo. Ma i leghisti di Crotone vorrebbero le donne in casa a fare figli e tacere.
«Una premessa. Veniamo da secoli di legislazioni sempre contro le donne. Ci dobbiamo rendere conto che a tutte noi donne tocca una serie di battaglie per la parità effettiva».
Lo dica ai suoi compagni di partito.
«Mi riferivo a chi condivide quel manifesto: per me è sbagliato lasciare queste battaglie alla sinistra. Spesso si dice che la sinistra è più attenta alla libertà delle donne, all’autodeterminazione, alla parità assoluta, e che la destra lascia più spazio al ruolo della donna tradizionale. Il manifesto di Crotone si inquadra in questa idea: le donne di destra le dobbiamo valorizzare nell’ambito della famiglia come angelo del focolare».
E le pare giusto?
«No, e sono ben contenta che Salvini dopo mezzo minuto si sia dissociato da una serie di affermazioni. Quello che vorrei dire a tutte le donne di destra è che non dobbiamo avere timore di perdere la nostra identità, rivendicando i nostri diritti di donne. È la storia della legislazione a dirci che queste battaglie si devono fare».
La politica italiana è maschilista?
«Sì. Verso le donne c’è un accanimento particolare. Quando da presidente della Commissione Giustizia diedi la priorità alla legge contro lo stalking, me ne dissero di tutti i colori; come se odiassi gli uomini o avessi una vendetta da prendermi. Altri tentarono di ridicolizzare il provvedimento, come se fosse rivolto contro gli innamorati e i corteggiatori. A molte donne, di destra e di sinistra, dalla Carfagna alla Boschi, hanno detto anche di peggio. Ma in quella circostanza scattò una catena di solidarietà: Mara Carfagna era ministro del Pdl alle Pari Opportunità, e lavorò con Donatella Ferranti del Pd».
Ricorda altri esempi di trasversalità?
«Purtroppo me ne viene in mente uno solo: la legge che porta il nome di Lella Golfo, allora Pdl, e di Alessia Mosca del Pd, che ha aperto alle donne i consigli d’amministrazione delle società quotate».
Perché gli esempi di solidarietà femminile sono così rari?
«Gli uomini quando devono raggiungere un risultato riescono a coalizzarsi. Le donne invece hanno quest’ansia di chiarezza e trasparenza, per cui prima di raggiungere il risultato devono specificare alla collega che non la pensano esattamente come lei o anche solo che le sta antipatica. Nei gruppi di donne è facile che si arrivi a una frattura. Per questo dal femminismo in poi le donne non hanno più fatto grandi battaglie».
Non è che la Lega in particolare è maschilista?
«L’Italia in generale è maschilista. La mia parte politica ha questa etichetta. Una delle ragioni per cui ho seguito il progetto di Salvini, oltre al fatto che non era più limitato al Nord, è che parlando mi sono ritrovata a pensarla come lui».
Anche sui diritti delle donne?
«Sì. Ad esempio Salvini era molto interessato alla legge che con Michelle Hunziker abbiamo chiamato del Codice Rosso. Come al pronto soccorso i feriti più gravi vengono curati subito, così le denunzie delle donne in pericolo avranno la precedenza. Bisognerà distinguere, nel giro di pochi giorni, chi mente, chi esagera, chi invece segnala un rischio autentico. E per i violenti potrà scattare subito la custodia cautelare. Sono troppi i casi di donne assassinate dopo aver denunziato. E questo è un tradimento dello Stato, che prima ti dice di denunziare e poi ti abbandona».
A che punto è il Codice Rosso?
«Prima che arrivasse in Parlamento c’era già il sì di tutti, compresi Berlusconi e il Pd. Ora è un disegno di legge a firma Bonafede e Bongiorno, ma per me è di tutti. Sono finite le audizioni in Commissione Giustizia della Camera, a fine marzo va in Aula».
Cosa pensa del movimento MeToo?
«In Italia è stato un fallimento. Ma è importante, perché quando si parla di violenza verso le donne si intende solo la violenza sessuale, la penetrazione, e si tende a rimuovere la violenza psicologica. Il MeToo ha avuto un merito: evidenziare quando una donna si trova in uno stato di grave soggezione verso un uomo e può essere costretta ad accettare un incontro sessuale che non avrebbe voluto: o accetto il rapporto o non avrò la parte a teatro che mi era stata promessa. Diverso è il caso della donna che strumentalizza l’uomo per scavalcare le altre donne».
Perché dice che in Italia è stato un fallimento?
«In America c’è stata una vera discussione, un grande approfondimento. Noi siamo molto più indietro, abbiamo focalizzato l’attenzione su cinema e tv, abbiamo svilito il fenomeno dicendo che la donna è sempre libera».
Cosa pensa della sentenza che ha dimezzato la pena a un assassino in preda a una «tempesta emotiva»?
«L’ho letta con attenzione. Il presidente della Corte d’Appello ha parlato di un equivoco. Ma a pagina 6 c’è davvero il riferimento alla tempesta emotiva e passionale come una delle condizioni che ha influito sulla riduzione della pena. E questo mi ha fatto tornare in mente l’idea di fondo del delitto d’onore, retaggio di una cultura in cui la donna era considerata un bene appartenente all’uomo. Pensi che io ho proposto esattamente il contrario: chi uccide una donna perché dev’essere o sua o di nessuno merita una pena ancora più severa. Anche se la riduzione era dovuta soprattutto al rito abbreviato, che spero sarà presto eliminato per i delitti puniti con l’ergastolo».
Su Repubblica Concita De Gregorio la chiama in causa: cosa pensa Giulia Bongiorno della legge Pillon, altro leghista, che imporrebbe al figlio di passare almeno 12 giorni al mese con ciascun genitore, anche nei casi di divorzi con violenze e abusi?
«Ho già detto a Pillon che non condivido né la definizione generica di “minore”, che non distingue tra un neonato, un bimbo, un adolescente, né questa divisione aritmetica del tempo tra padre e madre. Bisogna valutare caso per caso. È vero che va salvaguardato il diritto del minore prima di quello della madre».
È in disaccordo pure con il ministro leghista Fontana, quando dice che la famiglia composta da persone dello stesso sesso non esiste?
«È un dato di fatto che non esista una legge che equipari le due cose. Detto questo, io sono per la massima libertà e autodeterminazione della donna e dell’uomo nella scelta dei propri rapporti sentimentali. E ne ho parlato con Fontana».
Esiste una questione razzismo in Italia?
«Vedo stanchezza verso il caos, non razzismo verso il nero. Il modo migliore per combattere il razzismo è ripristinare l’ordine e le regole».
Salvini non è razzista?
«Certo che no. È una montatura che gli hanno costruito addosso. Basta confrontarsi con lui cinque minuti per capirlo».
Sulla legittima difesa c’è stato un cambio di maggioranza: Forza Italia ha votato la vostra legge, una parte dei 5 Stelle ha votato contro.
«Sapevamo che nella maggioranza c’erano sensibilità diverse. Il ministro della Giustizia era favorevole; 25 parlamentari 5 Stelle erano contrari. Ma questo non prefigura nessun cambio di maggioranza».
Salvini non tornerà con Berlusconi?
«No. Abbiamo fatto un patto per cinque anni. Il governo va avanti».
Per fare cosa? Dopo quota 100 e reddito di cittadinanza, cosa vi tiene insieme?
«C’è tanto da fare e innanzitutto vogliamo vedere gli effetti del lavoro che abbiamo impostato. Nella pubblica amministrazione abbiamo sbloccato il turn-over: ogni dipendente sarà sostituito. Nessun posto resterà vuoto».
Quante assunzioni farete?
«Tantissime, e in breve tempo. Ora sto autorizzando le assunzioni del 2017 e del 2018. È intollerabile aspettare 6-8 mesi. Cambieremo il meccanismo: prima si assume, poi si controlla».
Olé! Non è una misura un po’ allegra?
«No, i controlli ci saranno, ma abbrevieremo i tempi».
Quali controlli?
«Presto in Aula ci sarà la legge che prevede il controllo biometrico per i dipendenti pubblici. I tornelli non bastano: un furbetto può passare dieci cartellini. Ma con l’impronta digitale oggi, o con l’iride o il riconoscimento facciale domani, combatteremo l’assenteismo».
Violenza sulle donne: vi spiego perché sono contraria all’aumento delle pene, scrive Tiziana Maiolo il 31 Marzo 2019 su Il Dubbio. La presenza di tante donne, donne forti, in Parlamento è importante e di grande conforto non solo per tutto quanto il mondo femminile, ma anche e soprattutto per la difesa dei diritti individuali. Nessuno come un soggetto che ha subìto storica sottomissione sa specchiarsi negli occhi e nella vita distrutta di una donna che ha subìto violenza. Ma essere in così tante in Parlamento vuol dire anche saper trovare la capacità di andare oltre la protesta, e darsi e dare gli strumenti per combattere fenomeni degenerativi delle relazioni umane come lo stupro e il “femminicidio”. Sorvegliare e punire. Conoscere e deliberare. “Codice rosso”, la proposta di legge che si sta discutendo in questi giorni alla Camera dei deputati, è un segmento di un percorso che viene da lontano e che necessitava di un adeguamento ai tempi, ai mutati rapporti tra i sessi, all’ingresso turbinoso delle tecnologie e dei social, che rendono subito tutto trasparente e pubblico. Gli stupratori ormai compiono due delitti, la violenza fisica e poi la distruzione della persona con la pubblicità data alle immagini del fatto. Fino a portare la donna al suicidio, come è purtroppo accaduto. Giusto quindi deliberare ancora e ancora e ancora. Le donne lo stanno facendo. Ma la difesa dei diritti rischia troppo spesso di limitare la propria attività all’inasprimento delle pene. Il che, come la storia ci insegna ogni giorno, non ha mai fatto desistere nessuno dal ripetere lo stesso reato. Ancora e ancora e ancora. Pure le donne parlamentari non si arrendono. Ho un ricordo personale che ancora mi turba, dopo tanti anni. Quel giorno del 1996, quando da Presidente della commissione giustizia della Camera ero riuscita, grazie anche alla sapienza della mia collega e avvocato Tina Lagostena Bassi, a mettere all’ordine del giorno e infine arrivare all’approvazione della legge che trasformò la violenza sessuale da reato contro la morale in reato contro la persona e le sue libertà. Un evento storico che unì tutte le donne del Parlamento e che fu mal digerito dai nostri colleghi, che mostravano insofferenza ai nostri discorsi e addirittura al momento della votazione si defilavano uscendo alla chetichella dall’aula. Pur di portare a casa il risultato fummo costrette a ricorrere all’astuzia femminile. Presi la parola dichiarando che avremmo voluto votare subito, consegnando i nostri testi scritti e rinunciando agli interventi orali. Fu a quel punto che la subcultura maschilista toccò il suo fondo, quando una voce dagli ultimi banchi gridò, in mezzo agli sghignazzi: “Ma chi ve l’ha chiesto l’intervento orale?”. Incredibile ma vero, ancora nel 1996, in piena “seconda repubblica”. Quel che colpisce anche oggi è il fatto che siano di nuovo ( e solo) le donne a dover legiferare su una violenza quotidiana che arriva spesso all’omicidio ( femminicidio) e che mostra ogni giorno come il corpo della donna sia sempre al centro della necessità di affermazione del maschio. Si va dal barbarico “o sei mia o di nessun altro” fino al vanaglorioso “quella lì ci sta”. Se è vero che sono una minoranza gli uomini che non sanno controllarsi, è altrettanto vero che il fardello politico dell’occuparsene rimane ancora e sempre sulle spalle delle donne. Significativa la bellissima foto di ieri delle deputate di opposizione che occupavano simbolicamente i banchi del governo per la mancata approvazione dell’indispensabile norma sul “revenge porn”, lo sputtanamento in internet dell’intimità di una donna. Su quegli scranni non c’era un uomo. Timidezza? Disinteresse? O nella mente qualche frase volgare come quella del mio collega di tanti anni fa? La conseguenza di questa appartenenza quasi corporativa del tema a un solo genere ha conseguenze negative anche sul piano del legiferare. Stimolo per un attimo ancora il ricordo di quel 1996. Nessuno sa che io quella legge stavo per non votarla, pur avendola voluta con tanta forza. Il fatto è che vivevo la contraddizione di aver fatto approvare una norma che aveva dovuto bilanciare la conquista di un diritto – se mi tocchi hai violato la mia libertà, non la morale corrente – con un forte inasprimento delle pene, in alcuni casi, come nella violenza di gruppo, una lesione di alcuni diritti individuali. Non ci avevo dormito la notte. Poi ho votato una legge che non mi piaceva. Non mi piace del tutto neanche “Codice rosso” nella parte della quantificazione delle pene. E mi domando se almeno una delle parlamentari ( c’è qualche vecchia amica, come Stefania Prestigiacomo e Valentina Aprea e Jole Santelli ) che la settimana prossima voteranno la legge sappia bene che cosa vuol dire privare della libertà per 24 anni qualcuno che ha avuto comportamenti gravissimi pur senza aver ucciso o compiuto stragi. È la contraddizione di noi donne, che spesso vogliamo vendetta proprio perché, noi o le nostre sorelle di genere, ne abbiamo sopportato tante. Per tutto ciò io oggi penso che sarebbe il momento degli uomini. Le scrivano loro le leggi che puniscono i loro simili. Sono sicura che lo farebbero con maggiore distacco, quindi meglio. Perché non è giusto chiedere sempre alla vittime come si debbano punire i loro carnefici.
Violenza di genere, due pesi e due misure, scrive Fabio Nestola il 4 aprile 2019 su meridiananotizie.it. L’analisi comparata dei fatti di cronaca e delle reazioni che ne scaturiscono, politiche e mediatiche, deve farci riflettere su un dato: la campagna di tutela a favore delle donne non è affatto a favore delle donne, ma nasconde in realtà una manovra ostile contro la figura maschile tout court. La prova: ci si indigna a reti unificate quando non viene dato l’ergastolo ad un uomo che uccide una donna, ma non ci si indigna per pene molto più blande quando un uomo uccide un altro uomo o una donna uccide un’altra donna. Non regge quindi nemmeno la teoria secondo la quale la vita di una donna sarebbe più preziosa di quella di un uomo. È più preziosa solo se viene uccisa dal compagno, punto. Le sentenze “miti” per un femminicidio (se 16 anni di galera possono essere considerati una pena mite) suscitano reazioni indignate oltre i limiti dell’isterismo, qualcuno nei casi di Bologna e Genova ha persino lamentato la restaurazione del delitto d’onore. Una bufala colossale, lagnanza priva di ogni fondamento visto che il delitto d’onore prevedeva pene inferiori ad analogo delitto con diverso movente, in quanto il codice considerava un’attenuante la necessità di preservare l’onore della famiglia infangato da un coniuge fedifrago.
Attenzione: da un coniuge di qualunque genere, non solo dalla moglie. Ormai da 30 anni non è più un’attenuante, tuttavia il principio giuridico era applicabile non solo all’omicidio della moglie traditrice, ma anche del marito traditore e persino dell’amante di lui o di lei. Poi la casistica ha dimostrato che gli uomini traditi e vendicativi erano di più rispetto alle donne tradite e vendicative, ma ciò non rileva ai fini dell’imparzialità della norma, quindi è una bufala che il nostro impianto normativo favorisse gli uomini che ammazzavano la moglie adultera. Di più: il concetto di onore violato si estendeva anche alla possibilità di vendicare figlie o sorelle disonorate. Tornando agli “scandali” di Bologna e Genova, con pena affievolita dalle attenuanti per lo stato emotivo degli assassini, non esiste il proposito di lavare col sangue l’onore ferito. La martellante campagna mediatica e politica di demonizzazione dei tribunali accomodanti con gli assassini ha richiesto persino le giustificazioni del magistrato (una donna) che ha dovuto spiegare tecnicamente – e pubblicamente – i presupposti giuridici dai quali prende vita una pena ridotta rispetto al massimo edittale.
Niente di tutto ciò accade quando un uomo uccide un altro uomo: (Marco Vannini, ecco perché Antonio Ciontoli è stato condannato a cinque anni. Antonio Ciontoli è stato condannato a 5 anni di reclusione per "aver causato la morte di Marco Vannini", morto il 18 maggio 2015 a Ladispoli, vicino Roma. 04 marzo 2019 Roma Today).
O quando una donna uccide un’altra donna: (Assassinata. Poi bruciata tra le vigne. «La mamma di Gorlago è stata uccisa dalla rivale in amore». La donna disoccupata e madre di tre figli, aveva avuto una relazione con il marito della vittima. E’ indagata per omicidio. Bergamo.corriere.it 19 gennaio 2019)
Ma nemmeno quando una donna viene uccisa da un uomo che però non è il marito o ex marito, fidanzato o ex fidanzato, comunque quando sotto i riflettori non c’è un legame affettivo interrotto: (12 anni per omicidio, figlio protesta. L'anziana fu uccisa per una rapina in provincia di Modena. I due assassini sono stati condannati ad 8 e 12 anni, molto meno dei 16 che hanno fatto gridare allo scandalo mezza Italia. Ansa 2 aprile 2019)
Dov’era NonUnaDiMeno? Dov’erano Bonafede, Conte, la Bongiorno e tutta la stampa inginocchiata al vento rosa?
I Centri Antiviolenza non hanno competenze sugli omicidi da rapina, quindi non possono battere sulla grancassa per chiedere l’apertura di nuovi centri e ulteriori finanziamenti per i centri già esistenti.
Allora ecco che la vita di una donna ammazzata dai rapinatori vale meno di quella ammazzata dal marito, non merita attenzione mediatica, indignazione pubblica, spiegazioni dei giudici.
Il 19 settembre del 2012 un secchio pieno di acido lanciato dalla sua ex compagna, Elena Perotti, insieme a un complice lo sfigurò. Allora, William Pezzulo aveva 26 anni. Oggi, dopo una lunga lotta fra interventi chirurgici e battaglie legali, dovrà anche pagarsi le spese dell’avvocato che lo ha assistito. Condannati a pagare le spese legali, i suoi aggressori risultano nullatenenti. La parcella è arrivata a lui, con tanto di sentenza. Quasi 50000 euro da pagare entro 10 giorni, altrimenti si rischia il pignoramento della casa di famiglia. Nessun politico o difensore dei diritti ha mai lanciato una battaglia per aiutarlo e difenderlo. Perchè la violenza di genere è importante combatterla solo quando è verso l'altro genere. Sfortunatamente William Pezzulo è solo un uomo.
Due acidi, due misure? da Movimento degli Uomini Beta del 23 novembre 2013. Riceviamo e sottoscriviamo.
Associazione-Onlus
A Sua Eccellenza
Il Presidente della Repubblica
Dott. Giorgio Napolitano
Palazzo del Quirinale
Piazza del Quirinale
00187 Roma
Signor Presidente, abbiamo appreso dai media come Ella abbia conferito l’Onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana a Lucia Annibali, l’avvocatessa di Pesaro sfregiata con l’acido da due sicari assoldati dal suo ex fidanzato. È lecito chiedersi per quale motivo Presidente – ma non solo Lei, anche stampa e televisioni – non dedichi uguale attenzione ad un episodio analogo nel quale la vittima è di genere maschile.
Sfigurato con l’acido: marchiato a vita dalla vendetta della ex. Travagliato (BS) – il 26enne William Pezzullo ha perso entrambe le orecchie, l’occhio sinistro ed il 90% del visus al destro. La madre, Fiorella Grossi: ” è meglio che non possa vedere come quella disgraziata l’ha sfigurato, altrimenti si ammazzerebbe”. Gli esiti del gesto criminale sono, per William, enormemente più gravi rispetto a quelle subite da Lucia. Entrambi sono vittime di aggressione con l’acido, per entrambi si tratta di una malsana vendetta dell’ex, entrambi hanno subito un gravissimo choc ed hanno riportato danni estetici evidenti; tuttavia la differenza sostanziale per gli esiti dell’aggressione è nella perdita delle funzioni primarie, prova ne sia che la neocavaliera è autonoma, non ha bisogno di accompagnamento può continuare a svolgere normali attività quali guidare l’auto ed esercitare la professione di avvocato; il ragazzo invece ha perso la vista e l’udito, ha perso autonomia e dignità, ha avviato le pratiche per l’invalidità permanente al 100% e vivrà con un sussidio di circa 400 euro al mese. Giova ricordare che il fattore numerico non rileva ai fini della gravità di ogni singolo episodio criminoso; sarebbe aberrante dimenticare le vittime maschili perché “le vittime femminili sono di più”, esattamente come sarebbe aberrante dimenticare le vittime omosessuali perché “le vittime etero sono di più”, dimenticare i diritti dei diversamente abili perché “i normodotati sono di più”, calpestare la dignità degli immigrati perché “gli italiani sono di più” . Le chiediamo ufficialmente, Signor Presidente:
- se ritiene che ogni tipo di violenza, a prescindere da genere, etnia, religione, stato sociale ed orientamento sessuale di autori e vittime, debba suscitare una dura presa di posizione da parte dell’intera cittadinanza;
- se è a conoscenza della violenza subita anche da soggetti di genere maschile;
- se ritiene che alla doverosa attenzione per le vittime femminili debba corrispondere una altrettanto doverosa attenzione per le vittime maschili;
- se ritiene che l’onoroficienza conferita a Lucia Annibali – pur se in rappresentanza di tutte le donne vittime di violenza – se confrontata con l’indifferenza nei confronti di William Pezzullo, non sia un insulto alla dignità del ragazzo e dei suoi familiari, anche quale simbolo di tutti gli uomini vittime di violenza.
In attesa di un cortese riscontro cogliamo l’occasione per porgerLe i nostri distinti saluti.
Roma 28.11.2013 Il Presidente Avv. Paola Tomarelli
Travagliato, sfregiato con l'acido dalla ex: Pezzulo deve pagare le spese dell'avvocato. Condannata a saldare ma risulta nullatenente e presto ritornerà libera. Alla vittima il conto del legale: il Tribunale vuole 50mila euro, scrive Milla Prandelli il 13 aprile 2019 su Il Giorno. Oltre il danno la beffa. Il 19 settembre del 2012 un secchio pieno di acido lanciato dalla sua ex compagna, Elena Perotti, insieme a un complice lo sfigurò. Allora, William Pezzulo aveva 26 anni. Oggi, dopo una lunga lotta fra interventi chirurgici e battaglie legali, dovrà anche pagarsi le spese dell’avvocato che lo ha assistito. Condannati a pagare le spese legali, i suoi aggressori risultano nullatenenti. E la parcella è arrivata a lui, con tanto di sentenza. William e i suoi famigliari hanno avuto l’ultima di una serie di cattive notizie proprio l’altro ieri. Sono rimasti allibiti. «L’altro ieri mattina mi è stata recapitata un’ordinanza dal tribunale, in merito alla vicenda che ho avuto qualche mese fa con l’avvocato civilista che ha seguito il mio caso – dice Pezzulo –. Mesi fa sono stato convocato in tribunale per risolvere la controversia tra le parti che mi condannava a pagare la parcella per il lavoro svolto contro la Perotti. Questo accade perché per legge, se i convenuti non possono pagare, prevede che il legale possa rivalersi su di me, che però non ho soldi. La sentenza mi condanna a pagare 50mila euro entro 10 giorni, il che metterà a rischio anche la casa di famiglia». Pezzulo ha pubblicato un video su Facebook nella pagina “Io sto con William”, dove chiede aiuto ai suoi amici e sostenitori. «Non è possibile che le cose debbano sempre andare male a me – dice Pezzulo –. Prima ho incontrato una donna che mi ha rovinato la salute e la vita, poi ho dovuto sottopormi a decine di interventi». «Quelli necessari per la mia salute sono stati pagati dalla mutua – aggiunge –. per sostenere i costi di quelli estetici, la mia famiglia è rimasta sul lastrico. abbiamo pure dovuto vendere il bar di famiglia. e le cure a cui dovrò sottopormi non sono ancora finite. l’ultimo intervento è stato molto invasivo e ancora non mi sono ripreso. per mettere la ciliegina sulla torta, ora mi accade questo. sono letteralmente a pezzi e con me lo sono i miei genitori, mia sorella, mio cognato e i miei nipotini. un atto fatto contro la mia persona ne ha ferite tante altre e i segni non li porto addosso solo io, ma anche loro, che si prodigano per farmi stare bene». Intanto la ex di Pezzulo Elena Perotti in questi giorni termina la pena principale e si laurea. Nei prossimi mesi il Tribunale le restituirà il figlio maggiore e forse la più piccola, avuta dal marito conosciuto mentre era in comunità a scontare il suo periodo di detenzione e da cui oggi è separata poiché lui l’ha picchiata. «Non ho più parole – conclude Pezzulo –: il colpevole, quello che sta pagando tutto sono io. Io mi sento in carcere e ogni giorno che passa tutto è più difficile».
Travagliato, Elena Perotti chiede perdono: "Sono cambiata". La donna chiede scusa all’ex William che ha sfigurato con l'acido, scrive Milla Prandelli il 14 febbraio 2019 su Il Giorno. Elena Perotti, la donna che fa ha sfregiato con l’acido l’ex fidanzato William Pezzulo, oggi è una donna diversa. Mentre lui è in ospedale, dove si è sottoposto all’ennesima dolorosissima operazione, lei è agli arresti domiciliari dove vive in trepidante attesa di sapere quando potrà riabbracciare la figlioletta Rebecca, che la Corte di Cassazione ha definito non adottabile e che le sarà resa. Non solo: aspetta di conoscere quale sarà la sentenza relativa al primogenito Gabriel. «Il percorso fatto in questi anni, assistita da persone esperte, mi ha cambiata. Quando ho agito contro William non ero in me. Non lo rifarei. Le cose dovevano essere risolte in modo diverso. Vorrei poter chiedergli perdono di persona – ha raccontato Elena Perotti con vicino il suo legale Maria Cristina Tramacere – Ogni giorno rivivo il dolore per quello che ho fatto. Me ne pentirò sempre. Sto pagando ed è giusto. Voglio però ricominciare come madre e ora che lo sono capisco ancora di più il dolore provocato non solo a William ma alla sua famiglia. Anche a loro vanno le mie scuse». Oggi è agli arresti domiciliari nell’appartamento di famiglia: una casa pulita e accogliente con due camere, tra cui quella dei bimbi dove di sono due letti e tanti disegni fatti da lei e Gabriel oltre che alcune gigantografie dei Minions, che lui adorava. Ci sono tanti giochi le foto dei piccoli, che la donna non vede a due anni. Nel frattempo Elena, che ha sofferto di due forme tumorali ed è stata operata e sottoposta a operazioni e radioterapie, si è messa a studiare. La scorsa settimana ha dato l’ultimo esame e prossimamente si laureerà con una tesi dedicata al “ruolo del pedagogo e della nutrice nel periodo attico”. «Il mio desiderio, ora, è occuparmi dei bambini, lavorare ed essere dimenticata – sottolinea – anche se io non scorderò mai ciò che ho fatto. Ai piccoli nel modo opportuno lo spiegherò». Da qualche settimana Elena non vive più col marito, che la picchiava e che per decisione dei giudici deve starle lontano. William, che nei giorni scorsi ha chiesto di incontrare Matteo Salvini, ieri dal suo letto di ospedale ha detto che «Elena è già stata perdonata». Sua madre Fiorella ha sottolineato che «Per la famiglia è una vicenda chiusa, che i Pezzulo non perdonano quanto accaduto ma che perdonano Elena, con cui, però, preferiscono non avere a che fare».
Ospitaletto, sfregiò l'ex con l'acido: Elena Perotti può tornare a essere madre. Dopo due anni, i giudici della Corte di Cassazione restituiscono la potestà genitoriali alla donna, scrive Milla Prandelli il 29 gennaio 2019 su Il Giorno. Dopo due anni i giudici della Corte di Cassazione hanno deciso che Elena Perotti potrà riavere la potestà genitoriale della figlioletta secondogenita Rebecca avuta nel gennaio del 2016 da un uomo conosciuto nella comunità in cui stava trascorrendo gli arresti domiciliari dopo avere sfregiato con l’acido l’ex fidanzato William Pezzulo. La sentenza è stata notificata all’avvocato Maria Cristina Tramacere: legale per la parte civile di Elena Perotti. "È stato un processo complesso – ha commentato Tramacere – finalmente i giudici hanno deciso. Il prossimo passo sarà l’istanza al Tribunale per i Minori affinché Elena possa vedere Rebecca. Poi discuteremo il caso del figlio primogenito Gabriel". Lunedì Elena Perotti era raggiante: "Voglio vedere i miei bambini il prima possibile – ha detto – Sono due anni che non li incontro e che non ho loro notizie. Non so dove e con chi siano, anche se sono certa che siano stati trattati molto bene. Voglio abbracciarli prima possibile e ringraziare chi li ha curati. Sono la loro mamma e li rivoglio, ma non mi opporrò se queste persone vorranno avere con loro un rapporto di amicizia e affetto". Elena Perotti non sa se i suoi bimbi si ricordano di lei: "Rebecca mi è stata tolta che aveva poche settimane – ha rimarcato – e poi l’ho frequentata fino a un anno e due mesi. Temo che non abbia che una vaga memoria di me. Gabriel, invece, è un ometto: ha sei anni e fa la prima elementare. Sono sicura che io sia nel suo cuore, me lo ha promesso". Intanto, Perotti lunedì prossimo sosterrà l’ultimo esame e a marzo si laureerà in conservazione dei beni culturali. La sua vita dal 2012 è cambiata in modo deciso. E’ consapevole di quello che ha fatto a Pezzulo. Nemmeno lei ha vissuto momenti facili, dato che il padre di Rebecca qualche tempo fa l’ha aggredita con violenza, afferrandola per il collo e causandole lesioni che hanno impiegato un mese e mezzo a guarire. "Ora vivo sola e appena sarò laureata cercherò un lavoro – spiega Perotti – voglio dimostrare che sono in grado di prendermi cura di Gabriel e Rebecca da tutti i punti di vista. Sono stata sottoposta a tanti test, la mia capacità genitoriale non è mai stata messa in dubbio. Ora voglio dimostrare che questo è vero. Ho compiuto degli errori in passato. Ma questo coi miei bimbi non c'entra. Nei prossimi mesi terminerò di scontare la condanna principale, poi sarò pronta a prendere in mano le redini della mia vita e ad utilizzare il titolo di studio che otterrò". Il marito di Elena Perotti, intanto, ha avuto dai giudici il divieto di avvicinarsi alla casa di famiglia e alla donna.
William Pezzullo sfregiato con l'acido: "Giustizia di serie b se la vittima è un uomo". Parla il trentaduenne della provincia di Brescia sfregiato con l'acido dalla ex fidanzata: "La legge dovrebbe tutelare maggiormente chi subisce queste aggressioni", scrive Cristina Verdi, Lunedì 29/10/2018, su Il Giornale. Non solo Lucia Annibali, Filomena Lamberti e Gessica Notaro. Tra le vittime dell’acido c’è anche William Pezzullo, 32 anni di Travagliato, in provincia di Brescia. Solo che la sua storia a parti inverse non ha avuto la stessa eco mediatica. Una sera di settembre del 2012 viene colpito in pieno volto con un secchio pieno di liquido corrosivo. Un’aggressione premeditata, stabilirà il giudice. Da quel giorno la sua vita cambia radicalmente. Nei panni del carnefice c’è la sua ex fidanzata, che non si rassegnava al fatto che la storia tra i due fosse finita. Ma la vicenda, spiega in un’intervista al quotidiano Libero, non finisce in tv, né sui giornali. Forse perché “siamo abituati a vedere l'uomo carnefice e la donna vittima”, denuncia. La giustizia, quindi, per William Pezzullo, è arrivata a metà. Se da un lato c’è stata la soddisfazione per la condanna, dall’altro la beffa è insopportabile: pochi giorni dietro le sbarre e poi i domiciliari. Così la donna che ha rovinato la sua esistenza ha potuto rifarsi una vita e ora è sposata, con due figli e abita a pochi chilometri da casa sua. Per William neppure un centesimo di risarcimento. “È nullatenente”, spiega. “A pagare sono solamente io”, continua l’uomo, che dopo l’aggressione ha perso il lavoro e ha dovuto investire tutti i suoi risparmi in medicine e avvocati. Oltre 35 interventi, l’ultimo lo scorso settembre. Ma neppure il trapianto di cornea che ha subito all’occhio destro è riuscito a ridargli completamente la vista. Oggi le sue giornate le passa tra le cure mediche e il computer. Non può più lavorare, né andare in palestra e così la vita trascorre per lo più tra le mura domestiche, dove ha allestito anche una piccola palestra. “In parte l'ho perdonata”, confessa. Ma rimane la sete di giustizia: “La legge, siano donne o uomini le vittime, dovrebbe tutelare e aiutare maggiormente chi subisce questo tipo di aggressioni”.
Uomo, quindi ignorato: la storia di William, scrivono Stelio Fergola e Tommaso Longobardi il 10 Novembre su oltrelalinea.news. Nel giorno dell’ultimo incontro con la madre il bimbo le aveva promesso: «Non so dove andrò, ma quando sarò grande ti cercherò perchè ti voglio bene». Il bambino non ha dovuto aspettare la maggiore età e già nei prossimi giorni potrà tornare ad abbracciare il genitore. Sembra un passaggio tratto direttamente da un racconto strappalacrime di Charles Dickens, invece è la curiosa romanzata che Il Giornale di Brescia fa riguardo il figlio di Elena Perotti, la cui adottabilità è stata revocata proprio ieri. Il motivo per cui Elena era stata ritenuta non proprio idonea ad avere un bambino in affidamento sta nel fatto che nel settembre 2012 ebbe la “sana idea” di andare dal suo ex, William Pezzullo, e sfregiarlo con dell’acido. Il motivo? L’aveva lasciata incinta, aveva troncato la relazione e non riconosceva il figlio (il giovane da par suo racconta degli atteggiamenti ossessivi della donna, capace secondo lui di dichiarare precedenti gravidanze mai avvenute). Secondo la ragazza, allora studentessa di economia, l’atteggiamento di William costituiva una forma di “maltrattamento”. La donna era stata condannata in via definitiva a 8 anni di carcere, e le era stato tolto l’affido dei due figli (il primo, nato nel 2013, nel 2015, il secondo, di un anno, concepito con un altro uomo conosciuto durante la detenzione in comunità, nel marzo 2017). La donna fa ricorso, oggi la Corte d’Appello le da ragione, perché l’adottabilità andrebbe “decisa solo quando non sono praticabili tutte le altre misure”. Tribunali e quotidiani locali insomma vanno a braccetto: per Il Giornale di Brescia altro non è se non la storia romantica di bambino che può “riabbracciare la propria madre”. Nel frattempo, William è sfigurato: il 30% del suo corpo non è recuperabile ed è invalido al 100%. Si è sottoposto a decine di interventi chirurgici, costati una fortuna che non si poteva permettere se non tramite il crowdfunding. La stampa nazionale, che sulla vicenda mantiene il più stretto riserbo, sta da anni portando in primo piano i casi delle donne sfigurate, violentate, oppresse: Lucia Annibali, Gessica Notaro, Domenica Foti e altre. Niente da dire, ci mancherebbe. Ma il “soggetto uomo”, in questo caso, viene ignorato dai più. Sulla carta e anche in tv (ne parla giusto qualche programma di rotocalco pomeridiano come Pomeriggio 5 e a Le Iene). Almeno per ciò che concerne il mainstream nazionale. In quello locale serpeggia il “romanzo” citato nell’introduzione: qualcuno racconta anche dei bambini con le madri da “riabbracciare”, qualcun altro ricorda che la donna è malata di tumore e strumentalizza decisamente una tragedia che rimane tale, ma resta una circostanza per cui la legge già è stata applicata, concedendo ad Elena gli arresti domiciliari: non credo sia necessario ricordare che ciò non allontana il problema di un bambino che dovrebbe essere protetto. “In aula Elena Perotti parla con la voce rotta dal pianto e gli occhi pieni di lacrime”, scrive BresciaToday. Una vittima, perché si allude anche a questo, con il melodramma che la fa da padrone, dimenticando che esistono i reati e dovrebbero esistere anche le pene. Elena è la donna “che lotta per riavere i suoi figli” (titolo precedente, poi editato dal giornale). Noi intanto ci abbiamo parlato, con William, ovvero la vittima ignorata dai media di questa triste vicenda. Tommaso Longobardi gli ha posto delle domande cruciali. Quelle che dovevano essere fatte a un uomo che i media e i sedicenti “difensori contro la violenza” dimenticano, a seconda dei casi disponibili.
William, come hai reagito alla revoca dell’adottabilità? Pensi che ad oggi abbia pagato per ciò che ha commesso nei tuoi confronti?”
«Ha ricevuto una condanna ad 8 anni di reclusione e a risarcirmi di 1.280.000€, ovviamente non ho visto un euro di questa somma in quanto nullatenente, ha scontato 3 mesi in carcere, se questo è aver pagato per ciò che ha commesso…»
«Il fatto che presto la sua vita sarà quasi tornata alla normalità come ti fa sentire?
Beh non credo abbia avuto una vita difficoltosa in questi anni, a differenza mia che ho dovuto affrontare 30 interventi e ne dovrò affrontare ancora, non appena troverò i soldi».
Pensi che lei si senta in colpa per quello che ti ha fatto? Credi che in questi anni si sia pentita?
«Credo di no, nonostante in un’intervista fatta poco tempo fa per giornale di Brescia, abbia detto di essersene pentita. Ma ascoltando le sue parole, ho potuto notare che non è cambiata in questi anni».
Sono passati ormai 5 anni dal giorno di quella terribile violenza, tra processi e condanne varie. Ad oggi che pensiero hai della giustizia italiana?
«Nel mio caso ci sarebbe da stendere un velo pietoso, nonostante l’avvocato abbia svolto un ottimo lavoro. Purtroppo la giustizia ottenuta non è stata altrettanto degna di nota».
(di Stelio Fergola e Tommaso Longobardi)
· Donne che odiano le donne.
Lettera a Selvaggia Lucarelli per la rubrica della posta sul ''Fatto Quotidiano'' il 2 settembre 2019. Ciao Selvaggia, sono in vacanza, in un posto bellissimo in Grecia, un posto molto frequentato, fotografato, amato, instagrammato. Non mi va però di pubblicare foto o di fare un post in cui io ostenti sfarzo con serenità perché poi alla fine a me 'sti quattro schizzi d' acqua e il lettino in prima fila sono costati parecchio. Facciamo 3000 euro. Serenità quindi, mica tanto. Non mi va neanche di fare un post in cui denigro le persone che campano coi soldi degli altri (qui ne vedo parecchie e molte attraenti e giovani, sì, spesso anche di sesso maschile) perché se avessi avuto la possibilità l' avrei fatto pure io, anche se probabilmente li avrei gestiti meglio. Però ragazze mie, ve lo devo dire: mi fate un po' vomitare quando vi vedo pelle, ossa e protesi mammarie su quelle barchette strette strette che affittate a giornate a Mykonos per dimostrare che oltre alle corone d' alloro guadagnate in qualche prestigiosa università costata a papi un occhio della testa, siete anche delle gran fighe. Siete le stesse che faranno la guerra ai mariti per gli alimenti e avranno il mal d' India con la crisi di mezza età. Mi pare già di vedervi a quarant' anni a flirtare con il benzinaio perché l' avvocato civilista che vi siete scelte alla lunga vi annoia. Solo per dire che quei costumi interi bucati sulla pancia, quei gne gne di voci stridule e quei gommoni rosa fenicottero che intrappolate nelle vostre tristi foto in piscina possono suscitare giusto un po' di ilarità. Se invece è invidia, quella che volete suscitare, chiedetevi come mai è così importante il parere di noi figlie di padri, non di papà, e ricordatevi che dietro quei telefoni ci sono magari i vostri fratelli minori e le vostre sorelle minori che forse, guardandovi, pensano che la vita sia una cena con selfie assieme a quattro sceme come voi con scritto sotto "Reunion". Questa esasperazione della vittoria, forgiata dal diniego alle debolezze (che rifuggite come fossero il demonio), ha creato terra bruciata delle personalità. Siete pelle ossa. Niente anima. Nessuno ha una vita perfetta, per carità, ma qualcuno ve lo dovrà pur dire che sicuramente non è bere Moët Chandon per guardare dal privè chi beve spumante. E che cazzo. S.
RISPOSTA DI SELVAGGIA LUCARELLI: Fortuna che ti hanno lasciata indifferente, 'ste tizie. Viene da chiedersi cosa avresti scritto se fossero riuscite a suscitare la tua invidia. Il Mein Kampf, probabilmente.
DONNE CHE ODIANO LE DONNE. Liana Milella per “la Repubblica” il 15 aprile 2019. Alessandra Panichi, la presidente di sezione della Corte d' appello di Ancona, che due anni fa licenziò la sentenza sulla «scaltra peruviana» che avrebbe finto una violenza mandando assolti i violentatori, butta giù il cellulare senza tanti complimenti. Né risponde ai successivi sms. Lei, come le sue due colleghe, Marina Tommolini che scrisse la sentenza e ora è pm a Pescara, e Cecilia Bellucci, non hanno mai parlato del caso (scoperto da Maria Elena Vincenzi su Repubblica) che adesso la Cassazione - presidente Giulio Sarno, relatore ed estensore delle motivazioni Alessio Scarcella, giudici Donatella Galterio, Angelo Matteo Socci, Fabio Zunica - rimette in regola. A Perugia si dovrà rifare il processo contro i due violentatori. A una settimana dal via libera al "Codice rosso" (pene più dure per le violenze sulle donne), il caso di Ancona riapre la pagina delle magistrate "morbide" e pronte agli sconti di pena che hanno rimesso in pista il delitto d' onore anche per le parole usate. Dice Gaetano Silvestri, l' ex presidente della Consulta ora al vertice della Scuola della magistratura di Scandicci: «Il linguaggio non è mai neutrale, ma risente della stratificazione dei pregiudizi che derivano da un' oppressione secolare delle donne, quindi penetra pure nelle sentenze. Una donna, in quanto donna, non è immune da questa cultura. Nei corsi sul linguaggio che teniamo alla Scuola raccomandiamo di evitare di trasmettere i pregiudizi. Ma se chi scrive è legato a vecchie concezioni sessiste e maschiliste, uomo o donna che sia, purtroppo non c' è niente da fare». Ecco a marzo le sentenze di Bologna e di Genova che riducono da 30 a 16 anni le pene per due omicidi. Nel primo, a leggere le motivazioni della Corte d' assise - presieduta da un uomo, Orazio Pescatore, anche se il giudice estensore è Milena Zavatti - sembra pesare la «tempesta emotiva» scatenata dalla gelosia. Nel secondo un uomo «illuso e disilluso» dai tradimenti della moglie, poi pentita ma trovata a casa con l' amante, porta il gip Silvia Carpanini a dargli lo sconto. Due finali che oggi non sarebbero più possibili, perché il 3 aprile il Senato ha cambiato la legge sul rito abbreviato. Con un omicidio da ergastolo - come a Bologna e Genova - non lo si potrà più chiedere. Resta però la singolarità di sentenze sulle donne scritte da donne. Che succede tra i giudici? Diventano buonisti proprio mentre il governo di centrodestra inasprisce le pene per la violenza? Fabio Roia, presidente della Sezione per le misure di prevenzione di Milano, considerato un esperto del contrasto alla violenza di genere, è convinto che «oggi le sentenze di avanguardia e più coraggiose su questi temi arrivino da una Cassazione ringiovanita, e non dai giudici di merito». «In passato - dice Roia - le sentenze evolutive erano scritte in primo e in secondo grado. Oggi queste tendono al conformismo, e le censure arrivano dalla Suprema corte. I giudici di primo e secondo grado hanno meno sensibilità culturale extragiudiziaria sui temi civili, e sono più attenti ai tecnicismi». Roia cita una sentenza in cui la Cassazione dà ragione a una donna ritenuta non credibile in Appello perché aveva denunciato i maltrattamenti del marito, ma con un' ambivalenza di sentimenti. «Diceva di stare con lui perché gli voleva bene, ma al contempo di averne paura. La Suprema corte l' ha giudicata credibile proprio perché ambivalente, in quanto subiva soprusi da un uomo cui era legata sentimentalmente». Ad Ancona invece non hanno capito. Il procuratore generale Sergio Sottani ricorda bene quella sentenza: «Mi colpì subito per via di alcune frasi superflue rispetto al giudizio. Era stata presa per buona la versione degli imputati, senza tenere conto degli aspetti valorizzati in primo grado sulla persona offesa. Poche righe prima della fine poi quel riferimento, che ricordo ancora, al fatto che oltretutto lei avesse fatto delle avance e che al ragazzo non piacesse per l' aspetto mascolino, «come da foto in atti», tant' è che ne aveva memorizzato il nome sotto "Vikingo". Decidemmo di ricorrere subito in Cassazione». Sottani ricorda la sua prima relazione da procuratore generale a gennaio 2018, quando raccomandò massima attenzione alle parole nelle sentenze per i reati di genere «o il processo diventa una seconda violenza». Però anche sul giudizio controverso di Ancona una donna difende le donne. È Maria Teresa Cameli, oggi procuratore a Forlì, nel 2017 sostituto procuratore generale d' udienza: «Era un ottimo collegio, né sprovveduto, né poco attento, che ha fatto tantissimi processi per violenza sessuale, sempre con condanne giuste, ma che si è pronunciato sulla non credibilità della parte offesa, perché era una situazione con dei chiaroscuri, che non collimava con i fatti. Certo, nella sentenza ci sono due frasi infelici, ma l' esito assolutorio sarebbe stato uguale perché la Corte non ha creduto alla versione della ragazza». È un fatto, però, che il Pg della Cassazione Riccardo Fuzio ha promesso di «ricostruire per bene tutte queste vicende» per valutare eventuali anomalie. E ripete che «nelle sentenze bisogna occuparsi di fatti e non dare giudizi morali o estetici: farlo potrebbe costituire un illecito disciplinare, in quanto dev' essere rispettata la dignità delle persone e la correttezza verso le parti». Ma dopo Ancona, Bologna e Genova alla Scuola della magistratura Silvestri rilancia i corsi sulla scrittura delle sentenze con l' Accademia della Crusca: «Se la Costituzione dice che i giudici amministrano la giustizia in nome del popolo, il popolo deve capire le sentenze. O si crea una barriera tra popolo e cittadino».
"Sembra un maschio, non è stupro". La sentenza shock delle tre giudici. "Lo conferma anche la foto". La Cassazione annulla il verdetto e ordina di rifare il processo: vizi di legittimità, scrive Maria Elena Vincenzi il 10 marzo 2019 su La Repubblica. Troppo mascolina. Poco avvenente. E quindi è poco credibile che sia stata stuprata, più probabile che si sia inventata tutto. È un ragionamento che già indignerebbe se ascoltato in un bar, ma che letto in una sentenza fa un effetto ancora peggiore. Per di più se a firmarla sono tre giudici donne. Che scelgono, così, di assolvere in appello due giovani condannati in primo grado a cinque e tre anni per violenza sessuale. E nelle motivazioni scrivono che all'imputato principale "la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo "Vikingo" con allusione a una personalità tutt'altro che femminile quanto piuttosto mascolina". Poi la chiosa: "Come la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare". Il verdetto è stato annullato con rinvio dalla Cassazione come richiesto dal procuratore generale che ne ha evidenziate alcune incongruenze e vizi di legittimità. Per cui il processo di appello dovrà ora essere rifatto. Ma intanto la sentenza bocciata ha fatto saltare sulla sedia più di magistrato della Suprema Corte. Perché leggendone il testo sembra che a influire sulla decisione delle tre magistrate sia stato proprio l'aspetto fisico della donna. Un passo indietro. Ancona, marzo 2015. Una ragazza di origini peruviane, 22 anni (la chiameremo Nina, nome di fantasia) si presenta in ospedale con la madre dicendo di avere subito una violenza sessuale alcuni giorni prima da parte di un coetaneo, mentre un amico di lui faceva da palo. Il gruppetto frequentava la scuola serale, dopo le lezioni i tre avevano deciso di bere una birra insieme. Le birre diventano parecchie, la giovane e uno dei due compagni si appartano più volte, hanno rapporti sessuali. Per gli imputati erano consensuali, per la parte offesa a un certo punto hanno smesso di esserlo, sia per l'eccesso di alcol sia per una esplicita manifestazione di dissenso. I medici riscontrano lesioni, compatibili con una violenza sessuale, e un'elevata quantità di benzodiazepine nel sangue che la vittima non ricorda di aver mai assunto. Dopo le indagini, si apre il processo di primo grado che il 6 luglio 2016 condanna uno dei due, quello che ha avuto i rapporti con Nina, a cinque anni, e il suo amico che ha fatto da palo a tre. Gli imputati ricorrono e il 23 novembre 2017 la Corte d'Appello dà loro ragione. Li assolve perché non ritiene credibile la ricostruzione della parte offesa. Fino a qui, nulla di strano: normale dinamica processuale. Quello che non fa parte della dinamica processuale, prima anomalia, è che la parte offesa venga definita dalle giudici della Corte d'Appello di Ancona, nelle motivazioni, come "la scaltra peruviana". Non bastasse questo, le tre componenti del collegio si lasciano andare a commenti e valutazioni fisiche forse dimenticando che il loro ruolo è sì quello del giudice, ma penale, e non di un concorso di bellezza. Tanto da arrivare a scrivere nelle conclusioni della sentenza che "in definitiva, non è possibile escludere che sia stata proprio Nina a organizzare la nottata "goliardica", trovando una scusa con la madre, bevendo al pari degli altri per poi iniziare a provocare Melendez (al quale la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo di "Nina Vikingo", con allusione a una personalità tutt'altro che femminile, quanto piuttosto mascolina, che la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare) inducendolo ad avere rapporti sessuali per una sorta di sfida". Insomma, gli imputati devono essere assolti, così avevano stabilito le tre giudici marchigiane. Perché Nina, secondo loro, non poteva essere desiderata: sembrava un maschio.
"Lei sembra un maschio...". E per i giudici non è stupro. Una sentenza della Corte d'Appello di Ancona fa discutere. Nelle motivazioni considerazioni sull'aspetto fisico della presunta vittima, scrive Luca Romano, Domenica 10/03/2019, su Il Giornale. Una sentenza shock. "Sembra un maschio, non è stupro". È quanto emerge dalle carte di una sentenza per un presunto stupro su una ragazza di origine peruviane che risale al marzo del 2015. La ragazza tornando a casa aveva raccontato alla madre di essere stata violentata. Immediatamente si reca in ospedale. I medici riscontrano lesioni compatibili con la violenza sessuale e così scatta l'indagine. La 22enne racconta di aver passato una serata con alcuni compagni della scuola serale. Poi l'abuso da parte di due ragazzi. Uno faceva da palo mentre l'altro l'avrebbe violentava. La prima sentenza, quella di primo grado, arriva il 6 luglio del 2016. I due ragazzi vengono condannati rispettivamente a 5 e a 3 anni. La faccenda però si ribalta in Appello con l'assoluzione dei due imputati. I giudici infatti non ritengono credibile la ricostruzione della peruviana. E da qui scatta il rinvio in Cassazione. Ma tra le carte della sentenza di Apello, come riporta Repubblica, c'è qualcosa di strano. I giudici infatti si lasciano andare a commenti piuttosto forti sulla ragazza che hanno immediatamente messo in allarme anche le toghe della Suprema Corte. Nelle motivazioni della sentenza si legge: "In definitiva, non è possibile escludere che sia stata proprio Nina a organizzare la nottata "goliardica", trovando una scusa con la madre, bevendo al pari degli altri per poi iniziare a provocare Melendez (al quale la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo di "Nina Vikingo", con allusione a una personalità tutt'altro che femminile, quanto piuttosto mascolina, che la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare) inducendolo ad avere rapporti sessuali per una sorta di sfida". Parole fin troppo chiare quelle dei giudici della Corte d'Appello di Ancona. A quanto pare ad influire sulla decisione delle tre magistrate potrebbe essere stato l'aspetto della vittima definita troppo "mascolina". Adesso toccherà alla Cassazione stabilire come sono andate davvero le cose...
«Troppo mascolina»: il ministero manda gli ispettori ad Ancona. La sentenza: «non c’è stato stupro, quella donna non è credibile». Il collegio umilia la 24enne: gli amici accusati dalla «scaltra peruviana» non desideravano un rapporto con lei in quanto «poco femminile», al punto da essere salvata sul cellulare come «Vikingo», scrive Simona Musco il 12 Marzo 2019 su Il Dubbio. Su un fatto sono tutti d’accordo, accusa e difesa: la terminologia usata dalle tre giudici della Corte d’Appello di Ancona per motivare l’assoluzione di due 24enni peruviani accusati di aver stuprato un’amica è umiliante. Lo dice al Dubbio uno dei difensori dei giovani, Gabriele Galeazzi, e lo dice anche il procuratore generale Sergio Sottani, che parla di «ulteriore violenza per le vittime». Al punto che ieri il ministero della Giustizia ha deciso di inviare ad Ancona degli ispettori, con lo scopo di svolgere accertamenti tra gli uffici di via Carducci, dove ieri le femministe della rete Rebel Network hanno protestato con un flash mob. La vicenda, resa nota da Repubblica, ha fatto discutere per i passaggi in cui il collegio ha evidenziato la personalità «tutt’altro che femminile» e «piuttosto mascolina» della donna, cosa che «la fotografia presente nel fascicolo processuale appare confermare». Termini, superflui e «inappropriati» anche secondo Galeazzi, al punto, forse, di «condizionare» i giudici della Cassazione, che hanno deciso l’annullamento con rinvio della sentenza. «Dal mio punto di vista – afferma – sono state fatte delle valutazioni più personali che giuridiche e ciò può aver influito sulla Cassazione. Confido, però, che la sentenza di assoluzione venga confermata». Non sono stati i tratti «mascolini» a spingere il collegio ad assolvere i due 24enni peruviani, condannati in primo grado a 5 e 3 anni. La ragazza, infatti, non è stata ritenuta attendibile, ma nella sentenza viene tirato in ballo anche il suo aspetto fisico. Secondo le giudici, la donna avrebbe inventato «buona parte del racconto», forse «per giustificarsi agli occhi della madre», che vedendola rientrare a notte fonda, ubriaca e sporca di sangue l’aveva punita prendendola a schiaffi. In ospedale la donna avrebbe parlato di un rapporto «iniziato prima in modo consensuale» e poi proseguito nonostante aver manifestato la volontà di interromperlo «per l’improvviso dolore provato». Nei giorni successivi, inoltre, le analisi evidenziavano la presenza massiccia di Benzodiazepina, un potente psicofarmaco che l’avrebbe stordita e che, scrivono i giudici inciampando di nuovo in un linguaggio poco felice, «forniva alla scaltra peruviana una prova da sfruttare». Durante il processo la 24enne ha negato di aver voluto il rapporto, «smentendo quanto riferito ai medici», così come di aver assunto medicinali, anche quelli indicati «nel modulo del consenso informato» dalla ragazza. Circostanze, scrivono le giudici, che non sono «indice di buona fede». E da qui la conclusione feroce: «non è possibile escludere che sia stata proprio» la 24enne «a organizzare la nottata “goliardica”», per poi iniziare a provocare uno dei ragazzi, «al quale la ragazza neppure piaceva, tanto da averne registrato il numero di cellulare sul proprio telefonino con il nominativo “Vikingo”», inducendolo ad avere rapporti «per una sorta di sfida» e che la ragazza «non ha inteso interrompere neppure quando ha avvertito che qualcosa non andava». La situazione si è complicata per l’emorragia e, tornata a casa, la donna «deve aver assunto dei medicinali in modo massiccio pur di placare i dolori». Conclusioni che sconcertano la legale della 24enne, Cinzia Molinaro. «Quando tornò a casa non era in grado di ricordare quasi nulla – ha commentato – Aveva riportato gravi ferite, per le quali è stata operata e delle quali non si era neanche accorta; era in uno stato di torpore che le permetteva di ricordare solo flash: disse di non essere in grado di dire se avesse iniziato il rapporto in maniera consenziente ma che a un certo punto era stata molto male, aveva detto basta senza che il ragazzo si fermasse».
Quando la magistratura è femmina…È tutta questione di… architettura cerebrale, scrive l’11 marzo 2019 Alessandro Bertirotti su Il Giornale. Questa volta è necessario che vi inviti a visionare più riferimenti ipertestuali, che sono andato a cercare, per verificare che la notizia non fosse falsa. E troverete anche un tono che non mi appartiene, ma devo in qualche modo comunicare tutto il mio sdegno. Non mi sembrava possibile, mentre leggevo. Eppure no, mi sbagliavo. Andate anche voi a vedere. Su Il Giornale, Il Secolo d’Italia, La Repubblica e infine TG Com 24. Quindi, quando viene violentata una donna che sembra un maschio, il suo organo sessuale assume un carattere maschile e plausibile di violenza. In questo caso, è probabile un fraintendimento dei violentatori che, come sappiamo tutti, sono persone cognitivamente responsabili, leali e attenti alle apparenze e alle sensibilità femminili. E questa è la mia prima considerazione. Penso sia anche la Vostra, visto che la notizia appare ovunque, in rete, oltre che nelle testate che Vi ho indicato. La seconda considerazione, conseguente alla prima, riguarda il mio pensiero su come viene valutato il genere sessuale di una donna, in questi casi. In sostanza, se una donna è una virago, i maschi attorno a lei hanno il diritto di provare a violentarla, perché l’apparenza inganna. Come dire che, la violenza verso i maschi apparenti (e che sono in realtà femmine) è permessa. Quindi, cari maschietti violentati da altri maschietti (pratica che accade regolarmente nelle nostre carceri e non solo…) state sereni: nemmeno per voi è stupro, perché, in quanto maschi, potete suscitare desideri sessuali legittimi in chi vi dovesse scambiare per femmine. Il concetto mi sembra questo. Direi, davvero interessante, specialmente quando è proposto al femminile. Attendiamo la fine della vicenda, ovviamente, perché abbiamo tre gradi di giudizio in questa nazione, e abbiamo letto in questi giorni che è possibile uccidere in preda ad una tempesta emotiva. E la mia ultima considerazione è la seguente: stiamo più attenti al livello cognitivo delle persone che prepariamo ad assumere ruoli decisivi nella società italiana, specialmente quando si tratta di coloro che hanno in mano le nostre vite, come avvocati, commercialisti, medici, insegnanti e magistrati. Gli altri possono anche essere “poveri cristi”, andranno in politica, ma queste categorie dovrebbero essere sensibilmente intelligenti.
Quella intelligenza che in genere si accompagna alla vergogna, e quella vergogna che in genere si prova quando si pensa, prima di scrivere, a quello che si scrive.
· Il potere delle femmine.
QUESTE SONO LE FEMMINISTE CHE CI PIACCIONO. Raffaella De Santis per “la Repubblica” il 10 agosto 2019. E poi vennero le femministe senza zoccoli, senza peli sotto le ascelle, con i tacchi a stiletto e i vestiti in latex. Da un po' di anni la loro voce parla dai blog e dai palchi delle popstar, preferendo lanciare manifesti edonisti piuttosto che ingaggiare battaglie contro il maschio usurpatore. L'ultimo fenomeno di godereccia liberazione sessuale è affidato alle audaci provocazioni di Karley Sciortino, una delle sex-blogger più influenti della scena statunitense, nata nel 1985 in un paesetto a nord di New York, in una famiglia italo- americana molto religiosa. Ottima premessa per scrivere un memoir intitolato in inglese Slutever - neologismo formato da "slut" più "ever", traducibile con "sgualdrina per sempre" e anche di più, ma rimasto in italiano Generazione Slut (Odoya). Termine che l'autrice rivendica in questa intervista via mail come una medaglia: «Abbiamo liberato queer dalla sua accezione negativa, perché dovrebbe essere diverso per slut? Perché sbarazzarci di quest' espressione così meravigliosamente depravata? Al contrario dobbiamo riappropriarcene liberandola dalle sue connotazioni negative. Solo così la priveremo del suo potere di ferirci». Questo in breve il cuore del pamphlet, che sulla scia della Zoccola etica di Dossie Easton e Janet Hardy, bibbia del poliamore uscita negli Stati Uniti più di venti anni fa, si presenta come l' ultima confessione che sfida ogni pudore. Sono passati tanti anni da quando la cantante Kathleen Hanna del gruppo punk Bikini Kill si scarabocchiava col rossetto la parola slut sullo stomaco, tanti da Sex and the City. Sciortino è una tipa diretta, si è nutrita di pornografia da quando era ancora adolescente e non ama le sfumature (con l' eccezione delle Fifty Shades). Detesta le femministe radicali: «Sono così distruttive. Odiano il sesso e sostengono che è sempre stupro. Negano l' autonomia della donna. Non è orribile?». Non le va a genio neanche il #MeToo perché «invece di concentrarsi sulle prevaricazioni nei luoghi di lavoro ha sconfinato nei bad dates, gli incontri finiti male». Si definisce una "pro-sex feminist": «Il sesso è una fonte di piacere, un' avventura, una provocazione, un forma di amore, e un modo per conoscere il proprio corpo ». Per questo ha provato di tutto, dal bondage al sadomasochismo ai sex party alla Eyes Wide Shut. In passato per lavorare come sex worker ha lasciato un lavoro da cameriera in un ristorante cinese. E siccome è molto spiritosa butta là la battuta di Woody Allen in Harry a pezzi: «Tutte le puttane con cui ho parlato dicono che è sempre meglio che fare la cameriera». Ora col sesso a pagamento ha chiuso. All' apice della carriera tiene una rubrica online su Vogue ( Breathless) e dopo aver avuto l' onore di una serie tratta dal libro ora ne sta lanciando un' altra intitolata Now Apocalypse, sceneggiata con Gregg Araki, «un mix tra Twin Peaks e Sex and the City ». Il saggio autobiografico Generazione Slut nasce sull' onda del blog Slutever, dove Karley racconta senza metafore le proprie avventure. Il suo maggiore incubo? «Una vita banale, cioè come tutte le altre: sposarsi, andare a vivere in una casetta in periferia e avere figli». Così per schivare il rischio si dà da fare fin dal liceo esplorando il sesso con uomini e donne: «Era l' era di Sex and the City, ma alcune piccole città americane chiedevano che a scuola non si insegnasse a mettere i preservativi. In quegli anni Britney Spears si contorceva sul pavimento con un serpente cantando "Sono la tua schiava", ma contemporaneamente diceva che avrebbe aspettato fino al matrimonio prima di fare sesso». Da una parte si faceva strada una sessualità "molto performativa", dall' altra non se ne doveva parlare. Sciortino reagisce provocando. A sedici anni viene beccata dai genitori a passare la notte con un coltivatore di mele e spedita da un terapista cattolico. L' educazione religiosa è a suo dire la molla di tutto. Senza il bisogno di evocare Freud o Lacan e senza domandarsi come liberare la libido, Sciortino passa direttamente alla fase B, l' infrazione delle regole: «Sentirsi dire "no" può essere molto sexy. Quando cresci in una famiglia come la mia, tutto è un "no": non rientrare tardi, non portare ragazzi a casa, non guardare film vietati, non fare sesso prima del matrimonio. Tutte cose rese più seducenti dall' essere off limits». Per spiegare meglio cita Camille Paglia: «La sovversione richiede limiti da violare». Rimane il sospetto che un inflazionato luna- park dei piaceri tolga qualche brivido al desiderio. La domanda epocale rimane quella di Jean Baudrillard: che fare dopo l' orgia?
Rossana Rossanda: perché il femminismo è una sfida ancora attuale. L’intervento dell’intellettuale marxista pubblicato da L’Espresso: le sfide odierne, i nodi teorii e il movimento “Non una di meno”. Angela Azzaro il 14 Maggio 2019 su Il Dubbio. Rossana Rossanda, tra le fondatrici del quotidiano il manifesto, non cessa di stupirci e ormai novantacinquenne continua a stimolarci, appassionarci, fare proposte. Domenica sull’Espresso è stato pubblicato un suo intervento, un “Manifesto per un nuovo femminismo”. Un testo veloce, leggero, ma pregnante che pone al centro varie questioni a partire “dalle sfide della maternità in una società che resta maschilista”. Rossanda, marxista doc, torna in campo su un terreno che lei stessa definisce controverso, da quando era direttrice del quotidiano: «… in quella veste non ho goduto sempre della simpatia del movimento delle donne, che mi ha definito sovente “figura di potere”, invitandomi a mettermi in gioco cosa che, a dire il vero, credevo di aver fatto, ma – si vede non abbastanza…». Ma il risultato è che, pur con qualche difficoltà in quanto prima di tutto marxista, anche Rossanda si definisce femminista ( «credo di esserlo» ) anche perché «non c’è battaglia delle donne che io non condivida, talvolta con qualche riserva. Non ne ho per esempio nei confronti del testo fatto circolare da “Non una di meno” per convocare uno sciopero generale l’ 8 marzo scorso». In questa “distanza” e in questa “vicinanza” c’è tutta la grandezza di Rossanda. Almeno per me. Quando negli anni Novanta in Italia era egemone il “pensiero della differenza sessuale”, fu una sua intervista a confermarmi l’esistenza di nuovi orizzonti: la giornalista del manifesto non era d’accordo con la “differenza” e insisteva non tanto e solo sull’uguaglianza, ma sull’intreccio di conflitto di classe e conflitto di genere, intreccio che negli Usa – ben prima di noi – comprendeva anche la questione dell’antirazzismo come elemento fondante. Nella sua posizione, che oggi sta tornando alla ribalta anche a livello internazionale, c’era e c’è la lezione del femminismo degli anni Settanta: l’inconscio e Freud, i ruoli, la critica alla visione binaria della sessualità, la messa in discussione del patriarcato come patto stretto anche con le donne. Siamo nel cuore dell’amicizia e il confronto con Lea Melandri che prosegue tutt’ora, la collaborazione con la rivista Lapis, gli scritti oggi raccolti nel libro Questo corpo che mi abita (edito da Bollati Boringhieri). Temi ripresi nell’intervento pubblicato dall’Espresso che presenta due piani, entrambi importantissimi. Il piano più prettamente teorico e quello più prettamente politico. Il piano teorico, anche se in poche righe, fa chiarezza su cosa si intenda per società maschilista. Non vuol dire che il maschio è cattivo per natura, che i maschi sono “tutti mafiosi”, che sono tutti carnefici, come purtroppo leggiamo sempre più spesso in una banalizzazione dell’analisi e dell’azione politica. No, non è così. La cultura maschilista – chiarisce Rossanda – va intesa «nella sua accezione di “senso comune” di derivazione greca, romana e giudaica, ma si dovrebbe dire anche egizia o cretese, culture che hanno in comune la visione binaria della sessualità, sulla quale si innesta, il principio della famiglia patriarcale come “società naturale”, basata sulla divisione gerarchica tra maschio e femmina». E sul patriarcato, la sua complessità, il suo radicamento nella società aggiunge: «Il potere mi sembra sempre la tentazione più pericolosa: in verità anche quello che definiamo potere patriarcale si fonda su un patto con le donne, che nella famiglia si accontentano di un sottopotere cui però tengono moltissimo, e che non rinunciano allo stesso modo ad esercitare». Il link con gli anni 70 ci proietta nel futuro, con una capacità di indagare “il profondo” che va ritrovata, sfuggendo ad alcune “campagne” del presente spesso fondate sulla semplificazione. La realtà è sempre più intricata, ma quanto più è complessa tanto più vale la pena provare a governarla. È il caso delle questioni legate alla maternità e alla sessualità, cuore dell’intervento di Rossanda. Dei diversi punti, mi preme mettere in risalto quello sulla gestazione per altri, volgarmente detta “utero in affitto”. In poche righe, “il manifesto per un nuovo femminismo” pone le basi per una discussione seria. Scrive Rossanda: «Impedirla significa mettere un limite alla libertà della donna o dell’uomo che la vorrebbe, consentirla però comporta un pericolo permanente di mercificazione». La prima preoccupazione è reale, se anche una parte del femminismo invoca divieti e lancia anatemi nei confronti di chi accede alla gestazione per altri; la seconda preoccupazione si può superare con una buona legge come è accaduto per esempio in Canada. L’importante, al di là della singola questione e delle diverse posizioni, è che il femminismo – nato per costruire nuove soggettività fuori dalla maglie del patriarcato – faccia suo il suggerimento della fondatrice del manifesto, non rinunciando né alla complessità né alla libertà.
Ho letto Rossanda e dico: amiche che fate politica per favore svegliatevi! Proseguiamo il dibattito a partire dall’articolo della fondatrice del “Manifesto” sul nuovo femminismo pubblicato dall’”Espresso”. Il Dubbio il 18 Maggio 2019. Ho deciso di scrivere perché l’argomento mi sta a cuore: il femminismo, partendo dall’articolo di Rossana Rossanda pubblicato dall’Espresso. Nell’agorà dei social scrivo spesso su questo argomento, molto spesso in modo duro e critico. Ci vuole un nuovo femminismo? Sì e no. È sicuramente necessario che noi donne, non solo in Italia, “ci diamo una ricca svegliata”. Lo dico soprattutto alle donne che sono nelle istituzioni. Ho letto Rossanda sul femminismo e alle donne che fanno politica dico: svegliatevi, stiamo arretrando Da tanto tempo che non scrivevo un articolo. Sono nella mia casa di Francoforte, dolce e accogliente, fuori c’è un sole freddo, ma sempre sole è. Ho deciso di scrivere perché l’argomento mi sta a cuore: il femminismo, partendo da un articolo di Rossana Rossanda “Manifesto per un nuovo femminismo” uscito su l’Espresso e la risposta di Angela Azzaro uscita su questo giornale. Chi mi conosce e condivide con me l’agorà dei social, sa che scrivo spesso su questo argomento, molto spesso in modo duro e critico. Ci vuole un nuovo femminismo? Sì e no. È sicuramente necessario che noi donne, non solo in Italia, “ci diamo una ricca svegliata”, questo sì. Rossana Rossanda, una maestra per la mia generazione, prova a partire dalla maternità, lo fa con sapienza e profondità, come è il suo stile; Angela Azzaro le risponde con altrettanta serietà cercando di cogliere nelle parole di Rossanda spunti interessanti, come per esempio il fatto che non si può ridurre tutto a gogne, sanzioni, vincoli, divieti e vittimismo. Sono d’accordo con loro, e per questo mi permetto di allargare il discorso. Non credo che “basti” ripartire dal maternità per affrontare il tema in questione. E’ vero, verissimo che, come dice Rossanda, «la cultura maschilista non è altro che la divisione gerarchica tra uomini e donne», che il potere patriarcale è un fatto e che le donne, complici, si sono accontentate del «sotto potere, quello familiare». È anche vero che non siamo ferme qui, o meglio, questo dato di realtà ha oggi sfumature diverse, anche più subdole e dobbiamo cercare di contrastarlo in modo nuovo. Non sono appassionata di “nuovismo” ma i tempi sono cambiati e bisogna attrezzarsi. C’è qualcosa di antico “nell’ordine patriarcale”, ma la “finta uguaglianza” ci ha fatto abbassare le difese e ci siamo fermate nella costruzione degli anticorpi. Sì, ci siamo fermate e stiamo tragicamente arretrando, noi donne, non gli altri, non ( solo) gli uomini. Nella vita pubblica intesa come piazza pubblica, c’è stata e c’è una vera e propria guerra, dentro e fuori il web, nei confronti di donne che volevano e vogliono conquistare la scena e il potere. È iniziata molti anni fa, e con Angela Azzaro abbiamo tentato di contrastarla quando, per esempio, negli anni del governo Berlusconi del 2008, cominciarono gli attacchi feroci a Carfagna, Gelmini, a donne di destra che stavano conquistando la scena politica. Dicevamo “attenzione che questa cosa riguarda tutte, non solo le donne di destra”. Non siamo state ascoltate, e puntuali come la grandine sono arrivati gli attacchi ferocissimi alle donne di sinistra che hanno governato negli anni passati. È la libertà femminile che fa paura, è quell’ordine che abbiamo faticosamente cercato di contrastare che viene difeso con le unghie e con i denti, come ci direbbe Alessandra Bocchetti: io comando, tu obbedisci, e non è una caricatura, è l’ordine gerarchico. La scena pubblica – come il linguaggio costruisce il simbolico – bisogna tenerla presente. Devono fare attenzione le donne che sono sulla scena pubblica, e dobbiamo fare attenzione noi altre, tutti i giorni. C’è una cosa che fotografa questo momento: le donne nei partiti, tranne qualche rara eccezione, sembrano aver accettato di ritirarsi, per dirla alla Rossanda, nel sottopotere della famiglia/ partito e come all’età della pietra mandano gli uomini avanti a combattere una battaglia politica al grido “Wilma dammi la clava”. La distruttività di tutto questo è sotto i nostri occhi. Care donne politiche che siete nelle istituzioni, svegliatevi, ve lo dico con affetto. Fate dieci passi avanti, non un passo indietro. Ma una cosa voglio dirla a noi tutte care amiche: attenzione alla trappola del vittimismo, attenzione ad inseguire quel ruolo di vittime che non fa altro che mantenere lo status quo. Sempre Alessandra Bocchetti ci dice che il vittimismo non ha la forza di un soggetto politico: la figura della vittima è debole per eccellenza e non è chiedendo risarcimenti che si cambia la storia. La storia si cambia con la forza, non con la debolezza. La forza femminile è una forza diversa da quella degli uomini, è a quella che ci dobbiamo appellare. Dobbiamo insegnare alle donne più giovani a costruire un altro ordine, innanzitutto dentro di loro, insieme ai loro compagni, dobbiamo insegnare alle giovani donne a nutrirsi della forza delle altre donne, tanto quanto hanno fatto gli uomini nella storia. Un’ultima cosa la voglio dire a voi, cari uomini. Capisco che non è facile rinunciare a vivere e imperversare in questo ordine patriarcale e gerarchico, lo capisco davvero. Ma oggi se vogliamo riassestare questo nostro mondo è necessario che ciascuno faccia la sua parte: quell’ordine non regge più, soprattutto è terrificante. Siete disposti a mettervi in gioco? Chi vi scrive non pensa che gli uomini siano tutti cattivi, come sa che le donne non sono tutte buone. Siamo chiusi dentro delle gabbie, dobbiamo liberarcene sia noi che voi. È utopia? Non so. Vi parlo dalla casa che condivido con la donna che ho sposato. Qui in Germania ho conquistato un diritto, quello all’indifferenza verso il mio orientamento sessuale. Quando sono qui dimentico di essere lesbica. Per molti questa, ancora oggi, sembra essere una utopia.
La grande menzogna del femminismo, scrive Santiago Gascó Altaba il 30 marzo 2019 su it.avoiceformen.com. Qualche tempo fa stavo vedendo il film Suffragette, uscito nel 2015, film ampiamente pubblicizzato e, come voi sapete, tra i più importanti nell’universo cinematografico femminista. L’argomento del film, la lotta per il diritto di voto delle donne nel Regno Unito, può essere riassunto nelle tre frasi della conversazione che intercorre tra la protagonista Maud e il marito Sonny, entrambi lavoratori in una lavanderia e appartenenti al ceto più povero della società, una sera che lei torna a casa. Ecco la conversazione:
MAUD – …se ci danno il diritto di voto.
SONNY – E cosa ci faresti?
MAUD – La stessa cosa che ci fai tu. Difendere i miei diritti.
È abbastanza chiaro il messaggio? La conversazione, e il film, non lasciano spazio al dubbio: l’uomo godeva del diritto di voto, la donna, ingiustamente, no. Nessun accenno al fatto che all’epoca oltre il 40 % dei maschi (sopra i 21 anni) non godessero del diritto di voto (è da notare che molti degli uomini coscritti, Military Service Act 1916, che partirono in guerra durante la Grande Guerra non godevano del diritto di voto, e non solo per il fatto che in guerra si partiva prima dei 21 anni, ai 18 anni); nessun accenno alle numerose restrizioni del voto maschile, ad esempio quelle penali o economiche (per gli inquilini il valore annuale d’affitto non doveva essere inferiore a £10 e nel caso di fruizione di aiuti parrocchiali, poor rates, molto diffuse, l’inquilino doveva essere in regola con la restituzione delle rate); nessun accenno al fatto che gli inquilini operai dovessero registrarsi per votare durante l’orario d’apertura d’ufficio che spesso coincideva con quello lavorativo e scegliessero dunque di non perdere il salario e rinunciare al voto; ecc.
Il film dà per scontato ciò che non è evidente, cioè che il marito, Sonny, appartenente ai ceti più poveri della società, potesse esercitare il diritto di voto.
Il film raggiunge il suo apice alla fine, con la tragica morte di Emily Davison, suffragette realmente esistita e morta colpita da un cavallo durante una protesta. Nessun accenno ai numerosi uomini imprigionati o caduti lottando per il suffragio universale maschile nel passato, nessun accenno alle associazioni maschili che già dal 1791 (la Sheffield Corresponding Society o la London Corresponding Society) lottavano per il suffragio universale maschile, nessun acenno al massacro di Peterloo, alle massive manifestazioni del movimento cartista,…
Cosa abbiamo imparato dal film? Cosa hanno imparato i nostri figli e le nostre figlie? Abbiamo imparato che nella Storia le donne hanno dovuto lottare eroicamente, contro gli uomini, per ottenere i propri diritti. Abbiamo imparato che gli uomini non hanno dovuto lottare, men che meno contro le donne, perché avevano già tutti i diritti. Ora andate nell’enciclopedia virtuale di Wikipedia. Cercate “suffragio femminile”. A sinistra della pagina cercate “in altre lingue” e vedete in quante lingue trovate questa pagina (56 lingue compreso l’italiano quando ho scritto queste righe, nel 2012 erano 28). Ora entrate nella pagina spagnola di Wikipedia è cercate “sufragio masculino” (non cercate “suffragio maschile” in italiano perché la pagina non esiste). A sinistra della pagina cercate “en otros idiomas” e vedete in quante lingue trovate questa pagina (6 lingue compreso lo spagnolo quando ho scritto queste righe, nel 2012 erano 3). Dopodiché confrontate la lunghezza delle pagine tra i due suffragi.
Cosa abbiamo imparato? Cosa hanno imparato i nostri figli e le nostre figlie? Che le donne hanno una Storia. Una Storia di sofferenza e lotta. Gli uomini no. Una verità parziale è solo una grande bugia. Esempi simili si trovano ovunque e sui più svariati argomenti storici, nei testi storiografici, nei libri scolastici, nei media…Tanti anni fa, quando iniziai a interessarmi per il femminismo e la questione maschile, incominciai a leggere i testi femministi e la storiografia femminista. Nelle biblioteche, nella “sezione di genere”, si trovano molte opere di tematica storica che trattano la Storia da un punto di vista femminile e femminista. Ci sono persino intere enciclopedie, di diversi volumi ognuna, prodotte da numerose università associate. Io ne ho lette interamente tre: la collana Storia delle donne, la collana Historia de las mujeres en España y América Latina, la collana Historia Mundial de la Mujer, oltre naturalmente libri di tematiche storiche specifiche esplicitamente dichiarati femministi. In tutti questi anni ho cercato libri che approcciassero la Storia non in maniera generica, ma da un punto di vista maschile. Non ne ho trovati. Non esiste un racconto della Storia da un punto di vista maschile. La percezione attuale di molti uomini e della maggior parte delle donne che considerano le donne le vittime oppresse e discriminate di un mondo patriarcale, percezione condivisa e sostenuta da tutte le istituzioni occidentali, nasce e affonda le proprie radici proprio in quest’asimmetrica trasmissione del racconto storico, che ha stabilito l’oppressione storica delle donne per mano degli uomini. Se oggi gli uomini separati sono discriminati nei Tribunali, se viene a loro spesso negato l’affidamento dei figli, se non esistono norme che tutelino la paternità, politiche che si occupino dei suicidi o delle condizioni carcerarie o della premorienza maschile, o di qualsiasi altro argomento che colpisca prevalentemente l’uomo, se non interessa affatto se i ragazzi vanno male a scuola o quali discipline studino o se finiscano senza fissa dimora per strada, se di fronte a migliaia di istituzioni, politiche e normative a favore delle donne non esiste alcunché a favore degli uomini, il motivo principale risiede in una lettura parziale e menzognera della Storia che ha reso gli uomini colpevoli e le donne innocenti. Le donne oggi si sentono vittime perché ieri, indiscutibilmente, erano le vittime. Finché non si riuscirà a ristabilire il giusto equilibrio nella verità storica, è improbabile che si riesca a ottenere il giusto equilibrio tra i sessi nella società attuale. Il libro “La grande menzogna del femminismo”, di Casa Editrice Persiani, in uscita ad aprile, affronta la Storia da un altro punto di vista, da un punto di vista inedito, da un punto di vista maschile: “Una rigorosa e ambiziosa ricerca che documenta tramite fonti precise (circa 6.000 citazioni e riferimenti testuali) le falsità che per decenni hanno alimentato una corrente di pensiero dichiaratamente contro l’uomo”. Spero che possa essere il capostipite di nuovo filone di pubblicazioni e di un nuovo modo di approcciare la Storia e il femminismo. Santiago Gascó Altaba
L’ultima follia femminista: adesso celebrano l’obesità, scrive il 26 marzo 2019 Roberto Vivaldelli su Gli Occhi della Guerra. Grasso è bello? Negli Stati Uniti esplode il fenomeno del Fat feminism. Secondo quanto riportato da Italia Oggi, l’autrice Laura Brown, nel suo Fat Oppression and Psycotherapy ha dichiarato che l’ obesità offrirebbe dei vantaggi per la salute, almeno nel senso che restando grasse si evitano i pericoli quali bulimia, anoressia, depressione e ansia insiti nel tentativo di aderire a standard di bellezza dettati dalla società consumistica che, secondo le attiviste, opprime il diritto delle donne a essere grasse. Negli Usa, infatti, secondo il National Institute of Health, la proporzione della popolazione femminile americana che rientra nella definizione di obesità superava il 41,5%, mentre un altro 27,5% è in sovrappeso. Secondo le femministe radicali, naturalmente, è tutta colpa dell’uomo (rigorosamente bianco) e oppressore: le donne mangiano di più e ingrassano appositamente per sfuggire alle avances degli uomini.
Le origini del fenomeno Fat feminism. Il fenomeno del fat feminism, in realtà, non è affatto nuovo e affonda le sue radici negli anni ’70. Nel 1973, le attiviste Sara Fishman e Judy Freespirit pubblicarono il Fat Liberation Manifesto: “Noi chiediamo pari diritti per le persone grasse in tutti gli aspetti della vita, come promesso nella Costituzione degli Stati Uniti – scrissero -. Chiediamo uguale accesso a beni e servizi di pubblico dominio e poniamo fine alla discriminazione nei nostri confronti nei settori dell’occupazione, dell’istruzione, delle strutture pubbliche e dei servizi sanitari”. I nemici giurati? Medici, dietisti, “libri sulla dieta, alimenti dietetici e integratori alimentari, procedure chirurgiche”. Ma anche la società consumistica e le mode, definite “sessiste”. Nel 2017, grazie a Megan Crabbe e a Melissa Gibson, su Instagram e sui social network esplode il fenomeno virale del #Don’tHateTheShake, dove donne – ma anche uomini – in netto sovrappeso si cimentano nel ballare per qualche secondo mettendo in mostra pancia e cellulite. In merito, Crabbe, ha rivendicato “il coraggio di pubblicare un video in cui la mia pancia gelatinosa si muove al ritmo della musica. È potere vero”.
La giornata internazionale contro la dieta. Nel 2011, Patricia Boling, professoressa “femminista” presso l’Università dell’Illinois, ha pubblicato il saggio On Learning to Teach Fat Feminism. Un vero e proprio manifesto ideologico sull’insegnamento del Fat feminism: “Le letture sui corpi magri e grassi riflettono i dualismi mente-corpo che risalgono all’antica Grecia e ad Agostino e ad altri pensatori paleocristiani” scrive. In questo pensiero, secondo Boling, ci sarebbe una vera discriminazione nei confronti delle donne: “Le dicotomie tradizionali non solo leggono i corpi, la carne, la carnalità e la natura come femminili e opposti alla mente, all’intelletto, all’autocontrollo, alla disciplina e alla cultura, che sono considerati come maschili” ma “i corpi femminili sono considerati diversi rispetto ai maschi. Una ragazza o una donna grassa ha maggiori probabilità di essere disprezzata rispetto a un ragazzo grasso o uomo, e di essere incolpata per le sue dimensioni e la sua forma”. Per sfuggire a tutto questo, le femministe si sono inventate la giornata internazionale contro la dieta che si celebra il 6 maggio. Il primo International No Diet Day è stato celebrato nel Regno Unito nel 1992. Gruppi di femministe in altri Paesi di tutto il mondo hanno iniziato a celebrare questa giornata specialmente negli Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, India, Israele, Danimarca, Svezia e Brasile. Cosa non si fa pur di non perdere qualche chilo.
· Il Femminismo e le leggi.
Intesa sul porno- ricatto, la vittoria delle donne. La Camera approva la norma che punisce il “revenge” porn, ossia la diffusione di video o foto a contenuto sessualmente esplicito senza il consenso della persona interessata. Il nuovo reato prevede una pena da uno a sei anni di carcere, scrive Errico Novi il 3 Aprile 2019 su Il Dubbio. Alla fine si è arrivati al raro miracolo dell’unanimità: l’emendamento che introduce il reato di “revenge porn” è approvato dall’aula di Montecitorio senza alcun voto contrario (e 461 sì). Fatto raro in materia di giustizia. Fatto ancor più inatteso viste le premesse della vigilia, che vedevano, nell’ordine: la maggioranza restia a “liofilizzare” una norma che al Senato è prevista in un testo più ampio; le opposizioni furibonde, Laura Boldrini in testa, per le resistenze di Lega e cinquestelle; gli uomini di Salvini concentrati sulla proposta di “castrazione chimica” per chi è accusato di violenza sessuale; il caos inevitabile per la legge sul “codice rosso”. E invece con un colpo di scena, inedito per questa legislatura, maggioranza e opposizione si trovano unite proprio sul terreno arroventato della giustizia penale. Sorpresa e lieto fine completati dalla rinuncia dei leghisti alla “castrazione chimica”, annunciato da Giulia Bongiorno: «La riproporremo in un ddl autonomo, adesso è giusto mandare avanti il governo e soprattutto la legge sulle violenze di genere», dice la ministra. Il passaggio è di quelli destinati a segnare la legislatura, per più di un motivo. Si tratta di uno dei pochi casi di condivisione ampia, anzi totale. Ma il dato rilevante è anche nell’attenzione all’uso distorto del web. Materia finora guardata con prudenza dalle Camere. Sarà dunque punibile con pena da 1 a 6 anni di reclusione la diffusione di video e foto “sessualmente espliciti”, senza il consenso della persona interessata, a fini ricattatori, denigratori o come forma di “ritorsione affettiva”. E soprattutto, viene data sostanza a una «battaglia di civiltà» così testualmente e coralmente definita da Boldrini, Meloni e Salvini: altro dato imprevedibile. Nel settembre 2017, il contrasto all’uso della rete come pratica quotidiana dell’odio era stato oggetto del primo G7 dell’avvocatura, celebrato proprio in Italia su iniziativa del Consiglio nazionale forense italiano. Con la norma inserita ieri nel testo del ddl sul “Codice rosso”, sarà punibile chiunque diffonde «immagini o video di organi sessuali o a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate». La pena della reclusione «da uno a sei anni» ( a cui si aggiunge la multa da 5mila a 15mila euro) è modulata secondo uno spettro ampio anche per lasciare la possibilità di applicare le diverse circostanze aggravanti: la pena «è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa» ; e una misura tendenzialmente più severa della sanzione è in ogni caso prevista «se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici», quindi in tutti i casi in cui i video o le foto hard finiscono in rete. È punito anche chi diffonde a sua volta il materiale dopo che altri lo hanno “postato”. Si tratta di un reato a querela della persona offesa, ma non quando a essere danneggiata è una persona «in condizione di inferiorità fisica o psichica» o è una donna in gravidanza: in tali casi si procede d’ufficio, con aumento della pena di un terzo. Che sia un provvedimento dal valore anche simbolico lo attesta il fatto che persino il premier Giuseppe Conte parla di «bella testimonianza da parte di una nostra fondamentale istituzione». Il presidente della Camera Roberto Fico si dichiara «soddisfatto» per il «segnale molto positivo» di un Parlamento capace di «trovare la sintesi su temi delicati». Tecnicamente l’emendamento integra il ddl sul “Codice rosso” per le indagini relative alle violenze di genere ed è presentato dalla deputata cinquestelle che di quel provvedimento è relatrice in aula, Stefania Ascari. Ma anche una nota ufficiale del Movimento parla di intervento «condiviso con le altre forze politiche». Ed è giusto infatti considerarla una modifica dell’intera commissione Giustizia, che ha esaminato il Codice rosso e dove siede la deputata azzurra Federica Zanella, autrice de primo emendamento sul revenge porn. La rappresentante di FI plaude alla «bella pagina del Parlamento». La stessa presidente della commissione, Francesca Businarolo, anche lei del M5s, si dichiara felice per la scelta «condivisa da tutti». E anche i pentastellati che, come Elvira Evangelista, a Palazzo Madama avevano già incardinato un testo più ampio, con «regole per internet e i social», mettono da parte le ansie da primogenitura e promettono che in Senato ci sarà comunque un approfondimento della materia. Il risultato è dunque frutto di rinunce che ciascuno ha accettato di fare. Compresa la Lega, che rivendica anche col capogruppo a Montecitorio, Riccardo Molinari, la linea «responsabile», che «manda avanti il governo». Fosse stata in vigore all’epoca dei video hard che spinsero al suicidio Tiziana Cantone, «i responsabili si sarebbero guardati bene dal metterli in rete», nota con più d’un velo di amarezza Roberta Foglia Manzillo, l’avvocata che difese la 32enne morta nel 2016. «Tuttora ci si deve rivolgere alla diffamazione, che prevede pene più lievi», nota. C’era un vulnus grave nell’ordinamento, e stavolta l’introduzione di nuovo reato non pare una ridondanza.
Revenge porn, sicuri serva una legge? Scrive di Nicola Porro il 31 marzo 2019. Questo è il paese in cui serve una legge per tutto. Alla faccia della deregolamentazione che tutti a parole professano. Nessuno riduce la pericolosità del cosiddetto fenomeno delle vendette sessuali fatte attraverso l’oscena pubblicazione di materiale privato. Ma ci sono già le leggi attuali che possono portare a pene pesantissime anche superiori ai dieci anni. Invece no. Sull’onda dell’indignazione per un fatto recente, che poi è quello che riguarda l’onorevole Sarti, si fa una legislazione di emergenza. Così il giorno dopo ci si becca un bel titolo sui giornali. Nessuno può essere favorevole alle vendette sessuali. Facciamo una bella legge, con la quale ci puliamo la coscienza. Ma va là. Piuttosto applichiamo bene quelle che ci sono. Facciamogliela pagare a chi commette i reati. Diamo certezza alla pena.
· Il Femminismo in Vaticano.
CI MANCAVA IL FEMMINISMO IN VATICANO. Domenico Agasso Jr per “la Stampa” il 27 marzo 2019. Per molti nelle Sacre Stanze la fuoriuscita di Lucetta Scaraffia da L' Osservatore Romano era una bomba a orologeria: si aspettava solo la fine del conto alla rovescia. La professoressa, giornalista e scrittrice, figura simbolo della presenza femminile nella Chiesa, lascia la collaborazione con il quotidiano della Santa Sede e soprattutto la guida del supplemento «Donne chiesa mondo». Con lei sbattono la porta molte delle redattrici dell' inserto, con duri atti d' accusa alla nuova direzione di Andrea Monda, ritenuta responsabile di avere depotenziato il progetto editoriale, lasciando la redazione in un «clima di sfiducia e delegittimazione». Accuse rispedite al mittente dallo stesso Monda. La rivista è un inserto mensile nato sette anni fa quando direttore era Giovanni Maria Vian e papa Benedetto XVI. Per molti rappresentava una svolta sul tema donne nella Chiesa, e Scaraffia un'«icona» del riscatto femminile. Il culmine un paio di mesi fa, quando in un articolo denunciava lo scandalo degli abusi sessuali e di potere sulle suore commessi da preti e vescovi. Una piaga riconosciuta dallo stesso papa Francesco, a febbraio, sul volo di ritorno dagli Emirati Arabi Uniti. La Scaraffia era ritenuta una figura determinante dentro il quotidiano d'Oltretevere. Fino al 31 dicembre 2018, ultimo giorno della direzione Vian. Con Monda la sua influenza sul giornale è calata. E nei Sacri Palazzi l' incompatibilità veniva già sussurrata fin da subito. C' è chi racconta della prima volta in cui Monda si è affacciato alla riunione dell' inserto: una redattrice gli avrebbe detto che non era «gradito, perché sei maschio». «È stato un logoramento inesorabile», dice Scaraffia, e l' accumulo di episodi significativi ha avuto alcuni picchi, tra cui un articolo di Monica Mondo, giornalista di Tv2000, pubblicato sul giornale del Papa: era una recensione critica su un documentario che mostrava abusi su religiose, e per lo staff dell' inserto sarebbe stato in contrapposizione alla denuncia di un mese prima. Così si arriva all' editoriale che uscirà sul prossimo numero, in cui la direttrice scrive che la sua linea «non ha trovato l'appoggio della nuova direzione, indirizzata a depotenziare "donne chiesa mondo"». Come? «Avviando iniziative concorrenziali, con l' effetto di mettere le donne l' una contro l' altra». Poi, un altro attacco: «Si torna alla selezione delle donne che parte dall' alto, alla scelta di collaboratrici che assicurano obbedienza». Monda affida le sue repliche a una nota. Smentisce la sospensione del mensile: «Non era in discussione. Dunque la sua storia continua». Assicura che «in questi pochi mesi ho garantito alla Professoressa Scaraffia, e al gruppo di donne della redazione, la stessa totale autonomia e la stessa totale libertà che hanno caratterizzato l' inserto da quando è nato», astenendosi «dall' interferire sulla fattura del supplemento mensile e limitandomi a offrire il mio doveroso contributo (nel suggerimento di temi e persone da eventualmente coinvolgere) alla libera valutazione della redazione». Dichiara che «il mio impegno non è stato in alcun modo quello di depotenziare il mensile, al quale è stato semmai confermato il budget ed è stata garantita la traduzione e la diffusione in altri Paesi» nonostante «la necessità di contenere i costi della Curia». E mai «ho selezionato qualcuno, uomo o donna, con il criterio dell' obbedienza. Semmai, al contrario, ho sollecitato confronti liberi, non costruiti sul meccanismo degli uni contro gli altri o dei gruppi chiusi». È chiaro che Monda fin da subito non ha considerato Scaraffia l' unica depositaria del pensiero femminile nel mondo ecclesiale, e questo avrebbe acceso la miccia. Il direttore annuncia che «lunedì si terrà una tavola rotonda su un saggio, firmato da 17 teologhe e studiose, "La voce delle donne" (Ed. Paoline)». La Scaraffia sarebbe stata invitata, ma non avrebbe risposto. Il timer esplosivo si stava già avvicinando allo zero.
Domenico Agasso Jr per “la Stampa” il 27 marzo 2019. «Ci siamo sentite continuamente smentite dagli articoli dell' Osservatore Romano sul tema "donne-Chiesa"». Ecco il motivo concreto per cui Lucetta Scaraffia ha lasciato la collaborazione con il quotidiano vaticano e si è dimessa dalla guida dell' inserto "donne chiesa mondo". Seguita da molte delle redattrici della rivista femminile, in aperta polemica con il direttore Andrea Monda.
Professoressa Lucetta Scaraffia, quando ha deciso di lasciare?
«Si tratta di una scelta collettiva, maturata con sofferenza dai primi di gennaio».
Perché l'annuncio è avvenuto ieri?
«Perché le ragioni che ci hanno spinto a lasciare si sono accumulate in modo per noi insopportabile, abbiamo capito che c'era rischio di logoramento».
Che cosa è cambiato con la direzione di Andrea Monda dopo quella di Giovanni Maria Vian?
«È mancato il rispetto per la nostra diversità, l'interesse a confrontarsi con noi».
Che cosa significa che vi siete sentite delegittimate e in un clima di sfiducia?
«Significa sentirsi continuamente smentite dagli articoli sul tema "Donne-Chiesa" che uscivano sul quotidiano, senza possibilità di rispondere. Era sempre più chiaro che il nostro modo di affrontare il problema non piaceva, e non veniva neppure considerato degno di discussione».
In che modo «un' iniziativa vitale», come definisce lei la rivista, è stata «ridotta al silenzio»?
«La nostra è stata un' iniziativa nuova, che partiva dall'attività di un gruppo di donne che si è autogestito in totale libertà, con l' appoggio di papa Benedetto XVI e papa Francesco. Siamo state un laboratorio intellettuale di riflessione sul tema donne, e donne e Chiesa, pensando di offrire spunti nuovi alla Chiesa e soprattutto di dare voce a quanto le donne stavano pensando, facendo e progettando. La voce delle donne non è mai ascoltata, sono una presenza invisibile se pure indispensabile. Volevamo renderla evidente, ascoltata.
Far capire che è degna di discussione, di confronto e può dare un aiuto fondamentale alla Chiesa in questo momento di crisi».
Monda ha negato il ritorno al costume «della scelta dall' alto, sotto il diretto controllo maschile, di donne ritenute affidabili»: che cosa ne pensa?
«Non rispondo».
Che peso e risvolti ha avuto la vostra denuncia di abusi di religiose da parte di preti e vescovi?
«Non siamo state le prime, e neppure le più ricche di esempi, ma è stato fondamentale che dall' interno del Vaticano qualcuno avesse il coraggio di rompere il silenzio. Il problema cruciale è sempre quello: rompere il silenzio, e in questo siamo contente di avere dato un contributo».
Vi aspettavate qualcosa di diverso da papa Francesco?
«Il Pontefice ha detto cose importanti sulla servitù delle donne, e ha preso decisioni altrettanto degne di rispetto, come la consacrazione di Maddalena come apostola e la derubricazione dell' aborto dal numero dei peccati riservati, cioè che possono essere assolti solo da un vescovo, a peccato ordinario.
Ma sono le donne che devono chiedere, che devono farsi avanti e chiarire che nella maggior parte delle situazioni la loro esclusione non è motivata né da dogmi né da precetti evangelici, ma solo dalla tradizione. E la tradizione si può e si deve cambiare».
Bergoglio recentemente ha detto che bisogna integrare la donna «come figura della Chiesa nel nostro pensiero» e pensare la Chiesa «con le categorie di una donna»: quali cambiamenti potranno portare queste affermazioni?
«Non lo so, penso che le donne non dovrebbero essere ascoltate come metafora di qualcosa, ma come esseri umani degni di rispetto e con qualcosa da dire. Senza smettere di essere donne, naturalmente».
Dalle sue parole si capisce che per lei la Chiesa in generale è e resta maschilista: quanto e come lo è?
«Tanto, in tutto. È come se le donne non esistessero».
Lucetta Scaraffia e l’addio al mensile vaticano: «Le donne pensanti danno fastidio». Pubblicato da Gian Guido Vecchi mercoledì, 27 marzo 2019 su Corriere.it. Ha pesato la denuncia degli abusi sessuali commessi da preti e vescovi sulle suore? «Per la verità davamo fastidio già prima. Le donne pensanti danno fastidio. Poi, certo, con il racconto degli abusi abbiamo dato loro la prova che avevano ragione a diffidare...». Lucetta Scaraffia sorride, ha imparato a prenderla con ironia. Dopo il Sinodo sulla famiglia scrisse un libro, Dall’ultimo banco, che raccontava la sua esperienza di donna ai margini dell’assemblea, senza diritto di voto.
Perché è successo?
«Perché non ci volevano. Vogliono solo persone che controllano. All’inizio c’è stato un tentativo di commissariarci, di mettere Monda anche come direttore di “donne chiesa mondo” perché partecipasse alle riunioni. Abbiamo detto che se fosse avvenuto ci saremmo dimesse. Rientrato il progetto, ci hanno lasciate libere di lavorare ma è iniziata una forma di delegittimazione strisciante».
Ha scritto della volontà di controllo degli uomini che vogliono «donne affidabili».
«Ci hanno lasciate libere di lavorare, ma sull’Osservatore sono apparsi articoli sui nostri temi che seguivano una linea opposta. Il nostro giornale è nato da un’iniziativa di donne, è stato un laboratorio intellettuale, un’esperienza bellissima. Hanno creato una seconda voce delle donne, però ammaestrata. Hanno messo donne contro donne».
Ne ha parlato con il prefetto per la Comunicazione, Paolo Ruffini?
«Sì, all’inizio. Volevano che la comunicazione vaticana fosse compatta e univoca, mi ha detto. E io: va bene, fatemi partecipare alle riunioni».
E lui?
«Si è messo a ridere. Come fosse una pretesa inaudita».
Come sono considerate le donne in Vaticano?
«Malissimo. Non esistono».
Eppure il Papa ripete che «la Chiesa è donna».
«Bello, ma è un modo per trasformarci in una metafora. Vogliamo esser ascoltate, contraddette, discusse come si fa con gli uomini, non diventare metafore. Essere riconosciute come interlocutrici nella nostra diversità: io, ad esempio, sono contraria al sacerdozio femminile».
Resiste la mentalità per cui le suore devono lavare i calzini ai preti?
«Ah sì, quella è rimasta intatta. L’anno scorso pubblicammo un’inchiesta sullo sfruttamento delle religiose. Ci sono arrivati moltissimi biglietti di suore. Senza dire chi erano, ci scrivevano: grazie. Una cosa commovente».
A Loreto, il Papa ha parlato di Maria come «figlia, fidanzata, sposa e madre», punto.
«Era una donna di grande coraggio che, giovanissima, ha sfidato la società. Una ragazza che ha accettato questo figlio e rischiava di essere lapidata. Nessuno ne parla».
Le donne potrebbero aiutare la Chiesa ad uscire dalla crisi dei preti pedofili?
«Certo, un vero coinvolgimento delle donne è l’unico modo per uscirne».
Quanto sono diffusi gli abusi sulle suore?
«Molto. Io credevo fosse solo in alcuni continenti, America Latina, Asia, Africa, e invece accade anche in Europa. La vaticanista Valentina Alazraki ha detto ai vescovi in Vaticano: «Vorrei che la Chiesa giocasse all’attacco e non in difesa, com’è avvenuto nel caso degli abusi sui minori». «Non so cosa farà. Per il momento la Chiesa non gioca, ha deciso di non giocare».
Come ha reagito finora?
«Col silenzio. Perché c’è la questione aborto che rende tutto ancora più complicato e drammatico rispetto alla pedofilia. Ci sono vescovi e preti che hanno fatto abortire le donne di cui hanno abusato».
Il vostro mensile come è stato accolto in Vaticano?
«Abbiamo avuto l’appoggio dei Papi, Benedetto XVI e Francesco, e anche della Segreteria di Stato. Per il resto, non ci leggevano. O almeno dicevano di non farlo, di considerarci una lettura per cameriere».
Chi lo ha detto?
«Lasciamo perdere… Vivono in un mondo maschile nel quale non è concepito che entrino le donne. Non riescono neanche a pensarci, per loro le donne non esistono».
Vaticano, Papa Francesco e la drammatica rivolta: "Dopo gli abusi sulle suore...", dimissioni a raffica, scrive il 27 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Dura la vita delle femministe all'ombra del Cupolone. Almeno a leggere la vibrante lettera, indirizzata a papa Francesco in persona, scritta da Lucetta Scaraffia, la quale, insieme a tutto il suo staff composto da donne, si è dimessa dall' incarico di direttore di "Donne Chiesa Mondo", supplemento mensile dell' Osservatore Romano, nato sette anni fa durante il pontificato di Benedetto XVI sotto la direzione di Giovanni Maria Vian. Un' iniziativa salutata come inedita apertura del mondo vaticano alla presenza e alla voce più forte delle donne. Cos' è successo, allora? Ecco i fatti: ieri è stata rilanciata, con grande clamore mediatico, la lettera aperta della Scaraffia in cui annuncia e spiega queste dimissioni di massa. Il direttore dell' Osservatore, Andrea Monda, subentrato a Vian - con le sue dimissioni piuttosto affrettate e "pilotate" - il 18 dicembre scorso, a sua volta dichiara, in una nota pubblicata proprio sul quotidiano della Santa Sede, quanto questa decisione sia «volontaria» e in alcun modo indotta.
Gli abusi sulle suore - Per la Scaraffia, invece, le cose sono diverse: parla di come lei e le colleghe si sentano circondate «da un clima di sfiducia e di delegittimazione progressiva, da uno sguardo in cui non avvertiamo stima e credito per continuare la nostra collaborazione». Ma in definitiva, spiega ancora la Scaraffia, quello che deve aver scatenato le vere ostilità, e il tentativo di «delegittimazione», deve essere stata la precisa volontà di sollevare il velo sullo sfruttamento di tante suore da parte di membri del clero, uno sfruttamento che comporta anche gli abusi sessuali. Uno scandalo che la rivista aveva denunciato anche recentemente. Con amarezza, poi, viene sottolineato il fatto che una «iniziativa vitale», come quella del supplemento, «sia ridotta al silenzio e che si ritorni all' antiquato e arido costume della scelta dall' alto, sotto il diretto controllo maschile, di donne ritenute affidabili», tornando così «all' autoreferenzialità clericale». Accuse piuttosto pesanti, come si vede. A cui però il direttore Monda, nella sua nota, risponde quasi punto per punto. Non è mai stato impedito alcunché alla professoressa Scaraffia e al suo staff, anzi è stata garantita la «totale autonomia e libertà» che hanno caratterizzato il supplemento fin dalla sua nascita. E soprattutto «in nessun modo ho selezionato qualcuno, uomo o donna, con il criterio dell' obbedienza. Semmai, al contrario, evitando di interferire con il supplemento mensile, ho sollecitato nella fattura del quotidiano confronti realmente liberi, non costruiti sul meccanismo degli uni contro gli altri o dei numeri chiusi». Alle accuse di ostilità verso la voce delle donne, e di reazione alle loro denunce contro abusi e sopraffazioni perpetrate verso tante religiose che sono rimaste a lungo in silenzio, si ribatte con l' accusa di avere costruito gruppi chiusi e contrapposti, senza un autentico confronto libero.
Lotta di potere - In realtà, secondo molti osservatori, il divorzio tra Osservatore Romano e "Donne Chiesa Mondo" era atteso. Dopo che Vian ha lasciato la direzione del quotidiano, per volontà del Papa, anche l' addio della Scaraffia era previsto, dato che era molto legata editorialmente al precedente direttore: oltre a dirigere il supplemento, era anche editorialista e ogni giorno sovrintendeva all' impaginazione del giornale, prima della sua messa in stampa. I nuovi equilibri editoriali, insomma, comportano decisi cambiamenti. C' è invece chi, come il vaticanista Sandro Magister nel suo blog "Settimo cielo", individua in questo episodio l' ultima mossa di una strategia mirata a ricondurre tutti i media vaticani «sotto il pieno controllo di Santa Marta», e il supplemento "Donne Chiesa Mondo" rappresentava «l' ultimo bastione di resistenza». Sulla vicenda interviene anche la Federazione nazionale della Stampa, che in un comunicato chiede «si faccia chiarezza al più presto e non venga lasciata alcuna zona d' ombra, in linea con lo spirito introdotto da Papa Francesco».
· Liberté, egalité. E décolleté. Libera Tetta in libero Stato.
Corrado Augias per “il Venerdì - la Repubblica” il 7 agosto 2019. La copertina a guardarla bene è accattivante e allusiva, il titolo è esplicito - Libri proibiti (Il Saggiatore) - ma la vera notizia è nel sottotitolo: Pornografia, satira e utopia all' origine della Rivoluzione francese. Autore del saggio Robert Darnton, uno dei maggiori studiosi del Settecento francese; il quale, a capo di una ventennale ricerca, cerca di mettere in chiaro se e quali influenze intellettuali abbiano promosso o favorito il travolgente movimento sfociato, il 14 luglio 1789, nell' assalto alla Bastiglia - ormai quasi vuota, per la cronaca. Una consolidata tesi storica interpreta la Rivoluzione come una proiezione politica delle idee filosofiche di Rousseau. In realtà non sapremo mai quale somma di circostanze e mutamenti provocò gli eventi che contribuirono a cambiare la storia del mondo. Sicuramente vi ebbe parte anche la circolazione dei libri. Quali libri però? La tesi di Darnton è che più dei testi propriamente filosofici o politici agì la letteratura di (relativamente) largo consumo. La vastissima produzione dei racconti e romanzi galanti, poi erotici, poi scopertamente pornografici, che scardinarono un ordine morale consolidato da secoli. Contribuì l'esercizio della satira che fustigava costumi e scandali della corte e del potere mettendoli in ridicolo. Contribuirono infine quei testi visionari che disegnavano una società ideale priva d'ingiustizie. Questo il terreno di ricerca sul quale l'autore s'è esercitato senza escludere le comunicazioni più popolari: «Petizioni, proteste, scritte murali, canzoni, stampe, battute», perfino l' ininterrotto brusio dei pettegolezzi. Tutto questo contribuì a formare una "pubblica opinione" sufficiente a trasformarsi in un impetuoso moto politico. Tra i pregi del volume una piccola e significativa antologia di testi (per esempio: Gli aneddoti su Madame du Barry) che mostrano con quali sottili veleni venne prima compromesso poi tolto di mezzo l'Ancien Régime.
Calvino, i primi topless e il dubbio: si può guardare un seno nudo? Italo Calvino. Pubblicato domenica, 04 agosto 2019 su Corriere.it. Scrittore tra i più importanti del ‘900, collaborò con il Corriere della Sera dal 1963 al 1979. Nato a Cuba, a L’Avana, il 15 ottobre 1923, morì in ospedale a Siena il 19 settembre 1985, tredici giorni dopo aver avuto un ictus. Un uomo cammina lungo una spiaggia solitaria. Incontra rari bagnanti. Una giovane donna è distesa sull’arena prendendo il sole a seno nudo. L’uomo, persona civile e discreta, volge lo sguardo all’orizzonte marino. Sa che in simili circostanze, all’avvicinarsi d’uno sconosciuto, spesso le donne s’affrettano a coprirsi, e questo gli pare non bello: perché è molesto per la bagnante che prendeva il sole tranquilla; perché l’uomo che passa si sente un disturbatore; perché il tabù della nudità viene implicitamente confermato; perché le convenzioni rispettate a metà propagano insicurezza e incoerenza nel comportamento anziché libertà e franchezza. Per questo egli, appena vede profilarsi da lontano la nuvola bronzo-rosea d’un torso nudo femminile, s’affretta ad atteggiare il capo in modo che la traiettoria dello sguardo resti sospesa nel vuoto e garantisca del suo civile rispetto per la frontiera invisibile che circonda le persone. Però - pensa andando avanti e, non appena l’orizzonte è sgombro, riprendendo il libero movimento del bulbo oculare - io, cosi facendo, ostento un rifiuto a vedere, cioè anch’io finisco per rafforzare la convenzione che ritiene illecita la vista del seno, ossia istituisco una specie di reggipetto mentale sospeso tra i miei occhi e quel petto che, dal barbaglio che me ne è giunto sui confini del mio campo visivo, m’e parso fresco e piacevole alla vista. Insomma, il mio non guardare presuppone che io sto pensando a quella nudità, me ne preoccupo, e questo è in fondo ancora un atteggiamento indiscreto e retrivo. Ritornando dalla sua passeggiata, l’uomo ripassa davanti a quella bagnante, e questa volta tiene lo sguardo fisso davanti a sé, in modo che esso sfiori con equanime uniformità la schiuma delle onde che si ritraggono, gli scafi delle barche tirate in secco, il lenzuolo di spugna steso sull’arena, la ricolma luna di pelle più chiara con l’alone bruno del capezzolo, il profilo della costa nella foschia, grigia contro il cielo. Ecco - riflette, soddisfatto di se stesso, proseguendo il cammino - sono riuscito a far sì che il seno fosse assorbito completamente dal paesaggio, e che anche il mio sguardo non pesasse più che lo sguardo di un gabbiano o di un nasello. Ma sarà proprio giusto, fare così? - riflette ancora -, o non è un appiattire la persona umana al livello delle cose, considerarla un oggetto, e quel che è peggio, considerare oggetto ciò che nella persona è specifico del sesso femminile? Non sto forse perpetuando la vecchia abitudine della supremazia maschile, incallita con gli anni in una insolente indifferenza? Si volta e ritorna sui suoi passi. Ora, nel far scorrere il suo sguardo sulla spiaggia con oggettività imparziale, fa in modo che, appena il petto dello donna entra nel suo campo visivo, si noti una discontinuità, uno scarto, quasi un guizzo. Lo sguardo avanza fino a sfiorare la pelle tesa, si ritrae, come apprezzando con un lieve trasalimento la diversa consistenza della visione e lo speciale valore che essa acquista, e per un momento si tiene a mezz’aria, descrivendo una curva che accompagna il rilievo del seno da una certa distanza, elusivamente ma anche protettivamente, per poi riprendere il suo corso come niente fosse stato. Così credo che la mia posizione risulti ben chiara - pensa l’uomo - , senza malintesi possibili. Però questo ritrarsi dello sguardo, questo mettere il seno tra parentesi, non potrebbe in fin dei conti essere interpretato come una ripulsa, una svalutazione, un cacciarlo via di lì, dalla luce del sole, relegandolo nella penombra in cui lo hanno tenuto secoli di pudibonderia sessuomaniaca e di concupiscenza come peccato? Una tale interpretazione tradirebbe le migliori intenzioni dell’uomo, che, pur appartenendo a una generazione matura, per cui la nudità del petto femminile s’associava all’idea di una intimità amorosa, tuttavia saluta con favore questo cambiamento nei costumi, sia per ciò che esso significa come riflesso d’una mentalità più aperta nella società, sia in quanto questa vista in particolare gli riesce gradita. Questo incoraggiamento disinteressato egli vorrebbe riuscire ad esprimere nel suo sguardo. Fa dietro-front. A passi decisi muove ancora verso la donna sdraiata al sole. Ora il suo sguardo, lambendo volubilmente il paesaggio, si soffermerà sul seno con uno speciale riguardo, ma s’affretterà a coinvolgerlo in uno slancio di benevolenza e gratitudine per il tutto, per il sole e il cielo, per i pini ricurvi e la duna d’arena e gli scogli e le nuvole e le alghe, per il cosmo che ruota intorno a quelle cuspidi aureolate. Questo dovrebbe bastare a tranquillizzare definitivamente la bagnante solitaria e a sgombrare il campo da illazioni fuorvianti. Ma appena lui torna ad avvicinarsi, ecco che lei s’alza di scatto, si ricopre, sbuffa, s’allontana con scrollate infastidite delle spalle come sfuggisse alle insistenze moleste di un satiro da strapazzo. Il peso morto d’una tradizione di malcostume impedisce d’apprezzare nel loro giusto merito le intenzioni più illuminate, conclude amaramente quel signore. Tratto da: Italo Calvino, Palomar 1994.
LA TETTA CHE SCOTTA. Fabio Isman per “il Messaggero” il 5 agosto 2019. L'estremo pudore, anzi l'autentica pruderie di Santa Madre Chiesa durante i secoli, e specialmente dopo il Concilio di Trento durato quasi vent'anni fino al 1563, è ben nota. Attende la morte di Michelangelo Buonarroti il 18 febbraio 1564, e, appena due anni dopo l'imposizione conciliare, mette i braghettoni a parecchi suoi nudi, sul Giudizio universale nella cappella Sistina. Non senza un filo di perfidia, ne incarica Daniele Ricciarelli, detto anche «da Volterra», che al maestro era stato assai vicino: questi, gli forniva perfino degli schizzi per i dipinti; il suo capolavoro, la Discesa dalla Croce a Trinità dei Monti, secondo alcuni sarebbe fondato proprio su suoi disegni. Il povero Daniele, comunque, censura la Sistina, come esigeva Pio IV de' Medici; e da allora, gli resterà imperituro appunto il nomignolo di Braghettone. Molte tra queste sue apposizioni sono rimaste anche dopo i restauri dell'immensa parete, conclusi nel 1994.
ULTIMI EPIGONI. In un clima da caccia alle streghe, 110 mila processi dell'Inquisizione in un secolo, Daniele non è stato certo l'unico. E altrove (basti pensare al mondo islamico) non è rimasto privo di emuli. Nemmeno a Roma: nel 2016, per la visita di Hassan Rouhani, presidente del governo iraniano, lungo il percorso dei Musei Capitolini dove doveva recarsi, alcune statue di Venere furono incapsulate in parallelepipedi di compensato per sottrarle al suo sguardo. Un giorno, alla Fondazione Cini di Venezia, Federico Zeri scoprì una Madonna col Bambino di Piero della Francesca, ancora con una ridipintura in rosso per renderla più casta. E anche il Cristo portacroce di Michelangelo, a Santa Maria sopra Minerva a Roma, è ancora censurato. Pochi però sanno che perfino Gian Lorenzo Bernini è rimasto a lungo vittima di queste virtù (chiamiamole così) censorie. E' successo più tardi, in una chiesa al centro di Roma che visitare è assai arduo e difficile: Sant'Isidoro, a un passo da via Veneto. Esattamente nella cappella dedicata a un nobile portoghese: Rodrigo Lopez de Sylva, cavaliere dell'ordine di San Giacomo, che viveva nello stesso palazzo dello scultore, a via della Mercede.
REGGISENI DI BRONZO. Per lui, nel 1663, Bernini ristruttura la cappella: ne restano i progetti. Forse, la esegue solo in parte: fa scolpire le sculture dai suoi aiutanti, sotto la sua supervisione; mentre, sul soffitto, Carlo Maratta dipinge gli affreschi. Poi, i lavori sono sospesi, ed altri artisti realizzano i bassorilievi e le ultime sculture, nel 1772. Le prime statue sono quattro figure muliebri, a seno nudo. Secondo alcuni perfino di mano del Bernini; o forse, dicono altri, «di suo figlio» (ma Paolo Valentino aveva 14 anni); oppure dei collaboratori. Alla cappella, lavoravano in due: Paolo Naldini sulla parete destra, che ospita la Pace e la Giustizia; e Giulio Cartari su quella destra, con la Verità e la Carità. Quest'ultima, in particolare, sembra tanto ... caritatevole, che strizza, e pare offrire, la sua mammella sinistra. Risultato: nel 1860, i sacerdoti della chiesa censurano; sulle ultime due statue, pongono come dei corpetti, un po' più che reggiseni, in bronzo. Realizzati con tale maestria, che per un secolo e mezzo nessuno se n'è accorto: individuati, e rimossi, soltanto con un restauro, nel 2002. Viva l'opulenza; e non è mai troppo tardi, come diceva, alla tv, il compianto maestro Alberto Manzi.
LA CHIESA. L'edificio nasce nel 1625, per la canonizzazione di cinque santi, tra cui lo spagnolo Isidoro Agricola. Prima, è, appunto, di francescani spagnoli; poi, di quelli irlandesi; e ora dei protestanti inglesi, che allora li perseguitavano. Le è accanto un convento: vi si riunivano i pittori detti Nazareni, da cui il nome della strada antistante, via degli Artisti. Ha due chiostri, e le opere migliori sono del giovane Maratta: se ne accorse subito uno straordinario studioso e cronista, Gian Pietro Bellori. Ma non poteva immaginare che la più grande curiosità del luogo, secoli dopo, sarebbe diventata quell'incredibile pruderie.
Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica” l'8 agosto 2019. Il nudismo sta morendo, persino nel Paese che l' ha inventato. La provocazione di Kurt Starke, uno dei maggiori sessuologi tedeschi, è esplosa nel dibattito pubblico come una bomba. Perché si potrebbe aggiungere che il culto tedesco per eccellenza si sta estinguendo in un periodo ultra liberale, di youporn e sessualità senza limiti, di corpi nudi diffusi e noiosi che non dovrebbero scandalizzare più nessuno. E invece. Sta tornando un «tabù del nudo », osserva Starke, e i luoghi dove ci si può spogliare del tutto sono sempre più ridotti, marginalizzati: «È un culto ormai fuori moda e allo stesso tempo "deliberalizzato"». Una neo-pruderie del Duemila sta spazzando via anche i gloriosi anni 70 in cui anche in Italia il pezzo di sopra del bikini era diventato una rarità, da Rimini a Porto Cervo. Persino l' Associazione tedesca dei nudisti, che conta circa 30mila membri, ammette che spogliarsi «non ha più lo stesso peso di qualche decennio fa: è un fatto legato all' evoluzione della società». E qualche mese la Berliner Morgenpost aveva già lanciato l' allarme: a Berlino, città natale del nudismo, «è in ritirata ». E non solo per le zone sempre più piccole dedicate ai cultori del textilfrei , del "senza stoffa". Sta sparendo ovunque. E quando una Spa del quartiere Spandau ha introdotto di recente il divieto di spogliarsi, apriti cielo. L' amministratore delegato si è dovuto giustificare con una manciata di giornali locali. Resta il mistero di come il nudismo possa aver superato indenne, in Germania, ben due regimi totalitari, quello nazista e quello comunista, e stia soccombendo in un' era liberale. Lo abbiamo chiesto a Christian Utecht, presidente dell' associazione dei nudisti di Berlino e del Brandeburgo, che conta circa 3000 membri. Utecht sostiene che uno dei motivi della neo-pruderie potrebbe essere proprio «l' ideale fisico propagato dalle pubblicità e dalla moda, da Hollywood e da una nuova estetica del corpo che i giovani sentono moltissimo». E in effetti è proprio tra i più giovani che il nudismo sta morendo, ammette Utecht: i membri dell' associazione sotto i trent' anni «sono quasi inesistenti ». Anche il sessuologo Starke ritiene che la neo-pruderie sia da attribuire al «terrorismo degli ideali estetici imperanti», insomma al diktat del corpo perfetto. E poi c' è, ammette Utecht, il problema degli «smartphone sempre presenti e del pericolo di finire sbertucciati su un social media». Anche se, ricorda, «in molti spazi per nudisti, fotografare è vietato». La storia del nudismo in Germania è antica. I tedeschi cominciarono alla fine dell' Ottocento a spogliarsi nei boschi, sui campi sportivi e in riva ai laghi e ai mari del nord. Intenzionati a scrollarsi di dosso i moralismi degli adulti, di opporsi all' industrializzazione che allontanava l' uomo dalla natura, i "Cultori del corpo libero" ( Freikoerperkultur , in breve: Fkk) nacquero a Berlino oltre un secolo fa. Gli adepti si chiamavano "Uccelli migratori" ( Wandervoegel ) o Lebensreform ("Riforma della vita") o, più semplicemente, "La bellezza", e insieme al nudismo predicavano spesso un culto del corpo tale che moltissimi finirono per aderire, già negli anni Venti, al nazismo. Gli altri naturisti vengono considerati gli antenati dei moderni hippy, e tra gli ispiratori della liberazione sessuale degli anni 60 e 70. E qualunque turista che abbia frequentato le isole del Mar Baltico o i laghi del Brandeburgo o i parchi di Monaco impara velocemente che il cartello "Fkk" delimita ancora oggi l' area esclusivamente dedicata a loro. A Berlino, poi, esistono ancora luoghi leggendari come la gigantesca Spa del Vabali, interamente "senza stoffa". O luoghi misti straordinari, come il Ploetzensee, dove la spiaggia è pacificamente divisa tra nudisti e donne che vegliano amorevolmente i loro bimbi in burkini.
Da La Stampa il 9 agosto 2019. A Barcellona le donne possono nuotare in topless nelle piscine comunali. Finora ogni piscina aveva le sue regole, in alcune strutture non era consentito fare il bagno senza la parte superiore del costume. Per l'associazione Mugrons Lliures l'imposizione di regole specifiche di abbigliamento per le donne è una discriminazione di genere e lo ha segnalato alle autorità. Dopo la denuncia del gruppo e l'avvio di un'indagine, il Consiglio Comunale ha fatto partire una circolare. Sebbene non esista una regola scritta che dica ciò che si deve indossare nelle piscine comunali coperte o esterne, è vietata la discriminazione basata sul genere e bisogna garantire l'uguaglianza. Perciò un portavoce del Consiglio ha specificato che il bagno in topless non è una novità per Barcellona. Ma la comunicazione è stata inviata alle piscine comunali per ricordare a tutte di applicare politiche non discriminatorie.
Francia, lotta contro il burkini «Tutti nudi contro l’islamismo». Pubblicato venerdì, 28 giugno 2019 da Stefano Montefiori, corrispondente da Parigi su Corriere.it. Il collettivo del burkini contro il gruppo «tutti nudi». Domani in una piscina di Grenoble, complice l’afa record, si combatterà in modo semiserio una battaglia in realtà importante, che coinvolge il diritto individuale di alcune donne che vogliono vestirsi come credono e l’esigenza dello Stato di creare e garantire uno spazio pubblico comune a tutti, libero dalle imposizioni religiose. La questione del burkini è scoppiata in Francia nell’estate del 2016, dopo la strage del terrorista islamista che la sera del 14 luglio, festa nazionale, lanciò un Tir sulla folla della promenade des Anglais uccidendo 86 persone, tra le quali molti bambini. Pochi giorni dopo, alcune donne musulmane si presentarono nelle spiagge di Nizza, Cannes e altrove in Francia indossando il burkini, un costume da bagno che copre tutto il corpo tranne il volto e risponde quindi ai canoni di pudore di alcune frange radicali dell’islam europeo. Il premier Manuel Valls denunciò un «gesto di provocazione dell’islamismo politico», ma il Consiglio di Stato bocciò le ordinanze di tanti sindaci che avevano proibito il burkini per motivi di ordine pubblico. Molti comuni non si sono conformati a quella sentenza, ma del burkini non si è quasi più sentito parlare finché nel maggio scorso l’«Alleanza dei cittadini», un’associazione di Grenoble, ha organizzato un’uscita in piscina con le donne festanti coperte dal burkini, e ha tenuto a diffondere il video sui social media. Il sindaco ecologista di Grenoble, Éric Piolle, ha fatto finta di nulla per qualche settimana, poi ha ricordato che il regolamento interno della piscina per motivi di igiene non consente costumi da bagno diversi da quelli abituali. Domenica scorsa le donne in burkini sono state per la prima volta multate (35 euro), e due giorni dopo i dipendenti della piscina si sono rifiutati di lavorare e l’impianto è rimasto chiuso perché non solo c’erano le ragazze in burkini, ma pure un uomo che per protesta voleva fare il bagno in bermuda (proibiti anche loro). «Non si tratta di innocue mamme musulmane che muoiono di caldo e vorrebbero fare un tuffo», dice Amine El-Khatmi, presidente dell’associazione Printemps Républicain che si batte per la difesa della laicità. «Sono militanti politiche che mettono alla prova le autorità: se ottengono di entrare in piscina con il burkini, poi pretenderanno di avere orari riservati a loro per non condividere la stessa acqua con gli uomini, e così via». Accompagnate da alcuni uomini e da altre ragazze in costume invece regolamentare, le donne in burkini di Grenoble si definiscono le «nuove Rosa Parks» (l’afro-americana che nel 1955 in Alabama rifiutò di lasciare il posto a un bianco sull’autobus). In difesa della laicità e dei valori della République domani ci saranno esponenti politici di destra e di sinistra, «tutti nudi contro l’islamismo».
Da Il Messaggero il 26 giugno 2019. Una protesta che è costata cara, quella di un gruppo di donne musulmane che hanno sfidato un'ordinanza che impediva loro di frequentare una piscina pubblica indossando il particolare costume da bagno noto come burkini. Le donne, infatti, hanno deciso di tuffarsi in piscina indossando il burkini, che copre l'intero corpo tranne il volto, le mani e i piedi, ma sono state multate. È accaduto domenica scorsa in Francia, all'interno di una piscina comunale di Grenoble. La protesta, esplicitamente ispirata all'esempio di Rosa Parks, era stata lanciata da un'associazione culturale di stampo femminista, l'Alleanza Cittadina di Grenoble. Le sette donne in burkini che si sono rese protagoniste della protesta, però, hanno ricevuto una multa di 35 euro ciascuna. La notizia ha fatto molto discutere in Francia ed ha rapidamente oltrepassato i confini nazionali: a parlarne anche media britannici come l'Independent. L'iniziativa non è affatto nuova: già un anno fa, l'associazione aveva promosso proteste simili contro l'ordinanza di Eric Piolle, sindaco di Grenoble, che aveva vietato l'utilizzo del burkini nelle piscine comunali. I fatti di domenica scorsa, però, hanno suscitato reazioni opposte sui social network. Uno dei sostenitori della protesta, Taous Hammouti, ha dichiarato: «Quella norma discrimina non tanto le donne musulmane, quanto i loro figli, che non potrebbero essere accompagnati in piscina dalle loro mamme. Martin Luther King, però, amava ripetere che il potere va sfidato». Non mancano ovviamente gli attacchi dei partiti di destra, ma qualche critica è giunta anche da giovani di fede musulmana: «In un paese come la Francia non può esserci spazio per il burkini. La comunità islamica deve saper rispettare le leggi di questo paese».
In Francia è guerra tra musulmane e non a colpi di burkini e décolleté hot. Da una parte il diritto delle donne occidentali di mostrare le proprie forme senza essere importunate. Dall'altra le musulmane ribelli che sfidano la legge per farsi il bagno coperte con il burkini. Eugenia Fiore, Mercoledì 26/06/2019 su Il Giornale. Liberté, egalité. E décolleté. In Francia è guerra tra chi sfida il divieto del burkini nelle piscine e chi, invece, rivendica la laicità dello Stato a colpi di foto hot. Tutto è iniziato qualche giorno fa a Grenoble. Qui un gruppo di donne musulmane ha lanciato una protesta nelle piscine a favore del burkini, il costume da bagno in linea con i dettami islamici che copre tutto il corpo lasciando scoperti solo mani, piedi e viso. Ma tante piscine in Francia lo proibiscono, considerandolo un simbolo religioso islamico e quindi contrario alla laicità dello Stato. Alla protesta hanno aderito i membri della Alleanza cittadina di Grenoble, scesi in campo per difendere quello che viene considerato un diritto delle donne musulmane. Un'altra incursione è avvenuta poi in un'altra piscina della città francese, la Jean Bron. Per tutta l'operazione, tra l'altro, non è da escludere che le islamiche si beccheranno pure delle multe. Le musulmane che hanno partecipato hanno poi spiegato alla stampa di aver agito in nome della libertà di tutte le donne. Ma non a tutte le donne francesi, appunto, l'iniziativa è piaciuta. E anzi, c'è proprio chi ha lanciato una sorta di contro-protesta. E sempre in nome della libertà. Il vero protagonista dell'hashtag #JeKiffeMonDécolleté è, appunto, il seno. A lanciare l'iniziativa è stata la giornalista francese Zohra Bitan, che ha invitato le donne a condividere le foto del loro décolleté su Twitter. L'obiettivo? Incoraggiare gli utenti di Internet a reclamare il loro diritto di vestirsi come desiderano, senza subire insulti o commenti sprezzanti. Mentre continua la ribellione pro-burkini, sui social sono iniziate a girare sempre più foto di décolleté di donne francesi. E qual è la differenza tra le due proteste? Be', il décolleté rispetta la legge. Il burkini, invece, no.
Mauro Zanon per Libero Quotidiano il 26 giugno 2019. Il décolleté contro il burkini. Il diritto delle donne occidentali di mostrare le proprie forme senza essere importunate da una parte, e la battaglia delle musulmane per farsi il bagno coperte nel rispetto di Allah dall' altra. Eccole servite, le prime polemiche balneari francesi. Polemiche sui tre temi che più degli altri hanno infiammato i dibattiti negli ultimi tempi: la laicità, l' islam e i diritti delle donne. Nel Paese che inventò il bikini (l' ingegnere Louis Réard, nel 1946, scelse una danseuse del Casino de Paris, Michelle Bernardini, come prima indossatrice del mitico costume da bagno che aveva ideato), oggi alcune donne vogliono imporre l' utilizzo del burkini, vietato nelle piscine pubbliche e contrario alla laicità. Si sono autoproclamate «Rosa Parks musulmane», in riferimento alla celebre icona afroamericana che si rifiutò nel 1955 di cedere il suo posto a un uomo bianco. Invocano il presunto «diritto delle donne velate» e dicono che la Francia è «islamofoba» perché non permetterebbe loro di fare ciò che desiderano. «Vogliamo disobbedire per rivendicare il diritto di fare il bagno coperte», gridano in faccia a laici e cattolici. Domenica, come già un mese fa, sette donne appartenenti al collettivo Alliance Citoyenne hanno fatto irruzione in una piscina di Grenoble, la Jean-Bron, in violazione delle regole: un happening per dire al mondo che loro vogliono «solo fare sport» e nessuno glielo dovrebbe impedire.
IL SILENZIO DI MACRON - «Visto che il sindaco di Grenoble Eric Piolle non esercita l' autorità della polizia che gli appartiene, è lo Stato che deve sostituirsi. Il presidente Emmanuel Macron ha dichiarato di voler lottare contro l' islamismo: è il momento di passare dai principi all' azione», ha twittato Gilles Clavreul, ex prefetto e presidente del think tank Aurore. Come lui, in molti hanno denunciato coloro che scambiano una battaglia identitaria islamica, quella per introdurre il burkini, per una lotta di emancipazione paragonabile alla nobile ribellione di Rosa Parks. E dal governo Macron? Silenzio. Un silenzio denunciato duramente dalla militante laica e anti-velo Zohra Bitan, che su Twitter ha segnalato alla segretaria di Stato per le Pari opportunità Marlène Schiappa anche i molti utenti che si sono espressi con toni violenti sull' altra polemica di questo fine settimana: quella del décolleté. Con migliaia di donne che, per solidarietà con una ragazza vittima di commenti inappropriati (tale Céline B., trattata da «sporca baldracca» per una canottiera giudicata da un uomo troppo succinta), hanno pubblicato una foto delle loro forme, più o meno generose, e lanciato l' hashtag #JeKiffeMonDécolleté (amo il mio décolleté). «Non dimenticatevi ragazze, domani sabato 22 giugno alle 18, aspettando la canicola e per resistere alla polizia dei vestiti che tenta di incunearsi qua e là #JeKiffeMonDécolleté. Preparate le vostre foto», ha scritto venerdì Zohra Bitan. Hanno risposto in migliaia al suo appello, anche persone famose come l' attrice Véronique Genest, e l' hashtag è stato ai primi posti durante tutto il weekend.
SHARIA STRISCIANTE - Per «polizia dei vestiti», va da sé, la Bitan si è riferita alla polizia morale, sul modello dei Paesi musulmani, che si sta diffondendo nelle banlieue multietniche di Francia e nelle zone a maggioranza arabo-africana, dove l' islam detta legge e le ragazze vengono trattate come «puttane» se non si coprono abbastanza. «Il décolleté non è un precetto religioso, ma una libertà naturale in Francia!», ha scritto la Bitan. Purtroppo il suo grido laico, a sinistra, è ancora isolato. Pullulano invece gli utili idioti che non capiscono che le donne sono usate dagli islamisti come cavallo di Troia per halalizzare la Francia, e che i cattivi maestri dell' islam politico vogliono trasformare il Paese del bikini nel Paese del burkini.
Valentina Rigano per “il Giornale” il 29 luglio 2015. La Francia ha reagito, immediata, unita, «spogliata» sulla rete sull'onda di migliaia di selfie in costume da bagno, all'ipotesi di un nuovo attentato alla sua libertà, concretizzatosi in quello che sembrava un vero e proprio linciaggio ai danni di una ventunenne che prendeva il sole in bikini in un parco pubblico, da parte di due giovani musulmane. La strage di Charlie Hebdo ha delineato una marcata linea rossa nelle coscienze del paese d'oltralpe che, al primo accenno di un nuovo attacco al modello di vita occidentale, si è virtualmente preso per mano per combattere il razzismo religioso. È questo il tassello importante emerso tra le ombre del volto gonfio di lividi della vittima di un presunto episodio di integralismo, dove la tolleranza e la cautela nei giudizi vengono spinte via dal viscerale bisogno di delimitare e respingere ogni forma di estremismo da un Paese che ha pagato a caro prezzo la sua forte, a tratti per mano di spregiudicata penna, voglia di libertà. È trascorsa una settimana dalla pubblicazione su un sito locale francese (L'Union) della notizia che dava per certa una feroce aggressione ai danni di Angelique Slosse, ventenne di Reims, comune francese nel dipartimento della Marna, regione Champagne-Ardenne, presa di mira da cinque giovani donne, di cui due islamiche, perché prendeva «immoralmente» il sole al parco in bikini. La vicenda è stata catapultata immediatamente alla ribalta dei media nazionali dove, però, con il tempo è stata ridimensionata. «L'Union» aveva titolato l'episodio «aggredita in bikini da donne mussulmane perché ritenuta immorale». Secondo quanto ricostruito dal media straniero la vittima stava prendendo il sole nel parco Leo-Lagrange quando un gruppo di cinque giovani, tra cui le maggiorenni Ines Nouri, Zohra Karim e Hadoune Tadjouri, le sarebbe passato accanto e una di loro, perché musulmana, l'avrebbe offesa a causa del succinto bikini che indossava. La risposta piccata della giovane avrebbe, secondo «l'Union», scatenato la reazione violenta del branco, che le si sarebbe scagliato contro riempiendola di calci, schiaffi e pugni al volto. A bloccare il pestaggio sarebbero stati alcuni passanti che, chiamata la polizia, avrebbero messo in fuga la «banda» di giovinastre, poi identificate e fermate dagli agenti francesi. Sia «Le Monde» che «Liberation» hanno però reso noto nei giorni scorsi che la magistratura francese tende ad escludere un movente religioso alla base del pestaggio. Attraverso BuzzFeed France poi, la diciannovenne mussulmana presunta istigatrice dell'aggressione, avrebbe dato ieri la sua versione dei fatti: «Ero con tre amiche e la mia sorellina, siamo passate davanti a tre donne in bikini. Ho detto alle altre che io non avrei mai avuto il coraggio di prendere il sole in quella tenuta. Ma l'ho detto perché sono complessata, niente a che vedere con la questione religiosa o morale. Sono mussulmana, è vero, ma tollerante». Il dubbio quindi resta. Ma a prescindere che si sia trattato di una questione «religiosa» o di bestiale stupidità, ciò che resta inciso nella pietra è la campagna #jeportemonmaillotauparcleo («indosso il mio bikini al parco Leo»). Sono migliaia le fotografie di giovani, soprattutto donne, che circolano su twitter e tutti gli altri social network, a sostegno di Angelique, divenuta suo malgrado in poche ore simbolo della libertà di espressione (in qualsiasi forma) della Francia. Un emblema che pone l'accento sulla forza di un Paese che oltre a non essersi lasciato intimidire dai fiumi di sangue versati a inizio anno, dimostra di non permettere a nessuno la messa in discussione della condizione della sua popolazione femminile. La difesa di quel bikini, è come una carezza carica di rassicurazioni al volto tumefatto di Angelique, quasi a dirle che decenni di battaglie culturali per la libera gestione del proprio corpo da parte di una donna, sono intoccabili. Il bikini non si copre, al massimo si strappa, #jesuislibre.
Barbara Costa per Dagospia 15 settembre 2016. “Sono una pornostar. E sono musulmana. E non ci trovo nessuna contraddizione”. Lunghi capelli corvini, occhi scuri, labbra carnose: è Nadia Ali, 24 anni, nata negli Stati Uniti da immigrati pakistani. E’ la prima pornostar professionista, mussulmana praticante e fiera di esserlo. E’ famosa in rete per i suoi film girati per la PornFidelity, casa cinematografica americana guidata da una donna, l’attrice e produttrice hard Kelly Madison. “Io non mi sento diversa dalla altre donne della mia famiglia”, ha detto Nadia Ali al Daily Beast, “loro sono tutti ferventi praticanti. Io mi sento vicina a loro, la mia cultura è islamica, il mio background è mediorientale. Mi hanno educata e cresciuta così. Non mi sento per nulla a disagio con il lavoro che faccio, ma i miei familiari sì, mi hanno ripudiata, dicono che sono una vergogna per tutto l’islam”. Un ripudio che l’ha resa ancora più combattiva: Nadia gira le scene indossando il velo islamico e vuole specializzarsi nel porno lesbo, perché se nei paesi islamici l’omosessualità è condannata, quella femminile lo è ancora di più: “Che vorrebbero fare, proibirci di scopare? Ci penserò io a mostrare a tutti come ci masturbiamo bene e quanto ci piace il sesso a noi mediorientali”. Filmati porno con donne islamiche in rete ci sono sempre stati, ma fino a poco tempo fa erano solo porno amatoriali, girati in webcam, o produzioni realizzate a bassissimo budget. Video con pornoattrici improvvisate che si cimentavano in tutto: fellatio, rapporti anali, lesbo, orge. Ogni ragazza recitava seminuda, coperta solo dal velo islamico. Nel 2014 avviene il salto di qualità: BangBros.com gira e distribuisce in rete “Mia Khalifa Is Cumming For Dinner”, una sorta di indovina chi viene a cena in versione porno, con una giovane mussulmana che presenta il fidanzato americano a sua madre. Le due offrono un’accoglienza a base di pompini al nuovo “membro” della famiglia. Alla fine finiscono tutti e tre a letto, in un threesome senza sosta. E’ il film debutto della 20enne Mia Khalifa, libanese, immigrata negli Stati Uniti da bambina. Con questo film, Mia è stata per due mesi in vetta alla classifica di PornHub come pornostar più cliccata. Con lei è nato l’“hijab porn”, un settore specifico di video porno, interpretati da ragazze mediorientali, che scopano con il velo islamico. Denudano il loro corpo, tolgono tutto, fanno sesso in ogni posizione, ma con indosso l’hijab, il chador, il niqab, e perfino il burqa. Dopo il successo del primo film, Mia ha iniziato una promettente carriera, girando altri hijab porn, tra cui “BJ Lessons With Mia Khalifa”, in cui insegna ad altre ragazze mediorientali, velate, ingenue e curiose, tutti i segreti del sesso orale. La produttrice hard Kelly Madison ha capito subito le potenzialità dell’hijab porn. Nel 2015 ha girato e distribuito in rete “Women of Middle East”, un film in 4 episodi che ha fatto molto scalpore. Kelly Madison voleva capovolgere lo stereotipo delle donne mussulmane sottomesse, rendendole protagoniste di scene porno dove venisse fuori tutta la loro dirompente sessualità: “Le donne mediorientali sono bellissime, non c’è niente di male nel metterle dentro un porno. Ho mostrato lo splendore dei loro corpi celato dai loro abiti tradizionali”. Nel primo episodio del film, una sensualissima afgana porta a guinzaglio un uomo, lo picchia, lo maltratta, per poi scoparselo alla grande. Una scena sadomaso di dominazione davvero originale, girato da una pornostar latinoamericana dal corpo mozzafiato, Karmen Bella, nuda sotto il niqab nero. Nel secondo episodio una moglie saudita, Nadia Ali, rivendica il diritto a guidare un’automobile e la sua indipendenza. Il solo luogo dove suo marito può comportarsi da padrone è il letto. Nel terzo episodio, l’iraniano-tunisina Arabelle Raphael balla un’erotica danza del ventre, prima di darsi da fare in un bordello. E infine, l’episodio più “osceno”: Nikki Knightly in burqa che si prostituisce, prendendolo in bocca ai suoi clienti. “Il mio è solo un porno”, ribadisce Kelly Madison, “non un film di critica e denuncia sociale. Il porno è fantasia. Curiosità. Divertimento. Deve far eccitare chi lo guarda”. I dati parlano chiaro: su Google, i paesi che ricercano più siti porno sono quasi tutti mussulmani. Pakistan e Egitto ai primi posti, seguiti a breve distanza da Iran, Marocco, Arabia Saudita e Turchia. Mia Khalifa non è mussulmana, bensì cristiana. Per i suoi hijab porn riceve continue minacce in rete da vari gruppi fondamentalisti. Lei non demorde e prende tutto con ironia. Anche quando le è stato inviato un fotomontaggio con la sua testa sopra il corpo di un prigioniero in tunica arancione, in procinto di essere decapitato da un boia dell’ISIS: “Meno male che hai deciso di tagliarmi la testa e non le tette”, ha risposto lei via twitter, “perché quelle mi sono costate parecchio”. Le intimidazioni e gli insulti via social non si fermano. E neanche Mia: “Ma quelli del Medio Oriente non hanno fin troppi problemi a cui pensare invece di importunare una brava pornostar come me?”.
· Femmine, Islam e denaro.
STENDIAMO UN VELO...DANAROSO. Alessandro Giuli per “Libero quotidiano” il 10 giugno 2019. E anche la Nike, cari occidentali, ce la siamo definitivamente giocata: irriconoscibile, ormai, ricoperta com' è dal hijab islamico; come una sposa al servizio di un califfato travestito da business. È successo che, in coincidenza con i mondiali di calcio femminili in Francia, il noto marchio sportivo ha deciso di trasformare in un manifesto musulmano la sua passione per il religiosamente corretto: è nata così la pubblicità, diffusa in queste ore, che ritrae sette indecifrabili fanciulle armate di pallone o guantoni da box e inguainate nella tuta, tutte però con testa e spalle e gola ben calzate nel velo imposto dai maomettani. Ciò che è peggio, e che non lascia dubbi sullo slittamento dall' estetica religiosa al programma di aggressione, è lo slogan che accompagna lo scatto in bianco e nero: "Don' t change who you are / Change the world". Non cambiare quel che sei tu, cambia il mondo ma davvero? Ma anche no! Una rapida scorribanda sui social ci consente di verificare un confortante grado d'impermeabilità all' intrusione. È bastato infatti che l' opinionista Maria Giovanna Maglie lanciasse su Twitter un #vaffa alla Nike per mobilitare centinaia di cinguettii derisori o preoccupati dal sottotesto implicito nel messaggio: sii te stessa ma travestiti per islamizzare il mondo.
Mercati che fanno gola. Non è certo questa la prima scappatella musulmana della multinazionale americana: a gennaio di quest' anno, inaugurò anche in Italia il primo modello nimbato del hijab nero, nella versione sportiva, e lo presentò nel negozio di Milano in corso Vittorio Emanuele. Come ogni bottega che si rispetti, Nike subisce il richiamo dei nuovi mercati e modella il proprio marketing sulle misure delle ricchezze emergenti. Quelle femminili sono da tempo in cima alle priorità, e figuriamoci se sia un problema. L'interrogativo sull'opportunità di spingersi troppo oltre sorge invece quando ci si ritrova di fronte alla pubblicità in questione, nella quale sembra di scorgere soltanto un manipolo di donne tristi alle quali un tribunale saudita ha appena negato il diritto alla patente. Neppure un accenno, non dico a un ammiccamento seduttivo, ma nemmeno a un sorriso placido su quei volti irrigiditi in una minaccia recriminatoria. Brutta immagine per i paladini della lotta di genere. Sentiamo già aleggiare l' obiezione del conformista collettivo: che cosa c' è di male nel rappresentare un' usanza accolta in larga parte del medioriente arabo e in quello persiano, fino a giungere alle alture dell' Afghanistan non era forse così che anche le nostre nonne e bisnonne circolavano in paese? Obiezione respinta, naturalmente. Passi per la difesa del velo nella sua declinazione meno invasiva, e soprattutto quando è indossato volontariamente (cosa peraltro non facile da stabilire), ma la storiella delle bisavole non regge.
Differenze. L' oscuramento della femminilità non ha nulla a che vedere con l' antichissima consuetudine della stola matronale il cui retaggio, sempre gioiosamente colorato, ha impreziosito per secoli l' avvenenza delle donne e delle madonne europee: il sopraggiungere dello scialle nero, casomai, era ed è il segnacolo di un lutto naturale in età avanzata. E non si può neanche sostenere che in fondo il modello estetico contrabbandato dalla Nike sia un bozzetto strapaesano per vecchie vedove baffute (sempre piaciute): è un sordido ammiccamento a una cultura che in vari luoghi del proprio ecumene riserva alle giovani donne mutilazioni genitali (clitoridectomia o khafd) e sottomissione violenta. C' è un anche un islam moderato che non s' impone e non mortifica i corpi? Certamente, e per fortuna è la parte maggioritaria. Ma non è una buona ragione per istigarlo a islamizzare il mondo con la scusa di vendergli un hijab per ragazze sportive.
· La circoncisione e l'infibulazione.
Laura Avalle per “Libero quotidiano” il 4 novembre 2019. La circoncisione è una delle pratiche più diffuse (riguarda 1 uomo su 3 nel mondo), richiede dai 5 ai 10 minuti per essere effettuata sui bambini e oltre un' ora negli adulti. Eseguita prevalentemente per motivi religiosi, è argomento di disputa fra chi la paragona alle mutilazioni genitali femminili e chi la consiglia per motivi di salute (una delle ragioni sarebbe la diminuzione del rischio di malattie sessualmente trasmissibili, su cui però non tutti i medici concordano). Di certo, ad oggi, è il miglior modo per trattare una fimosi (patologia che impedisce la retrazione del prepuzio sul glande), oltre a rappresentare una soluzione contro infiammazioni urinarie ed eiaculazione precoce. Ma quali possono essere i suoi effetti nella sfera sessuale? «Un pene circonciso è anatomicamente molto diverso da un pene al naturale», commenta Alessandro G. Littara, sessuologo e andrologo di Milano. «Il prepuzio può contare circa mille terminazioni nervose, in buona parte sacrificate dal bisturi nel caso della circoncisione. La conseguenza primaria è quindi l' esposizione del glande che può determinare una riduzione di sensibilità e il bisogno di maggiore stimolazione per raggiungere l' orgasmo». Per alcuni versi, quindi, potrebbe addirittura aumentare la soddisfazione sessuale della coppia (tempi più lunghi per raggiungere l' orgasmo). Di contro, però, la rimozione del prepuzio diminuisce la naturale lubrificazione del pene e questo può rendere fastidiosa la penetrazione e la masturbazione, «per cui è bene non trascurare i preliminari e servirsi, magari, di un lubrificante», consiglia il professor Littara. Tornando alla fimosi: «Questa anomalia, frequente nel bambino, è spesso di natura congenita», sottolinea l' andrologo. «Se associata ad aderenze del prepuzio alla mucosa del glande, può provocare infezioni locali, dette "balaniti". Nell'adulto è spesso secondaria a un' infiammazione. Una malattia del prepuzio chiamata "lichen scleroatrofico" (la pelle diventa spessa e dura e perde elasticità) o un diabete possono provocare questo tipo di problema. La fimosi può provocare dolore durante l' erezione e la penetrazione e comporta un rischio aumentato di tumore del pene. Questo tumore, rarissimo (1 caso ogni anno su 100.000 uomini), può essere prevenuto anche con una buona igiene locale e, in caso di fimosi, effettuando la circoncisione. I non circoncisi non si preoccupino: l'aumento del rischio di cancro del pene resta comunque estremamente limitato. L' intervento viene effettuato in dayhospital in anestesia locale per iniezione di xilocaina (1% lungo i due nervi penieni). La cicatrizzazione è completa in 3-4 settimane ed entro un mese si può riprendere la normale attività sessuale. Possono presentarsi complicazioni, la più frequente è l' emorragia, trattabile con semplice fasciatura compressiva». . Infine il pene privo di prepuzio godrebbe di una minor proliferazione di germi e batteri i quali, si sa, prediligono ambienti umidi e stagnanti.
Costanza Cavalli per “Libero quotidiano” il 4 dicembre 2019. Gli occhi e le orecchie di una persona normale non reggono oltre venti secondi un video che riprende una mutilazione genitale: una bambina di colore, avrà sei o sette anni, nuda. Immobilizzata a terra da sei mani, su un terreno che è sabbia e sabbia, la sua ribellione imbrigliata da tre persone adulte, vestite con i kanga, i fazzoletti colorati, all' africana. Sono tutti uomini. Ne arriva un quarto, si inginocchia, si avvicina con un grosso ago da cucito ai genitali. La bimba è così spaventata che non riesce nemmeno a piangere, emette letteralmente latrati. Clic, basta così. Non si può continuare, ci vuole un pervertito per arrivare fino in fondo (il video dura un minuto e quaranta, si trova online, su Vimeo.com, titolo "Infibulation d' une fillette"). Sono 200 milioni nel mondo le vittime di mutilazioni genitali femminili, 3 milioni le bambine sotto i quindici anni a rischio infibulazione ogni anno. La pratica è comune in 30 nazioni africane (in Egitto, Somalia e Sudan viene effettuata su oltre l' ottanta per cento delle donne), in alcune aree dell' Asia e dell' America latina. Il 90% delle donne vittime di questa disumana violenza vive nell' Africa subsahariana, ma il restante 10% risiede in Europa. In Gran Bretagna il febbraio scorso è stata condannata la prima donna colpevole di aver commesso infibulazione sulla figlia di tre anni. Per difendersi, la madre aveva dichiarato che la bambina era caduta «su un taglierino da una scala e si era recisa le parti intime». In Italia si stima che 80mila donne abbiano subito l' operazione, al ritmo di 5mila nuove bambine l' anno. La legge che l' ha dichiarata reato compirà quattordici anni il prossimo 9 gennaio: è la numero 7 del 2006, prescrive l' aggiunta nel codice penale dell' articolo 583-bis, che punisce con la reclusione da 4 a 12 anni chi cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili. Ma, come era spiegato ieri sul quotidiano La Stampa, fin ora è stata inutile: erano previste campagne informative e iniziative per l' integrazione. Non sono mai partite.
Pratica tribale. Le «forme di rimozione parziale o totale dei genitali femminili esterni o altre modificazioni indotte agli organi genitali femminili, effettuate per ragioni culturali o altre ragioni non terapeutiche», come da definizione dell' Oms, racchiudono tre varianti, diverse per gravità: il primo tipo è la rimozione del prepuzio del clitoride; nel secondo si aggiunge il taglio delle piccole labbra; l' ultimo consiste nell' eliminazione completa delle piccole labbra e nella cucitura delle grandi labbra, con chiusura quasi completa della vulva, tranne che per un piccolo foro, lasciato per far passare l' urina e il sangue mestruale. «Era in gravidanza avanzata, aspettava due gemelli», aveva raccontato di sua sorella Bogaletch Gebre, la più grande attivista etiope contro le mutilazioni genitali femminili, morta a 66 anni un mese fa. «Ha cominciato a perdere sangue e non hanno potuto farle partorire i bambini, perché a causa delle cicatrici l' apertura era troppo stretta». La donna morì. È una pratica primitiva e tribale, precedente alle tre religioni semitiche, che intende esporre l' illibatezza e la serietà della donna, e ridurre drasticamente le "tempeste ormonali" femminili: i rapporti sessuali sono infatti impossibili fino alla defibulazione, ovvero la scucitura della vulva, che viene effettuata dallo sposo prima della consumazione del matrimonio.
Inafferrabile. Nonostante l' esistenza questa pratica sia di dominio pubblico ormai dagli anni Novanta, non riusciamo a debellarla, e allo stesso tempo ci risulta sempre ugualmente insopportabile. È inafferrabile perché si diffonde sottotraccia: oltre a non rispondere a una questione religiosa, non è neanche legata a un concetto qualsiasi di civiltà e non è sanabile con l' integrazione, parola che finora non ha potuto nulla sui costumi nei Paesi d' origine (in Italia è accaduto a 80mila donne, ripetiamo). L' infibulazione è uno dei veri confini insormontabili dell' integrazione come la si sbandiera, è un fossato profondissimo tra le popolazioni che lo praticano e l' Occidente. Non è un indice culturale, è piuttosto una perversione della tradizione, proprio perché da chi la pratica è giudicata positiva e lodevole. Per noi, equivale al sacrificio umano, o al cannibalismo: noi non sacrifichiamo l' uomo a Dio e i cannibali ci fanno invariabilmente orrore. È una follia che risiede al di là anche del concetto "genetico" di umanità, è una negazione estrema della razionalità e al corso naturale della vita. La mutilazione genitale femminile è meno propria dell' essere umano perfino dell' omicidio, che perlomeno tutti temono e nessuno considera una bella cosa, ma che possiamo individuare, analizzare, punire e combattere. Ed è peggio che animalesca: gli animali come gesto di resa offrono all' avversario vincente le proprie parti intime, e in quel momento lo scontro si arresta. Questi "umani", invece, fanno una carneficina con le parti intime dei congiunti, provocando un disastro di sofferenze, dalle conseguenze inenarrabili e senza una fine. Tanto che anche a noi, guardando dalla scrivania quel video, si è svegliato un istinto di protezione, di stringere le gambe e incurvarci, difenderci il ventre. È meglio essere cani.
· Il Perineum-sunning.
Perineum sunning, dagli Usa l’ultima tendenza: cos’è.
Perineum-sunning. Notizie.it il 29 novembre 2019. Arriva dagli Stati Uniti l’ultima tendenza in fatto di benessere e di cura per il proprio corpo, divulgata su internet con il nome di “perineum sunning“. Come dice il nome stesso, la pratica (nota più esplicitamente anche come “butthole sunning”) consiste semplicemente nel prendere il sole nella zona del perineo: cioè quella piccola area del nostro corpo compresa tra l’ano e gli organi genitali. Una pratica che secondo i suoi promotori apporterebbe numerosi benefici alle condizioni psicofisiche dell’individuo.
Perineum sunning, l’ultima tendenza salutistica. La pratica del perineum sunning è stata recentemente illustrata dalla nota influencer americana Metaphysical Megan, che all’interno dei suoi post ne descrive le principali caratteristiche benefiche: “Bastano appena 30 secondi di luce solare al nostro perineo per ricevere quell’energia di cui abbiamo bisogno nella giornata”. Il perineum sunning deriverebbe infatti da un’antica tecnica taoista che tra le altre cose favorirebbe la creatività e ore di sonno migliori in chi la pratica. Sono già in molti sui principali social network a pubblicizzare il perineum sunning, come il profilo @ra_of_earth che in un video decisamente esplicativo mostra tre uomini nudi su un prato mentre prendono parte a quello che viene definito un esercizio di adorazione del sole: “Per il Dr. Chang (autore del libro The Tao of Sexology, the book of infinite wisdom ndr) è una pratica che aiuta inoltre a mantenere l’area più sana, e perché non provare allora?”. Secondo la dottrina taoista infatti, uno degli obiettivi dell’essere umano è quello di ritrovare la propria armonia all’interno della natura.
Il parere dei medici. La comunità scientifica si mostra tuttavia scettica circa i reali benefici che questa pratica afferma di apportare all’organismo. La dottoressa Diana Gall, del servizio medico online Doctor 4 U, ha infatti affermato come non esistano al momento evidenze scientifiche sulla reale efficacia del perineum sunning, dichiarando: “La vitamina D fa sempre bene, ma qui si rasenta la follia”. Nel frattempo però anche alcune personalità dello star system hanno iniziato a praticare la tecnica, come l’attrice della nota serie tv Big Little Lies Shailene Woodley.
· Chi comanda il Mondo? Le femmine! Il potere di disporre dei figli, fino al potere di ucciderli.
Vogliono l’egemonia del potere.
Le donne sono autonome.
Come donne decidono loro di fare o disfare le famiglie.
Come donne decidono loro se dare sesso.
Come madri decidono loro di tenersi i figli, quando ci sono le separazioni.
Come madri decidono loro di uccidere i loro figli, con l’aborto o l’infanticidio.
L’uomo è solo un optional, senza diritto di scelta.
“Viene chiamato ipocritamente interruzione della maternità e viene giustificato per evitare aborti clandestini. L’aborto è invece un omicidio premeditato con l’aggravante che la vittima non si può difendere. Per com’è applicata, la legge 194 ha deciso che la madre può fare quel che vuole del figlio: ucciderlo o mantenerlo in vita. Così il figlio non ha più nessun diritto, è come un oggetto, lo puoi buttare nella spazzatura. Eppure nessuna donna vuole uccidere il proprio figlio, tuttavia lo uccide trincerandosi dietro una falsa scusa: non posso tenerlo. In realtà se la legge 194 fosse applicata negli articoli che tutelano la gravidanza e la vita, la donna troverebbe le risorse per essere madre del proprio figlio e non chiederebbe più di sopprimerlo”. Don Oreste Benzi
Contro l'induzione all'aborto. Siamo certi che una mamma non abortirebbe mai il suo bambino. C’è sempre qualcuno o qualcosa che la induce a farlo. Ci son persone che non vogliono questo bambino perché interferisce con i loro progetti, perché è fonte di imbarazzo e di vergogna, perché obbliga ad assumersi delle responsabilità. Pressioni spesso mascherate da consigli volti al bene della futura madre ma che si traducono anche in minacce, ricatti affettivi, inganni e violenze.
Adozione, estrema ratio. La legge italiana protegge madri e neonati consentendo a qualsiasi donna di partorire senza riconoscere il proprio figlio, anche rimanendo anonima permettendo così al bambino di andare velocemente in adozione. Nell’atto di nascita del bambino sarà registrato come “nato da madre che non consente di essere nominata”.
Madri assassine e la cultura del possesso, scrive il 28 Ottobre 2014 Il Fatto Quotidiano. Secondo un conteggio approssimativo, per il 2014, sono 11 i bambini e le bambine vittime di delitti compiuti dai genitori. Si pone l’accento sulle stragi familiari quando è l’uomo a compierle. Allora si parla di padri molesti, che non accettavano la separazione, violenti, egoisti, possessivi. Quando è la madre a uccidere i figli, invece, si tira fuori il tema della depressione, ponendo uno stigma su una malattia che riguarda tantissime persone che di certo non vanno in giro ad ammazzare i familiari, ovvero, come sta accadendo in questi giorni, si inserisce il delitto tra quelli che vengono giustificati perché sarebbero spinti da una cultura, una religione e una etnia lontane dall’italica civiltà. Ciò di cui non si parla è il fatto che i figli sono considerati delle proprietà. A spingere gli assassini, donne o uomini che siano, a commettere delitti o a progettare suicidi, non senza aver pensato di trascinare con sé i figli, è una cultura del possesso che non saprei definire in altro modo. I figli sono miei e ne faccio quello che voglio. Meglio saperli morti che in mano a chiunque altro. Meglio saperli morti perché solo io dispongo a mio piacimento della loro vita. Così pensano, forse, quelli che immaginano di doverli difendere da chiunque meno che da loro stesse. Il punto è che i figli diventano un’arma di ricatto durante i litigi tra coniugi, nelle separazioni, nei momenti più duri delle vite di questi adulti drammaticamente egoisti. Vengono considerati oggetto di nostre decisioni. Li portiamo dove ci piace, li trattiamo come vogliamo, pensiamo di godere di totale impunità se gli molliamo uno schiaffo, ci stupiamo della violenza altrove senza guardare a quel che succede sotto il nostro naso o a quello che noi facciamo. Un figlio ucciso, come è stato, per esempio, nel caso di quel ragazzino ammazzato dalla madre dentro una tenda, lì dove la madre lo aveva portato in campeggio, rappresenta una questione rimossa. Si tratta di una faccenda che mette in discussione la teoria secondo la quale sono solo gli uomini, per natura, a compiere certi delitti, mentre le donne, così empatiche e materne, sfuggirebbero al controllo, solo se molto malate o vittime di chissà quale atroce destino. Dunque gli uomini che uccidono, e poi si suicidano, sarebbero dei bruti che lucidamente compiono delitti avendo un ghigno feroce stampato in faccia e godendo di azioni sadiche. Le donne invece, anche quando ammazzano, restano in una zona rimossa, pietosa e compassionevole, in cui non la si considera come un essere umano, anch’esso in grado di sbagliare. Anzi: quando si parla di donne che uccidono i figli se ne parla come di mostri, perché mancherebbero delle magnifiche qualità intrinseche a tutte le donne o sarebbero delle creature aureolate corrotte, però, da religioni e persone irragionevoli. Si immagina che gli infanticidi accadono solo in situazioni di degrado e non si indaga in alcuna direzione diversa da quella superficiale che vediamo descritta. La mamma è sempre la mamma e non si può parlarne male, non si può ragionare di prevenzione per evitare delitti che producono vittime su vittime. Siamo qui, invece, a dover produrre l’esaltazione del materno, perché diversamente il welfare andrebbe in malora, e dunque puoi vedere donne, lettrici, che annegano nelle contraddizioni. Si arrabbiano moltissimo, e giustamente, se leggono che uno ha ucciso una donna in preda al raptus, ma se è di una donna che i media parlano in questi termini nessuna batte ciglio. Va tutto bene. E’ tutto ok. Il punto è, care, che quelle donne che hanno bisogno di aiuto per vivere meglio e per non commettere un delitto, come faranno a capire, chiedere, trovare luoghi di ascolto, se quel che si dice di loro è che sono sempre vittime o, altrimenti, che non corrispondono neppure al profilo della perfetta donna che tanto piace alla patria?
Il “Complesso di Medea”: quando le madri uccidono, scrive stefanobecagli.it. L’ultimo fatto di cronaca ha fatto tornare in auge il “Complesso di Medea”. In Psicologia con tale definizione si fa riferimento al quadro clinico nel quale una madre, in una condizione caratterizzata da tensione oppositive e/o emotiva nei confronti del partner, riversa la propria collera e violenza sul figlio raggiungendo lo stadio finale dell’omicidio. Tale gesto non lascia liberi da turbamenti, perché solitamente la figura della genitrice (madre) è associata al valore della protezione della propria famiglia e di conseguenza della propria prole. Gli ultimi infanticidi avvenuti nel nostro Paese sono realizzati da madri giovani, che giungono all’atto estremo per ragioni formalmente inspiegabili, che frequentemente trovano un’interpretazione nel “Complesso di Medea”. Medea è una figura mitologica greca che sposa Giasone con il quale ha dei bambini, che la stessa Medea ucciderà per vendicarsi del marito che l’aveva lasciata perché si era innamorato di un’altra donna. Le donne che si possono definire madri-Medea soffrono di ossessività e gelosie patologiche e nell’istante in cui non hanno più l’oggetto della loro ossessione scaricano tutta la loro violenza e insoddisfazione sui figli che, emblematicamente, equivale all’uomo che le ha abbandonate. Spesso il “Complesso di Medea” è citato in relazione all’uccisione dei figli. Nel 1988 Jacobs definisce il “Complesso di Medea” il comportamento materno finalizzato alla distruzione del rapporto tra padre e figli dopo le separazioni conflittuali: dove l’uccisione diventa simbolica e il fine non è uccidere il figlio stesso ma il legame che ha con il padre. Sfortunatamente il vivere in un contesto contraddistinto da abusi in età evolutiva, può generare la manifestazione di alcuni meccanismi di difesa tipici della patologia borderline, ad esempio l’onnipotenza, la dissociazione e la svalutazione, o differenti esiti a breve e lungo termine accertati sui figli, come futuro carattere manipolatorio, falso sé, depressione, egocentrismo, comportamenti autodistruttivi, scarso rendimento scolastico e disturbi alimentari. La figura della madre è da sempre associata a sentimenti e atteggiamenti di protezione verso la propria prole. Nelle madri-Medea si riscontra una metamorfosi crudele la felicità della maternità non è più quella di donare la vita bensì unicamente quella di possedere un figlio ideale. Nel caso in cui il figlio si allontana da tale ideale deve essere ripudiato. Tante depressioni post-partum affermano di tale rifiuto che trova la sua rappresentazione più malvagia nel cammino verso l’azione dell’infanticidio. Il “Complesso di Medea” si caratterizza per l’eccessivo bisogno di controllo sull’altro, esercitato sulla vita della vittima. In aggiunta al bisogno di controllo, oltre che di possesso, un’altra particolarità è il bisogno di essere esclusivi ed unici; la percezione che tante madri hanno di non aver più, con il passare del tempo, una parte di se stesse è suggestionato dal proprio ruolo sociale. Sul fronte psicologico, nell’istante dell’assassinio del figlio, la madre-Medea giunge al culmine del delirio di onnipotenza (specifico delle crisi psicotiche) e si autoproclama giudice di vita e di morte. L’omicidio sembra essere totalmente in contrapposizione con il ruolo conferito oltre che al genere sessuale femminile in generale ed alla madre nel particolare come protettrice della famiglia. Pertanto il figlicidio è ritenuto contro natura nell’ottica della sopravvivenza della specie e di cui è la madre portatrice. Nell’infanticidio (uccidere il figlio appena nato) è psicologicamente diverso che nel figlicidio (uccisione dopo che c’è stata una convivenza più lunga e si sono intessute relazioni derivanti inoltre dalla comunanza di vita). sensazioni di estraneità e ostilità non sono infrequenti nelle donne che hanno partorito da poco; il neonato può essere percepito come oggetto e non come individuo, quale parte del corpo materno, di cui si ha la piena completa disposizione. Nel versante soggettivo, il vissuto di certe infanticide pare essere, anziché quello di togliere la vita ad un essere vivente, quello di ostruire al neonato di iniziare la sua esistenza; l’infanticidio immediatamente dopo il parto può solitamente intendersi, nella dinamica psicologica, come un aborto tardivo, messo in pratica sotto la pulsione di contingenze “problematiche” che non consentono alla donna di affrontare la maternità. Spesso si è reputato che la madre che realizza un figlicidio ha seri problemi economici, familiari, circostanze pregresse o attuali di tossicodipendenza, una famiglia di origine non accudente e abusi. La teoria psicologica sostiene che le madri-Medea sono affette da ossessività e gelosie patologiche e nell’istante in cui non hanno più l’oggetto della loro ossessione (il partner) scaricano tutta il loro avvilimento e la loro aggressività sul figlio che, emblematicamente, impersona l’uomo che le ha allontanate. Le donna con il “Complesso di Medea”, quindi, hanno notevoli difficoltà ad accettare la separazione, ad affrontare la sensazione di depressione e di inquietudine che avvertono interiormente e a rielaborare la sensazione della perdita. In certe donne che hanno tolto la vita ai propri figli si riscontra la propensione a rimuovere tale ricordo dalla loro memoria. Fra le varie cause che sono in grado di spingere una madre a commettere tale assassinio, si possono elencare le seguenti:
L’atto impulsivo delle madri che sono solite a maltrattare i figli.
Le madri che negano la gravidanza.
Le madri che trasferiscono la volontà di uccidere la loro madre cattiva e tolgono la vita al figlio cattivo.
La vendetta della madre nei riguardi del partner.
Le madri che uccidono il figlio per non farlo soffrire.
Le madri che desiderano uccidersi e uccidono il proprio figlio.
Le madri che compiono sul proprio figlio le violenze che hanno subito.
Le madri che uccidono i figli non voluti.
Le madri che uccidono subdolamente il figlio.
Le madri che uccidono il figlio perché pensano di salvarlo.
Le madri che trasformano i loro figli in capri espiatori.
L’agire omissivo delle madri negligenti e passive nel ruolo materno.
Ulteriori concause del “Complesso di Medea” concernono una sensazione di inadeguatezza del proprio ruolo materno e l’esistenza frequentemente di patologie (organizzazione mentale destrutturata da traumi pregressi o deviata da disturbi di personalità come il disturbo dissociativo dell’identità e il disturbo borderline) e per di più fattori di rischio da prendere in considerazione come per esempio la depressione post-partum. Tutti questi elementi intrecciati fra loro sono le fondamenta del “Complesso di Medea”. L’intervento psicologico con le madri-Medea è volto al trattamento dell’accettazione della separazione, a contrastare il sentimento di annientamento e di inquietudine che avvertono dentro e a rielaborare il senso della perdita. Pertanto il percorso psicologico ha l’obiettivo di ricondurre alla mente il ricordo del proprio gesto e sostenere la madre ad affrontarlo. Questo articolo è stato pubblicato anche dal sito Psychology.
Aurora, mamma a 12 anni, che invita a non abortire. Aurora Leoni ha scoperto che sarebbe divenuta una mamma all'età di 12 anni, ma ha scelto di non abortire. La sua storia e i perché della sua decisione, scrive Francesco Boezi, Mercoledì 27/02/2019 su Il Giornale. Aurora Leoni, quando ha scoperto che sarebbe divenuta mamma, aveva appena dodici anni. La sua storia è stata riportata e raccontata da più di qualche media. Specie da quelli cattolici. Oggi, in piena discussione sulla 194 - un dibattito che, in realtà, non si è mai assopito - abbiamo voluto raccogliere la sua testimonianza. Per comprendere pure come se la passa una giovane donna con una storia controcorrente. La sua vicenda personale però, che potrebbe sembrare ingombrante agli occhi di un osservatore poco attento o sostenitore della causa abortista, le consente, attraverso dei semplici consigli, di essere esempio.
Cercando il tuo nome sui motori di ricerca, si scopre una storia inconsueta... Non hai abortito, pur avendo scoperto che saresti divenuta mamma a 12 anni. Raccontaci di te.
"La mia è stata un'infanzia difficile, i miei genitori non sono mai stati presenti. Sono stata affidata al servizio sociale di Forlì, che mi ha collocata a casa della mia nonna materna. All'età di undici anni ho conosciuto, tramite amici, il padre di mio figlio: abbiamo iniziato a frequentarci come fanno tutti gli adolescenti. E nell'agosto del 2011 ho scoperto di essere rimasta incinta".
Come mai hai deciso di non abortire?
"Ho deciso di non abortire perché, come ogni bambina, anche io sognavo di fare la mamma e soprattutto volevo poter dare tutto il mio amore a un bambino. Così come i miei genitori non lo avevano dato a me".
Pensi che la gravidanza in Italia venga tutelata? Qualcuno ti ha aiutata?
"La gravidanza in Italia è abbastanza tutelata. Ovvio: la scelta spetta alla persona, specie se è maggiorenne. Quando ho scoperto la mia gravidanza, il servizio sociale, per tutela mia è del futuro nascituro, e in accordo con me e i miei familiari, mi ha collocata presso il CAV di Forlì dove tutt'ora risiedo: aiutano sia me, per la mia crescita personale, sia mio figlio".
C'è un gran dibattito attorno al tema dell'aborto. Negli Stati Uniti è stata approvata una legge che lo consente, in alcuni casi, fino al nono mese. In Lombardia, invece, è caduto l'obbligo di sepoltura per gli embrioni dei non nati. Cosa ne pensi?
"Noi siamo liberi di fare le nostre scelte ma, a mio parere, quando scegliamo di abortire dobbiamo avere presente come la decisione non ricada su di noi, ma pure su un povero bambino innocente. Tutti noi dovremmo pensare se fosse capitato a noi di non poter nascere, ci saremmo persi tutte le gioie e i dolori della vita: Non avremmo mai conosciuto le persone che ci sono care".
Pensi che la tua generazione sia disposta a sacrificarsi come hai fatto tu?
"Affrontare la situazione e andare avanti necessitano di una qualità: saper chiedere aiuto alle persone giuste. Quando si è adolescenti si fa fatica. Si ritiene che, bene o male, riusciremo a risolvere tutto con le nostre sole forze. La parola "aiuto" viene etichettata come se fosse riservata ai bambini. Per me, invece, saper domandare l'ausilio di altre persone è una forma di maturità e umiltà".
Oggi ti senti diversa rispetto a chi, magari, ha preferito non partorire? Ritieni di avere meno opportunità?
"So bene di essere uguale a ogni ragazza della mia età. Ovvio: ho più responsabilità rispetto a ogni ventenne, ma questo non mi priva della felicità. Mi comporto come le ragazze della mia età, ma ogni volta che rientro a casa trovo pure l'amore di mio figlio, che è costante. Il che è più importante di qualunque serata in discoteca persa".
Come sta il tuo bambino e come fai a conciliare il ruolo di giovane mamma con gli impegni di studio che ancora hai?
"Mio figlio fortunatamente sta bene, ha molte figure attorno a lui ma ovviamente il CAV è la sua casa. Conciliare gli impegni è dura ma non impossibile, comunque mio figlio frequenta il primo anno di elementari e nell'orario di scuola io studio per completare l'ultimo anno di superiori".
Cosa ti senti di dire a chi sta valutando di abortire?
"Mi sento di dire solamente di contare fino a mille prima di prendere questa decisione. Anche dopo aver contato, provare a parlare con qualcuno in grado di dare una mano. "Eliminare il problema" - come alcuni usano dire - sarà pure semplice, ma il rimorso che rimane, e rimane per tutta la vita, è assolutamente insopportabile".
La Cassazione: «Il feto durante il travaglio è già una persona». Pubblicato giovedì, 20 giugno 2019 su Corriere.it. Rischia una condanna per omicidio colposo il sanitario che compie errori durante il travaglio e il parto di una donna, tanto da non impedire la morte del feto: la Cassazione ha stabilito che in casi del genere è legittimo contestare il reato di omicidio colposo e non, invece, la fattispecie di aborto colposo, contemplata dalla legge 194, per cui sono previste pene ben più lievi. A detta dei giudici, il feto, «benché ancora nell’utero», deve essere considerato un «uomo» durante il travaglio della gestante, nel momento cioè della «transizione dalla vita uterina a quella extrauterina». Il caso all’esame della Corte riguardava un processo a un’ostetrica, ora condannata in via definitiva a un anno e 9 mesi di reclusione (pena sospesa), ritenuta responsabile di omicidio colposo «per imprudenza, negligenza e imperizia» in relazione alla morte di un feto durante il parto, avvenuta nel novembre 2008 in una clinica di Salerno. L’imputata, secondo l’accusa, non aveva «tempestivamente» rilevato la «sofferenza fetale» che si era protratta per almeno mezz’ora - cosa che invece avrebbe «imposto di accelerare al massimo la fase espulsiva e l’estrazione del feto» - e aveva anche formulato al ginecologo «rassicurazioni» sul «regolare andamento del travaglio». Il feto era quindi «nato morto per asfissia perinatale». Dopo le sentenze conformi di condanna emesse dai giudici del merito, l’ostetrica aveva presentato ricorso alla Suprema Corte, lamentando «l’errata qualificazione giuridica» del fatto, da lei ritenuto aborto colposo e non omicidio colposo, sollecitando anche una trasmissione degli atti alla Consulta.
Omicidio colposo per l’ostetrica: il feto durante il travaglio è una persona. Patrizia Maciocchi il 20 giugno 2019 su Il Sole 24 ore. L’ostetrica che provoca la morte del feto durante il travaglio risponde di omicidio colposo e non di aborto colposo. Perché il feto nascente è una persona. E i reati di omicidio e infanticidio tutelano lo stesso bene giuridico: la vita umana nella sua interezza. Con questi argomenti la Cassazione (sentenza 27539/2019) ha confermato la condanna, a nove mesi con pena sospesa, per omicidio colposo a carico di un’ostetrica, colpevole di non aver monitorato attentamente il battito cardiaco e di aver somministrato alla madre l’ossitocina per aumentare le contrazioni. Un verdetto che tiene conto dell’evoluzione della legge e giurisprudenza, anche sovranazionale, che si è mossa in un’ ottica «di totale ampliamento della tutela dei diritti della persona e della nozione di soggetto meritevole di tutela, che dal nascituro e al concepito si è poi estesa fino all’embrione» e dunque al feto benché ancora nell’utero. I giudici attirano l’attenzione sull’articolo 578 del Codice penale sull’infanticidio che punisce per omicidio la madre che «cagiona la morte del figlio, immediatamente dopo il parto o del feto durante il parto».
La sentenza. Una mancata distinzione non casuale, ma in linea con l’intento del legislatore di riconoscere al feto qualità di uomo. Per la Suprema corte non deve confondere l’uso, nel dettare la norma, del termine feto: è, infatti, usato impropriamente «perché il nascente vivo non è più feto né in senso biologico né in senso giuridico, bensì una persona» . La logica conclusione è che se «in un parto, naturalmente o provocatamente immaturo», il nascente è «un essere vivo la sua uccisione volontaria costituisce omicidio o feticidio, qualunque sia stata la durata della gestazione». Prima di questo limite «la vita del prodotto del concepimento è tutelata da un altro reato: il procurato aborto». Su questi presupposti cade la tesi della difesa che tendeva alla più mite condanna per aborto colposo. Per i giudici pesa anche la condotta della ricorrente che, malgrado la difficile situazione, rassicurava il ginecologo dicendo che tutto procedeva regolarmente, ignorando i segnali di sofferenza del bambino. Mentre delle giuste manovre avrebbero evitato che il bimbo nascesse già morto per asfissia. Per la Suprema corte «la tutela della vita non può soffrire lacune». La protezione comprende dunque anche il tempo del passaggio dal grembo materno alla vita extrauterina.
SOPRAVVIVERE ALL’ABORTO, ECCO LE STORIE DI 5 FETI CHE CE L’HANNO FATTA PER CASO: “MERITAVO ANCORA DI VIVERE”. I sopravvissuti all’aborto sono forse il messaggio più forte che si possa dare: sono la prova che tutta la vita, sia quella che ha visto la luce sia quella ancora nel grembo materno, deve essere rispettata, scrive Beatrice Raso il 5 Marzo 2019 su Meteo web. Si parla spesso di aborto, di leggi a protezione delle donne o dei feti, di diritto alla vita o di obiettori di coscienza. A volte si arriva a pensare all’aborto come alla soluzione più conveniente, senza soffermarsi a riflettere su quello che davvero significa: si sta interrompendo la vita di un essere vivente, non ancora fuori dal grembo materno ma comunque vivente e soprattutto innocente. Fatta eccezione per i casi in cui è in pericolo la vita della madre o del feto stesso, è quasi impossibile riuscire a comprendere le donne che decidono di abortire, come se fosse qualcosa di totalmente normale e comune, invece che partorire il bimbo per poi darlo in adozione, considerando che sono moltissime le persone al mondo che desiderano la gioia di un figlio e che non possono averla. Forse conoscere la storia e le testimonianze di quanti sono sopravvissuti ad un aborto farà vedere le cose e la vita da una prospettiva diversa.
Gianna Jessen. Gianna Jessen era stata nel grembo materno per 7 mesi prima che la donna decidesse di sottoporsi ad un aborto salino. Un aborto salino si verifica nel seguente modo: una soluzione salina (che include sostanze come salina, digossina, cloruro di potassio, prostaglandina) viene iniettata nell’utero materno e nel bambino. La soluzione lo avvelena, corrodendolo letteralmente dentro e fuori. Il feto soffrirà in queste condizioni per oltre un’ora fino alla morte e la madre dovrà partorirlo (ormai morto) dopo circa un giorno. Gianna Jessen è invece sopravvissuta all’aborto, venendo alla luce ancora in vita. Alla piccola era stata diagnosticata una paralisi cerebrale a causa della mancanza di ossigeno durante la procedura di aborto. Ma dall’età di 4 anni, Jessen camminava con l’aiuto di un deambulatore, di tutori e della madre adottiva e oggi zoppica solo leggermente. “La morte non ha prevalso su di me e io sono così contenta!”, dichiara Jessen, che ora sostiene l’attivismo in favore della vita.
Melissa Ohden. La madre di Melissa Ohden era una studentessa di 19 anni quando ha scoperto di essere incinta. Convinta di esserlo da meno di 5 mesi, la donna ha avuto un aborto salino: la piccola è sopravvissuta ed è stato scoperto che era di circa 7 mesi. La bambina è stata adottata ed è cresciuta in una famiglia felice e amorevole. A 14 anni ha scoperto di essere sopravvissuta all’aborto, notizia che l’ha spinta alla ricerca dei suoi genitori biologici, che ha contattato e perdonato per aver tentato l’aborto. Oggi anche Ohden è un’attivista in favore della vita ed ha fondato Abortion Survivors Network (ASN), che ha l’obiettivo di educare il pubblico sugli aborti non riusciti e sui sopravvissuti, fornendo loro supporto emotivo e mentale. Oggi l’ASN ha raggiunto oltre 210 sopravvissuti all’aborto. “C’è qualcosa di sbagliato quando l’emancipazione delle donne è basata sul mettere fine alla vita di un altro essere umano”, sostiene Ohden.
Claire Culwell. La madre di Claire Culwell, Tonya Glasby, aveva solo 13 anni quando ha scoperto di essere incinta. I genitori le hanno fatto pressione per l’aborto e a 5 mesi ha intrapreso questa strada. Tuttavia, i dottori non sapevano che l’adolescente fosse in attesa di due gemelli e ha abortito solo uno dei due. Culwell invece è rimasta viva nell’utero materno. Dopo l’aborto, Tonya continuava a sentire scalciare, realizzando che era ancora incinta. Si è recata in un altro stato per avere un altro aborto, ma i dottori hanno considerato la procedura troppo rischiosa. Claire è nata a 7 mesi con le anche dislocate e i piedi torti. Nonostante gli ostacoli affrontati a causa dell’aborto, Claire è stata adottata ed è cresciuta. All’età di 20 anni, ha iniziato a cercare la madre biologica. Quando l’ha trovata, ha condiviso con lei i suoi ricordi d’infanzia, l’ha perdonata e anche ringraziata per averle risparmiato la vita. “Ecco cosa significa sopravvivere ad un aborto. Le mie anche erano dislocate, avevo i piedi torti ed ero completamente ingessata per correggere quello che aveva provocato l’aborto. Ma meritavo ancora di vivere”, racconta Claire.
Josiah Presley. Una donna della Corea del Sud era incinta di due mesi di Josiah Presley quando ha deciso di avere un aborto. Poco tempo dopo la procedura, ha realizzato di essere ancora incinta: l’aborto non era andato a buon fine. Allora ha scelto di dare alla luce il suo bambino per poi darlo in adozione. Josiah è nato con il braccio sinistro menomato a causa dell’aborto. È stato adottato da una famiglia degli Stati Uniti ed ha poi scoperto che la madre biologica aveva tentato l’aborto, il che ha scatenato dell’odio nei suoi confronti. Alla fine però è riuscito a perdonare la donna per quello che aveva fatto. “Cosa rende i bambini nati prematuri diversi da noi, oltre al fatto che sono innocenti e non posso difendersi contro questi enormi bulli da aborto che li uccidono?”, si chiede Presley.
Nik Hoot. Nel 1996, in Siberia, la madre di Nik Hoot ha scelto l’aborto quando era alla 24ª settimana di gravidanza e Hoot è nato con parti mancanti in entrambe le gambe e senza avere le dita pienamente sviluppate. I suoi genitori, Marvin ed Apryl Woodburn, lo hanno adottato dopo che un sacerdote ha detto loro che “dovevano rispettare tutte le forme di vita, anche quelle con disabilità”. A soli 2 anni, Hoot ha ricevuto le sue prime protesi per le gambe. Dopo solo un paio di settimane, camminava da solo. Ha sviluppato l’amore per lo sport e ha giocato a calcio, baseball, basket e oggi fa lotta libera, insistendo nonostante la sua disabilità. Hoot è un’ispirazione per molti: se riesce ad ottenere simili risultati nonostante la triste realtà che deve affrontare, significa che non c’è limite a quello che ognuno di noi può fare, nonostante gli ostacoli da affrontare. “Ci sono cose che non riesco a fare, ma ci proverò lo stesso, imparerò a farlo”, dice Hoot. I sopravvissuti all’aborto sono forse il messaggio più forte che si possa dare: sono la prova che tutta la vita, sia quella che ha visto la luce sia quella ancora nel grembo materno, deve essere rispettata. Sono la voce e il volto di tutti quei bambini che meritano di vivere e devono essere trattati con il rispetto e la dignità che meritano. Prima di considerare un aborto, è necessario comprendere quanto sia preziosa una vita.
UN ABORTO DI RISOLUZIONE. Da “il Messaggero” il 24 aprile 2019. Gli Stati Uniti incassano una vittoria in Consiglio di Sicurezza Onu dopo un duro braccio di ferro sulla violenza sessuale nei conflitti armati. L' organo delle Nazioni Unite ha approvato con 13 voti a favore e due astenuti (Russia e Cina) una risoluzione volta a combattere l' uso dello stupro come arma in guerra, su cui gli Usa avevano minacciato di porre il veto perché nel testo era usato un linguaggio sull' assistenza alla «salute riproduttiva», che per estensione costituiva il sostegno all' aborto per le vittime. Nel nuovo testo ammorbidito è stato eliminato tale riferimento, come richiesto da Washington. Il Consiglio di Sicurezza ha tenuto ieri una riunione sul tema con il segretario generale Antonio Guterres, i premi Nobel per la pace Nadia Murad e Denis Mutwege e l' avvocato attivista Amal Clooney. La Germania, presidente di turno dei Quindici, ha lavorato duramente per far sì che la bozza venisse adottata durante l' incontro, cercando di superare l' opposizione americana. Peraltro, dalla risoluzione era già stata eliminata una parte importante, relativa all' istituzione di un nuovo meccanismo per monitorare e segnalare tali atrocità in guerra perché Usa, Russia e Cina si erano dichiarati contrari. «È inspiegabile che l' accesso ai servizi per la salute sessuale e riproduttiva non sia esplicitamente riconosciuto per le vittime di stupro», ha osservato l' ambasciatore francese all' Onu Francois Delattre dopo l' adozione della risoluzione. Il segretario generale Guterres ha spiegato che «nonostante numerosi sforzi, la violenza sessuale continua ad essere una caratteristica orribile dei conflitti in tutto il mondo», e gruppi di attivisti hanno dimostrato che «è usata deliberatamente come arma di guerra». «Dobbiamo riconoscere che lo stupro in guerra colpisce in larga misura le donne perché collegato a questioni più ampie come la discriminazione di genere», ha proseguito, sottolineando «un' impunità diffusa». Per Amal Clooney, «sebbene la bozza sia un passo avanti, soprattutto nella misura in cui rafforza il regime di sanzioni per coloro che commettono tali crimini, bisogna andare oltre»: «Se questo organo non può prevenire la violenza sessuale in guerra, deve almeno punirla». La giustizia «non può avere una possibilità se le persone al potere, tra cui quelle sedute intorno a questo tavolo, non ne fanno una priorità», ha continuato, ribadendo che «c' è un' epidemia di violenza sessuale e la giustizia è l' antidoto».
· Femmine, non madri.
PIÙ POPPATE PIÙ VITA. Da La Stampa l'1 agosto 2019. Solo 4 bimbi su dieci nel mondo vengono allattati al seno in modo esclusivo fino ai 6 mesi di vita. Promuoverlo per tutti i neonati potrebbe salvare più di 820.000 vite ogni anno, e comportare risparmi per 340 miliardi di dollari annui. A calcolare il costo, un team di ricercatori nell'ambito dell'iniziativa Alive & Thrive, in vista della settimana mondiale dell'allattamento al seno promossa dall'Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) dal primo a 7 agosto. L'Oms raccomanda l'allattamento al seno esclusivo a partire da un'ora dopo la nascita fino ai 6 mesi, quindi una prosecuzione, con aggiunta di nutrienti complementari fino a 2 anni o più. Per renderlo possibile, sottolinea l'organizzazione, vanno promosse politiche tra cui «la concessione di un congedo di maternità retribuito per un minimo di 18 settimane e un congedo di paternità retribuito per incoraggiare la responsabilità condivisa». Le madri, prosegue l'Oms, «hanno anche bisogno di un posto di lavoro adatto a supportare la prosecuzione dell'allattamento e assistenza all'infanzia a prezzi accessibili». A promuovere questo gesto sano e naturale è il Ministero della Salute, che ha realizzato uno spot in onda sulle reti Rai con testimonial i comici Nuzzo&DiBiase. «È naturale!» è lo slogan della nuova campagna che, in chiave ironica, mira a sensibilizzare sull'importanza di tale pratica, divulgando il messaggio che ogni donna deve sentirsi libera di allattare anche in pubblico o nei luoghi di lavoro, «sempre e ovunque».
UN PAESE DI “MAMMONE”. Azzurra Barbuto per “Libero Quotidiano” il 5 agosto 2019. Altro che terra dei mammoni, l' Italia è il Paese delle "mammone", ossia quello in Europa con il più elevato numero di donne che mettono al mondo bimbi tra i 40 ed i 50 anni. L' arrivo di un figlio nel Belpaese è un lieto evento della vita sì, ma che può essere pure rimandato a data da destinarsi. Ecco perché abbiamo le madri primipare più "vecchie" del continente dopo quelle ispaniche (da noi 8,6%, in Spagna 8,8%): non concepiscono il primo pargolo allorché sono in età fertile, bensì quando si trovano in procinto di non esserlo mai più, dunque prima che sia troppo tardi e in un periodo della esistenza in cui una volta si era già nonne con tanto di scialle e borsa calda. Dai dati raccolti da Eurostat risulta che nel 2017 nella nostra penisola hanno partorito 15.997 signore tra i 40 ed i 45 anni, 2.145 tra i 45 ed i 50 e 306 (cioè quasi una al giorno) con oltre 50 anni. Di contro, il numero più alto di mamme di età compresa tra i 15 ed i 19 anni si trova nel Regno Unito (14.749) ed in Romania (12.641). Nei 28 Paesi membri dell' Ue, nel 2017, la maggior parte delle nascite è avvenuta da genitrici tra i 25 ed i 29 anni (723.496), la Francia conquista il podio con 118 mila, segue la Germania con 116.509. Dunque, alle fanciulle nostrane non interessa particolarmente figliare prima dei 40, nonostante che la famiglia, il culto del matrimonio nonché il rispetto delle tradizioni, soprattutto nel Mezzogiorno, siano valori molto sentiti. Forse restiamo figlie troppo a lungo, servite e riverite in casa dei genitori, per compiere il grande passo che ci renderà pienamente adulte costringendoci a prodigarci nei confronti di un piccolo che ha bisogno di tutte le nostre cure. O forse, cresciute al fianco di madri che si sono spesso annullate per marito e prole, abbiamo deciso di piazzare al primo posto noi stesse e la nostra realizzazione professionale, posticipando la maternità al momento in cui saremo certe di avere edificato qualcosa di concreto in ambito lavorativo. Il che non è una cattiva idea. Un bambino non rappresenta un limite capace di affossare la carriera di una persona, tuttavia chiunque abbia pargoletti sa bene che conciliare vita privata e attività lavorativa richiede doti da equilibrista. E il senso di colpa è sempre lì, dietro l' angolo, pronto a braccarci ogni volta che rincasiamo e il piccolo già dorme e non abbiamo potuto dargli il bacio della buonanotte, o quando, divenuto un po' più grandicello, ci rimprovera di non esserci mai all' occorrenza. e una volta divenire madri era l' obiettivo fondamentale dell' esistenza, oggi non lo è più. Si mette in conto e quindi si accetta l' eventualità di non rendere produttivo il proprio ventre nella maniera in cui ci è stato mentalmente imposto da sempre. Non siamo più sostenitrici accanite della maternità a qualsiasi costo, pena disperazione e senso di inutilità. Non finiamo con il metterci accanto qualsiasi individuo maschio pur di contribuire alla perpetuazione della specie. Non accettiamo più di percepirci quali prosciutti con data di scadenza, quali ci fece sentire la campagna sulla fertilità promossa dal ministero della Salute nell' estate del 2016: "La bellezza non ha età. La fertilità sì", mirante ad indurci a mettere in cantiere un bimbetto prima dei 30 anni. Ignorando il fatto che un figlio si genera non all' età "giusta" ma nel momento migliore e con il partner idoneo, in grado di essere un buon compagno e un ottimo padre. Il ministero spiegava: «La fertilità della donna risulta massima tra i 20 ed i 30 anni, poi decresce in modo repentino dopo i 35, fino ad essere prossima allo zero già diversi anni prima della menopausa». Ma a quanto pare si tratta di un allarme apocalittico insensato visto che le italiane che partoriscono dopo i 40, i 45 e persino dopo i 50 sono cospicue. La gestazione "tardiva" non è neanche frutto di manipolazioni mediche particolari, bensì un fatto naturale. La mamma dello scrittore Luciano De Crescenzo ebbe il primo ed unico figlio a 50 anni. Era convinta di essere sterile e poi si ritrovò con il pancione. E restò sbalordita allorché il medico le comunicò che non era affatto malata, come credeva, ma soltanto all' ottavo mese. Una gravidanza negli anta inoltre ha un grande vantaggio: fa ringiovanire di uno o due decenni. Uno studio condotto dall' Università dello Utah ha rilevato altresì che le femmine che danno alla luce già cinquantenni tendono a campare più a lungo. Prorogare sembra che giovi pure al portafoglio. Alcuni ricercatori statunitensi hanno rilevato che gli incassi di una donna lievitano dal 9 al 10% ogni anno che tarda nell' avere un neonato. Insomma, la dolce attesa può attendere.
· Aborto. A Verona i Prolife anche per la Famiglia tradizionale: la sinistra contro.
Il capitalismo consumista ha bisogno delle donne (e di abolire la gravidanza). Rodolfo Casadei 17 giugno 2019 su Tempi. Ecco cosa si nasconde dietro il manifesto («Non proibite l’uguaglianza») che 180 manager d’impresa americani hanno fatto pubblicare come inserzione a pagamento contro le limitazioni all’aborto. Alla fine si scoprono gli altarini. I 180 manager d’impresa americani che hanno firmato e fatto pubblicare come inserzione a pagamento un manifesto contro le limitazioni legali all’aborto in alcuni stati degli Usa intitolato “Don’t ban equality”, “non proibite l’uguaglianza”, arrivano al punto: quel che fa problema, nel mondo della produzione, è la gravidanza come tale. È la gravidanza che non permette alle donne in età fertile di essere uguali ai maschi e alle donne in menopausa sul posto di lavoro. È la gravidanza che azzoppa le possibilità di carriera, arricchimento, autorealizzazione della giovane donna lavoratrice, che non le permette di competere ad armi pari coi maschi e con le donne in menopausa. L’aborto è il rimedio che permette di ristabilire la parità di condizioni. Ma è evidente che si tratta solo di un rimedio: rudimentale, sanguinoso, sporco. Occorrerebbe andare alla radice del problema.
CORREGGERE “L’ERRORE” DI DIO. E la radice sta nel fatto che ci sono alcuni esseri umani che portano su di sé il peso della riproduzione della specie (la parola giusta per gli umani è procreazione, ma questi signori sono industriali, ragionano in termini quantitativi e di unità di produzione, perciò stiamo al loro modo di ragionare), mentre altri ne sono totalmente o quasi totalmente esenti. Se non si corregge questo errore di Dio – l’errore di avere creato l’umanità nella forma irriducibile della dualità maschio-femmina e di aver stabilito la sua perpetuazione attraverso un connubio sessuale asimmetrico, che prevede compiti decisamente sbilanciati -, l’uguaglianza degli umani resterà per sempre un mito, un arnese ideologico, un’ipocrisia. Bisogna abolire la gravidanza, ovvero bisogna trasportarla fuori dal corpo umano, come nel Mondo nuovo di Aldous Huxley. Naturalmente il manifesto non dice questo, usa il linguaggio dei diritti e delle opportunità per mascherare gli interessi del capitale e del profitto e la logica della crescita illimitata. «Quando a ciascuno è dato il potere di riuscire», vi si legge, «le nostre aziende, le nostre comunità e la nostra economia vanno meglio. Restringere l’accesso all’assistenza riproduttiva globale, compreso l’aborto, minaccia la salute, l’indipendenza e la stabilità economica dei nostri dipendenti e clienti. Detto in parole semplici, va contro i nostri valori ed è negativo per gli affari (“is bad for business”). Compromette la nostra capacità di costruire canali di manodopera diversificati e inclusivi, di reclutare i migliori talenti in tutti gli stati degli Usa e proteggere il benessere di tutte le persone che fanno prosperare le nostre attività quotidianamente. Il futuro dell’uguaglianza di genere è a repentaglio, e mette a rischio le nostre famiglie, comunità, imprese e l’economia in generale. Noi sottoscritti rappresentiamo più di 108 mila lavoratori e prendiamo posizione contro le politiche che ostacolano la salute, l’indipendenza e la possibilità di pieno successo sul posto di lavoro di tutte le persone».
L’ABORTO SERVE AI CONSUMI. Al netto della retorica e dell’ipocrisia, il succo del messaggio è: se le donne non possono abortire, lavoreranno di meno e consumeranno di meno, i nostri profitti diminuiranno e i nostri bilanci ne risentiranno, e questo ricadrà su tutti voi, perché noi siamo quelli che vi danno da lavorare. La necessità di risolvere il problema alla radice con un outsourcing della riproduzione umana ai laboratori di biologia si desume dalla frase: “The future of gender equality hangs in the balance, putting our families, communities, businesses and the economy at risk”. L’uguaglianza di genere è un programma da realizzare, e come tutti i programmi si realizza nel futuro. Non coincide con uguale retribuzione per uguale lavoro e diritto di abortire, necessari ma non sufficienti: uguaglianza vuol dire uguaglianza, quindi occorre procedere per rendere sempre più uguali uomo e donna anche dal punto di vista riproduttivo. Non si può tornare indietro (divieto o forte limitazione dell’aborto), ma nemmeno fermarsi: bisogna andare avanti. Profitti illimitati e crescita illimitata hanno bisogno di uguaglianza e di efficienza: se solo le donne non restassero incinte, se solo non avessero le mestruazioni…
GLI OBIETTIVI DEL NUOVO CAPITALISMO. Da tempo è evidente il fenomeno degli industriali che hanno raggiunto in prima fila partiti politici, organizzazioni militanti, attori e attrici di Hollywood e cantanti impegnati a rivendicare i “nuovi diritti” in materia di sesso e famiglia. Grandi imprese patrocinano i Gay Pride, mettono a punto scrupolosamente e poi pubblicizzano con enfasi le proprie politiche aziendali “lgbt friendly”, si schierano sul fronte “progressista” nel dibattito politico su aborto, unioni civili, matrimonio omosessuale, utero in affitto, ecc. Chi pensa che tutto questo sia il risultato di un ricatto strisciante (“se non ti dimostri attivamente pro-lgbt boicottiamo i tuoi prodotti e ti facciamo cattiva pubblicità etichettandoti come omofobo”), sbaglia: la grande impresa è a favore di tutte le cosiddette battaglie per l’emancipazione e per l’uguaglianza perché sono nel suo interesse dominante, che è quello di massimizzare i profitti.
Nella fase della prima industrializzazione i capitalisti borghesi hanno mutuato l’austera morale cristiana in fatto di famiglia e di sesso perché la produzione industriale manifatturiera aveva bisogno di disciplina e di sacrificio: per rendere al meglio il lavoratore doveva avere una vita familiare stabile, andare a letto presto anziché far tardi in giro e contrarre malattie sessualmente trasmissibili; doveva essere responsabile di una prole numerosa, le cui necessità lo avrebbero dissuaso dall’organizzare scioperi e impegnarsi in attività politiche di ispirazione rivoluzionaria. Tutto cambia a partire dagli anni Sessanta e poi ancora più accentuatamente col boom dell’economia finanziarizzata e dei servizi all’inizio del terzo millennio: oggi il lavoratore è meno un fornitore di manodopera che un consumatore di prodotti e servizi.
NUOVE FORME DI SFRUTTAMENTO. Il lassismo morale in materia di sesso e famiglia e la parola d’ordine dell’uguaglianza con cui si giustificano legislazioni massimamente permissive in fatto di aborto e “matrimonio per tutti”, sono funzionali all’espansione dei consumi e alla crescita illimitata, che sola giustifica profitti illimitati. Più libertinismo, più forme di convivenza, più modi di mettere al mondo figli, più divorzi e quindi più relazioni nel corso della vita, più generi sessuali sono tutte opzioni da promuovere perché perfettamente funzionali alla crescita economica. Poco importa se l’instabilità delle unioni, la precaria strutturazione psichica dei figli dell’eterologa e delle famiglie arcobaleno, i tassi di natalità sotto la soglia del rimpiazzo generazionale, ecc. generano un diffuso disagio esistenziale: i costi sociali, com’è sempre successo con un certo tipo di capitalismo, vengono esternalizzati alla società.
Ieri quelli legati alle malattie professionali, oggi quelli legati alle malattie psichiche. Ieri la silicosi, oggi la depressione. L’unica differenza sta nel fatto che i partiti politici eredi di quelli che al tempo della prima industrializzazione rappresentavano gli interessi dei lavoratori in conflitto con quelli dei datori di lavoro, oggi in materia di “diritti civili” si trovano sulle stesse posizioni della grande impresa. E scambiano per progresso ed emancipazione quelle che sono nuove forme di sfruttamento e di alienazione.
Aborto, manifesto shock di Pro vita: «Greta, salviamo cuccioli d’uomo». Pubblicato martedì, 14 maggio 2019 da Corriere.it Dopo quello comparso sulla Salaria a maggio dello scorso anno, martedì mattina sulla Tiburtina è stato affisso un altro manifesto choc contro l’aborto, con tanto di dedica a Greta Thunberg, la giovane attivista svedese che da poco è stata in visita a Roma. «Questa mattina, a Roma in via Tiburtina, è stato affisso il più grande manifesto Pro life d’Italia (250 metri quadri), che ha come protagonista Michelino a 11 settimane dal concepimento e lo slogan: “Cara Greta se vuoi salvare il pianeta, salviamo i cuccioli d’uomo. #Scelgolavita”». A spiegare il mega cartellone comparso sulla grande arteria romana sono Toni Brandi e Jacopo Coghe, presidente e vice presidente, anche del Congresso mondiale delle famiglie. Un’affissione che - spiegano - arriva poco dopo la decisione del Tar in merito ai manifesti anti aborto che il sindaco di Magione aveva fatto rimuovere. «Noi scegliamo Michelino (ovvero il feto di 11 settimane utilizzato per le compagne, ndr), ci battiamo per la vita di tutti, senza discriminazioni in base all’età o alla fase di sviluppo», hanno concluso Brandi e Coghe che hanno poi annunciato l’appuntamento della Marcia per la Vita (8 maggio, piazza della Repubblica, alle 14). Il maxi manifesto contro l’aborto sulla Tiburtina, fanno sapere dal Campidoglio, «è stato affisso su un palazzo privato tramite una concessionaria e pertanto senza la necessità di un’autorizzazione da parte del Comune». Tuttavia «gli uffici hanno avviato tutti i controlli per verificare la correttezza del procedimento, sia nel suo iter che nei contenuti del manifesto».
Alabama, l’aborto diventa fuori legge anche nei casi di stupro o incesto. Pubblicato mercoledì, 15 maggio 2019 da Corriere.it. Con il via libera del Senato, a maggioranza repubblicana, il parlamento dell’Alabama ha approvato una legge che di fatto mette la bando l’aborto, in ogni stadio e anche nei casi di stupro o incesto. L’unica eccezione ammessa, è se la madre è in serio pericolo di vita. Per i medici che praticano l’interruzione di gravidanza in Alabama si prevedono fino a 99 anni di carcere. La Camera dell’Alabama aveva approvato il provvedimento il mese scorso. È la misura più restrittiva d’America sull’interruzione di gravidanza e per il suo via libera manca solo la firma del governatore, la repubblicana Key Ivey, che non si è ancora pronunciata pubblicamente ma che vanta posizioni molto rigide sull’aborto. Negli Stati Uniti non esiste una legge unica sull’aborto e ogni Stato ha le sua regole ma quella dell’Alabama è una sfida che punta dritta a mettere in discussione la sentenza «Roe contro Wade» con la quale la Corte Suprema Usa, nel 1973, legalizzò l’aborto a livello federale. Se infatti contro la messa al bando dell’aborto in Alabama si profilano una raffica di ricorsi legali che saranno probabilmente accolti, gli architetti del bando confidano nella Corte Suprema dove siedono due giudici conservatori nominati dal presidente Donald Trump: Neil Gorsuch e il controverso Brett Kavanaugh, accusato di abusi sessuali da almeno 4 donne. Nei primi 6 mesi del 2019 sono state promulgate 21 leggi che in forma diversa limitano l’aborto. Secondo il Guttmacher Institute, che analizza dati e politiche sulle interruzioni di gravidanza negli Usa, in 28 Stati americani, da quanto Trump è alla Casa Bianca, sono state introdotte leggi che impongono restrizioni sull’aborto e in 15 casi si tratta di divieti dopo le 6 settimane. Lo scorso 11 aprile l’Ohio ha approvato una legge che vieta l’aborto dal momento in cui è possibile sentire il battito cardiaco del feto, da qui il nome di «heartbeat bill». L’Ohio è il quarto Stato americano ad aver approvato l«heartbeat bill’. Una proposta simile è passata in Kentucky, Mississippi e Georgia. In altri 10 Stati si discute di provvedimenti analoghi. L«heartbeat bill’ è praticamente una messa al bando dell’aborto perché molte donne non si accorgono di essere incinte prima della sesta settimana di gravidanza quando generalmente è possibile sentire il battito.
Clint Eastwood «pro aborto». Girerà il suo film in Georgia nonostante il boicottaggio di Hollywood. Pubblicato giovedì, 27 giugno 2019 da Corriere.it. Clint Eastwood girerà il suo prossimo film in Georgia, nonostante lo stato meridionale degli Stati Uniti sia finito nel mirino di Hollywood per le sue nuove disposizioni anti-abortiste. C’è infatti un nuovo provvedimento — approvato dal governatore della Georgia Brian Kemp il mese scorso — che vieta gli aborti dopo che è stato rilevato il battito cardiaco, ovvero già sei settimane dopo l’inizio della gravidanza. Più di 50 stelle di Hollywood — da Alec Baldwin a Laura Dern, da Lena Dunham a Mia Farrow, da Eva Longoria a Sean Penn, da Natalie Portman a Mark Ruffalo, da Ben Stiller a Naomi Watts — hanno chiesto agli studi cinematografici di boicottare la Georgia e di non girare film in quello stato. Grandi case di produzione come Netflix, Disney e Amc pur senza prendere una posizione netta, si sono dette comunque aperte a un’ipotesi di questo genere. Ipotesi che invece non passa per la testa di Clint Eastwood, che va avanti per la sua strada. Il regista, 89 anni, girerà quest’estate The Ballad of Richard Jewell, basato su una storia vera legata alle Olimpiadi del 1996 tenutesi ad Atlanta, in Georgia, la città della Coca Cola e della Cnn. Il film ripercorre la vicenda di un addetto alla sicurezza (Richard Jewell, interpretato da Paul Walter Hauser) la cui vita viene sconvolta dopo l’accusa di essere uno degli uomini responsabili dell’attentato avvenuto durante le Olimpiadi di Atlanta del 1996. A causa di un articolo di giornale Jewell passò nel giro di poco tempo dall’essere considerato un eroe, per aver messo in salvo parecchie persone durante l’attentato, ad essere uno degli uomini più odiati degli Stati Uniti. Le «notizie false» hanno avuto conseguenze reali, perché i media lo hanno trasformato da eroe a reietto.
NON DATELA PIÙ. Giuseppe Sarcina per il “Corriere della sera” il 13 maggio 2019. Il movimento anti abortista americano sta innescando uno scontro epocale nel Paese: politico, giuridico e culturale. Per ora la reazione più vistosa è quella dell' attrice Alyssa Milano, 46 anni, che prende spunto dall' ultima legge restrittiva appena approvata in Georgia per promuovere un' altra campagna via Twitter: «I nostri diritti sulla riproduzione sono stati cancellati. Fino a quando le donne non avranno il controllo legale sui propri corpi, noi non possiamo rischiare di rimanere incinte. Unitevi a me, non facciamo sesso fino a quando non riavremo indietro la nostra autonomia sul corpo. Lancio un appello per lo sciopero del sesso (#SexStrike). Passa parola». Il messaggio è stato subito condiviso da circa 40 mila utenti, aprendo un' ulteriore discussione: è giusto che le donne si privino del piacere sessuale in nome di una battaglia politica? Non è anche questa «una proposta sessista?». La stessa Milano ha risposto che «la storia dimostra quanto sia efficace lo sciopero del sesso». Sulla rete sono comparsi i riferimenti alla commedia Lisistrata di Aristofane (le donne cacciano i mariti dai letti nuziali fino a che non interrompono la guerra) e a esperienze reali e più vicine. Vedremo se il tweet di Alyssa avrà lo stesso successo di quello del 15 ottobre 2017, da cui nacque il MeToo. È in gioco la storica sentenza della Corte Suprema, «Roe contro Wade», che nel 1973 fissò il criterio cardine valido per tutti gli Stati Uniti: la donna può decidere di interrompere la gravidanza fino a quando il feto non sia potenzialmente in grado di sopravvivere fuori dall' utero: quindi entro le 24-28 settimane dal concepimento. I «pro life», invece, vogliono abbassare questo limite a 6 settimane: l'embrione si trasforma in feto e diventa intoccabile non appena si sente «il battito del cuore». È un principio che è già diventato legge in tre Stati del Paese: Mississippi, Ohio e, la scorsa settimana, Georgia appunto (il Kentucky l' ha votata ma un giudice l' ha subito sospesa). Ormai è un modello. Il Congresso dell' Alabama sta discutendo una normativa con «zero eccezioni». Dopo sei settimane l'aborto verrebbe vietato anche nei casi di stupro e di incesto. I medici che dovessero violare le disposizioni, finirebbero in galera per almeno 10 anni. L'offensiva conservatrice è profonda. Il Guttmacher Institute, centro studi con sedi a New York e Washington, fondato nel 1968 dall' ostetrico Alan Guttmacher, ha classificato i diversi Stati a seconda del grado di «ostilità» rispetto ai diritti fissati dalla sentenza «Roe contro Wade». Ebbene sette Stati risultano «molto ostili»;14 «ostili»; 25 «a metà strada», mentre solo quattro Stati appoggiano in pieno la libertà di scelta. Dal 2010 a oggi il fronte dell' ostilità è passato da 10 a 21 Stati. L'onda investe soprattutto il Midwest, dall' Ohio al Nebraska e il Sud, dalla Virginia alla Louisiana, con alcuni sconfinamenti che meritano attenzione: Wisconsin al Nord e Arizona nel West. È una forza elettorale cospicua, di cui ha beneficiato nel 2016 anche Trump. La legislazione anti abortista è contrastata da una parte della magistratura. Le Corti federali hanno bocciato la normativa dell' Arkansas e del North Dakota, bloccando, invece, temporaneamente quella del Kentucky. Ma il contenzioso è destinato ad aumentare nei prossimi mesi. L'ala più radicale dei «pro life» persegue un obiettivo chiaro: riportare la questione dell'aborto davanti alla Corte suprema, dove i giudici conservatori sono in maggioranza, dopo che Trump ha nominato Neil Gorsuch e soprattutto il contestato Brett Kavanaugh. C'è la possibilità di cancellare il 1973.
LA NUOVA MODA FRA I VIP È FARE CAMPAGNA PRO ABORTO. Francesco Borgonovo per “la Verità” il 7 giugno 2019. Ieri, su Repubblica, lo psicanalista Massimo Recalcati, ha pubblicato un bellissimo manifesto a favore della vita. Riflettendo sul caso di Noa Porthoven, la minorenne lasciata morire di fame e di sete nei Paesi Bassi, Recalcati ha scritto: «Non è forse compito degli adulti contrastare in ogni modo - anche attraverso le Leggi - la spinta alla morte, sia essa quella della violenza sia essa quella dell' autodistruzione?». Ha totalmente ragione: la cultura della morte andrebbe combattuta ovunque e in ogni modo, soprattutto perché continua a mietere vittime, anche fra i più giovani. Il problema, tuttavia, è che di questa cultura, ormai, è intriso il discorso collettivo. Battersi per la morte è diventato un punto cardine dell' ideologia progressista, quella che - ovviamente - spopola fra le celebrità e i personaggi più in vista del mondo dello spettacolo. Il pensiero dominante impone che le posizioni pro vita siano censurate e stigmatizzate. Le idee opposte, invece, meritano di essere promosse e diffuse. Non è un caso che l' ultima moda esplosa nel ristrettissimo universo dei Vip di livello internazionale riguardi proprio la promozione dell' aborto. Se non hai all' attivo uno spot o almeno una manifestazione pubblica a favore dell' interruzione di gravidanza non sei nessuno, dunque tutte le stelle e stelline corrono ad adeguarsi. Abbiamo visto, non molti giorni fa, la grottesca sfilata romana di Gucci che il direttore creativo della casa di moda, Alessandro Michele, ha voluto dedicare alla celebrazione della legge 194 e alla riproposizione di vetusti slogan femministi del tipo «il corpo è mio e lo gestisco io». Ora un altro stilista ha deciso di seguire la tendenza. Si tratta del celeberrimo Marc Jacobs, il quale è sceso in campo in compagnia della popstar Miley Cyrus. I due hanno realizzato una nuova linea di abbigliamento i cui proventi andranno a Planned Parenthood, la multinazionale americana del controllo delle nascite. I capi messi in vendita sulla Rete costano 175 dollari l' uno, sono rosa e ornati dalla scritta «Don' t fuck with my freedom» (al netto della volgarità, significa più o meno «non scherzare con la mia libertà»). Direte: stilisti e cantanti sono liberissimi di esprimere le proprie idee. Certo, facciano pure. Il punto, però, è che nei casi di Gucci e di Jacobs non abbiamo a che fare con manifestazioni di idealismo, ma con l' affarismo allo stato pure. La sfilata di Alessandro Michele dedicata all' aborto, come ovvio, ha trovato spazio su tutti i giornali del mondo, con relativa ricaduta pubblicitaria sull' azienda produttrice. Stesso discorso per Marc Jacobs: formalmente egli non incassa nulla, ma vuoi mettere il ritorno d' immagine? In questo frangente, per altro, c' è un elemento in più. Miley Cyrus ha un disco in uscita, e infatti la frase che compare sulle magliette pro aborto è tratta da una delle sue nuove canzoni. Qui non si tratta di idee, di etica o di politica: si tratta soltanto di soldi e di visibilità. La campagna abortista della cara Miley, inoltre, presenta un risvolto davvero ridicolo. Per annunciare l' uscita della linea di abbigliamento «impegnata», la cantante ha pubblicato su Instagram una delle sue foto presunte trasgressive. L' immagine la mostra con la lingua di fuori, nella consueta posa sessualmente ammiccante, mentre si appresta a leccare una coloratissima torta. Sul dolce è scritto a caratteri cubitali: «Abortion is healthcare». Ovvero: «L' aborto è assistenza sanitaria». Chiaramente è una mistificazione, visto che l' aborto non è una cura contro una malattia. Ma c' è di più: Miley ha copiato la torta a una pasticcera femminista chiamata Becca Rea-Holloway. La quale si è piuttosto risentita, manifestando il suo sdegno sui social. Che furbastri, i nostri militanti abortisti: cianciano di diritti umani poi rubano il lavoro degli altri. Succede più o meno a Hollywood. Circa 50 attori hanno annunciato che non lavoreranno più negli Stati che hanno adottato legislazioni restrittive sull' interruzione di gravidanza, ad esempio la Georgia. Che bravi, i difensori della nobile causa: firmano appelli per far parlare di sé e chi se ne frega se faranno perdere tantissimi posti di lavoro nell' industria locale del cinema. Già: le donne con il loro corpo possono fare quello che vogliono, ma se vengono licenziate poco male...Anche qui c' è poi il risvolto grottesco. Sophie Turner, una delle protagoniste di Game of Thrones nonché del nuovo film degli X Men, si è vantata del suo boicottaggio pro aborto contro la Georgia. Persino i giornali di sinistra, tuttavia, le hanno fatto notare che - per 10 anni - ha girato una serie tv in Irlanda del nord, dove le leggi sull' aborto sono ancora più restrittive. A quanto pare, quando l' aborto non era la moda del momento, la brava Sophie se ne infischiava allegramente. Adesso, invece, pare che la morte sia diventata molto chic. Quella degli altri, ovviamente: quella dei più deboli e degli indifesi.
A Verona la propaganda Prolife arriva anche tra i banchi di una scuola pubblica. Una mostra nell'Istituto tecnico Dal Cero espone 27 pannelli che ricalcano le tematiche affrontate al World Congress of Families. No all'aborto, alla pillola del giorno dopo, alla scienza "che non rispetta la vita". Con una circolare della preside che invita i docenti a parlarne. E un concorso che mette in palio una gita a Strasburgo, scrive Fabio Salamida il 9 aprile 2019 su L'Espresso. A Verona la propaganda “pro vita” non si è esaurita con la tre giorni del Congresso mondiale delle famiglie, ma trova spazio anche tra i banchi di una scuola pubblica. Siamo all’Istituto tecnico Luciano Dal Cero di San Bonifacio, piccolo comune di poco più di ventimila anime a qualche chilometro dal capoluogo veneto. La struttura ospita 1.100 studenti che arrivano da tutto il circondario. Un collegio elettorale, questo, dove alle politiche del 2018 la Lega è schizzata oltre il 31 percento risultando primo partito e registrando uno dei risultati più alti della regione). È qui che il “centro di aiuto alla vita”, una delle sedi operative del Movimento Per la Vita, installa ormai da anni un’esposizione di ventisette pannelli roll-up nell’androne della sede centrale della scuola e nell’aula magna della succursale, per circa un mese e mezzo. I CAV, negli ultimi anni, sono aumentati del 49 per cento e si trovano ormai su tutto il territorio nazionale. Al nord ce ne sono 187 (uno ogni 174mila abitanti), nel centro sono 65, mentre nel sud e nelle isole ne troviamo 97 (secondo i dati presentati nel 2017 alla Camera dei Deputati sull’attività svolta nel 2016 dai 349 Centri di aiuto alla Vita sparsi su tutto il territorio nazionale). Gli argomenti trattati - da quelli che una circolare della dirigente scolastica Silvana Sartori definisce “cartelli informativi” - sono in linea con quelli che dal 29 al 31 marzo hanno animato la discussa kermesse promossa dai Pro Vita allo scaligero Palazzo della Gran Guardia.
Largo dunque alla famigerata “famiglia naturale fondata sul matrimonio tra uomo e donna, centro e cuore della civiltà dell’amore”, a scapito di qualsiasi altri tipo di unione, civile compresa, malgrado regolata da una legge del 2016; è, invece, un "viaggio complesso e affascinante nelle ‘profondità’ accoglienti del corpo materno” quello che deve affrontare il “bambino nell’utero materno", sin dall’ovulo appena fecondato dallo spermatozoo; la pillola del giorno dopo? “ovvero come si deresponsabilizza il giovane di fronte al valore della vita e della sessualità”, descritta alla stregua dell’aborto; due i cartelli dedicati all'interruzione di gravidanza: “Esiste il diritto all’aborto?” si chiede il primo, citando in modo decontestualizzato (e strumentale, verrebbe da pensare) Madre Teresa di Calcutta, Pier Paolo Pasolini e Norberto Bobbio (che espressero sì posizioni critiche rispetto all’aborto, ma con motivazioni assai distanti da quelle utilizzate oggi dalle associazioni prolife); prosegue il secondo: “Perché mascherare la verità di un dramma?” descrivendo poi la “drammatica realtà” di cinque milioni di “bambini abortiti in strutture pubbliche o convenzionate in adempimento alla legge 194”. Diversi i cartelli che si avventurano in questioni scientifiche portando - anche qui - una visione a senso unico e parziale dei temi trattati, dalla sterilità alla procreazione assistita, dai bambini prematuri a quelli portatori di disabilità, fino a un lungo attacco al Protocollo di Groningen, disciplinare proposta dal medico olandese Eduard Verhagen che prevederebbe l’eutanasia per bambini che possono avere una qualità di vita molto bassa e senza prospettiva di miglioramento, ma che è già illegale in tutto il mondo. Due di essi sentenziano: “Quando la scienza rispetta la vita” e “Quando la scienza non rispetta la vita”. Il modello di scienziato proposto è quello di Jérôme Lejeune, il genetista francese che scoprì la causa della Sindrome di Down e si schierò contro procreazione assistita e legalizzazione dell’aborto, fondando l’associazione "SOS futures mères”, primo movimento prolife francese. La sensazione è che in un questo pastiche di citazioni, da Tommaso d’Aquino a Pier Paolo Pasolini, senza dispensare la solita Oriana Fallaci, i liceali senza dovuta spiegazione filosofica e scientifica siano abbandonati in un magma ideologico e a-critico. Come accade ormai da tempo in tutto il mondo, i sostenitori del motto “Dio, patria, famiglia” sembrano aver rinunciato a una dialettica aggressiva su temi scottanti, impostando la comunicazione sull’esaltazione della cosiddetta famiglia tradizionale e preferendo messaggi "positivi" che rifiutano in modo categorico ogni pensiero e modo di vivere alternativo a quello da loro proposto. La “mostra” dell’Istituto Dal Cero segue questa traccia. Se - come titola uno dei quindici rollup - “tutti siamo stati embrioni”, va da sé che ogni forma di interruzione di gravidanza sia considerata un omicidio perché “l’essere umano va rispettato e trattato come una persona sin dal suo concepimento”. A far da corredo, immagini rassicuranti e riconoscibili, dalle tante foto di bambini a dipinti di Chagall e De Chirico. Non mancano i riferimenti al cristianesimo: dagli “insegnamenti della Chiesa” alle citazioni di Benedetto XVI sul matrimonio tra uomo e donna e stralci dell’enciclica “Evangeluim Vitae” lasciata in eredità da Giovanni Paolo II. Assente Bergoglio, forse per i messaggi proposti finora considerati poco utili per l’aggiornamento dei “cartelli informativi”. Tutto questo accade nel 2019 in una scuola pubblica di uno Stato laico che nel suo ordinamento ha fatto sue conquiste sociali come il diritto all’aborto, il divorzio e - in tempi più recenti - le unioni civili. A rendere ancor più singolare la vicenda, una circolare interna emanata il 26 febbraio scorso dalla dirigente scolastica che annunciando l’istallazione della “mostra” invita i docenti (in particolar modo quelli di religione) a “valorizzare l’iniziativa coinvolgendo gli studenti”.
La circolare della preside. Lei tende a minimizzare: «Noi accogliamo anche altri tipi di allestimenti compresi quelli di pittura, non c’è alcun collegamento con il congresso di Verona. Questa mostra si fa da più di sei anni e dopo ne ospiteremo una sulle farfalle… Tra l’altro è stata un’occasione sfruttata da poche classi che con il docente di religione cattolica sono scese a leggere gli slogan per poi discuterne. C’è anche un concorso, organizzato dal Movimento Per la Vita, che l’anno scorso abbiamo vinto (concorso che prevede la scrittura di un tema e a cui partecipa il dipartimento di Lettere, non quello di religione). Ai ragazzi viene data l’opportunità di andare a Strasburgo, quindi diventa anche una cosa appetibile…». Insomma, agli studenti che trattano i temi proposti dal Movimento per la Vita viene prospettata una bella gita scolastica. Nulla che non sia condiviso dalla comunità, a sentire la preside: «Lavoriamo sempre con le realtà presenti sul territorio, con i consultori e con varie associazioni. Se qualcuno avesse voluto protestare lo avrebbe fatto in passato, ma non abbiamo ricevuto lamentele di nessun tipo. E poi c’è sempre il consiglio di istituto dove chi vuole può dire la sua. Noi siamo accoglienti e se dovessero presentarci altre tipi di istallazioni, magari che parlino delle nuove tendenze della famiglia le valuteremmo con la stessa professionalità, ma siamo comunque in un territorio abbastanza tradizionalista dove si tiene molto alla famiglia tradizionale». A Verona, insomma, i riflettori sul World Congress of Families si sono spenti, ma le associazioni prolife continuano la loro opera anche nei luoghi deputati all'educazione delle nuove generazioni, tra un’esposizione di quadri e una mostra di farfalle.
Feti di gomma e attacchi alla 194. A Verona sfilano le famiglie “normali”. Il congresso mondiale delle famiglie si apre con un gadget: la riproduzione di un feto di dieci settimane, scrive Giulia Merlo il 30 Marzo 2019 su Il Dubbio. In una piazza Bra inondata di sole e insolitamente blindata, è iniziato ieri a Verona il tredicesimo Congresso mondiale delle famiglie, dal titolo “Il vento del cambiamento: l’Europa e il movimento globale pro- family”. Sotto gli archi dell’Arena sfilano religiosi di varie confessioni, nugoli di giornalisti e politici, soprattutto leghisti ma anche la “disertrice” grillina Tiziana Drago, unica ad aver ignorato il veto del leader Di Maio.A tenere banco, nel giorno della sessione plenaria in cui si annunciano i temi della convention ( «unire e far collaborare leader, organizzazioni e famiglie per affermare, celebrare e difendere la famiglia naturale come sola unità stabile e fondamentale della società» ) è però soprattutto il dibattito sull’aborto. Plasticamente rappresentato da un gadget distribuito dall’Associazione Pro Vita Michele, il feto di 10 settimane in plastica, in scala 1: 1 – la polemica infiamma subito intorno alla legge 194: l’aborto è «l’uccisione di un bambino in utero», ha detto Massimo Gandolfini, presidente dell’associazione Difendiamo i nostri figli e tra gli organizzatori del Family day, precisando poi che «Non siamo contrari alla libera scelta, ma questa è tale se vengono applicati anche i primi cinque articoli che prevedono di rimuovere le cause economiche per la quale la donna sceglie l’aborto. Noi diciamo che la legge 194 va applicata tutta». Sulla stessa linea, anche il senatore leghista Simone Pillon: «Sull’aborto c’è una legge nazionale che va applicata, e spero che venga applicata completamente, soprattutto nella prima parte». Senza mezzi termini anche il vescovo della città scaligera, Giuseppe Zenti: «La famiglia è l’opera d’arte di Dio. L’aborto è un omicidio, questo dice la Chiesa». I toni si alzano al punto da far intervenire anche il vicepremier Matteo Salvini, atteso per oggi come super- ospite dell’evento, il quale accusa «la sinistra» di aver costruito ad arte la polemica: «Io andrò a ribadire la libertà di scelta di tutti per uomini e donne, le conquiste sociali non si toccano, non si discute della revisione del divorzio, dell’aborto, della libertà di scelta per donne e uomini». L’evento, ha come obiettivo «come aiutare le famiglia italiana: mamme e papà con i bimbi e i nonni ad uscire da una situazione di povertà che a volte dopo la nascita di un figlio ti entra in casa», ha concluso Salvini. Eppure, a rispondergli a distanza, è intervenuta non solo l’opposizione, ma anche un’altra ministra del governo gialloverde, la grillina Giulia Grillo: «Il tema dell’aborto come tutte noi donne sappiamo ci mette in grande difficoltà, abortire non è una passeggiata o una cosa che ci piace fare, ma una scelta a cui una donna arriva dopo un percorso molto doloroso e travagliato. Ma non è negandolo che si favorisce la natalità in questo Paese». La ministra della Salute ha scelto parole forti per definire il convegno, bollandolo come «una manifestazione fortemente ideologizzata, chiaramente di estrema destra». Non a caso, vista l’ostilità dell’ortodossia grillina nei confronti della convention, gli organizzatori hanno confermato di rivolgersi soprattutto al mondo leghista, a partire dal ministro per la Famiglia, Lorenzo Fontana, vicinissimo alla galassia pro- life e tra i presenti alla tre giorni. «A Fontana chiederemo un piano più a lungo termine – ha spiegato il presidente di Generazioni Famiglia, Jacopo Coghe – bisogna lavorare sia sul piano economico che su quello culturale», a Salvini invece «di vietare la pratica abominevole dell’utero in affitto». Contro il “popolo” della famiglia tradizionale, oggi, marceranno in una contromanifestazione dal titolo “Verona libera, Italia laica” i movimenti per i diritti civili. In prima fila, l’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, che ha stigmatizzato gli attacchi alla legge 194 e in particolare la scelta del gadget a forma di feto: «È semplicemente mostruoso. Se l’obiettivo è quello di suscitare sdegno collettivo nei confronti delle donne che sono costrette a interrompere la loro gravidanza sappiano, questi signori, che a vergognarsi dovrebbero essere loro». In piazza insieme ai movimenti e contro quelli che definiscono «odiatori medioevali», scenderanno il Pd, Mdp e la Cgil. Più cauto, per rapporti di governo, il Movimento 5 Stelle, che però ha studiato una contromossa mediatica per non venire completamente oscurato dalla Lega: oggi a Cinecittà è in programma un evento sul tema delle politiche giovanili, con protagonisti il sottosegretario Vincenzo Spadafora e il vicepresidente del Consiglio Luigi Di Maio. I due esponenti del governo incontreranno circa 600 ragazzi per lanciare le misure per i giovani previste per l’anno 2019. L’evento era già pianificato da tempo, ma per la comunicazione grillina dovrebbe diventare una sorta di “controcanto” al Forum delle Famiglie, per segnare la distanza dalla visione leghista sui temi sociali.
Il feto e gli altri imperdibili gadget del Congresso delle Famiglie, scrive Alessandro D'Amato il 30 Marzo 2019 su nextquotidiano.it. Il Congresso delle Famiglie non rimarrà nella storia soltanto perché la figlia dell’organizzatore si è dissociata o per i soldi con cui è stato finanziato, ma anche per gli imperdibili gadget che l’organizzazione ha pensato bene di distribuire. Tra questi c’è Michele, ovvero la replica in miniatura di un feto. Michele, racconta oggi Repubblica, è andato esaurito in poco tempo, così come la spilletta con due piedini dorati «riproduzione esatta di una gestazione di 12 settimane», ossia il termine ultimo previsto dalla legge 194 per poter abortire. Tutti gadget firmati Pro Vita, una delle associazioni che insieme a Citizen Go, Generazione Famiglia e Family Day, ha organizzato il summit di Verona, e il cui presidente, Antonio Brandi, è un vero ultrà dei movimenti per la vita. Il Corriere racconta un altro episodio divertente a proposito dei gadget: quando si è scoperto che tra questi c’era anche la pezzetta per pulire gli occhiali con una foto di papa Francesco e la scritta: «Fede e terapia. Ferite dell’anima, genitori in cerca di guarigione»: qui sono scattatele accuse di «oscurantismo». Perché c’era anche annotato il «numero verde» per avere «un sostegno spirituale, medico, psicologico e pedagogico» e i consigli: «Bambini non nati, nulla è perduto se…». E se hai avuto un «aborto spontaneo o uno procurato, cosa puoi fare? Un gesto d ’amore. Onora il tuo bambino col seppellimento. La Chiesa lo insegna, la legge italiana lo prevede». Madrina dell’evento è stata la giornalista Eva Crosetta, volto di Unomattina e Linea Verde, che il direttore di Raidue, Carlo Freccero, ha voluto al posto di Monsignor d’Ercole, alla guida di Sulla via di Damasco per «svecchiare i programmi religiosi». Infine c’è un giallo riferito dal Gazzettino, che riguarda il presidente del Consiglio Giuseppe Conte: «Non vado a Verona prima di tutto perché non sono stato invitato», ha detto il premier Giuseppe Conte. Al che Jacopo Coghe, organizzatore del Congresso mondiale delle famiglie, ha smentito, pur con garbo, il presidente del Consiglio: «Siamo veramente dispiaciuti, a dicembre ho inviato personalmente una mail di invito al presidente del Consiglio e ai vicepremier. Per questo spero che il presidente del Consiglio possa venire, anche all’ultimo momento, noi gli rinnoviamo l’invito di venire al Congresso di Verona». Dunque, anche Di Maio era stato invitato. «Mi auguro – ha detto Coghe – un confronto anche con il M5s, e mi spiace di non aver avuto alcuna risposta da parte loro al nostro invito».
Eva Crosetta, la star della Rai madrina del Congresso delle Famiglie: meraviglia della natura, grossa sorpresa, scrive il 30 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Non solo polemiche e manifestazioni. Il Congresso mondiale della famiglia di Verona riserva anche una grossa, e bellissima, sorpresa. Si tratta di Eva Crosetta, la giornalista Rai che vedete nella foto, madrina dell'evento. Come sottolinea Il Tempo, neppure gli abiti castigati che ha sfoggiato in occasione dell'evento hanno messo in secondo piano la sua accecante bellezza. La Crosetta, per inciso, è tornata in Rai da pochi mesi, alla guida del programma Sulla via di Damasco (ha preso il posto di monsignore Giovanni D'Ercole). Religiosissima, spiega che "la mia fede è fatta di amore e concretezza". A volere il suo ritorno a Viale Mazzini è stato Carlo Freccero, direttore di Rai 2 in quota M5s.
Chi è Eva Crosetta, la madrina del Congresso delle Famiglie. Conduttrice del programma religioso di Rai Due Sulla via di Damasco, ha una fede incrollabile e va a messa ogni domenica, scrive letteradonna.it il 29 marzo 2019. Si sta parlando molto dei volti e dei discutibili contenuti di questo Congresso Mondiale delle Famiglie in programma a Verona dal 29 al 31 marzo. Ma la presenza della sua “madrina” è passata - finora - piuttosto inosservata: lei è la conduttrice televisiva e giornalista Eva Crosetta, celebrata anche da Pro Vita su Twitter. Di Castelfranco Veneto ma romana di adozione, è stata tra i volti di Unomattina, Linea Verde e Apprescindere, dove ha affiancato per un anno Michele Mirabella. Nel 2017 è passata a La7, per condurre il programma L’ora della salute, e poi a Sky, dove ha condotto Donne a cavallo. Da gennaio 2019 è tornata in Rai, su Rai Due, ereditando da monsignor Giovanni D’Ercole la conduzione di Sulla via di Damasco, programma di approfondimento culturale e religioso dedicato al tema del Cattolicesimo. Perché Crosetta è credente e ha una fede incrollabile, come ha spiegato lei stessa in una recente intervista rilasciata a Famiglia Cristiana. «Avere fede va ben al di là del trovare un proprio credo religioso. La conversione si declina nella famiglia, a scuola, sull’ambiente di lavoro, nel matrimonio: vuol dire avere una predisposizione d’animo diversa, evolvere in positivo e raccogliere la sfida (perché è una grossa sfida!) di seguire i dettami del Vangelo», ha raccontato. Nell'intervista, Crosetta ha anche parlato di chiesa e preghiera: cresciuta con un'educazione cattolica, come spesso capita nell'età dell'adolescenza si è allontanata da quel fondo finché, dopo un periodo difficile affrontato, si è riavvicinata alla fede anche grazie all'incontro con don Matteo Galloni. Ancora oggi va a messa ogni domenica. Un curriculum perfetto per la madrina del Congresso Mondiale delle Famiglie, certo, ma sarebbe anche interessante sapere cosa pensi dei contenuti dell'evento, dalla demonizzazione dell'aborto a quella della maternità surrogata e la discriminazione delle famiglie omosessuali.
Vittorio Feltri, la rabbia contro chi "getta i feti come spazzatura. Imbecilli, vergognatevi", scrive il 30 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Sono tutti furibondi perché a Verona al convegno sulla Famiglia hanno mostrato l’effigie di un feto", scrive Vittorio Feltri su Twitter, "ma nessuno si è scandalizzato che i feti vengano eliminati come spazzatura. Uccidere le creature senza il loro assenso va bene, concedere la eutanasia è vietato. Imbecilli". Il direttore di Libero commenta il dibattito intorno alla discussa manifestazione pro-life e pro famiglia tradizionale di Verona. Venerdì, in merito agli omosessuali, aveva scritto: "Il convegno sulla famiglia che si svolge a Verona è osteggiato dai gay e generi affini, i quali non hanno ancora capito che tutta l'umanità è venuta al mondo grazie alla vagina e a un pene che l’ha fecondata. L’ano, per quanto rispettabile, non ha mai procreato". In effetti, non fa una piega. Sono tutti furibondi perché a Verona al convegno sulla Famiglia hanno mostrato l’effigie di un feto , ma nessuno si é scandalizzato che i feti vengano eliminati come spazzatura. Uccidere le creature senza il loro assenso va bene, concedere la eutanasia é vietato. Imbecilli.
Vittorio Feltri, il dettaglio privatissimo: "Pensammo a gettare nostra figlia nel bidone, ma...", scrive il 31 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. Qualcosa si sta chiarendo: Salvini è dalla parte della famiglia tradizionale mentre a Di Maio piacciono da matti le unioni omosessuali. De gustibus. A Verona infuria il convegno sull' aborto da condannare e nel resto d' Italia si inneggia alla interruzione volontaria della maternità, giudicata una sorta di liberazione della donna. Personalmente sono convinto sia impossibile cassare la legge 194. A questo punto è difficile eliminare l' opportunità di rompere una gestazione nel caso in cui una signora non voglia partorire. In ogni Paese del mondo l' aborto è considerato legittimo, è diventato una consuetudine e viene praticato con triste regolarità. Non c' è verso di tornare indietro. Tuttavia mi sembra assurdo demonizzare chi lo giudica un omicidio quasi che sbarazzarsi di un figlio sia un' opera buona. In certi casi esso è il male minore, ma non è serio definirlo un capolavoro. In questi giorni si è discusso circa la pubblicazione e la distribuzione di pupazzetti con le sembianze di bimbi nel ventre materno. Cosa che ha suscitato scandalo nei progressisti, i quali hanno reagito schifati a simile iniziativa. Perché? Forse non sopportano di vedere che un feto è un essere umano in via di formazione, davanti al quale la loro coscienza vacilla. In effetti l' abolizione chirurgica della gravidanza non può che essere una forzatura, il che fornisce la prova evidente che si tratta di assassinio. Affermare il contrario significa mentire. Dopo di che ammettiamo che in alcune circostanze l' usanza cruenta sia una necessità giacché mettere al mondo una creatura sgradita è peggio che buttarla via, si fa per dire. Inoltre, documentare che un fantoccino sito nel grembo della mamma è un essere vivente e non un pezzo di legno non è un delitto, bensì l' espressione di una verità inconfutabile. Demonizzarla quale provocazione equivale a ignorare l' evidenza. Stecchire un feto è negare il diritto alla vita, cosa legale ma sgradevole da festeggiare come gesto liberatorio. Abortite pure però almeno non vantatevene. Molti anni orsono mia moglie rimase incinta per la quarta volta e, poiché lavorava, non era convinta di riuscire ad allevare un altro bambino. Pensammo di liquidare l' ingombro. Ci appariva la soluzione idonea. Ne dibattemmo a lungo. Al termine decidemmo di ricorrere all' intervento. Tuttavia al momento di procedere facemmo marcia indietro, magari per viltà. Nacque una bella bambina alla quale abbiamo dedicato ogni attenzione. Quando la incontro, si chiama Fiorenza, penso che avevo progettato di gettarla nel bidone della spazzatura e mi commuovo. Non credo di avere sbagliato a tenermela. Questa la mia esperienza. Non conta nulla? Meditate, fratelli e sorelle. Se poi rifletto sul fatto che sia lecito ammazzare dei pargoli quando è vietata l' eutanasia a chi la chiede, vado fuori di testa. Vittorio Feltri
Congresso delle famiglie, la 194 subito nel mirino. Salvini: «Le conquista sociali non si toccano». Pubblicato venerdì, 29 marzo 2019 su Corriere.it. A Verona parte la tredicesima edizione del Congresso delle famiglie e la legge 194 finisce subito nel mirino, con Massimo Gandolfini, leader del Family day che afferma: «L’aborto è un omicidio, la legge 194 non aiuta». Dichiarazioni che innescano subito reazioni politiche: «Io mi sento di poter dire, come rappresentante del governo, che quello di cui si discuterà lì a Verona ndr non sarà mai nell’agenda di questo governo», afferma Vincenzo Spadafora, parlamentare del M5S e sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega alle Pari Opportunità ed ai Giovani. Al meeting di Verona, che riunisce i sostenitori ad associazioni integraliste e conservatrici di tutto il mondo, i temi chiave sono la contrarietà all’aborto ed alle unioni tra persone dello stesso sesso, con forte sostegno alla famiglia tradizionale. A Verona arriverà anche il leader della Lega Salvini, oltre all’altro leghista, il ministro della Famiglia Lorenzo Fontana, che ha patrocinato l’iniziativa. C’è molta tensione sul congresso mondiale delle famiglie di Verona? «Costruita ad arte, sul nulla, dalla sinistra. Io andrò (sabato, ndr) a ribadire la libertà di scelta di tutti e per tutti, uomini e donne, le conquiste sociali non si toccano», dice il ministro dell’Interno e vicepremier, Matteo Salvini. E poi: «Non si discute di revisione del divorzio, dell’aborto, della libertà di scelta di uomini e donne. Si ragiona su come aiutare le famiglie italiane, mamme e papà coi bimbi e i nonni», ha aggiunto. Il premier Giuseppe Conte spiega invece: «Non andrò al Congresso, prima di tutto perché non sono stato invitato ma, lo dico anche da professore, non ci deve spaventare il fatto che circolino delle idee. Aspettiamo di vedere che idee circoleranno e poi faremo le nostre valutazioni», spiega il capo del governo, che ha negato all’evento la concessione del patrocinio di Palazzo Chigi. Critico, rispetto a Verona, anche il presidente della Camera Roberto Fico esprime invece la sua vicinanza alla «famiglie arcobaleno»: «La famiglia significa volersi bene, al di là del sesso, al di là degli orientamenti sessuali — spiega Fico — La famiglia significa curare e voler bene ai propri figli e bambini che vengono adottati. L’evoluzione della famiglia secondo me è quanto di più bello ci sia, perché significa che il nostro mondo è in movimento». Il Congresso, condotto dalla giornalista di area cattolica Eva Crosetta (da poco tornata in Rai), viene aperto da un coro che intona «Mamma», canzone di Beniamino Gigli poi intonata anche dai più grandi tenori. E non manca il Nabucco. Sul palco, tra i primi interventi, anche la giornalista Maria Giovanna Maglie, che ha sottolineato «clima da caccia alle streghe contro il Congresso delle famiglie, instillato dal partito unico dei media». «Io non sono uno di voi. — spiega a sorpresa, sempre dal palco, il giornalista radiofonico Giuseppe Cruciani — Ma non trovo giusto quello che è stato messo in atto da coloro che vorrebbero spegnere questo microfono: una vera campagna di criminalizzazione. Quindi sono qui. Ovunque vieteranno di esprimere il vostro pensiero, io sarò uno di voi». «Al vicepremier Matteo Salvini chiederemo di vietare la pratica abominevole dell’utero in affitto perché oggi ci sono tribunali che continuano a concedere e a permettere questa pratica», afferma Jacopo Coghe, presidente di Generazione famiglia.
Salvini oggi sale sul palco. Ma sulla 194 si smarca: quella legge non si tocca. Pubblicato venerdì, 29 marzo 2019 su Corriere.it. Matteo Salvini a Verona arriverà oggi, poco prima del suo intervento previsto per le 17, e poi ripartirà senza indugi. Il Congresso mondiale delle famiglie rappresenterà per il vicepremier «una mezz’oretta» soltanto della sua giornata, riferiscono i suoi sostenitori. La verità è che la vicenda del convegno veronese in odore di integralismo per lo stato maggiore leghista è cresciuta anche troppo. Certo, tra ieri e oggi parteciperanno all’evento i ministri Salvini, Fontana e Bussetti, oltre ai governatori Luca Zaia e Massimiliano Fedriga (e ci sarà anche la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni). Ma, appunto, il clamore suscitato da argomenti sui quali la stessa Lega è tutt’altro che un sol uomo è faccenda da annaffiare con secchiate di acqua fredda. Un’altra grana come quella innescata dal volantino della Lega calabrese per l’8 marzo da cui il leader leghista aveva dovuto prendere le distanze con una certa nettezza. E così Salvini ora si tiene sulla linea di crinale senza troppo sbilanciarsi. Anzi, un po’ sì: «Quando si parla di famiglie io penso a quello che il governo sta facendo e che farà. Io penso al sostegno concreto: aiuti per le rette degli asili nido, aumento degli assegni famigliari, Iva agevolata per gli acquisti di materiali per la prima infanzia...». Il capo leghista si ferma un momento e poi scandisce: «Non si parla assolutamente di divorzio, di aborto, di diritti civili e di libertà di scelta delle donne». Beh, al congresso veronese vengono distribuiti feti in plastica e altri gadget di discutibilissimo gusto: «Io so che a questi appuntamenti vanno anche vescovi e altre figure di riferimento. E ribadisco che siamo contrari a genitore 1 e genitore 2 e a pratiche come l’utero in affitto. Detto questo, lo ripeto: legge 194, diritti civili e di scelta non sono in discussione né nei programmi del governo». La stessa linea del governatore Luca Zaia, che ieri dal palco del Congresso ha ammonito contro «il bigottismo che rischia di trascinarci in quello che è l’estremismo». Oltre a parlare di omofobia come di una «patologia». Il primo che aveva segnato la presa di distanza della Lega dal Congresso era stato il capogruppo alla Camera Riccardo Molinari, l’altra sera da Bruno Vespa. Lui a Verona non andrà: «Ma no. Sono a Golosaria Monferrato...». Per poi chiarire: «Noi rispettiamo le idee di tutti. Quel che è certo, è che i diritti civili e la legge 194 non si toccano». Mentre lo stesso senatore Simone Pillon, certamente pro life, ha detto che sull’aborto «c’è una legge nazionale che va applicata, e spero che venga applicata completamente, soprattutto nella prima parte, quella in cui parla di tutela della gravidanza». Colpo di freno, infine, dal ministro dell’Istruzione Marco Bussetti: «Sono stato invitato mesi fa e ho dato la mia disponibilità come faccio per tanti altri convegni. Partecipare non significa sposare l’ideologia degli organizzatori». Quanto al ministro per la Famiglia Lorenzo Fontana, ieri in piazza Bra non ha messo piede. Ma dal punto di vista politico, la Lega considera il clamore intorno all’evento come uno dei numerosi colpi sotto alla cintura arrivati dagli alleati a 5 stelle. Sono infatti settimane che, a partire da Luigi Di Maio, il raduno veronese è oggetto di un fittissimo fuoco (non tanto) amico: la revoca del patrocinio della presidenza del Consiglio in prima istanza già attribuito era arrivata come una bomba dirompente sulla vicenda. E c’è chi ricorda che anche il volantino calabrese «era stato impugnato come una clava proprio dai 5 stelle». La verità forse è che per i leghisti la partecipazione all’evento avrebbe dovuto risolversi con una strizzata d’occhio ai cattolici conservatori e poco più. Per questo, nella giornata dei gadget shock e dei malumori, la consolazione per i salviniani è arrivata dalla partecipazione a sorpresa all’evento veronese della senatrice a 5 stelle Tiziana Drago. Per molti leghisti, un godere non dissimulato: «Chi di Congresso ferisce...».
Luigi Di Maio insulta le famiglie di Verona: "Fanatici". Matteo Salvini risponde: è guerra, scrive il 30 Marzo 2019 Libero Quotidiano. I vicepremier litigano anche sul Congresso mondiale della Famiglia che si sta tenendo a Verona. Sul palco, infatti, è salito Matteo Salvini: "Sono qui a sostenere col sorriso una giornata di festa, a sostenere il diritto a essere madre, a essere padre e a essere nonni. A sostenere la necessità dell'Italia di mettere al mondo dei figli", ha detto il vicepremier. Che poi ha aggiunto: "Siamo qua non per togliere i diritti: non si tocca niente a nessuno. Non sono in discussione l'aborto, il divorzio: ognuno fa l'amore con chi vuole, va a cena con chi vuole". A stretto giro di posta, però, è arrivato il commento del vicepremier grillino, Luigi Di Maio: "A Verona ci sono dei fanatici". E ancora: "Si parla tanto di famiglia in questi giorni voglio dirlo chiaramente: noi teniamo tanto alla famiglia e siamo molto preoccupati per il fatto che l'Italia sia l'ultimo Paese a fare figli in Europa, ma mentre a Verona si sta affrontando questo tema con l'odio verso il prossimo, con le discriminazioni e dicendo che la donna se ne deve stare chiusa in casa ad allevare i figli, noi qui guardiamo al futuro". No, non vanno d'accordo su nulla.
A Verona, lo scontro tra Stato laico e Stato etico, scrive Angela Azzaro il 31 Marzo 2019 su Il Dubbio. Il tentativo di buttare acqua sul fuoco delle polemiche è durato meno di qualche minuto. Appena iniziato il Congresso delle famiglie ha chiarito il suo intento: mettere in discussione alcune delle più importati conquiste fatte dalle donne nel secondo Novecento. Massimo Gandolfini, leader della family day, lo ha chiarito: «L’aborto è un omicidio, e la 194 non aiuta». E a supportare la sua idea ci hanno pensato gli organizzatori distribuendo come gadget un feto di gomma. Difficile in questo clima e con queste battute che il movimento femminista non scenda oggi in piazza e non provi a dire la sua. Non si manifesta per censurare le posizioni di chi partecipa al congresso. Sono due opposte visioni del mondo, entrambe legittime, ma con una differenza sostanziale: chi si riunisce a Verona vorrebbe imporre la propria visione della vita e della famiglia anche agli altri – vedi l’attacco alla 194; chi manifesta è invece per la pluralità delle famiglie, perché tutti e tutte – anche quelli che partecipano al family day – abbiano gli stessi diritti. È una differenza sostanziale, la differenza che traccia il confine tra Stato laico e Stato etico. Ci sono diversi punti che non convincono dei ragionamenti proposti dai partecipanti che difendono la famiglia tradizionale. Molti di loro insistono nel dire che il vero obiettivo è chiedere più aiuti per la famiglia, per i figli, per le donne che lavorano. Ma perché questo discorso non può essere esteso anche agli uomini che lavorano e a tutte le famiglie, anche a quelle composte da due uomini o da due donne o alle famiglie monogenitoriali per scelta? In che modo i diritti degli uni contrastano con quelli degli altri? La battaglia è quindi tutta ideologica per affermare una idea di mondo in cui non c’è spazio per le unioni civili, per l’interruzione di gravidanza e in generale per l’autodeterminazione della donna. Non ci si può non preoccupare, non fare un salto sulla sedia pensando a quante lotte, quante battaglie politiche, quante sedute in Parlamento sono state fatte per arrivare ad alcuni principi che oggi si vorrebbe spazzare via. In questo senso, si ha paura di un ritorno indietro, visto che la principale forza di governo partecipa con diversi suoi esponenti all’appuntamento scaligero. I sostenitori della famiglia tradizionale per avvalorare la loro idea si richiamano all’articolo 29 della Costituzione là dove si dice che «la Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio». Ma per società naturale, i padri e le madri costituenti non intendevano l’esclusivo rapporto uomo donna ai fini procreativi. Era una idea di famiglia e di società che voleva mettere le radici nella libertà, dopo il terribile ventennio della dittatura e dell’orrore della seconda guerra mondiale. L’uguaglianza e la libertà sono principi cardine della nostra Carta che, in decenni e decenni di lotte, il movimento femminista e quello gay, lesbico e trans sono riusciti a portare dentro lo Stato di diritto. Preoccupa invece l’idea di “natura” che avanzano i sostenitori della famiglia tradizionale. Per loro natura coincide con verità, una verità unica, una verità che vorrebbero imporre per legge. Non preoccupano solo le loro idee, preoccupa che queste idee possano diventare obbligo, imposizione, norma, normalizzazione di comportamenti e relazioni. Oggi per le strade di Verona si vedranno molte donne vestite con una tunica rossa e un cappellino bianco in testa. È una divisa tratta dalla serie tv Il racconto dell’ancella dal romanzo di Margaret Atwood in cui si racconta di un regime dispotico che prende il potere. Le donne o sono le mogli di chi comanda o ( la maggior parte) sono ancelle rese schiave e utilizzate per procreare. Non sono esseri umani: sono corpi da violentare, incubatrici a cui si chiede di continuare la specie. È un romanzo distopico, che immagine il futuro. Ma la scrittrice canadese si è ispirata alla realtà: a tutti quei movimenti che vogliono ricacciare le donne a casa, che vogliono ledere l’autodeterminazione, che attaccano l’interruzione di gravidanza, che considerano l’omosessualità una malattia. Romanzo e realtà: in ogni caso un incubo.
Vittorio Feltri: "La Cgil diventa il sindacato di gay e trans", scrive il 26 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. Tra qualche giorno a Verona si svolgerà un convegno internazionale sulla famiglia da riportare, secondo i partecipanti, nell'alveo della tradizione. Non mi sembra una iniziativa deplorevole, visto che qualsiasi testa di rapa in circolazione è venuta al mondo in virtù di un rapporto intimo tra un uomo e una donna di tipo ovviamente classico. Il matrimonio o la convivenza possono piacere oppure no, de gustibus, tuttavia è innegabile grazie ad argomenti ragionevoli che costituiscano la base della procreazione. E allora che cosa c'è da obiettare se vari cattolici e similari si battono legalmente per tutelare gli interessi di chi cerca di proteggere connubi regolari? Ammetto che le lodate unioni ortodosse spesso sono sede di nefandezze, violenze su minori, liti vergognose tra sposi, incapacità di allevare fanciulli in modo decente. Tutto vero e ricorrente. Ciò non toglie che una alternativa alla relazione spontanea tra maschio e femmina non è ancora stata trovata poiché non esiste e difficilmente sarà escogitata in futuro. Eppure c' è una folla di invasati che contesta questa tesi elementare e protesta nei confronti dei difensori del focolare domestico giudicandoli praticamente fascisti o roba del genere. E giustifica il proprio atteggiamento ostile a chi osserva abitudini antiche sostenendo, come fa la Cgil, sindacato storico filocomunista dalla nascita, che sia giusto contrastare il tentativo delle destre mondiali, «a partire da ministri del governo italiano» di affermare, celebrare e difendere la famiglia naturale quale sola unità stabile e fondamentale della società. Cosicché Susanna Camusso, già segretaria generale della citata Cgil, aderisce con i suoi iscritti alla contromanifestazione organizzata da chi è passato sull'altra sponda. In sostanza i rappresentanti dei lavoratori rossi diventano gay e transessuali. Contro i quali non nutriamo un sentimento negativo, riconoscendogli il diritto di scopare con chi vogliono, semplicemente riconosciamo lo stesso diritto a chi proclama di preferire l'amplesso con qualcuno di sesso opposto e si schiera a favore della famiglia millenaria che ha generato l'umanità. Tra l'altro si dà il caso che nessuno ha mai inscenato un corteo avverso i gay, e non si comprende perché, invece, costoro critichino pubblicamente gli eterosessuali intramontabili che stanno nel loro brodo e non desiderano contaminarlo. Vittorio Feltri
Il congresso di Verona divide il governo e le piazze. Finito il congresso di Verona resta sul campo le divisioni e le polemiche. Botta e risposta tra Salvini e Di Maio, scrive il 31 Marzo 2019 Il Dubbio. Piazze divise e botta e risposta a distanza tra Luigi di Maio e Matteo Salvini. A Verona è partito il corteo finale del Congresso delle Famiglie di Verona con circa 10.000 persone. Ieri trentamila persone hanno marciato contro le idee reazionarie del Congresso delle famiglie. Al corteo, organizzato dalle femministe di Non Una di Meno, e a cui hanno aderito le famiglie arcobaleno, i Verdi, i radicali, l’Arcigay tra gli altri. Il capo politico del Movimento 5Stelle, partecipando alla manifestazione organizzata dal sottosegretario alle pari opportunità Vincenzo Spadafora e dall’Agenzia nazionale per i giovani. senza mezze misure ha detto che a Verona ci sono i “fanatici” che affrontano il tema della famiglia “con l’odio verso il prossimo e la discriminazione”. La replica di Salvini non si è fatta attendere dal palco del congresso di Verona: “Se parlare di mamme e papà vuol dire essere sfigati, io sono orgoglioso di esserlo. Odio? Sì, fuori c’è odio. Di Maio sbaglia piazza”. Ma Di Maio ha continuato: “Si parla tanto di famiglia in questi giorni: noi teniamo tanto alla famiglia e siamo molto preoccupati per il fatto che l’italia sia l’ultimo Paese a fare figli in Europa, ma mentre a Verona si sta affrontando questo tema con l’odio verso il prossimo, con le discriminazioni e dicendo che la donna se ne deve stare chiusa in casa ad allevare i figli, noi qui guardiamo al futuro”. Il vice premier pentastellato poi rammenta che “nel contratto di governo non c’è niente di quello che si sta discutendo a Verona”. Sulle adozioni internazionali Matteo Salvini invita , prima Spadafora poi il premier Giuseppe Conte, a “fare di più”. Peccato che, stando a quanto sottolineato da una nota di Palazzo Chigi dalla quale filtra una certa irritazione, la delega alle adozioni internazionali sia “in capo al ministro leghista Lorenzo Fontana”. “Il presidente del Consiglio ha solo mantenuto le funzioni di presidente della Commissione per le adozioni internazionali”, si sottolinea da Palazzo Chigi. “Spetta quindi a Fontana adoperarsi, come chiesto da Salvini, per rendere le adozioni più veloci e dare risposta alle 30.000 famiglie che aspettano”, si replica. “Rimane confermato che bisogna rimboccarsi le maniche e lavorare nei ministeri tutti i giorni e studiare le cose prima di parlare altrimenti si fa solo confusione”, è la “strigliata” al ministro. Ma per la Lega i diritti acquisiti non si toccano Da Verona, in ogni modo, Salvini ha ribadito che la posizione della Lega è di “non toccare quello che già c’e'”, dalle leggi su aborto e divorzio, a quelle sulle unioni civili. Detto questo, il segretario leghista ha sostenuto di credere che “un bambino abbia bisogno di una mamma e un papà” e ribadito la contrarietà alle adozioni alle coppie omosessuali e alla “barbarie” dell’utero in affitto, che “usa la donna come bancomat”. “Il 99 per cento dei gay con cui ho avuto modo di lavorare non è interessato”, ha affermato, precisando di non avere nulla in contrario alle famiglie arcobaleno, “basta che i bimbi stiano bene”. Il capo della Lega ha poi ribadito di essere a favore della “riforma del diritto di famiglia” anche se ha bollato il ddl Pillon come “punto di partenza” aperto a modifiche e critiche. Altro tema quello delle case famiglie. Salvini ha annunciato che proporrà una “commissione di inchiesta” che proceda a una mappatura di questi istituti, denunciando casi che gli sono stati segnalati “nel centro Italia” in cui avvengono maltrattamenti e i minori sono “sequestrati” perché oggetto di “business”, in un sistema in cui la “contiguità tra controllori e controllati” è, a suo dire, sospetta. Il ministro dell’Interno non si è sottratto alla piazza divisa tra fischi “Vergogna” e i cori a suo sostegno “Matteo, tieni duro”. Indosso la maglietta del congresso (che ritrae un nucleo familiare di quattro persone: madre, padre e due bambini), Salvini, separato con due figli da due donne diverse, ha ammesso di non essere il “testimonial” perfetto della famiglia tradizionale. Proprio per questo ha assicurato però di voler aiutare i genitori separati, sua battaglia storica. Durante il suo discorso ha citato spesso i figli, oltre ai suoi genitori, e al “buon Dio”. Luigi Di Maio con un post su Facebook ha mandato a dire a Salvini: “Il problema è che li’ c’è chi vuole negare i diritti degli altri. Diritti conquistati con battaglie durate anni. Queste libertà non possono essere messe in discussione per ideologia. Uno può essere contrario all’aborto e non praticarlo, ma mettere in discussione la libertà individuale su questo punto è inaccettabile. È questo il tema. A Verona è stato distribuito un finto feto come gadget, ho letto dichiarazioni sconvolgenti sulla legge sull’aborto, alcuni partecipanti hanno persino negato il femminicidio. E se vai a mangiare al loro stesso tavolo, per me, la pensi come loro. Ma tant’è”.
Congresso famiglie, Salvini replica a Di Maio: «Orgoglioso di essere sfigato». Pubblicato sabato, 30 marzo 2019 da Corriere.it. Botta e risposta a distanza tra i leader della maggioranza. Matteo Salvini punge Vincenzo Spadafora, dopo la stoccata del sottosegretario M5s a chi sostiene il Congresso delle famiglie e «tesi lontane dal paese reale, Salvini fa un errore ad andare» aveva detto. «Si occupi di rendere più veloci le adozioni - la replica del ministro dell'Interno dal palco di Verona -, ci sono più di 30mila famiglie che attendono di adottare un bambino». Immediata la controreplica di Luigi Di Maio, da Roma: «Salvini legga bene le deleghe. Quella sulle adozioni non è in capo al sottosegretario Spadafora ma al premier e al ministro della Famiglia». Ma il vicepremier leghista, nel frattempo, continua a parlare alla folla: «Non sono qui per togliere qualcosa a qualcuno, la 194 non è in discussione - ribadisce - ma dico a qualche distratto amico di governo, che dice che qui si guarda al passato, che invece qui si prepara il futuro, si guarda avanti e non indietro. E se parlare di mamme, papà e bimbi è da “sfigati”, io sono orgoglioso di essere sfigato». Il riferimento è alla definizione dei partecipanti al meeting usata dal capo politico 5 Stelle. Che - contemporaneamente - ribatte ancora dalla capitale: «La 194 non si tocca? E allora perché è andato al Congresso? Chiedetelo a lui, non leggo nel suo pensiero». Ad accogliere il leader leghista alla Gran Guardia incitazioni («Matteo, Matteo!») ma anche qualche contestatore (»Vergogna!»). «Sono qua a sostenere con il sorriso una giornata di festa, il diritto a essere madre, a essere papà e a essere nonni. La necessità dell'Italia di mettere al mondo dei figli - ha esordito - Siamo qua non per togliere i diritti: non si tocca niente a nessuno. Non sono in discussione l'aborto, il divorzio: ognuno fa l'amore con chi vuole, va a cena con chi vuole». «Condivido alle parole del Papa - ha aggiunto - io bado alla sostanza, non alla forma: non mi permetterò di fare le polemiche razziste attorno alla famiglia. C'è la Boldrini, viva la Boldrini». Dopo l’incipit conciliante, l’affondo: «Combatterò fino a che campo una pratica disumana, barbara e tribale come la pratica dell’utero in affitto, della donna bancomat, forno a microonde». Attacchi anche alla stampa («Dal mondo del giornalismo, e lo dico da giornalista, su questo convegno c'è stato un mix di ipocrisia, benpensantismo, malafede») e alle associazioni in corteo: «Queste presunte femministe che manifestano a pagamento secondo me fanno parte di un business organizzato. Sono sempre gli stessi cartelli di città in citta - prosegue -, parlano di diritti delle donne ma sono le prime che fanno finta di non vedere il pericolo numero uno nel 2019 non è il Wcf, ma l’estremismo islamico, per cui la donna vale meno di zero». Di famiglie ha parlato anche il presidente della Camera Roberto Fico che ha annunciato: «Voglio organizzare un'iniziativa sull'evoluzione della famiglia, sulle famiglie arcobaleno e per ascoltare le esigenze di tutti». «L'evoluzione della famiglia - ha aggiunto - è quanto di più bello ci sia, perché significa che il nostro mondo è in movimento. E racconta una splendida evoluzione culturale. Le famiglie non vanno messe le une contro le altre. Vanno tutte tutelate perché tutte arricchiscono la nostra società. Abbiamo il compito di supportarle, di guardare ai cambiamenti che di fatto esistono nella nostra comunità e di non arretrare sui diritti, mai».
Lite sulla famiglia, il premier contro Salvini: "I ministri studino prima di parlare. La delega sulle adozioni è di Fontana". Palazzo Chigi risponde al vicepremier leghista che aveva chiesto sia Conte che Spadafora di fare di più sul tema. In serata il ministro della famiglia fa trapelare: "Deleghe rimesse oltre un mese fa". E la presidenza del Consiglio è costretta a rispondere ancora: "Incomprensibile", scrive il 30 marzo 2019 La Repubblica. Una giornata incandescente nel rapporto tra Lega e 5Stelle. Uno scontro che va in scena tra Verona - dove Salvini interviene al controverso forum sulla famiglia - e Roma. Una tensione che chiama in causa anche Palazzo Chigi. "La delega in materia di adozioni di minori italiani e stranieri è attualmente ed è sempre stata in capo al ministro della Lega, Lorenzo Fontana", precisa la presidenza del Consiglio in una nota, dopo che Matteo Salvini aveva sollecitato prima Vincenzo Spadafora poi Giuseppe Conte a "fare di più" sul tema delle adozioni". Il presidente del Consiglio - si spiega nella nota di Palazzo Chigi - ha solo mantenuto le funzioni di presidente della Commissione per le adozioni internazionali. Spetta quindi a Fontana adoperarsi - come chiesto da Salvini - per rendere le adozioni più veloci e dare risposta alle 30.000 famiglie che aspettano". Poi la bacchettata: "Rimane confermato che bisogna rimboccarsi le maniche e lavorare nei ministeri tutti i giorni e studiare le cose prima di parlare altrimenti si fa solo confusione". L'attacco di Salvini sul tema delle adozioni era arrivato a freddo da Verona. Prima contro il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Vincenzo Spadafora: "Spadafora si occupi di rendere più veloci le adozioni, ci sono più di 30mila famiglie che attendono di adottare un bambino", aveva detto il leader della Lega. Poi nei confronti dello stesso presidente del Consiglio: "Sul tema adozioni mi aspetto di più dal presidente del Consiglio, che ha nominato la commissione adozioni internazionali che la sinistra aveva affossato e imbalsamato per anni, senza interpellare il ministro con delega alla famiglia". Prima della nota di Palazzo Chigi, anche Di Maio era intervenuto per bacchettare Salvini: "Almeno le deleghe si dovrebbe leggerle prima di accusare qualcuno. La delega alle adozioni non è del sottosegretario Spadafora è una delega che ha in capo il presidente del Consiglio dei ministri e il ministro Fontana in compartecipazione. Evitiamo di dire cose inesatte". Di Maio ha poi ironizzato: "La gaffe di Salvini? Passiamo la mano...". Lo scontro si è arricchito di un retroscena però, quando fonti del ministero della Famiglia hanno fatto trapelare alle agenzie di stampa che Fontana ha chiesto di rinunciare a quella delega. "Da oltre un mese il Ministro Fontana ha chiesto di formalizzare la remissione della delega relativa alle adozioni internazionali a causa del fatto che il presidente Conte ha autonomamente indicato i componenti della struttura Cai (Commissione Adozioni Internazionali)", fanno sapere dal ministero. Passa poco più di un'ora e Palazzo Chigi, rispondendo sempre attraverso fonti di stampa, ribatte ancora. E non ci va leggero: "Le deleghe relative alle adozioni nazionali e internazionali sono sempre rimaste in capo al Ministro Fontana. Non c'è mai stata alcuna revoca delle deleghe. La presa di posizione del Dipartimento di Fontana ha provocato una grave situazione di stasi nell'attività della Commissione Adozioni, che si è sbloccata solo grazie alle sollecitazioni giunte proprio dalla Segreteria generale della Presidenza del Consiglio". "Desta sorpresa - sottolineano ancora da Palazzo Chigi - che la non condivisione sulle nomine di alcuni componenti della commissione adozioni, legittima prerogativa del presidente del Consiglio, possa aver determinato un blocco delle attività amministrative in capo al Dipartimento del ministro Fontana, con conseguenti pregiudizi per le famiglie italiane. Peraltro il presidente Conte ha invitato il ministro Fontana a indicare un proprio nominativo tra i componenti della commissione. Stiamo ancora attendendo la relativa indicazione. Queste polemiche sono davvero incomprensibili".
Il retroscena: l'attacco di Salvini. Ma cosa c'è dietro l'affondo del leader leghista? Di sicuro l'irritazione nei confronti di Spadafora è legata anche ai tanti attacchi lanciati dal sottosegretario M5S alla Lega, sul congresso di Verona. Ma non solo. In un'intervista al Fatto, Spadafora ha tra l'altro escluso future alleanze tra 5Stelle e Carroccio. Ma, ad alimentare la tensione tra Salvini e Palazzo Chigi c'è anche il tema dello ius soli. Oggi il leader della Lega risponde all'apertura fatta ieri da Giuseppe Conte. "La discussione sullo ius soli è la più inutile. La posizione di Conte? Non mi sorprende più nulla".
L’ira di Salvini: «Gli alleati non fanno altro che provocarmi». Pubblicato da Marco Cremonesi sabato, 30 marzo 2019 su Corriere.it. «L’ultimo dei testimonial della famiglia tradizionale» è arrabbiato. Almeno a prima vista, per Matteo Salvini è una brutta giornata. Al punto che l’ira, che diversamente dal solito non è dissimulata neppure di fronte alle telecamere, quasi gli fa perdere di vista i due punti che voleva emergessero dalla giornata. Primo: «Il divorzio non si tocca, l’aborto non si tocca, i diritti che ci sono non si toccano. Noi siamo per ampliare i diritti». Punto numero due: guerra alle case famiglia che lucrano sui bambini loro affidati. Un po’ quello che già è accaduto con le cooperative che gestiscono gli immigrati, ma in chiave famigliare: «Visiteremo una a una le case famiglia, perché ci sono centinaia di bambini detenuti illegalmente da alcuni soggetti. E poi sarei io quello che sequestra le persone...». Fin qui, il copione previsto. Però, poi, il ministro dell’Interno si arrabbia al suo arrivo alla Gran Guardia di Verona, semi schiacciato da giornalisti e telecamere, si spazientisce quando i relatori prima di lui vanno lunghi con i loro discorsi. I suoi sostenitori nella piazza pensano che sia per le bordate di «Vergogna» con cui il leader leghista viene accolto dai molti che contestano il Congresso mondiale delle Famiglie. Di certo, i cori avversi non piacciono a nessuno, ma il vicepremier è assai più arrabbiato con gli alleati di governo: «Non un giorno, nemmeno un singolo giorno hanno rinunciato a cavalcare il Congresso della Famiglie — dice Salvini cupo ai suoi —. Non gli è parso vero...». E pensare che ancora non è uscita la nota di Palazzo Chigi in cui lo si invita a «studiare le cose prima di parlare altrimenti si fa solo confusione». E qui il leader leghista non se la tiene: «Io non è che passi le mie giornate ad attaccare i Cinque Stelle. E invece ogni giorno io mi ritrovo a sentirmi dare del retrogrado, del medievale, dello sfigato. Ma guarda un po’...». A quel punto, il leader leghista parte alla volta della Toscana, dove lunedì mattina presenterà il candidato sindaco di Firenze, Ubaldo Bocci. Resta il fatto che il Congresso delle Famiglie ha aperto una crepa profonda con gli alleati 5 Stelle e con lo stesso premier Giuseppe Conte, «che ha perduto — ringhia un leghista — anche le parvenze di equidistanza tra noi e loro». E così, la polemica è il basso continuo che intesse tutta la giornata: Quello che a Salvini pare «inspiegabile» è il ritorno di Conte sulla questione dello ius soli su cui il premier, pur precisando che non è nel contratto di governo, ha aperto a «una riflessione». Pubblicamente il leader leghista si limita a un «non mi sorprendo più di niente» e a parlare di discussione «fuori dal mondo e dal tempo». In separata sede, con i suoi, Salvini lo stupore lo manifesta: «Ma come è possibile che torni su ‘sta cosa che per noi è stata un cavallo di battaglia nella scorsa legislatura? Ma che è? Una provocazione?». E ancora: «Sulle adozioni Conte ha nominato chi voleva lui nella Commissione adozioni internazionali senza interpellare nessuno. Mentre Spadafora si sta specializzando nell’organizzazione di eventi gay». Un riferimento al fatto che il sottosegretario M5S alla presidenza del Consiglio ha annunciato una manifestazione a sostegno degli omosessuali: «Se mi invitano — dice Salvini — andrò a ripetere le stesse cose identiche che ho detto oggi. Perché il 99% delle persone che incontro e che rappresentano il mondo gay non hanno alcun interesse ad adottare o a mettere al mondo dei bambini. Vogliono vivere semplicemente e senza discriminazioni la loro vita». Ma anche qui, il leader leghista non riesce (o non vuole) mordersi la lingua: «Questa è ignoranza, perché una manifestazione pro gay in risposta al Congresso delle Famiglie vuol dire non aver capito niente. Spadafora si informi». Ma le tensioni della giornata, la manifestazione «ostile» («Brutto dover impiegare tante forza dell’ordine per controllare una kermesse in cui si parla di bambini. L’odio è là fuori, non qui»), l’irritazione per il fuoco amico portano il vicepremier a una piccola gaffe. Nel suo discorso inizia con una citazione del grande autore cattolico Gilbert K. Chesterton, ma si deve interrompere, dalla platea gli fanno grandi cenni: è la stessa citazione che ha fatto 10 minuti prima Giorgia Meloni.
Attacco shock dei moralisti tedeschi: "Salvini ha 2 figlie da 2 donne diverse". Sulla stampa tedesca l'attacco al Congresso delle famiglie: "Sfida all'Europa liberale". Poi l'assurda (e violenta) invettiva contro Salvini, scrive Sergio Rame, Lunedì 01/04/2019, su Il Giornale. La partecipazione di Matteo Salvini al Congresso mondiale delle famiglie sembra scandalizzare i tedeschi. O almeno una certa stampa che, vedendo nella partecipazione del vice premier leghista una "legittimazione ufficiale", ha sferrato colpi bassi e attacchi senza senso per denigrare l'evento e i suoi partecipanti accusandoli di "sfidare l'Europa liberale".
A pestar duro contro il Congresso mondiale delle famiglie è Süddeutsche Zeitung. In un articolo livoroso il quotidiano tedesco si mette addirittura a spulciare nella vita privata di Salvini e lo accusa di essere in contrasto con gli ideali della "famiglia tradizionale" propagandati dal Congresso mondiale delle famiglie perché ha avuti "due figlie da due donne diverse". Divorziato dalla prima moglie, da cui ha avuto un figlio, Salvini ha convissuto con una seconda compagna, madre di sua figlia. Successivamente, il ministro dell'Interno si è fidanzato con la conduttrice televisiva Elisa Isoardi e ora ha una relazione con Francesca Verdini. Che, fanno notare i tedeschi, è "più giovane di vent'anni". Un attacco violento, insomma, che non entra nei contenuti del dibattito e che fa carta straccia delle richieste mosse dai partecipanti al termine del convegno che si è concluso ieri a Verona.
Per Die Tageszeitung, poi, il luogo e il tempo della tredicesima riunione "non sono un caso". "È una sfida all'Europa liberale", scrivono i tedeschi secondo cui gli organizzatori hanno voluto farlo "a due mesi dalle elezioni europee" in un Paese in cui governano due movimenti "populisti" come la Lega e i Cinque Stelle. "Non è un caso" neanche che all'evento siano stati invitati o abbiano partecipato esponenti della "non meno populista Forza Italia" e di altri partiti e movimenti della destra populista europea. "In una città che ha forti legami con la Chiesa cattolica e con l'estrema destra", il Congresso mondiale delle famiglie è stato, a detta del quotidiano, "un test" per la destra populista europea che vorrebbe esportare "in altri Paesi" dell'Unione europea "ciò che funziona a Verona". Una visione miope che rivela tutto l'odio di una certa stampa tedesca nei confronti della Lega e, più in generale, ai movimenti di destra bollandoli come "fondamentalisti cristiani, omofobi e contrari all'emancipazione contro l'Unione europea e i suo valori".
Verona, via tra le polemiche al Congresso Mondiale delle famiglie. Gandolfini: "Aborto omicidio, la legge 194 non aiuta". Parte la kermesse che si concluderà domenica. Porte chiuse ai giornalisti, città blindata. A rinsaldare i legami con i pro-life, che attaccano subito i diritti, prevista anche la presenza di Forza Nuova. Ma per tre giorni ci saranno anche cortei e manifestazioni di protesta di associazioni e movimenti, scrive Maria Novella De Luca il 29 marzo 2019 su La Repubblica. Inizia con un attacco diretto alla legge sull'aborto, in una città blindata e con i giornalisti rigorosamente tenuti fuori dall'area del convegno, il Congresso mondiale delle Famiglie che si apre oggi a Verona e si concluderà domenica, con una marcia del popolo del Family Day con pullman in arrivo da tutta Italia. Tre giorni per discutere, dicono gli organizzatori, di "famiglia, amore, bellezza del matrimonio". Invece il primo a lanciare l'attacco è Massimo Gandofini, uno dei principali esponenti dei pro-life italiani, movimento cattolico ultraconservatore di Destra. "L'aborto è l'omicidio di un bambino in utero, e la legge 194 è stata applicata soltanto negli articoli che permettono la soppressione di una vita e non in quelli aiutano la maternità". Gandolfini attacca poi frontalmente la senatrice del Pd, Monica Cirinnà, mostrando un cartello in cui Cirinnà ironizzava sulla triade "Dio, Patria e Famiglia". "Indegna della sinistra", dice Gandolfini. Sulla stessa linea il vescovo di Verona Giuseppe Zenti: "La famiglia - dice entrando nel palazzo della Gran Guardia - è l'opera d'arte di Dio. L'aborto è un omicidio, questo dice la Chiesa. Non ho nulla contro gli omosessuali, ma non hanno niente a che vedere con il concetto di famiglia". Assai più morbidi e diplomatici i toni di Brian Brown, il presidente dell'Iof, International Organization for the Family, ex quacchero convertito al cattolicesimo, padre di nove figli e legato ai movimenti dell'ultradestra antiabortista americana, nemico dichiarato del mondo Lgbt, ossia omosessuali, lesbiche e trans. "Siamo qui per parlare in armonia dei bisogni delle famiglie di tutto il mondo, della bellezza del matrimonio, della crisi demografica". Netto il governatore del Veneto Luca Zaia: "La legge 194 non si tocca e se esiste una patologia è l'omofobia, non l'omosessualità". Presente al convegno, rinsaldando così i legami tra i movimenti pro-life e i movimenti neofascisti, anche Forza Nuova, il cui leader Roberto Fiore ha annunciato anche che i militanti marceranno insieme alla famiglie nel "corteo per la vita" di domenica poneriggio. Oltre la cintura di piazza Bra, oltre il palazzo della Gran Guardia, si preparano intanto tutte le contromanifestazioni, che da oggi a domenica boicotteranno con flash mob, convegni, letture pubbliche il summit sulla famiglia, in una città già ribattezzata "la nuova Vandea d'Italia". Per tre giorni la rete "Non Una di Meno" ha eletto Verona città transfemminista, per ribadire i diritti delle donne, ma anche di tutti i tipi di famiglia, degli omosessuali. Un programma foltissimo, il cui momento clou sarà domani pomeriggio, con il grande corteo di centinaia di associazioni che sfileranno per Verona per protestare contro "l'oscurantismo e il nuovo medioevo lanciato dal Congresso delle Famiglie". Per difendere i diritti di tutti, la legge sull'aborto e quella sul divorzio messa a rischio dal disegno di legge Pillon, per i diritti delle Famiglie Arcobaleno. Si attendono trentamila persone.
Gandolfini, lite padre-figlia «Da lui mai ricevuto amore», «Macché, è libera di dirlo». Pubblicato da Virginia Piccolillo, sabato, 30 marzo 2019 su Corriere.it. «Ma quale inferno? Ho 7 figli e 11 nipotini. Ciascuno la pensa in modo diverso. Ci sono allineamenti al mio modo di pensare, qualche distinguo e opposizioni come quella di mia figlia. Ma non mi scandalizza per nulla. Anzi è una smentita plateale di chi dice che voglio imporre agli altri le mie idee». Il leader del Family Day, Massimo Gandolfini, è soddisfatto di come stia andando il Congresso delle Famiglie, un «incontro non ideologico, in cui si è parlato di fatti concreti e di come aiutare le famiglie e valorizzare la donna per farla sfuggire alla tagliola per la quale deve rinunciare a fare la mamma per poter lavorare fuori casa. Altro che idee retrograde e medioevali». Ma la critica più tagliente l’ha ricevuta in casa. La figlia Maria ieri era tra i manifestanti. E ha avuto parole pesanti su di lui. «Mio padre vuole che io bruci all’inferno perché sono separata. Mi considera un mostro. Lui ritiene che la mia famiglia sia da nascondere, qualcosa di cui vergognarsi. Da lui non ho mai ricevuto amore. Io invece sono qui con il mio compagno e con le mie figlie per far vedere quanto è bella la mia famiglia allargata. Penso che Gesù Cristo ami gay, lesbiche, famiglie colorate, così come tutte le altre». Convinta che il Congresso di Verona sia un evento «da Medioevo», la primogenita di Gandolfini si è sfogata con la stampa: «Da lui non ho mai ricevuto amore. Il mio rapporto con lui si è incrinato quando mi sono ribellata al suo pensiero maschilista e retrogrado. Il suo concetto di famiglia è una maschera perfetta. Ho frequentato le migliori scuole, avuto i migliori vestiti. Ma mi è mancato l’amore paterno: una carezza quando ero triste e piangevo, un abbraccio quando sbagliavo. È quello che faccio con miei figli. Li amo ancora di più quando cadono. Io questo non l’ho avuto. Cadevo e venivo allontanata, così la ferita diventava più grande. Mi considerava una pecora nera. Ma se mi amasse, come mia madre, non mi vorrebbe far marcire tra le fiamme dell’inferno solo perché sono separata». Davvero Gandolfini la vuole far marcire all’inferno? «Mia figlia lo ha sostenuto e lo ha fatto liberamente perché io sono per la libertà di pensiero e di espressione. Questa dittatura del pensiero unico per il quale qui a Verona non si poteva parlare di famiglia è un assurdo pensabile solo ai tempi della Gestapo». Allora? «C’è la contrapposizione, il contrasto e il confronto delle idee. Mia figlia ha idee diverse dalle mie, questo dimostra che non la ho indottrinata. È ormai grande, ha 35 anni fa le sue scelte che rispetto, non le condivido ma le rispetto. Può anche darsi che abbia fatto delle mancanze, non me ne ricordo, però, per carità, perfetto è solo Dio».
Insomma niente inferno?
«L’unico che decide chi andrà in paradiso, in purgatorio o all’inferno è Dio e siccome, potrò sembrare un po’ megalomane, ma non mi ritengo Dio, non mi permetto assolutamente di mandare nessuno all’inferno».
Simone Canettieri per ''Il Messaggero'' il 31 marzo 2019. «Quando mi sono separata, mio padre mi disse che sarei andata all' inferno. E da quel momento non ha più voluto vedere i miei 4 figli. Anzi, mi assicurò che sarei finita tra le fiamme».
Invece Maria Gandolfini, 36 anni, si trova qui a Verona, alla contromanifestazione, e c' è anche un bel sole.
«Sì, per me era giusto partecipare. Per anni sono stata succube di mio padre: un dittatore.
Ma non solo come me».
E con chi?
«Noi siamo sette figli adottati, ci ha sempre nascosto perché ci avesse adottato a tutti. Mi ha fatto vivere nell' incubo per una vita, e tante cose non posso raccontarle, ma alla fine mi sono ribellata. Ma ora sono senza lavoro».
E perché?
«Era la sua segretaria. Ma quando ho deciso di lasciare mio marito, mi ha licenziato. Così. Su due piedi. In queste ore sto provando a contattarlo, ma non mi vuole sentire, si rifiuta di vedermi».
Lei lo sta attaccando in ore molto delicate, si sarà arrabbiato.
«Eh, no! Io sono sempre stato coerente».
Tra poco è atteso l' arrivo di Matteo Salvini: le piace il leader della Lega?
«Sicuramente è più avanti di mio padre sui diritti delle donne. E questo lo apprezzo. Come non dispiacciono nemmeno le posizioni dei grilli».
Dei grilli?
«Sì dei grillini, loro insomma. Io non mi intendo di politica».
Chi voterà alle Europee?
«Non lo so forse non voterò. La verità è che tutti i partiti sono moderni rispetto alle idee di mio padre, che mi augura di finire all' inferno».
Simone Canettieri per ''Il Messaggero'' il 31 marzo 2019. «Ah, lo vede? Siamo in una democrazia. Anche mia figlia può dire quello che vuole, anche di suo padre. Anzi, ecco: questa è la dimostrazione che non sono un fascista. E viva la libertà di espressione». All' ora di pranzo, tutti cercano Massimo Gandolfini, leader del Family day, ma nessuno vuole chiedergli cosa pensa della 194 (ne ha già parlato, ed è risaputo: crede che l' aborto sia un delitto, tanto da stimare la lista delle vittime in Italia) e nemmeno di Matteo Salvini, grande ospite di questa seconda giornata del congresso. Però l' attrazione per le telecamere e i taccuini per lui è comunque fatale.
«Ancora su Maria, mia figlia? Basta!».
Però Gandolfini sta montando una discreta polemica. La considera una figlia ingrata, una franca tiratrice o cosa altro?
«La considero una figlia. Che può avere la sua opinione. Anche se è molto diversa dalla mia».
Sua figlia ha detto che lei è un maschilista e che questo evento non rispetta le donne.
«Mia figlia e suoi fratelli sono persone libere. Ma vedete?».
Cosa?
«C' è un' informazione che parla solo di queste cose, della mia vita personale».
Lei è un personaggio pubblico. Vi siete sentiti in queste ore?
«No. Penso che abbia sentito mia moglie, la madre, non lo so».
Esige un chiarimento o non la farà più entrare a casa?
«No».
Vi rivedrete a Pasqua per un bel pranzo in armonia?
«Questi saranno fatti miei? Allora vogliamo parlare delle nostre idee a sostegno della famiglia, per favore?».
Come nasce il Congresso mondiale delle famiglie di Verona, scrive Luisa Betti Dakli il 28 marzo 2019 su Il Corriere della Sera. Pubblichiamo un estratto dalla postfazione «Sovranismo all’attacco: prima le donne e i bambini» di Luisa Betti Dakli in «I nostri corpi come anticorpi – La risposta delle donne alla reazione della destra» di Beatrice Brignone e Francesca Druetti, con contributi di Giulia Siviero e Claudia Torrisi (ed. People 2019), libro che sarà presentato a Verona presso la libreria Libre il 30 marzo alle ore 18.00 nell’ambito delle proteste contro il Congresso mondiale delle famiglie. Il libro è in vendita nelle librerie e online. Ed è anche scaricabile. L’ondata travolgente di autoritarismo, populismo e intolleranza, in Europa e nel mondo, veicola continuamente messaggi di esclusione: dalle politiche razziste, divisive e misogine del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, a quelle marcatamente fasciste di Bolsonaro in Brasile, fino ad arrivare ai governi populisti e autoritari di Ungheria e Polonia, che continuano il loro processo di limitazione delle libertàdei cittadini e delle cittadine, sull’esempio della Russia di Putin o della Cina. Autoritarismi e populismi che appaiono come un’ineluttabile deriva a livello planetario con gruppi politici che cercano di sostituire la democrazia con la loro interpretazione egoistica, facendola passare come cio che la maggioranza desidera. Questo modello attrae l’ammirazione dei populisti occidentali che, una volta in carica, hanno il vantaggio di sfruttare il potere dello Stato, ampliando la loro demagogia: come Matteo Salvini, che sta tessendo le fila per unire tutti i gruppi sovranisti presenti nel Parlamento Europeo per costruire un blocco di destra compatto. In quest’avanzata di una politica che demonizza le minoranze e mina le istituzioni democratiche, le donne rappresentano indubbiamente uno dei primi bersagli da colpire e da affondare. Oltre all’attacco al diritto al divorzio e il tentativo manifesto di silenziare la violenza maschile in ambito domestico, c’è il mai morto attacco all’aborto e ai diritti civili, ma anche attacchi alle Ong che lavorano con i migranti o con le donne che cercano di sottrarsi alla violenza. Una rimonta a destra che non riguarda solo l’Italia o l’Europa ma tutto il mondo. (…) A settembre dello scorso anno il World Congress of Families (Wcf) si e riunito in Moldavia coinvolgendo partiti e movimenti che difendono la “famiglia naturale” e il matrimonio indissolubile e che lottano contro l’aborto e le unioni civili. Salutato da Salvini con un messaggio letto dal palco in cui si raccomandavano «i valori fondanti delle nostre culture» e «gli sforzi per proteggere la famiglia naturale», il congresso ha accolto con calore il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin. Dopo soli sei mesi il Wcf èstato riprogrammato prima delle elezioni europee di maggio, ovvero per la fine di marzo, e in Italia. La città prescelta è Verona, una città che si presenta, per molti versi, come laboratorio in cui verificare l’efficacia di politiche di estrema destra, strettamente legate a ideali religiosi ultrareazionari: azioni sul territorio locale che possono poi diventare programmi di governo grazie alla Lega, che trasversalmente unisce tutti questi gruppi dando loro credibilità istituzionale. Il Wcf previsto a Verona ha infatti ottenuto il patrocinio di Provincia, Regione e Ministero per la famiglia, e prevede interventi di Tajani, presidente del Parlamento europeo, Salvini, ministro dell’Interno nonché vicepremier, Bussetti, ministro dell’Istruzione, e Fontana, ministro per la Famiglia. Ma da dove nasce questo raduno? Tutto ha inizio nel 1997 nell’appartamento del “mistico russo-ortodosso” Ivan Shevchenko, dove l’americano Allan Carlson, attuale presidente emerito del Wcf, e i russi Anatoly Antonov e Viktor Medkov, professori di sociologia a Mosca, hanno dato vita a un’organizzazione che avrebbe dovuto svegliare e guidare la destra cristiana globale, rimettendo la Russia in una posizione centrale dopo il periodo dell’Urss. Obiettivi principali: difendere la famiglia tradizionale, sostenere campagne contro aborto e omosessuali. Un progetto finanziato dal miliardario ortodosso Konstantin Malofeev, uomo fidato di Putin che tiene le fila di tutta l’estrema destra in Europa. Oggi il Wcf ègestito dal presidente dell’omofoba National Organization for Marriage, Brian Brown, che tiene ben stretti i legami tra Russia e destra religiosa americana, e che è uno dei più influenti attivisti americani anti-Lgbt nel mondo, noto per aver impedito le adozioni dei bambini russi da parte di coppie gay straniere, e grande amico del premier ungherese, l’ultrareazionario Viktor Orba. Il Wcf e ormai uno dei poli principali delle destre dell’Est e costituisce un riferimento per gli evangelici statunitensi di estrema destra, che hanno avuto un ruolo fondamentale anche nelle elezioni del nuovo presidente in Brasile, il fascista Bolsonaro, diventando una delle organizzazioni antiabortiste e anti-Lgbt più forti del pianeta. Mosca, che ha avuto e ha un ruolo importante nella rinascita della destra cristiana internazionale, ospita da tempo conferenze neonaziste provenienti da tutto il mondo, dà appoggio alla destra americana fondamentalista, e le sue banche finanziano gruppi di estrema destra ovunque, compreso il Fronte Nazionale francese, con rapporti diretti anche con la destra repubblicana di Trump. La difesa della famiglia “naturale” sarebbe dunque un paravento che nasconde una guerra condotta congiuntamente da movimenti ultracattolici e di estrema destra, che ha come primi obiettivi l’autodeterminazione delle donne e i diritti civili, per poi allargarsi al restringimento dei diritti di tutti sul modello russo: dalla repressione della libera informazione a quella del libero pensiero. Cinque anni fa, due milioni di persone hanno firmato e presentato alla Commissione europea la petizione «One of Us» per salvaguardare il concepimento fin dal primo giorno. Campagne finanziate dalla Russia e dagli Stati Uniti in un intreccio tra istituzioni evangeliche americane, cattolici europei e oligarchi ortodossi russi. Come Vladimir Yakunin, finanziatore di CitizenGo, importante associazione pro-life che in Spagna ha reso virale la campagna «L’aborto è la prima causa di femminicidio nel mondo», ripresa in Italia dai negazionisti della violenza maschile e dai responsabili del comitato del Family Day, ma anche dal ministro Fontana. Una piattaforma mondiale, quella di CitizenGo, che lancia campagne in dodici lingue facendo pressione su istituzioni, governi e organizzazioni di cinquanta Paesi. Un omologo della European Centre for Law and Justice che da Strasburgo fa pressione su Nazioni Unite, Consiglio d’Europa, Parlamento europeo e Osce, su temi come la vita, la famiglia, l’educazione, ma che è controllata da Jay Sekulow, l’evangelico più influente degli Stati Uniti nonché avvocato di Trump. Tornando a Verona, che è stata scelta per ospitare quest’anno il Wcf, non è da sottovalutare il fatto che sia non solo la città dell’attuale ministro della Famiglia, il leghista Lorenzo Fontana, antiabortista convinto e con forti legami con l’estrema destra, ma anche il comune dove è stata presentata la prima mozione contro l’interruzione volontaria di gravidanza. Qui il consiglio comunale ha accolto la proposta del leghista Zelger per finanziare associazioni cattoliche pro-life. Una mozione che secondo Roberto Todeschini, responsabile Giovani della Lega, sarà portata in tutti i comuni d’Italia «con l’obiettivo di estenderla a livello regionale e nazionale», tanto che la mozione è stata poi proposta, senza essere approvata, anche a Ferrara, Roma, Milano, Modena e a Genova, dove invece è stata accolta. Valori in linea con il ministro Fontana per il quale «la famiglia è quella naturale» e, appunto, «l’aborto è la prima causa di femminicidio nel mondo». Iscritto dal 2011 al Comitato No194, Fontana firmò per abrogare la legge 194 e per punire donne e medici con una pena tra gli otto e i dodici anni. Cattolico oltranzista, il ministro della Lega rappresenta il connubio perfetto tra l’ideologia dell’estrema destra, per cui i flussi migratori portano a “un annacquamento devastante dell’identità del Paese che accoglie”, e i principi di un integralismo religioso che, se fosse applicato, cancellerebbe la laicità dello Stato. Legato a Vilmar Pavesi, il parroco ultrareazionario monarchico che celebra la messa in latino, per Fontana i valori da difendere «sono quelli della Chiesa cattolica» contro le coppie gay. Spesso presente in eventi pro-life, Fontana nel 2015 era al Family Pride di Verona, organizzato da Forza Nuova e dal circolo Christus Rex, e in una foto appare con i militanti di Fn e con l’attuale sindaco veronese, Federico Sboarina, molto vicino ai gruppi di estrema destra. Ma il ministro è anche grande sostenitore di ProVita Onlus, che promuove il Family Day e la Marcia per la vita, e che ha come portavoce Alessandro Fiore, figlio del leader di Forza Nuova, Roberto Fiore. Mentre Toni Brandi, presidente di ProVita, Jacopo Coghe, presidente di Generazione Famiglia, e Filippo Savarese, che dirige CitizenGO in Italia, fanno parte del Comitato Difendiamo i Nostri Figli, il cui portavoce è Massimo Gandolfini, leader del Family Day, e tutti appartengono alla piattaforma del Wcf, compresa Novæ Terræ che, secondo l’inchiesta fatta da Francesca Sironi e Paolo Biondani per L’Espresso («Pioggia di rubli ai cattoleghisti», 16 novembre 2018), avrebbe intercettato negli anni finanziamenti russi per organizzare in tutto il mondo campagne contro aborto e gay: soldi che dalla Russia sono stati ridistribuiti in Italia, Spagna, Gran Bretagna, Stati Uniti, Polonia, Ungheria, per finanziare organizzazioni religiose di destra che solo dal 2012 al 2014 hanno smistato 3 miliardi e 104 milioni di dollari, 519 milioni di euro, 1 miliardo e 220 milioni di rubli, 3 milioni di sterline. Flussi andati anche all’Istituto Dignitatis Humanae, dove Steve Bannon, il più importante teorico del sovranismo mondiale ed ex stratega di Trump, sta progettando la sua scuola per forgiare nuovi e giovani leader per la destra europea presso la certosa di Trisulti. Ma chi c’era alla fondazione Novæ Terræ dal 2015 al 2018? Il senatore Simone Pillon, padre del tanto dibattuto ddl 735, che èuna delle chiavi di questo schieramento trasversale. Il neocatecumenale senatore è infatti sia contro l’aborto che contro le unioni gay, è naturalmente per la famiglia tradizionale, ma attraversa il mondo cattolico di destra, dal Wcf al Family Day, per posizionarsi anche come elemento organico e strategico nelle associazioni dei padri separati, strenui sostenitori del suo ddl, per diventare uno degli uomini di punta negli incontri ai convegni organizzati dallo psicologo Marco Casonato, ex ricercatore della Bicocca a favore dell’alienazione parentale e ora in carcere per omicidio.
Sfila il Corteo della famiglia: chiede un Fondo salva-famiglia, alternative all'aborto e politiche per la natalità. Nella Dichiarazione di Verona il Wcf il riconoscimento della perfetta umanità del concepito, lo stop all'utero in affitto, il contrasto all'inverno demografico, scrive il 31/03/2019 Huffington Post. Un fondo salva-famiglia, alternative all'aborto, politiche per la natalità, stop assoluto all'utero in affitto. Sono questi i cardini della proposta del Congresso mondiale delle famiglie, che si sta per chiudere a Verona. "Perché la Ue prevede fondi salva-stati che, nella pratica sono salva-banche e non istituisce un fondo salva-famiglie", hanno dichiarato gli organizzatori del Congresso, Toni Brandi e Jacopo Coghe. La kermesse si è conclusa con il corteo finale per le strade di Verona. Nel "salotto" cittadino si sono radunate circa 10.000 persone, secondo le prime stime delle forze dell'ordine, che riempiono metà dello spazio della Bra. Tra le tante bandiere, quelle di Alleanza cattolica, dei Giuristi per la vita, del Movimento per la vita, gruppi mariani e devozionali e pro-vita. Tre figli di Massimo Gandolfini, Loretta, Paulo e Maria, in linea con le idee del padre - diversamente dalla primogenita Maria ieri in piazza con le donne - si è presentata tra i partecipanti. Sono presenti, tra gli altri, il sindaco di Verona Federico Sboarina, l'assessore regionale veneto Elena Donazzan e il senatore leghista Simone Pillon. Nella "Dichiarazione di Verona" tra le richieste incluse compare il riconoscimento della perfetta umanità del concepito; la protezione da ogni ingiusta discriminazione dovuta all'etnia, alle opinioni politiche, all'età, allo stato di salute o all'orientamento sessuale; la tutela delle famiglie in difficoltà economiche, specie se numerose, e delle famiglie rifugiate; il contrasto all'inverno demografico, tramite leggi che incentivino la natalità. Il documento dichiara come "urgente" e "inderogabile" il perseguimento di ulteriori obiettivi, come il contrasto alla pratica dell'utero in affitto tramite una moratoria internazionale e la protezione dei minori, a partire dai loro diritti ad avere una mamma e un papà, a non diventare oggetti di compravendita, di abusi sessuali e pedopornografia e a ricevere un'educazione che non metta in discussione la loro identità sessuale biologica e non li induca a una sessualizzazione precoce. La Dichiarazione di Verona prosegue, sottolineando l'urgenza della tutela dei diritti delle donne, dal ricevere valide alternative all'aborto, alla protezione dallo sfruttamento sessuale e dalla pornografia, alla parità di trattamento salariale, fino alla conciliazione tra lavoro e maternità, attraverso più lunghi congedi parentali e - per chi lo desidera - flessibilità, part time o telelavoro. Le madri che scelgano di dedicarsi esclusivamente ai figli e alla famiglia, aggiunge la Dichiarazione, andrebbero tutelate con una remunerazione adeguata per il lavoro casalingo, laddove lo stipendio del coniuge non sia sufficiente per un'esistenza libera e dignitosa. Ulteriori punti del documento riguardano il radicale contrasto alla diffusione e alla legalizzazione di ogni tipo di droga e la difesa del diritto dei genitori alla libertà di scelta educativa per i propri figli (art. 26 Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo), specie riguardo la sfera sessuale e l'affettività.
A Verona il corteo “transfemminista”: “Siamo in 100 mila per manifestare contro una società patriarcale”. Forza Nuova lancerà un comitato referendario per abolire la legge sull’aborto, scrive il 30/03/2019 Chiara Baldi su La Stampa. A Verona, in corteo contro i protagonisti del “Congresso delle Famiglie”, alla fine c’erano 100 mila persone. «Un numero al di sopra delle aspettative di cui non si potrà non tenere conto», commenta il collettivo femminista «Non una di Meno» che ha organizzato la manifestazione transfemminista, con pullman e treni da tutta Italia (soprattutto Milano, Bologna, Roma e Torino). Appuntamento in piazzale XXV Aprile alle 14,30, partenza mezz’ora dopo, poi oltre tre ore prima che la testa del corteo raggiunga piazzale Porta Vescovo, dove c’è una delle due stazioni della città. E mentre la cima arriva alla meta, il resto dei manifestanti è ancora dietro piazza Bra, la piazza «incriminata», quella con il palazzo della Gran Guardia, dove si tiene il «Congresso della Famiglia» a cui nella giornata di sabato 30 marzo partecipano anche il ministro dell’Interno nonché vice presidente del Consiglio Matteo Salvini, il ministro della Famiglia Lorenzo Fontana e quello dell’Istruzione Marco Bussetti. E proprio nel momento in cui il leader della Lega dal palco rivendica l’orgoglio di «essere uno sfigato a difendere la famiglia tradizionale con mamma e papà», facendo il verso quindi al compare di Governo, Luigi di Maio, che aveva appellato come «sfigati» i partecipanti al Congresso, da fuori le femministe di fucsia vestite urlano «buffoni» e «vergogna». Ma soprattutto cantano: la loro autodeterminazione, la loro libertà, invocano il loro diritto di scegliere di divorziare, abortire, fare sesso libero. A Giulietta, simbolo di Verona, ricordano che non vale la pena «attendere da sola sul balcone» l’arrivo di un uomo, mentre ai politici di ogni ordine grado ricordano che «il corpo è mio e lo gestisco io». Ma lo slogan preferito è «insieme siam partite, insieme torneremo non una di meno»: è così che hanno dato il via al corteo. Con loro anche Marta Dillon, fondatrice del movimento argentino «Nì una menos», da cui sono nati i gruppi italiani. Questa marea fucsia – sono fucsia anche i fumogeni sparati dietro la Gran Guardia – inonda le strade strette della città veneta e fa sembrare infinito il rito del corteo. Ma è una festa per tutte e tutti, e lo rivendicano a ogni passo. In piazza anche tante famiglie. Come quella di Sara e Maurizio, che sono venuti a manifestare con il loro nipote 13 enne Stefano: «Veniamo dalla Valpolicella e in treno c’erano decine di famiglie come la nostra. È importante essere qui oggi perché Verona non è la città che toglie i diritti a nessuno». «Siamo qui oggi per protestare contro il patriarcato, contro chi vuole decidere sul nostro corpo. E questo fucsia è la nostra risposta, la nostra risposta al ’nero’ che vogliono imporci», spiegano le femministe di «Non una di Meno». Che rivendicano: «Oggi Verona è femminista». O almeno, una parte. È partito da piazza XXV Aprile a Verona il corteo transfemminista organizzato dal movimento “Non una di meno”: per gli organizzatori ci sono oltre 100 mila persone. La Digos: «Mai vista una manifestazione così numerosa in città». In corteo anche molte altre sigle, come ANPI, ARCI, Uaar (Unione atei e agnostici razionalisti), D.i.r.e Donne in rete contro la violenza, Cgil, Rete Lenfort, All Out, libera, se non ora quando, Famiglie Arcobaleno e molte altre.
Vieni da me, Caterina Balivo massacra le femministe della tv: "Donne discriminate? Basta balle", scrive il 31 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Caterina Balivo ha detto la sua sull'annoso tema delle discriminazioni nel mondo del lavoro, soprattutto in quello dello spettacolo e della tv. Interrogata da una lettrice nella sua rubrica delle lettere sul Quotidiano nazionale, la conduttrice di Vieni da me su Raiuno risponde all'eterna domanda: "Che tipo di discriminazioni si affrontano ancora in quel mondo? Secondo lei le donne pagano ancora un prezzo di genere?". La stessa conduttrice si interroga: "Quante volte mi guardo indietro e mi chiedo: ma come ho fatto?". Una prima spiegazione la conduttrice la trova nel suo grande impegno e nell'ambizione personale: "Io che stavo bene con un futuro quasi certo da costruire, ho mollato tutto perché volevo essere una nota conduttrice. Prezzi da pagare? - si chiede - Tanti ma come in ogni lavoro con una incognita più alta degli altri mestieri, perché davvero uno su mille ce la fa. Ma ti prego non parliamo di discriminazione di genere anche perché la tv è femmina e gli uomini fanno molta più fatica di noi donne ad emergere perché non hanno dei plus che possiamo avere noi donne: come l'empatia, un sorriso che acchiappi uomini e donne, una sveltezza intellettiva che ti fa tenere i nervi saldi e poi inutile girarci attorno, se sei pure bella lasci inditro tanti". E quindi conclude: "Nessuno ti regala niente e a volte il gioco delle sedie, che a me tra l'altro non è mai piaciuto, ti fa restare in piedi senza lavoro".
Verona, si chiude il congresso della famiglia. Gli organizzatori: "Alle europee vedremo chi è con noi e chi ci insulta. Di Maio studi". Il vicepresidente del forum, Coghe: "Siamo soddisfatti per la presenza di Salvini e Fontana". Il presidente Brandi se la prende con il leader 5Stelle: "Si prepari sulla storia del Medioevo". Nel documento finale l'attacco al gender e la moratoria contro "l'utero in affitto", scrive il 31 marzo 2019 La Repubblica. Cala il sipario sul controverso congresso sulla famiglia, che agita la politica ormai da settimane. E il messaggio conclusivo di uno degli organizzatori contiene un riferimento esplicito alla prossima scadenza elettorale, quella delle europee: "Le famiglie non hanno colore politico ma alle prossime elezioni europee prenderemo atto di chi è dalla nostra parte e di chi ci insulta", è l'avvertimento lanciato dal vicepresidente del Congresso mondiale, Jacopo Coghe, nella terza ed ultima giornata. "In questo incontro - ha sottolineato - volevamo parlare alle istituzioni. Abbiamo mandato inviti a tutti, il vicepremier Di Maio non ci ha risposto, altri lo hanno fatto. E il silenzio vuol dire tanto", ha concluso. Nessun endorsement esplicito, precisa Coghe. Ma di fatto dà quasi un'indicazione di voto. "Salvini e Fontana sono venuti in veste istituzionale. Siamo soddisfatti per la presenza e l'assonanza delle istituzioni che hanno partecipato ieri al congresso - spiega Coghe - siamo rimasti molto soddisfatti delle loro risposte ma ovviamente non ci fermiamo, da qui parte una nuova politica per la famiglia non più in difesa ma in attacco. Bisogna pensare alle nuove generazioni". Un altro degli organizzatori, Toni Brandi, mette invece nel mirino il vicepremier M5S Luigi Di Maio, che ha più volte evocato il Medioevo in relazione al congresso veronese: "Di Maio studi la storia del Medioevo! È stato invitato a questo Congresso e fa molto male sentire che abbia scelto di insultarci, invece di venire qui ad esporre le sue idee", ha detto un altro degli organizzatori - Toni Brandi - rispondendo al leader del Movimento che ieri ha definito "fanatici" e con uno "stile medioevale" i partecipanti alla tre giorni veronese. "È molto triste vedere che dei politici non pensano a ciò che è giusto ma agli interessi del proprio partito" aggiunge Brandi. "Le prime sante sono state donne. Si è mai domandato perché? - conclude - è il cristianesimo che ha rivalutato la donna. La storia nel Medioevo l'hanno fatta le donne, filosofe, pensatrici, badesse. Per pietà, informatevi". Insomma, tra benedizioni e invettive, il messaggio all'elettorato è chiaro. E gli strascichi dello scontro andato in scena nelle ultime ore tra Salvini da una parte, Conte e i 5Stelle dall'altra - sulle adozioni e non solo - potrebbero essere difficili da gestire. Il senatore Simone Fontana - autore del contestatissimo disegno di legge omonimo - scherza tra la folla della manifestazione di chiusura. "Questo non è un selfie, è un'immagine dal Medioevo", dice a chi gli chiede una foto. Poi si rivolge a una donna incinta: "Vedo una donna che è stata lasciata libera". Il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, parla di "macabro teatrino" degli alleati di governo. "Sulla famiglia 5 stelle e Lega mai così distanti? Peccato però che litigano e non prendono atto che non possono continuare a governare insieme. È un triste e macabro teatrino sulla pelle degli italiani". Intanto, nel documento finale del congresso, l'attacco al gender e alla maternità surrogata: "Contrasto alla pratica dell'utero in affitto tramite una rogatoria internazionale e la protezione dei minori, a partire dai loro diritti ad avere una mamma e un papà, a non diventare oggetti di compravendita, di abusi sessuali e pedopornografia e a ricevere un'educazione che non metta in discussione la loro identità sessuale biologica e non li induca a una sessualizzazione precoce", si legge.
Congresso famiglie di Verona, Crozza: ''E' l'evento dell'anno... del 1400'', scrive il 30 marzo 2019 Repubblica Tv. Nel suo monologo durante il programma Fratelli di Crozza, in onda su Nove, il comico genovese ha parlato delle Congresso delle Famiglie, che si tiene nella città di Verona. ''Ma perché lo fanno nella città di Romeo e Giulietta? Nella città dei Montecchi e dei Capuleti? E' come fare il festival degli astemi a Montalcino'', ha scherzato.
Verona, Luca Zaia contro il M5s: "Non mi sembra che parlare di famiglia sia Medioevo", scrive il 29 Marzo 2019 Libero Quotidiano. “Hanno invitato tutti poi ci sono quelli contro il Medioevo che non vengono, a me non sembra che il Medioevo sia parlare di famiglia”. Lo ha detto il presidente della Regione Veneto Luca Zaia a margine dell'inaugurazione del Congresso mondiale della Famiglia a Verona.
Il nuovo mantra politicamente corretto: “stiamo tornando al Medioevo”, scrive Francesco Giubilei, 30 marzo 2019, su Nicola Porro. Tra i tanti cliché, luoghi comuni ed etichette proposte dalla vulgata politico-mediatica progressista, riprendendo il concetto di egemonia culturale teorizzato da Gramsci che si è concretizzato fino a pochi anni fa nello strapotere della sinistra nella cultura ed è oggi rappresentato dalla narrazione politicamente corretta, uno dei più insopportabili è senza dubbio l’affermazione “stiamo tornando al Medioevo”. Utilizzata come un mantra da giornalisti, commentatori, politici e personalità allineate all’intellighenzia nostrana, ripetuta pedissequamente da pseudo intellettuali e solerti critici da social network, nasconde in realtà un equivoco di fondo e una scarsa conoscenza di ciò di cui si sta parlando che è lo specchio della nostra epoca. Al netto di pochissimi commentatori animati da una nemmeno troppo celata cattiva fede e consapevoli dell’imprescindibile contributo che l’epoca medioevale ha dato all’Occidente (e non solo) ma, nonostante ciò, in prima linea nell’accusa di essere tornati al Medioevo, la maggioranza delle persone che utilizzano questo slogan (perché questo è ormai diventato), lo fanno senza conoscere che cosa è davvero stato il Medioevo. Eppure basterebbe leggere qualche buon libro per capire la grandezza dell’epoca medioevale ma, si sa, per alcuni raffinati radical-chic i libri è meglio esporli nei propri salotti e fare sfoggio di pregiati coffee table books piuttosto che leggerli. Non dico di conoscere una brillante storica come Régine Pernoud, autrice di due opere straordinarie come Luce del medioevo (magistralmente curato da Marco Respinti) o Medioevo. Un secolare pregiudizio, ma per lo meno approfondire il periodo storico con Franco Cardini e il suo L’apogeo del Medioevo. L’epoca che convenzionalmente va dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C. alla scoperta dell’America nel 1492, ha posto le basi culturali per la nostra civiltà e, insieme all’Antica Roma, ha rappresentato l’anticamera per la nascita dell’identità dell’Italia che, se politicamente si sarebbe unita solo nel XIX secolo, culturalmente nasceva in questi anni. Grazie all’instancabile attività dei monaci benedettini, fedeli alle regola dell’ora et labora, si sono conservati e sono giunti fino a noi i grandi classici della letteratura latina e durante il Medioevo è nata la nostra letteratura con Dante, Boccaccio, Petrarca. In quest’epoca sono vissute alcune straordinarie donne come Santa Chiara e Santa Rita da Cascia animate da autentica fede, immensi pensatori come Tommaso d’Aquino, santi uomini come Francesco d’Assisi. Ma il Medioevo è stato anche la culla dell’arte con Giotto e Cimabue, dell’architettura con la costruzione di imponenti cattedrali (basta paragonarle con le Chiese che si costruiscono oggi per riflettere sulla definizione di epoca buia) e in questi anni è nato il luogo di trasmissione della cultura per eccellenza: l’Università. Più di un fantomatico ritorno al Medioevo, dovremmo preoccuparci di un’epoca come quella contemporanea caratterizzata da un pericolo forse peggiore dell’ignoranza: l’incapacità di sviluppare una coscienza critica, di informarsi in modo oggettivo e scevro da preconcetti ideologici. È un pericolo molto più insidioso perché si basa su una presunta e quanto mai effimera conoscenza che genera presunzione e convinzione di possedere gli strumenti per poter pontificare e demonizzare secoli di storia dall’alto di non si sa quale autorità. Come diceva Bernardo di Chartres in pieno Medioevo “siamo nani sulle spalle di giganti”, i medioevali se ne erano resi conto, noi, accecati dal razionalismo e dal materialismo, pensiamo non solo di poter determinare il nostro destino ma di modellare a nostro piacimento valori e leggi che vanno ben al di là delle possibilità umane dimenticandoci di un’altra grande lezione medioevale: l’importanza della spiritualità nella vita umana. Francesco Giubilei, 30 marzo 2019
Ho visto il Medioevo Non è poi così male, scrive Alessandro Sallusti, Sabato 30/03/2019, su Il Giornale. Ieri ho fatto un salto nel Medioevo, devo dire che non mi sono trovato male. Al Forum mondiale delle famiglie aperto a Verona non ho visto roghi, e neppure streghe. Non mi sono imbattuto in stanze della tortura e neppure sono stato sottoposto pur essendo un discreto e noto peccatore a processi sommari degni dell'Inquisizione. In compenso ho visto e sentito applaudire il governatore del Veneto, Luca Zaia, quando ha detto che non i gay ma gli omofobi sono affetti da problemi patologici; più intenso il battimani per il trasgressivo conduttore de «La Zanzara» su Radio24, Giuseppe Cruciani, che ha sostenuto la seguente tesi: sono a favore di aborto, divorzio, unioni gay, fecondazione assistita e pure utero in affitto, ma ancor prima sono a favore che voi possiate liberamente e serenamente sostenere le vostri tesi. Successo ha avuto anche l'ambasciatore dell'Ungheria, pronipote dell'imperatore Cecco Beppe e di sua moglie Sissi, che ha invitato i delegati a scendere in campo sui social a patto di non rispondere con insulti a quelli che sicuramente, visto il clima, riceveranno. Una cosa mi è sembrata chiara: se il governo Conte ha ritirato il patrocinio per paura di sporcarsi le mani con questi ultrà della famiglia naturale quella cioè che nasce dall'unione di un uomo e di una donna non potrà mai essere il governo di tutti gli italiani. A Verona ci sono idee, vecchie nel senso di immutabili e tutto sommato banali: il mondo va avanti perché qualcuno fa figli, e questi qualcuno non possono essere che un uomo e una donna uniti da un atto di amore. Non è un problema esclusivamente etico o religioso, è un fatto incontestabile con il quale l'economia e la politica devono fare laicamente i conti, pena l'estinzione o la resa ad altre culture. Mettere in condizione le donne di fare più figli e meno aborti (la riproduzione di un feto abortivo fatta circolare come provocazione choc può essere stata una scelta respingente, ma non un falso) non mi sembra un obiettivo medioevale o terroristico. Semmai è quello che è mancato nella frenesia, a volte nell'impazzimento, del dibattito culturale e politico degli ultimi cinquant'anni, tutto teso all'emancipazione. Che è cosa buona se alla fine non ci porta a emanciparci anche dal senso per cui si viene e si sta al mondo.
Verona, tensione al Congresso delle famiglie: "Voi rovinate il cervello ai bimbi", "Allora dovete uccidere i gay". A Verona si chiude il Congresso delle famiglie. Tra polemiche e tensioni, scrive Serenella Bettin, Domenica 31/03/2019, su Il Giornale. Si chiude il congresso di Verona che ha acceso i toni della politica e ha visto sabato oltre 20 mila persone scendere in piazza. Nel documento finale del congresso, l'attacco al gender e alla maternità surrogata: "Contrasto alla pratica dell'utero in affitto tramite una rogatoria internazionale e la protezione dei minori, a partire dai loro diritti ad avere una mamma e un papà, a non diventare oggetti di compravendita, di abusi sessuali e pedopornografia e a ricevere un'educazione che non metta in discussione la loro identità sessuale biologica e non li induca a una sessualizzazione precoce". Sabato si è svolta la manifestazione delle femministe di Non una di Meno. In 20 mila hanno sfilato partendo dalla stazione di Verona Porta Nuova fino alla sinistra di Palazzo della Gran Guardia dove si stava svolgendo il Congresso. E anche al mattino non sono mancate tensioni. “Non possiamo andare in giro mano nella mano perché ci uccidono – gridava una coppia gay, Angelo Amato e Andrea Galdone - andate in Borgo Venezia dove ci sono quelli di Forza Nuova, a loro l’hanno messa la camionetta per proteggerli, a noi non ce l’hanno messa. Nei miei quattro muri sono venuti con 30 litri di benzina”. “Voi dite che siete discriminati – ha detto uno spagnolo difensore in tutto e per tutto della famiglia tradizionale – ma noi siamo i discriminati. Voi non dovete rovinare il cervello del bambino”. “Allora ci dovete uccidere tutti – ha risposto Angelo – credi che uno si svegli alla mattina e diventi omosessuale così? È una cosa che abbiamo dentro”.
Esclusivo: così la Russia inonda di soldi il congresso di Verona. Dietro il raduno per la famiglia della destra oscurantista si celano una rete di oligarchi di Mosca, integralisti Usa, cattoleghisti. E una pioggia di denaro offshore, scrivono Paolo Biondani e Francesca Sironi il 28 marzo 2019 su L'Espresso. Bandiera russa trionferà? Dal 29 al 31 marzo la splendida Verona, che nel Medioevo seppe dare rifugio a un migrante italiano chiamato Dante, viene trasformata in una capitale nera, teatro della tredicesima edizione del cosiddetto Congresso mondiale delle famiglie. Un raduno della destra oscurantista e integralista in un paese fondatore dell’Unione europea, che riunisce nazionalisti ortodossi russi, conservatori evangelici americani e ultrà cattolici italiani in una sorta di fronte neo-crociato. A organizzarlo, con l’appoggio della Lega di Matteo Salvini, è una rete di gruppi e associazioni anti-aborto, anti-divorzio, anti-gay, anti-scuola pubblica, che hanno l’accortezza di rovesciare i loro messaggi in positivo, presentandosi come movimenti per la famiglia, per il matrimonio (tradizionale, s’intende), per la vita, per l’istruzione fatta in casa. Le polemiche politiche sui valori propagandati e sulla partecipazione di ben tre ministri del governo italiano rischiano però di oscurare l’interrogativo che in questi casi è fondamentale: da dove arrivano i soldi? Chi finanzia, chi controlla questi movimenti tradizionalisti tanto cari alla Lega? I documenti trovati dall’Espresso fanno emergere un fiume di finanziamenti riservatissimi, che partono dalla Russia di Putin, si inabissano nei paradisi offshore e, dopo vari passaggi e triangolazioni, entrano nelle casse di tutte le organizzazioni (e nelle tasche di molti relatori) del congresso di Verona.
Pioggia di rubli ai cattoleghisti
Milioni russi e azeri per finanziare una fondazione italiana che li gira alla destra. Da Bannon ai cardinali, la rete dei neocrociati, scrivono Paolo Biondani e Francesca Sironi il 16 novembre 2018 su L'Espresso. Flussi giganteschi di soldi sporchi che partono segretamente dall’ex blocco sovietico per invadere l’Europa. Miliardi di euro smistati in tutto l’Occidente da anonime società offshore, finanziate da società statali della Russia di Vladimir Putin e dai tesorieri del regime dell’Azerbaijan. Un’enorme massa di denaro nero che, tra mille beneficiari misteriosi, arricchisce anche una fondazione italiana, creata da un politico lombardo di Comunione e liberazione. Una fondazione con un conto bancario che funziona come una porta girevole: incassa oltre centomila euro al mese dalle offshore russo-azere e li redistribuisce tra Italia, Spagna, Gran Bretagna, Stati Uniti, Polonia, Ungheria, finanziando organizzazioni religiose di destra e campagne contro l’aborto, il divorzio o i matrimoni gay. Un fiume di denaro per orientare la politica nelle nostre democrazie, che documenta legami anche economici tra governi autocratici stranieri e movimenti politici europei. Come i gruppi di pressione che si raduneranno in marzo a Verona al Congresso mondiale delle famiglie, salutato con entusiasmo dalla Lega. Tutto parte da un processo per corruzione a carico di Luca Volontè, ex parlamentare dell’Udc e rappresentante italiano al Consiglio d’Europa fino al 2013. Il politico è imputato di aver intascato due milioni e 390 mila euro per fare lobby, con altri parlamentari europei, a favore del regime azero del presidente Ilham Aliyev, che rischiava sanzioni internazionali. Volontè respinge l’accusa di corruzione, però conferma di aver ricevuto i bonifici da un lobbista azero, per presunte consulenze politiche. In attesa del processo, che si aprirà a fine anno, un fatto è certo: i soldi sono arrivati da una rete di decine di ricchissime società offshore, totalmente anonime, sparse tra Isole Vergini Britanniche, Nuova Zelanda, Seychelles e altri paradisi legali. La Procura di Milano e la Guardia di Finanza hanno acquisito, in particolare, i conti bancari di cinque casseforti offshore (Hilux, Polux, Lcm, Metastar e Jetfield) che in tre anni, dal 2012 al 2014, hanno smistato più di tre miliardi e mezzo. Per l’esattezza: 3 miliardi e 104 milioni di dollari; 519 milioni di euro; 1 miliardo e 220 milioni di rubli; e 3 milioni di sterline. Su questo sistema finanziario occulto sono in corso indagini in molti paesi, dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, dall’Ucraina alla Danimarca. Secondo le prime ricostruzioni pubblicate dal Guardian e da altre testate del consorzio giornalistico Occrp, questa rete di offshore miliardarie è stata utilizzata dal governo di Putin, dai suoi servizi segreti, da oligarchi di Mosca e da alcuni regimi alleati per ripulire denaro, aggirare embarghi e finanziare operazioni segrete all’estero. In questi mesi lo scandalo si è allargato fino a travolgere le maggiori banche dell’Estonia, Lituania e altri paesi dell’Est. La filiale estone della Danske Bank, la prima banca danese, è accusata di aver riciclato cifre impressionanti per anonimi clienti russi: oltre 200 miliardi di euro. I bonifici arrivati a Volontè sono soltanto un piccolo rivolo di questa alluvione di denaro nero, ma il caso italiano è unico nel mondo, almeno per ora, perché permette di fotografare come funziona il sistema offshore, dall’inizio alla fine. Da dove arrivano i soldi? E in quali tasche vanno a finire? Le cinque tesorerie estere al centro del processo milanese ricevono quasi metà dei fondi, circa un miliardo e mezzo di euro, da una banca statale dell’Azerbaijan, controllata dal governo. L’altra metà invece arriva da decine di società non azere. La più vistosa è un’agenzia statale di Mosca, Jsc Rosoboronexport, controllata dalla presidenza russa, come spiega nel suo sito, perché strategica: è l’unica autorizzata a esportare armi e tecnologie militari. La società-satellite dell’apparato bellico russo ha versato alle offshore, in Estonia, oltre 29 milioni di dollari. Tutti gli altri finanziatori restano anonimi: si nascondono dietro altre complicate catene di società esotiche. Alcune di queste stesse offshore però ricompaiono in diverse indagini internazionali che portano a Mosca: il crack delle banche moldave, lo scandalo delle forniture militari alla Corea del Nord e altri paesi sotto embargo, i finanziamenti alle milizie filo-russe in Ucraina. Volontè è l’unica persona che incassa soldi russo-azeri su un normale conto bancario italiano, che non ha più misteri. Il conto è intestato alla sua fondazione, Novae Terrae, fondata nel 2005 a Saronno, ma rimasta inattiva fino al 2012: ha cominciato a funzionare quando sono arrivati i fondi russo-azeri. L’Espresso ha analizzato tutti i movimenti bancari di Novae Terrae dal 2012 al 2017, trovando scarsissime tracce di aiuti evangelici ai poveri, agli ultimi. Ci sono invece compensi, donazioni, sponsorizzazioni e rimborsi a lobbisti della destra integralista di mezzo mondo. Intrecciando nomi e cifre, finanziamenti e raduni politico-religiosi, emerge con chiarezza un network globale.
Primo esempio. Nel gennaio 2014 dal conto italiano di Novae Terrae parte un bonifico di 12 mila euro. A incassarlo è Benjamin Harnwell, un politico ultra-conservatore britannico, fondatore del Dignitatis Humanae Institute: un’organizzazione cattolica dove compare anche il cardinale tradizionalista Raymond Leo Burke. Come guru politico, l’istituto indica però Steve Bannon, l’ideologo della nuova destra sovranista americana, che nel 2016 ha alimentato l’elettorato di Donald Trump. Da notare le date: attraverso la fondazione italiana, i soldi russo-azeri arrivavano al politico britannico già due anni prima delle presidenziali americane. Nell’estate 2014, pochi mesi dopo il bonifico, Dignitatis riesce a organizzare una conferenza in Vaticano. Dopo Volontè, che ringrazia «l’amico Ben» Harnwell, interviene via Skype proprio Bannon. Un discorso ripreso anni dopo dai media americani come primo manifesto politico dell’ex consigliere di Trump. Nel dicembre 2017 Harnweel è sbarcato anche in Italia: ha ottenuto dal ministero dei Beni culturali l’affidamento di una bellissima abbazia, la Certosa di Trisulti, per avviare una scuola di politica e fede. In questi mesi varie ricerche, commissionate da parlamentari europei per far luce sulle campagne nazionaliste, hanno tracciato connessioni fra diversi gruppi di lobbisti anti-gay, anti-aborto, anti-divorzio. Novae Terrae e Dignitatis Humanae compaiono in tutti i grafici. Ora L’Espresso può ricostruire anche le tracce lasciate dai soldi, che disegnano una sorta di fronte della destra religiosa: integralisti cattolici, ortodossi ed evangelici. Un esempio sono i 25mila euro donati dalla fondazione italiana, sempre con i soldi russo-azeri, allo Iona Institute: un pensatoio reazionario che si è distinto nelle campagne contro le unioni civili e l’aborto in Irlanda. Un altro giro di bonifici porta a CitizenGo, l’organizzazione cattolica, nata in Spagna, famosa per le sue campagne shock su temi religiosi. Erano di CitizenGo, in particolare, gli enormi manifesti che quest’estate hanno invaso Roma con gigantografie di feti innalzati cupamente contro la legge 194. Nel febbraio 2014 Novae Terrae invia a Citizengo una donazione da 12mila euro. E in gennaio paga anche una fattura da duemila euro a una società di comunicazione di Madrid specializzata in campagne antiabortiste. I rapporti fra Novae Terrae e CitizenGo non si fermano neppure dopo le perquisizioni, con 33 mila euro versati a due responsabili della raccolta fondi. La bufera giudiziaria provoca però un cambio al vertice in Italia. Nel 2015 il presidente di Novae Terrae, l’imprenditore Emanuele Fusi, rinnova gran parte del direttivo. Dopo dieci anni, lascia la fondazione anche Massimiliano Codoro, imprenditore e politico, candidato del centrodestra alle ultime elezioni, non eletto. Pochi mesi fa si è fatto notare a Milano per aver puntato una pistola in stazione Centrale contro un ragazzo straniero da cui si sentiva minacciato. Nel novembre 2017 Codoro si è fatto conoscere anche in Albania. È stato bloccato in aeroporto mentre cercava di lasciare il paese delle aquile con una valigetta piena di soldi: 350 mila euro in contanti. Al suo posto, nella fondazione Novae Terrae, nel 2015 è stato cooptato Simone Pillon. Proprio lui, l’attuale senatore, eletto con la Lega in marzo, che si distingue per le sue proposte di legge turbo-cattoliche. Anche Pillon è molto legato a CitizenGo, guidata in Italia da Filippo Savarese, e ai rappresentanti di Generazione Famiglia. Nel curriculum pubblicato dal suo studio legale, il senatore catto-leghista non cita Novae Terrae, ma ricorda di far parte del consiglio economico dell’Arcidiocesi di Perugia. Una carica confermata dalla segreteria vescovile con questa precisazione: «È decaduto una volta diventato senatore». Un ruolo prestigioso, visto che l’arcivescovo di Perugia, il cardinale Gualtiero Bassetti, è l’attuale presidente della Cei. Nel 2012, quando riceve i primi bonifici dalle offshore, Volontè lavora soprattutto per gli azeri. In novembre l’allora parlamentare convince monsignor Rino Fisichella a ospitare in Vaticano, in vista dell’«anno della fede», una mostra della Fondazione Aliyev, che fa capo al presidente azero. Quindi il segretario del monsignore manda a Volontè il numero di un conto bancario. E il 30 gennaio 2013 la fondazione Novae Terrae versa 20 mila euro allo Ior, la banca vaticana. Causale del bonifico: anno della fede.
Dal 2014, quando la fondazione è ormai imbottita di soldi offshore, l’orizzonte diventa globale. Novae Terrae recluta un plotone di lobbisti a Bruxelles, a cui rimborsa viaggi e spese di rappresentanza. Fra i conferenzieri finanziati c’è anche un alto magistrato spagnolo, Francisco Javier Borrego, ex giudice della Corte europea per i diritti umani, che ha ricevuto bonifici per ottomila euro. Attraverso Novae Terrae, i soldi russo-azeri finiscono anche a organizzazioni ungheresi, polacche e di altri paesi dell’Est, mentre ai Papaboys toccano solo 2.500 euro. La fondazione, come altre lobby, finanzia anche ricerche per dare basi scientifiche alle posizioni integraliste. Nel 2016 versa 24 mila euro all’università Cattolica di Milano per uno studio sull’«indice globale della famiglia». Alla spesa contribuisce il cardinale Christoph Schönborn, che versa a Novae Terrae 15 mila euro. Prelati e imprenditori cattolici cominciano a finanziare Novae Terrae dopo le perquisizioni, quando s’interrompe il flusso delle offshore. Le donazioni però non bastano nemmeno a pagare gli stipendi di Volontè: 339 mila euro prima di essere indagato, altri 77 mila dopo. Quindi la fondazione continua a spendere il suo tesoretto russo-azero. In questi mesi di crisi, riceve 20 mila euro dagli spagnoli di Citizengo, altrettanti dall’Ungheria e cinquemila euro dalla segreteria di Stato del Vaticano. Altri 5.700 euro li assicura Antonio Brandi, presidente di ProVita, l’associazione cattolica più amata dall’estrema destra. ProVita e Novae Terrae occupano posizioni di vertice in un’istituzione chiave: World Congress of Families, il congresso mondiale delle famiglie. È un’organizzazione creata negli Usa da Brian Brown, ex quacchero convertito al cattolicesimo, che ha raccolto milioni per candidati ultra-conservatori americani. Brown è legatissimo anche a uomini d’affari russi diventati paladini della fede ortodossa, come Alexey Komov, l’artefice della marcia di avvicinamento alla destra occidentale. In Italia è diventato presidente onorario dell’associazione Lombardia-Russia, guidata dal leghista Gianluca Savoini, l’uomo che ha fatto conoscere Matteo Salvini a Mosca. Komov ha partecipato a conferenze in Italia anche al fianco dell’attuale ministro alla Famiglia, il leghista veronese Lorenzo Fontana. E proprio a Verona, in marzo, si terrà il nuovo Congresso mondiale delle famiglie, su invito dell’amministrazione cittadina anti-abortista, con il supporto della Lega e delle immancabili ProVita, Generazione Famiglia, Novae Terrae. Uno dei più cari amici di Komov è il miliardario russo Konstantin Malofeev. Parte dei soldi che guadagna negli affari (spesso contestati nei tribunali) Malofeev li riversa nella sua fondazione, intitolata a San Basilio. L’oligarca si fa vanto di condividere il padre confessore con Putin in persona. La fondazione di Malofeev è ospite fissa e preziosa dei Congressi mondiali delle famiglie, compreso l’ultimo raduno in Moldavia, anche se il miliardario è tuttora nella lista nera dei soggetti sanzionati per legami con le milizie filorusse in Ucraina. In Francia la testata Mediapart ha svelato il suo ruolo chiave nella fosca vicenda dei prestiti milionari concessi da una banca russa al Front National di Marine Le Pen. Da mesi Malofeev è accusato di utilizzare come testa di ponte un uomo d’affari russo-belga, Pierre Louvrier. Un legame smentito dagli interessati. Ma confermato da documenti trovati da l’Espresso nei Panama Papers. Che riguardano l’Italia. Nel 2015 Louvrier annuncia allo studio Mossack Fonseca di aver comprato un rustico con un’ampia tenuta a Cerveteri. Gli atti di proprietà sono però intestati a una offshore delle Isole Vergini, Gilroy Trading Ltd, che è la vera acquirente. E quella offshore, secondo le carte di Panama, fa capo proprio a Malofeev: il compagno di fede di Putin, che ha così acquisito una base vicino a Roma.
Verona, seconda giornata al congresso mondiale delle Famiglie, scrive il 30 marzo 2019 Il Sole 24 ore. Tra le polemiche ha preso il via la seconda giornata del Congresso Mondiale delle famiglie a Verona. Nella prima giornata si sono viste ben poche famiglie, ma c'è stato un via vai di relatori soprattutto dell'Est Europa, pronti a difendere i valori della famiglia tradizionale e si sono ascoltate parole pesanti da parte dei leader del Family Day. Il congresso si è aperto infatti con l'attacco di Massimo Gandolfini, leader del Family day contro l'aborto definito a più riprese un omicidio. "L'aborto bisogna definirlo per quello che è: è l'uccisione di un bambino in utero. Il mio pensiero sull'aborto è che si tratta di una tragica esperienza, che come disse Giovanni Paolo II, provoca almeno due morti, il bambino e la mamma". Attacco anche contro le famiglie arcobaleno da parte del senatore della Lega Simone Pillon. "Ognuno ha la sua affettività e la vive come gli pare e guai a chi si permette di giudicare e discriminare, ma i bambini hanno bisogno della mamma e del papà, anche perchè da lì nascono, non è cambiato niente". A sorpresa è arrivata la senatrice pentastellata Tiziana Drago, contravvenendo alla linea dettata dal leader Luigi Di Maio. Per il secondo giorno del Congresso, sono state rafforzate le misure di sicurezza in vista dell'arrivo di diversi membri del governo, dal vicepremier Salvini ai ministri Fontana e Bussetti, più la leader di Fdi Giorgia Meloni. Inoltre nel corso della giornata sono previste a Verona diverse manifestazioni di protesta contro il congresso giudicato omofobico e antifemminista, tra cui un corteo che si annuncia molto partecipato.
Famiglie, Giulia Bongiorno a sorpresa contro il congresso anti aborto, scrive il 29 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "La mia famiglia è fatta da me e da mio figlio e mi sembra una famiglia splendida. Non si arretrerà di un millimetro rispetto ai diritti delle donne né rispetto all'autodeterminazione della donna". Giulia Bongiorno, a sorpresa, si scaglia contro il congresso di Verona pro famiglia tradizionale in cui presenzierà anche Matteo Salvini. "Non so cosa si dirà e non mi piace fare delle polemiche preventive", dice il ministro leghista della funzione pubblica, "Attendo di ascoltare e sarò la prima ad alzare il ditino e a criticare se ci fossero delle nuove idee che in qualche modo mettono in discussione i diritti". Così Giulia Bongiorno a Rai Radio1 all'interno di Radio anch'io condotto da Giorgio Zanchini. Bongiorno ha parlato anche delle leggi su Codice rosso e revenge porn: "Se si trova un accordo su una norma che è necessaria, e io credo che serva, decisamente. Una norma per tutelare le persone che vengono distrutte a livello di immagine con questo strano meccanismo che è una vera e propria violenza secondo me è la cosa migliore. Sono norme fondamentali, tra queste c'è quella a cui tengo enormemente che è il codice rosso: la donna che denunzia deve essere aiutata subito. Vorrei che queste norme andassero avanti".
“ANDARE A VERONA NON AIUTA LE DONNE”, scrive 9colonne.it il 28 marzo 2019. Mara Carfagna non parteciperà al Congresso di Verona. “Rappresenta una realtà che esiste e quindi va rispettata. Ma non sono d'accordo con le loro tesi, ad esempio l'attacco alla legge 194 sull'aborto o alla legge sulle unioni civili. Ritengo rappresentino passi indietro” spiega in un’intervista al Corriere della Sera. La parlamentare azzurra sottolinea inoltre di non aver mai sentito “neanche una donna della Lega difendere quelle tesi. Forse perché loro conoscono quali sono i veri problemi delle donne italiane, e non sono quelli trattati a Verona. Non vorrei che un'adesione così rumorosa a un congresso che fa da grancassa a tesi ideologiche, da parte di un partito che ha il 30% dei consensi, sia data per nascondere altro”, ovvero “la mancata presentazione di provvedimenti concreti ed efficaci a tutela delle famiglie”. “Ad esempio nel reddito di cittadinanza si poteva prevedere un assegno più robusto per le famiglie numerose. Oppure nella quota 100 uno sconto di un anno per ogni figlio a carico. Noi lo avevamo proposto”. “Mi rendo conto che nessuno ha la bacchetta magica. Ma partecipare a un congresso non significa difendere le famiglie. Si occupino piuttosto dei loro veri problemi”.
Lo strappo della Gardini: «Vado a Verona, Tajani è un maschilista e un bugiardo», scrive sabato 30 marzo 2019 Stefania Campitelli su Secolo d’Italia. Elisabetta Gardini è un fiume in piena, torna ad attaccare ad alzo zero il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani (che «sta portando il partito alla rovina, alla distruzione») e minaccia di andarsene dopo una “militanza” lunga 14 anni. È il giorno dello trappo: la capogruppo di Forza Italia dà forfait all’assemblea degli eletti azzurri per andare a Verona al Congresso mondiale delle famiglie, dove in un primo tempo era previsto anche Tajani che poi è scomparso dal programma.
Gardini: «Io vado a Verona dalle famiglie». «Io vado dalle famiglie – dice la Gardini in una lunga intervista a La Verità – non vedo l’utilità di una manifestazione tutta costruita intorno ad Antonio Tajani, con gli interventi selezionati da Antonio Tajani per dare per l’ennesima volta a Berlusconil’idea di un partito che non c’è». L’accusa è pesante: dirigismo e bugie che porteranno il partito dell’ex premier a schiantarsi. «Sono capogruppo in Europa ma Tajani mi impedisce di avvicinare Berlusconi per poter raccontare solo lui la storia di un partito che non c’è». Un disagio diffuso, generalizzato – si sfoga la Gardini che parla di “scippo” del suo ruolo – «non faccio che ricevere telefonate, Forza Italia si è snaturata per piacere al mainstream. È un partito che orami non ha nulla a che fare con il Ppe, dovrebbe amdare con l’Alde. se ascolto cosa dicono i leaderini del partito».
«Tajani è un bugiardo e un maschilista». Meglio la cittadina scaligera dove la combattiva capogruppo azzurra in Europa salirà sul palco e parteciperà alla marcia. In un primo tempo aTjani aveva aderito, poi ha avuto paura «perché in Europa gli hanno detto “ vai a un congresso contro i valori europei!” E lui ha subito detto non, non ci vado». Il j’accuse a Tajani è assordante: il presidente dell’Europarlamento è un bugiardo e un maschilista, «mi ha scippato anche il ruolo di capogruppo con un atteggiamento maschilista che non avevo mai visto prima». Tra le tante “palle clamorose” anche la autocandidatura alla presidenza dell’europarlamento del Ppe, come se fosse l’unico italiano a poter ambire a quel ruolo, «non è vero – attacca la Gardini – forse per questo non vuole che parli con Berlusconi, non è vero e in Europa sono molto irritati per questo». E giù una lista di errori e abbagli, a cominciare dalla politica del Nord-est dove Tajani vuole fare l’alleanza con la Svp: «Secondo i sondaggi, c’è solo un seggio disponibile per Forza Italia e Tajani vuole regalarlo a Herbert Dorfmann, un uomo che farà gli interessi di Austria e Baviera». Valigie in vista? «Il mio è un atto d’amore, l’ultimo, verso il partito e verso il presidente Berlusconi». Se non ci sarà una svolta, Elisabetta non sarà in lista. È un messaggio chiaro e diretto al Cavaliere che sollecita a guardare oltre «i disegnini che gli fanno» e a tornare a dettare la linea. «Non lavoro per fare eleggere un tedesco. Non sono una marionetta e non lo sono mai stata».
Otto e Mezzo, Lilli Gruber brutalizza l'ospite: "Parlo io, il corpo è mio". Cala il gelo, roba mai vista, scrive il 30 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Momento di tensione venerdì 29 marzo durante Otto e mezzo. Lilli Gruber ha brutalmente interrotto i suoi ospiti Marco Travaglio, Francesco Borgonovo e Alessandro De Angelis che battibeccavano animatamente sullo spinoso tema dell'aborto. "Io sono più titolata a parlarne di voi tre", ha detto Lilli riferendosi al fatto che lei è una donna. E Borgonovo: "Veramente esisterebbero anche i padri". Apriti cielo. La Gruber lo ha cazziato acidamente: "Il corpo è delle donne dunque decidono le donne, come avviene in tutti i paesi civili". Lo spunto del dibattito era ovviamente il Congresso sulle famiglie che ha contestato l'aborto distribuendo piccoli feti di plastica.
“LA GRUBER DICE CHE HA PIU’ DIRITTO DI PARLARE DI ABORTO? MA SE È IN MENOPAUSA". Da Libero Quotidiano il 30 marzo 2019. "La Gruber dice che lei ha più diritto dei suoi ospiti di parlare di aborto. Perché è femmina. Ma si dimentica di essere in menopausa quindi non ha più titoli dei maschi per discettare del tema". Questo il tweet di Vittorio Feltri durante Otto e mezzo su La7. La conduttrice Lilli Gruber aveva bruscamente interrotto i suoi ospiti che stavano parlando dell'aborto. In studio: i giornalisti Alessandro De Angelis, Marco Travaglio e Francesco Borgonovo. La Gruber si è inserita a gamba tesa parlando del corpo delle donne. Il tema prendeva ovviamente spunto dal Congresso delle famiglie di Verona in cui si pone al centro la famiglia tradizionale. Oggi il gadget che circolava a Verona era un piccolo feto di plastica.
Verona, marcia di femministe e compagni contro il Congresso della famiglia: il delirio è servito, scrive il 30 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Follia in marcia a Verona. Quale follia? Presto detto: scendere in piazza per tappare la bocca agli altri, al Congresso mondiale della famiglia. Un Congresso le cui idee possono essere avversate, le cui proposte possono essere controverse. Ma scendere in piazza per "manifestare" contro il Congresso stesso assume i connotati della follia, appunto. Ma tant'è, ventimila persone - stima della polizia - sono in marcia per contestare le idee che bollano come reazionarie dei loro avversari. Il corteo, organizzato dalle femministe di Non una di meno, è rimpolpato dalle famiglie arcobaleno, i Verdi, i radicali, l'arcigay. Presenti anche Livia Turco, l'immancabile Laura Boldrini e Susanna Camusso. Nella contro-manifestazione femminista risuona "Bella ciao" (ma che c'entra?), poi i balli sul ponte di Castelvecchio, cartelli con scritte improbabili, il ritorno ahinoi di "Se non ora quando". Per capire di che razza di corteo si tratta, basta guardare le foto di questa gallery.
Fucsia color speranza, scrive Giuseppina La Delfa, Fondatrice di Famiglie Arcobaleno, il 31/03/2019 su huffingtonpost.it. Quello che è successo ieri a Verona in risposta al sedicente Congresso sulla Famiglia mi lascia speranzosa e felice. Una marea umana rosa fucsia si è radunata e ha sfilato per dire No con forza all'oscurantismo e al desiderio folle di qualcuno di riportare le lancette della storia all'inizio dell'800. Non dirò molto sulla cricca di razzisti, fascisti, omofobi e sessisti che vogliono decidere per le donne ciò che deve essere la loro vita. Perché in questa battaglia che è una battaglia di civiltà il fulcro rimane la libertà della donna: quelli del congresso "contro le donne libere" ci hanno fatto capire con chiarezza che dobbiamo scegliere tra una società in cui le donne possono scegliere come vivere e una società paternalista e maschilista dove il maschio bianco decide per tutti e per tutte per mantenere i suoi privilegi e il suo potere sulle donne e sui figli. Ieri i sindaci di tante città hanno messo sulle facciate dei palazzi di città la bandiera arcobaleno, quella della comunità LGBTQI, a sostegno dei diritti civili. È stato un bel gesto e ne sono grata. Ma penso che a Verona, più che la comunità LGBT, era attaccata la libertà della donna e la sua autodeterminazione. Da secoli ormai – e lo dimentichiamo fin troppo spesso – la donna è il perno e il metro della libertà di tutti. È stata anche il perno e la schiavitù di tutti. Compresa quella degli uomini costretti a essere Maschi in un certo modo. E questo l'hanno capito le donne di Non una di meno che hanno organizzato questa magnifica contromanifestazione. Sui palazzi delle città, ieri e per sempre, dovrebbero essere sbandierate vessilli Rosa o meglio Viola per dire ogni giorno che la libertà delle donne non si tocca, che ogni sopruso fatto a loro va punito, che la loro libertà e autodeterminazione è la libertà di tutti, è la libertà dei maschi e quella delle lesbiche e quella dei gay e quella delle persone Trans. Tutto è collegato. Essere una donna libera vuole dire rendere tutti più liberi e più forti di essere. Vuole dire la fine degli stereotipi di genere, vuole dire più accettazione e accoglienza per i tanti modi di essere. Quando Lorenzo Fontana ha esordito il suo mandato con la sua ormai famosa uscita "le Famiglie arcobaleno non esistono" attaccava, sì, le nostre famiglie ma anche le donne che non stanno al proprio posto, che fanno figli con le compagne e rifiutano l'eterosessualità obbligatoria, attaccava anche quelle donne che fanno figli per altri, che mettono il loro corpo a disposizione di coppie sterili che non si rassegnano, attaccava le donne che abortiscono e che non riempiono le "case famiglie" di figli senza famiglia, attaccava le donne che non hanno paura della sessualità e che vogliono godere del proprio corpo liberamente, attaccava le donne che si separano, e divorziano, e rifiutano di tacere di fronte alla violenza e ai soprusi, attaccava chiunque secondo lui non sta al gioco che piace a lui, attaccava anche i maschi che sono stanchi di rappresentare l'autorevolezza quando magari sognano di fare coccole ai propri figli e vorrebbero non più essere lasciati in disparte emotivamente nelle relazioni famigliari. Le donne ieri erano, come durante il ratto delle Sabine, il bottino che gli oratori del congresso dei folli sessisti si contendevano e rimane a me incomprensibile come certe donne siano attrici e promotrici di questo desiderato ritorno verso il buio. Opportunismo politico. Zappa sui piedi. Incapacità a vedere oltre il proprio corto naso. Ieri le famiglie arcobaleno c'erano, eccome! C'erano insieme a tutte le altre famiglie, c'erano con le donne e gli uomini a decine di migliaia per dire no a questi folli provenienti dai paesi più sessisti del mondo e agli ipocriti nostrani che si arrampicano sugli specchi. Salvini, dice Di Maio, è uno sfigato. Concordo. Salvini basa il suo povero discorso su dei concetti errati volendo fare credere alla gente che la minaccia siamo noi genitori omosessuali. Noi che secondo lui mettiamo in discussione le parole mamma e papà, come se mettessimo in pericolo la famiglia per la nostra sola esistenza. Salvini non ha idea di quello che c'è voluto per ognuno di noi, madre lesbica e padre gay, per poterci fare chiamare "mamma" o "papà"! Non sa quante emozioni ogni volta che sentiamo queste parole uscire dalla bocca dei nostri figli. Sono parole belle e preziosi e tenere come lo sono famiglia e genitori. Cos'è questa domanda? Scopri il progetto Europe talks e leggi l'Informativa privacy completa in italiano. Qui le uniche famiglie attaccate sono proprio le nostre, forse perché sono famiglie costruite sul desiderio e sull'amore, sulla responsabilità e sulla libertà di scelta, e non solo sul sangue e sui geni trasmessi che sono collanti ben più deboli. Le nostre famiglie fanno paura perché nate dalla libertà delle donne. La libertà delle lesbiche di fare figli senza maschi, la libertà dei gay di fare figli con donne libere e consapevoli che fanno figli per altri. Ed è questo che è intollerabile per qualcuno che vuole che le donne rimangono sostanzialmente a disposizione dei maschi dominanti. Io ho fiducia perché ieri ho visto la gioia di vivere, dei corpi danzanti, ho visto la forza di questi giovani e meno giovani dire no alla follia, ai soprusi, alla violenza, alla prepotenza. Le donne sono forti e l'unico modo di limitarne la libertà e rinchiuderle in manicomio reali o psichici come è stato fatto per secoli. Ai leghisti e ai loro alleati fascisti dico che è tardi per tornare indietro. Noi donne, noi persone LGBTQ non torneremo nei manicomi dove ci hanno tenuti chiusi. Ci troverete sempre più numerosi per difendere la libertà conquistata nei secoli. Verona Fucsia è stata la più bella risposta che potevamo dare e l'abbiamo data.
“I GAY VANNO CURATI, SENNÒ PER LORO C'È L'INFERNO''. Da repubblica.it il 30 marzo 2019. C'è il vescovo di Verona che considera l'aborto un "delitto", la suora che si ispira al modello di società russa, le volontarie che pregano per convertire gli omosessuali, addirittura chi arriva con una statua della Madonna sottobraccio. I partecipanti al contestatissimo Congresso mondiale delle famiglie, ospitato nella città di Romeo e Giulietta, hanno le idee chiare sui valori da difendere: "I gay vanno curati, se non si convertono c'è l'inferno per loro", spiegano. Con una coda polemica persino sulla legge sul divorzio: "È un abominio".
Da Lapresse.it il 30 marzo 2019. Sull'evento ha espresso il suo parere anche Papa Francesco: "Ho letto la risposta del segretario di Stato sul convegno di Verona e mi è sembrata equilibrata", ha detto Bergoglio sul volo da Roma a Rabat. "La sostanza è corretta, il metodo è sbagliato", aveva commentato nei giorni scorsi il cardinale segretario di Stato della Santa Sede, Pietro Parolin, a margine di un evento a Roma.
Paolo Berizzi per repubblica.it il 30 marzo 2019. I militanti girano per piazza Bra' con felpe nere e i simboli del partito. I leader locali, Luca Castellini e Pietro Amedeo - il primo responsabile per il Nord Italia, il secondo coordinatore veronese - si presentano con regolare badge al collo all'ingresso del Palazzo della Gran Guardia. Sono accreditati, ma gli organizzatori - fiutando l'intenzione dei neofascisti di sfruttare i riflettori del Congresso - li bloccano e ne nasce un battibecco. Forza Nuova in fermento per il Congresso mondiale delle famiglie: i capetti del partito di Roberto Fiore - dopo la manifestazione di ieri a Padova cultimata con le cariche della polizia contro i contestatori antifascisti - distribuiscono in piazza Bra' un volantino per pubblicizzare la loro ultima proposta. Un'iniziativa referendaria per abolire la legge 194, accompagnata da una serie di misure a sostegno della famiglia. I forzanovisti hanno annunciato l'istituzione di un comitato anti 194 con queste parole: "L'aborto è un'uccisione. "L'idea - ha spiegato Pietro Amedeo - è togliere la libertà di scegliere se abortire o meno, a meno di gravi condizioni o rischi per la salute". Di fronte alla Gran Guardia ci sono stati attimi di nervosismo quando Filippo Savarese, direttore di CitizenGo, tra i promotori del Congresso, è intervenuto per stoppare Castellini e Amedeo e per chiarire che l'iniziativa di Forza Nuova non è in nessun modo riconducibile al Wcf o ai suoi organizzatori. "Non ne sapevamo nulla", ha spiegato. Ma Castellini e Amedeo sono regolarmente accreditati. Il primo si è presentando davanti ai cronisti e alle telecamere sfoggiando il ciondolo con la croce celtica al collo. "Abbiamo rispetto per l'attività politica di tutti i partiti - ha sottolineato Savarese - ma il Congresso è un'altra cosa". Gli esponenti di Forza Nuova hanno confermato che domani parteciperanno alla 'Marcia per la vita' insieme alle associazioni cattoliche e al popolo della famiglia: ai neofascisti è stato chiesto di non presentarsi con i simboli del partito. Ma difficilmente Fiore e camerati rinunceranano a essere in piazza senza bandiere.
''HANNO LA FACCIA COME IL CULO E PENSANO AI CULI DEGLI ALTRI''. Mail di Massimiliano Parente a Dagospia il 30 marzo 2019. Caro Dago, se sei aracnofobico hai paura dei ragni, se sei agorafobico hai paura degli spazi aperti, se sei belonefobo hai paura degli aghi, ma se sei omofobico sei semplicemente un coglione. E bisogna riconoscere che questi qui un merito culturale ce l’hanno: ogni volta che si riuniscono hanno la rara capacità di farti diventare eterofobo. Insomma, tutti insieme appassionatamente in difesa della famiglia tradizionale e sono tutti divorziati. Tipo il leader leghista della famiglia tradizionale che ha seminato figli con donne diverse, si è appena messo con una ventiseienne e sventola il Vangelo e un rosario. Hanno la faccia come il culo e pensano ai culi degli altri. Che nostalgia i bei tempi di Silvio! Quando la destra era diventata libertaria per difendere un via vai di fighe che facevano la pole dance in perizoma, le tette di Nicole Minetti e il diritto al culo della nipote di Mubarak. In ogni caso se dopo Verona volessero protestare contro l’unica vera lobby gay che conta si facessero un giro dalle parti di piazza San Pietro. Baci, Massimiliano Parente.
Congresso delle famiglie, il feto di gomma fa impazzire Laura Boldrini: "Operazione mostruosa", scrive il 29 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Si apre il Congresso mondiale delle famiglie a Verona. E, come ampiamente previsto, è subito polemica: il fronte di chi vuole tappare la bocca al raduno, infatti, è scatenato. E a gettare benzina su un fuoco acceso da giorni, ecco il caso del controverso gadget distribuito al raduno: un feto a forma di gomma, in calce la scritta "l'aborto ferma un cuore che batte". Le posizioni del Congresso, infatti, sono radicali: parecchi gli interventi degli anti-abortisti. E certo, il gadget è controverso. Eppure la reazione di Laura Boldrini riesce anche in questo caso a essere fuori misura. "È semplicemente mostruoso fare un’operazione di questo genere - tuona la deputata di Leu -. Se l’obiettivo è quello di suscitare sdegno collettivo nei confronti delle donne che sono costrette a interrompere la loro gravidanza sappiano, questi signori, che a vergognarsi dovrebbero essere loro", ha tuonato l'ex presidenta della Camera. Parole durissime e che però ignorano quelle pronunciate da Matteo Salvini in mattinata: il ministro ha spiegato infatti che la legge 194, quella sull'aborto, semplicemente "non si tocca".
Effetto Boldrini, scrive il 31/03/2019 su huffingtonpost.it Manginobrioches, Giornalista e blogger. Qualcuno un giorno lo studierà, facendone un caso esemplare per la psicopatologia. Sarà citato in tutti i manuali, e lo chiameranno "effetto Boldrini". Quel fenomeno psicologico per cui una sola donna, d'aspetto gradevole, di modi pacati ma decisi, d'eloquio fine venato d'ironia, il cui lavoro per anni è stato richiamare l'attenzione sugli ultimi del nostro mondo (che fossero migranti, donne, emarginati), scatena al suo solo apparire l'aggressività, l'antipatia contundente e in generale tutta la potenza di fuoco degli odiatori da tastiera, il cui profilo è efficacemente compendiato dal personaggio di Napalm51 (una grande invenzione di Crozza): ignoranti, pronti a dare credito alle bufale più grossolane, intimamente misogini, covatori di violenza. E' un fenomeno al quale abbiamo assistito di continuo, in questi anni, che ha avuto il suo picco nella bambola gonfiabile agitata sul palco da quel vicepremier tanto preoccupato di mamme e bambini e della sicurezza degli italiani, ma che si verifica pressoché ogni volta che l'onorevole Laura Boldrini s'affaccia sulla scena. Solo che, purtroppo per i Napalm e i loro pastori, esiste un meraviglioso effetto uguale e contrario, che a Verona – in questi giorni epicentro della commedia dell'assurdo che è il sovranismo mentecattolico maschilista – ha avuto la sua migliore espressione. Gli attacchi, l'odio, la ferocia polarizzati su quella singola figura scomoda di donna si sono convertiti in un'onda di gioia, musica, allegria. Il tweet del vicepremier sventolatore di bambole gonfiabili e Vangeli e aizzatore di folle (e folli) contro di lei si è rivoltato in un hashtag bellissimo, #ioballoconLaura: la risposta gioiosa all'odio. Abbiamo ballato tutti con Laura, a migliaia, anche perché ricordiamo bene – come Laura Boldrini dice sempre, come tutti i partecipanti alla contromanifestazione di Verona hanno voluto affermare – su cosa vogliamo fondare il nostro mondo, noi che non agitiamo il Vangelo ma forse ci siamo più vicini dei pistoleri misogini: l'amore.
Laura Boldrini protesta a Verona? Gaffe atroce e foto sconcertante: come si è ridotta, scrive il 30 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Vocazione da censora, per Laura Boldrini, che vuole zittire il Congresso delle famiglie a Verona. E così l'ex presidenta - non poteva mancare - è arrivata in Veneto per prendere parte alla marcia dei sindacati contro il Congresso. E prima di mettersi in cammino, ecco il colpo di teatro su Twitter: la foto che potete vedere, in cui si mostra sotto alla statua di Giulietta. L'ex presidenta scrive a corredo della foto: "Le loro famiglie erano acerrime nemiche ma Giulietta e Romeo volevano stare insieme e hanno provato a farlo in tutti i modi. Ce lo hanno insegnato loro tanto tempo fa: l’amore è più forte di tutte le convenzioni". Roba da Libro Cuore. In molti le hanno fatto notare che Giuletta era vissuta nel Medioevo. E ancora, un utente le fa notare: "Giulietta e Romeo erano una coppia etero e caucasica e volevano una famiglia tradizionale". Insomma un discreto autogol. Anche perché la foto in sé è grottesca, improbabile: ecco la Boldrini tendere la mano a Giulietta. Ed ecco soprattutto la sciarpa bianca spuntare sotto al piumino nero: l'effetto è davvero sconcertante.
"A Verona cercano riparo in un mondo che non c'è più". Intervista a Massimo Cacciari. Critica il Congresso delle famiglie: "Sono pericolosi reazionari. La tradizione deve essere un continuo rinnovarsi. Se rimane immobile, è il disastro", scrive Nicola Mirenzi su huffingtonpost.it il 31/03/2019. In fondo alla direzione che indicano, c'è la rovina: "I tradizionalisti del Congresso di Verona sono dei reazionari pericolosissimi. Non intendono affrontare il problema della dissoluzione della famiglia, che è reale, comprendendo quali sono le radici della questione e individuando una via d'uscita positiva. Pretendono di riportare l'intera società nel passato. Un'operazione impossibile. E molto rischiosa. Perché quando rifiuti di progettare il futuro, cercando riparo in un tempo che non c'è più, sfuggi in realtà al presente. E il risultato è che rimani fermo e immobile, creando disastri". Nel lessico di Massimo Cacciari – uno dei maggiori filosofi italiani –, la parola tradizione ha un significato del tutto diverso da quello che gli hanno dato al raduno mondiale delle famiglie: "Per loro, la tradizione è un'autostrada identitaria. Riguarda il proprio paesello, certi costumi, un'idea ristretta della nazione. La tradizione, invece, è una corrente molteplice, attraversata da un numero infinito di affluenti. È un continuo tradursi e rinnovarsi. La tradizione identitaria che hanno in mente i sovranisti è quanto di più estraneo si possa immaginare dal concetto di tradizione degli umanisti". Dissolvendo l'idea che sia stato un momento di armonia, bellezza e concordia, Cacciari ha da poco scritto un saggio fenomenale sull'umanesimo. Si chiama La mente inquieta (Einaudi) e racconta lo sforzo che hanno compiuto gli uomini di quel tempo per dare forma ai conflitti della propria epoca, creando una lingua che li sapesse nominare, attraversando fino in fondo la tempesta con la poesia, raffigurandoli con la grande pittura: "Gli umanisti vivono un periodo analogo al nostro. Un periodo di grandi crisi, enormi dubbi, estrema incertezza, se non di angoscia. Un ordine era esploso e un altro non si era ancora formato. La differenza è che noi non abbiamo ancora una rappresentazione realistica, sobria, disincantata del momento che viviamo. Non abbiamo coscienza della tragicità contemporanea e, ancor di più, ci manca un'ipotesi su come uscirne. Siamo privi di qualsiasi progetto. Nuotiamo nel fiume della vita improvvisando e, per salvarci, spingiamo sott'acqua il nostro vicino".
Sta pensando ai migranti che muoiono in mare?
«La parola uomo viene da homo, cioè colui che seppellisce i morti, dal latino humus-humare. Lasciare che le persone si disperdano in mare è la cosa più lontana che ci sia dall'umanesimo».
E dall'uomo?
«La natura umana, insegnava Agostino, non è solo vulnerabile: è anche vulnerante. L'uomo può nuocere all'altro, può offenderlo e calpestarlo, non è affatto un essere rassicurante».
Quando è straniero, lo è ancor di meno?
«La xenofobia fa parte della storia europea. Il Novecento ne è pieno. E oggi è riaffiorata. Il problema è contraddirla. Trovare le parole per contrastarla. Altrimenti, ci ritroveremo circondati da macerie».
Dove possiamo trovarle queste parole?
«Nei fondamenti della nostra tradizione. La xenofilia, ossia l'amore per lo straniero, è centrale nella cultura greca e latina. Xenofilia vuol dire avere cura, se non addirittura provare amore per chi non parla la mia lingua, che è propriamente lo xenos, lo straniero. Cosa insegnano, in fondo, gli umanisti, se non a conoscere e tradurre un'altra lingua? Dimenticare questi elementi fondamentali del nostro passato, significa esporsi, di nuovo, al rischio della auto-distruzione».
Noi europei non parliamo già troppe lingue diverse?
«Ma è la nostra forza, è la grande forza dell'Europa».
Non è anche un ostacolo alla reale unità europea?
«Nient'affatto. Se l'Europa ritiene che possa costituirsi parlando una lingua sola, smetterà immediatamente di esistere. Non sarà una lingua comune a creare l'Europa: sarà la traduzione delle nostre lingue, il loro scambio, il meticciato, che le renderà ancora più potenti. L'Europa è costituita dalla differenza degli idiomi. È lo studio di queste differenze che realizza l'Europa. Non la loro dissoluzione».
Però, creando l'italiano volgare, Dante creò anche la possibilità dell'Italia, o no?
«È ovvio che le lingue diventano ancora più lingue quando sono dette dal poeta. Non c'è italiano senza Dante. Non c'è inglese senza Shakespeare. Non c'è tedesco senza Goethe. L'Europa non deve rinunciare a questo patrimonio. Deve custodirlo. La grande lezione degli umanisti è l'amore per il testo originale e per la sua traduzione. La filosofia dell'umanesimo non è nient'altro che una grande filosofia della traduzione».
Eppure, ha preso piede un'idea molto diversa della nostra identità.
«È una malattia del nostro tempo. Un'organismo sano affronta le sfide andandogli incontro. Non barricandosi in casa. Certo, è rischioso: ogni avventura, può finire nel naufragio. Ma l'umanesimo insegna a non rimanere chiusi nel porto, anche se si ha paura del mare. Il sovranismo, invece, insegna il contrario».
Lei dipinge?
«No, non dipingo».
Perché i suoi libri sono corredati da così tanti quadri?
«Perché il pensiero non è solo discorsivo. Si pensa per immagini. Si pensa con la poesia, con la musica, con l'architettura, con la letteratura. Capire il pensiero di un'epoca significa immergersi in tutte queste varie dimensioni. Ognuna delle quali, declina lo stesso problema in una forma diversa. Nell'umanesimo, la pittura è riuscita a raggiungere un livello di profondità e completezza superiore rispetto a tutti gli altri saperi. I più grandi pensatori dell'umanesimo non sono i filosofi: sono i pittori».
Ancora oggi è così?
«Dipende dai pittori, e dipende dai loro lavori. Quel che è certo, è che noi uomini occidentali siamo condannati a ricorrere alle immagini per dare forma alla realtà. Siamo degli animali simbolici. Sebbene, la proliferazione delle immagini che c'è nella nostra società, a volte, lambisca l'iconoclastia. Produrre troppe immagini, infatti, può portare a non avere reale attenzione per nessuna».
Lei, nei suoi libri, ricorre spesso al motivo tragico.
«Sì, abbastanza di frequente».
Noi italiani non siamo più affini alla commedia?
«E Leopardi, dove lo mette? Non vi è in lui un alto senso del tragico? E Alberti? E Machiavelli?»
E Totò, e Alberto Sordi?
«Ma le maschere di Alberto Sordi e di Totò, a volte, sono tragicissime. Quando la commedia italiana è spietata, come avviene nei suoi migliori momenti, sconfina nella tragedia. Al fondo, tutte le grandi maschere italiane hanno una dimensione tragica».
Lei sa che c'è chi le dà del buonista?
«Che vuole che le dica. Ci sono un sacco di cretini in giro».
Quelle donne in marcia. Sfila l'odio anti famiglie. La controprotesta di sinistra e femministe. Bestemmiano augurando la morte a Salvini, scrive Serenella Bettin, Domenica 31/03/2019, su Il Giornale. Non si capisce cosa voglia dire quella ragazza con il dito medio alzato al cielo, mentre l'amica le fa una foto davanti il Palazzo della Gran Guardia a Verona, la sede scelta per il XIII Congresso della Famiglia. Il Wcf. E non si capisce no. Messa al mondo da padre e madre. Come tutti gli altri. Allora ieri a Verona è andata in scena la contro-protesta. La manifestazione delle femministe di «Non una di meno». La manifestazione della sinistra. Di quella sinistra che rinnega la famiglia, che odia la vita, che predica uguaglianza pace amore e libertà e poi grida nelle piazze. Lancia fumogeni, bestemmia, schernisce i poliziotti e augura la morte alle persone. «Salvini, Salvini, speriamo tu muoia», gridavano in coro. «Poliziotti, poliziotti ma che ci state a fare se a casa ci sono i piatti da lavare». Gridavano così davanti a quegli schieramenti di poliziotti, militari e carabinieri messi lì apposta per loro. Perché a difendere la famiglia si rischia il linciaggio. Donne travestite di fucsia, rosa, lilla. Uomini che al collo indossano il foulard della pace. Donne con i volti dipinti di cuoricini che reclamavano i diritti gridando al mondo che l'utero è il loro e ci fanno quello che vogliono. «Obietta obietta, obietta su sta fregna», gridavano le femministe in coro. Oppure «l'utero è mio», seguito da una bestemmia in rima. E così con megafono alla mano, striscioni, bandiere, chi mezzo nudo, chi sopra i furgoni ha preso e ha marciato in coro. Pure i bambini. Sì mettiamoci pure loro, vittime di questa ostentazione. Bambini fatti fotografare con le scritte «No nera. No lesbica. No etero. Sì umana». E così alle 14.30 sono partiti da Verona stazione Porta Nuova e si sono diretti verso Palazzo della Gran Guardia. Erano circa 20mila, provenienti da tutta Italia. «Noi veniamo da Alessandria», ci dice una coppia con la spilla della Cgil. Varie le associazioni presenti. Da Amnesty International, alla Mariposa di Milano, fino ai Sentinelli. Questi che affissi al collo avevano cartelli con scritto «sono Bin Laden, Bussetti perché non hai invitato anche me?». Questi i laici e gli antifascisti. Oppure «siamo le streghe che non avete bruciato». Nei parcheggi, secondo le stime di questura e polizia municipale, c'erano almeno 140 pullman, senza contare tutti quelli arrivati in treni o in auto. Poi una volta giunti vicino al palazzo della Gran Guardia hanno preso megafoni in mano e hanno iniziato a unire i cori. A lanciare fumogeni. A lanciare assorbenti e bottigliette vuote. A colorare gli assorbenti interni di rosa. Hanno reclamato tutto il loro odio contro i fascisti, contro Salvini, contro il potere e hanno esaurito la loro triste comparsa con uno striscione: «Un orgasmo vi seppellirà». Ma già al mattino avevano iniziato. Una coppia gay gridava con uno spagnolo difensore della famiglia tradizionale. E mentre un gruppo di femministe intonava «Bella Ciao» tenendo in mano uno striscione con scritto «Sui nostri corpi decidiamo noi», nella stessa piazza il coordinatore veronese di Forza Nuova annunciava la costituzione del comitato per «abrogare la legge 194». Qui, a pochi metri da dove padri e madri sedevano ai tavolini dei bar, portando a passeggio i figli.
Matteo Salvini umilia la manifestante-"campionessa" di Verona: ecco il suo rivoltante cartello, scrive il 31 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Tre, due, uno: via, che le polemiche abbiano inizio. Già, perché Matteo Salviniancora una volta risponde agli insulti ricevuti in piazza a Verona, dove sabato si è tenuto il farneticante corteo femminista contro il Congresso mondiale della Famiglia. Ancora una volta il ministro dell'Interno pubblica le foto di alcuni manifestanti che sfoggiano improponibili cartelli, che vanno dal blasfemo agli insulti nei suoi confronti. E, c'è da scommetterci, ora i soliti noti punteranno il dito contro il leghista, "reo" di esporre alla pubblica gogna questi "campioncini" della democrazia. Ma tant'è, guardate queste foto per capire bene chi sono le persone che hanno marciato a Verona. C'è una ragazza col cartello che assomiglia a una bestemmia: "L'unica Madonna è la Ciccone". Dunque un intellettuale espone la scritta: "Salvini cazz*** vuoi non sei mia madre". Poi abbiamo un Nobel per la letteratura in erba: "Fig*** mia, cazz*** miei". Bella schifezza... "Il mondo è bello perché è vario, ma dormirò lo stesso sereno e felice", scrive in calce Salvini.
Pericolo a sinistra, scrive Alessandro Bertirotti l'1 aprile 2019 su Il Giornale. È tutta questione di… realtà. Che la sinistra sia alla frutta; che gli unici esponenti rimasti di questa antica ed utile posizione di pensiero siano alcuni giornalisti Rai; che la disperazione cognitiva e sentimentale sia oramai evidente, anche nelle manifestazioni di massa; che Zingaretti sia il curatore fallimentare delle macerie lasciate dal democristiano Renzi; che questa disperazione sia talmente palpabile da allontanare qualsiasi essere umano appena sufficientemente equilibrato; insomma che si sia arrivati alla frutta sembra oramai chiaro. Tristemente chiaro. Meno chiaro, sembra per ora, invece il fatto che queste manifestazioni siano potenzialmente pericolose. Lo si può comprendere assai bene da questo articolo. È vero, in passato vi sono stati fenomeni verbali di origine partitica diversa e nondimeno altrettanto deprecabili. Ma, essere portatori di valori come il pacifismo, l’accettazione delle diversità, il rispetto per la dignità altrui, e poi utilizzare questo linguaggio, fa della attuale sinistra nazional-popolare qualcosa di oltremodo negativo. Ed ho la sensazione che se qualcuno desidera fomentare violenza da parti avverse, altri stiano cadendo nella rete a piè pari, senza nessuna consapevolezza sociale, quella che dichiarano di possedere solo a parole, perché i fatti come questi la negano con assoluta evidenza. La mia conclusione è dunque che qualcuno dei politici di questa partizione culturale cerchi di non annullare del tutto quel poco che di civile rimane, ammesso che sia mai davvero esistito. È necessario smettere di urlare nelle piazze frasi dementi, anti-evolutive e testimonianza della propria frustrazione esistenziale, mentre potrebbe essere utile produrre iniziative educative, mediatiche e più intelligenti, specialmente finalizzate alla costruzione di un progetto a lungo termine. Un progetto nel quale i giovani, invece di dimostrare la loro necessaria e meravigliosa esuberanza ormonale, assieme a qualche attempato nostalgico e sovietico, siano portati per mano a sviluppare quella tolleranza che prevede la discussione civile. Certo, mi direte che questo vale anche per gli altri, quelli di destra (sempre ammesso che si possa continuare ad utilizzare questi obsoleti termini…). È vero, come è altrettanto vero che la destra non ha quasi mai espresso una intelligenza dialogante, mentre si è sempre dedicata ad ostentare monolitiche posizioni teoriche e sociali, e solo in questi ultimi anni sta lentamente dimostrando di essere anche intelligente. A fatica, è vero, ma ci prova, come sta accadendo in questo periodo in cui riesce a governare anche in situazioni politicamente antitetiche. Perché la strada che dovremmo percorrere tutti, secondo me, dal punto di vista antropologico-mentale, è proprio quella di imparare a convivere con i paradossi, ossia con le luci e le ombre che albergano in ogni essere umano. Tutti esprimiamo a parole quello che difficilmente riusciamo a realizzare in azioni, ed una delle funzioni evolutive della parola è proprio quella: indicare nella nostra mente questi paesaggi culturali e sociali che desideriamo concretizzare. Non sempre la parola registra quello che è, ma spesso definisce quello che vorremmo fosse, oppure divenisse. È utile ricordarlo, secondo me.
Barbara Ciabò (Facebook) 29 marzo 2019 alle ore 08:45: Le femministe di sinistra non le senti mai condannare i paesi islamici intolleranti, non le senti mai criticare le sentenze oggettivamente lesive della dignità delle donne e ovviamente sono contrarie alla castrazione farmacologica per gli stupratori. Alle compagne femministe italiane basta accanirsi solo contro il congresso della famiglia per certificare la loro totale irrilevanza storica e politica.
Barbara Ciabò (Facebook) 31 marzo 2019 14.40 commentando la foto di una femminista al corteo di Verona contro la Famiglia in cui era scritto "il corpo è mio e non di quel PORCO DI DIO": E io come donna mi dovrei far rappresentare da queste? In Italia tutti sono liberi di esprimere le proprie opinioni! Se c’è chi vuole fare un Congresso sulla famiglia e parteciparvi è libero di farlo. Così come chi vuole partecipare al gay-pride. Basta con chi usa metodi intimidatori e fascisti!
L’esilarante corteo delle femministe che hanno protestato contro il Congresso della Famiglia a Verona: “Seppelliamoli con un orgasmo”… e si mettono a gridare come delle pazze fingendo orgasmi. Quale dignità ci sarebbe in questo squallido corteo di “donne” urlanti?
Come sempre…
8 Marzo tra follie e silenzio. Forse è così o forse no, è questo in realtà il neofemminismo, è la boria dei vincitori, è la paura di perdere qualcosa di “conquiste” illecite non sostenute dall’universalità del diritto ma privilegi concessi, scrive Giacinto Lombardi, lunedì 11 marzo 2019 su minervinolive.it. In realtà tra le vie del paese non si era mai visto un 8 marzo così triste, depresso, incolore quasi ci si vergognasse di una ricorrenza che ha senso solo in TV e in qualche piazza di città stuprata dal mee too in versione Italia sotto il segno del “non una di meno”. Slogan potenti e terribili “IL CORPO E’ MIO E NON DI QUEL PORCO DI DIO”, tuonano le femministe trasmutando i già forti slogan delle loro mamme “Il corpo è mio, né dello stato né di Dio”, oppure l’altrettanto esplicito “L’utero è mio e lo gestisco io”. Parole tremende che però avrebbero dovuto dire gli uomini inviati a morire nelle trincee per una patria assente e assassina, oppure in Etiopia a liberare faccette nere che di certo non ce lo avevano chiesto, o ancora in Africa e in Albania a conquistare un Mediterraneo che non voleva proprio essere unificato sotto il segno del fascio e dell’elmetto. “DIO PATRIA E FAMIGLIA, CHE VITA DE MERDA”, declama la Senatrice Pd Monica Cirinnà sul suo bel cartello dalla donna bendata. Ecco, anche queste parole avrebbero dovuto dirle i soldati americani spediti in Iraq e Afganistan a massacrare popoli soddisfatti della loro terra e del loro Dio, oppure dovrebbero urlarle i padri separati rinnegati dalla famiglia e derubati anche del necessario per sopravvivere, o dovrebbero dirle bigotti e bizzoche che si sono dati regole che non riescono ad osservare e li costringono a vergognarsi di se stessi e non atei dichiarati che di Dio non se ne fanno niente. Invece queste cose le dicono le femministe che non sanno niente della guerra, di separazioni deprivanti, di emarginazione sociale e incidenti mortali sul lavoro, di insuccesso scolastico e di totale disconoscimento della propria individualità. Certo la Cirinnà è stata contesta, qualcuno ha scritto: «Da donna indipendente, emancipata e libera prendo completamente le distanze da ciò che afferma questa signora». E un altro aggiunge: «Sono rimasugli sessantottini, pseudofemministi, che fanno parte delle idee malate di allora, comuni Hippy, cancellazione dell’autorità, il matrimonio è “borghese”, donna di carriera che non deve toccare una pentola, distruggere tutto perché tutto sbagliato, magari reggipetto simbolo della borghesia e amenità del genere….Forse è così o forse no, è questo in realtà il neofemminismo, è la boria dei vincitori, è la paura di perdere qualcosa di “conquiste” illecite non sostenute dall’universalità del diritto ma privilegi concessi in nome di una parità di fatto che non si ottiene mai perché nessuno la vuole in realtà, nessuno vuole l’uguaglianza in tutto, ciò che si chiede è l’equilibrio della giustizia, il riconoscimento del merito, l’uguaglianza delle regole nella competizione sociale, la libertà individuale nel rispetto della libertà altrui, la ricerca della felicità caricandosi addosso il proprio pezzo del dramma della storia….Questo 8 marzo è una mistificazione insopportabile, vincitrici della storia che si fanno vittime per prendersi pure il pane dei poveri, un’ideologia totalizzante e divisionista ormai né di destra né di sinistra ma semplicemente falsa ed eversiva.
Bestemmiare il Dio degli altri non è libertà di pensiero. Paura e saggezza. Leggere un articolo di Pigi Battista mi induce spesso in tentazione. La tentazione è fare perfino meglio di lui, superarlo in coerenza logica, morale e politica. La cosa non è facile, scrive Alfonso Berardinelli su Il Foglio il 7 Agosto 2015. Leggere un articolo di Pigi Battista mi induce spesso in tentazione. La tentazione è fare perfino meglio di lui, superarlo in coerenza logica, morale e politica. La cosa non è facile. Ma dato che altrettanto spesso mi succede di condividere presupposti e moventi di chi cerca di smascherare ipocrisie e tic retorici, sono favorito da Battista, perché è lui stesso che mi porta a un passo da conclusioni appena diverse dalle sue, che non escludono le sue. Sul Corriere della Sera di domenica 2 agosto Battista fa buon uso di una dichiarazione dello scrittore Hanif Kureishi e arriva al dunque: a quali sono le vere ragioni per cui si sta diffondendo, soprattutto in Inghilterra e in America, l’idea che dobbiamo smetterla di fare i blasfemi con Allah e il suo profeta Muhammad. Perché dobbiamo smetterla di bestemmiare sull’islam? Perché farlo è poco previdente, imprudente, poco realistico. Kureishi ha dichiarato: io non bestemmio contro l’islam perché “non sono così stupido”. Sul momento avevo capito che bestemmiare contro qualsiasi religione è in sé stupido. Ma Battista mi ha svelato la trappola. Altri intellettuali e scrittori se l’erano cavata, più o meno in buona fede, dicendo che non si bestemmia, come hanno fatto gli sconsiderati vignettisti di Charlie Hebdo sterminati dai vendicatori islamici, per la semplice, nobile ragione che la religione altrui merita “rispetto”. Pietoso velo che nasconde la brutta verità ora rivelata da Kureishi: non si bestemmia per ragioni di rispetto ma perché “non è intelligente”, cioè per paura. Non posso nascondere, onestamente, che secondo me bestemmiare contro l’altrui religione non è esattamente “libertà di pensiero”. Nessuno di noi usa in questo modo la libertà di pensiero e di espressione difesa dalle nostre costituzioni. Se per esempio ho a cena un credente, eviterò di dire “porco Dio” e “porca Madonna” se uno schizzo di sugo mi imbratta la camicia. Né mi metterò a dimostrare con argomenti logico-empirici che la cosiddetta Maria Vergine deve pur essersi fatta una bella scopata con Giuseppe o qualche vicino di casa per poter partorire il bambino Gesù. Eviterò di esprimermi così. Forse lo eviterebbe anche Battista: per rispetto, per intelligenza della situazione, per prudenza e timore di possibili reazioni sgradevoli. Non so perché Battista evita di prendere in considerazione la realtà della paura e nello stesso tempo l’opportunità, se non il dovere, di un certo rispetto per la fede religiosa altrui. Il che non esclude, ovviamente, che la fede non sia di per sé sufficiente a rendere buoni, onesti, non violenti e santi. I popoli che per secoli hanno dichiarato ritualmente di credere nel Dio di Abramo e in Gesù Cristo non sono diventati solo per questo tutti buoni, non violenti, nemici della guerra, della sopraffazione, dell’omicidio patriottico e di Stato. Idem per l’islam, per gli islamici e per gli islamisti. Ora questi ultimi sono entrati in più stretto, strettissimo contatto con noi. Si sono mescolati con noi per loro convenienza, dopo che noi, in veste di colonialisti, ci eravamo mescolati con loro per nostra convenienza. Li abbiamo dominati e umiliati militarmente, politicamente, economicamente. Ora loro, in Europa, sono arrivati fra noi a milioni. Ci vendono la frutta nel negozietto sotto casa. Abitano nella porta accanto. Viaggiano con noi sui nostri mezzi pubblici. Usano gli stessi computer, telefonini e armi. I loro figli vanno a scuola con i nostri. Bisogna ammettere che forse dovremmo un po’ misurare il nostro libertario istinto alla bestemmia, se la bestemmia offende non il nostro ma il loro Dio. Non abbiamo solo a che fare con assassini e terroristi reali o potenziali, ma con quel multiculturalismo che fino a un paio di decenni fa i più colti e democratici intellettuali di sinistra auguravano all’Italia perché l’Italia si decidesse a diventare moderna e multietnica come gli Stati Uniti… che pacificamente multietnici non sono ancora diventati. Che bello il mondo variopinto e multiculturale! Bello, ma a volte impone che si misurino le parole e i gesti. Convivere è bello? Ci piace? Sì, però ha i suoi problemi. Limita certe libertà. Succede che si litighi. Le liti fra vicini di casa possono degenerare. Si può venire alle mani. Succede perfino che ci si spari. E’ certo che non si bestemmia il Dio degli altri sia per rispetto che per paura. Non mi metto a insultare “liberamente” la camorra se al ristorante il mio vicino di tavolo è un noto camorrista. Multiculturalismo vuol dire prudenza, qualche ansia, a volte paura. Ha ragione Battista: non si bestemmia per paura. Perché questo, data la situazione, gli sembra così deplorevole e strano?
8 MARZO: “SESSANTOTTINE ISTERICHE”, L’ULTIMO COLPO DI CODA DI UNA SINISTRA IN DECOMPOSIZIONE, scrive il 10 Marzo 2019 il Direttore di Off.nnmagazine.net. L’8 marzo, festa della donna, celebrazione che si tiene negli U.S.A. a partire dal 1909, in alcuni paesi europei dal 1911 e in Italia dal 1922, fu istituita non solo per ricordare le conquiste sociali, economiche e politiche ma anche le discriminazioni e le violenze di cui le donne sono state e sono ancora oggetto in quasi tutte le parti del mondo. A far data dall’8 marzo 2019, in Italia verrà però ricordata come il giorno della vergogna in gonnella, l’isteria in tacchi a spillo o se preferite, il conato nel decolté. Il merito? Uno sparuto, nauseabondo residuo sessantottino in menopausa, accompagnato da qualche poveretta alla quale sarà sicuramente venuto meno l’affetto dei genitori e bisognosa probabilmente di adeguate cure mediche. Da tre giorni sui social la sinistra femminista si è mostrata inviperita e agguerrita come non mai. Il pretesto sempre lo stesso: i fantasmi di un fascismo morto nel 1945, almeno questa sembra essere la maldestra giustificazione di Monica Cirinnà, ex senatrice del P.D. che in piazza Vittorio allo sciopero globale delle donne, si mette in posa con un cartello con su scritto: “DIO, PATRIA FAMIGLIA. CHE VITA DE MERDA”. L’indignazione, a leggere le risposte al suo vergognoso post si registra finanche fra le fila della sinistra cattolica, anche se, a denti stretti e sotto voce. Un’altra perla da incorniciare per la sinistra in questo scorso 8 marzo è sicuramente un altro cartello che riporta in bella mostra una bestemmia, tanto esplicita quanto rivoltante anche per un ateo. “IL CORPO E’ MIO E NON DI QUEL PORCO DI DIO”. Sguardo fiero e soddisfatto della “poveretta” che lo mostra sfilando in corteo a Roma. Chissà la soddisfazione dei genitori nel vederla al Tg. La carrellata di queste vere e proprie “pietre miliari” lungo la strada dei “diritti delle donne” non si ferma certo qui, ed ecco infatti spuntare un altro cartello in un altro corteo, quello di Milano. Inorriditi ci leggiamo: “PUTTANE SEMPRE, FASCI MAI”, e a tal proposito non sono mancati gli imbrattamenti della lapide a Sergio Ramelli, un ragazzo ucciso dai comunisti durante gli anni di piombo, e al monumento al più grande giornalista del 900 Indro Montanelli. Alla “tre giorni di violenza rosa” non poteva mancare la chiosa dell’ex “presidenta della Camera” Laura Boldrini che perde ancora l’ennesima occasione per fare bella figura esternando: “Casapound va sciolta”. La buona notizia è quella che vede gli italiani ignorare decisamente cotanto livore. Salvo infatti qualche comprensibile reazione stizzita sui social, le inviperite manifestazioni delle femministe rosse ci sono state, per carità cristiana, risparmiate dai notiziari televisivi.
Donne Pd: "I diritti sono sotto attacco. Il partito si ricordi di noi, a partire dai nomi femminili in lista", scrive l'1 aprile 2019 Giovanna Casadio su La Repubblica. A metà aprile un nuovo appuntamento di Towanda dem, l'associazione di donne democratiche che denunciò l'inganno delle pluricandidature alle politiche. Valeria Fedeli: "Non vorrei che l'allargamento e l'apertura al civismo per le europee fosse tutta al maschile". Il giorno dopo Verona, le donne del Pd battono un colpo. Quelle di Towanda dem- l'associazione di democratiche che denunciò alle ultime politiche l'inganno delle pluricandidature nelle liste, usate dal partito per favorire gli uomini - lanciano una convention a Bologna a metà aprile, per mettere al centro delle politiche dem l'agenda-donne. Molte nel corteo anti oscurantisti e per i diritti a Verona c'erano, da Francesca Puglisi a Monica Cirinnà ad Alessia Rotta a Livia Turco, in ordine sparso con lo slogan "Libere di scegliere". Altre sabato erano a Napoli al seminario "Le contemporanee", come Valeria Fedeli. Ed è l'ex ministra dell'Istruzione la più tranciante: "Le donne del Pd ci sono, non è vero che nel momento di massimo attacco alle donne e ai loro diritti siamo sparite. Casomai sono gli uomini del partito che mancano. E io non vorrei che l'allargamento e l'apertura al civismo delle liste per le europee - su cui sono d'accordo - fosse tutta al maschile. Cinque anni fa c'erano 5 capolista donne e ora?". Vero è che essere capolista o ultima della fila alle europee non conta, dal momento che si viene eletti in base alle preferenze, ma il valore simbolico resta. Un allarme che allude al Pd da "correggere", perché non sia a esclusivo traino maschile. "Zingaretti ce l'ha ben presente e ha assunto impegni precisi", dice Marina Sereni. A cominciare dalle due vice segretarie donne (una è Paola De Micheli) e da una squadra di dirigenti fifty/fifty, di cui si aspetta la nomina. Debora Serracchiani, l'ex governatrice del Friuli Venezia Giulia, rilancia: "Dobbiamo rimettere la questione delle donne al centro, perché è uno dei punti discriminati e cruciali per costruire l'alternativa a questo governo". E comincia la settimana decisiva per le liste alle europee partendo proprio dai nomi femminili, dal momento che vige il criterio dell'alternanza uomo/donna. Federica Mogherini, l'Alto rappresentante della Ue per gli affari esteri, ha detto no a una candidatura. Lady Pesc non corre, bensì finisce il suo mandato a novembre. Sarebbe stato uno dei fiori all'occhiello nella lista del Pd per le europee. Non ci sarà neppure Susanna Camusso, l'ex segretaria Cgil. Zingaretti fa sapere che vuole comunque tre capilista donne: le papabili sono per ora Caterina Chinnici (eurodeputata uscente) nelle Isole, Simona Bonafè (anche lei uscente) al Centro. Al Sud c'è l'ipotesi della renziana Teresa Bellanova. Nel Nord Est la testa di lista è composta da Carlo Calenda, capolista, e Elisabetta Gualmini, numero due. Sempre in quella circoscrizione altri nomi femminili sono Laura Puppato, Puglisi (proposta dalla federazione bolognese), Rotta e Alessandra Moretti. Mentre nel Nord ovest Giuliano Pisapia è capolista seguito probabilmente dall'economista Irene Tinagli. Nelle Isole sarà ricandidata Michela Giuffrida, ma si parla anche di Valeria Sudano, senatrice dem molto vicina all'area di Luca Lotti.
Gli attacchi della sinistra spot per il forum di Verona. Gay, femministe e centri sociali contro il Congresso delle famiglie. Risultato: lo seguiranno i media di mezzo mondo, scrive Stefano Filippi, Venerdì 29/03/2019, su Il Giornale. Un primo successo gli organizzatori del 13mo Congresso mondiale delle famiglie, che si apre oggi in una Verona semiblindata, l'hanno già ottenuto. Grazie alla serie concentrica di attacchi subìti, hanno conquistato una ribalta che finora si erano sognati. Il Wcf, sigla inglese (World congress of families) perché i promotori appartengono al grande movimento pro-life americano, negli anni precedenti ha fatto tappa in capitali e grandi città come Praga, Ginevra, Città del Messico, Varsavia, Amsterdam, Madrid. Ha piantato le tende nel cuore dell'Europa e dell'America. Ha richiamato personalità come il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato vaticano, che l'anno scorso era volato in Moldavia per la 12ma edizione, invitato dalle massime autorità del Paese. Ma nessuno ne aveva parlato, o quasi. Finora il Wcf non aveva sollevato grandi polveroni in giro per il mondo. Ma adesso che si svolge in Italia, e per giunta in una città di provincia che pure molti si ostinano a descrivere come fosse un covo di neofascisti, il Congresso ha assunto una notorietà planetaria, ha richiamato oltre 200 giornalisti da mezzo mondo, è diventato addirittura una pietra d'inciampo nel cammino del governo italiano. E tutto questo con l'insostituibile contributo della macchina del «politicamente corretto», che alzando il muro dell'ostilità ha regalato al fine settimana scaligero fama, clamore e aspettative che probabilmente nemmeno i promotori si aspettavano. Contro il Wcf si sono schierati il mondo accademico veronese (500 firme su 700 docenti dell'Università in fondo a un documento di durissima critica), la galassia femminista che era entrata in letargo dagli anni del «bunga bunga», il mondo Lgbt, i sindacati, i partigiani, una grossa fetta del mondo cattolico che ha apertamente preso le distanze dall'evento, oltre a mezzo governo, quello di fede a cinque stelle. Il premier Giuseppe Conte ha negato il patrocinio della presidenza del consiglio e il vicepremier Luigi Di Maio ha elegantemente bollato come «sfigati» e «nostalgici del Medioevo» i partecipanti. I quali hanno il grave torto di ricordare a tutti che un bambino nasce ancora da un uomo e da una donna, e che la famiglia così formata avrebbe semplicemente bisogno di un maggiore sostegno. In piazza Bra, che ospiterà il Congresso nel palazzo della Gran guardia, sono già andate in scena le prime contestazioni non autorizzate degli attivisti in tuta bianca («per fare pulizie da pericolosi germi infettivi») del collettivo 17 Dicembre, i quali nei giorni scorsi avevano lanciato minacce agli albergatori che avessero osato ospitare i convegnisti. Nel fine settimana si susseguiranno flash mob, marce e tavole rotonde per contestare le tesi dei congressisti: scenderanno in piazza la Cgil con Maurizio Landini, un corteo «transfemminista», il Pd, la Conferenza delle donne del Nordest, il collettivo Non una di meno. In un teatro cittadino si ritroveranno a parlare Livia Turco, Susanna Camusso, Monica Cirinnà, Laura Boldrini. Per gli organizzatori è tutta pubblicità, per i contestatori potrebbe rivelarsi un boomerang, soprattutto se nei cortei di protesta si dovessero infiltrare delle teste calde per incendiare uno scontro già rovente. E gongola soprattutto la Lega, che domani spedisce a Verona tre ministri guidati da Matteo Salvini per mostrarsi come l'unico partito italiano che difende i valori familiari.
Da oggi a Verona per i diritti che la sinistra vuole cancellare, scrive venerdì 29 marzo 2019 Francesco Storace su Il Secolo d'Italia. Occhi puntati su Verona. La visibilità che la sinistra è riuscita a dare al congresso mondiale delle famiglie è stata straordinaria. La variopinta compagnia rossa che affolla il nostro paese è desolante. Solo odio verso chi crede in valori e diritti che il vippaio sinistro pretende di cancellare. A Verona non si riunisce una congrega di mostri, ma persone, soggetti politici, associazioni che difendono il valore della famiglia naturale, vogliono dare un padre e una madre ai nostri figli, contrastano la pratica dell’utero in affitto.
Contro gli omosessuali? Per la sinistra tutto questo è bigotto e addirittura contro gli omosessuali. Peccato che diverse persone che amano altre persone dello stesso sesso convengano sul diritto a pensarla in modo diverso, che so, da quello della senatrice Monica Cirinnà. E’ un bene invece che questo congresso si celebri in Italia. Perché sulla famiglia vanno accesi finalmente i riflettori della politica, anche se i grillini che stanno al governo offendono parlando di sfigati. In Italia siamo 60 milioni 391mila. Lo scorso anno eravamo oltre 90mila in più. Il numero delle nascite del 2018 è sceso di 9mila unità rispetto al 2017: nel corso dell’anno ci sono stati 449mila nuovi nati totali. 458mila appunto nei dodici mesi prima. Le morti totali sono state 636mila, 13mila in meno del 2017. Il saldo naturale, ovvero la differenza tra il numero dei nati vivi e quello dei morti, nel 2018 è negativo (-187mila). Si tratta del secondo livello più basso nella storia dopo il 2017, che era stato di meno 191mila.
Evidente crisi demografica. Questo dati dovrebbero far sobbalzare tutti. La crisi demografica è evidente ma da noi sembra proibito sposarsi, fare figli, crescerli. Certo che si possono fare figli fuori dal matrimonio, e magari adottarli anche in coppie dello stesso sesso. Possiamo chiedere perché è scandaloso se invece ci si unisce – in Chiesa o in Comune – e si mettono al mondo creature che abbiano padre e madre? Ci saranno risposte a problemi sociali, nel congresso di Verona, su questioni che lacerano la famiglia italiana. Da noi sembra obbligatorio dover scegliere se essere madre o lavoratrice, perché ancora non si riesce a varare una legislazione – quella si’ moderna – che renda conciliabili tra loro i ruoli a cui la donna è soggetta. Sembra che l’unica libertà consentita sia quella di abortire: aiutare una donna a non farlo pare vietato. A Verona si mescolano gioiosamente il diritto alla famiglia con il diritto alla vita e questo fa diventare pazzi gli intellettuali di sinistra che riempiono le zucche vuote dei loro politici con teorie astruse. Tra le personalità politiche italiane ci saranno Salvini e Meloni. Conte, nonostante l’impegno del ministro Fontana, fa sapere che lui non la pensa così. Hanno letto da qualche parte che lì si recita sull’omosessualità come una malattia. Vorremmo rassicurarli: i matti sono quelli che lo dicono. Ma evidente che il premier e i grillini hanno solo bisogno di pretesti. È il gioco preferito di questo governo. Ma evitino di farlo sulla pelle delle persone che credono in valori che anche loro dovrebbero considerare universali.
"Si deve fare gli affari suoi". Così la Meloni zittisce la Gruber in diretta. Ospite ad Otte e Mezzo la Meloni invita la Gruber a farsi gli affari suoi quando la conduttrice sposta il dibattito dal piano politico a quello personale, scrive Giulia Rizzo, Giovedì 28/03/2019, su Il Giornale. “Meloni, quale è la sua idea di famiglia tradizionale visto che lei vive more uxorio con il suo compagno, ha fatto una figlia non si è spostata…”. Toccata nel vivo delle sue scelte personali e familiari da Lilli Gruber, Giorgia Meloni, ospite della trasmissione Otto e Mezzo, invita la conduttrice a “farsi gli affari suoi”. E poi spiega le sue ragioni: “Io sono una persona che ha fatto un figlio fuori dal matrimonio e non pretendo di avere il favore che la Costituzione italiana riconosce alle coppie spostate, è chiaro?”. Insomma, chiarisce la leader di Fratelli d’Italia, invitata in studio a discutere del Congresso delle famiglie che si terrà a Verona e al quale prenderà parte, “io non ho un approccio confessionale a questi argomenti, io ho un approccio laico, quello che si dice su questo congresso è falso”. La Meloni contesta una ad una tutte le fandonie montate ad arte da quello che definisce “il politicamente corretto” per gettare fango sulla kermesse veronese, ma l’impresa si rivela più ardua del previsto. Viene continuamente sovrastata, tanto dalla conduttrice, quanto dagli altri ospiti (Andrea Scanzi e Maurizio Damilano). Volano scintille. E alla fine, la Gruber, dopo aver minacciato di togliergli l’audio, interrompe il collegamento.
“A SINISTRA DI ME DICONO CHE SONO UNA COZZA O UN CESSO”. Dal “Fatto quotidiano” il 28 marzo 2019. Giorgia Meloni è tornata a parlare di alleanze nel centrodestra ieri sera durante Accordi e Disaccordi, il talk show condotto da Andrea Scanzi e Luca Sommi su Nove: "Il rapporto con Berlusconi? Dipenderà dal voto delle Europee. Con la Lega oggi ci sono più affinità di quante non ce ne siano con Forza Italia. Vedremo quindi dopo i risultati delle elezioni di fine maggio. Non faccio mistero di credere in un centrodestra diverso, nuovo per il futuro e per lavorare affinché il mio partito sia il secondo movimento del centro destra insieme al Carroccio". La leader di Fratelli d' Italia ha parlato anche dello scontro con Carlo Calenda su Twitter riguardo il Congresso delle famiglie di Verona. "Lo sto per querelare per le sue dichiarazioni contro di me". Calenda infatti le ha scritto sul social network: "Ma ti sei bevuta il cervello? I matrimoni misti! Cosa sei la versione burina del KKK. Prenditi una pausa. Lunga". "Mi sono stufata - replica Meloni - perché verso di me si prendono delle libertà che io verso gli altri non mi prendo. Definirmi 'burina' è tipico di una sinistra radical chic che vive nei suoi bei salotti. Vuol dire che di me nel merito politico hanno poco da dire e quindi devono dire che sono una cozza o un cesso".
Congresso famiglie, Meloni attacca Gruber: "Voi dite falsità". "Quel 'voi' lo dica a qualcun altro". Scontro a 'Otto e Mezzo' sul controverso Congresso delle famiglie che si terrà a Verona, tra la presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, che difende l'iniziativa (a cui partecipa), e la conduttrice Lilli Gruber, che le ricorda di non avere proprio una famiglia "tradizionale". "Avete detto una serie di cose completamente false - afferma Meloni - Quello che si dice su questo congresso è falso". "Quel 'voi' lo dica a qualcun altro", replica la giornalista. In studio anche il direttore dell'Espresso Marco Damilano e il giornalista del Fatto Andrea Scanzi.
Giorgia Meloni piacente e fascista. Le recensioni senza inutili millanterie del giornalista e autore comico Luca Bottura per L'Espresso: ogni settimana la graffiante satira sull'attualità, scrive Luca Bottura il 21 marzo 2019 su L'Espresso. Dopo aver attaccato sui social i “matrimoni misti”, in vista del raduno nazibacchettone di Genova, Giorgia Meloni si è stupita di aver suscitato alcune reazioni negative tra le quali quella - al solito - scomposta, che l’ha definita «versione burina del KKK». La Meloni si è adontata perché Calenda l’ha relegata in una classe sociale inferiore a quella che si è guadagnata con la politica, e non per essere stata accostata a un movimento suprematista sanguinario. Ha quindi postato sempre in rete un riepilogo delle contumelie ricevute negli anni passati tra le quali il celeberrimo “la schiena lardosa di una fascista” vergato a suo tempo da Asia Argento. Anche in quel caso, il problema era con ogni evidenza l’attacco di ordine estetico. Meloni ha scritto: «Sarò anche una cozza ma…». La recensione di oggi riguarda perciò l’aspetto estetico della leader fratellista, ché pare essere ciò che più le tange: a me la Meloni piace. Non sarà la sosia di Scarlett Johansson che appare dopo il trattamento al Photoshop cui è sottoposta sui suoi manifesti, ma ha dei begli occhi, un bel sorriso, e se non fossimo entrambi accasati credo che trascorrerei volentierissimo una serata in pizzeria scopo maggiore conoscenza e poi chissà. Però resta una fascista bigotta che mette metaforicamente le mani nelle mutande degli altri e poi fa figli fuori dal matrimonio. Giudizio: Telefoniamoci
Otto e mezzo, Giorgia Meloni brutalizza Lilli Gruber e lei sbrocca: "Basta, le tolgo l'audio". Rissa dell'anno, scrive il 27 Marzo 2019 Libero Quotidiano. "Basta! Meloni le tolgo l'audio!". A Otto e mezzo scene da Far West in diretta tra Lilli Gruber e Giorgia Meloni. Si parla del Congresso sulla famiglia di Verona e la leader di Fratelli d'Italia prova a difendere semplicemente il diritto di partecipare all'evento. Contro di lei, compatti, Andrea Scanzi, Marco Damilano e la stessa Gruber, che arriva al colpo basso: "Vorrei sapere qual è la sua idea di famiglia tradizionale, visto che lei vive more uxorio col suo compagno e con un figlio nato fuori dal matrimonio. Dov'è secondo lei la modernità in quello che propone il congresso di Verona?". La Meloni replica secca: "Su questo congresso sono state dette molte falsità da parte dell'internazionale del politicamente corretto. Ho una visione estremamente laica della vita e della politica e sono d'accordo sul fatto che la gente non si deve fare gli affari tuoi. Sono una persona che ha avuto un figlio fuori dal matrimonio e non pretendo di avere il favore che la costituzione italiana riconosce alle coppie sposate. Non vado a questo congresso per dire che la donna deve stare a casa a stirare. Sbagliate voi a pensare che chiunque partecipi a questa iniziativa abbia un approccio confessionale". Ma quando i toni si scaldano, la Gruber la blocca in maniera brutale. "Guardate cosa succede - ha commentato su Twitter la Meloni, pubblicando una parte del suo intervento - quando provi semplicemente a spiegare la verità discostandoti dal pensiero unico e dalle menzogne. Giudicate voi...".
“È la famiglia il futuro dell’Europa”: imponente corteo chiude il congresso a Verona, scrive domenica 31 marzo Giovanna Taormina su L'Espresso. Sono diecimila i partecipanti alla “marcia per la famiglia” e “per la vita” partiti da piazza Bra, sotto le mura dell’Arena, a Verona, sulle note di We are family. Una marcia colorata e pacifica che ha concluso la tre giorni del tredicesimo congresso mondiale delle famiglie. I partecipanti, giunti da tutta Italia, anche con treni e corriere, prima del via hanno ascoltato il messaggio finale degli organizzatori: «La famiglia pilastro fondamentale della nostra società deve essere al centro delle politiche dei governi».
Congresso famiglie, il corteo. Il corteo del popolo delle famiglie ha marciato rivendicando «l’eroismo delle mamme e dei papà» che cambiano pannolini e crescono i figli ogni giorno. La tre giorni della kermesse si chiude con i palloncini e le bandiere con i disegni della famiglia tradizionale, rigorosamente composta da mamma e papà. Tra gli slogan della marcia, quelli inneggianti alla “Famiglia futuro dell’Europa”, della “Libertà per la donna di avere figli”, “Abbiamo Gesù nel cuore”. Ma anche le magliette con su stampato “Keep calm and play for family”, “La famiglia è insostituibile”. Massimo Gandolfini, leader del Family Day ha detto: «Dal 1978 a oggi sono stati uccisi sei milioni di embrioni» e ha definito la pratica dell’utero in affitto «vergognosa, criminale, barbara, tribale». «Guardate questa splendida piazza noi siamo per la vita, per la famiglia, per il rispetto di tutte le persone ma chiediamo, se davvero questa è una civiltà democratica, anche noi vogliamo rispetto. Certe offese come dire che “Dio, patria e famiglia è un vita di m… è una cosa che offende innanzitutto chi la pronuncia», ha stigmatizzato.
La Dichiarazione di Verona. La Dichiarazione di Verona, adottata per acclamazione a chiusura della manifestazione, contiene una domanda emersa dal tavolo sulla demografia: «Perché l’Ue prevede fondi salva-stati che, nella pratica sono salva-banche e non istituisce un fondo salva-famiglie?», si sono domandati gli organizzatori del Congresso, Toni Brandi e Jacopo Coghe. La Dichiarazione di Verona prosegue sottolineando «l’urgenza della tutela dei diritti delle donne, dal ricevere valide alternative all’aborto, alla protezione dallo sfruttamento sessuale e dalla pornografia, alla parità di trattamento salariale, fino alla conciliazione tra lavoro e maternità, attraverso più lunghi congedi parentali e – per chi lo desidera – flessibilità, part-time o telelavoro. Le madri che scelgano di dedicarsi esclusivamente ai figli e alla famiglia andrebbero tutelate con una remunerazione adeguata per il lavoro casalingo, laddove lo stipendio del coniuge non sia sufficiente per un’esistenza libera e dignitosa». Ulteriori punti del documento riguardano «il radicale contrasto alla diffusione e alla legalizzazione di ogni tipo di droga e la difesa del diritto dei genitori alla libertà di scelta educativa per i propri figli (art. 26 Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo), specie riguardo la sfera sessuale e l’affettività».
Dio, Patria e Famiglia sono una figata pazzesca, cara Cirinnà, scrive lunedì 1 aprile Francesco Storace su Secolo d'Italia. Non si cancellano i valori della Tradizione, mandano a dire da Verona. Ne resterà delusa la senatrice Monica Cirinnà, per la quale Dio, Patria e Famiglia rappresentano il cliché da lei definito volgarmente una vita di merda. No, per dirla con Fabrizio Bertot, candidato di Fratelli d’Italia alle europee, con tanto di bella famiglia con figli, “Dio, Patria e Famiglia sono una figata pazzesca”. Perché è bello credere, è bello sentirsi italiani, è bello tramandare valori non negoziabili alle nuove generazioni. Da Verona è partito il messaggio del rifiuto della resa. E l’omofobia e il razzismo non c’entrano un fico secco vorremmo dire a quel malato di protagonismo che risponde al nome del sottosegretario Spadafora. Ma come si permette costui di offendere chi crede? Sta diventando un vizio, esattamente come la mala creanza della Cirinnà. Di Maio ha attaccato gli “sfigati” perché una bella famiglia non ce l’avrà mai, con la testa che si ritrova.
La cattiveria boldriniana. In quella platea festosa – molto diversa dalla piazza animata dalla cattiveria boldriniana che si contrapponeva al congresso mondiale della famiglia – non si discuteva in ragione dello stato civile degli oratori. Lo ha provato la stessa standing ovation registrata da Giorgia Meloni. Perché la leader di Fratelli d’Italia ha detto una cosa assolutamente normale, che tutti dovrebbero condividere, tranne gli intolleranti, gli estremisti, gli allergici alle idee altrui. I nemici della famiglia fanno diventare obbligatorio l’aborto perché negano il diritto della donna ad altre scelte.
Quando si arriva a contestare quel congresso dipingendolo come la riunione dei mostri di tutto il mondo, è perché anche la Famiglia diventa un nemico. Lo è come la Nazione. Come la Patria. Come l’identità religiosa. Come l’identità di genere.
Padre e madre per i bambini. C’è stato un passaggio del discorso di Giorgia Meloni a Verona su cui vale la pena di soffermarsi. Fuori strillavano che la legge 194 non si tocca. E dal palco quella donna segretario di partito diceva: “Io la vorrei applicare. La 194 è una legge che non è stata applicata nella sua parte migliore, che era quella della prevenzione: tu hai la possibilità di abortire ma farò del mio meglio perché tu non debba arrivarci, perché tu abbia mille altre possibilità. c’è una parte della legge 194 che non è stata adeguatamente applicata ed è quella che noi vorremmo applicare”. È in discussione il desiderio di genitorialità da parte di coppie omosessuali? Prima deve venire il diritto di un bambino di avere un padre e una madre: e questa elementare considerazione la chiamate omofobia? Sparano parole a casaccio, strillano all’oscurantismo. Che semmai è tipico di chi vuole impedire di parlare di temi sensibili a chi non ha le loro stesse opinioni. Insultano, sputano, minacciano. Sono quelli che hanno tentato invano di non far celebrare il congresso di Verona perché sono freneticamente spinti dall’odio. Organizzano manifestazioni per negare ad altri di dire quello che pensano. Ma c’è una larga Italia che da questi tre giorni esce rafforzata nei propri convincimenti ed andrà avanti. Sarà chi continua a seminare veleno nella società ad essere sconfitto.
Dio, patria, famiglia. Per Repubblica Meloni cita il fascismo, ma il motto risale a Mazzini, scrive domenica 31 marzo 2019 Vittoria Belmonte su Secolo d’Italia. Alcuni giornali hanno fatto notare che a Verona l’applausometro lo ha vinto Giorgia Meloni rispetto a Matteo Salvini. Dettagli. Altri giornali sono stati colpiti da particolari diversi, meglio se utili a “demonizzare” l’avversario. Repubblica, per esempio, ha messo in rete un video dell’intervento di Giorgia Meloni a Verona così titolato: “Meloni cita il fascismo: difenderemo Dio, patria e famiglia“. Il lettore sprovveduto, o quello che si abbevera alle fandonie storiografiche di Monica Cirinnà, crederà che effettivamente Meloni abbia fatto riferimento a un motto fascista. Del resto il giornale di Enrico Mentana, Open, aveva rispolverato la biografia del gerarca Giovanni Battista Giuriati per dimostrare che il motto odiato dalla sinistra risale al bieco Ventennio. In realtà Giuriati raccomandava obbedienza a Dio e alla Patria (la famiglia era esclusa dalle sue raccomandazioni). Ma allora, con buona pace di Repubblica e di Monica Cirinnà, chi è stato l’ideatore della triade che oggi ispira la destra sovranista? Angelo Panebianco, in un editoriale del 2016 sul Corriere della sera, spiegava che l’origine dell’espressione “Dio, patria e famiglia” risale addirittura a Giuseppe Mazzini. Scriveva Panebianco: «Mazzini, spirito imbevuto di religiosità, pensava a una nazione la cui saldezza fosse assicurata da un solido ancoraggio a valori comunitari e nella quale la cittadinanza non fosse solo un catalogo di diritti ma anche un insieme di doveri verso i consanguinei, verso la patria, verso Dio». La formula “Dio, patria e famiglia” rinvia «a un ideale di “buona società” nella quale le virtù civiche sono trasmesse da una generazione all’altra grazie al calore e alla stabilità dei rapporti famigliari, sono sostenute da salde credenze religiose e sono indirizzate a tutelare il benessere, materiale e spirituale, della comunità allargata (la patria). Quelle virtù civiche, inoltre, guidano, dandole un senso e una prospettiva, la libertà personale». Motto risorgimentale e non fascista, che il regime mussoliniano semmai riprese e amplificò nell’ambito della sua dottrina di uno “Stato organico”. Repubblica e la Cirinnà si rassegnino dunque anziché continuare a propagandare bufale storiche.
Vittorio Feltri, messaggio ai gay contrari al Congresso di Verona: "L'ano, per quanto rispettabile...", scrive il 29 Marzo 2019 su Libero Quotidiano. Si apre il discusso Congresso mondiale delle famiglie a Verona. E dopo le polemiche dei giorni scorsi sollevate da chi vuol tappare la bocca al fronte anti-aborto, ecco quella legata al feto di gomma distribuito come gadget. Il clima, insomma, rimane infuocato. E sulle polemiche che colpiscono il congresso, su Twitter, interviene Vittorio Feltri. Dritto al punto, come sempre nessun giro di parole. Scrive il direttore di Libero: "Il convegno sulla famiglia che si svolge a Verona è osteggiato dai gay e generi affini, i quali non hanno ancora capito che tutta l'umanità è venuto al mondo grazie alla vagina e a un pene che l'ha fecondata. L'ano, per quanto rispettabile, non ha mai procreato", conclude il direttore. Difficile smentirlo.
A CHI FA PAURA LA FAMIGLIA? FELTRI SUL CONVEGNO OSTEGGIATO DA “GAY E GENERI AFFINI”: “E' IMPOSSIBILE SOVVERTIRE I CRITERI DELLA NATALITÀ. OGNI ESSERE VENUTO AL MONDO È USCITO DA UNA VAGINA FECONDATA DA UN PENE. L'ANO, UTILISSIMO PER ALTRE FUNZIONI, NON HA PARTORITO MAI UNA CREATURA DA AMARE…”
VITTORIO FELTRI per Libero Quotidiano il 30 marzo 2019.
L' esaltazione e la sacralizzazione della famiglia contraddicono la realtà e vanno evitate per non scadere nel ridicolo. La prima unione tra uomo e donna fu teatro di una tragedia che ci ha dato una lezione di cui non bisogna perdere memoria: Caino uccise il fratello Abele. E nacque il detto: fratelli coltelli. Mica male come inizio. Nonostante questo c' è chi ama talmente tanto la famiglia da averne due o tre. Un fenomeno simile alla multiproprietà considerata legale. Attorno al focolare domestico succedono le peggiori cose: stupri, ammazzamenti, mogli bruciate, bambini buttati giù dal quinto piano, violenze di ogni tipo. L' idea di organizzare un convegno nazionale sul matrimonio potrebbe quindi contrastare con quanto accade nella pratica. Ma attenzione. Non esiste alternativa al classico connubio che genera la prole, e lo sforzo di migliorarne le condizioni non è un esercizio vano. I convenuti nella città veneta sono consapevoli, presumo, che il proprio tentativo di proteggerlo e di agevolarne i compiti è arduo. Sanno che il nucleo basilare della società è gravato da mille difficoltà. E il loro obiettivo non è quello di risolvere tutti i suoi problemi; puntano bensì a rendere sopportabile l' esistenza tra i coniugi che hanno scelto di mettersi insieme anche allo scopo di generare figli. La situazione è complessa: il prezzo delle case non è alla portata di chiunque, gli affitti sono esorbitanti, le spese condominiali uccidono i bilanci, gli asili nido sono cari, la vita in città comporta oneri pazzeschi. Poi ci lamentiamo poiché le culle sono vuote. Ma per riempirle servono capitali indisponibili alla gente comune. In più le famiglie vengono giudicate forme antiche di aggregazione e sono considerate inattuali, accusate di essere superate e attaccate quali nemiche della modernità. Oggi sono di moda le unioni civili, o meglio incivili, fra transessuali, lesbiche e persone dello stesso sesso, contro le quali non abbiamo da obiettare. Tuttavia non comprendiamo per quale motivo certi individui fuori dagli schemi tradizionali ce l' abbiano con i mortali ordinari solo perché si riuniscono in assemblea a Verona allo scopo di discutere sui destini di chi abbia scelto di percorrere le vie dei padri e dei nonni. Io non so se i gay e generi affini siano deviati oppure no. Non me ne importa niente delle loro preferenze né intendo ostacolarli nella realizzazione dei desiderata. Sono liberi di agire nel modo che preferiscono. Ci mancherebbe altro. Ciononostante non possono pretendere che l' umanità si adegui a tendenze minoritarie e discutibili. Forse dimenticano che ogni essere venuto al mondo è uscito da una vagina fecondata da un pene, e che è impossibile sovvertire i criteri della natalità. L' ano, utilissimo per altre funzioni, non ha partorito mai una creatura da amare.
"Noi trattati come terroristi" Il riscatto delle maxi famiglie. Il giorno dell'orgoglio dei genitori con tanti figli: siamo controcorrente, ma il mondo ha bisogno di eroi come noi, scrive Stefano Filippi, Sabato 30/03/2019, su Il Giornale. Sono un migliaio, vengono da una ventina di Paesi e non hanno l'aspetto di «superfamiglie» o di pericolosi estremisti. Non applaudono a comando e hanno la pazienza di aspettare fino alle 14,30 prima di alzarsi per la pausa pranzo. Gente normale. Forse è proprio questa normalità che infastidisce chi contesta i partecipanti al Congresso delle famiglie. In platea i toni del Congresso non sono quelli travisati dall'esterno. Come ha detto il sindaco di Verona, Federico Sboarina, «la famiglia è una cellula fondamentale della società, ma è trattata come una cellula terroristica». Giovanna Della Valle è una mamma di tre figli. «Ho studiato, ho lavorato in un'azienda e mi sono sposata racconta -. Per un po' ho cercato di conciliare la famiglia e l'impiego. Quando non ce l'ho fatta più ho avuto la fortuna di poter scegliere e sono rimasta a casa». La fortuna è un marito imprenditore che riusciva a mantenere tutti. «Certo, e sono qui perché tantissime donne non hanno questa fortuna, non possono esercitare il loro diritto di scelta, e lo Stato glielo deve consentire». Ma così non si è chiusa una carriera? «No, quando i figli sono diventati grandi ho ripreso a lavorare gestendo un'azienda agricola. Alle giovani dobbiamo dire che è sempre possibile reinventarsi: non soffocate nel lavoro a scapito dei figli». C'è quasi una gara a rivendicare la famiglia più numerosa. La nonna del governatore veneto Luca Zaia aveva 11 figli più altri 6 adottati. La brasiliana Angela Vidal Gandra da Silva, segretario generale del ministero delle Donne, ha 6 fratelli, e sua sorella ha 6 figli: «Mio papà diceva che la famiglia è una scuola d'amore». L'ambasciatore ungherese presso la Santa Sede, Edoardo d'Asburgo-Lorena, pronipote di Francesco Giuseppe e della principessa Sissi (erano i suoi bisnonni), ha 6 figli dai 10 ai 23 anni: «Dobbiamo raccontare storie positive, perché non si può contestare l'esperienza». Jacopo Coghe, 34 anni, vicepresidente del Congresso, di figli ne ha 4, tra i 7 mesi e i 7 anni. «Nei primi due anni di matrimonio non riuscivamo ad averne - spiega -, quando sono arrivati abbiamo capito che sono un dono, non un diritto. Mia moglie non lavora, sta con loro. È una scelta educativa, fatta consapevolmente, ed è contentissima. È meraviglioso sentirsi parte della creazione, generare nuova vita, lo dico da credente. Ma per chi non crede, avere figli è generare futuro, fare la storia, garantire la continuità. È il primo luogo in cui ci si misura con l'altro, si sperimenta la solidarietà e l'aiuto reciproco. Mi rendo conto che sposarsi e avere figli oggi è un sacrificio, tutto rema contro, la società, la cultura. Occorre coraggio, ma il mondo ha bisogno di eroi che vanno controcorrente». Maria Rachele Ruiu e Stefano Buda (nella foto) hanno meno di trent'anni. Lei era sul palco a presentare il Family Day il 30 gennaio 2016 al Circo Massimo di Roma. A un certo punto dal pubblico si leva un cartellone: «Ruiu sposami». Lo impugnava lui. Non si erano mai visti, soltanto sentiti al telefono perché entrambi coinvolti in comitati per la famiglia. Dopo un anno e mezzo si sono sposati e dopo altri 12 mesi hanno avuto un bimbo, Michele. «Nella famiglia si impara la fiducia - dicono -. C'è una promessa di bene per sempre e si costruisce su questa promessa che va rinnovata ogni giorno. Vale la pena spendersi per l'altro, non è vero che i sacrifici non hanno senso». Che cosa direste a chi non vuole figli per non gettarli in un mondo brutto? «Che vivere è bello. Quando nasce un bambino vuol dire che Dio non si è stufato del mondo. E se anche il mondo di oggi fosse brutto, soltanto i nostri figli potranno cambiarlo».
Humour negroide, scrive il 29 marzo 2019 Augusto Bassi su Il Giornale. «Può venire dalla pubblicità la critica più devastante al Congresso Mondiale delle Famiglie? Può sì, con lo humour nero di un’azienda di pompe funebri», scrive Enrico Mentana sulla propria pagina Facebook, in un delirio di ilarità dei suoi seguaci. Al di là dell’opinione sui partecipanti a tale Congresso, è bizzarro che si faccia ricorso alla struttura scheletrica della testa per esprimere ignoranza, superstizione, arretratezza, rozzezza spirituale, pensiero primitivo. E che la cosa crei sollazzo in un tale consesso di civilizzati e antirazzisti militanti, animatori culturali di una delle comunità virtuali più genuine del pensiero progressista. Se infatti osserviamo con attenzione quel teschio, noteremo un significativo prognatismo, camerrinia, assenza di soglia nasale, fronte bassa, arcata dentale sporgente, dolicocefalia evidente e una scatola cranica più piccola. Tutte connotazioni che richiamano i negroidi. L’umorismo che nasce dal riferimento a caratteristiche anatomiche per comunicare qualità morali e intellettuali è reso possibile solo da irremovibili e subcoscienti preconcetti razziali.
CONGRESSO DELLE FAMIGLIE, CRUCIANI: «IO QUI UNA SORPRESA? OGGI MI SENTO UNO DI VOI. Mi sono battuto per anni per cose che voi probabilmente avversate: i matrimoni gay, l'utero in affitto. Ma oggi mi sento uno di voi perchè molti vorrebbero spegnere questo microfono». Il conduttore radiofonico salito sul palco del Congresso non ha nascosto le sue convinzioni ma ha rivendicato la libertà di ognuno ad esprimersi. "Mi sento uno di voi perché oggi molti vorrebbero spegnere il microfono da cui sto parlando".
NEL SEGNO DI CRUCIANI. Fabrizio Boschi per il Giornale il 30 marzo 2019. Le zanzare quest' anno sono arrivate presto. Una ronzava sul palco del congresso delle famiglie di Verona. Il provocatore Giuseppe Cruciani, conduttore radiofonico della trasmissione La Zanzara su Radio24 ha preso la parola, sbalordendo la platea. «Io che non sono come voi, oggi mi sento uno di voi - ha detto - perché molti vorrebbero spegnere questo microfono da cui sto parlando adesso». Proprio a lui che «non ho una famiglia tradizionale, o meglio ce l' ho avuta, e che penso esistano tanti tipi di famiglie».
Cruciani, quali famiglie?
«Almeno tre tipi. L' amore è l' elemento fondamentale che può unire coppie di uomini, di donne e coppie etero».
Ti batti da anni per matrimoni e adozioni gay, aborto, divorzio e pure per l' utero in affitto.
«Sì certo, tutte cose che ho ribadito anche qui, proprio perché non si può pensare tutti allo stesso modo, ma tutti hanno il diritto di esprimere il proprio pensiero».
È questo che volevi dire?
«Volevo ribadire che la libertà di parola va difesa sempre, anche quella di persone che hanno idee diametralmente opposte alle tue».
Chi ti ha invitato a Verona?
«Mi sono invitato da solo. Ho chiamato gli organizzatori dicendo loro che mi avrebbe fatto piacere fare un intervento. Non mi hanno nemmeno chiesto di cosa avrei parlato».
Nei giorni scorsi c' è stata una vera e propria campagna di criminalizzazione.
«Infatti, è inaccettabile cercare di far passare per criminali persone che esprimono semplicemente il loro pensiero. Si è cercato di negare la legittimità ad organizzare un congresso di questo tipo, domandando la ragione per la quale il Comune abbia concesso il patrocinio. Danno il patrocino al gay pride, perché non dovrebbero darlo a un convegno che parla di famiglie?».
Di chi parli?
«Le associazioni gay e lgbt di Verona hanno compilato una black list degli hotel dove alloggiano i partecipanti per boicottarli. E il traduttore ufficiale di Fabio Fazio, Paolo Maria Noseda, ha chiesto che si rendesse nota la lista dei traduttori del congresso, non so per farci che cosa».
Un clima d' altri tempi.
«Ma infatti, io non capisco. Gente che si dichiara antifascista e poi vorrebbe che esistesse un pensiero unico su certi temi. Il pensiero unico è una cosa aberrante, è bello dividersi su tutto, pensarla in maniera diversa, confrontarsi nel dibattito pubblico. Anche gli antiabortisti hanno ragione di esistere».
A proposito, tra i gadget del congresso c' è anche un feto di gomma.
«Non sono certo io che ho portato animali morti in studio a fare la morale, è ovvio che se uno è antiabortista cerca di scioccare il pubblico con gli strumenti di propaganda che ha. Tanto la legge 194 non verrà mai cambiata, come è giusto che sia. Io sono contro i medici obiettori di coscienza che, secondo me, violano qualcosa che è previsto dalla legge».
E della famiglia tradizionale Lega-M5s che ne pensi?
«È un matrimonio d' interesse che potrebbe anche rompersi ma ricordo che spesso sono più duraturi questi di quelli d' amore».
MAGLIE: «TENDENZA MONDIALE CONTRO LA FAMIGLIA NATURALE». E BOLDRINI SBOTTA. Da Open on line il 30 marzo 2019. A poche ore dall'inizio del Congresso delle Famiglie di Verona, durante Piazzapulita su La7, Maria Giovanna Maglie e Laura Boldrini hanno avuto un acceso "scambio di vedute" sul tema della famiglia. La Maglie è subito intervenuta nel discorso dicendo che molti relatori della tre giorni veronese sono stati ingiustamente etichettati sulla base di dichiarazioni estrapolate e ciò non è corretto. «Non dico questo per giustificare la mia presenza a Verona» - ha aggiunto - «Se a qualcuno non piacciono gli omosessuali, come ad altri non piacciono le famiglie con bambini deve essere libero di dirlo. Io sono per la libertà di espressione». La Maglie ha poi continuato il proprio discorso sostenendo che «esiste una visione contro la famiglia naturale, una visione omocentrica che mi spaventa. Credo ci sia una tendenza mondiale a rovesciare alcuni concetti che invece vanno recuperati. O meglio: se non li vuoi recuperare perché non ti piacciono e non te li vuoi più tenere, consenti a quelli a cui piacciono di tenerseli. Consenti loro di sposarsi, di fare figli come uomo e come donna. Consenti a una donna che non vuole lavorare di poter restare a casa, di sentirsi utile nella società e realizzata, se questo è il suo desiderio». Pronta la risposta di Laura Boldrini: «Io credo non ci sia nessuna aggressione alla famiglia tradizionale. Ma quando mai! Ma chi sta aggredendo la famiglia tradizionale? Se due persone si vogliono sposare - anche io mi sono sposata e poi divorziata - è legittimo», ha aggiunto la deputata di LeU ed ex presidente della Camera, che ha poi concluso: «Chi dice a una donna di non fare figli? Nessuno. Casomai una donna non fa figli perché non lavora, e allora se vogliamo abbattere la denatalità in Italia diamo un lavoro alle ragazze».
ITALIANI, FIGLIATE! Lunedì, 25 marzo 2019 da Casa Nino Spirlì, Calabria. Potessi farlo io, Patria mia! Ti arricchirei di almeno dieci buoni Italiani. Ma sono omosessuale, e coscienzioso. Non posso e non devo caricare sulle spalle di figli che non mi spettano il “peso sociale e morale” di una mia irrinunciabile necessità. Certamente, so che amo e che potrei allevare la mia prole con la stessa amorevole attenzione che a me hanno assicurato i miei Genitori. Ma la scelta di non avere a fianco una donna, per condividere sentimenti e passioni, bensì, eventualmente, un uomo, condiziona profondamente e inesorabilmente la mia possibilità di diventare padre. Pazienza! Cercherò di continuare ad essere un buono zio e prozio di nipoti e pronipoti. In una sana e santa Famiglia, serviamo anche noi. Già, la Famiglia sia Sana e Santa, Regolare, Naturale. Per come Natura comanda o, per chi crede ancora, per come Dio vuole. Sì, la Natura, che per perpetuare ogni vita pretende l’incontro del maschio con la femmina. Lo esige per le piante e per gli animali. Anche per i metalli, se vogliamo dirla tutta: perché, anche fra essi, solo gli opposti si attraggono. E fra le specie animali? Non ha bisogno del maschio, una gorilla, per figliare? E fra i leoni non è lo stesso? E i pesci nelle acque? E gli uccelli dell’aria? E quelli che strisciano, o saltano, o volano, non hanno bisogno del seme del maschio e dell’ovulo della femmina? Così come tutto il resto del Creato, anche l’amministratore per conto del Creatore ha il dovere di seguire la norma e formare Famiglia per come è scritto nei rotoli e nelle carni dell’Uomo stesso. Dalla notte dei tempi le cose terrene vanno così, e non sarà una infornata venuta male di Umanità a sovvertire l’Ordine. Come da sempre (e per sempre), la Natura si riprenderà con paziente prepotenza ciò che qualche stupido tenta di levarle. Non hanno, le erbe, cancellato i deserti? E, dove non servivano più, non ha la sabbia ricoperto le foreste? E il mare? Non ha affogato le cime dei monti più alti? E la terra non ha tremato e sepolto, selvaggiamente ignara delle lacrime, quando ha preteso recuperare silenzi e solitarie rinascite? La Norma è depositata nel cuore dell’Eterno, non certamente contenuta fra le scartoffie di un qualche partito politico, o di una arrogante associazione, profit o no profit. E la Norma dell’Eterno comanda, senza possibilità di interpretazione o appello, che a formare la Famiglia siano un maschio e una femmina. Che si congiungano per attrazione sentimentale e usino la passione per moltiplicarsi e popolare la Terra. Perché l’Infinito ha provveduto a tutto: anche all’Amore, strumento necessario per la dedizione reciproca; e alla sensuale complicità delle carni, che, infuocate da stimoli misteriosi, preparano il talamo. Nulla è a caso, nel volere di Dio e nell’azione della Natura. Tutto collabora a che la Vita si perpetui. Vani e disperati, inutili e orrendi, i tentativi di sostituire la Regola eterna con la stupida, arrogante e finita scienza umana, la quale, è, sì, cosa buona se si consegna a servizio, ma è destinata a soccombere se pensa di sostituire il Creatore del Tutto. Come può, infatti, un freddo vetrino di laboratorio somigliare al caldo grembo materno? E come può, la povertà biecamente sfamata a suon di monete di una povera donna disperata, essere la radice di una futura vita felice? O il ventre di una spietata fattrice a comando, sostituire la dolcezza dell’utero di una madre vera? No, non è così che si “forma” una Famiglia. Non con i genitori a paio, anziché a coppia. Non con i soldi, non con le leggi imperfette degli uomini imperfetti, non con i cortei e le bestemmie scarabocchiate sui cartelloni e sulle magliette. La Famiglia si costruisce con i respiri all’unisono, con gli sguardi d’intesa, coi palpiti del cuore, e con le ansie condivise e le speranze nell’avvenire. La Famiglia si costruisce mettendosi in attesa del dono della Genitorialità. E più e più volte. Per regalarsi la gioia dei figli che arrivano, che diventano fratelli e sorelle, per diventare, poi, Padri e Madri di altri figli…La Famiglia ha bisogno di speranze e progetti. Ha bisogno di culle piene. Di case allietate da giochi d’infanti e movimentate da piccole ansie quotidiane di adolescenti. Di nonni felici e impegnati. Di vita dedicata…FIGLIATE, Italiani! Voi che potete e dovete farlo. E fatelo più volte. E fateli nascere, i vostri figli. Tanto da annullarvi per loro. Solo così, un giorno, i vostri figli sapranno ricompensarvi con la compagnia, l’assistenza, le cure. E, infine, con le preghiere ricche di ricordi. FIGLIATE, ITALIANI!
La famiglia è un bene rifugio insostituibile. Le polemiche sul Congresso di Verona sono pretestuose. Mai come oggi la famiglia resta nucleo fondamentale della società, scrive Marcello Veneziani il 2 aprile 2019 su Panorama. Una tempesta di fake news si è abbattuta sul Congresso mondiale delle famiglie in programma lo scorso fine settimana a Verona. Mai vista una concentrazione così massiccia di false notizie, giudizi sprezzanti, boicottaggi, terrorismo e intimidazioni. La famiglia trattata come un nucleo eversivo, i suoi sostenitori presentati come negazionisti delle violenze alle donne, omofobi e sessisti, nemici della donna che lavora, fautori della penalizzazione dell’aborto, fascisti...No, lasciamo stare le polemiche false e volgari, con corredo di slogan, cartelli e striscioni offensivi di uno schieramento ampio che va dai radicali ai progressisti, dal Pd ai grillini, più la stragrande maggioranza dei media, e chiediamoci piuttosto cos’è oggi la famiglia e perché è necessario sostenerla. Per cominciare parliamo di famiglia naturale e non di famiglia tradizionale, altrimenti siamo già dentro uno schema che contrappone la famiglia moderna alla famiglia «all’antica». La famiglia non è solo una convenzione cristiano-borghese ma appartiene a ogni civiltà finora conosciuta e al diritto naturale. Da Aristotele che la definiva «comunità costituita dalla natura» a Buffon che nel Settecento la riteneva «lo stato naturale dell’uomo», passando perfino per Rousseau che nel Contratto sociale definisce la famiglia «la più antica di tutte le società e l’unica naturale», la famiglia è la struttura naturale, prima che civile e culturale, su cui si fonda ogni società. Perfino il rivoluzionario Sorel e il socialista Proudhon difendevano la famiglia (criticando il femminismo). Alain de Benoist nota nel suo Famiglia e società (ed. Controcorrente, 2013) che la famiglia è addirittura più antica dell’uomo. Certo è più antica del singolo. Oggi sappiamo che la famiglia è la prima società in crisi, dilaniata al suo interno, attaccata all’esterno. Ma sappiamo pure che è l’unica struttura che, pur lacerata, costituisce il primo e più importante rifugio per ogni disagio: disoccupazione, bisogno abitativo, assistenza a vecchi, malati e bambini, sostegno e cura. La famiglia ammortizza le povertà e le disparità sociali, i contrasti, le violenze, gli sfratti. Migliaia di famiglie sono luoghi in cui si esercitano violenze e abusi. Ma milioni di famiglie oggi sono il bene-rifugio insostituibile. Vere ambedue e anche le loro proporzioni: migliaia le prime, milioni le seconde. Oltre alla famiglia-rifugio e alla famiglia-compensazione che ammortizza le contraddizioni sociali, la famiglia è anche il primo esempio di rete incarnata, in cui l’interconnessione produce effetti reali e in generale benefici. Oltre il familismo amorale di cui scriveva Edward C. Banfield negli anni Cinquanta c’è un familismo virtuoso che è una rete di protezione e di collegamento primaria e salutare. Resta il fatto che i matrimoni hanno oggi una durata media sempre più breve e tendono a diventare minoranza i matrimoni che durano una vita. Dobbiamo abituarci a considerare prioritaria e indissolubile la famiglia verticale, e variabile la famiglia orizzontale: quel che non può mai essere revocato è lo status di padri, di madri, di figli, e dunque il loro rapporto fondato sulla natura e sul destino, mentre può essere revocato lo status di coniugati e l’unione di coppia. Possono aprirsi i peggiori conflitti tra genitori e figli, o può subentrare il gelo e l’indifferenza; nondimeno quel legame è genetico e indissolubile, e alla fine ritorna... Drammatico resta il tema della natalità, dove viviamo tra due patologie opposte: la paurosa crescita demografica nel sud del mondo e la deprimente denatalità italo-europea. È curioso notare che si è invertito il rapporto tra Nord e Sud Europa: le popolazioni cattoliche e mediterranee, tradizionalmente prolifiche, sono state scavalcate con i figli dalle popolazioni nordiche e protestanti. Contano molto anche le strutture a supporto delle famiglie. La crisi delle nascite avvenne a partire dalla metà degli anni Sessanta; in quegli anni cambiò qualcosa radicalmente e il Sessantotto lo sancì fragorosamente. Da allora qualcosa si sfasciò e si capovolse l’ideologia dominante; la figura paterna fu abbattuta, la famiglia fu mortificata, la fertilità diventò un male, la natura, come i legami, furono visti come prigioni da cui liberarsi, l’utero in affitto e la fecondazione artificiale sono pratiche consentite, soprattutto per agevolare le coppie omosessuali, il sesso perse i suoi confini, il delitto passò dall’aborto a chi lo impedisce, i transgender. Così la famiglia diventa una struttura arcaica, primitiva e chi la difende è sfigato o medievale (Di Maio dixit). Eppure la famiglia è il luogo primario della cura che accompagna le fasi e i momenti decisivi della vita: la nascita, la morte, il lutto, i ricordi, i segreti, l’infanzia. L’ambito in cui siamo più noi stessi, il luogo dell’autenticità, la prima scuola di vita, la prima società. La famiglia è premura, amore gratuito e incondizionato verso qualcuno non per quel che ha o che fa, ma solo perché è, semplicemente è: tuo figlio, tua madre... Famiglia è natura, realtà, destino, affetti assoluti. È la nostra immortalità terrena, la nostra tradizione vivente...La famiglia è riconosciuta come cardine della società dalla Costituzione (all’articolo 29) e la famiglia cristiana è uno dei fondamenti del nostro vivere comunitario. Giovanni Paolo II parlò del legame organico tra la famiglia e la nazione; anche Monica Cirinnà considera famiglia, nazione e religione organici, ma nel senso dei rifiuti. Il cerchio si chiude. Eppure la famiglia resta, a ricordarci la nostra origine, la nostra vita vera e il nostro avvenire.
Papa Francesco, parole pesantissime sul Congresso delle famiglie: "Cosa non condivido", scrive il 30 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Sul Congresso della famiglia di Verona, Papa Francesco mostra di nutrire qualche dubbio. Lo fa nel corso del volo che lo ha portato a Rabat, parlando con i giornalisti: "Verona? Non mi sono occupato di Verona. Ho letto...". Poi, però, aggiunge: "La risposta del Segretario di Stato mi è sembrata giusta, equilibrata e giusta". Il riferimento è alle parole di pochi giorni fa di Pietro Parolin, nei fatti una presa di distanza: "Siamo d’accordo sulla sostanza, c’è qualche differenza sulle modalità". La "sostanza" è chiaramente il valore della famiglia. Non sono piaciuti i modi e lo stile del Congresso. E Papa Francesco, di fatto, ha confermato la distanza rispetto alle modalità del raduno di Verona. Bergoglio si rifiuta di incontrare Salvini per la sua linea sui migranti. Bergoglio è disponibile ad incontrare atei abortisti, come Emma Bonino, o islamisti che hanno aiutato l'Isis come Erdogan. Bergoglio riceve tutti, tranne cattolici e cristiani.
Congresso della famiglia, il vescovo di Verona Zenti attacca: "Non abbiamo bisogno di talebani", scrive il 31 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Il vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Zenti, ha preso le distanze dal Congresso mondiale per la famiglia che si è svolto proprio nella sua diocesi. Intervistato da Repubblica, il vescovo ha deciso di andare fuori città nei giorni in cui si svolgeva l'evento: "Sono in montagna a celebrare una messa per persone autistiche". Il giudizio del monsignore sul congresso è durissimo, ben più drastico di quanto già dichiarato da papa Francesco: "È un contenitore dove è entrato di tutto. In effetti qualcuno si è spinto un po' troppo in là. Sono contrario alle spinte eversive, danneggiano la sostanza". Zenti ha comunque partecipato al congresso partecipando alla giornata di apertura, durante la quale ha ribadito che esiste una sola famiglia, "padre, madre e figli", e che "l'aborto è un delitto". Ma sui partecipanti a quell'evento non usa mezzi termini: "Non abbiamo bisogno di talebani della famiglia. Abbiamo bisogno di testimoni, della famiglia".
Don Di Noto lancia l'allarme pedofilia: "In Europa venti milioni di bimbi abusati". L'accusa choc del sacerdote: «Ci sono potenti lobby che nascondono la realtà», scrive Riccardo Cascioli, Lunedì 01/04/2019, su Il Giornale. «Solo in Europa ci sono 20 milioni di bambini abusati, e se il rapporto di abuso è 1 a 1 abbiamo 20 milioni di predatori di bambini. E soprattutto ci sono potenti lobby che vogliono normalizzare la pedofilia». È la choccante denuncia che dal palco del Congresso mondiale delle Famiglie, a Verona, lancia don Fortunato Di Noto, il sacerdote siciliano che trent' anni fa ha fondato un'associazione, Meter, per dare la caccia ai pedopornografi. In una giornata dominata dalla presenza a Verona di uomini politici, e relative manifestazioni di protesta, il Congresso delle famiglie prosegue anche e soprattutto sui contenuti e approfondimenti legati proprio al tema della famiglia. Ma tra tutti gli interventi sicuramente quello di don Di Noto è quello che maggiormente colpisce e lascia sconcertati: tre milioni sono i siti nel mondo che in tutti questi anni don Di Noto ha denunciato alle pubbliche autorità con tanto di documentazione, ma ben poco è stato fatto per colpire questo gigantesco business giocato sulla pelle dei più deboli, i bambini su cui le violenze subite «restano come un marchio indelebile». «Non c'è neanche l'accordo sul fatto che la pedofilia sia un crimine ricorda don Di Noto E fino a quando non saremo d'accordo sulla realtà dei fatti, e cioè sul fatto che la pedofilia non è una malattia, ma un crimine che alimenta un'industria molto fiorente, allora non riusciremo a fare un passo avanti nella lotta a questa nefanda realtà». «Internet sta moltiplicando il materiale pedopornografico, ci sono siti che offrono pacchetti completi, la possibilità di comprare bambini in ogni parte del mondo, c'è un giro d'affari mostruoso», prosegue il sacerdote siciliano. La fascia d'età preferita è quella tra gli 8 e i 12 anni, poi segue quella dai 3 ai 7 insieme a quella da 0 a 2. La stragrande maggioranza del traffico avviene nel deep web, il lato oscuro della rete, una zona sommersa molto difficile da individuare ed esplorare e i contenuti vengono custoditi «sulle piattaforme di file sharing che permettono scambi veloci, a tempo, spesso anonimi». Ma la rete non è solo il luogo di commercio di materiale pedo-pornografico, serve anche a «diffondere e promuovere la pedofilia, c'è un tentativo di normalizzarla», denuncia il fondatore di Meter mostrando il materiale propagandistico che gira nella rete, «addirittura ogni anno la pedofilia viene celebrata in una giornata mondiale dei pedofili». E a fronte di questa attività ramificata e ben organizzata stanno «la pochezza e la debolezza delle azioni di contrasto: i politici sono distratti, non la vedono come una priorità, non c'è un diritto uniforme in materia tra i vari paesi, e anche i media non ne parlano: il 21 marzo ha affermato don Di Noto abbiamo presentato il nostro rapporto annuale. A parte i soliti giornali cattolici, nessuno ne ha parlato. Nessuno». «Ma ricordate: il silenzio e l'indifferenza uccidono».
Il Papa a Loreto: "La famiglia fondata sul matrimonio tra uomo e donna è insostituibile". Bergoglio in visita alla Santa Casa: "Nella delicata situazione del mondo di oggi bisogna ribadirne la grandezza al servizio della vita e della società". E firma l'esortazione apostolica per i giovani, scrive Paolo Rodari il 25 marzo 2019 su La Repubblica. Parla della famiglia "fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna" che "assume un'importanza e una missione essenziali" nella "delicata situazione del mondo odierno". "È necessario - dice - riscoprire il disegno tracciato da Dio per la famiglia, per ribadirne la grandezza e l'insostituibilità a servizio della vita e della società". E a proposito delle malattie che feriscono le famiglie, ricordando che "i malati devono essere accolti dentro la famiglia", chiede a braccio: "Per favore non cadiamo nella cultura dello scarto che viene proposta da molteplici colonizzazioni ideologiche". Francesco arriva a Loreto, nella basilica della Santa Casa, uno dei luoghi di culto mariano tra i più visitati nel mondo: si dice che nel 1291, quando i crociati furono espulsi definitivamente dalla Palestina, le pareti in muratura che sarebbero quelle entro le quali abitò Maria a Nazaret furono trasportate "per ministero angelico" prima in Illiria (a Tersatto, nell'odierna Croazia) e poi nel territorio di Loreto (10 dicembre 1294). Oggi, in base a nuove indicazioni documentali, ai risultati degli scavi archeologici a Nazaret e nel sottosuolo della stessa Casa e a studi filologici e iconografici, ci sarebbe qualche conferma circa il fatto che le pietre delle mura siano state trasportate a Loreto su nave, per iniziativa della nobile famiglia Angeli, che regnava sull'Epiro. Il Papa, facendo uno strappo alla regola firma qui, e non in Vaticano come solitamente avviene, l'Esortazione apostolica post-sinodale dedicata ai giovani (verrà pubblicata soltanto nei prossimi giorni). E dopo aver sostato a lungo in silenzio e aver celebrato l'eucaristia nella Casa, si rivolge ai fedeli con un lungo discorso. Francesco sosta a lungo nella Casa in preghiera, primo Papa a celebrare l'eucaristia nel santuario lauretano da 160 anni a questa parte. Non accadeva dai tempi di Pio IX. Loreto, per la Chiesa, è luogo di pellegrinaggio presso il quale i fedeli si recano per ricevere benefici spirituali. Fra loro, dice Francesco, "i giovani, le famiglie, i malati". "Tra questi mi metto anche io - dice papa Bergoglio - e ringrazio Dio che me lo ha concesso proprio nella festa dell'Annunciazione". A Loreto tanti giovani arrivano ogni anno a pregare per ricevere indicazioni sulla propria vocazione. "Per questo - spiga Francesco - ho voluto firmare qui l'Esortazione apostolica frutto del Sinodo dedicato ai giovani. S'intitola "Christus vivit - Cristo vive". Un testo che segue quanto emerso al Sinodo dello scorso ottobre, in particolare con i suoi tre momenti dedicati all'ascolto della Parola-progetto di Dio, al discernimento, alla decisione. Loreto è per il Papa "un luogo privilegiato dove i giovani possono venire alla ricerca della propria vocazione". Per questo chiede ai frati cappuccini "il servizio di estendere l'orario di apertura della Basilica e della Santa Casa durante la tarda serata e l'inizio della notte quando ci sono gruppi di giovani che vengono a pregare e a discernere la loro vocazione". Per il Papa la Casa di Loreto "è anche la casa della famiglia", dove riscoprire l'importanza della famiglia fondata sul matrimonio tra un uomo e una donna". "Famiglia e giovani - dice ancora Francesco - non possono essere due settori paralleli della pastorale delle nostre comunità, ma devono camminare strettamene uniti, perché molto spesso i giovani sono ciò che una famiglia ha dato loro nel periodo della crescita".
ATTO DI (POCA) FEDEZ. Serena Granato per il Giornale il 5 aprile 2019. Dopo la testimonianza rilasciata dall'ex-corteggiatrice di Uomini e donne, Giulia De Lellis, anche la coppia formata da Fedez e Chiara Ferragni ha tenuto a rilasciare alcune dichiarazioni, sul conto del tanto discusso "Congresso sulla famiglia", dove personalità di spicco, soprattutto dal mondo della politica, hanno rivendicato i diritti e il valore della famiglia tradizionale. Il tanto discusso Congresso di Verona sulla famiglia tradizionale si è tenuto dal 29 al 31 marzo e, al suo arrivo nella città blindata, Matteo Salvini ha dichiarato di pensarla come Papa Francesco, di badare cioé al contenuto del Congresso pro-famiglia più che alla forma, e che la legge 194 non sia in discussione. Dal canto suo, il Vicepremier ha chiarito: "Non sono qui per togliere qualcosa a qualcuno, non si tocca niente a nessuno. La 194 non è in discussione. Ma continuo a ritenere che un bimbo debba avere una mamma e un papà". Dopo le dichiarazioni rilasciate dalla web influencer di Uomini e donne, Giulia De Lellis, a margine del World Congress of Families, anche Fedez ha tenuto a riportare il suo punto di vista, e lo ha fatto per commentare un servizio di Fanpage sul Congresso. "Ho visto un servizio sul congresso delle famiglie di Verona, dove le persone intervistate si esprimono sul tema omosessualità, asserendo tutte alla stessa maniera che l’omosessualità è sbagliata perché contro natura. Fanno l’equazione ‘sbagliato perché contro natura’. Io rimango sempre piacevolmente stupito nel vedere dei cattolici estremisti fare questo tipo di equazione. Perché non è forse contro natura vedere e credere in un uomo che cammina sull’acqua, che moltiplica il pane e i pesci, che risuscita la gente morta e poi resuscita pure lui stesso? Quindi mi chiedo, dai tempi dell’Opus Dei ad oggi, non riuscite a trovare delle argomentazioni più valide alle str... che dite?". Anche la moglie dell'artista, Chiara Ferragni, ha voluto commentare. Per la bionda influencer, "famiglia" equivale a un gruppo di persone che si amano.
IDEOLOGIA CONTRO BIOLOGIA. Ciao Darwin 8: Family Day vs Gay Pride nella seconda puntata. «Omofobi fuori dal tempo». «La natura detta legge»: scintille in tv tra Povia e Luxuria. Nel mirino c’è la famiglia, scrive sabato 23 marzo Lara Rastellino su Il Secolo d'Italia. Le posizioni sono a dir poco antitetiche; le personalità assolutamente all’opposto, e malgrado si parli di amore, il comune denominatore al tema famiglia non è dato dall’affettività, anzi: e lo scontro si celebra in diretta tv nello studio di Ciao Darwin, il programma condotto la Paolo Bonolis. I duellanti chiamati a confrontarsi sul concetto di genitorialità sono Giuseppe Povia e Vladimir Luxuria, rispettivamente alla guida della squadra del Family Day e di quella del Gay Pride. Sono scintille: i colpi sotto la cintura si sprecano, sottolineati dai cori da stadio che si alzano dai banchi alle spalle dei due contendenti. Impossibile trovare la quadra: in tv come tra altri più istituzionali spazi…
Ciao Darwin, duello tv sul tema famiglia: lo scontro è tra Povia e Luxuria. Al centro del dibattito che degenera ovviamente subito in scontro aperto a favore di camera, c’è ovviamente anche il prossimo Congresso Mondiale sulla Famiglia che si svolgerà a Verona la prossima settimana e che ha già indotto i detrattori del classico schema madre, padre e figli a polemiche al vetriolo. La tv, specchio della realtà sociale, non poteva certo sottrarsi al confronto: arbiter non proprio elegantiarum, Paolo Bonolis, che pur cedendo a qualche scivolata sulla buccia di banana del politically correct, non si esime comunque dal garantire una certa imparzialità di fondo tra i due protagonisti in studio: quel Povia che a sanremo di qualche edizione fa ha portato in scena “Luca era gay”, e Luxuria, ex deputata transgender che ha eletto principi e diktat Lgbt a bandiera personale da sventolare in tv in nome della causa gender. Un duro confronto quello di ieri sera, che non si è limitato alle performances televisive, ma che è proseguito sul Corriere dove i due sono stati interpellati per una intervista doppia su omosessualità e famiglia che definire “scoppiettante” è dire poco. «Noi non contestiamo il sentimento né lo condanniamo, perché il sentimento è sacro, ma non si può negare che tutte le teste del mondo esistono grazie a un uomo e una donna. Noi difendiamo non la famiglia tradizionale quanto quella naturale, grazie alla quale l’umanità è potuta progredire nel corso della storia: esordisce Povia». «Gay, lesbiche e trans possono provare amore, che è un nobile sentimento e non può avere una classifica: non esiste un amore più meritorio di un altro. Ovunque c’è amore, rispetto e ascolto, c’è famiglia. Non facciamo famiglie di serie A o B», replica Luxuria.
Nel mirino di Luxuria il Congresso di Verona, Povia replica: il mondo esiste grazie a un uomo e una donna. Uno scontro che, malgrado una evidente diversità di consistenza tra gli argomenti portati avanti dall’una e dall’altra fazione, che a nostro parere si chiude a favore del cantautore toscano, prosegue poi con toni si fanno decisamente più aspri. E allora, se per la ex parlamentare transgender il Congresso di Verona è un «covo di fondamentalisti, omofobi, misogini, fuori dal tempo che vogliono riportare l’Italia al Medioevo. Un convegno in cui spiccano figure che teorizzano la “guarigione” dei gay», per Povia, invece, «la “famiglia naturale”, non tradizionale, è un’istituzione spontanea anarchica, comparsa sulla terra migliaia di anni fa. Non ha mai avuto bisogno di Stati, leggi o parlamenti che ne istituissero le modalità. Parlo di uomo, donna e figli. Poi esistono i sentimenti, non solo tra persone dello stesso sesso ma anche tra amici e amiche per la pelle, per esempio. Molti scordano che tutte le teste del mondo esistono grazie ad un uomo e ad una donna». Per questo il cantante si chiede, quasi retoricamente: «Ma perché oggi, difendere l’ovvio è così rivoluzionario?»…
BONOLIS UNISCE L’UTERO AL DILETTEVOLE. Serena Granato per il Giornale il 24 marzo 2019. Nella puntata di ieri sera Ciao Darwin, il format di Canale 5 condotto da Paolo Bonolis con la collaborazione di Luca Laurenti, si sono scontrate le squadre del "Family Day" e del "Gay Pride". La prima era "capeggiata" da Giuseppe Povia, mentre la seconda era guidata da Vladimir Luxuria. Durante tutta la trasmissione i due leader hanno discusso a lungo sul tema dei diritti agli omosessuali, fino ad arrivare ad un accesissimo scontro sull'utero in affitto. Ma a segnare la puntata è stata l'entrata a gamba tesa di Bonolis a favore delle adozioni per le coppie gay. "Perché i gay non possono mentre le suore sì?", si è chiesto il presentatore. L'ultima puntata di Ciao Darwin è stata vinta dalla squadra "Gay pride" che, ieri sera, si è misurata in diverse sfide con quella del "Family day". Per tutta la serata i contendenti si sono confrontati su tematiche che dividono quotidianamente l'opinione pubblica e la politica. Questa volta, però, anche Paolo Bonolis ha deciso di prendere posizione a favore delle unioni civili e della stepchild-adoption. "Io generalmente non mi schiero - ha detto il padrone di casa - non mi schiero e lascio che le persone parlino. Però certe volte delle domande me le faccio pure io. Qui stiamo parlando di amore nei confronti dei bambini - ha continuato - i bambini hanno diritto all’amore. Ci mancherebbe altro che l’amore non possa provenire da un uomo e da una donna, per l’amore del cielo. Però mi domando - ha, infine, concluso - perché l’amore non può provenire da due uomini o da due donne e invece può essere dato da sette suore? Perché no? Questa domanda me la faccio sempre". Considerazioni personali che hanno letteralmente spaccato il popolo del web.
Da Libero Quotidiano il 24 marzo 2019. Duro scontro tra Vladimir Luxuria e Povia sui gay a Ciao Darwin. Il dibattito politico sulla famiglia tradizionale approda nel programma (trash) di Paolo Bonolis e la situazione degenera velocemente. Povia è il capitano vip della squadra "Family Day", Luxuria quello dei "Gay Pride". Quando in studio si tocca il tema dell'utero in affitto si accende la bagarre. "Sono contro, assolutamente contro quella vergognosa pratica dell'utero in affitto che succede anche tra persone famosissime come Elton John e Ricky Martin - attacca il cantante -. Con questa pratica si sfruttano due donne, una bella e sana per inseminarla a cui viene poi tolto l'ovocita per darlo ad una disgraziata del Terzo Mondo che partorisce e vende il bambino. È mercimonio, è compravendita. I bambini non si toccano!". Luxuria ha reagito con veemenza: "Non ci sto! Davanti alle menzogne non ci sto! Io sono contraria all'utero in affitto che praticano coppie etero che vanno in India. Qui sfruttano le donne che vivono in povere condizioni. Io sono a favore di quelle donne che lo fanno come atto d'amore". "Non esistono donne che fanno questo di loro spontanea volontà", replica Povia. "Se io non posso fare figli e mia sorella vuole fare un atto di amore e altruismo nei miei confronti, che male c'è?", è stata l'ultima parola di Luxuria. Che, per la cronaca, ha vinto la puntata.
Bonolis attacca sulle adozioni: "Perché i gay no e le suore sì?" A Ciao Darwin l'intervento di Bonolis contro l'omofobia. Poi l'apertura sulle unioni civili e sulla stepchild-adoption, scrive Serena Granato, Domenica 24/03/2019 su Il Giornale. Nella puntata di ieri sera Ciao Darwin, il format di Canale 5 condotto da Paolo Bonolis con la collaborazione di Luca Laurenti, si sono scontrate le squadre del "Family Day" e del "Gay Pride". La prima era "capeggiata" da Giuseppe Povia, mentre la seconda era guidata da Vladimir Luxuria. Durante tutta la trasmissione i due leader hanno discusso a lungo sul tema dei diritti agli omosessuali, fino ad arrivare ad un accesissimo scontro sull'utero in affitto. Ma a segnare la puntata è stata l'entrata a gamba tesa di Bonolis a favore delle adozioni per le coppie gay. "Perché i gay non possono mentre le suore sì?", si è chiesto il presentatore.
Paolo Bonolis contro l'omofobia. L'ultima puntata di Ciao Darwin è stata vinta dalla squadra "Gay pride" che, ieri sera, si è misurata in diverse sfide con quella del "Family day". Per tutta la serata i contendenti si sono confrontati su tematiche che dividono quotidianamente l'opinione pubblica e la politica. Questa volta, però, anche Paolo Bonolis ha deciso di prendere posizione a favore delle unioni civili e della stepchild-adoption. "Io generalmente non mi schiero - ha detto il padrone di casa - non mi schiero e lascio che le persone parlino. Però certe volte delle domande me le faccio pure io. Qui stiamo parlando di amore nei confronti dei bambini - ha continuato - i bambini hanno diritto all’amore. Ci mancherebbe altro che l’amore non possa provenire da un uomo e da una donna, per l’amore del cielo. Però mi domando - ha, infine, concluso - perché l’amore non può provenire da due uomini o da due donne e invece può essere dato da sette suore? Perché no? Questa domanda me la faccio sempre". Considerazioni personali che hanno letteralmente spaccato il popolo del web.
Povia e Vladimir Luxuria i capitani, scrive venerdì 22 marzo 2019 Roberto Mallò su davidemaggio.it. La seconda puntata di Ciao Darwin 8 – Terre Desolate riprenderà una sfida già portata in scena, con diverse fazioni, in passato: nell’appuntamento in onda stasera su Canale 5, si sfideranno infatti la compagine del Family Day e quella del Gay Pride.
Il programma condotto da Paolo Bonolis con la partecipazione di Luca Laurenti avrà anche oggi due capitani d’eccezione: il cantautore Povia guiderà il team del Family Day, mentre Vladimir Luxuria sarà messa a capo del Gay Pride. La scelta di contrapporre le sopracitate fazioni ha attirato, nelle scorse settimane, numerose polemiche perchè, a detta di molti, rischia di alimentare gli stereotipi, in maniera irriverente, sulle tematiche LGBT, sempre al centro della discussione politica. Paolo Bonolis però, attraverso La Stampa, ha voluto esprimere il suo punto di vista: “Il punto è proprio quello: trattare con leggerezza e disincanto argomenti di rilevanza sociale. Magari può essere utile. Le contrapposizioni ideologica, culturale, politica, religiosa, sentimentale creano solchi e distanze. Se poi ci mettiamo il bombardamento quotidiano che incita alla divisione, come una goccia cinese che alla fine riesce a bucare le teste, grazie anche ai pregressi storici che l’hanno fatta maturare. Quindi, se scherziamo su un tema così importante, è possibile che passi l’idea che l’amore è amore, e che si può condividere“.
"Omofobi", "È la natura". È scontro Povia-Luxuria. Giuseppe Povia e Vladimir Luxuria di fronte a Ciao Darwin. Le due posizioni su omosessualità e famiglia, scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 22/03/2019, su Il Giornale. Lo scontro va in onda a Ciao Darwin, il programma condotto la Paolo Bonolis. Di fronte si trovano Giuseppe Povia e Vladimir Luxuria, rispettivamente alla guida della squadra del Family Day e quella del Gay Pride. Al centro dell'attenzione c'è ovviamente anche il prossimo Congresso Mondiale sulla Famiglia che si svolgerà a Verona e che ha già sollevato numerose polemiche. Povia è il cantante che ha messo in musica "Luca era gay"; Luxuria è invece ex deputata transgender. Oltre allo scontro tv, i due sono stati sentiti dal Corriere in una intervista doppia scoppiettante su omosessualità e famiglia. Il congresso di Verona, per Luxuria, è un "covo di fondamentalisti, omofobi, misogini, fuori dal tempo che vogliono riportare l’Italia al Medioevo. Un convegno in cui spiccano figure che teorizzano la 'guarigione' dei gay. E che se poi non vogliono guarire possono scegliere tra ergastolo o pena di morte. Il tutto con rappresentanti raccattati da tutto il mondo, ovviamente con una folta presenza ungherese". Per Povia, invece, "la 'famiglia naturale', non tradizionale, è un’istituzione spontanea anarchica, comparsa sulla terra migliaia di anni fa. Non ha mai avuto bisogno di Stati, leggi o parlamenti che ne istituissero le modalità. Parlo di uomo, donna e figli. Poi esistono i sentimenti, non solo tra persone dello stesso sesso ma anche tra amici e amiche per la pelle, per esempio. Molti scordano che tutte le teste del mondo esistono grazie ad un uomo e ad una donna". Per questo il cantante si chiede: "Oggi difendere l’ovvio è così rivoluzionario?"
A Ciao Darwin si sono sfidate le due compagini tra loro avversarie, Family-day e Gay-pride, scrive Serena Granato il 23/03/2019 su it.blastingnews.com. Lo scorso venerdì sera 22 marzo, su Canale 5 è avvenuta la tanto attesa messa in onda della nuova puntata di Ciao Darwin, il programma condotto da Paolo Bonolis in collaborazione con Luca Laurenti, basato sugli elementi più grotteschi della civiltà moderna e sul principio della selezione naturale, formulato dallo studioso Charles Darwin, secondo cui in natura a vincere non è il più forte, bensì il più adatto.
Family Day vs Gay Pride: Povia sbotta, tirando in ballo Ricky Martin. "Quando è nata la famiglia non esisteva la Chiesa", ha così esordito nel suo lungo discorso il cantante Giuseppe Povia ai microfoni di Ciao Darwin. Il cantautore di "I bambini fanno ooh" ha poi aggiunto "Meno male che siamo in democrazia, scontri alla stregua di questo dibattito avvengono quando l'ideologia supera la biologia. Ma io sono contro la vergognosa pratica dell'utero in affitto", queste ultime sono solo alcune delle scottanti parole spese dal leader del "Family day", nel corso della discussione che ha visto il cantante scontrarsi verbalmente con la caposquadra della compagine avversaria, Vladimir Luxuria, e menzionare il re del Latin-Pop, Ricky Martin. Il leader del Family day è pubblicamente insorto contro la condotta assunta da molte persone oggigiorno, soprattutto dai "Very important people", di ricorrere al progresso scientifico e alla pratica di surrogazione di maternità basata fondamentalmente sulla compravendita di embrioni, una pratica di fecondazione assistita che Povia ha definito in puntata un "mercimonio". Le parole rilasciate dal cantante a Ciao Darwin hanno letteralmente diviso a metà il popolo degli internauti e possono essere ascoltate in diversi video che sono stati pubblicati online dai telespettatori del format ed anche sul sito di streaming Mediasetplay, in cui è possibile rivedere anche l'intera puntata. Povia non ha nascosto di disapprovare in toto la scelta di alcuni "Very important people", come Ricky Martin (il quale figurerà nel ruolo di coach ad Amici di Maria De Filippi a partire dal prossimo 30 marzo) e Elton John, di ricorrere cioè alla pratica dell'utero in affitto, che può dirsi di fatto un traffico di vite umane, in cui la gestante deve sottostare a delle regole pattuite per contratto di surrogazione di maternità con i futuri genitori. Alle parole rilasciate da Giuseppe Povia, apparso visibilmente stizzito in TV, è seguita l'irruente reazione avuta da parte di Vladimir Luxuria: la leader della compagine Gay-pride ha asserito di essere a favore della scelta di aspiranti genitori di ricorrere alla pratica dell'utero in affitto, solo nel caso in cui tale decisione viene fatta come atto d'amore. In particolare, la Luxuria ha criticato la tendenza delle coppie etero a recarsi in India per sfruttare i bassi costi previsti per la surrogazione di maternità. Molteplici sono stati i commenti rilasciati dagli utenti dei social-media, e siamo sicuri che le polemiche dureranno ancora a lungo.
Vladimir Luxuria. Video, duro scontro con Povia: “non ci sto” (Ciao Darwin 2019). Vladimir Luxuria contro Giuseppe Povia a Ciao Darwin per l’utero in affitto: “davanti alle menzogne non ci sto”, sbotta i presidente del Gay Pride, scrive il 22.03.2019 Maria Laura Leo su Il Sussidiario. Scontro durissimo a Ciao Darwin tra Giuseppe Povia e Vladimir Luxuria sull’utero in affitto. Il cantante si è scagliato contro quelle coppie vip che fanno ricorso a tale pratica per avere un figlio. “Sono contro, assolutamente contro, a quella vergognosa pratica dell’utero in affitto che succede anche tra persone famosissime come Elton John e Ricky Martin. Con questa pratica si sfruttano due donne, una bella e sana per inseminarla a cui viene poi tolto l’ovocita per darlo ad una disgraziata del Terzo Mondo che partorisce e vende il bambino. È mercimonio, è compravendita. I bambini non si toccano!”, scatenando, però, la dura reazione di Vladimir Luxuria. Quest’ultima, infatti, furiosa per quanto detto da Povia, ha prontamente replicato ricordando come siano anche tante le coppie eterosessuali che utilizzano l’utero in affitto. “Non ci sto! Davanti alle menzogne non ci sto! Io sono contraria all’utero in affitto, che praticano coppie etero che vanno in India. Qui sfruttano le donne che vivono in povere condizioni. Io sono a favore di quelle donne che lo fanno come atto d’amore”, ha sbottato la Luxuria (aggiornamento di Stella Dibenedetto).
“La famiglia non è una sola”. Vladimir Luxuria ci tiene a ribadire che “la famiglia non è una sola” e lo fa durante la puntata di Ciao Darwin 2019 dove capitana la squadra del Gay Pride contrapposta al Family Day di Giuseppe Povia. La posizione di Vladimir è stata molto chiara fin dall’inizio anche se non ha mai alzato i toni. Come ci ha sempre abituato Luxuria è stata molto intelligente nella gestione delle parole e sempre rispettosa di tutti. Chi si pensava che la puntata di stasera avrebbe portato a una “guerra televisiva” tra due mondi inconciliabili si è trovato invece di fronte a due compagini che sì hanno idee diverse ma che si tollerano. Uno scambio intelligente che ha dimostrato che a volte anche in televisione ci si può confrontare quando si hanno due idee molto lontane e non facilissime da gestire. La trasmissione, almeno sotto questo punto di vista, ha fatto un salto di qualità molto importante anche perché nelle scorse edizioni simili scontri furono davvero molto infuocate. (agg. di Matteo Fantozzi)
“Non siamo qui per una manifestazione”. Vladimir Luxuria apre la sua puntata di Ciao Darwin 2019 con un discorso che vuole anche fornire qualche dato. Se si festeggia il cinquantesimo anno del Gay Pride, fazione di cui è capitano, in Italia questo è protagonista solo dal 1994 quando fu proprio lei a lanciarlo. Vladimir è chiara su un punto che riporta la sfida sul gioco, spegnendo le polemiche: “Si tratta di un gioco, non siamo qui per una manifestazione, ma per far vedere che sappiamo far sorridere e che siamo felici“. Lancia poi una splendida canzone di Gloria Gaynor che i suoi interpretano molto bene, ma che non riesce a regalare la vittoria. Il Gay Pride parte dunque con una prima sconfitta contro il Family Day, abile a vincere grazie alla presenza di Giuseppe Povia e a uno dei suoi cavalli di battaglia cioè “I bambini fanno oh”. Vladimir Luxuria però ci tiene a sottolineare: “Anche noi siamo stati bambini, ma abbiamo smesso di fare oh e ora facciamo wau”. (agg. di Matteo Fantozzi)
“Prima di giudicare guardate la puntata”. Vladimir Luxuria ha presentato la puntata di stasera di Ciao Darwin – Terre Desolate in una lunga intervista a Vanity Fair. Sarà il capitano del Gay Pride nella sfida contro il Family Day, spiega: “È una puntata che si sarebbe comunque fatta e quindi ho preferito esserci. Uno dei motivi che mi ha portato ad accettare questo lavoro, perché lo è e non lo nascondo, è stata la posizione di Paolo Bonolis che in passato si era espresso sull’omogenitorialità. Questo argomento non è sempre facile da affrontare”. Spiega di aver riflettuto molto prima di accettare e ha voluto fare una precisazione: “Non ci sono rappresentanti di associazioni, ma solo gay, trans, drag queen, lebische mi passi il termine comunque. Non rinunceremo al colore e all’allegria che ha sempre contraddistinto il Gay Pride“. A chi fa polemica già prima di iniziare Vladimir Luxuria specifica: “Prima di giudicare guardate la puntata”. Appuntamento tra poco su Canale 5 dove sarà il momento del secondo appuntamento della nota trasmissione condotta proprio da Paolo Bonolis e Luca Laurenti. (agg. di Matteo Fantozzi)
Farà pace con Povia e canteranno insieme? Vladimir Luxuria sarà protagonista della prossima puntata di Ciao Darwin – Terre Desolate, in onda venerdì 22 marzo su Canale 5. Paolo Bonolis ha fortemente voluto la sua presenza a capo della compagnia del Gay Pride, che si scontrerà con quella del Family Day, sostenuta e guidata da Giuseppe Povia, il cantante di Luca era Gay. Tra i due capitani non c’è un particolare feeling, come ha dimostrato la polemica a più riprese che li ha visti coinvolti fin dai tempi della partecipazione di Povia al Festival di Sanremo. Ma Bonolis, che è un coraggioso della televisione italiana, a distanza di 10 anni dall’inizio della lite, li ha voluti entrambi nel suo programma, convinto, forse, di poter sdrammatizzare l’astio che allontana la Luxuria da Povia con la sua solita e intramontabile ironia. Ad affiancarlo, come sempre, ci sarà il fedele compagno di avventure Luca Laurenti. Chissà se l’accoppiata Luxuria – Povia sarà vincente nella gara di ascolti contro la prima puntata della Corrida di Carlo Conti.
Vladimir Luxuria Vs Giuseppe Povia a Ciao Darwin 2019. La discussione che ha visto coinvolti Vladimir Luxuria e Giuseppe Povia risale all’indomani del Festival di Sanremo 2009, condotto, non a caso, da Paolo Bonolis stesso. Il cantante era in gara con la canzone Luca era gay, arrivata al secondo posto ma apprezzata così tanto dalla critica da ricevere il Premio Mogol. La scelta non è piaciuta a Vladimir, che si è sentita offesa non soltanto in riferimento al suo orientamento sessuale, ma anche e soprattutto per aver dovuto vedere una canzone come quella, a suo parere offensiva nei confronti degli omosessuali, premiata anche con un premio assegnato al cantante da persone competenti in materia. Se i toni della Luxuria sono stati, come nel suo stile, aspri e diretti, Povia, qualche anno dopo, in riferimento alla questione, è stato un po’ più diplomatico, sostenendo di nutrire una bella simpatia nei confronti della Luxuria. Giuseppe ha anche ironizzato sull’attacco alla sua canzone, sostenendo di immaginare Vladimir, sotto la doccia, intenta a cantare proprio il brano della discordia. Magari venerdì potrebbe chiederle se lo fa davvero…
Vladyland: la musica di Vladi. Intanto Vladimir Luxuria si gode la distribuzione su Spotify del suo primo disco, Vladyland, entrando anche lei a far parte del mondo musicale, proprio come il rivale Povia. In un intervista rilasciata a Sky Tg 24, la Luxuria ha parlato proprio del suo nuovo esperimento canoro. Non è stata una sua idea quella di dedicarsi alla musica, ma di due “signor svizzeri” che hanno dato vita al progetto. Il disco sembra ripercorrere le note dei brani anni Ottanta, o meglio “delle prime discoteche. Un atto d’amore verso il mio periodo giovane”. Eppure c’è anche della dolcezza nelle canzoni di Vladi. Il brano Nuvola è “una ninna nanna per tutti i bambini del mondo. È un nomignolo affettuoso, nuvola. E ricorda anche un po’ le nuvole di Fabrizio De Andrè”, afferma. Alla domanda se le canzoni, a suo parere, possano mai diventare uno show, Vladimir resta vaga. Le piacerebbe, ma è presto parlarne. In questo momento, musicalmente parlando, afferma di sentirsi come sospesa tra la Cenerentola di Prokof’ev e Mahmood: “Sono transgender anche nella musica!”
Giuseppe Povia. Video: “Non condanniamo il sentimento” (Ciao Darwin 2019). Venerdì 22 marzo, su Canale 5, Giuseppe Povia sarà ospite di Ciao Darwin – Terre desolate per capitanare la compagnia del Family Day. Contro di lui Vladimir Luxuria per il Gay Pride, scrive il 22.03.2019, Maria Laura Leo su Il Sussidiario. Giuseppe Povia ha voluto ancora una volta a Ciao Darwin 2019stendere una mano verso il Gay Pride: “Noi non condanniamo il sentimento, tutti hanno il diritto di amare“. Quello che il Family Day cerca un po’ di mettere in discussione è la formazione di una famiglia che deve essere quella naturale e cioè formata da mamma, papà e figli. Una cosa che però dall’altra parte non gradiscono Vladimir Luxuria e i suoi ragazzi perché specificano che la famiglia c’è dove c’è amore. Povia è sembrato molto più frenato di quanto ci si potesse aspettare, cercando di far anche capire che la posizione degli altri rimane comunque comprensibile e non criticata in toto. Questo è uno splendido messaggio che manda il Family Day di fronte a diverse situazioni di apertura a 360° e con la voglia di essere moderni anche nel rispetto della tradizione. (agg. di Matteo Fantozzi)
“Difendere l’ovvio è diventato strano”. Giuseppe Povia lancia il suo messaggio nella puntata di Ciao Darwin 2019 dove difende i colori del Family Day. Quando Paolo Bonolis gli chiede il perché di questo suo schieramento, lui spiega: “Difendere l’ovvio è diventato un po’ strano ormai. Difendo la famiglia naturale, non quella tradizionale e religiosa. Tutte le teste del mondo sono frutto dell’incontro tra un uomo e una donna. Potrebbe sembrare una cosa retrograda e da Medioevo, ma è così da sempre. Scelgo una canzone di un autore bravo e un po’ sottovalutata che parla di bambini che sono la traccia provata che esistiamo. Saluto Vladimir Luxuria che si è messa sempre in gioco e che io difendo”. Povia poi fa partire alcuni dei suoi che cantano appunto “I bambini fanno oh”, la canzone con la quale proprio lui molti anni fa si era lanciato fuori concorso al Festival di Sanremo. (agg. di Matteo Fantozzi)
Quante polemiche in passato. Giuseppe Povia sarà presente come capitano del Family Day stasera a Ciao Darwin, un personaggio da cui le polemiche non si sono mai allontanate. Questo perché il cantautore ha sempre deciso di confrontarsi con argomenti molto caldi. Se il suo debutto al Festival di Sanremo, fuori concorso, con “I bambini fanno oh” aveva stupito tutti, il bis con “Vorrei avere il becco” aveva addirittura vinto la kermesse della musica italiana. Da quel momento però qualcosa si è rotto, soprattutto dopo l’uscita della canzone “Luca era gay” anche questa portata al Teatro Ariston. Un brano che lo aveva visto raccontare la storia di un ragazzo pronto a cambiare il suo orientamento sessuale durante la maturazione. Una storia controversa che ha portato all’accusa di essere omofobo, a più riprese smentita dall’artista. Altre polemiche sono sorte quando a Sanremo ha portato “La verità” raccontando la storia di Luana Englaro e appoggiando senza mezzi termini l’eutanasia come metodo per vivere una nuova vita. Da quel momento Povia è un po’ sparito dal mondo della musica italiana, iniziando ad autoprodursi e dedicandosi per un periodo a una musica di critica politica. Tra i brani che hanno creato altra discussione ci sono “Era meglio Berlusconi” e “Chi comanda il mondo”. (agg. di Matteo Fantozzi)
“Mi immagino Luxuria cantare Luca era gay”. Giuseppe Povia, cantante italiano noto per brani quali Luca era gay e Vorrei avere il becco, sarà protagonista della prossima puntata di Ciao Darwin – Terre Desolate. Il programma, condotto da Paolo Bonolis, andrà in onda venerdì 22 marzo su Canale 5. La sfida du questa settimana vedrà fronteggiarsi le compagnie del Family Day, capitanata proprio da Povia, e del Gay Pride, guidata da Vladimir Luxuria. La scelta di avere questi due personaggi rientra in un tentativo, da parte di Bonolis, di affrontare un tema scottante con la solita vena giocosa e ironica che lo contraddistingue. La puntata, come al solito, vedrà una serie di personaggi facenti parte delle due squadre che si confronteranno in sfide semiserie, il tutto condito dai simpatici siparietti di Paolo e Luca Laurenti, ormai da anni al suo fianco e membro imprescindibile di una coppia che, insieme, fa faville di ascolti televisivi. Riuscirà la presenza di Povia e Vladimir Luxuria, già protagonisti di qualche polemica, a vincere la guerra con la concomitante Corrida di Carlo Conti?
Giuseppe Povia e la polemica con Luxuria. Tra Giuseppe Povia e Vladimir Luxuria non c’è mai stata una bella amicizia. Anzi, la Luxuria è stata una delle prime ad attaccare senza pietà la canzone Luca era gay, presentata al Festival di Sanremo 2009 e, contrariamente al parere di Vladimir, apprezzata a tal punto da piazzarsi seconda. All’epoca la Luxuria aveva gridato all’omofobia e, nell’attaccare l’autore della canzone, era finito nel turbinio della rabbia di Vladimir anche Paolo Bonolis, all’epoca direttore artistico del Festival. “A questo punto ad essere offesi non sono solo i gay, ma tutti gli italiani, che con le loro orecchie hanno potuto valutare il livello della canzone di Povia”, aveva affermato Vladimir in riferimento alla vittoria, da parte di Povia, del Premio Mogol. I rancori si sono trascinati fino al 2014, quando a prendere la parola fu il cantante, probabilmente anche per smorzare un po’ i toni e per sdrammatizzare sull’accaduto. “Luxuria non ci crede ma a me sta simpatico da morire. Mi piace il suo spirito combattente anche se tutti quanti dovremmo dedicare più tempo a noi stessi. Mi immagino Luxy sotto la doccia che canta Luca era gay di nascosto e pensa a me”, ha affermato Giuseppe. Chissà se la partecipazione simultanea a Ciao Darwin addolcirà i toni di questa lunghissima polemica.
Giuseppe Povia: “La fede mi ha salvato”. Giuseppe Povia di certo non voleva offendere nessuno con le sue canzoni. Anzi, il cantante non ha mai negato di scriverle con l’intenzione di portare la gente a riflettere sulla vita, sull’amore, sui sogni. I suoi intenti, almeno a suo dire, sono sempre mossi dalla buona fede e, più in generale, dalla fede intesa in senso propriamente religioso. “Quando hai fede, capisci di essere un uomo piccolo ed insicuro e ti lasci guidare completamente da Lui. La figura di Gesù, nel corso nel tempo, ha avuto differenti interpretazioni che possono avere portato anche molte persone ad allontanarsi dalla chiesa. Ma lì sta il vero lavoro dei sacerdoti: ci sono alcuni che ti prendono, che sanno ascoltarti, comprenderti, e che sanno davvero avvicinarti a Dio”, ha dichiarato Giuseppe. Per lui la fede ha rappresentato una vera e propria via d’uscita da amicizie sbagliate, da errori di gioventù che l’avevano portato in un brutto giro. Ha sofferto tanto, il Povia che qualcuno prende in giro definendo prive di spessore le sue canzoni, ed è stata proprio la musica a salvarlo. La musica e la fede, quella fede che gli ha permesso davvero di dare una svolta alla sua esistenza.
Pierluigi Diaco a Libero: "Noi omo dovremmo essere più sobri". Da sinistra lo massacrano, scrive il 21 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Il giornalista Pierluigi Diaco ha commesso due clamorosi "errori" quando ha rilasciato un'intervista a Libero. Innanzitutto il fatto stesso di aver parlato con un quotidiano come questo e poi di aver difeso il Congresso delle Famiglia dagli "attacchi a priori" che sono piovuti da sinistra e soprattutto dal mondo omosessuale. Diaco è dichiaratamente gay, il che evidentemente lo rende doppiamente colpevole agli occhi del mondo omo. Diaco è stato letteralmente travolto di insulti sui social, soprattutto da altri gay, che si sono sentiti offesi solo perché ha espresso il suo pensiero. E quel che è peggio, Diaco si è permesso di non vomitare livore a caso contro Matteo Salvinie Giorgia Meloni. Anzi ha ricordato la reazione dei due quando si è unito civilmente con il suo compagno: "Mi hanno fatto gli auguri", ha ammesso. Con buona pace di chi invece gli dà del "cretino", perché non ritiene omofobi a prescindere il leader della Lega e quella di Fratelli d'Italia.
· Mai più Festa del Papà.
“Festa del Papà”, sconcerto per la campagna pubblicitaria della Feltrinelli, scrive il 18 marzo 2019 meridiananotizie.it. Sconcerto tra i papà per la campagna di marketing adottata dalla Feltrinelli in vista dell’imminente Festa del Papà in cui si discrimina e si sminuisce gratuitamente la figura del padre. Nel cartello si vede il disegno di un bimbo sulle spalle del proprio papà, la scritta in alto “Festa del Papà” e più in basso un suo pensiero: “Io comunque preferisco la mamma”. Un messaggio di pessimo gusto, non si comprende quale beneficio possa portare alla nota casa editrice una campagna di marketing di questo genere. Ovviamente molte associazioni di papà, ma anche mamme, si stanno mobilitando in queste ore, per chiedere spiegazioni alla nota casa editrice, manifestando disapprovazione per una campagna pubblicitaria il cui scopo è quella di screditare la figura paterna. Alle ore 13:30 di oggi, dopo le continue lamentele arrivate da tutta Italia, sul sito ufficiale della casa editrice è stata sostituita la pubblicità tanto incriminata, con un immagine di un ragazzo che legge un libro e sopra la scritta: “Il mio papà è un SUPER EROE-LETTORE”. Restano però la precedente pubblicità in tutti i punti vendita.
La campagna pubblicitaria de LaFeltrinelli per la Festa del Papà: “Io comunque preferisco la mamma”, scrive il 18 marzo 2019 Luca Mastinu su bufale.net. I nostri lettori ci segnalano un’immagine scattata all’interno di uno store della catena LaFeltrinelli che interessa una campagna pubblicitaria del gruppo editoriale in occasione della Festa del Papà. Lo stesso banner compare in più parti dell’Internet e mostrerebbe uno sconto del 15% su una selezione di libri valida fino al 19 marzo – giorno in cui ricorre la Festa del Papà – su tutti i negozi e sugli store online: Ciò che ha scatenato le polemiche è il disegno riportato, che mostra la caricatura di un padre con il proprio figlio sulle spalle. Il bambino, secondo il fumetto, dice: «Io comunque preferisco la mamma!». Secondo Meridiana Notizie questo cartellone pubblicitario avrebbe scatenato la reazione negativa da parte di associazioni di papà e di mamme, secondo le quali quel genere di messaggio screditerebbe la figura paterna. Le lamentele sono dunque arrivate da tutta Italia e per questo, alle 13:30, sul sito ufficiale degli store LaFeltrinelli l’immagine è stata sostituita. Perché parliamo di notizia vera? Seppur sostituita, l’immagine è ancora presente nella cache e possiamo ritrovare la pagina incriminata prima che venisse modificata, a questo indirizzo: Allo stato attuale, invece, l’immagine è stata sostituita: Tuttavia, l’immagine oggetto delle polemiche è ancora presente sul sito Offerte e sconti e sulla versione mobile del sito ufficiale de LaFeltrinelli (qui la versione archiviata). È dunque vero che una prima versione della campagna pubblicitaria promossa da LaFeltrinelli mostrava un bambino che diceva al papà di preferire la mamma, e a seguito delle polemiche l’immagine è stata sostituita. Luca Mastinu
Festa del papà, «Preferisco la mamma»: bufera sullo slogan (poi rimosso) della Feltrinelli. L'ondata di malcontento ha spinto la casa editrice a sostituire in corsa la campagna con una nuova immagine che però non ha risolto la situazione, scrive il 19 Marzo 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Scoppia la polemica online sulla campagna che la Feltrinelli ha portato avanti fino a qualche ora fa in occasione della Festa del papà: come mostra la foto nei negozi campeggiavano manifesti con scritto «Festa del Papà, io comunque preferisco la mamma». Uno slogan che ha fatto infuriare il popolo del web, che ha criticato sui vari social network la scelta della casa editrice di sminuire proprio in questa giornata di festa e in questo modo la figura del papà. L'ondata di malcontento ha spinto la Feltrinelli a sostituire in corsa la campagna con questa nuova immagine. Ma anche questo nuovo manifesto ha provocato una pioggia di critiche: «Il mio papà è un super lettore», anziché un super «eroe. Quando si dice «la toppa è peggio del buco».
Festa del Papà, polemiche per la campagna pubblicitaria di Feltrinelli: “Io comunque preferisco la mamma”. Viste le critiche però, Feltrinelli ha deciso di rimuovere la campagna e oggi accedendo al sito web si vede un nuovo volantino con la scritta: "Il mio papà è un super lettore", scrive F. Q. il 19 Marzo 2019. Ha scatenato polemiche la campagna pubblicitaria ideata da Feltrinelli per le sue librerie in occasione della Festa del Papà, che si celebra oggi, 19 marzo. In tantissimi infatti hanno contestato sui social un volantino che vede raffigurato un papà che solleva in braccio un neonato che in un fumetto dice: “Io comunque preferisco la mamma“. Subito la foto è diventata virale sul web dove, soprattutto su Twitter, in molti si sono indignati per questa frase: “La #Feltrinelli pensa bene di festeggiare la #festadelpapa2019 con una campagna anti-papà... Chapeau!!”, scrive qualcuno. E ancora: “Vergognosa“, “Poi vi stupite se esiste Pillon”, “Sconcertante“. Tutto sarebbe partito da una libreria della catena a Parma, dove sono stati visti in vetrina questi volantini. Nelle intenzioni probabilmente, Feltrinelli voleva fare riferimento al celeberrimo detto popolare secondo cui “la mamma è sempre la mamma” e al fatto che comunque in Italia la figura della “mamma” è fortemente radicata nella cultura nazional-popolare. Viste le polemiche però, Feltrinelli ha deciso di rimuovere la campagna e oggi accedendo al sito web si vede un nuovo volantino con la scritta: “Il mio papà è un super lettore” e il disegno di un padre in vesti da supereroe. Un messaggio completamente opposto al precedente.
Festa del papà o festa al papà? Scrive il 19 Marzo 2019 su Il Fatto Quotidiano, Marcello Adriano Mazzola,
Avvocato e scrittore. Oramai siamo a quella che io chiamo “uomofobia” o fobia del solo genere maschile in quanto uomo e in quanto padre. La campagna che da anni i mass media, enti istituzionali e associazioni ci propongono è appunto quella del dogma che vuole tutti gli uomini/padri come esseri violenti, genitori inadeguati, primordiali e poco intelligenti. E all’opposto tutte le donne/madri come esseri non violente, vittime, evoluti e molto intelligenti. Un’antropologia sociale ed ideologica 2.0 inquietante che si pone talmente in violazione dei sacri principi costituzionali (articoli 2, 3, 29, 30 Cost., giusto per citare i principali) da non meritare neppure ulteriori dissertazioni. Feltrinelli in queste ore finge di fare marketing pro-padri in occasione della festa del papà, promuovendo la seguente campagna sessista, secondo cui egli è un genitore di serie B, perché si sa che i figli vogliono bene solo (o soprattutto) alle mamme. Dopo aver ricevuto in queste ore centinaia email di sdegno ha provveduto a rimuoverla dal sito ma non dalle centinaia di store in tutta Italia. Mesi fa Valfrutta aveva sposato la stessa ideologia maternal preference secondo cui esiste un solo modello di famiglia, ossia quella composta dalla mamma e dai figli. Il padre è un mero orpello, buon al più a mettere il semino nel fertile e accudente terreno, per poi sparire come, in fondo diciamolo, ha sempre fatto. D’altronde è noto come il modello di famiglia tradizionale sia un disturbo, un modello reazionario e insostenibile al giorno d’oggi. Dunque da rimuovere. Secondo Nuvolari, noto store di grandi marchi, l’uomo è oramai una sorta di cavia che può ben essere rappresentato ed esibito rappezzato, oramai alla stregua di una vile mercificazione. Questo senza voler poi citare spot di marchi noti come Gillette, in cui viene esibito il peggio delle primordiali caratteristiche del genere maschile, lasciando intendere che siamo tutti così, per poi spiegare come ora sia giunto il momento di civilizzarsi! Arriviamo poi alle campagne cosiddette istituzionali secondo cui l’unico genere violento viene rappresentato in quello maschile. Da tre mesi la Regione Lazio ha predisposto una campagna di pubblicità sociale contro la violenza di genere attraverso manifesti, cartelloni, nonché in particolare sul proprio sito web ufficiale, accessibile da un numero illimitato di persone, riportante le seguenti frasi: “LE VITTIME: milioni di donne. I CARNEFICI: milioni di mezzi uomini”, “In Italia, subisce violenza almeno una donna su tre”. Lasciando così intendere – se la matematica non è un’opinione – che in Italia si aggirino almeno 9 milioni di uomini bruti e 9 milioni di donne vittime. Roba che neppure in Bangladesh, Afghanistan e in alcuni paesi arabi. Un caso di procurato allarme. Lo stesso ha fatto il Ministero delle Pari Opportunità, il cui unico intento evidentemente è quello di fomentare l’odio di genere tra i sessi, raccontando una inverosimile versione secondo cui la violenza è agìta esclusivamente dal genere maschile contro il genere femminile. E anch’esso ingenerando, seppur in modo meno esplicito, un procurato allarme. Infine non poteva mancare la pubblicità sessista di Telefono Azzurro, secondo cui la violenza in famiglia è di dominio esclusivo dei padri. La direzione tracciata oramai è ben chiara, perlomeno per chi non porti lenti ideologiche: da un lato, defilato, abbiamo gli uomini e dall’altro le donne. Da un lato, defilato, i padri, e dall’altro le madri. Tra poco gli uomini avranno spazi angusti tutti per loro sui bus e nelle scuole. Vi ricorda mica l’apartheid tutto ciò? Dunque anche la festa del Papà viene trasformata nella “Festa al Papà”.
L’inutile crociata della Regione Toscana contro le parole al maschile, scrive il 14 marzo 2019 l'Arno. La Regione Toscana ha predisposto un manualetto per sensibilizzare il personale all’uso di un linguaggio amministrativo non sessista nella redazione di atti e documenti. Contiene le “linee guida operative” approvate dalla Giunta regionale su proposta della vice presidente e assessora alla cultura università e ricerca, Monica Barni, e dell’assessore alla presidenza Vittorio Bugli. Non ci sono schemi rigidi o neologismi nelle dieci pagine del documento ci si limita a dare suggerimenti sull’uso di espressioni e termini che, oltre ad essere corretti nella lingua italiana, evitino riferimenti sessisti e diano visibilità “concreta” al genere femminile. Caso per caso si “consiglia” la soluzione migliore secondo il testo da scrivere, cercando di ovviare a quello che viene visto come un problema: dato che la lingua italiana non prevede un genere neutro, nel corso dei secoli si è arrivati ad un uso generalizzato della forma maschile. La Regione Toscana ha pensato di ovviare a questo “problema” privilegiando espressioni non discriminatorie tra i sessi. Volete un esempio? Prima di tutto viene consigliato l’utilizzo di “termini collettivi”, tipo “cittadinanza” al posto di “cittadini, “l’utenza” al posto de “gli utenti”, il corpo insegnante al posto de “gli insegnanti”. La battaglia linguistica della Giunta toscana punta a neutralizzare il genere facendo “uso della forma passiva che permette di non esplicitare chi compie l’azione”. Bisogna utilizzare il più possibile, inoltre, anche la forma impersonale, che “può servire ad aggirare l’uso del maschile generico”. Quasi che fosse una bestemmia o un’offesa. C’è anche un altro escamotage che viene suggerito, l’utilizzo di sostantivi promiscui che hanno un’unica forma, sia al maschile che femminile, accompagnati dall’articolo determinativo nel caso sia nota l’identità del soggetto. Facciamo un esempio: il responsabile, la responsabile, il manager, la manager ecc. Monica Barni sottolinea che “il linguaggio è l’espressione di una cultura ma quando quest’ultima tarda ad evolversi il linguaggio può fare da traino per il cambiamento. Perché anche da piccole cose, apparentemente poco importanti, passa la battaglia contro gli stereotipi di genere che tanto pesano, anche dolorosamente, sulla vita del nostro Paese. È giusto – prosegue – far uscire dall’invisibilità, anche in un documento burocratico, tante consigliere, assessore e sindache e, più in generale, dare conto del fatto che molti ruoli professionali, un tempo appannaggio maschile, sono adesso ricoperti da donne. La Regione vuole dare un segnale di consapevolezza, essere un punto di riferimento anche per altri che vogliano intraprendere la nostra scelta”. “L’adozione di questa delibera – spiega ancora la Barni – vuole essere uno stimolo alla riflessione anche per altre organizzazioni ed enti pubblici. Dispiace che, proprio in questi giorni, il Comune di Siena, che in questo campo era stato precursore, abbia deciso di rivedere un analogo documento che aveva adottato nel 2016. Ci auguriamo, visto che il Comune ha annunciato che non tornerà indietro sui principi, che si tratti di approfondimenti migliorativi. Aspetto fiduciosa il nuovo testo”. “Le politiche non sono neutrali – ribadisce l’assessore al personale Vittorio Bugli – hanno spesso ricadute diverse su uomini e donne e l’utilizzo del linguaggio aiuta ad evidenziarlo. In questo senso, la delibera adottata si pone in continuità con la redazione del bilancio di genere, previsto dalla legge regionale 16 del 2009. Le linee guida si inseriscono nell’ambito del Piano delle Azioni Positive per il personale della Regione Toscana e nel Piano delle attività formative 2017-2018, l’Ufficio Formazione organizzerà nel primo semestre 2019 un seminario, rivolto alla dirigenza dell’amministrazione e degli enti dipendenti per illustrare la normativa di riferimento internazionale, europea e nazionale per le buone pratiche per l’adozione di un linguaggio amministrativo attento alle differenze di genere e fornire indicazioni e strumenti operativi uniformi”. Per quanto ci riguarda continueremo a scrivere “i cittadini”, “gli insegnanti”, “i professori”, “gli utenti”, così come “il sindaco” e “l’assessore” (non la sindaca e l’assessora). Siamo convinti, infatti, che queste parole non siano maschiliste né espressione di un linguaggio sessista. Ci sembra, inoltre, che l’iniziativa della Regione Toscana sia inutile. Pochi o tanti che siano sarebbe meglio destinare quei fondi in altro modo, magari organizzando più convegni ed educando i cittadini, fin da piccoli, al rispetto della persona, in quanto tale, a prescindere dal sesso.
· La funzione delle femmine. La sinistra si ribella.
La mamma stira, non parla di calcio. E nemmeno di porti. Da Collovati a Isoardi, da Emma a Strumia, da Prestigiacomo a Di Battista, pattiniamo su un tappeto di sessismo. Breve rassegna di ciò che le donne non possono dire, e di ciò che invece si sentono dire, scrive Susanna Turco il 07 marzo 2019 su L'Espresso. A fare impressione è l’estrema costanza, l’assoluta linearità. La facilità con cui si uniscono i punti. Una roba da scuola elementare, letteralmente. Nel sussidiario per la classe seconda, all’esercizio in cui si deve cancellare il verbo fuori contesto, le opzioni sono tre. La mamma «stira», «cucina» o «tramonta». Il papà «lavora», «legge» o «gracida». Sembra un universo superato, non lo è: siamo oltre solo in teoria, in pratica è persino peggio che niente. Lo dicono le parole, prima di tutto. Le parole che sono potere: perimetrano, descrivono, disegnano la realtà. Quello che viene nominato, è. L’orizzonte implicito nel sussidiario – alla faccia della revisione dei testi scolastici che si fece anni fa per eliminare, appunto, gli anacronismi - non è diverso da quello di Fulvio Collovati, 61 anni, ex calciatore, allorché a Quelli che il calcio ascoltando Wanda Nara, procuratrice e moglie dell’attaccante dell’Inter Mauro Icardi, dice: «Quando sento una donna parlare di calcio mi si rivolta lo stomaco». I bambini di 7 anni si alimentano quindi, via sussidiario, della stessa cultura sputata fuori dall’ex campione del mondo. È preistoria? Ma chiamiamola pure eternità. La mamma non parla di calcio: la mamma stira, cucina o tramonta. Fa anche altro, ormai: ma quello deve farlo, sicuro. Del resto stirava anche Elisa Isoardi, da conduttrice Rai e fidanzata di Matteo Salvini, nella famosa immagine postata su Instagram lo scorso aprile. Stirava, Isoardi, e neanche da madre: e infatti - si è poi scoperto - stirava una camicia sua propria, stirava per sé. Anche se tutti abbiamo dato per scontato, giacché stirava, che stirasse per lui, per Salvini. E già questo la dice lunghissima su dove siamo. Vagamente storditi dalla risacca della marea del #Metoo, nell’anno di grazia 2019 si sperimenta in Italia la consistenza di un genere di sessismo che non è nuovo per niente, ma adesso risalta ancor peggio: un sessismo ulteriore, quello della parola. Strisciante e inestirpabile, si direbbe. Certamente esorbitante. Dal (ora ex) consigliere leghista di Bolzano Kevin Masocco che ha esclamato: «Venite, c’è una dj da violentare!», fino alla puntata delle Iene nella quale passava come un innocuo scherzo la prova palmare della fobia di Lorenzo Insigne, capitano del Napoli, verso qualsiasi libertà personale di sua moglie (nello specifico colpevole di voler fare un provino). Misura di quanto la questione sia innervata nel profondo, nell’amigdala di cervelli che sono cresciuti e tutt’ora crescono – è cronaca – a colpi di «la mamma cucina, stira o tramonta». Si concentra forse quasi tutto qui, il differenziale tra ciò che ci piacerebbe fosse o ci raccontiamo che sia, e ciò che è davvero, in termini di sessismo e disparità. Nella parola-sciabola, l’insulto, per un verso. Nella parola interdetta, l’argomento off-limits, per l’altro. Tra quello che le donne non possono dire, e quello che invece si sentono dire.
«Aprite i porti», ha urlato la cantante Emma durante un suo concerto a Eboli. «Faresti bene ad aprire le tue cosce facendoti pagare, ad esempio», ha risposto in un commento su Facebook il consigliere di Amelia Massimiliano Galli. Sospeso dalla Lega per le polemiche, si è ostinato adire che la sua «era una iperbole» e non voleva mica dare a Emma «della mignotta», no no. Lo ha spiegato lui stesso, in una intervista: «Stava in una foto, con le cosce larghe mentre cantava, voleva farsi vedere, no?». Ecco il perché lui le ha risposto così: è lei che l’ha provocato. Per sommo dell’ironia, giusto a chiarire di cosa si parli, la notizia («aprite i porti») è finita sui quotidiani nello stesso giorno in cui Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, esortava: «Aprite i cantieri». Nessuno si è neanche sognato di rispondere a Boccia «faresti bene ad aprire le tue cosce». E non per anatomia, e non per reverenza, ma perché nessuno, mai, attacca un uomo prendendo di mira il suo corpo. Emma, oltre ad essere donna, pretendeva essere presa sul serio. Aprire i porti? Torna in mente Collovati, basta cambiare la materia: «Quando sento una donna parlare di immigrazione mi si rivolta lo stomaco». In effetti, non solo il calcio pare argomento per soli uomini. Quando Stefania Prestigiacomo ha usato le sue prerogative di parlamentare (di Forza Italia) per andare a verificare - con altri due deputati maschi - le condizioni dei 47 migranti bloccati dai veti di Salvini sulla Sea watch 3, è stata perimetrata dentro i confini della mamma che «stira, cucina o tramonta». Antonio Tajani, praticamente il capo del suo partito dopo Silvio Berlusconi, ha derubricato il gesto come quello di «una madre mossa da forte emotività». Dal quotidiano Libero, Prestigiacomo si è presa direttamente della «nonna». Epiteto evidentemente considerato la naturale prosecuzione di quello riservato ad Emma. Da «apri le cosce» ad «apri nonna» - par di capire - è un attimo, il volgere di qualche anno. In mezzo, per ben che vada, può esserci una Wanda Nara, che Selvaggia Lucarelli ha definito «rivoluzionaria» nella «lotta al patriarcato», ma che per dei lettori del Fatto è solo «castrante» e «narcisista»: «E di un uomo castrato, una donna non se ne fa più nulla e prima o poi lo abbandona. La crisi di gol sul campo che Icardi ha attualmente ne è la prova», è la lettera con cui le ha risposto un Aurelio Scuppa. Ecco, parliamo di cose così. Non eccezioni.
Un tappeto a sottofondo della vita di tutti, impostazione sulla quale (salvo gli insulti) pattiniamo largamente inconsapevoli. È normale, ad esempio, trovare sui social il video del tipo “Venticinque consigli alla donna che comanda per farsi accettare dagli uomini”. È normale ascoltare, per il femminicidio, l’invocazione per par-condicio del maschicidio (modello: «e allora il Pd?»), in una sorta di malinteso sul termine, che indica non tanto il genere della vittima, quanto il perché sia stata uccisa. È normale ascoltare lamentele sull’ossessione per la correttezza. «La storia del politicamente corretto a tutti i costi porterà la morte di questa nazione», è l’unica frase che oggi è dato leggere sul profilo Facebook di Galli - quello dell’«apri le cosce». Con queste promesse, la scivolata finale è sempre dietro l’angolo. A ottobre, al Cern lo scienziato Alessandro Strumia ha tentato di dimostrare con slide e formule matematiche che nell’area scientifica le donne sono sotto-rappresentate perché sono meno brave, a causa di una innata differenza legata al genere. A Sanremo, Francesco Renga si è inerpicato a descrivere una minor gradevolezza della voce femminile («una questione fisica») per spiegare il motivo per il quale c’erano in gara solo 6 donne su 24. A Roma, non c’è nessuno che si scomodi neanche a chiarire il perché, nella compagine di governo, ci siano solo 11 donne su 63. E quindi come mai a Palazzo Chigi vada peggio che a Sanremo. Il retroterra culturale, certo, può aiutare. Se di quello leghista s’è detto, per i Cinque stelle si ricorda come Alessandro Di Battista abbia scelto l’epiteto di «puttane» per insultare i giornalisti - un mondo, il giornalismo, nel quale le donne che firmano in prima pagina sono all’incirca quelle che governano a Kabul. Tutti «puttane», comunque. «Per Di Battista è la parte femminile della stampa quella che si prostituisce. I giornalisti buoni sono veri uomini, gli altri si prostituiscono come fanno le donne» ha notato il blogger Lorenzo Gasparrini. Pur avendo portato in Parlamento una buona quota di donne, anche in M5S il modello resta maschile. E se la titolare della Difesa Elisabetta Trenta, dal palco grillino, rivendica la preferenza a farsi chiamare ministro, il pubblico le fa la ola. «Quando firmo una sentenza “la giudice” spesso devo spiegare il perché», ha raccontato la giudice Paola Di Nicola, in un incontro al liceo Socrate di Roma. Anche declinare il genere dei mestieri viene sminuito considerandolo un vezzo, ridicolo: «Sindaca e assessora fanno ridere soprattutto quelli per cui non è un problema che esistano fioraia e cassiera», spiega Di Nicola. La misura della difficoltà è la vicinanza delle donne al potere, in un mondo che pure ormai le contempla, ma fatica a trovare le parole per dirlo. E non facendo passi avanti, va indietro. Mentre Isoardi, che da fidanzata stirava («un venerdì da leoni»), da ex si selfa in abito da sirena con scollatura vertiginosa («Buon sabato sera ragazzi #saturdaynight #siesce», è il suo commento), e anche questo andrà messo da qualche parte.
Suore, zingare e supermodel: le femministe che non ti aspetti. In inglese è una parolaccia. Il Papa lo definisce “machismo in gonnella”. Ma la lotta per i diritti conquista nuovi spazi: conventi, passerelle, campi rom, scrive Angiola Codacci-Pisanelli il 7 marzo 2019 su L'Espresso. Brutte sporche e cattive. I pregiudizi sulle femministe sono così ripetitivi e radicati che anche solo l’idea di una bellezza che si impegna per i diritti delle donne – vedi Emma Watson che parla alle Nazioni Unite – è una sfida per i misogini di ogni sesso e di ogni età. Se poi a lottare a favore di quello che nessuno dovrebbe più chiamare “sesso debole” sono donne lontane dal mito della suffragetta – che sarà pure stata brutta ma era sicuramente bianca, ricca e ben educata – la sfida si fa ancora più pungente. E quindi più interessante. L’ultima frontiera del pensiero femminista arriva dai campi rom. Lo ha raccontato Laura Corradi in un libro (“Il femminismo delle zingare”, Mimesis) che ha una lunga storia: nato da 25 anni di esperienze di studio e di vita tra i nomadi di tutta Europa è uscito prima in edizione inglese e poi in Italia, dove l’autrice insegna all’università di Arcavacata (tra le sue iniziative la Summer School su “Cultura, attivismo e leadership romanì”). «È un fenomeno molto interessante tra le travellers della Gran Bretagna, le gitanas spagnole e le rom dell’Europa dell’est», racconta la studiosa. «In Italia si vede poco perché la vita degli zingari è ancora in “condizioni di impossibilità”. Quando una cultura è circondata da persecuzioni, razzismo, povertà, quando si vive in baracche senz’acqua e senza luce non c’è spazio per la lotta di genere. Appena le condizioni di vita migliorano però anche qui nasce il femminismo: succede in tutte le società patriarcali, cioè in tutte le società».
Anche in Italia infatti qualcosa si muove: «È molto attivo a Roma il gruppo locale della rete internazionale Rowni, guidato da Saska Jovanovic. Una campagna recente? “Sposati quando sei pronta”, per lottare contro i matrimoni combinati che spingono le ragazzine a prendere marito e a lasciare la scuola». Per le suore, invece, è arrivato il tempo di raccogliere i frutti. Aveva fatto scalpore anni fa il femminismo in convento, con voci come quella della benedettina Teresa Forcades, teologa e attivista catalana, o dell’americana Joan Chittiser, che denuncia come «l’uomo ha messo se stesso in cima alla piramide patriarcale della creazione mentre la teologia femminista ha una visione circolare del creato». Tanto scalpore sembra ingiustificato a chi ricorda che fin dal medioevo i conventi sono stati l’unico posto in cui una donna occidentale poteva non solo studiare ma anche lavorare, gestire un’azienda, in una parola emanciparsi: lo ricorda Tiziana Plebani in “Le scritture delle donne in Europa” (Carocci). Con Papa Francesco quello che è stato seminato si raccoglie: anche se la recente, clamorosa apertura verso «la Chiesa che parla attraverso la donna» è stata subito attenuata dalla condanna del «femminismo che è un machismo con la gonna». Lo fa notare Cristina Simonelli, presidente del Coordinamento delle teologhe italiane, un gruppo di studiose molto impegnate «dove non si fa nessuna differenza tra chi porta il velo e chi no». «Prese di posizione contro la “servidumbre”, il malcostume di trattare le suore come donne di servizio, o contro le molestie sessuali da parte dei preti hanno fatto scalpore», continua. «Ma, sia chiaro, non è che le suore hanno iniziato a parlare solo ora che Papa Francesco dà loro spazio». Le prese di posizione scomode erano frequenti anche prima. E riguardano i temi più scottanti, a partire dagli abusi sui minori. «Durante il processo che ha portato alla condanna del cardinal Pell le suore australiane hanno invocato “la parola delle donne” come arma per combattere gli abusi. È proprio il genere di denunce che pochi anni fa negli Usa, mentre un altro cardinale era sotto processo, hanno portato al commissariamento da parte del Vaticano delle suore, colpevoli di parlare troppo apertamente non solo degli abusi ma di omosessualità, transgender, eutanasia». Oggi la musica è cambiata, a partire dalla più evidente disparità di genere nel mondo cattolico, il sacerdozio solo maschile: «Di ordinazione sacerdotale per ora non se ne parla, ma c’è una commissione per il diaconato, che è il primo grado del ministero. E che nei primi secoli cristiani esisteva certamente anche per le donne».
Altre “femministe col velo” sono le musulmane – anche se rifiutare di coprirsi i capelli è spesso il loro primo gesto di rivolta. A parte le differenze tra paese e paese per un mondo che va dal Marocco all’Indonesia, si può dire che il femminismo nei paesi musulmani si divide in tre filoni principali. Lo spiega Renata Pepicelli, che ha appena curato una nuova edizione del suo saggio sul “Femminismo islamico” (Carocci): «C’è un movimento laico, che rivendica l’uguaglianza tra i generi al di fuori della tradizione religiosa, e un “femminismo islamico” che, al contrario, la considera la realizzazione del vero islam, ripulito da secoli di interpretazioni maschiliste. E c’è un poi un terzo gruppo ancora, sono le donne islamiste che sono attive a vario titolo nella vita pubblica e che stanno prestando una certa attenzione alle questioni di genere». Tutti e tre i filoni sono presenti anche in paesi in cui i musulmani sono una minoranza: «Il femminismo islamista in particolare è fiorito anche negli Usa e in Spagna, alla fine del secolo scorso. In Italia tra le figure che potrebbero essere in qualche modo ricondotte a questa corrente figurano Marisa Iannucci, studiosa convertita all’islam che anche nelle sue traduzioni di pensatori islamici propone una lettura attenta all’eguaglianza di genere, e Sumaya Abdel Qader, consigliere comunale a Milano». Una cosa accomuna molte delle donne che chiedono diritti in nome di Allah: il rifiuto di usare quella che le inglesi definiscono ormai provocatoriamente “the F-word”, come se fosse una parolaccia: «Il fatto è che il femminismo nei paesi musulmani è spesso visto come un movimento che ha supportato politiche coloniali. Molte attiviste preferiscono parlare di movimenti delle donne o di Gender Jihad: il Jihad (cioè lo sforzo) di genere sulla via di Dio». Quanto l’attivismo delle donne faccia paura all’islam tradizionalista lo dimostrano alcune reazioni scomposte. Come quando il leader saudita Mohammad bin Salman ha permesso alle donne di guidare le automobili, ma per far capire che era una sua gentile concessione e non un diritto conquistato dalle attiviste che si erano battute per questo, le ha fatte arrestare. Ma scandalizzare è così facile, anche in Occidente, che per scatenare fan e troll a una donna basta dichiarare di amare il rosa: il colore o il genere letterario.
Lo sa bene Roberta Marasco, autrice di «romanzi d’amore» e di un blog che sotto un nome leggero (rosapercaso.org) affronta temi scottanti come il femminicidio (la finta autobiografia di “Anna P, 42 anni, strangolata dal marito”), liberatori come le mestruazioni (“E tutti i nodi vennero al Tampax”) o irritanti come l’indistruttibile e opprimente mito della gentilezza femminile: «Ogni volta che una donna ignora un “Tranquilla” e se ne frega di un “Brava” dovrebbe sapere di non essere sola. Che dietro di lei ci sono dieci, cento, mille donne che sono state tranquille fino a ieri e si sono stufate. Lo senti, il coro silenzioso alle tue spalle? Tranquilla un cazzo». Ha fatto scalpore nel mondo anglosassone il libro “Feminists don’t wear pink and other lies” curato da Scarlett Curtis, giovane attivista che sfoggia una capigliatura rosa schocking e che intorno al tema delle “donne che non si vestono di rosa e altre bugie” ha raccolto testi di scrittrici famose come la Helen Fielding di Bridget Jones, attrici agguerrite come Keira Knightley e attiviste dichiarate come Chimwemwe Chiweza. Per finire con Emma Watson, la sorprendente “femminista bella” di cui sopra, che per costruire un mondo a misura di donna punta sui libri: il sito di consigli di letture impegnate da lei lanciato, “Our shared shelf”, è il bookclub di libri femministi più seguito al mondo. E con Adwoa Aboah, supermodel londinese che con il viso pieno di lentiggini, la testa rasata e le sue crisi e debolezze vissute sotto i riflettori, secondo “Vogue” ha ridefinito il ruolo di una modella nella nostra società.
«Libertà, uguaglianza e un bel fondoschiena». Bufera in Francia sui jeans sessisti, scrive giovedì, 07 marzo 2019, Il Corriere.it. Qualche giorno prima della festa delle donne (8 marzo), il marchio francese Le Temps des Cerises ha lanciato una campagna pubblicitaria per promuovere la sua nuova linea di jeans. In tante città transalpine sono comparsi cartelloni con l'immagine di una donna di spalle che indossa i pantaloni della griffe: «Libertà, uguaglianza e un bel fondoschiena» recita lo slogan che riprende lo storico motto «Liberté, Égalité, Fraternité». Immediatamente sono scattate le accuse di sessismo e sul web tanti utenti hanno condannato la pubblicità.
Donne, lavoro e stipendi: l'Italia lontana dalla parità. Restiamo un Paese maschilista: -19% di impiegate al lavoro e con buste paga più leggere. In politica (ma non al Governo) le cose cambiano, scrive Anna Migliorati l'8 marzo 2019 su Panorama. Se siete donne e cercate lavoro in Europa, mettete in valigia capi pesanti e pensate a Lituania, Finlandia o Svezia. Se invece puntate a cariche politiche, potete ambire anche a Belgio o Spagna. In occasione dell’8 marzo è Eurostat a fotografare l’Europa in rosa. L’Italia si guadagna la maglia nera nell’occupazione di genere, ma si piazza al di sopra della media tra chi occupa posizioni politiche.
Non solo gap retributivo, c’è il gap occupazionale. Meno pagate ma anche meno occupate. In Europa le donne che lavorano continuano ad essere meno degli uomini. Il tasso occupazione femminile tra i 20 e i 64 anni - secondo i dati Eurostatpubblicati nel marzo 2019 – resta di 11,5 punti inferiore a quello dei coetanei maschi: il 66,5% contro il 78%. Un divario che varia molto da paese a paese: solo un punto in Lituania, 3,5 in Finlandia, 4 in Svezia. All'estremo opposto della scala, il maggior divario occupazionale tra uomini e donne a Malta (24,1 punti percentuali), seguito da Italia(19,8) e Grecia (19,7). Un indice in generale in diminuzione nella maggior parte degli Stati membri dell'Unione Europea. Rispetto a cinque anni fa, il divario occupazionale di genere è diminuito nell'UE di 0,7 punti percentuali (da 12,2 punti percentuali nel 2012 a 11,5 nel 2017). A fare più progressi Malta e in Lussemburgo, seguite da Slovacchia e Germania. Ma ci sono anche paesi dove aumenta: Ungheria, Irlanda e Bulgaria.
Donne e politica. La politica diventa sempre più rosa. Se le donne in Europa occupavano nel 2003 circa un quinto dei seggi nei parlamenti nazionali dei paesi europei, nel 2018 sono arrivate al 30%. Meno dei colleghi uomini, ma comunque una rivoluzione in atto. Con in testa sempre gli stessi. Non sorprende che sia la Svezia ad avere la percentuale più alta di donne nel parlamento nazionale con il 47%. A seguire Finlandia (42%), Belgio e Spagna (entrambi al 40%). Un numero significativo di donne ha anche occupato seggi in Austria (37%), Danimarca e Portogallo (entrambi al 36%). All'estremo opposto, le donne rappresentano meno di un quinto dei membri del parlamento nazionale in Ungheria (13%), Malta (15%), Cipro e Grecia (18%) e Romania (20%). L’Italia in questo caso si piazza nella parte alta della classifica con il 35%. Ma non nel governo. Nel 2018, la quota maggiore di donne membri del governo è stata registrata in Spagna e Svezia (52%), seguita da Francia (49%), Paesi Bassi (42%) e Danimarca (41%). Nella parte inferiore della scala, le donne rappresentavano meno di un quinto dei membri del governo in Ungheria (7%), Malta (12%), Cipro, Italia e Polonia (17,0%). Ma in generale la percentuale di capi di governo femminili nell'UE non ha mai superato il 14% negli ultimi quindici anni.
Donne nel mondo: dov’è meglio? Politica e lavoro a parte, dove si vive meglio se si è donne? Una classifica la pubblica Nestpick, con qualche curiosità.
Il Ruanda ha la percentuale più alta di donne nel governo, al 54,35%.
L'Estonia ha il punteggio più alto per numero di donne imprenditrici alle 10.00, seguita da Singapore e l'Islanda.
Il Camerun ha la percentuale più alta di Atleti femminili professionisti.
Il Canada è il paese più sicuro per le donne, seguito da Austria e Islanda.
L'Australia ha il punteggio di istruzione più alto.
Il Camerun ha il "più basso" differenziale di stipendio tra uomo e donna, addirittura negativo a -5,80%, il che indica che le donne guadagnano di più rispetto agli uomini in questo paese.
Julie Bindell per il “Fatto quotidiano” del 7 marzo 2019. La prima occasione in cui ho incontrato i miti persuasivi del mercato del sesso è stata il film Pretty Woman, del 1990, diretto da Garry Marshall. È una commedia romantica e la storia va così: Julia Roberts, che interpreta una donna prostituita sulla strada, incontra Richard Gere, che fa la parte di un ricco uomo d' affari e la porta nel suo albergo di gran lusso. Scopriamo che il compratore vuole una "prestazione fidanzatina" (girlfriend experience) da parte della donna, e assistiamo a diverse scene in cui si beve champagne e si mangiano fragole. Richard Gere ostenta Julia Roberts come un trofeo con i suoi contatti d' affari altrettanto upper-class e le rispettive mogli della buona società, cui risulta evidente che lei non è una di loro, tuttavia alla fine i due si innamorano e vivono felici e contenti.La relazione tra il compratore di sesso e la donna prostituita viene presentata come quella tra un cavaliere dalla splendente armatura che salva la fanciulla povera ma bella secondo i canoni tradizionali, la quale è finita sulla strada per circostanze difficili e senza colpa alcuna. Salvandola, Gere pulisce Roberts del suo status di "puttana". Allo stesso tempo, salva sé stesso dall' identificazione con i ruoli del puttaniere predatore o del patetico incapace di una vera relazione. Nel 1991 ero a Mosca per parlare a un gruppo di studentesse tra i 16 e i 18 anni. Domandai alle ragazze che lavoro avrebbero voluto fare e più del 50 per cento rispose che avrebbe voluto essere una prostituta. Scioccata, chiesi come mai. La risposta più comune, a parte il fatto che in questo modo sarebbero potute emigrare dalla Russia in Occidente, fu che così avrebbero potuto incontrare un uomo come Richard Gere e avere una bella vita. () Nasceva così il mito della "puttana felice". L' espressione "sex work" ("lavoro sessuale")/"sex worker" ("lavoratrice sessuale") diventerà la parola d' ordine di una lobby composta da accademici, assistenti sociali, politici, proprietari di bordelli e di agenzie di escort, nonché compratori di sesso, una lobby ben finanziata con lo scopo di decriminalizzare l'industria del sesso a livello globale, ossia trasformare gli sfruttatori in manager e garantire il "diritto" degli uomini di abusare impuniti dei corpi delle donne. Ma, come spiega Rachel Moran, la prostituzione non è "né sesso, né lavoro", il fatto che ci sia di mezzo del denaro non cambia la natura di quello che succede. () In anni recenti il mercato del sesso è stato sottoposto a un rinnovamento d' immagine per dare l'impressione che non sia pericoloso, che addirittura non si tratti di prostituzione. Chi è a favore del commercio sessuale utilizza una terminologia che maschera la realtà di ciò che invece è: una persona, quasi sempre un uomo, che fa sesso con un'altra persona, quasi sempre una donna, senza desiderio reciproco. () Ho sempre sentito le sopravvissute, o donne ancora in prostituzione ma che vorrebbero uscirne, parlare di cosa è davvero il sesso che si fa. A differenza della lobby pro-prostituzione, i cui membri parlano di "sesso sicuro", le donne che ho intervistato raccontano i dettagli. Parlano dell'odore tremendo dei compratori, del dolore di una vagina disidratata e ulcerata che viene penetrata da una molteplicità di uomini. L'orrore di avere lo sperma o altri fluidi corporali vicino alla faccia. La barba che sfrega sulla guancia fino a farla sanguinare, il collo dolorante a forza di girare la testa di colpo per allontanarla dalla lingua che cerca di baciarle. O di non riuscire a mangiare, a bere o a baciare i figli per via di quello che hanno dovuto fare con la bocca. Di come il braccio e il gomito fanno male per avere disperatamente cercato di farlo venire per non essere penetrata un'altra volta. () La sopravvissuta alla prostituzione Fiona Broadfoot racconta che "i compratori ti fanno sentire una merda quando hanno una bella camera d' albergo e possono comprarti. Tu sei la puttana schifosa e loro quelli con i soldi e il potere. Almeno in strada veniamo guardati tutti e due come schifezze, in un modo o nell' altro, da parte dei residenti e della polizia".
8 marzo, il volantino sessista dei giovani della Lega di Crotone. Salvini: "Non lo condivido, lavoro per la parità". Il volantino diffuso dalla sezione giovanile della Lega Salvini di Crotone. È bufera sul volantino con l'identikit di coloro che denigrerebbero la donna e la sua missione sociale: "Garantire il futuro e la sopravvivenza della nazione". Spadoni (M5s): "Sembra scritto da fondamentalisti islamici". Le ministre pentastellate Trenta, Grillo e Lezzi: "Scioccante". Fratoianni (Leu): "Mai una parola dai leghisti sulla violenza contro le donne", scrive il 06 marzo 2019 La Repubblica. La Lega Giovani Salvini Premier di Crotone ha sentito la necessità, in occasione dell'8 marzo, di pubblicizzare sul proprio profilo Facebook un volantino con l'identikit di coloro che denigrerebbero la donna ed il suo ruolo nella società. Volantino che sarà pure distribuito la sera della festa della donna in un gazebo nei pressi della sede del Comune. Ma, dopo una giornata di polemiche, di prese di distanze anche da parte di diverse esponenti del M5s, è lo stesso leader del Carroccio nazionale, Matteo Salvini, a dissociarsi dall'iniziativa: "Non ne sapevo niente e non ne condivido alcuni contenuti. Lavoro per la piena parità di diritti e doveri per uomini e donne, per mamme e papà". Per il manifesto in sei punti, dai toni sessisti per non dire oscurantisti e con l'aggravante di essere diffuso da giovani militanti, a offendere la dignità della donna sarebbero coloro che:
1. Sostengono la "ignominiosa pratica dell'utero in affitto".
2. Sostengono proposte di legge che sostituiscono le parole "mamma" e "papà" con "genitore 1" e "genitore 2".
3. Ritengono che la donna "abbia bisogno di quote rosa per dimostrare il proprio valore".
4. Sostengono "una cultura politica che rivendica una sempre più marcata autodeterminazione della donna che suscita un atteggiamento rancoroso e di lotta nei confronti dell'uomo".
5. Contrastano il "ruolo naturale della donna volto alla promozione e al sostegno della vita e della famiglia".
6. Strumentalizzano la donna "per finalità meramente ideologiche" al solo scopo "di fare la rivoluzione".
Un tuffo nel Medioevo, nella convinzione - sempre secondo la Lega Salvini di Crotone - che la donna abbia "una grande missione sociale da compiere per il futuro e la sopravvivenza della nazione". Le reazioni politiche all'iniziativa dei leghisti crotonesi non tardano ad arrivare. Sul fronte Pd, i giovani democratici di Crotone rispondono per le rime: "La Lega nostrana ritrae una donna che sembra uscita da qualche manuale in gran rispolvero del MinCulPop", con un ruolo da "santa Inquisizione". Prende le distanze dal manifesto anche il M5s. Sia attraverso le ministre Elisabetta Trenta, Giulia Grillo e Barbara Lezzi che in una nota congiunta affermano: "Scioccante, ci riporta indietro di decenni". Sia con le parole della vicepresidente della Camera Maria Edera Spadoni: "Sembra di ritornare nel Medioevo o leggere un manifesto dei fondamentalisti islamici. Tutto questo non è nel contratto di governo". Tutte le esponenti cinquestelle chiedono ai vertici della Lega "di prendere le distanze". "Questi leghisti sono pessimi - commenta Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana - non dicono mai una parola sulle violenze che subiscono le donne e fanno un manifesto per dire che la dignità della donna viene offesa dall'autodeterminazione. Cioè dalla possibilità di ciascuna donna di decidere per se stessa".
Cerrelli, il segretario della Lega di Crotone e ultrà della famiglia. Ritratto del dirigente del Carroccio sconfessato da Salvini dopo il volantino sessista, secondo Alberto Custodero su La Repubblica del 06 marzo 2019. L'avvocato Giancarlo Cerrelli sulla famiglia (a suo dire quella "vera") parla la stessa lingua di Lorenzo Fontana. Da una parte questa liaison di pensiero ultra cattolico con il ministro della Famiglia su donna, gay, cultura gender, dall'altra nemici comuni come la "sinistra rivoluzionaria che specula sulle tre categoria donna-migranti-gay" hanno fatto dimenticare a Cerrelli che una volta la Lega dava dei "terroni" ai meridionali. E lo hanno spinto ad abbracciare poco più di due anni fa la fede del "salvinismo". Del resto, la sua visione di impronta tradizionalista sui diritti civili, l'avvocato Cerrelli, non l'ha mai nascosta. È scritta nel suo blog intitolato "Chi sono" nel quale non ha problemi ad ostentare che in passato "la sua contrarietà alla proposta di legge anti-omofobia ha provocato la reazione di parlamentari di M5S e Sel che hanno chiesto alla Commissione di Vigilanza Rai che non sia mai più invitato in Rai non solo Cerrelli, ma qualsiasi altro 'ultracattolico omofobo'". Leggendo il suo blog di auto presentazione, le posizioni espresse nel suo volantino non dovrebbero certo sorprendere. Che ci si aspetta, in fondo, da un legale che è dirigente di Alleanza Cattolica, che è referente del 'Comitato Difendiamo i Nostri Figli' di Crotone, che è stato tra i soci fondatori del 'Comitato Sì alla Famiglia' di cui è stato Segretario nazionale. Che "si è distinto a livello nazionale per la promozione della famiglia naturale e la difesa del diritto dei minori ad avere quali genitori un padre e una madre e ciò proprio in un momento storico in cui tutto questo è messo in discussione da una ideologia come quella del gender che è promotrice di una cultura che tende a voler ridefinire il concetto di famiglia". È stato tra i promotori del referendum sull’abrogazione di alcune parti della legge 40/2004, "afferente alla procreazione medicalmente assistita". È stato "promotore e organizzatore", a Crotone, di due Family day, "entrambi con la presenza dell’Arcivescovo", che avevano lo scopo di "sensibilizzare i cittadini contro la proposta di legge sui Dico dell’allora governo Prodi". È stato fondatore del 'Comitato 'Sì alla famiglia' "in difesa della famiglia naturale e contro il progetto di legge anti-omofobia e contro il registro delle unioni civili". Ma la sua fede ultra cattolica non è celata neppure in ciò che dice. Intervistato da Repubblica, non ha esitato a definirsi "obiettore di coscienza come avvocato per quanto riguarda il divorzio". Predica "l'autodeterminazione della donna che porta a obiettivi sani e conformi al bene umano" (senza specificare quali siano), e si oppone "all'autodeterminazione" che invece porta "al rancore della donna nei confronti dell'uomo". Distinguendolo dall'omosessuale, combatte il "gay" in quanto "agente politico" che "vuole rivoluzionare l'ordinamento e l'antropologia della società". Indica la "sinistra rivoluzionaria" come nemico da combattere in quanto usa "gay migranti e donne come motore della rivoluzione". "Se si tocca una di queste categorie si scatena l'inferno", aveva predetto con una certa lungimiranza, viste le polemiche suscitate proprio dal suo volantino sull'8 Marzo. Respinge infine il concetto di femminicidio "inteso come violenza di genere dell'uomo che odia le donne e per questo le uccide". Insomma, vantando tale curriculum che lo rende così vicino al ministro Fontana sui temi dei diritti civili e della famiglia, sorprende il disappunto di Matteo Salvini a proposito del suo volantino dedicato al "ruolo della donna": cosa si aspettava il leader del Carroccio da uno come l'avvocato Cerrelli?
Elogio del senso comune, direttamente dal blog di Giancarlo Cerrelli. Giancarlo Cerrelli è nato a Crotone il 29 maggio 1963. Avvocato cassazionista e canonista. Esperto in diritto della persona, della famiglia e dei minori. Ha conseguito la laurea in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di Bologna; nel 1990 ha conseguito l’abilitazione all’insegnamento delle Discipline Giuridiche ed Economiche; il 17.02.1994 ha conseguito l’abilitazione a svolgere la professione di avvocato; nel 1996 ha conseguito la Licenza in Diritto Canonico presso la Pontificia Università Santa Croce in Roma; ha ricoperto la carica di Vice Pretore onorario di Crotone dal 1994 al 1997. Per oltre un quindicennio e fino al 16 dicembre 2017 è stato componente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del Foro di Crotone. Fa parte del Consiglio scientifico della rivista Iustitia, edita dalla Giuffrè.
Il 26 maggio 2018 è stato nominato Segretario della Lega Salvini Premier di Crotone.
È stato candidato alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 in quota Lega Salvini Premier, quale candidato del Centro destra, nel Collegio Uninominale di Crotone.
Ha ricoperto dal 23 settembre 2011 al 27 settembre 2015 la carica di Vice Presidente Nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani.
È attualmente nell’ambito dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani: Consigliere Centrale, Presidente dell’Unione di Crotone, Delegato Regionale per la Calabria.
Dal 22 novembre 2017 è referente del Comitato Difendiamo i Nostri Figli di Crotone.
Nel febbraio 2017 ha pubblicato il libro – scritto a quattro mani con lo storico Marco Invernizzi, Reggente Nazionale di Alleanza Cattolica – dal titolo: “La famiglia in Italia dal divorzio al gender”, Edizioni Sugarco.
Il 13 giugno 2016 è stato audito dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati, in relazione a un’indagine conoscitiva deliberata dalla stessa Commissione in data 1° marzo 2016, diretta a verificare lo stato di attuazione delle disposizioni legislative in materia di adozione ed affido, anche alla luce della legge 19 ottobre 2015, n. 173, sul diritto alla continuità affettiva dei bambini e delle bambine in affido familiare.
È autore di: Famiglia e Diritto, in Temi scelti di bioetica, Sessualità, Gender ed Educazione a cura di Giorgia Brambilla, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 2015.
È dal 7 maggio 2016 il Responsabile della Redazione scientifica di Crotone del Portale Tematico Giuffrè “Il Familiarista”.
È dal 12 luglio 2016 membro effettivo, in rappresentanza dell’Ordine degli Avvocati di Crotone, delle Unioni delle Curie Calabresi, organo di rappresentanza e di coordinamento degli 11 ordini forensi calabresi.
Il 13 luglio 2016 ha tenuto una relazione dal titolo: “Famiglia e Diritto” nell’ambito del 15° Corso Estivo di Bioetica “Famiglia, Vita e Società”, presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum (APRA).
E’ stato tra i soci fondatori del Comitato “Sì alla Famiglia!” di cui è stato Segretario nazionale.
E’ dirigente nazionale di Alleanza Cattolica.
E’ Presidente dell’Associazione Scienza &Vita di Crotone.
E’ autore di vari articoli pubblicati dalle riviste Iustitia (Giuffrè), Cristianità, Tempi, La Nuova Bussola Quotidiana, La Croce quotidiano, La Roccia, Sì alla Vita, Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa dell’Osservatorio internazionale Card. Van ThuÂn sulla Dottrina Sociale della Chiesa – Trieste.
Il 6 dicembre 2015 ha ricevuto a Cosenza al Teatro Tieri, con il patrocinio del Comune di CS, il premio “Alarico”, Gran Gala della Cultura Made in Calabria, per la categoria “Famiglia & Tutela dei Minori”, con la seguente motivazione: “Giancarlo Cerrelli, avvocato cassazionista e canonista è premiato nella categoria “Famiglia & Tutela dei Minori”, per il suo impegno da giurista a favore della famiglia naturale e dei minori. Cerrelli si è distinto a livello nazionale per la promozione della famiglia naturale e la difesa del diritto dei minori ad avere quali genitori un padre e una madre e ciò proprio in un momento storico in cui tutto questo è messo in discussione da una ideologia come quella del gender che è promotrice di una cultura che tende a voler ridefinire il concetto di famiglia.
Il 20 gennaio 2015 è stato audito come esperto dalla Commissione giustizia del Senato riguardo ai disegni di legge nn. 14 e connessi in materia di disciplina delle coppie di fatto e delle unioni civili.
Il 5 dicembre 2014 è stato relatore al Convegno Nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani svoltosi a Roma dal 5 al 7 dicembre dal titolo: “Adozione: passato e futuro di un concetto giuridico.” La sua relazione ha avuto ad oggetto: “L’adozione nel diritto canonico”.
Il 6 novembre 2013 ha partecipato alla trasmissione radiofonica “La Zanzara”, programma serale condotto da Giuseppe Cruciani con David Parenzo su Radio24, sulla legge anti-omofobia e sull’omosessualità.
Il 19 ottobre 2013 ha partecipato come relatore a Ferrara al convegno nazionale di Alleanza Cattolica: “La Croce e il compasso: A trent’anni della Dichiarazione vaticana sulla massoneria”. La sua relazione aveva ad oggetto: «Le tappe magisteriali e la portata giuridica della “Dichiarazione sulla massoneria” del 1983».
E’ relatore in varie conferenze, in giro per l’Italia, su temi afferenti al diritto di famiglia, all’ideologia del gender, alla legge antiomofobia, alla vita e ad altri temi utili alla nuova evengelizzazione.
E’ stato intervistato, nella qualità di Vicepresidente nazionale dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, da alcuni media nazionali e regionali tra cui il Corriere della Sera, Avvenire, Radio Vaticana, Radio Maria e Tempi.
Ha partecipato il 20 agosto 2013 al talk show della RAI, Unomattina Estate, sul tema dell’omofobia; la sua contrarietà alla proposta di legge anti-omofobia, ha provocato la reazione di parlamentari di Movimento 5 Stelle e Sel (Sinistra, Ecologia e Libertà) che hanno chiesto alla Commissione di Vigilanza Rai che non sia mai più invitato in Rai non solo Cerrelli ma qualsiasi altro “ultracattolico omofobo”.
E’ stato invitato a partecipare alla puntata della RAI “Domenica in” del 3 novembre 2013 dove si sarebbe dovuto discutere di omofobia – a proposito del suicidio di un 21enne gay a Roma-, ma l’invito 48 ore prima è stato inaspettatamente ritirato. Tale avvenimento ha suscitato numerose polemiche sui media nazionali (Corriere della Sera, la Repubblica, Libero, Avvenire, Famiglia Cristiana e altri); a tal proposito è stata promossa una petizione nazionale a suo sostegno che ha raccolto circa 5000 firme.
E’ stato direttore responsabile della rivista online: “La Gazzetta del Foro Crotonese” del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Crotone.
Dal febbraio 2012 è responsabile per la formazione degli avvocati dell’Ordine di Crotone.
E’ stato, inoltre, nel 2005, Presidente – Coordinatore per la Provincia di Crotone del Comitato Scienza & Vita per il referendum sull’abrogazione di alcune parti della legge 40/2004, afferente alla procreazione medicalmente assistita. In adesione alla posizione della Conferenza Episcopale Italiana, che strategicamente aveva proposto al popolo italiano, in quell’occasione l’astensione, Cerrelli ha conseguito il brillante risultato di far giungere la provincia di Crotone al 1° posto in Italia come numero di astensioni.
E’ stato, inoltre, promotore e organizzatore, a Crotone, di 2 Family day, entrambi con la presenza dell’Arcivescovo, S.E. Mons. Domenico Graziani, il 15 marzo 2007 e l’11 maggio 2007; quelle di Crotone sono state le prime manifestazioni di piazza, in Italia, prima del Family day nazionale di Roma del 12 maggio 2007 e avevano lo scopo di sensibilizzare i cittadini contro la proposta di legge sui Dico, avanzata dall’allora governo Prodi. Entrambe le manifestazioni di piazza hanno riscontrato una grande attenzione anche da parte dei media nazionali e quella del 15 marzo ha visto la partecipazione in piazza della Resistenza di circa 3000 persone provenienti da tutta la Calabria.
A Crotone il 12 dicembre 2013 è stato promotore e coordinatore del Comitato “Si alla famiglia” che ha raccolto l’adesione di 22 associazioni, per una manifestazione, nella piazza di fronte al Comune, in difesa della famiglia naturale e contro il progetto di legge anti-omofobia in discussione al Senato della Repubblica e anche, contro il registro delle unioni civili che il Comune di Crotone intende approvare. Alla manifestazione ha partecipato più di un migliaio di persone; alla fine della manifestazione, in corteo, i numerosi partecipanti si sono recati in Cattedrale in cui hanno ricevuto la benedizione dell’Arcivescovo S.E. mons. Domenico Graziani che li attendeva.
Adamo e Medio Eva, scrive Massimo Gramellini giovedì, 07 marzo 2019 su Corriere.it. Ragionavo poco fa con Barbablù e Conan il Barbaro sul manifesto che i giovani leghisti di Crotone «per Salvini premier» hanno dedicato alle donne-fattrici, in vista dell’otto marzo. Barbablù lo trovava maschilista, mentre a Conan sembrava un reperto dell’età della pietra. Persino Torquemada, a nome dei giovani inquisitori di Siviglia «per Salvini premier», ha bollato il riferimento al «ruolo naturale della donna volta alla promozione della vita e alla famiglia» come un pericoloso ritorno al Medioevo. Quanto all’idea, espressa nel manifesto, che la «missione sociale» delle donne consista nel garantire «la sopravvivenza della Nazione», cioè nel restare in casa a fare figli, ha incontrato la vibrante opposizione di Goebbels. «Adesso non esageriamo», pare abbia esclamato. Invece potrebbe essere solo l’inizio. Fiutato l’umore machista del momento — tra difese più o meno legittime, chiusura dei porti aperti e riapertura delle case chiuse — la gioventù salviniana si accinge ad alzare il tiro. Prossima tappa, la messa al bando di lavatrici e lavastoviglie, strumenti del demonio globalista inventati dagli apolidi del detersivo per distrarre le donne dalla loro missione sociale: sbrigare le faccende domestiche facendo fatica. La mossa successiva sarà l’adozione come poema nazionale dei versi profetici di Checco Zalone: «Che senso avrà questo sole al tramonto, se torno a casa e non trovo pronto. Che senso avrà la rugiada al mattino, senza mutande dentro al comodino».
Da Adnkronos del 6 marzo 2019. La "Lega Giovani Salvini Premier di Crotone" in occasione dell'8 marzo ha pubblicato sul proprio profilo Facebook un volantino con l'identikit di chi denigrerebbe la donna nella società. Il volantino sarà distribuito la sera della festa della donna dai militanti della 'Lega'. A finire sul patibolo degli offensori, sono tra gli altri le quote rosa, l'utero in affitto, gli atteggiamenti che suscitano un atteggiamento rancoroso verso l'uomo e che osteggiano il ruolo della donna a sostegno della famiglia. Sei i punti elencati, con tanto di decoro di mimosa e fiocco rosa, secondo i quali sarebbero offesi ruolo e dignità della donna oggi. Tra questi la pratica dell'utero in affitto; le quote rosa di cui la donna avrebbe bisogno "per dimostrare il proprio valore"; una cultura politica che rivendicando una sempre più marcata autodeterminazione della donna "suscita un atteggiamento rancoroso e di lotta nei confronti dell'uomo" e il contrasto al "ruolo naturale della donna volto alla promozione e al sostegno della vita e della famiglia". Sotto accusa sono anche le proposte di legge 'neo-linguistiche' che sostituiscono le parole "mamma" e "papà" con "genitore 1" e "genitore 2"; e le presunte strumentalizzazioni della donna "per finalità meramente ideologiche" al solo scopo "di fare la rivoluzione", nella convinzione che la donna abbia "una grande missione sociale da compiere per il futuro e la sopravvivenza della nazione".
LE CRITICHE - "I giovani della Lega di Crotone" twitta la vicepresidente della Camera in quota M5S Maria Edera Spadoni, sono "come i fondamentalisti islamici, dichiarano che 'offende la dignità delle donne chi ne rivendica l'autodeterminazione'". "A loro dico: il Medioevo è finito da un pezzo, voi offendete le donne con le vostre dichiarazioni. La Lega prenda le distanze!". "La Lega nostrana ci ha illuminati sul ruolo della donna nella società sovranista del 2019" commentano i Giovani democratici della città di Crotone che definiscono "da santa Inquisizione" il ruolo della donna secondo la Lega Salvini. "Una donna che sembra uscita da qualche manuale in gran rispolvero del MinCulPop (Ministero della cultura popolare del governo italiano nel Regno d'Italia - ndr)". "Sinceramente non si sentiva il bisogno di leggere una descrizione del ruolo della donna che nemmeno la Santa Inquisizione avrebbe saputo tratteggiare - si legge nella nota - Il nostro augurio è quello di passare un otto marzo lontano dalle tinte horror evocate dalla Lega nostrana. Semmai la Giornata internazionale della donna sia l'occasione per riflettere sulle conquiste politiche, economiche, sociali e culturali delle donne e delle lavoratrici. E su quanto ancora ci sia da lavorare, anche a giudicare da ciò che circola nel dibattito pubblico cittadino". ''Care amiche, volete tornare nel chiuso delle vostre case? Volete rinunciare alle vostre ambizioni, al vostro lavoro, alla vostra libertà? Ora sapete chi potete scegliere: la Lega di Salvini" dice il segretario nazionale di Sinistra Italiana e deputato di Leu, Nicola Fratoianni, commentando il manifesto della Lega di Crotone dedicato al ''ruolo naturale della donna'', cioè a casa e in famiglia. ''Questi leghisti sono pessimi. Non dicono mai, mai, mai una parola sulle violenze che subiscono le donne e fanno un manifesto per dire che la dignità della donna viene offesa dall'autodeterminazione. Cioè dalla possibilità di ciascuna donna di decidere per se stessa. Chiaro?''.
I SOCIAL INSORGONO - Si infiammano i social in un botta e risposta di ogni colore a partire dalla pagina facebook di 'Lega Salvini Premier di Crotone' che in occasione dell'8 marzo ha pubblicato sul proprio profilo Facebook un volantino con l'identikit di chi denigrerebbe la donna nella società. "E intanto il governo sta lavorando per l'Autonomia del Nord dal parassitario sud! Forza lega, autonomia subito. Il nord è stanco di pagare", è il primo "affondo in casa" che si legge sulla pagina Facebook della 'Lega Salvini Premier di Crotone'. Ribatte sulla stessa pagina, rievocando un ritorno alla donna del Medioevo, chi in rete ricorda: "Avete dimenticato la cintura di castità e il rogo per le donne non sposate nel vostro comunicato. Potete provvedere?". L'8 marzo come occasione per fare polemica su gay, gender, quote rosa, autodeterminazione delle donne e chi più ne ha, più ne metta: "Stanno benissimo - taglia corto Viviana - Rispecchia esattamente quello che pensano loro e il loro 'capitano'" "Abbiamo dovuto rileggerlo 6 volte - si legge tra l'altro sulla pagina facebook de 'I Sentinelli' di Milano - Abbiamo controllato non fosse un fake. Abbiamo dovuto prendere un plasil. A parte riuscire a citare gay e migranti persino per l'otto marzo...Offende la dignità delle donne chi ne rivendica una più marcata e assoluta autodeterminazione. Noi siamo governati da questa gente qui".
Fratoianni contro il manifesto della Lega Crotone: "Offesa dignità donna". Il parlamentare di Liberi e uguali commenta il manifesto della Lega di Crotone dedicato al ruolo della donna: "Questi leghisti sono pessimi", scrive Aurora Vigne, Mercoledì 06/03/2019, su Il Giornale. "Care amiche, volete tornare nel chiuso delle vostre case? Volete rinunciare alle vostre ambizioni, al vostro lavoro, alla vostra libertà? Ora sapete chi potete scegliere: la Lega di Salvini". Lo afferma il segretario nazionale di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni, parlamentare di Liberi e uguali, commentando il manifesto della Lega di Crotone dedicato al ruolo della donna. "Questi leghisti sono pessimi. Non dicono mai, mai, mai una parola sulle violenze che subiscono le donne e fanno un manifesto per dire che la dignità della donna viene offesa dall'autodeterminazione. Cioè dalla possibilità di ciascuna donna di decidere per se stessa. Chiaro?", conclude. Lo stoccata fa riferimento all'iniziativa promossa dalla Lega di Crotone, che in occasione dell'8 marzo ha organizzato un gazebo in Via V. Veneto (adiacenze Comune di Crotone). "Nell’occasione - si legge sulla pagina Facebook - sarà diffuso un volantino dal titolo: "Chi offende la dignità della donna?". La Lega Crotone, attraverso un post via Facebook, ha fatto sapere di aver disposto la rimozione del volantino dopo le critiche di Matteo Salvini e l'intervento del segretario regionale della Calabria, Domenico Furgiuele. "Il volantino è stato rimosso dalla nostra pagina Facebook ma l'iniziativa con il gazebo in programma venerdì rimane", ha spiegato il promotore dell'iniziativa, il segretario cittadino Giancarlo Cerrelli. "Distribuiremo i volantini cercando di interloquire con le persone, il senso politico rimane: non ci vogliamo omologare alla festa della donna voluta dal Pd. Non ho parlato con Salvini, non ho capito bene cosa non condivide, ma abbiamo deciso di rimuovere il volantino per non creare ulteriori problemi".
Tuttavia, scrive ecovicentino.it, la Lega di Crotone insiste con il segretario Giancarlo Cerrelli che ribadisce: “Il volantino della Lega di Crotone per la Festa della donna è un inno al ruolo centrale della donna nella società”. Poi replicando a Fratoianni aggiunge: “Una certa sinistra, di cui Fratoianni è un autorevole rappresentante propizia una lotta tra i sessi che vede la donna contrastare in modo rancoroso l’uomo. La Lega, al contrario, esprime la necessità di un’alleanza tra l’uomo e la donna per porre le basi a favore di una società a misura d’uomo”.
Sulla questione è intervenuto anche il sindaco di Crotone, Ugo Pugliese “Si è persa un’altra buona occasione per tacere, scrive calabrianews.it il 6 Marzo 2019. Trovo quel volantino offensivo, vergognoso. Esplicitazione di una cultura di vecchio retaggio, da medioevo, che mortifica la dignità delle donne. Sarebbe doveroso chiedere scusa a tutto il mondo femminile – aggiunge – per queste scioccanti affermazioni che non hanno nulla a che fare con la città di Crotone e con i suoi concittadini”. Il segretario della Lega a Crotone, nonché autore del volantino dell’otto marzo che ha scatenato polemiche in rete afferma di essere stato capito male per colpa “dell’interpretazione che questo volantino porta”. Le dichiarazioni, che arrivano a seguito delle critiche di Matteo Salvini, sono state rilasciate all’Agi. Ma Cerrelli è convinto che il tema che solleva maggiori polemiche sia la critica segretario crotonese della Lega all’autodeterminazione. Poi per farsi meglio comprendere Cerrelli è andato oltre affermando di essere a “favore dell’interpretazione che questo volantino porta”, anche se non è d’accordo “sull’autodeterminazione assoluta”, quella cioè che definisce “senza limiti” e “sostenuta dal femminismo”. Poi arriva la difesa del volantino della discordia affermando che sia “un inno al ruolo centrale della donna nella nostra società mentre una certa sinistra propizia la lotta tra i sessi”. Cerrelli e la Lega dicono di esprimere “la necessità di una alleanza tra uomo e donna e il volantino ha voluto contrastare l’ideologia del pensiero politicamente corretto che fa assurgere la donna come categoria sociale motore della rivoluzione, insieme a migranti e gay”, prosegue. Il problema per il segretario sarebbe dunque “la decostruzione della famiglia provocata dalle battaglie femministe del Sessantotto in poi. Invece di creare alleanza tra uomo e donna, le femministe hanno incrementato una guerra tra i sessi”. E il risultato per Cerrelli sarebbe la perdita del ruolo centrale di punto di riferimento per la famiglia della donna. Poi critiche anche al femminicidio, che per Cerrelli sarebbe responsabile per la creazione della “definizione della violenza di genere, dipingendo gli uomini come dei mostri”. Quando il vero problema per il segretario della Lega non sarebbe gli omicidi e le violenze, bensì “la decostruzione del contesto familiare”. Il femminicidio diventa dunque “una tendenza culturale che fa pensare che l’uomo è cattivo invece di pensare alle vere cause, ovvero la fragilità dei rapporti in una società liquida. Le cause di questi omicidi sono sempre attinenti al rapporto e non si posso confondere con l’odio dell’uomo verso la donna o della donna verso l’uomo; perché’ anche le donne uccidono”.
La replica di Giancarlo Cerrelli: «Volantino della Lega di Crotone è un inno al ruolo centrale della donna nella società». Riceviamo e pubblichiamo, scrive Mercoledì, 06 Marzo 2019, laprovinciakr.it. «Il volantino della Lega di Crotone per la festa della donna - afferma Giancarlo Cerrelli segretario della Lega Salvini Premier Crotone - è un inno al ruolo centrale della donna nella società. Un’autodeterminazione senza limiti della donna sostenuta da un femminismo antagonista contro l’uomo ha favorito un disequilibrio nella società, che ha avuto un riverbero negativo in tutti gli ambiti a cominciare da quello familiare che è stato decostruito scientificamente nelle sue basi. L’autodeterminazione senza limiti che come Lega Crotone disapproviamo è quella che propizia la vergognosa pratica dell’utero in affitto, pratica vietata un mese fa anche dalla Cassazione anche se gratuita, sancendo l’indisponibilità del proprio corpo. Una certa sinistra tende a propiziare dal ‘68 una lotta tra i sessi che vede la donna contrastare in modo rancoroso l’uomo. La Lega di Crotone, al contrario, esprime la necessità di un’alleanza tra l’uomo e la donna per porre le basi a favore di una società a misura d’uomo. Se la sinistra è propensa ad accettare che la donna sia trattata da “incubatrice” per favorire l’egoismo di alcuni; così come intende eliminare i termini “papà” e “mamma” cari alla nostra civiltà e alla nostra antropologia per sostituirli subdolamente con i termini “genitore 1” e “genitore 2”. La Lega di Crotone è evidentemente contraria alla violenza perpetrata da chiunque commessa e ritiene che i cd. “femminicidi” come anche i cd. “maschicidi”, che sono evidentemente da condannare, sono la conseguenza di rapporti familiari sempre più labili e basati sulle emozioni».
Da La Zanzara - Radio 24 del 7 marzo 2019. “Non abbiamo scritto che il ruolo della donna è quello di restare a casa ed accudire i figli. Ma per sua natura il ruolo della donna è essere madre. Invece oggi una donna che fa figli viene considerata una donna che non è normale”. Così Giancarlo Cerrelli, segretario della Lega di Crotone e autore del manifesto per l’8 marzo accusato di “sessismo”. “Una volta – dice - la sinistra usava il proletariato per fare la rivoluzione, oggi non lo guarda più in faccia, e usa le donne, i gay e i migranti”. Cosa pensa dei gay?: “Sono delle persone. Ma distinguo tra omosessuale e gay. Omosessuale è colui che vive tranquillamente la propria omosessualità, mentre il gay è un agente politico. E’ colui che vuole imporre alla società delle leggi, un modo di sentire. Il problema è che l’omosessualità è ormai à la page. Chi non è omosessuale è in qualche modo escluso da tante cose quindi non c’è un problema di omofobia. Sono più discriminati gli eterosessuali che gli omosessuali”. “L’omosessualità – dice Cerrelli – è un disordine. La norma è che agli uomini piacciano le donne ed a una donna piacciano gli uomini. E’ un disordine da un punto di vista naturale, perché l’organo sessuale maschile serve per essere inserito nell’organo genitale femminile e non in altri orifizi dove è una forzatura”. “Il sesso tra uomini – dice ancora – è contro natura. Certamente. Ci sono tanti omosessuali che ho conosciuto che avevano un disagio, delle vere pulsioni nei confronti delle persone del proprio sesso e poi hanno fatto delle terapie cosiddette riparative. Tante persone, omosessuali sia uomini che donne, omosessuali militanti che sono tornati etero, sono venute a dirmi di essere felicissimi e di essere passati per le terapie. Dunque possono funzionare, sì. Mi hanno presentato i loro coniugi. Servono a guarire la ferita che soprattutto nell’omosessualità maschile è determinata dall’abbandono del padre, non avere una figura paterna di riferimento. C’è una riparazione di una ferita interiore”. Due maschi che fanno sesso anale sono contro natura?: “Certamente l’orifizio serve a un’altra cosa. Tendenzialmente ha quello scopo. Tra i gay poi la percentuale di tradimenti è altissima”. Se suo figlio fosse gay?: “Certamente non sarebbe una gioia. E’ ovvio che preferisco avere un figlio eterosessuale”.
Quasi la totalità dei media si è parata contro il manifesto, del quale ognuno ha dato una sua personalissima interpretazione femministica, senza, peraltro, quasi nessuno di loro, aver pubblicato pari pari il volantino stesso.
Ecco il contenuto:
Lega Salvini Premier Crotone
8 marzo: chi offende la dignità della donna?
Ci sostiene una cultura e promuove iniziative favorevoli alla vergognosa ed ignominiosa pratica dell’utero in affitto;
Chi sostiene proposte di legge (anche a livello regionale) che tengono ad imporre la neo lingua che sostituisce i termini “mamma e papà” con “genitore 1 e genitore 2”;
Chi ritiene che la donna abbia bisogno di “quote rosa” per dimostrare il loro valore;
Chi sostiene una cultura politica che rivendica una sempre più marcata e assoluta autodeterminazione della donna che suscita un atteggiamento rancoroso e di lotta nei confronti dell’uomo;
Chi contrasta culturalmente il ruolo naturale della donna volto alla promozione ed al sostegno della vita e della famiglia;
Chi strumentalizza la donna, come anche i migranti ed i gay per finalità meramente ideologiche al solo scopo di fare la “rivoluzione” e rendere sempre più fluida e priva di punti di riferimento certi la società.
La Lega Salvini Premier di Crotone è convinta che la donna ha una grande missione sociale da compiere per il futuro e la sopravvivenza della nostra Nazione, non sia, pertanto, mortificata la sua dignità da leggi e atteggiamenti che ne degradano e ne inficiano il suo infungibile ruolo.
Se lo si legge senza paraocchi comunisti e si dà il vero senso alle parole, non sembra che ci sia qualcosa di sessista o misogino nel contenuto del manifesto, anzi è il contrario, salvo dare una connotazione negativa, tenuto conto delle sue origini politiche. Insomma: un processo alle intenzioni.
Il gay, lo zerbino e il piagnone: ecco gli uomini femministi di “Non una di meno”, scrive Cristina Gauri il 7 Marzo 2019 su ilprimatonazionale.it. “Non una di meno” tira fuori l’artiglieria pesante. Per la giornata dell’8 marzo – in cui sono previste una serie di iniziative e manifestazioni “transfemministe” in difesa dei diritti delle donne -, l’associazione ha deciso di far sentire anche la voce dei cosiddetti allies, gli uomini cioè che supportano la causa del femminismo. La carrellata di prototipi maschili proposta dalle pasionarie del movimento si commenta da sé: il gay con l’occhio a mezz’asta e l’erre moscia, il nerd femminista per necessità (che ricorda peraltro una versione un po’ cresciuta di Chunk dei Goonies), e il succube. Tutti e tre hanno l’atteggiamento tipico dei condannati a morte in tuta arancione mostrati nei video dell’Isis. Cristina Gauri.
Il bacio di Klimt tra due uomini vince al Carnevale di Putignano: "Un urlo contro i moralismi", scrive il 6 marzo 2019 Repubblica Tv. E alla fine vince l'amore. Al Carnevale di Putignano, per l'edizione 2019, è il carro del bacio di Klimt tra due uomini a trionfare: il Martedì grasso si è chiuso con il premio al maestro cartapestaio Deni Bianco che con l'associazione Carte in regola ha fatto sfilare il carro 'Chi è senza peccato scagli la prima mela'. Il bacio gay è stato giudicato la migliore declinazione per il tema di quest'anno, 'Satira e libertà', superando di un soffio 'Verso la libertà' di Chiaro e tondo, dedicato ai migranti. "Un urlo contro la società gretta e reazionaria che quotidianamente si macchia dei crimini più bassi ed efferati e, colma di moralismi, trova nel conformismo e nell'emarginazione del diverso da sé il proprio appagamento sociale. Amare è un atto naturale, istintivo e meraviglioso", scrivono i creatori nella descrizione del carro.
«Mi sento un po' uomo ma anche un po' donna»: così rispondono 4 italiani su dieci. Secondo l'indagine statistica Coop il 40 che fotografa l'identità sessuale, il 40 per cento degli italiani non ha un'identità sessuale definita. Uno su due fra i millenial, scrive Gloria Riva il 6 marzo 2019 su L'Espresso. «Mi sento uomo, ma anche un po' donna» dicono quattro italiani su dieci. Già l'identità di genere lungo lo stivale è liquida al punto che solo il 61 per cento si identifica pienamente con il proprio sesso dominante, e dichiara di non avere alcun dubbio al proposito. Tutti gli altri, invece, hanno una visione di gran lunga più sfumata: il 36 per cento dice di avere un'identità incerta, o di essere assolutamente no gender (uno su dieci), mentre il tre per cento ha un'identità opposta, cioè si dichiara gay. A fotografare l'identità sessuale degli italiani è l'indagine Gli italiani & il sesso condotta da Italiani.coop, centro di ricerca dell’Associazione Nazionale Cooperative di Consumatori Coop, che studia e analizza i mutamenti socio-economici degli italiani. Il report è stato realizzato a partire dai risultati dell’indagine Stili d’Italia, condotta tra maggio e giugno 2018 con metodologia Cawi su un campione di 7 mila individui tra i 18 e i 65 anni. «Il sesso per gli italiani non è più un tabù e lo dimostra il fatto che le persone intervistate non hanno avuto problemi a raccontarsi e dichiararsi a proposito delle proprie tendenze sessuali e di genere», racconta Albino Russo, direttore di Italiani.coop, che conferma come «l'errore statistico di questa ricerca è piuttosto basso e quella ottenuta è una fotografia molto nitida delle tendenze della popolazione».
La categoria emergente dei no gender è composta soprattutto da maschi giovani, infatti il 22 per cento degli under 35 si dichiara tale: «Sono soprattutto i giovani ad avere meno identità sessuale e una delle motivazioni sta, ovviamente, nel più libero approccio culturale alle questioni di genere rispetto alle restrizioni sociali che hanno modellato il pensiero delle generazioni più grandi. La maggior presenza maschile, invece, potrebbe indicare una sofferenza della mascolinità nell'affermare se stessa», spiega Russo. Non solo i giovani si dichiarano no gender, ma tendono anche a essere meno attivi sessualmente. Un italiano su quattro dichiara di avere una vita sessuale attiva e soddisfacente, ma il 17 per cento dei Millennials, cioè i giovani con meno di 35 anni, dichiara di non avere rapporti e di essere totalmente disinteressato. «Anche i baby boomer (di età compresa tra i 56 e i 65 anni) c'è un 28 per cento di asceti, ma qui è più probabile che giochi un ruolo chiave la componente ormonale e biologica che riduce lo stimolo sessuale», mentre per i giovani potrebbe essere colpa del portafogli e della scarsa indipendenza famigliare: «La disoccupazione giovanile non facilita l'abbandono del nido famigliare e questo riduce la possibilità di avere una vita sessuale attiva», spiega Russo, riferendosi al triste primato italiano del 26 per cento di giovani con meno di 34 anni che non lavora e non studia, contro una media europea del 15 per cento. Ma non è da escludere che dietro all'astensione non si nasconda anche «una qualche forma di confusione, disagio o timore nei confronti del sesso, tanto più che questa stessa ricerca conferma una chiara e nitida inversione di rotta rispetto ai cliché del passato, che erano certo rigidi ma molto semplici e facili da seguire». Lo status economico influenza direttamente la percezione della propria attività sessuale. Infatti il 71 per cento di chi ha un reddito famigliare superiore ai novanta mila euro è soddisfatto della propria vita sessuale, mentre solo il 58 per cento di chi guadagna meno di 30 mila euro l'anno la pensa allo stesso modo. Forse i soldi non faranno la felicità, ma pare che sotto le lenzuola aiutino. «Probabilmente perché il sesso risente delle preoccupazioni, come conferma la correlazione fra una scarsa vita sessuale e chi soffre di stress, ansia, insonnia e depressione. Al contrario, chi ha meno preoccupazioni, dichiara di avere una vita sessuale più soddisfacente», anche se non è chiaro quale sia la causa o l'effetto: fare più sesso rende più felici o essere felici migliora l'attività sessuale? Il quesito resta irrisolto. Poco incoraggiante è la tendenza degli uomini a tradire le donne. Se in linea di massima solo un italiano su sei tradisce il compagno, le donne lo fanno la metà degli uomini: i maschi traditori sono il 27 per cento, le donne solo il dieci per cento. Non solo, i traditori (maschi) seriali sono il cinque per cento, contro il due per cento delle donne. Stessa storia per i club privé: sono frequentati dal 16 per cento dei maschi, mentre le donne che ci hanno messo piede sono solo il sette per cento. A tal proposito i millennial si scoprono meno fedeli dei loro genitori (fra gli under trentacinque tradisce uno su cinque, fra i baby boomer uno su sei). «Incrociando la percentuale di coloro che dichiarano di avere una vita soddisfacente con chi compra sex toy, si scopre che chi li compra e ha una visione più disinibita e giocosa del sesso ha anche una vita sessuale più serena», spiega Russo, che fa notare come, anche in questo caso si tratta di altro grande tabù che viene meno: «Fino a quindici anni fa i sexy shop erano locali marginali, nascosti, spesso situati in zone poco raccomandabili. Oggi i negozi si trovano nelle vie del centro e quegli oggetti sono entrati a far parte della vita comune delle persone». Un contributo enorme alla liberalizzazione del tema sesso è indubbiamente venuto dal web e dal digitale. Mentre i social sono diventati un mezzo per conoscere persone nuove, soprattutto per gli uomini: il 47 per cento dei maschi dichiara di chattare con sconosciuti almeno una volta al mese, contro il 29 per cento delle donne. E poi c'è il fenomeno Tinder, il più famoso social network di incontri, che è utilizzato dall'otto per cento degli uomini e dal quattro per cento delle donne. I più assidui sono i Millennial: il 20 per cento lo usa o l'ha utilizzato in passato. Infine circa la metà degli italiani sa cosa significhino le sigle Lgbt (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender), Bdsm (Bondage e sadomaso) e Poliamorosi. «Sono poco conosciute, ma frequentate da più di un italiano su 20 e chi prova curiosità per queste comunità o ha amici che ne fanno parte è più numeroso rispetto a chi prova avversione. Significa che i tolleranti sono molti più degli haters e quindi gli italiani non sono spaventati da questa realtà», continua il direttore di Italiani.Coop, facendo notare come, al contrario, in Italia «c'è molta più diffidenza rispetto allo straniero rispetto alle comunità gay». Più in generale, se si pensa che il 10 per cento degli italiani si dichiara no gender e che la metà di questi è militante in una comunità sessuale, «si comprende come l'identità sessuale sia sempre più liquida e andiamo verso un'ibridazione sempre più spinta, dimostrata dal fatto che il 50 per cento dei millennials non ha una forte connotazione sessuale. È un fenomeno maggioritario, con il quale dovremo confrontarci con sempre maggiore frequenza nel futuro».
Emiliana Costa per Leggo del 6 marzo 2019. A Pomeriggio 5 si parla della dichiarazione di Lory Del Santo: «Concedersi sessualmente per fare carriera? Giusto se si ottiene qualcosa». In collegamento, Vittorio Sgarbi. Barbara D'Urso prende le distanze dall'opinione di Lory e il critico d'arte va su tutte le furie. «Maria De Filippi - avrebbe detto Sgarbi - mi ha dato ragione, la sua carriera è nata con Maurizio Costanzo. Studia invece di dire stronzate». Barbara D'Urso avrebbe risposto: «Maria e Maurizio sono innamoratissimi». Sgarbi va su tutte le furie: «Ma tu gliel'hai data a Costanzo se era così bello? Dagliela. E la Pascale sta con Berlusconi perché è bello? La Gregoraci con Briatore?». Secca la replica della conduttrice: «Io sono stata solo con poveri che ho aiutato io, fin da bambina. Non ho dato neanche un bacio in bocca per lavorare». In studio anche Caterina, la moglie di Fulvio Collovati, che afferma: «Perché Sgarbi può dire nefandezze e nessuno lo caccia e mio marito è stato crocifisso?». A quel punto il critico va fuori di sé: «Chi è questa cretina? Povera cretina. Oca starnazzante. Chi cazzo sei? Imbecille». A fatica Barbara D'Urso riporta la calma in studio. La trasmissione riprende. Sgarbi colpisce ancora.
Da I Lunatici Radio2 del 7 marzo 2019. Laura Freddi è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. Laura Freddi è tornata a parlare del suo periodo a Non è la Rai: "E' stato l'inizio di tutto. Un periodo molto divertente, spensierato, avevo 19 anni. Ero molto timida, sembrava che ne avessi 14 o 15. Mi nascondevo, non volevo assolutamente apparire davanti alle telecamere, ero un po' scontrosa con tutti, non ero simpatica a molte ragazze, perché ero un po' schiva. Un giorno Boncompagni mi prese da parte e mi chiese perché mi nascondessi. Mi ha spronata, ho preso una dose di autostima, mi sono ritrovata in un lavoro che ancora non avevo compreso bene. Mi sono lanciata e sono piano piano diventata addirittura la protagonista del cruciverba. Da lì la mia vita è cambiata, non potevo più fare neanche una passeggiata a Via del Corso. Per me era normale uscire con le amiche, ma è stato impossibile continuare in quel senso a uscire da sola, io mi portai dietro praticamente tutta Via del Corso quel giorno, mi sono accorta che qualcosa stava cambiando, ero diventata nota al pubblico. All'inizio non capivo il motivo di tutto questo clamore. Ancora oggi tutti quelli della mia generazione mi fermano e non dicono Laura di 'Buona Domenica', ma Laura di 'Non è la Rai'. Diventare famosa mi ha portato a cambiare alcune abitudini, a stare attenta. I miei genitori mi accompagnavano con la macchina al Palatino, dove ci sono gli studi, ci si buttavano sulla macchina, i ragazzini si mettevano sul cofano, non ci facevano passare. Ad accompagnarci arrivava la polizia, una cosa del genere non è mai più successa". Su Buona Domenica: "Per me è stata l'apice. Avevo più consapevolezza, facevo il mio lavoro con una maturità diversa, una testa diversa. E' stata l'esperienza più bella che ho fatto, c'era la squadra di Costanzo, c'era Laurenti, Lippi, Pino Insegno. Ho lavorato con grandi professionisti, dietro c'era un lavoro enorme, si facevano le prove, ho studiato canto, volevo essere preparata. I reality? Hanno contaminato tutti i programmi. Non sono contraria, ho anche partecipato a un grande fratello, ma i reality hanno cambiato la televisione, dando la possibilità di diventare famosi senza fare nulla. Veniva gente che aveva fatto i reality che non voleva fare le prove". Sul #metoo: "Ho avuto problemi di un certo tipo, ma certe cose si risolvono al momento, con un ceffone, uno schiaffo, una ribellione. Capisco che ci siano ragazze più deboli e più fragili e ovviamente non giustifico chi si approfitta di queste debolezze, però per quello che mi riguarda sicuramente sono arrivate proposte indecenti, ma ho saputo respingerle. Il carattere aiuta, io sono sempre stata abbastanza tosta. Ne ho incontrati di personaggi ambigui, ma li ho portati a fare subito retromarcia. Poi è un altro discorso se uno nel lavoro incontra l'amore. Comunque, siamo noi a decidere ciò che vogliamo fare nella vita. Sono le donne che decidono. Se ti chiama un regista e sì ti dà la parte ma poi vuole qualcosa in cambio, si capisce subito. Evidentemente lì c'è la voglia di arrivare ad un successo, ma quella non è l'unica carta da giocarsi. Ringraziando Dio alle ragazze che vogliono fare questo mestiere dico che non è solo così. Pensateci bene, perché ci si rovina la psiche, la mente. Se accetti certi compromessi diventa un problema psicologico che poi negli anni rischia di farsi sentire. Per le donne arrivare è più complicato, quando si è belle, simpatiche e intelligenti è ancora più difficile. La bellezza è un vantaggio, ma bisogna saperla gestire". Sul futuro professionale: "Io mi sono sposata, ho fatto una figlia, ho scelto di uscire per un po' da questo mondo, perché ero stanca di meccanismi che non sono così semplici. A un certo livello diventa tutto pressante, non solo fisicamente, ma anche di testa. Entri in una ruota che gira, gira, gira e speri che non si fermi mai. Non è facile nel momento in cui si ferma ricominciare a farla girare. Però bisogna avere il coraggio di fermarsi, soprattutto per godersi i momenti belli della vita. Credo che presto ritornerò in teatro".
Giampiero Mughini per Dagospia il 7 marzo 2019. Caro Dago, c’è che fra gli altri danni della maledetta vecchiaia sto diventando sordo. E dunque nell’ascoltare alla radio che domani 8 marzo, - Giornata delle donne - ci sarebbe stato una sorta di sciopero generale dei servizi pubblici, ero convinto di avere inteso male. Non era possibile che avvenisse una tale porcata; non era possibile che a festeggiare le Donne e la loro centralità nella nostra vita e nella nostra immaginazione si rompessero i coglioni a uomini/donne che vanno al lavoro lontano da casa e magari prendono due o tre mezzi pubblici per arrivarci, a uomini/donne che vanno a casa dei propri genitori anziani ad assisterli e aiutarli, a uomini/donne che vanno in ospedale a rincuorare un loro congiunto momentaneamente malconcio. E così via all’infinito. No, non era possibile una tale porcata, una tale mossa suicida, una tale ostinazione da gangster. E invece no. Questa volta avevo sentito benissimo. Al giornale radio una donna tra le promotrici della porcata ha spiegato il perché della faccenda. Lo sciopero è un modo per ricordare che ancora quarant’anni fa esisteva il cosiddetto “delitto d’onore”, per ricordare a che a tutt’oggi il lavoro delle donne è pagato meno del corrispondente lavoro maschile. Ricordare tutto questo e tutte le volte che si può è giusto e sacrosanto. Ma non c’entra nulla col fatto di rompere i coglioni al prossimo, uomini e donne che siano. Lo sciopero dovrebbe essere un gesto col quale si mette in difficoltà il Cattivo, gli si abbassa il guadagno, lo si mette spalle al muro. Nell’Ottocento era questo il suo intento, il suo valore simbolico. Adesso siamo nel terzo millennio, quando lo sciopero in una vertenza contrattuale è la mossa della disperazione, l’ultima carta che possono giocare i lavoratori dipendenti. Qui non c’è nessun padrone da mettere spalle al muro, nessunissimo lavoratore dipendente da galvanizzare, c’è che crei danno e fastidio e rottura di coglioni specie in una grande città. Per quel che mi riguarda io me ne strafotto della Giornata delle donne, e questo perché tutti e 365 giorni dell’anno penso a quanto siano state importanti e quanto siano state stronze le donne che hanno contato nella mia vita. Tutti e 365 giorni all’anno. Mi scoccia che proprio l’8 marzo i miei pensieri sull’argomento debbano essere avvelenati da una rottura di coglioni.
Corinna De Cesare per il “Corriere della Sera” del 7 marzo 2019. Uno che di soldi se ne intendeva, diceva sempre che «Il lavoro nobilita e il denaro facilita». Chissà se il fondatore di Amazon Jeff Bezos sarà d' accordo visto che di recente è stato ricattato per le foto intime con Lauren Sanchez, la giornalista televisiva per cui ha lasciato la moglie con la quale stava insieme da venticinque anni. Mai come in questo caso si parla di divorzio più ricco di sempre, letteralmente. Bezos è infatti l'uomo più ricco al mondo e ieri a certificarlo è arrivata pure la classifica Forbes che lo ha confermato per il secondo anno di fila davanti a Bill Gates, fondatore di Microsoft. La 2019 «World' s Billionaires» conta per l'amministratore delegato di Amazon un patrimonio di 131 miliardi di dollari, diciannove in più dello scorso anno. Ma a quanto pare negli Stati Uniti sono tutti in attesa di capire quanto il divorzio sgonfierà il tesoretto: secondo la stampa americana, non avendo optato per la separazione dei beni, Bezos potrebbe dover dare alla moglie la metà del suo ingente patrimonio, il che renderebbe la sua ex la donna più ricca del mondo. Più di Françoise Bettencourt Meyers, erede del gruppo transalpino L' Oréal che con 49,3 miliardi di dollari detiene oggi il record al femminile. E senz' altro più del patrimonio della giovane Kylie Jenner, sorellastra 21enne delle Kardashian che con qualche trucco sui social (nel senso di make up), è diventata la più giovane miliardaria «self-made», ossia che si è fatta da sola. La sua fortuna, stimata in un miliardo di dollari, l'ha portata a scalzare persino Mark Zuckerberg che superò il miliardo quando di anni ne aveva ventitré. Lei a colpi di sorrisini, trucchi e parrucchi su Instagram è arrivata a contare 128 milioni di follower, circa due volte la popolazione residente in Italia. Roba che in confronto, l'account Instagram di Chiara Ferragni (sedici milioni di follower) case history ad Harvard, sembra ancora la dolce e appassionante storia di riscatto di una ragazza di periferia. «Ho pubblicato delle storie, ho usato i social, ho fatto quello che faccio di solito e ha funzionato» ha ammesso candidamente Kylie per giustificare il clamore del record e la sua gigantesca fortuna. Strategia opposta a quella di Massimiliana Landini Aleotti, italiana, classe 1942, nonna di tre nipoti, assente da qualsiasi piattaforma cosiddetta social ma presente da anni nella classifica dei miliardari di Forbes insieme ai figli Alberto e Lucia. Ha ereditato dal marito, Alberto Aleotti, morto nel 2014, il gruppo farmaceutico Menarini. Di lei non si sa niente, salvo che con un patrimonio di 7,4 miliardi si colloca al 198esimo posto della classifica generale della rivista americana ed è di fatto tra i primi cinque più ricchi d' Italia. Prima di lei solo Giorgio Armani, Stefano Pessina (Ceo di Walgreens Boots Alliance), Leonardo Del Vecchio (Luxottica) e Giovanni Ferrero, l'italiano più ricco, che con la Nutella conta un patrimonio stimato in 22,4 miliardi. Anche lui è totalmente assente dai social. «Il lavoro nobilita e il denaro facilita» diceva zio Paperone, uno che di soldi se ne intendeva. Oggi c' è Kylie che dice: «Ho pubblicato delle storie, ho usato i social, ho fatto quello che faccio di solito e ha funzionato...».
· Donne e sinistra: il modello è l'Islanda o lo Yemen?
Diritti delle donne: il modello è l'Islanda o lo Yemen? Scrive Carlantonio Solimene l'8 Marzo 2019 su Il Tempo. Il dibattito sulla festa dell'8 marzo - su quanto sia attuale e su quanto percorso le donne debbano ancora fare per ottenere davvero pari opportunità rispetto agli uomini - è stato quest'anno anticipato dal volantino pubblicato dalla sezione crotonese della Lega di Salvini. Nel quale, sostanzialmente, si spiegava come il ruolo "naturale" della donna sia quello di fare figli e accudirli. Rappresentare, insomma, il "focolare" della famiglia. E, possibilmente, non litigare con l'uomo a causa di chi fomenta la lotta per certi diritti. Ecco, a costo di risultare impopolare, dirò che l'affermazione secondo la quale "il ruolo naturale della donna è fare figli e accudirli" mi trova sostanzialmente d'accordo. E lo sarò fino a quando non sarà stato inventato un sistema per far sì che anche gli uomini possano partorire o allattare un bambino. Il punto, a mio avviso, è un altro: è giusto "arrendersi" a quel che impone la natura o si può trovare un modo per rendere questa condizione più accettabile? Voglio dire: il "ruolo naturale" degli esseri umani sarebbe, ad esempio, quello di spostarsi a piedi a una certa velocità. Perché la natura ci ha dato gambe, non ruote e neppure ali. Eppure, nel corso dei secoli, sono state inventate automobili e aerei. Così oggi gli uomini possono spostarsi da un luogo a un altro a velocità un tempo impensabili. E spesso addirittura "volando". La natura non lo consentiva. Eppure è successo. E credo che nessuno, potendo, tornerebbe indietro. Così dovrebbe avvenire anche per i diritti delle donne. Con che sistema? Ho letto ieri un'intervista ad Ambra Angiolini nella quale, giustamente, l'attrice si lamentava per il fatto che a una donna, durante un colloquio di lavoro, venga spesso chiesto se vorrà essere madre. "E' una domanda imbarazzante e sessista" ha accusato. Personalmente, però ritengo che il "colpevole" di una tale domanda non sia il datore di lavoro, costretto a fare i conti per la sua azienda e a calcolare quale potrebbe essere il danno economico a causa di una lavoratrice assente svariati mesi per una gravidanza. Bensì lo Stato che non crea le condizioni affinché assumere una donna o un uomo non comporti alcuna differenza. Occorrerebbe, insomma, creare un welfare che sostenga davvero le donne (e le mamme) permettendo loro di scegliere serenamente se e quando fare un bambino senza correre il rischio di dover rinunciare alla carriera lavorativa e alla propria realizzazione. In qualsiasi forma esse la intendano. Penso alla possibilità per un'azienda di assumere un'altra donna durante il periodo di gravidanza di una dipendente senza spese aggiuntive. Penso a un assegno familiare che copra realmente le spese che comporta un figlio. Penso a posti sufficienti e gratuiti negli asili nido per chiunque non abbia un reddito personale davvero cospicuo. Penso a un congedo di paternità più lungo. Penso, sostanzialmente, a tutto quello che da tempo si fa in svariati Paesi del nord Europa. Sono queste le politiche che un governo attento alla famiglia dovrebbe realmente mettere in campo. Anzi, mi correggo: sono queste le politiche che io metterei in campo per realizzare la società che a me piacerebbe. Poi, è chiaro, ognuno ha i suoi modelli di riferimento. Chi ha redatto il volantino della Lega di Crotone probabilmente aveva in mente un altro tipo di schema. Basato, probabilmente, su un modello "patriarcale". Il punto è che il governo dovrebbe farci sapere come la pensa sulla questione. Vuole volare o continuare a camminare, come imporrebbe la natura? Si ispira all'Islanda, la nazione con il minor gap tra uomini e donne secondo il Global Gender Gap Report 2018 realizzato dal World Economico Forum? Oppure allo Yemen, al Pakistan, alla Siria, ultimi nella stessa classifica? Per inciso, quel rapporto colloca l'Italia intorno al settantesimo posto. Fortunatamente in risalita di una decina di posizioni rispetto al 2017. Ma la strada da fare è ancora tanto lunga.
Lettera di Maria Giovanna Maglie a Dagospia del 7 marzo 2019. "Caro Dago, sicuramente la Lega di Crotone e il suo segretario Giancarlo Cerrelli hanno commesso alcuni errori tremendi nella vicenda del famoso volantino per l'Otto Marzo. Il primo è quello di aver cancellato dai social il corpo del reato, non si fa mai, anche se posso capire ( è successo anche a me con una polemica su Sanremo) che uno si senta soverchiato dalla strumentalizzazione, dagli haters, e dalle maestrine con la penna rossa equamente distribuite a destra e a sinistra, le stesse che sulla povera Pamela Mastropietro hanno ritenuto di dire il minimo indispensabile per non turbare l'afflusso delle risorse, allora ed anche in queste ore, quando sanno che il nigeriano colpevole assieme ai suoi complici cominciò a tagliare a pezzi la ragazza ancora viva. Il secondo è quello di fare dichiarazioni post e di rilasciare interviste, perché o sei veramente scafato o poggi la testa sul ceppo, perché si tratta di trappole costruite per farti dire cose che aggravano la tua posizione, e se provi a spiegarti ti stai arrampicando sugli specchi, se lo fai in maniera convincente è perché hai un vecchio mestiere di avvocato e sei capace di difendere l'indifendibile, Insomma di quello che può essere chiarito non gliene può fregare di meno, perché già hanno provveduto con editoriali sdegnati a decretare che così si torna indietro verso il mai abbastanza vituperato povero Medioevo. Ho riletto il famigerato volantino che naturalmente è stato inutile rimuovere dai Social perché imperversa sulle prime pagine dei giornaloni e nei servizi TV. Capisco che Matteo Salvini si sia dissociato anche se in parte perché ha grane più grosse da risolvere e fa il leader della Lega di tutta Italia, non di Crotone; e perché tutto il bordello è stato montato e lo sarà per attaccare lui e l'agenda di programma della sua Lega oltre che della sua parte al governo. È la cifra scelta dal nuovo corso PD con Nicola Zingaretti, ius soli contro porti chiusi, pericolo Far West contro legittima difesa, in mancanza di progetto popolare, e speriamo che i 5 stelle di governo non debbano subire analoga offensiva dei loro 5 Stelle di opposizione, perché “Nì TAV” e “Reddito di pigranza” sono slogan che ce l'hanno anche con loro. Esponenti donne dei 5 Stelle hanno infatti guidato in queste ore gli attacchi alla Lega di Crotone per il sessismo, il maschilismo e la misoginia presunti del volantino. Ma io non ricordo rivolte interne, dichiarazioni urticanti o levate di scudi quando per esempio un loro deputato rivolto alle parlamentari democratiche disse “siete qui perché sapete fare i pompini”, o quando un altro chiosò “la Boschi sarà ricordata più per le forme che per le riforme”; e fra le tante sortite di Grillo come non citare la consigliera comunale di Bologna Federica Salsi, che disobbedì al divieto di partecipare ai talk show e per questo venne espulsa, erano altri tempi. Prima però Grillo commentò da par suo, paragonando quella partecipazione «al punto G, quello che ti dà l’orgasmo nei salotti dei talk show». Per dire che a seconda di chi l'ha detto si tratta di libertà di espressione, diritto di critica, possibilità che va concessa a tutti anche di sbagliare di esprimere concetti controversi, oppure si tratta di fascismo, razzismo, populismo, e vai con l’ismo. Che avranno detto mai da quel di Crotone il segretario e i ragazzi della Lega da meritare di assurgere a polemica rovente nazionale, se non per il bad timing di fornire un'occasione vuoi di attacco al Truce vuoi di occasione un po' tirata per i capelli di ravvivare un 8 marzo ormai celebrazione vecchia, stantia, vuota, con le povere mimose staccate dall'albero dieci giorni prima che galleggiano nella plastica delle confezioni secche e puzzolenti? Hanno detto che offende la dignità delle donne tutto l'anno e non solo l'otto marzo chi difende la pratica dell'utero in affitto. La pratica dell'utero in affitto è avversata, criticata, contrastata come una forma di umiliazione e di riduzione in schiavitù contemporanea e occidentalizzata delle donne in modo decisamente trasversale anche da donne di sinistra e anche dalle femministe. E allora? Hanno detto che offende la dignità delle donne tutto l'anno la pratica del genitore 1 e genitore 2 al posto di mamma e papà. Ora, se non vado errata, una disposizione del Ministro dell'Interno ha ripristinato sui documenti la vecchia sana regola di mamma e papà, e mi pare quindi che la Lega di Crotone ribadisca quel che è già stato stabilito, e che qualsiasi iniziativa regionale si scontrerà quindi con una disposizione dello Stato. Hanno detto che offende la dignità delle donne tutto l'anno la scelta delle quote rosa a sostituzione dell'affermazione del valore delle donne come degli uomini nel mondo del lavoro. Vexata quaestio, io ritengo da vecchia femminista che, finché la parità di accesso non è culturalmente garantita ovunque, una temporanea attribuzione di quote non faccia male a nessuno, al contrario, ma ancora una volta la polemica contro le quote rosa è abbondantemente condivisa a sinistra ed è decisamente trasversale, soprattutto perché la maggioranza delle giovani donne rifiuta di essere considerata, così dicono, come una specie protetta, un panda da proteggere, e preferiscono la lotta anche a coltello. Hanno detto che offende la dignità della donna tutto l'anno chi sostenga una autodeterminazione sempre più radicale che ingenera rancore e conflitto con l'uomo. E qui l'hanno fatta fuori grossa perché hanno toccato un punto molto dolente, ma non per questo hanno detto una sciocchezza. Autodeterminazione vuol dire poter decidere del proprio destino, vale per le donne come vale per gli uomini, anche se è diventato un termine connaturato alle rivendicazioni dell'emancipazione femminile, e si capisce, perché le donne dovevano per forza stare a casa, perché c'era il delitto d'onore. Che cosa sia diventata oggi l’autodeterminazione, all'epoca del “metoo”, che ha trasformato la ribellione femminile contro prevaricazioni ancora forti in strumentale e odioso ricatto, all'epoca del “meglio puttana che salviniana”, all'epoca in cui si definisce espressione di “analfabeti funzionali” la libera scelta di elettori chiamati a un voto secondo suffragio universale, sarebbe discussione tutta da avviare. Come lo è la ulteriore affermazione spericolata del volantino di Crotone al punto in cui mette insieme donne omosessuali ed immigrati invitando di fatto non strumentalizzarli e a non farsi strumentalizzare, a non credere al verbo del politically correct che li vuole sempre avanguardia rivoluzionaria. Di che? Ma il testo del volantino diventa materiale incendiario anche se di periferia quando tocca il ruolo della donna a “promozione e sostegno della vita e della famiglia. Bene, questo è un manifesto conservatore, quindi difende valori di conservazione della vita e della famiglia, tutte e due messe a dura prova da una crisi sociale e da un calo demografico che sono all'origine della nostra decadenza e che sono anche argomento quotidiano di dibattito. Come e perché la famiglia sia in crisi, lo sia anche la coppia, come e perché questo Paese sia a crescita zero e si debba insinuare nelle nostre menti che i figli li potranno fare solo gli immigrati e quindi bisogna che ne arrivino sempre di più, non è però un argomento solo conservatore, a parte il fatto che conservatore, al pari di sovranista e populista, non è una parolaccia e neanche, almeno per il momento, un reato. Da Crotone propongono una visione e un'alternativa: non sei d'accordo, lo dichiari, nessuno scandalo. Ma le donne, Caro Dago, non c'entrano proprio niente, come spesso capita. A corto di argomenti per L'Otto Marzo, data succosa, la categoria/elite ammaccata ma non doma intellettual-giornalistica-universitaria ha montato un caso come le viene richiesto, con la prosopopea e la sicumera di rappresentare tutti che ormai è ridicola, ma persistente. Con l'obiettivo abituale di far risultare Matteo Salvini un oscurantista, razzista, fascista. Ottengono l'effetto opposto anche se inquinano i pozzi e bruciano i campi. Quanto a me, invece di esercitare una sana critica, mi tocca stare coi ragazzi della Lega di Crotone. E ora sparatemi".
La festa della donna, scrive l'8 marzo 2019 Augusto Bassi su Il Giornale. «Festa della donna: solo il 27% nel mondo crede ci sia parità», titola l’Ansa. Asserzione magistrale. Emblematica del disordine logico e sessuale dei tempi. Festeggiano le donne affliggendosi per l’assenza di parità, eppure… se si inverasse la parità agognata non ci sarebbe più alcuna specificità da festeggiare. Personalmente, dal frangibile propugnacolo di un blog, vorrei fare tanti auguri a tutte le signore lettrici: siete fantastiche! Ma temendo possa essere interpretato come auspicio sessista, vorrei fare tanti auguri pure a tutti i maschi lettori: siete fantastiche anche voi!
LA SCOPERTA DELL’ACQUA CALDA. Francesca Sforza per La Stampa il 5 aprile 2019. Un dossier piuttosto pesante, quello caduto questa mattina sui tavoli delle redazioni dei giornali e delle tv. Si tratta dei risultati di un’indagine condotta dalla Federazione Nazionale della Stampa tramite la sua Commissione Pari Opportunità, presentata oggi a Roma da Linda Laura Sabbadini che ne ha curato il questionario in qualità di consulente scientifica, e dedicata a fare il punto sulle molestie sessuali contro le donne nel mondo dei media. Su 2275 questionari inviati a giornaliste dipendenti dei media (esclusi i periodici) ha risposto il 42%. Oltre mille dunque le intervistate, che hanno raccontato, rispondendo alle domande in forma anonima, di vite professionali costellate da molestie nell’85 per cento dei casi. Quasi tutte hanno sperimentato battute verbali, sguardi, insulti, svalutazioni, ma il 59,1 per cento ha ricevuto anche inviti insistenti, pressioni via social, pedinamenti, richieste esplicite. Per arrivare al dato più grave in assoluto, che registra la presenza di ricatti sessuali nel lavoro per il 35,4 per cento delle colleghe di cui l’1,3 nell’ultimo anno. Alla domanda: «Hai mai avuto richieste di prestazioni o rapporti sessuali per progredire nella carriera e mantenere il tuo rapporto di lavoro?», il 2,7% ha detto sì, nell’arco degli ultimi 5 anni. Il 2,4% si è sentita rivolgere richieste in fase di assunzione, e all’1,8% è stato fatto capire che essere sessualmente disponibile l’avrebbe facilitata nella ricerca di un lavoro. Per l’8,5%, nel corso della vita professionale, la molestia si è tradotta in violenza o tentata violenza sessuale (c’è uno 0,2% che ha dichiarato di essere stata forzata ad avere un rapporto sessuale negli ultimi 12 mesi). La maggior parte delle donne molestate lavorava nei quotidiani e nelle tv, e aveva un contratto a tempo indeterminato. Nella maggior parte dei casi si è trattato di un singolo episodio, ma c’è un 18 per cento che ha ammesso di aver subito molestie per più di un anno. Soprattutto all’interno delle redazioni, spesso davanti ad altri colleghi, e a tutte le età (la maggioranza nella fascia 27-30 anni). Gli autori sono in maggioranza uomini (nel 98,6% dei casi, mentre è una donna nell’1,4%) e superiori, di età compresa tra i 45 e i 60 anni. Il 26,9% ha subito molestie dal suo diretto superiore, il 16,7 da un collega con maggiore anzianità, il 14,8 da direttore o vicedirettore e l’11,3 da un superiore non diretto. Dice molto, inoltre, del clima che si respira in alcune redazioni, il fatto che in quasi un terzo dei casi, altri colleghi hanno assistito a episodi di molestie senza intervenire, forse per “accettazione” o per scarsa consapevolezza della gravità delle molestie. Le donne molestate hanno dichiarato di aver confidato la cosa ad altri colleghi, in percentuale molto minore al loro direttore (8,5% dei casi), al sindacato (3,5%) o alla polizia (0,5%). Alla domanda «perché non hai presentato denuncia?», la maggior parte ha risposto che si è trattato di un episodio isolato (42,8) che era inutile (22,7) o che aveva paura di essere giudicata male o non creduta (10,8). Contro l’autore non vengono presi provvedimenti nel 90,6% dei casi, anche se, a conoscenza delle intervistate, nel 25 per cento dei casi le molestie si sono ripetute nei confronti di altre donne. Così come il 44 per cento delle intervistate ha detto di essere a conoscenza di molestie subite da altre colleghe. E dopo le molestie? Il 50% ha dichiarato di aver continuato a lavorare come se nulla fosse, un 15,8 ha detto invece di essersi sentita penalizzata, il 5% è andato via, il 4,9% ha rinunciato alla cartiera, il 4% ha cambiato lavoro. «I dati sono orientativi e vanno presi con cautela - ha detto Sabbadini nel presentare l’indagine - ma segnalano la necessità di un’attenta riflessione e azione seria e concertata da parte di chi è a capo dei media e degli editori. Questa situazione - ha aggiunto - prefigura l’esistenza di dispari opportunità».
· Perché le donne vivono più degli uomini?
PERCHÉ LE DONNE VIVONO DI PIÙ DEGLI UOMINI? Monica Virgili per il “Corriere della Sera - Salute” il 13 dicembre 2019. Le donne nel nostro Paese vivono in media cinque anni in più degli uomini. Il calcolo lo ha fatto l' Istat: 85,2 è l' aspettativa media di vita delle femmine, 80,8 quella dei maschi. Perché succede non è del tutto chiaro, ma si sa che c' entrano la genetica, la maggiore disponibilità a fare prevenzione, lo stile di vita. E le abitudini alimentari. L' Osservatorio Nutrizionale Grana Padano ha studiato la dieta di un campione di over 40 e ha effettivamente riscontrato differenze tra i due sessi che possono incidere sulla longevità. Dall'indagine emerge che nel piatto di lei finiscono più proteine, ma soprattutto più verdure e vitamine con azione antiossidante . «Le donne mangiano più verdure, anche al ristorante» osserva Michela Barichella, docente di scienza dell' alimentazione all' Università di Milano e direttore Uos Dietetica e nutrizione clinica Cto Gaetano Pini di Milano. «Oggi il pasto in comune della famiglia è alla sera, a pranzo si mangia fuori casa, per motivi di studio e di lavoro, e le scelte femminili si dimostrano più virtuose». In particolare le donne sembrano aver compreso la «lezione» che i nutrizionisti ripetono da tempo: frutta e verdura di stagione , carboidrati integrali, pesce e legumi e la dieta mediterranea come punto di riferimento. Complice il desiderio di mantenersi in linea, soprattutto in certi periodi della vita, le donne si dimostrano più attente alla composizione del menu anche in termini di calorie. Se la distribuzione del sovrappeso (e dell' obesità) nel nostro Paese non è molto differente tra i due sessi, diverso è il «peso» che ha sulla salute. «Nel corpo femminile i chili in più tendono a distribuirsi su fianchi e gambe, lontano dagli organi, nei maschi è più frequente il grasso viscerale, che si "esprime" nel girovita, più dannoso per la salute cardiovascolare» spiega Barichella «questo è un fattore non modificabile ma che potrebbe incidere, attraverso il rischio di malattie cardiovascolari, sulla diversa aspettativa di vita». Anche se non possono decidere dove si depositerà il chilo in più, gli uomini possono però abbandonare le cattive abitudini come il consumo di alcol (tre volte maggiore rispetto alle donne) e di bibite zuccherate e il fumo (il 69% delle donne osservate nello studio non ha mai fumato, mentre la metà degli uomini sono o sono stati fumatori). Se i maschi sono più propensi a esagerare con carni rosse, alimenti processati, fritti e carboidrati raffinati, anche le femmine un punto debole ce l' hanno: i dolci. «Bisognerebbe mangiarli solo occasionalmente» ricorda Barichella «se la voglia è tanta si può puntare sul cioccolato fondente, stimola il sistema nervoso e ha potere antiossidante, benefiche, ma che non autorizzano a un consumo quotidiano». Mangiare in modo corretto è la strategia per diminuire le probabilità di incorrere in malattie invalidanti. Non c' è solo il rischio di diabete se si eccede con gli zuccheri, ma anche quello di favorire malattie degenerative o condizioni legate a carenze di nutrienti. Se per scelte scorrette o problemi fisiologici (la masticazione difficile negli anziani) la dieta è povera e manca il calcio o la vitamina D le ossa sono più fragili e sale il rischio fratture. «I livelli di vitamina D o del gruppo B devono essere controllati e se serve integrati negli anziani, uomini e donne» ricorda la specialista. «Se l' alimentazione è varia non servono integratori, chi fa scelte particolari, come i vegetariani, può averne bisogno ma sempre su suggerimento del medico» .
· La Donna in Giappone.
Perché è così difficile parlare di mestruazioni: dal badge sul ciclo al film, il Giappone e Little Miss Period. Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 da Corriere.it. Si chiama Little Miss Period e ha un obiettivo: rompere il tabù delle mestruazioni in Giappone. Il pupazzo rosa a forma di cuore con delle pronunciate labbra rosse è stato creato e disegnato da Ken Koyama nel 2017 in un manga diventato poi un libro e ora un film che debutterà a Hong Kong il prossimo mese. «Le mestruazioni sono sempre state qualcosa da nascondere o di cui vergognarsi — ha spiegato Kazue Muta, professore di sociologia all’Università di Osaka — e molte persone non hanno corrette informazioni a riguardo o ignorano moltissimi aspetti del ciclo». Little Miss Period vuole invece rompere il tabù prendendo spunto dalla storia giapponese, quando le donne venivano tenute alla larga e isolate durante il ciclo perché ritenute “sporche”. Una storia non diversa da tanti altri Paesi: in Italia la carriera nella magistratura è stata aperta alle donne solo nel 1963, dopo aspri dibattiti che le dichiaravano non adatte alla toga perché in “quei giorni” le tempeste ormonali avrebbero potuto compromettere il loro equo giudizio. La versione cinematografica di «Little Miss Period» parte dalla storia di Aoko, la protagonista del film, che in ufficio ha a che fare un capo uomo poco sensibile all’argomento: «Se solo gli uomini avessero il ciclo anche una sola volta all’anno, capirebbero», lamenta Aoko che si porta ogni giorno, sulle spalle, il peso del pupazzo rosa. La pellicola arriva a poche settimane dal caso Daimaru, grande magazzino di Osaka, che ha proposto alle commesse di dotarsi di un badge distintivo, su base volontaria, nei giorni di ciclo. L’idea era incoraggiare, in questo modo, gli altri colleghi a essere più collaborativi e concedere più tempo di riposo alle commesse in quei giorni. Ma dopo che la notizia si è diffusa, Daimaru ha ricevuto una valanga di domande e critiche sul "badge del ciclo". La reazione è stata tale che il grande magazzino ha deciso di rivedere la sua politica. «Non cancelleremo il programma in sé, perché è a uso strettamente interno, per la comunicazione tra i dipendenti — ha spiegato una portavoce della società — ma lo rivedremo, usando qualcosa di diverso dal cartellino. La maggior parte del nostro staff è composto da donne e sono proprio loro a sostenere il programma» ha aggiunto la portavoce. Il grande magazzino si sta preparando a lanciare un nuovo dipartimento dedicato all’igiene femminile sullo stesso piano della moda per giovani donne. Durante la pianificazione della nuova sezione, lo staff ha parlato apertamente della propria esperienza durante il ciclo e di come migliorare l’ambiente di lavoro in quel periodo.
Perché nel moderno Giappone le donne non vanno all’università? Pubblicato martedì, 10 dicembre 2019 da Corriere.it. La Finlandia è un Paese avanzato. Certo. Ma basta questo per aprire all’«altra metà del cielo» — così Mao definiva le donne in una Cina che stava provando a uscire dal feudalesimo — le porte della piena uguaglianza? Quando pensiamo a una nazione dove il ruolo femminile ancora insegue la parità, in genere gli attribuiamo diversi gradi di «arretratezza». A buon diritto. Ma non basta a spiegare perché in certe parti del mondo, a dispetto della modernità di una società, le donne ancora arranchino. Per esempio, il Giappone: nessuno può contestare i traguardi raggiunti se non dall’apertura iniziata nell’Ottocento con la rivoluzione Meiji, foriera soprattutto di militarismo, almeno dal secondo dopoguerra. Il Sol Levante, rimessosi in piedi dopo la catastrofe, è diventato una delle maggiori potenze industriali, una società che si è proiettata nel futuro inaugurando — tanto per fare qualche esempio — sin dagli anni Sessanta del secolo scorso, le prime linee ferroviarie ad alta velocità, lo sfruttamento su larga scala dell’energia atomica o la robotica. Tutti campi, e includiamo anche la medicina moderna, nei quali è importante la qualità dell’istruzione, della ricerca. E dunque sarebbe lecito attendersi che nelle (prestigiose ed esclusive) università giapponesi la presenza di maschi e femmine fosse paritaria. E invece non è così, come rileva il New York Times in un servizio che sciorina fior di statistiche. Nell’ateneo più famoso dell’arcipelago, la Tokyo University, meglio nota come Toda, c’è una studentessa ogni cinque studenti. Ovvero: solo il 20% degli iscritti è di sesso femminile, quando è noto che in natura nascono sempre più donne. Perché? La risposta ha a che fare con il mondo del non detto, di un sentire implicito, più che a regole di derivazione religiosa. E il non detto, perdonate il bisticcio, dice che una donna, se vuole trovare marito, deve stare attenta a non «esagerare» nell’istruzione (o nel reddito). Perché una possibile consorte non deve in alcun modo mettere in ombra il promesso sposo. Mettiamo pure da parte il caso dell’attuale imperatrice Masako, costretta dalle regole di Corte a lasciare la sua carriera di diplomatica al momento del matrimonio con Akihito. Il punto è che in Giappone anche la casalinga di Sapporo, remota cittadina del Nord, deve sapere stare al suo posto, non deve saperne di più dell’uomo che le sta al fianco. Perciò alle bambine si insegna a «frenare», a partire dalla scuola: una perversione.
· Naturist Cleaners (ovvero Pulitrici Naturiste).
Dagospia il 17 dicembre 2019.Da “la Zanzara - Radio24”. “Sto provando a mettere su un’attività. In Inghilterra facevo la colf nuda, ora ci provo anche in Italia. Ho 42 anni e per due anni e mezzo a Londra mi sono spogliata davanti ai clienti”. A parlare a La Zanzara su Radio 24 è Margherita, marchigiana, fondatrice di NaturPop, che come si legge in homepage “offre il primo servizio di prenotazione di pulizie Naturiste in Italia”. Come mi è venuto in mente di fare la donna di servizio nuda?: “Un mio amico con cui vivevo è venuto a cena e mi ha raccontato di quest’agenzia che assumeva colf nude e voleva mandare la sua candidatura. Io ho mandato la mia e mi hanno preso”. Ma non te ne frega niente di stare nuda davanti alle persone in casa? “Sono naturista, nudista da tanto tempo, quindi la cosa non mi disturbava assolutamente”. Chi erano i clienti?: “Sempre uomini adulti, la maggior parte over 35 anni”. Servivi nuda anche a tavola?: “No, solo pulizie. Pulizie, stirare, cose così. E dipendeva naturalmente dal tempo di prenotazione. Poteva andare da un’ora a tre ore”. Cosa potevano fare le persone che pagavano?: “Le persone possono solo guardare. C’è una policy veramente restrittiva. Le persone possono guardarti mentre tu lavori nuda. Lavoravo completamente nuda, solo ciabattine e guanti”. Gli uomini che potevano fare?: “Gli uomini potevano guardare, leggere il giornale, prendere il tè o fare quello che dovevano fare”. Cioè?: “Anche masturbarsi. E’ capitato, non è proibito. Ma non devono mai toccare la cleaner, mai. Quando è successo sono stati cancellati. Pure se fanno delle proposte”. E mentre si masturbavano che facevi?: “Professionalmente la cleaner deve continuare a pulire. Basta far finta di niente. Io non mi sono mai eccitata. Continuavo a stirare”. Sentendo i gemiti?: “Sì, anche”. “Questo – dice Margherita – è un servizio che nasce per naturisti. Ma è chiaro che alla fine non sono solo i naturisti che si avvicinano, e ci sono anche dei maiali. Io personalmente ho ricevuto delle proposte da un signore anziano, che ho rifiutato ed ho contattato la titolare dell’agenzia per cui lavoravo. Questo è stato poi cancellato dall’elenco dei clienti. Non avrà più la possibilità di prenotare”. “Quando si masturbavano davanti a me – dice ancora – non ansimavano, anzi, erano più imbarazzati loro, però era una reazione fisiologica e naturale di fronte al corpo di una donna . Dunque non mi sono stupita, è così”. Quanto venivi pagata?: “Normalmente una colf normale prende 10 pound all’ora, una naked colf nuda ne prende 45. Ma adesso voglio aprire il mercato in Italia. Il nostro servizio costa 45 euro all’ora che vanno direttamente alla colf, più 25 euro per il servizio prenotazione che è praticamente la commissione di agenzia. In tutto 70 euro all’ora”. “Ho già ricevuto delle richieste – aggiunge – ma devo dire che manca il personale. Faccio un appello, invito le donne a collaborare”. Quante camicie stiri in un’ora?: “Anche sei”. Chiedono solo donne fighe?: “No. Non serve esser modelle per far questo tipo di lavoro. Ci sono uomini che preferiscono magari donne formose. E comunque se c’è un uomo che vuole nello stesso tempo farsi fare le pulizie a casa, farsi stirare le camicie e vedere una donna nuda che cammina, e magari farsi anche una sega, che male c’è? Importante è che non la tocchi. Noi ci auguriamo sempre che nessuno faccia atti sessuali durante lo svolgimento delle pulizie, però se capita la prendiamo come una reazione fisiologica, quindi non ci scandalizziamo”.
Fabrizio Barbuto per “Libero quotidiano” il 10 dicembre 2019. A svolgere le pulizie di casa, tra non molto, non sarà più la classica governante in grembiule e tappine, poiché la figura della domestica si sta non poco emancipando. Questo almeno in Inghilterra, dov' è nata un' impresa di pulizie che annovera, udite udite, fanciulle che detergono mobili e suppellettili dei clienti in totale nudità. Le inusitate colf di nuova generazione sono dette "Naturist Cleaners (ovvero pulitrici naturiste)" e devono i loro natali all' imprenditrice Laura Smith che, per puro caso, si è soffermata a riflettere sui vantaggi del naturismo coniugato con l' efficienza domestica. In questo spirito si è messa in moto per cercare altre donzelle con le quali avviare un progetto unico nel suo genere. La sua azienda vanta oggi centinaia di clienti soddisfatti, e per incrementarne i profitti, la titolare, non smette mai di reclutare donne disposte a collaborare con lei: per proporsi è sufficiente accedere alla sezione "Lavora con noi" del portale "naturistcleaners.co.uk". Com' è possibile riscontrare dalle immagini caricate sul sito in oggetto, dalle colf naturiste non si pretendono requisiti fisici di assoluta perfezione: si tratta di donne normali che, talvolta, fanno orgogliosamente sfoggio di un po' di cullulite, ma non è certo sugli inestetismi che il cliente si sofferma. Tuttavia, la regola principale alla quale il fruitore del servizio deve accondiscendere prima di accogliere una naturist cleaner, è: "si guarda ma non si tocca". Non è consentito tentare alcun approccio sessuale con le lavoratrici, pertanto ci si deve limitare a contemplarne le procacità e ad apprezzarne la solerzia; ma non mancano neppure coloro che, molto entusiasticamente, ne esaltano la verbosità: Samantha (in un feedback lasciato sul sito dell' impresa) scrive: "Di recente ho chiesto a Vicky di pulire la mia casa; è sempre bello vederla. Arriva in orario e lavora duramente. Nessuna mansione è troppo pesante per lei. È anche molto calorosa e loquace ed è bello prendere un caffè con lei alla fine di ogni prenotazione". Il servizio costa l' equivalente di 50 euro l' ora se le colf si spogliano, mentre, se rimangono vestite, l' importo e di 26 euro, e a denudarsi può tranquillamente essere il padrone di casa, il quale è libero di girare per gli ambienti dell' abitazione in tenuta adamitica senza che la colf lo richiami al pudore. Le concessioni finiscono qui, è infatti proibito ricevere ospiti mentre la naturist cleaners è in attività, e vige un veto altrettanto insindacabile sull' uso della fotocamera con l'obiettivo puntato sulle fanciulle, le quali intendono lavorare senza l'apprensione di finire nell'archivio fotografico di chicchessia, o peggio su una delle tante piattaforme hard della rete. Laura Smith, intervistata dal portale inglese "Nudistuk.com", afferma: «Se al cliente capitasse di eccitarsi un po' non importa: le nostre ragazze, essendo molto professionali, saprebbero vivere la situazione con distacco e capirebbero che si tratta di una risposta del tutto normale alla visione di un corpo nudo». Il portale web della società accoglie il visitatore con questa enunciazione: "Chi l'ha detto che le pulizie sono una seccatura? La nostra impresa si prefigge di tornare alla natura". E se pensate che le canditate al ruolo di Naturist Cleaners siano poche, ricredetevi pure: come la stessa Smith fa sapere, la recluta del personale è stata un gioco da ragazzi.
· Lo Squirting.
Barbara Costa per Dagospia il 15 dicembre 2019. Ma è piscio, sì o no? No, cioè, non solo, in minima parte, e c’è chi ne fa di più, chi meno, chi per niente. Ne siamo perseguitate, scocciate, eppure da ostinate lo cerchiamo, lo vogliamo, ma 'sto squirting, che fregatura, non riesce, e se riesce fuoriesce mica tanto, al massimo zampilla. Non raccontiamocela, per molte è un miraggio, e non è colpa di imbranataggine masturbatoria o di chi ci portiamo a letto, a meno che costui non sia sessualmente tra il pigro e il catatonico. Mi sa che hanno ragione i medici, gli esperti, i professoroni: noi donne non siamo tutte uguali, non esiste una vagina uguale all’altra, e la difficoltà nello squirtare sta nelle ghiandole di Skene che alcune di noi hanno attivissime, altre insomma, addirittura una percentuale ce l’ha, ma atrofiche. Non squirtare non ti nega il piacere, puoi godere e venire quanto e come vuoi, con struscio e penetrazione di dita, sex toys, lingua, mettiamoci pure un pene, e però… squirtare fino ad allagare letto e affogare il partner è un’altra cosa! Si squirta da sempre, dalla notte dei tempi, ma la responsabilità dell’insistente fissa per lo squirting è del porno che l’eiaculazione femminile l’ha fatta vedere dandogli un nome non scientifico e agile. Tra le porn-squirter più famose spicca questa bambola qui, Bonnie Rotten, 26 anni, che della sua torrenziale capacità di squirtare ne ha fatto vanto, mestiere, fama e soldi. Non cliccare sui suoi video se sei squirting-depressa, fallo se lo squirting ti eccita, e non chiedere al tuo uomo se conosce e gli piace la Rotten perché ti risponderà la solita bugia: “Ma chi? Quella coi tatuaggi sui seni? Sì, carina, ma niente di che!”. Razza di bugiardi, state tutti invasati a cercare i video di Bonnie i più zozzi, sudici di liquidi, perché quello della Rotten è porno hard-core tra i più estremi: come dei suoi orifizi, coi quali spadroneggia in doppie penetrazioni anali e vaginali, Bonnie Rotten dei suoi liquidi fa uso e abuso, sposando lo squirting col bondage, e se hai stomaco forte ti dico subito che tra le scene più "romantiche" da lei girate risaltano quelle in cui squirta in bocca ai (e alle) partner. Il porno è genere cinematografico e quindi anche artificio, sui set non tutto lo squirting è naturale, Bonnie e le sue colleghe prima di girare bevono litri di acqua. E però le ghiandole di Bonnie sono damigiane di seme squirtante, sono il suo asso nella manica fin da quando si è rifatta i seni già ragnatelati, e muoveva i suoi primi passi nel porno. Per la sua bellezza innegabile, e per il suo corpo artisticamente tatuato, Bonnie è stata subito invidiata e perculata: le colleghe la emarginavano, le dicevano che non sarebbe porno-andata da nessuna parte, perché proprio i suoi tanti vistosi tatuaggi le avrebbero negato le opportunità migliori. Nessuno sapeva del "segreto" di Bonnie, quello racchiuso tra le sue gambe, nessuno immaginava quanto e come fosse capace di spumeggiare. Lei è arrivata nel posto giusto al momento giusto, con lei lo squirting è tornato a esplodere come aveva fatto per breve periodo a metà degli anni 2000: le sue fontane di liquido hanno inondato i siti porno, Bonnie in soli due anni era in vetta per premi vinti, popolarità, contratti in esclusiva, e record di visualizzazioni che non registrano deflussi. Sebbene Bonnie sia stata ferma e fuori dal porno più di un anno causa maternità, e sia ritornata più con voglia di dirigere e produrre che di eiaculare sui set, i suoi fan sono attivi e scalpitanti: va detto che i porno di Bonnie Rotten sono quelli che più risultano cliccati dalle coppie in cerca di nuovi, inediti stimoli sessuali. Non te lo diranno mai in faccia, ma è sicuro che vedere visi e corpi e sessi inzuppati di squirting provoca enorme eccitazione, risveglia turgori, bagna le donne giù fin nelle cosce. Domanda zozza: lo squirting, che sapore ha? Qui i pareri divergono, io mi fido di quello della Rotten senza dubbio la più preparata in materia: “Cambia da donna a donna, come il sapore dello sperma nei maschi. Alcuni squirt non sanno che di pipì, e sono disgustosi, altri sono molto dolci, come il mio”. È puro gossip, cioè non verità, che a Bonnie abbiano consigliato di imbottigliare un po’ della sua squirto-produzione e venderla su Ebay: si sa, i feticisti dello squirting non mancherebbero come acquirenti, e tu, se sei un vero appassionato di squirting e della sua raffigurazione porno, amerai i lesbian porn detti "rissa da squirt", quelli in cui Bonnie Rotten e colleghe dimostrano una tale abilità e controllo dei loro muscoli vaginali da squirtarsi una nel sesso dell’altra. Squirtare è inebriante, ultra-appagante, però parecchio stancante. Ma tu ci credi che registi e maestranze sui set, mentre riprendono le orge squirtanti di Bonnie, indossano impermeabili e sono costretti a coprire e proteggere telecamere e attrezzature con appositi teli?
· Alla ricerca del Porno.
Sesso, cosa abbiamo cercato e guardato nel 2019. Video amatoriali, ma anche alieni e sussurri. L'analisi delle nostre tentazioni fatta da Pornhub, che durante l'anno ha raccolto 42 miliardi di visite. Marco Morello il 16 dicembre 2019 su Panorama. Con 42 miliardi di accessi dall’inizio dell’anno, con 115 milioni di visite al giorno, l’equivalente della popolazione di Canada, Australia, Polonia e Olanda messe insieme, la piattaforma di contenuti per adulti Pornhub è una bussola affidabile dei desideri contemporanei. Sia a livello globale che nazionale, giacché l’Italia è il settimo Paese al mondo per numero di accessi, una posizione sopra rispetto all’anno precedente, dietro agli inarrivabili (per fortuna?) Stati Uniti e il Giappone, o la fintamente puritana Inghilterra e la Francia, davanti al Brasile e alla Spagna. Senza mai dimenticare che, a livello di traffico, Roma e Milano sono rispettivamente l’11esima e 14esima città più attive al mondo. Insomma, quello pornografico è materiale parecchio comune e gradito sui nostri smartphone e sui nostri pc. E non è certo una scoperta clamorosa.
Cose dell’altro mondo. Ciò che è interessante è analizzare cosa è piaciuto di più nel corso del 2019, quali temi hanno solleticato gli utenti, traducendosi in ricerche e consumi di contenuti. Spesso inediti, perché i dodici mesi che si stanno concludere rappresentano quelli di un record su Pornhub: sono stati caricati oltre 6,83 milioni di nuovi video. Circa 1,36 milioni di ore di filmati, abbastanza per intrattenersi per 169 anni. Con fantasie a metà tra l’ovvio e il completamente inaspettato, il classico e l’assurdo: se al primo posto delle ricerche ci sono le clip amatoriali, vere o presunte tali, in seconda posizione si sono classificati video a temi alieno. Già, proprio gli extraterrestri: cartoni animati o scene di fiction d’incontri moltissimo ravvicinati. Lo ammettiamo: nella nostra ingenuità non ne capiamo il motivo, ma questo dicono i dati.
Sento, non vedo. Terzo posto per «Pov», abbreviazione di «point of view», un po’ realtà virtuale e un po’ ispirazione videoludica: si tratta dei filmati in cui sembra di vivere l’azione in prima persona, quasi immedesimandosi nel corpo dell’attore o dell’attrice, infatti la scena è ripresa dalla loro prospettiva. Avete presente un videogame in cui ci sono un fucile o un volante in primo piano? Qui c’è dell’altro. Scorrendo la classifica, si resta nei confini dei giochi di ruolo, con la parola cosplay in evidenza, cioè i travestimenti in eroi ed eroine dei fumetti, che possiamo supporre finiscano in reciproca allegria. E poi, oltre ai «mature», calamita per chi guarda a un target più datato, la vera sorpresa sono gli «asmr», i video di sussurri erotici, quasi gemiti e dintorni che si trovano anche su YouTube perché lì la seduzione non è esplicita, le immagini piuttosto innocenti (salvo banali ammiccamenti verso l’obiettivo) ma sono l’audio e l’immaginario che si scatena a fare da miccia.
Orgoglio tricolore. Andando nello specifico ad analizzare il Bel Paese, dove l’età media dei consumatori del sito è pari a 36 anni, per farsi un’idea basta dare un’occhiata all’infografica qui sotto. Sintetizza quali sono le pornostar sulla cresta dello schermo, con Rocco Siffredi inamovibile dalla vetta. Secondo posto per Valentina Nappi. A livello di categorie che rapiscono di più, gli amatoriali – l’imperatore globale dei trend – sono scavalcati dall’orgoglio nazionale, da un curioso sciovinismo sotto le coperte: il sesso tricolore, italiano o meglio italian, primeggia. E poi dicono che il made in Italy non tira... A livello di ricerche secche, la tendenza non sfuma, anzi si solidifica in varie sfumature: italiano, amatoriale italiano (i signori di Pornhub hanno scritto itaiano, con una l in meno, ma è un refuso perdonabile visto il lavorone che hanno fatto con questo rapporto), dialoghi italiano, italiana, italian. Insomma, il concetto è chiaro.
L’attrazione dell’esperienza. Restando però nel recinto delle principali ricerche, addirittura in aumento di cinque posizioni rispetto al 2018 e parola più cercata in assoluta, ecco «milf». Abbreviazione gergale e volgare americana che non espliciteremo, ma si riferisce a una categoria ben precisa di signore. Per levarci dall’imbarazzo, ne virgolettiamo la definizione data dall’enciclopedia Treccani: «Indica una donna matura considerata attraente e desiderabile sessualmente». Più pudici di così, non possiamo essere. E con «step mom», che sale di 31 posizioni, non ci allontaniamo troppo da quell’ambito. Che gli italiani, oltre ad essere autoreferenziali nel sesso, abbiano un grosso complesso di Edipo ancora irrisolto?
Dagospia l'11 dicembre 2019. Comunicato Stampa. Pornhub, la principale piattaforma web d’intrattenimento per adulti ha pubblicato oggi il Report Annuale 2019. Il sito durante l’anno ha ricevuto oltre 42 miliardi di visite, con una media di 115 milioni di visite giornaliere. L’Italia risulta essere il 7° paese al mondo in termini di traffico, guadagnando una posizione rispetto al 2018. Roma e Milano si posizionano inoltre tra le 20 città al mondo che effettuano più accessi - rispettivamente all’11esimo e 14esimo posto (in vetta troviamo New York, Londra e Parigi). In Italia il 70% dei visitatori è di sesso maschile e il 30% di sesso femminile, e il tempo medio speso per una visita sul sito è di 10 minuti e 5 secondi. In termini di età, il traffico dal Bel Paese è così suddiviso: il 15% dei visitatori ha tra 18 e 24 anni, il 30% tra 25 e 34 anni, il 22% tra 35 e 44 anni, il 16% tra i 45 e i 54 anni, e il restante 17% oltre i 55 anni. Per quanto riguarda i device utilizzati per accedere a Pornhub, in Italia il 76% delle visite avviene tramite smartphone (+12% rispetto all’anno scorso), il 17% da desktop e il 7% da tablet. Le ricerche più effettuate in Italia nel 2019 sono state: Milf, Italiano e Amatoriale Italiano, ritroviamo gli stessi contenuti in maniera speculare nelle categorie più viste (Italian, Amateur, Mature e Milf). Uno dei termini che è cresciuto di più nelle ricerche è Dialoghi Italiano, salito di 28 posizioni nella classifica rispetto all’anno scorso. In vetta alle ricerche che hanno definito il 2019 a livello global c’è il termine Amateur, e tra le 20 pornostar più viste al mondo su Pornhub troviamo proprio l’attrice porno amatoriale italiana Danika Mori. La festività ad aver causato il maggior calo di traffico nel 2019 è stata la Festa della Repubblica (2 giugno) con un -11%, mentre l’evento televisivo che ha creato la più alta oscillazione delle visite è stato Sanremo , -5%.
Pornhub: Fondato nel 2007, Pornhub è il principale sito gratuito di streaming di video per adulti ad- supported, che offre ai visitatori la possibilità di caricare e condividere i propri video. Con oltre 6 milioni di video e 120 milioni di visitatori giornalieri, Pornhub è davvero il miglior sito per adulti del mondo. Pornhub ha costruito la più grande community per adulti, con oltre 10 milioni di iscritti, offrendo ai membri della community una divertente e sofisticata esperienza social direttamente sul sito, completa di messaggistica, foto, achievement badges e molto altro ancora.
Massimiliano Parente per ilgiornale.it il 16 dicembre 2019. Questa mattina mi è venuta un'idea ma ero indeciso. Volevo affrontare il discorso del reddito di cittadinanza, ossia di chi chiede uno stipendio perché non ha un lavoro. Oppure volevo affrontare un discorso su cosa farò quando non potrò più fare lo scrittore, visto che non so fare niente se non scrivere. Così ho deciso di parlare delle donne, per unire i due discorsi. Prendiamo a esempio Twitch. Non so se sapete cos'è Twitch. Twitch è la piattaforma di streaming di videogame di Amazon. Su Twitch potete seguire i vostri streamer preferiti, nel mio caso seguo Velox, Gabbo, Power, RampageInTheBox, e altri che non sto a elencare. Twitch funziona così: più ti vedono, più guadagni. E inoltre guadagni con le sub, ossia le iscrizioni al canale degli utenti che vogliono supportare economicamente il loro streamer preferito. Cosa che è stata criticata da Le iene (attaccando Cicciogamer) e non si capisce perché: in un mondo che vuole tutto gratis, è bello che si decida di pagare per appoggiare qualcuno che fa qualcosa che ci piace, e spontaneamente, perché potete vederli lo stesso gratis, con le pubblicità. Insomma, l'altro giorno ragionavo sul fatto che di donne brave a giocare come i suddetti citati ce ne sono zero. Se Amazon per assurdo mettesse le quote rosa su Twitch, avremmo delle donne scontente di tenere un pad in mano, e oltretutto incapaci di farlo. Non per colpa loro, semplicemente perché non gli piace, come è giusto che sia. Sono brave a fare altro, non certo a giocare a Call of Duty. Tuttavia Twitch è pieno di donne. Ma la maggior parte non streammano videgiochi. Avete capito bene, su una piattaforma di streaming di videogiochi non streammano videogiochi. E allora cosa streammano? Di tutto, senza superare la soglia del lecito consentito da Twitch ma avvicinandosi molto. Faccio qualche esempio: Lucy Lein è una ragazza italiana che in live per dieci dollari ti lecca le orecchie, sussurrando con voce sensuale. Non che ti lecchi le orecchie davvero, lecca due microfoni a forma di orecchie e tu in cuffia senti il suono della sua lingua in stereo. Capelli rossi, scollatura con triplo push up, e centinaia di follower dai nomi improbabili tipo Nutellino67 o ErTrivella92 che in chat fanno commenti tipo «che due bocce che hai», «ti togli anche le calze?». Comunque di leccatrici di orecchie ne trovate quante ne volete, in ogni lingua. Ieri sono andato a vedermene qualche decina, anche non italiane, e non solo leccatrici di orecchie. C'era Sweet Anita, ragazza carina ma inquietante, ogni 5 secondi fischia, fa uno strano verso con la bocca, mostra il dito medio, strizza l'occhio, e ci ho messo un po' a capire perché. Ha la sindrome di Tourette. Collegati in live con lei 4mila follower. Che significa un bel po' di soldi. Però forse è giusto, d'altra parte dopo l'Asperger di Greta Thunberg avere una sindrome è fico. Ce ne sono decine che fanno Pole Dance, vestite il minimo per non essere bannate, altre che fanno «just chatting», ossia un cazzo, rispondono solo alle domande, come Amouranth, il cui titolo dello streaming dice tutto: «Ask me anything», e la gente sta lì sotto a farle domande. Soprattutto sul seno anche lì superpushappato. C'è chi cucina non si capisce bene cosa, l'importante è che sia rigorosamente in minigonna. C'è pure la pornostar Valentina Nappi, che per la verità gioca, a giochi ridicoli per cerebrolesi ma gioca, solo che i follower nella chat vogliono parlare di sesso. Lei talvolta risponde infastidita, e chissà perché, per cosa crede che la seguano? Morale della favola, per tornare al discorso iniziale, sul reddito di cittadinanza e il femminismo e tutte queste scappate di casa in casa che però sono riuscite a trovare il modo di fare soldi senza alzare il sedere dal divano. Se non potessi più fare lo scrittore, l'unica cosa che potrei fare è mettermi a guadagnare su Twitch, ma non essendo bravo a giocare come Velox, Gabbo, Power e compagnia bella, e avendo 49 anni, non potrei streammare i miei gameplay, sembrerei Fantozzi. Ma non potrei neppure, appellandomi a un principio di pari opportunità, guadagnare non facendo niente e fissando lo schermo, perché non ho le tette.
Man. Cos. per “Libero quotidiano” il 16 dicembre 2019. Chi non è un habituè dei siti porno non lo sa. Ma esistono svariate categorie in cui vengono divise le performance erotiche in video. Si va dalle famose Milf (acronimo anglofono che sta per Mother I' d Like to Fuck, traducibile con "madre con cui mi piacerebbe andare a letto", e vede dunque protagoniste donne non più giovanissime) agli Amateur (video porno casalinghi) alle Femdom (dove sono le donne a essere dominanti sul maschio). E dunque, anche quest' anno Pornhub, il più cliccato sito di video porno, ha pubblicato dati e analisi sul traffico del 2019, mostrando le ricerche più popolari, le categorie preferite, le attrici e gli attori più apprezzati e via dicendo. Primo dato, impressionante: Pornhub è stato visitato 42 miliardi di volte nel 2019, con 39 miliardi di ricerche e 115 milioni di visite quotidiane. Questo per dare l' idea dell' enormità del fenomeno. Per quanto riguarda le categorie più gradite, al primo posto a livello mondiale si piazza "Japanese", cioè i video porno con attori e attrici giapponesi: questo perché è in continua espansione il mercato a Tokyo e dintorni. Curiose sono le categorie date in crescita: al primo posto c' è per l' appunto "Amateur", ma è curioso notare come al quinto, e in ascesa continua, è "Cosplay", con gli attori vestiti da supereroi, personaggi dei fumetti oppure del cinema - conseguenza del grande successo dei film-kolossal tratti da personaggi Marvel. La pornostar più cliccata a livello mondiale e Lana Rhoades, 23enne americana in grande ascesa. Per quanto riguarda gli attori italiani, fra gli uomini resta primo l' immortale Rocco Siffredi, con Valentina Nappi al secondo posto. L' Italia, in quanto a traffico porno su Internet, è settima al mondo: ai primi tre posti ci sono Usa, Giappone e Regno Unito.
Lucia Esposito per “Libero quotidiano” l'11 dicembre 2019. «Sei sotto la doccia e l' acqua scivola sul tuo sesso». La voce di donna è un sussurro, quasi una carezza. In sottofondo si sente l' acqua che scroscia. Il racconto riprende: «Adesso immagina il getto potente dentro di te...». Un sospiro. Poi un altro. «Oh sì, oh sì, oh sì...». È un crescendo rossiniano che culmina in un grido di piacere prima del silenzio. Nessun video, dal cellulare risuona solo l' audio. In un' epoca di immagini dove tutto ciò che non si vede non esiste, si sta imponendo la pornografia fatta di parole. E di suoni. La libido si accende ascoltando una voce che rimbalza dal proprio smartphone. In casa ma, grazie alla privacy garantita dalle cuffiette, anche in strada. O in autobus o sul treno. È tutto molto facile. Basta scaricare una delle tante applicazioni disponibili per entrare in un mondo in cui l' erotismo è soprattutto immaginazione. Le parole disegnano una cornice che ognuno può riempire con l' uomo dei sogni: che sia l' attore di Hollywood o il vicino di casa. Sono applicazioni fatte prevalentemente da donne per le donne. Perché anche quando si tratta di eros le signore sono più complicate. Agli uomini un film porno basta. In alcuni casi avanza. Le donne preferiscono immaginare piuttosto che vedere. La nostra sessualità è anche mentale, è fatta di sfumature, certamente ben più delle cinquanta della famosa trilogia di E.L. James. Il mercato ha annusato il bisogno e si è adeguato. Secondo Forbes nel 2019 le nuove imprese di audio porno hanno raccolto più di 7 milioni di euro. La app «Dipsea», che offre brevi racconti erotici e che sta avendo maggiore successo è stata scaricata da 287 milioni di utenti. Si prevede che per il 2023, sarà ascoltato da quasi due miliardi di persone. Al prezzo di circa otto euro al mese si ha accesso a duecento storie che durano dai sette ai quindici minuti con aggiornamenti continui. Sono racconti erotici mai volgari, mai troppo espliciti. Inventati ma realistici in cui ciascuno può identificarsi. Le ascoltatrici hanno tra i 25 e i 45 anni. I narratori, di entrambi i sessi, hanno voci suadenti ma mai volgari. Il New Yorker ha scritto che le storie di «Dipsea» sono così attente alla nostra sensibilità e così di buon gusto da essere quasi snervanti. «Non intendiamo stimolare gli ascoltatori, ma ispirarli», ha spiegato una delle fondatrici del sito, Gina Gutierrez.
L' ARCHIVIO DI VOCI. «Quinn», invece, è un' applicazione gratuita fondata da due attrici porno femministe. «Ti vedo su di me, ti sento e il mio c...». La voce ansima, respira affannosamente e poi interpreta magistralmente un orgasmo con tanto di urla finali. «Il porno audio arriva dove quello visivo non riesce», ha detto all' agenzia Bloomberg Caroline Spiegel, una delle creatrici. «L' obiettivo è avere un archivio di voci, così che chiunque possa trovare un contenuto adatto». Il sito «Voxxx» in lingua francese (da cui abbiamo tratto il dialogo sotto la doccia) con traduzione in inglese, ha in media 100mila ascoltatori al mese. Entusiasti i commenti delle ascoltatrici. «Non ho mai provato tanto piacere da quando ascolto le vostre registrazioni...». «Per me è una rivoluzione. È incredibile, cambia il porno: non è più centrato sulla penetrazione, era ora». «Ferly» non offre racconti ma consigli per fare del buon sesso al costo di 11 euro al mese o 70 l' anno. I veri geni sono quelli che hanno inventato «Emjoy», l' applicazione erotica che evita imbarazzi agli utenti. Le storie che non si possono ascoltare in pubblico sono contrassegnate dal simbolo di un letto: meglio sentirle da soli, meglio ancora in casa. I racconti meno hard riportano il simbolo di un autobus. Costa 27 euro l' anno.
IL ME TOO DELLA LIBIDO. Il porno audio è il me too della libido. È la rivolta della donna che vuole vivere la propria sessualità come le piace senza più fruire degli strumenti pensati per gli uomini. Le trame dei film a luci rosse sono per lo più scritte per i maschi e la donna è quasi sempre oggetto sessuale al servizio del desiderio dell' altro. Il porno ascoltato lascia aperte tutte le possibilità. È la versione tecnologica e più immediata della letteratura erotica. La scrittura sensuale di Anais Nin ha rubato il sonno a parecchie generazioni con il suo Delta di Venere. L' Amante di Marguerite Duras scandalizzò tutti con il racconto sulla passione bruciante tra un' adolescente francese e un miliardario cinese nell' Indocina degli anni 30, e poi ancora Emmanuelle di Emmanuelle Arsan, Il Macellaio, di Alina Reyes, il romanzo che stimolò e rivoluzionò l' immaginario erotico femminile al punto che molte donne cominciarono a guardare il proprio beccaio con occhi diversi...Poi sono arrivate le 50 sfumature di rosso, nero e grigio che hanno scongelato i sensi intorpiditi di molte signore. Con i libri servono centinaia di pagine e lunghe ore di lettura. Adesso, con un semplice clic sul cellulare si possono ascoltare racconti che fanno volare la fantasia. E se da domani in treno o in autobus vedete qualche signora in estasi nascosta dentro le sue cuffiette, sappiate che probabilmente non è persa dietro le note di una bella canzone, ma insegue altri piaceri.
· I Porno Incestuosi.
Barbara Costa per Dagospia il 16 dicembre 2019. Io se vedo scopare la mamma ci godo, e tu? Ti piace di più tra sorelle? E paparino che combina? Non allarmarti, non chiamare la polizia, smettila di storcere il naso, e di darmi della pazza, malata, deviata sessuale. Come? Dici che lo sono, perché ho la faccia tosta di parlarti di ciò che non dovrei non solo non vedere ma neppure pensare? Sai che c’è, fai una cosa: inizia tu a togliere la mano dal tuo uccello e il dito da quel mouse puntato sul quel porno dove una mammina sta cavalcando il figliastro, mentre la sorellastra si sta facendo mettere le mani negli slip, e altro in bocca, fino in gola, dal patrigno! Non siamo anormali né squilibrati, un po’ maiali sì, e parecchio, siamo sporchi dentro e fuori, dentro soprattutto abbiamo un buco nero, segreto, profondo, un varco che mai e poi mai nella vita reale oltrepasseremmo, ci fa schifo orrore ribrezzo solo pensarlo, ma nelle nostre fantasie no, nei nostri più depravati e abietti pensieri col cavolo che ci fermiamo, non possiamo, non vogliamo, e…oh, che diamine, davvero vuoi farmi credere che tu ai porno stepmom, stepdad e affini, non hai mai dato una sbirciatina? E allora, tutte quelle visualizzazioni chi le ha sommate, sul serio, vuoi convincermi che lì in mezzo la tua non c’è? A me, mio caro, non la fai, non mi freghi, e se insisti a fare il porno-tonto non mi importa, io lì ci vado, ogni volta che voglio, e non me ne vergogno affatto. Tesoro mio bello, il porno non vende sentimenti, se ne infischia di dio, educazione, buon gusto, etica e cose così: il porno è oltre ogni barriera sociale, culturale, M-O-R-A-L-E. Per questo se hai voglia di superare i limiti, sguazzare nel tuo vizio, sfamare le tue masturbazioni coi sogni i più illegittimi, ti basta cliccare su un qualsiasi sito porno, che le sezioni di porno-incesto (finto, te lo devo specificare ancora???) sono lì che aspettano te, proprio te, e per un semplicissimo motivo: il porno ti vende creatività onanistica, e se mamma e figliastra si slinguano i capezzoli su un letto, e una madre lo succhia al figliastro, golosa che lui si infili e le infili quello strap-on, stanno lì per far sì che li guardi perché così vuoi e hai deciso. Di godere e venire. Facendoti una sega "in famiglia"! Ehi, non mi scocciare col pericolo dei minori che possono vedere simili atrocità, i bimbi vanno tenuti lontani dai porno ed eventualmente pure da quello che io ci scrivo, e tu, se sei arrivato fino a qui… io adesso ti rovino, ti sputtano, perché tu sei sicuramente tra i Dago-lettori che hanno scritto in redazione per chiedermi di trattare i porno-incestuosi, come se io non lo sapessi, che ti viene duro solo a sussurrarle, tali prelibate porcherie. Su, dillo, ammettilo, e guarda che sei sano, sanissimo, non prendere appuntamento col dottore. E non dar retta a chi ti dice che il porno ci rovina la mente, il porno – pure nella sua sezione incesto – non ci rovina affatto semmai ci fa un favore, a mostrarci tali sexy trivialità, liberandoci di fantasmi e paure. Mettendo alla prova i nostri tabù. Nel porno non ci sono divieti, dinieghi, confini. È recita, baby! Allora, me lo dici? A te quale porno-incesto piace di più? Vabbè, inizio io, e ti dico che me ne vado dritta a spiare quella gran figa di Adriana Chechik che fa la nerd, e apre la porta del bagno dove ci sta il fratellastro nudo che all’inizio fa il vergognoso poi la spinge dentro e le spinge in bocca quel pene turgido, "carnale", e Adriana non aspetta altro e guarda com’è svelta a togliersi le mutandine e a mostrarti quel suo corpicino da teenager che ci mette niente ad aprirsi a fraterni piaceri anali appoggiata al lavabo. E se questo non ti ha acceso, ecco che bussano alla porta che avevano dimenticato di chiudere, ed è quella megera vecchia impicciona che mai una volta che si fa i fatti suoi, ha sentito dei rumori ed è corsa a vedere, loro due che nascosti dietro continuano a fottersi fottendola! Molti video-incesti son incentrati sul rapporto matrigna-figlio, e sulla voglia di quest’ultimo di farsela nel sonno. Tali grotteschi script trovano forza e significato nella perversione di tantissimi utenti che nelle loro menti creano ciò che cogli occhi bramano vedere riprodotto in video. Niente, neanche i video più mostruosi che trovi nei siti porno, è messo lì a caso, ma sempre e solo perché ha clienti, cioè utenti interessati che lo cliccano generando traffico – e introiti – ai siti. È questa la legge fondante del porno-mercato. Su Pornhub, tra i video-incesto più recenti e più visti – milioni di cliccate, miei porci adorati! – c’è questo prodigio qui, "Figliastro scopa giovane matrigna mentre dorme", e senti che sceneggiatura: a Rion King (il figliastro) arriva a casa Briana Banks, milf-topa che non sai dove metterle le mani, se prima sui seni o sul culo, e con la quale urge un riposino nello stesso letto. E il bello qui non sta nelle scopate seguenti, ma in quell’intollerabile attesa, di lui che non sa da dove iniziare, e come, con Briana gli si è sdraiata accanto con top e pantaloncini antisesso, sbattendogli le natiche davanti. Questo porno mi piace perché il ragazzo da svezzare non ha bisogno di tante istruzioni, anzi forse sei tu che dovresti prendere appunti. Memorizza come Rion è lento, lentissimo, ad accarezzarle il sesso, a stuzzicarglielo: te lo giuro, se fai bagnare una donna così – e venire – dopo ti concede e ti fa "tutto". Rion King, con quel faccino da bravo figliolo che si ritrova, è il protagonista di tanti altri porno simili, come questo "Fottuto e ricattato da mia sorella (Studyng hard)": qui Rion è il secchione che pensa solo a studiare e a dar retta a mamma, e però gli tocca convivere con sorellastra più grande, bona e sveglia, che ha qualcosa da "spiegargli" sul divano, in doggy-style, o nel classico, rovente missionario. Dai, passata la paura? Lo vedi che è come ti dicevo all’inizio? Guardare, eccitarsi e toccarsi fino all’orgasmo coi porno…ehm… "parentali" non ti spalanca le porte dell’inferno! Stai bene, svuotato, e contento. Chi vuoi che lo sappia, in famiglia, davanti e grazie a chi sei stato a sugarti?
· Il Metoo comincia presto.
Alessia Strinati per leggo.it l'11 dicembre 2019. Usava la sua aula in tribunale per fare sesso di gruppo con diversi avvocati. Il giudice Dawn Gentry, 38 anni, del Kentucky, negli Stati Uniti è stato accusato di aver costretto alcuni legali ad avere rapporti sessuali con lei, insieme ad altre persone, sfruttando il suo ruolo di potere all'interno del foro. La donna pare che concedesse trattamenti preferenziali ai legali, nei loro casi, dopo aver ottenuto le performance sessuali, così nessuno osava contraddirla. La donna è accusata di aver avuto rapporti anche con un sacerdote, di aver coinvolto anche un segretario e la sua amante, ma nega ogni accusa. Gentry era un giudice che si occupava principalmente di cause che interessavano i minori. Oggi, il giudice, divorziato, è accusato di aver abusato del suo potere, di aver usato Snapchat per sedurre e minacciare diversi avvocati e anche il suo ex marito, come riporta anche la stampa locale.
Luca Fazzo per “il Giornale” il 17 dicembre 2019. Licenziata in tronco. Finisce male per l' accusatrice il primo caso di #metoo all' interno delle Nazioni Unite, lo scandalo che aveva investito in pieno l' anno scorso Unaids, l' agenzia Onu per la lotta all' Aids. La funzionaria che aveva denunciato il clima di molestie sessuali che regnava all' interno dell' organizzazione, e di cui sosteneva di essere stata personalmente vittima per mano di uno dei suoi massimi dirigenti, viene cacciata ieri al termine di una lunga inchiesta interna. Se le molestie ci siano state o no, la versione ufficiale ancora non lo dice, perché è ancora in corso un' altra indagine. Ma quello che per ora appare ufficialmente assodato è che la funzionaria che aveva lanciato le accuse aveva messo in atto nello stesso periodo una serie di comportamenti - dall' abuso dei fondi spese alle violazioni del codice sui comportamenti sessuali - da rendere secondo i vertici incompatibile la sua presenza in Unaids con il buon nome dell' ente. E insieme a lei viene mandato via un mega dirigente, accusato di essere al suo fianco sia nelle scorrettezze contabili che nelle spregiudicatezze sessuali. «Al nostro interno non ci può essere spazio per cattive condotte e non ci deve essere impunità»: così il licenziamento della coppia viene spiegato a tutti i dipendenti di Unaids da Winnie Byanyima, l' ugandese che ha preso il posto di direttore generale lasciato libero dal maliano Michel Sidibè, costretto anzitempo all' addio dallo scandalo #metoo. Sidibè non era personalmente accusato di molestie ma secondo la sua accusatrice, e secondo le associazioni e i media che l' avevano sostenuta, era corresponsabile del clima di tolleranza che regnava all' interno dell' organizzazione. A lanciare il caso era stata la svedese Martina Brostrom, advisor delle relazioni esterne di Unaids, che aveva raccontato di essere stata aggredita nell' ascensore di un hotel di lusso di Bangkok l' 8 maggio 2015 da Luiz Loures, brasiliano, vicedirettore dell' agenzia. L' accusa aveva terremotato Unaids e di rimbalzo Onu, la casa madre, che aveva varato una inchiesta interna senza trovare riscontro alle accuse della donna. Ma un' altra indagine indipendente ordinata da Sidibè aveva raccolto testimonianze che parlavano di Unaids come «terreno di caccia da predatori». Nel frattempo, però, era già in corso un' altra inchiesta interna proprio contro la Brostrom, la grande accusatrice, e contro il suo amico in Unaids, il gigantesco e fascinoso medico senegalese Badara Samb, capo delle iniziative speciali: nel luglio 2018 i due vengono accusati in un rapporto di frodi, viaggi a spese dei fornitori, incontri per fare sesso in alberghi pagati dall' ente, di scambiarsi sulla mail interna le foto dei genitali. Nella sua lettera di ieri, il nuovo direttore Byanyima sottolinea che questa inchiesta era partita otto mesi prima delle denunce della Brostrom: «Non c' è alcun fondamento per affermare che si tratti di una rappresaglia». A essere provati «aldilà di ogni ragionevole dubbio», scrive Byanyima, è che la coppia Brostrom-Samb «ha abusato dei fondi di Unaids ed è coinvolta in altri comportamenti scorretti, incluse scorrettezze sessuali». Da ieri, i due sono fuori: ma per due anni, dopo l' esplodere dello scandalo, si erano messi in malattia, continuando a percepire gli astronomici stipendi di Unaids (14mila franchi al mese lui, 12mila lei) e viaggiando per il mondo.
Simonetta Sciandivasci per “la Verità” il 22 novembre 2019. Emilia Clarke era poco esperta di tutto, specie del mestiere suo, quando ha letto il copione di Game of Thrones e ha accettato la parte di Daenerys Targaryen nata dalla tempesta, Khaleesi del grande mare d' erba, la non bruciata madre dei draghi Mhysa, distruttrice di catene (a questo punto ci starebbe bene un Cordero di Montezemolo, ma rispettiamo la fiction). Non s' è accorta che aveva tra le mani la serie più carnale del decennio, zeppa di scene di sesso consenziente e nudi spontanei. Esquire, qualche mese fa, aveva persino elogiato il modo in cui Got racconta il desiderio delle donne perché «i personaggi femminili hanno amanti ambosessi, anche occasionali, relazioni in cui il sesso è il collante principale». Giustissimo: in Got c' è molto sesso desacralizzato, equo, naturale, universale, ingiudicabile. La Clarke, però, ha appena fatto sapere che quelle scene l' avevano già messa molto a disagio durante la lettura del copione, tuttavia aveva pensato che duro copione sed copione e chi era lei per fare obiezioni, e quando s' era trattato di girare s' era ritrovata più nuda del previsto e non appena l' aveva fatto presente a regista, produttori, troupe, eccetera si era sentita rispondere che se non si fosse spogliata i fan sarebbero rimasti delusi e la serie sarebbe andata male, allora lei, per etica professionale e pure perché il pubblico ha sempre ragione, tutte le volte s' era chiusa in bagno a piangere e poi col cuore in gola era filata a girare. Nel pre #metoo se un' attrice firmava per sette scene di nudo e doveva girarne 15 pensava che facesse parte della recitazione, che non è una scienza esatta, ma l' arte in fieri per eccellenza. Nel post #metoo, invece, le sequenze erotiche sono preordinate del destino dei monarchi assoluti francesi dell' Ancien Régime. La Clarke non disponeva di avvocati che la tutelassero imponendo a registi e vari ed eventuali un legal document, né il set di Got disponeva di intimacy coordinator, fondamentale figura che vigila sul rispetto degli accordi e del safe space e della vulnerabilità degli attori. Ora, siccome certe accuse di tossicità e procurati traumi sono retroattive ad interim e ora che il mondo sta conformandosi alla molto ragionevole legislatura del #metoo, assai presto non ci sarà più niente da denunciare, la mamma dei draghi ha pensato di approfittare del colpo di coda del vittimismo, per vedere l' effetto che fa, perché dobbiamo tutti avere un abuso da piangere.
DAGONEWS il 25 novembre 2019. Lo stilista Christian Louboutin - noto per le sue calzature dalla suola rossa - ha criticato il modo in cui i tacchi alti sono stati "politicizzati" sulla scia del #MeToo. Dopo la notizia che la vendita di scarpe con il tacco a spillo stanno calando in favore delle scarpe da ginnastica e delle calzature basse, il 56enne francese ha commentato: «Ritengo sia inopportuno che venga politicizzato. Quando ero a scuola negli anni '70, non c'erano i tacchi alti. Erano considerati per prostitute o donne stupide. Pensavo sempre: "Perché sono considerati negativi? Non capisco". L'intera idea della femminilità negli anni '70 era poco considerata. Oggi per me il tacco perfetto è di 11 centimetri. Solo poche persone davvero speciali sanno camminare su 11 cm, 12 cm, 13 cm. Devi amare profondamente i tacchi per metterli». Secondo l’NPD Group's retail tracking service le vendite di stiletti sono diminuite del 12% mentre la richiesta di scarpe da ginnastica femminili sono aumentate del 37%. All'inizio di quest'anno, sulla scia del #MeToo, in Giappone è nato il movimento #KuToo per protesta contro il fatto che le donne siano obbligate a mettere i tacchi alti sul lavoro. Nel 2016, all'attrice di “Coronation Street” Nicola Thorp è stato negato un lavoro in una grande azienda della City perché indossava scarpe basse invece dei tacchi alti. L'attrice, che aveva firmato un contratto con un'agenzia, ha detto che non poteva lavorare come receptionist presso PricewaterhouseCoopers senza indossare abiti "più femminili". Quando ha protestato, i capi le hanno detto che la loro politica prevedeva un tacco di cinque centimetri. Thorp ha lanciato una petizione nel tentativo di rendere illegale per le aziende costringere le dipendenti a indossare tacchi alti. Ma PwC ha risposto dicendo che non esiste alcun obbligo e che il suo personale è libero di indossare ciò che desidera.
Quando le donne dicono no. Nel post #MeToo il cinema non fa sconti. Ispirazione sociale e desiderio di scavare nel profondo. A Torino e nelle sale film senza retorica che spiazzano e convincono. Fabio Ferzetti il 25 novembre 2019 su L'Espresso. Donne in lotta. Donne che dicono no. Donne che fanno cose da uomini, oppure cose che nessun uomo farebbe. Dunque si impongono, cambiano le regole del gioco, trasformano la percezione del mondo. Insomma rifiutano di fare le vittime. Di personaggi così il cinema è sempre stato pieno, davanti e dietro alla macchina da presa. Ai tempi del #MeToo lo scontro però si è radicalizzato. E i film migliori aiutano a vederci più chiaro, rifiutando retorica e schematismi per scovare gesti inattesi e spiazzanti. Nel programmatico “Dio è donna e si chiama Petrunya”, di Teona Strugar Mitevska, la protagonista fa infatti una cosa semplicissima e clamorosa insieme. Si tuffa nelle acque gelide e fangose del fiume di Stip, in Macedonia, per ripescare la croce che ogni inverno il pope getta dal ponte. Il rito, beneaugurante, è per tradizione riservato ai maschi. Così quando quella giovanottona riemerge stringendo il crocefisso scoppia un putiferio. La folla la assedia, il pope le intima di restituire la croce, lei rifiuta e scappa a casa tremante dove la madre, scoperto il fattaccio dal tg, la aggredisce con una violenza in cui un malinteso senso del sacro si mescola alla peggior cultura patriarcale, quella interiorizzata dalle donne. Ed è solo l’inizio. In sala dal 12 dicembre, il bel film della Mitevska, protagonista in questi giorni di una doverosa personale al Torino Film Festival, è il perfetto esempio di un cinema post-femminista che non rifiuta certo l’ispirazione sociale (c’è dietro un fatto di cronaca) ma sa scavarvi dentro con sapienza. Inquadrature caustiche, tono in bilico fra grottesco e mélo, capacità di concentrare conflitti giganteschi in un dettaglio (le operaie che guardano storto Petrunya durante il suo umiliante colloquio di lavoro, schiave e complici insieme dell’odioso capetto, gelano il sangue). In fondo, sembra dire la regista, le cose non sono cambiate molto dai tempi del primo femminismo. Quei poliziotti macedoni, così rozzi e diretti, quel pope impotente di fronte al vuoto giuridico in cui l’azione di Petrunya lo precipita, rimandano ai maschi protervi e increduli che costellano uno straordinario doppio ritratto in programma sempre a Torino, “Delphine et Carole, les insoumuses” (gioco di parole fra “muses” e “insoumises”, cioè non sottomesse). Al secolo Delphine Seyrig, luminosa attrice di tanti film firmati Resnais, Truffaut, Duras, Demy, Buñuel, e Carole Roussopoulos, “videasta” militante che negli anni 70, con la combattiva Delphine, acquistò la seconda videocamera portatile venduta in Francia («la prima l’aveva comprata Godard») per dare vita a un pionieristico lavoro di controinformazione senza filtri. Sono anni di scontri, di provocazioni, di lotte aspre e gioiose. Delphine Seyrig trova nel femminismo la chiave della rivolta che cova fin da ragazza; declama in video il libro esplosivo (e allora esaurito) di Valerie Solanas, “SCUM - Manifesto per l’eliminazione del maschio”; firma con altre celebrità come Jeanne Moreau, Catherine Deneuve, Ariane Mnouchkine, Françoise Sagan, Agnès Varda, il manifesto delle 343 donne che dichiarano di aver abortito, uscito sul “Nouvel Observateur” nel 1971, quando si rischiava l’arresto; gira “Sois belle et tais-toi” (Sii bella e taci) intervista a venti colleghe tra cui Jane Fonda che racconta come alla Warner volessero imporle seni finti e sfondarle le mascelle per darle guance scavate. Ma va anche a riprendere, e stavolta è l’unica star a esporsi, le prostitute in sciopero barricate dentro una chiesa di Lione, allestendo con Carole un sistema video allora inedito che le fa comunicare con l’esterno. E tanto peggio se Toscan du Plantier, potente produttore Gaumont, minaccia di bloccare un film se sarà lei la protagonista. Diretto da Callisto McNulty, a dispetto del nome una fascinosa 29enne, “Delphine et Carole” darà una scossa di nostalgia a chi ha l’età. Ma è inutile rimpiangere i pionieri, anzi le pioniere. Chi vuole provocare oggi ha a disposizione un mezzo molto più potente: la rete. Come insegna la disegnatrice Rokudenashiko, che per sabotare il tabù dei genitali femminili in Giappone ha prima fatto un calco in gesso della sua vagina, poi l’ha riprodotta in mille versioni delicatamente dipinte con varianti spesso geniali (c’è anche la vagina-kayak). Infine ha messo tutti i dati in rete dando modo a chiunque di riprodurre i suoi genitali con una stampante 3D. Troppo per la giustizia nipponica che l’ha processata e condannata. Anche se - bella ironia - proprio così ha incontrato suo marito. Lo racconta la svizzera Barbara Miller in un docu davvero dirompente dedicato a cinque donne contro di altrettanti culti e paesi, “#Female Pleasure”, scoperto a Locarno e riproposto (il 24 novembre) dal MyArt Film Festival di Cosenza. Basterebbe lo straordinario capitolo dedicato alle mutilazioni genitali femminili a raccomandarne la visione a chiunque. Invece per ora in Italia nessuno lo ha comprato. Segnale triste ma certo non inatteso.
«Ho smascherato un predatore sessuale. Le accuse di Asia reggono». Pubblicato mercoledì, 16 ottobre 2019 da Corriere.it In «Predatori» Ronan Farrow racconta l'inchiesta che scatenò il #metoo: i ricatti ... «Sto andando a fare un'intervista» dissi a mia sorella Dylan. Frugai tra i contatti del telefono e rimasi per un attimo indeciso se chiamare un numero che non sentivo da tempo. «Sto andando a fare un’intervista» dissi a mia sorella Dylan.«A un’attrice famosa. Accusa una persona molto potente di un reato piuttosto grave». (…) Al telefono, quel giorno di febbraio, rimase un attimo in silenzio. «E mi chiedi un consiglio?» disse infine. Le sue accuse e le domande che erano rimaste in sospeso tra noi in merito al mio aver fatto abbastanza, e averlo fatto in tempo, per sostenerla, avevano messo una distanza tra noi che nelle foto della nostra infanzia non c’era. «Sì, ti chiedo un consiglio» dissi. Sospirò. «Be’, questa è la parte peggiore. La massa di pensieri. L’attesa che la storia esca. Ma una volta uscita è tutto molto più facile. Dovresti dirle soltanto di tenere duro. È come strappare via un cerotto». «Se riesci a incastrarlo» aggiunse Dylan «non fartelo scappare, d’accordo?» Nel frattempo, anche Weinstein stava dandosi da fare per conto suo. Mentre settembre lasciava il posto a ottobre, si rivolse alla figura chiave delle sue rivendicazioni su un possibile conflitto d’interesse. Chiese a una delle assistenti di fare la telefonata. Su un set cinematografico di Central Park, un’altra assistente allungò il telefono a Woody Allen. A Weinstein serviva un manuale d’istruzioni strategico, per respingere le accuse di molestie sessuali e per sapere come comportarsi con me. «Come hai affrontato la faccenda?» chiese Weinstein a un certo punto. Chiese ad Allen di intercedere in qualche modo. Allen scartò immediatamente la proposta, ma ribatté che la sua esperienza poteva tornargli utile. Quella settimana, le ricevute della carta di credito di Weinstein registrarono l’acquisto di un libro di interviste scritto da uno degli ammiratori incalliti di Allen, che documentava tutti gli argomenti schierati in campo da lui e dal suo esercito di investigatori privati e addetti stampa per infangare la credibilità di mia sorella, del pubblico ministero e di un giudice che aveva ipotizzato che la ragazza stesse dicendo la verità. «Gesù, mi spiace davvero tanto» disse Allen a Weinstein al telefono. «Buona fortuna». Quando i revisori cominciarono a chiamare le fonti a tappeto, Weinstein raddoppiò le minacce. Il primo lunedì di ottobre mandò al «New Yorker» la prima lettera dei suoi avvocati. (…) La lettera risentiva chiaramente della recente conversazione di Weinstein con Woody Allen. Harder (uno degli avvocati di Weinstein, ndr) dedicava diverse pagine all’argomentazione secondo cui l’aggressione sessuale ai danni di mia sorella mi rendeva inadatto a occuparmi di Weinstein. «Il signor Farrow ha diritto alla sua rabbia privata» scrisse Harder. «Ma nessun editore dovrebbe permettere che questi sentimenti personali creino e diano sostanza a un’inchiesta infondata e diffamatoria nata dalla sua animosità personale». A qualche isolato di distanza, mi sedetti a una scrivania libera del «New Yorker» e chiamai la Weinstein Company per avere un commento. Il receptionist con cui parlai mi disse in tono nervoso che avrebbe controllato se Weinstein era disponibile. Poi udii la familiare voce roca baritonale. «Wow!» disse con entusiasmo beffardo. «A cosa devo l’onore?» Il fiume di inchiostro scritto su di lui prima e dopo di rado si soffermava su questo aspetto: era piuttosto divertente. Ma era facile non accorgersene quando passava fulmineamente alla rabbia (…). «Non sei riuscito a salvare una persona a cui volevi bene e adesso pensi di poter salvare tutti». Lo disse sul serio. Veniva da credere che stesse brandendo un detonatore contro Aquaman. La prima volta che vidi mia sorella Dylan dopo l’uscita degli articoli, lei saltò in piedi e mi abbracciò. (…) Ripassai mentalmente immagini di Dylan e me (...) Ricordai mentre posizionavamo quei mitici re e draghi di peltro, e il risuonare di una voce adulta che la chiamava. L’espressione spaventata, terrorizzata. La sua richiesta: se mi succede qualcosa di brutto, verrai ad aiutarmi? E io che glielo promettevo. In campagna, con la figlia che ci sgambettava intorno, mi disse che era orgogliosa dell’inchiesta. Era grata. Sapeva che era stata dura. E qui le mancò la voce. «Nessuna storia per te» dissi. Ogni volta che aveva raccontato la sua storia, da bambina e anche in seguito, aveva sempre avuto la sensazione che le persone si voltassero dall’altra parte. «Giusto» rispose lei. Per ogni storia raccontata, ce n’erano innumerevoli altre, come la sua, che non lo erano state. Asia Argento incarnava, più di ogni altra fonte, un groviglio di contraddizioni. Dopo aver partecipato alla mia inchiesta, raggiunse un accordo economico con un attore, Jimmy Bennett, il quale sosteneva che Asia aveva fatto sesso con lui quando aveva diciassette anni. (...) la stampa sottolineò la contraddizione stridente fra l’uso di un accordo di riservatezza da parte dell’attrice e le sue accuse di essere vittima di uno che li impiegava d’abitudine. Quest’ultima vicenda non ha alcun riflesso su una verità incontrovertibile: la storia di Asia Argento su Harvey Weinstein reggeva, corroborata da resoconti di testimoni oculari e di persone cui era stata riferita all’epoca. I perpetratori di abusi sessuali possono anche essere dei sopravvissuti. Ma questa idea ha poco credito in un ambiente dove ci si aspetta che le vittime siano dei santi, o altrimenti vengono liquidate come peccatori (…). Nel corso delle telefonate di quell’autunno, Asia sembrava consapevole che la sua reputazione era troppo compromessa, che l’ambiente in Italia era troppo feroce perché lei potesse sopravvivere al processo. (...) Mentre l’attrice si dibatteva nell’indecisione, il suo compagno, lo chef Anthony Bourdain, intercedette più volte. Le disse di andare avanti, che ne valeva la pena, che avrebbe fatto la differenza. Argento decise di parlare pubblicamente. Quella sera, mentre uscivo dal lavoro, Remnick mi chiamò per dirmi di essere stato contattato dal compagno di Asia Argento, Anthony Bourdain. In passato Bourdain aveva appoggiato l’intenzione di Asia di parlare, ma avvertii lo stesso un tuffo al cuore: spessissimo le donne che avevano deciso di tirarsi indietro lo avevano fatto per intervento di un marito, un fidanzato, un padre. Essere contattati da figure significative di rado era foriero di buone notizie. Ma tutte le regole hanno delle eccezioni: Bourdain aveva detto a Remnick che il comportamento predatorio di Weinstein era nauseante, che «tutti» lo avevano saputo per troppo tempo. «Non sono religioso» aveva scritto. «Ma prego che abbiate la forza per pubblicare questa storia».
Lorenzo De Cicco per “il Messaggero” il 17 ottobre 2019. Due anni dopo essere finito nel tritacarne dello scandalo Me too, con tanto di siluramento da parte di Netflix e della Hbo (ma il colosso dello streaming qualche mese fa ha riammesso i suoi spettacoli in piattaforma, insomma damnatio memoriae ma solo per un po'), Louis C.K. sbarca a Roma e fa sold out: tanto che il Teatro Sistina, dove si esibirà il 25 novembre, ha dovuto raddoppiare gli spettacoli: uno alle 22, quello da tutto esaurito, e un altro alle 19.15, per cui qualche biglietto ancora c'è. Un'ora e quaranta senza intervallo, piccolo break, poi questa leggenda della stand-up comedy americana tornerà sul palco per il secondo show. Classe 67, ex autore di David Letterman e Conan O'Brien, Louis C.K., nome d'arte di Louis Székely, satira feroce e senza tabù, è stato a detta di molti la stella più luminosa del genere stand-up, il comico solo davanti al microfono e al suo pubblico, almeno nell'ultimo decennio; una carriera cominciata nei localini da cabaret dove ti danno 5 minuti per dire le battute e avanti-il-prossimo, e decollata poi fino ai teatri in over-booking, fino alle serie tv e agli spettacoli che su Netflix rivaleggiano con certi colossal premiati dall'Oscar. Ascesa e caduta: nel novembre 2017 le accuse di molestie, da parte di 5 donne, subito ammesse: «Storie vere». Dal cono d'ombra, Louis C.K. ha provato a uscire prima di altri colleghi (e gli è costato qualche critica). Oltreoceano il ritorno sui palchi è una marcia in sordina e non senza affanni: qualche spettacolo in calendario tra Virginia, North Carolina e l'Illinois. In Europa, in particolare in Italia, le cose sembrano andare diversamente, nonostante la scarsa pubblicità e il fatto che gli show non siano certo adatti a tutti i tipi di pubblico (sono naturalmente vietati ai minori di 18 anni, tutti in inglese e senza sottotitoli). Ma c'è una massa di affezionati che lo segue comunque, giovani che lo conoscono da anni tra spezzoni su Youtube e spettacoli rilanciati da Netflix, e che corrono col mouse a comprare i biglietti venduti su internet prima che finiscano. Il primo spettacolo in Italia, a Milano a luglio, ha fatto registrare il pienone, come ricorda il Sistina che ha riproposto l'operazione nella Capitale: «Louis C.K. arriva per la prima volta a Roma - si legge sul sito del teatro a due passi da piazza Barberini - Il leggendario comico americano porta la sua stand-up comedy a Roma dopo il fenomenale successo dei suoi tre spettacoli a Milano della scorsa estate che hanno registrato tre formidabili sold out». Riprese proibite, i cellulari saranno sigillati all'entrata: «Durante lo spettacolo - avverte il teatro - sono vietati i telefoni cellulari, gli smartwatch eccetera. Tali dispositivi verranno chiusi in un apposito contenitore Yondr che terrete con voi in sala».
Francesco Borgonovo per “la Verità” il 16 settembre 2019. Nell'era funesta del Me too è illuminante la lettura di un libro appena pubblicato da Bompiani. S'intitola Galateo per ragazze da marito, e lo ha scritto la giornalista Irene Soave. È un viaggio molto gustoso fra i «manuali per signore e signorine» pubblicati dall' unità d' Italia in avanti, senza dimenticare i volumi usciti dopo il Sessantotto. C' è però un capitolo particolare sul quale vale la pena soffermarsi, quello intitolato «Concedersi o non concedersi». Esamina i consigli che i vari manuali offrivano alle fanciulle al fine di evitare, o comunque rifiutare, le avance sgradite dei maschi. Alcune indicazioni sono favolose: «Mangiucchiate di continuo. Tutte le volte che è sul punto di baciarvi, cacciatevi in bocca un pezzetto di dolce, un candito, un tarallo». Immaginiamo che, considerata l' attuale ossessione per la linea, tale consiglio non verrà mai seguito dalle ragazze d' oggi. Meglio forse quest' altro: «La sigaretta può diventare un eccellente muro di difesa. Basterà una lievissima ustione o un semplice accenno di bruciatura perché il troppo intraprendente cavaliere rinunci a stringervi tra le braccia una seconda volta». Vero è che con la sigaretta elettronica al massimo si può affumicare l' ometto troppo baldanzoso, non ustionarlo. Il punto, però, non è il metodo, ma l' atteggiamento. Il libro della Soave mostra che «le signorine anni Cinquanta - che poi erano le nostre nonne - si trovavano invece già di fronte a una generazione di smagati poco inclini alle smancerie». Tuttavia, sapevano come destreggiarsi, come evitare e rispedire al mittente gli approcci molesti, come cavarsi dagli impicci con grazia ed eleganza. Lo sapevano anche perché veniva loro insegnato, se non dalle madri o dalle zie, dai manuali di galateo. Intendiamoci: qui parliamo di indebite pressioni, di complimenti eccessivi, di tentativi di seduzione inopportuni e fuori luogo, non di molestie pesanti o violenze. Oggi si tende a fare confusione e a mettere tutto sullo stesso piano, ma c' è differenza: la violenza non si può evitare (o comunque è quasi impossibile farlo), anche se ci si prova. Più facile è rifiutare una profferta indesiderata. Cosa che, però, le donne dei nostri tempi sembrano divenute incapaci di fare. Almeno così sembra quando si sentono parlare le vestali del Me too (americane ma pure italiane). Sentiamo vaneggiare di contratti pre incontro sessuale utili a ottenere il consenso all' atto. Assistiamo alle confessioni di attricette che raccontano di non aver proprio potuto evitare di finire a letto con il regista famoso e potente. Soprattutto, oltre a tutto questo, si avverte uno strano smarrimento nelle nuove generazioni. «Non viviamo in un' epoca», nota la Soave, «in cui le signorine del bon ton, la Chiesa, i genitori possano più trovare alcunché da eccepire» di fronte a un primissimo appuntamento che finisce a letto. La cosiddetta «rivoluzione sessuale» ha reso tutto più semplice, ma allo stesso tempo molto confuso. A rifiutare l' incontro sessuale si rischia persino di far brutta figura. Concedersi è la norma, ma la questione è aperta: «Oggi se una signorina ne ha voglia, nessuno le impedisce nulla. Ma se non ne ha tanta voglia? Sarà normale?», scrive la Soave. Da questa confusione nascono le follie burocratiche del Me too. Alle «ragazze da marito» di un tempo veniva chiarito che, volendo, potevano rifiutarsi anche energicamente. Magari a volte non riuscivano a farlo, loro malgrado, ma venivano invitate a difendersi e a preservarsi. Oggi, da una parte le si invita a non farsi troppo problemi e dall' altra a frignare a fatto avvenuto, specie se il «fatto» non ha portato i benefici sperati. Sia chiaro: nessuno qui vuol fare il bacchettone. È una questione di consapevolezza, di educazione e di vecchie, sane, buone maniere. Al maschio intemperante si può anche rispondere «no, grazie». Anche se c' è qualcuno che spinge perché si stimoli prima il desiderio e poi lo si tenti di imbrigliarlo tramite apposito contratto. Talvolta, liberalizzare i costumi non aumenta il piacere né la libertà, ma solo la confusione.
HAI VOLUTO IL #METOO? E ORA NON LAVORI! Da Il Messaggero il 3 settembre 2019. Viva la sincerità. In un sondaggio il 21% degli uomini americani ha ammesso di essere assai riluttante ad assumere in una impresa donne per un lavoro che richiede una stretta interazione con gli uomini, per esempio i viaggi d'affari. Secondo il quotidiano The Guardian che ha dedicato a questo argomento un vasto approfondimento sembra essere un altro segnale che le donne vengano punite per il movimento mondiale #Metoo. Naturalmente vengono fatti esempi palesi, come la dichiarazione di Mike Pence, il vice presidente, che ormai rifiuta di andare a pranzo da solo con una donna a meno che non sia sua moglie. Da una ricerca sociologica apparsa su Organizational Dynamics risulta che il 27% degli uomini rifiuta meeting con colleghe sole, come se fossero impauriti a restare da soli in una stanza con una donna. Ma quel che è peggio è il 21% degli intervistati che ammette di non voler assumere donne per un lavoro che richiede trasferte o contatti ristretti con uomini. Infine, a completare il trend, è il 19 % degli uomini che pensa sia sbagliato assumere in azienda donne attraenti, evidentemente foriere di guai. Il sondaggio è stato effettuato su un vasto campione agli inizi dell'anno e, secondo i sociologi che lo hanno elaborato, rispecchierebbe i timori più profondi sollevati dalla diffusione del movimento #Metoo.
Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 15 luglio 2019. Cosa hanno in comune Eva Longoria, Nicole Kidman, Reese Witherspoon, Drew Barrymore e Julia Roberts, oltre al fatto di non essere poverissime, bruttine stagionate e poco famose? Forse il fatto di aver tratto i maggiori vantaggi dall'ondata del Me Too, di aver accresciuto il proprio business grazie a dichiarazioni mirate a suo sostegno, e di essere passate dalla mera professione di attrici - non che così facessero la fame - a quello di produttrici e, in alcuni casi, di registe. È come se il grande movimento femminista, sorto all' indomani dello scandalo Weinstein, avesse posto l' esigenza di avere donne non solo nei ruoli di protagoniste ma anche nei posti di comando, di renderle padrone del proprio destino e dei propri film. Capofila di questa nuova tendenza rosa pare Eva Longoria che dall' 8 luglio, nella triplice veste di produttrice, regista e attrice, va in onda su FoxLife con la serie Grand Hotel, in cui lei interpreta la parte della moglie defunta del protagonista e, in quanto tale, dice, «mi vedrete solo nei flashback perché sarò già morta». Ma, a guardare questa produzione, la già "casalinga disperata" Longoria è tutt' altro che una figura assente. In primo luogo ha improntato il format originale (Grand Hotel era prodotto in Spagna per Antena 3) a sua immagine e somiglianza, con un messaggio politicamente corretto, finalizzato a combattere le discriminazioni di ogni genere. Lo scopo è «liberare il potenziale delle donne latine», come recita il motto della Eva Longoria Foundation, e in quest' ottica l'attrice ha fatto una scelta di discriminazione al contrario, coinvolgendo nella produzione praticamente solo donne, dal direttore della fotografia all' assistente alla regia fino al coordinatore degli stunt e ai montatori. Sempre sulla stessa scia, la Longoria sarà prestò dietro la macchina da presa nella commedia 24-7, in cui interpreterà la parte di una donna che, guarda caso, prova a farsi largo in un' azienda maschilista. Cercare di screditare la figura maschile pare anche la missione di Big Little Lies, la serie tv prodotta per Hbo da Nicole Kidman e Reese Witherspoon che qui svolgono anche il ruolo di protagoniste. Basta guardarsi la trama delle puntate della prima e della seconda stagione per capire come si tratti di una serie in cui il maschio assume una posizione residuale, accessoria o addirittura negativa. O è superfluo o è violento, c' è poco da fare. E allora Madeleine soffre perché l' ex marito si è trovato una nuova compagna e la fa vivere con la propria figlia; Jane è una ragazza madre che ha subito uno stupro; Celeste è continuamente vessata dagli abusi del marito. Ovviamente in questa serie non poteva non comparire Meryl Streep, la campionessa del Me Too, la pasionaria del neofemminismo a Hollywood, che ha preso parte anche a Time' s Up, l' organizzazione avente come scopo la parità e la giustizia per le donne nel mondo del lavoro. Laddove non sono mostri, in queste serie, gli uomini diventano vittime del superpotere femminile, come capita allo sventurato marito della protagonista di Santa Clarita Diet, distribuito da Netflix: qui la donna interpretata da Drew Barrymore, che della serie è anche produttrice, svolge il ruolo di uno zombie che si ciba di carne umana. Eccolo là, il riscatto dell' ex genere debole: finalmente le donne possono diventare mangiatrici di uomini, api regine o mantidi religiose... O perlomeno possono guidarli nel cammino di recupero della normalità dopo che essi hanno intrapreso quell' attività machista che è andare a far la guerra: così spetta a una psicologa interpretata da Julia Roberts nella serie Homecoming, da lei prodotta e distribuita da Amazon Video, aiutare i veterani di guerra, vittime di stress post-traumatico, a reinserirsi nel mondo civile. Una nuova frontiera ormai si è aperta, le serie tv intrise di femminismo, il Me Too in onda sul piccolo schermo, da cui rischia di generarsi un effetto a cascata. D' ora in poi le paladine delle quote rosa nello spettacolo saranno sempre più esigenti. Chiederanno di essere giustificate se attrici scarse o incapaci usando il genere sessuale a mo' di scusante perché, come dice la Longoria, «a noi donne non è concessa una seconda possibilità: se sbagli un film, può essere fatale. Per i colleghi maschi non è così». Quindi chiederanno di essere giudicate sulla stampa specializzata solo da giornaliste in quanto, continua la Longoria, «sui giornali servirebbero un maggiore equilibrio e più firme al femminile che possono apprezzare una storia pensata appositamente per la nostra sensibilità». Da ultimo, si pentiranno dei film fatti in passato o chiederanno di non farne mai più simili perché, come spiega Julia Roberts, «tante cose sono cambiate e oggi non sarebbe più possibile girare un film come Pretty Woman». E dire che senza quel film forse la giovane attricetta rossiccia e semi-sconosciuta non sarebbe mai diventata Julia Roberts...
Il #MeToo giapponese è fallito: il progressismo a Tokyo non attecchisce. Federico Giuliani il 12 giugno 2019 su it.insideover.com. Il Giappone stronca sul nascere una protesta femminista che avrebbe potuto generare una situazione insostenibile nel Paese. La campagna d’opinione in questione ruota attorno all’hashtag #Kutoo, che a sua volta ricalca l’orma del ben più noto #Metoo, il movimento femminista contro le molestie e violenze sessuali sulle donne. Il #Kutoo è una protesta che viene sempre dal mondo femminile, ma che mette nel mirino il presunto obbligo per le donne giapponesi di indossare i tacchi alti sul posto di lavoro. Dopo giorni di dibattito il ministro del Lavoro nipponico, Takumi Nemoto, ha chiuso ogni discorso: “Non c’è alcuna regola scritta, e se le aziende lo richiedono allora i tacchi sono necessari”.
Il #Metoo giapponese. #Kutoo è un gioco di parole fra kutsu, che in giapponese significa scarpe, e kutsuu, cioè dolore. La protesta online è partita da Yumi Ishikawa, un’attrice e scrittrice piuttosto rinomata in patria. Ishikava chiedeva una legge per impedire ai datori di lavoro di costringere le proprie dipendenti a portare scarpe con tacchi alti. Bisogna dire che molte società nipponiche impongono un rigido dress code ai propri dipendenti, uomini o donne che siano, e nell’abbigliamento femminile sono in effetti spesso richieste le scarpe con il tacco per dare più eleganza. È pura formalità, sottolineano le aziende, sono soltanto regole convenzionali, anche se per l’attrice si tratterebbe di discriminazione sessuale.
Tacchi alti come discriminazione. La protesta è tornata alla ribalta nei giorni scorsi anche se l’hasthag era stato lanciato lo scorso gennaio, quando Ishikawa ha protestato contro un albergo di Tokyo, che nei requisiti di un’assunzione richiedeva l’uso dei tacchi per le donne. La discriminazione dell’imporre i tacchi alle lavoratrici starebbe nel fatto che le donne con problemi fisici troverebbero non poche difficoltà nell’indossare i tacchi, e quindi per questo dovrebbero sopportare limitazioni in campo lavorativo. L’altro lato della polemica riguarda la salute delle dipendenti: indossare tacchi per tante ore è dannoso.
Il ministro stronca la polemica. Ishikawa ha pure aperto una petizione online poi inviata al ministro del Lavoro giapponese. L’obiettivo dell’attrice è quello di cambiare una certa mentalità diffusa in Giappone, secondo la quale una donna che non indossa il tacco non rispetterebbe le buone maniere. La risposta di Nemoto non è tardata ad arrivare: il ministro ha dichiarato di non voler vietare l’obbligo dei tacchi, principalmente perché nel Paese del Sol Levante non esiste alcuna legge che costringerebbe le donne a indossare tacchi sul posto di lavoro. Nemoto ha rincarato la dose dicendo che è “normale e accettato dalla società che le donne indossino tacchi sul posto del lavoro, è una pratica necessaria e appropriata”.
I precedenti più famosi. Il #Kutoo è solo una delle ultime battaglie progressiste portate avanti dalle donne giapponesi. Il già citato #Metoo è sbarcato in Giappone più o meno un anno dopo esser esploso negli Stati Uniti, anche se il movimento femminista qui non ha mai attecchito come nel resto dell’Occidente. Un altro esempio di battaglia progressista non andata a buon fine risale al 2015, quando la Corte Suprema giapponese si espresse sull’utilizzo del cognome maschile per la moglie dopo il matrimonio. Il Codice Civile giapponese prevede che i coniugi sposati adottino il medesimo cognome: quello maschile. Femministe e attivisti per i diritti umani volevano cambiare una pratica giudicata sessista e altamente discriminatoria per le donne, che in questo modo avrebbero perso la loro identità. Battaglia persa, come il #Kutoo.
Federico Pontiggia per il “Fatto quotidiano” l'8 giugno 2019. Con i se e i ma non si fa la storia, nemmeno quella del cinema. Chissà però che ne sarebbe stato della famigerata scena con il burro di Maria Schneider e Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci o del cunnilingus di tredici minuti ricevuto - complici le pressioni del regista e l' abuso di alcool, secondo alcuni - da Ophélie Bau in Mektoub, My Love: Intermezzo di Abdel Kechiche all'ultimo Festival di Cannes, se su quei set ci fosse stato un "intimacy coordinator". Nata sulla spinta del caso Harvey Weinstein e del movimento #MeToo, è figura nuova, per ora appannaggio dell' audiovisivo americano e anglosassone. Sul set della serie con James Franco e Maggie Gyllenhaal The Deuce, Hbo annunciò lo scorso ottobre che un "coordinatore dell' intimità" sarebbe stato di lì in poi presente su tutte le proprie produzioni che prevedessero scene di sesso. Per fare che cosa? Supervisionare le prove, stabilire in anticipo le nudità, sincerarsi dell' esplicito consenso degli attori prima del contatto fisico, predisporre guaine e marsupi per evitare l' accostamento dei genitali, prescrivere termini adatti per indicare parti del corpo e attività sessuali, assicurarsi la completa coreografia delle scene di sesso, come se fossero di lotta, e così via. Ita O' Brien, londinese che ha lavorato per Hbo e Netflix (la teen comedy Sex Education), ha tracciato le linee guida di "Intimacy on Set", affinché ognuno disponga di "regole, confini, linguaggio e comunicazione" atti a inibire abusi, scorciatoie e umiliazioni sotto i riflettori. Dal canto suo, Alicia Rodis ha co-fondato nel 2016 la Intimacy Directors International, che dal teatro s' è allargata a cinema e televisione. Base a New York, s' è adoperata sulla seconda stagione di The Deuce, nonché sulla serie Watchmen di Damon Lindelof in arrivo, e sul palcoscenico ha persino apparecchiato, a partire dalla Bisbetica domata, un #MeToo Shakespeare. Da chiarire se sortiranno nudi più consapevoli o solo meno nudi sullo schermo, le nuove politiche per le scene di sesso a Hollywood nell' era #MeToo sono necessarie, superflue o, addirittura, nocive? Il "nudity rider" - normalmente allegato negli Usa al contratto di un attore per disciplinare le scene senza veli - non basta e avanza? E, a maggior tutela delle attrici, la clausola "no-nudity" di Sarah Jessica-Parker per Sex and the City e ora Divorce, l' analogo veto strappato da Emilia Clarke per Game of Thrones e il controllo totale su The Handmaid da parte di Elisabeth Moss non sono forse eccezioni che invalidano queste novelle, intime regole? Sopra tutto, esse sono estendibili alle nostre - il teatro con i sindacati di categoria e Federvivo s' è appena dato un codice di condotta - latitudini? Per Antonietta De Lillo, regista e consigliere di Women in Film, Tv & Media, "il #MeToo è particolarmente scivoloso: curiosità, morbosità e aneddoti si sprecano, qui si parla di qualcosa già normato dai contratti". Viceversa, "servono buon senso e buoni comportamenti per far fronte agli abusi, e i giudici siamo noi: non abbiamo bisogno di controllori e specialisti, bensì di autodisciplina". Agente tra i più affermati, Valentina Conti scava un solco "tra il nudity rider americano e la discrezionalità, in capo agli attori e a chi li rappresenta, nell' ambito italiano". Quale caso limite cita lo scandaloso Antichrist, per cui Lars von Trier, "oltre all' abituale accordo di non divulgazione, richiedeva la piena accettazione e la non rinegoziazione del copione: un mio assistito - non vi dirò chi - si vide costretto a rifiutare la parte". Se oggi i contratti, anche sulla scorta dell' affaire Fausto Brizzi, prevedono il licenziamento in tronco del regista coinvolto in casi di molestie, Conti non raccoglie l' exemplum dell' intimacy coordinator e punta il dito sulla "paranoia e la caccia alle streghe d' Oltreoceano: stanno esagerando". Pollice verso anche da Monica Stambrini, regista e già "ragazza del porno": "Mi stupisce, anzi, no. Anche in ambito queer si sta barattando la libertà con il lavoro basato sul consenso, ma chi decide quale sia una rappresentazione adeguata della sessualità? Se le norme nascono in ambienti tradizionalmente anti-normativi, si va verso la distopia". Detto che con alcune attrici s' è trovata "di fronte a blocchi, pudori, e dunque alla necessità del compromesso: con Valentina Nappi, invece, non ho avuto limiti", Stambrini evidenzia il paradosso dell'intimacy coordinator: "Si sessualizza tutto, nel nome del controllo: è come girare con i legali tra i piedi".
Molestie, l'accusatrice di Trump presenta le prove. Summer Zervos, ex concorrente del programma tv "The Apprentice" dice di aver depositato in tribunale i documenti che dimostrerebbero le sue accuse. La Repubblica il 25 ottobre 2019. Summer Zervos, ex concorrente del programma tv "The Apprentice" che aveva pubblicamente accusato il presidente Donald Trump di averla molestata nel 2007, dichiara di avere le prove. Lo scrive Variety, citando i documenti depositati in tribunale dalla donna che ha denunciato il presidente per diffamazione e che contemplano email della Trump Organization e l'agenda sui viaggi del tycoon. Le molestie sarebbero avvenute quando Zervos ha fatto visita a Trumo nel suo bungalow dell'hotel Beverly Hills. L'avvocato di Zervos, Marriann Wang, spiega che dall'agenda di Trump emerge che si trovava nell'hotel dove sarebbero avvenute le molestie il 21 e il 22 dicembre del 2007. "I due si trovavano esattamente dove ha detto Zervos", ha argomentato l'avvocato. L'ex concorrente ha inoltre raccontato che Trump l'aveva invitata nel suo club di golf a Rancho Palos Verdes il giorno successivo al presunto incidente e la sua agenda conferma che vi si sarebbe recato il 22 dicembre. Zervos ha denunciato Trump per diffamazione nel 2017 dopo che lui ha bollato come 'fake news' le accuse di molestie nell'ottobre del 2016, sostenendo di non averla mai incontrata.
«Ci obbligava a sederci sulle sue ginocchia alle riunioni». Accuse di molestie e bullismo al “magnate buono” del tech. Pubblicato giovedì, 24 ottobre 2019 da Corriere.it. Da «capo» più affascinante della Gran Bretagna a molestatore seriale. Lawrence Jones, il 51enne britannico da 700 milioni di sterline, tycoon del settore tecnologico, che ha fondato e gestisce la società di cloud computing UKFast, sede a Manchester, è oggi al centro di un’inchiesta del Financial Times: due donne lo accuserebbero di molestie sessuali e avances indesiderate. Jones nega con enfasi le accuse, affermando che sono «terribilmente dannose, specialmente per mia moglie, la nostra famiglia e il team di UKFast». Azienda che il Sunday Times ha incluso poco tempo fa nella lista dei «migliori posti in cui lavorare», anche per la lunga serie di benefit di cui il personale può godere: dalle giornate extra di ferie al tempo libero durante la giornata per «schiacciare un pisolino» o per utilizzare lo studio di registrazione dell’ufficio. Peccato che negli stessi locali della UKFast – premiata a più riprese dalla regina per i servizi all’economia digitale - succedano anche episodi bizzarri: per esempio, Jones - che chiede di essere chiamato «Loz» o «LJ» – talvolta si aggirerebbe a torso nudo per l’ufficio ed è capitato che a qualche riunione obbligasse le sue collaboratrici a sederglisi in grembo. Sul Financial Times emerge il doppio volto dell’uomo, uno dei 250 più ricchi della Gran Bretagna, padre di quattro figli, in buoni rapporti con Richard Branson e la famiglia reale inglese, che lo scorso anno partecipò, insieme alla moglie Gail, al matrimonio del principe Harry con Meghan Markle, al castello di Windsor. Lo stesso uomo accusato di aver portato la segretaria, appena assunta, in un negozio di sex toys; di aver molestato una donna nel suo lussuoso chalet in svizzera. E ancora: molestie sessuali, bullismo, episodi tali e talmente frequenti da aver generato un clima di paura e disagio nella compagnia. Sono almeno trenta i dipendenti che, sotto anonimato, avrebbero confermato le accuse ai giornalisti. L’altra faccia del paradiso: UKFast, che ha 400 dipendenti, è nota per i privilegi che accorda ai lavoratori. Oltre alla possibilità di fare rapidamente carriera, l'assistenza sanitaria gratuita, le trovate per allietare le giornate di lavoro, in puro stile Silicon Valley: dagli scivoli giganti, che portano dall'ultimo piano alla hall, alla mega-scacchiera, alla pista di pattinaggio montata d'inverno nel parcheggio, alla sala giochi interna e le birre servite al bar ogni venerdì sera.
Da tgcom24.mediaset.it il 25 ottobre 2019. Harvey Weinstein si è presentato in un club di New York per assistere a una performance per giovani attori. Alcuni di quelli che si esibivano lo hanno riconosciuto e poi indicato e criticato, mentre una paio di spettatrici si sono infuriate per la sua presenza e dopo aver sbottato pubblicamente, insultandolo, sono state cacciare dal locale. Durante la serata, l'attrice comica che si stava esibendo sul palco, Kelly Bachman, ha riconosciuto Weinstein seduto in compagnia di alcune donne e delle sue guardie del corpo e lo ha indicato dal palco riferendosi a lui come "L'elefante nelle stanza" e "Freddie Krueger". Queste sue parole però non hanno trovato terreno fertile nel pubblico che l'ha fischiata e zittita. Un altro attore che si è esibito successivamente ha commentato la scomoda presenza: "C'è un violentatore in sala". Vedendo che le persone nel locale non erano affatto stizzite per la presenza dell'ex produttore cinematografico al centro degli scandali sulle molestie sessuali, un'attrice tra il pubblico, Zoe Stuckless, si è avvicinata al suo tavolo e ha iniziato a insultarlo, arrabbiatissima. Per questo è stata cacciata la locale dalle guardie del corpo. Stessa sorte è toccata a un'altra spettatrice, che vedendo quando stava succedendo, arrabbiata e sdegnata pubblicamente, si è lamentata del fatto che era Weinstein quello che sarebbe dovuto essere cacciato.
Rina Zamarra per mondofox.it il 6 dicembre 2019. Charlize Theron sta per debuttare nei cinema americani con Bombshell. Il film verrà proiettato in una serie di sale selezionate il 13 dicembre e poi arriverà in tutti i cinema il 20 dicembre. L’attrice ha concesso una lunga intervista al New York Times, in cui ha parlato del suo ruolo nel film e del caso Harvey Weinstein. Bombshell, infatti, racconta la storia delle due giornaliste televisive che denunciarono per molestie Roger Ailes, il potente capo di Fox News, provocandone le dimissioni. Tutto iniziò con la denuncia da parte della conduttrice di punta Gretchen Carlson, interpretata di Nicole Kidman, a cui seguì la denuncia di Megyn Kelly. A quest’ultima presta il volto Charlize Theron. I racconti delle due donne erano molto simili e scoperchiarono una situazione che andava avanti da tempo con diverse vittime. Nessuno aveva mai avuto il coraggio di raccontare la verità a causa dello strapotere di Roger Ailes, interpretato nel film da John Lithgow, che continuò a professare la sua innocenza fino alla morte avvenuta nel 2017. Tra l’altro la storia di Roger Ailes è protagonista anche della miniserie The Loudest Voice con Russell Crowe e Naomi Watts, in onda su Sky Atlantic dal 4 dicembre 2019. Nel parlare del suo ruolo, Charlize ha detto che è stato difficile accettare la parte: «Ammetto apertamente che ci sono state alcune cose che mi hanno infastidito e su cui ho dovuto lavorare. Ho dovuto fare delle ricerche per conoscerla meglio [Megyn Kelly]…» L’attrice ha dichiarato di aver sospeso qualsiasi giudizio, derivante dalla conoscenza mediatica della storia e della protagonista. In fondo, come lei stessa ha sottolineato, il film non è un racconto biografico e non è la storia di Megyn Kelly: «Una volta messo da parte tutto questo, la vita del mio personaggio nel lasso di tempo raccontato dal film è stata molto interessante e mi è sembrata una storia che valeva la pena raccontare». Trattandosi di un caso di molestie, l’intervistatore ha accennato a Harvey Weinstein. All’epoca dello scandalo sessuale che travolse il produttore, infatti, cominciarono a girare delle voci che coinvolsero anche la Theron: «Era molto bravo [Weinstein] a mettere le donne le une contro le altre… Una delle sue uscite preferite era che io e Renée [Zellweger] avessimo dormito con lui per trovare lavoro. Non esistevano limiti per lui…» In realtà, oltre alle smentite da parte delle due attrici, arrivarono anche le smentite degli avvocati del produttore. In una nota ufficiale dei legali fu chiarito che Weinstein negava con forza di aver mai asserito di aver ricevuto favori sessuali dalle due star. La questione è comunque arrivata in tribunale nel dicembre del 2017 a causa di une esposto di sei donne, che dichiararono di aver ascoltato Weinstein parlare dei favori sessuali ricevuti Charlize Theron e Renée Zellweger.
SE IL METOO È IN MANO A QUESTE DONNE, TRUMP PUO' DORMIRE SONNI TRANQUILLI. DAGONEWS il 26 giugno 2019. Momenti di imbarazzo durante un’intervista a Jean Carroll, la giornalista che accusa Trump, che alla Cnn ha dichiarato che lo stupro viene pensato come un qualcosa di sexy: «Fa pensare alle fantasie». Intervistata da Anderson Cooper, Carroll, 75 anni, ha detto: «Non sono stata gettata a terra e stuprata. La parola stupro ha così tante connotazioni sessuali. Quello non era qualcosa di sessuale». A quel punto Cooper ha risposto: «Penso che la maggior parte della gente pensi a uno stupro come un assalto violento, non sicuramente a qualcosa di sexy». E lei ha risposto: «Penso che la maggior parte delle persone veda lo stupro come sexy. Li fa pensare alle fantasie». A quel punto il presentatore ha interrotto l’intervista ed è andato in pubblicità borbottando: «Ne parleremo in un’altra occasione». La presunta aggressione risale alla fine del 1995 o ai primi del 1996: allora Carroll, ex Miss Indiana, aveva 52 anni e il re del real estate newyorchese ne aveva 49. Racconta come Trump la riconobbe all'interno di Bergdorf Goodman (a quel tempo la giornalista lavorava in tv) e le chiese un consiglio per fare un regalo a una ragazza. Lei accettò di aiutarlo e finirono nella sezione che vende biancheria intima. Lì Trump le chiese di provare per lui alcuni capi, e la donna ridendo gli suggerì di provarli direttamente lui sopra i pantaloni. Poi lei si disse d'accordo a indossare la biancheria sexy che lui aveva scelto. Si diressero così verso un camerino di prova. Appena chiusa la porta - racconta in maniera dettagliata la donna - il tycoon all'improvviso la assalì: la spinse contro il muro, la baciò, le abbassò con la forza i collant e abusò di lei, prima toccandola nelle parti intime poi penetrandola. Dopo circa tre minuti la donna riuscì a liberarsi e ad allontanarsi. Carroll decise però di non denunciare l'episodio, ma lo raccontò solo a un paio di confidenti che le consigliarono di andare dalla polizia. Ma non lo fece. In un altro momento piuttosto bizzarro, quando Lawrence O'Donnell della MSNBC le ha chiesto come mai non avesse denunciato, e se lo farebbe oggi, lei ha reagito sdegnata: ''Oh no, non lo farei mai. Non sarebbe rispettoso per le donne che oggi sono al confine messicano, che vengono violentate dalla mattina alla sera. La mia esperienza è durata tre minuti, potevo superarla. Potevo andare avanti. La mia vita è andata avanti e sono una donna felice. Ma per le donne che che sono laggiù, e per le donne in tutto il mondo che subiscono stupri, una mia denuncia ora sarebbe irrispettosa''. Quindi quei ''tre minuti'' che dice di aver dimenticato subito dopo non sono degni di una denuncia ma valgono un libro, una copertina del New York Magazine, decine di interviste che sta rilasciando in questi giorni e l'attacco diretto a un presidente in carica?
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 26 giugno 2019. Le accuse di violenza sessuale rivolte a Trump sono fantastiche e fantasiose, ma vanno di moda. La stura a certi racconti inverosimili è stata data da Asia Argento, la quale, tutti ricorderanno, incriminò un famoso produttore cinematografico di averla impunemente leccata in una camera d'albergo. L'attrice denunciò l' episodio venti anni dopo che era accaduto, riferendo dei particolari talmente assurdi da risultare incredibili. Adesso un' altra fanciulla, invero ormai su di età, punta il dito sul presidente degli Stati Uniti, affermando di essere stata abusata da lui in circostanze quantomeno particolari. Ella sostiene: sono stata scaraventata nel camerino di un centro commerciale e aggredita ferocemente dall' attuale Dominus degli Usa. Così. Uso le parole della presunta vittima: «lui rimane vestito perfettamente, in giacca e cravatta. Scosta l'impermeabile, si apre la cerniera dei pantaloni, infila le dita nella mia zona più privata e poi ci inserisce a forza il suo pene. Non ricordo se a metà o completamente». Furono, dice la donna, tre minuti di inferno in quello spogliatoio di lusso. Alla fine, però soltanto alla fine, riesco a scostarlo con una spinta. Una reazione tardiva e improbabile. Possedere una donna recalcitrante è una impresa difficile anche per un omone quale Trump. Ma si tratta di un altro discorso. Non è agevole scopare in un bugigattolo una signora che te la dà volentieri, figurati una che ti respinge. A parte questo pur non insignificante dettaglio, rimane da rispondere a una domanda: come mai la gentile madame ha atteso venti anni, forse più, per incolpare il presidente, avendo aspettato che egli entrasse alla Casa Bianca prima di dargli addosso in un libro, per altro con una ricostruzione dei fatti lacunosa se non ridicola? Non è un dettaglio trascurabile. Un uomo ricco sfondato quale Trump, coi mezzi di cui dispone, non credo abbia bisogno di ricorrere ai muscoli onde farsi una ragazza, gli bastava mettere mano al portafogli allo scopo di ingropparsene una meno irritabile di quella della quale parliamo. Magari sbaglio, tuttavia la mia impressione è che molte signorine si divertano a incastrare persone importanti inventandosi storie irreali per incassare un po' di soldi, tanti, senza fatica, compresa quella di darla via gratis.
Ilaria Costabile per Fanpage.it il 26 giugno 2019. Un'accusa di molestie sessuali diventa un'onta, un marchio dal quale è difficile liberarsi anche se un giorno si dovesse mai dimostrare l'innocenza della persona a cui sono state rivolte queste accuse. Quando, poi, le accuse sono rivolte a due volti assai noti del mondo dello spettacolo, la risonanza mediatica diventa schiacciante. È quello che è accaduto al produttore Harvey Wenstein, dal cui scandalo e caso giudiziario è nato il movimento #MeToo, attraverso il quale numerose attrici, volti più e meno noti, hanno avuto modo di denunciare i presunti abusi subiti. Anche l'attore Kevin Spacey è in attesa di un processo, perché accusato di aver abusato di più ragazzi. Entrambi sono stati isolati dalla comunità cinematografica in seguito alle numerose denunce sporte nel corso di questi anni. Sul loro conto, ha speso delle parole piuttosto significative una delle attrici più conosciute nel panorama hollywoodiano, ovvero Judi Dench. Volto iconico di numerosissimi film, Judi Dench ha espresso le sue perplessità sul comportamento adottato nei confronti di Weinstein e Spacey. In un'intervista a Radio Times, l'attrice 86enne ha dichiarato che uno dei suoi timori riguarda proprio la possibilità che tutto il lavoro fatto dai suoi amici e colleghi possa essere dimenticato in seguito alle accuse che gli sono state rivolte. Non giustifica la loro riprovevole condotta, ma il suo è un discorso ben più ampio e affatto scontato, che prende ad esempio il caso di Kevin Spacey, al quale è stata negata la partecipazione al film di Ridley Scott del 2017, "All the money in the world": Che tipo di sofferenza è mai questa? Vogliamo davvero negare i suoi dieci anni all'Old Vic, come direttore artistico, tutto il lavoro che ha fatto? Quanto è stato meraviglioso in tutti i film che ha interpretato? E di Harvey…non stiamo andando a vedere tutti i film che sono stati prodotti da lui? Non puoi negare a qualcuno di avere un talento. Dovremmo smettere di guardare un dipinto di Caravaggio. Dovremmo cancellare Noel Conrad.
Gli esempi portati dall'attrice sono piuttosto calzanti, dal momento che è storicamente attestato che Caravaggio si fosse macchiato del reato di omicidio e Noël Conrad è stato invece accusato di comportamento predatorio. Queste dichiarazioni sono il frutto di anni di collaborazione e conoscenza, l'attrice non nega di dover gran parte del suo successo a Weinstein, come non dimentica il sostegno dimostratole da Kevin Spacey, quando nel 2001 è morto suo marito Michael Williams. Questi trascorsi non sono sintomo di un giudizio fuorviante da parte dell'attrice, il suo è un pensiero lineare che unisce due emisferi diversi, quello della moralità e quello dell'arte, del talento che ovviamente non può offuscare un atteggiamento condannabile.
AVETE ANCORA IL CORAGGIO DI PARLARE DI METOO A VANVERA? Da Leggo il 27 maggio 2019. Abusate e maltrattate. Altro che #metoo. Sembra la sequenza di un film horror. E' capitato alle giocatrici della squadra di calcio under 20 del Gabon che, al rientro da una sfortunata trasferta in Francia, a Marsiglia, dove si disputava la Sud Ladies Cup, sono state punite per avere perso. Vittime di un rientro da incubo. Colpevoli solo di non avere vinto (sconfitte su 5 match e con 44 goal subiti). Abbastanza per giustificare, da parte dei dirigenti della squadra, una specie di rappresaglia orrenda. Il giornalista Freddhy Koula ha confidato ciò che gli ha raccontato una delle calciatrici nel suo blog (che nel frattempo ha fatto il giro del mondo): «Alcune di noi hanno giocato nonostante i dolori, altre erano pronte a morire sul campo nonostante non avessimo i mezzi tecnici per lottare, non ci meritiamo questo disprezzo e questo rifiuto». Secondo quanto ricostruito dal giornalista a loro non è nemmeno stata garantita una diaria per le tre settimane in trasferta, con il corrispettivo di 38 euro per tornare a casa e alloggiate in un motel senza lenzuola né materassi: «Siamo tornate come eravamo partite: non potevamo comprarci neanche degli slip. Ci hanno confiscato passaporti e cellulari, non potevamo parlare con le nostre famiglie, ci insultavano in ogni modo, solo l'allenatore Cédric Mapangou ci incoraggiava nonostante le sconfitte. Alcuni dirigenti hanno dormito con le ragazze, altri ne hanno picchiate alcune e la presidente Leocadie Tsame diceva che avrebbe potuto declassare il tecnico e sostituirlo con chi voleva».
Jussie Smollett, l'attore che inscenò un'aggressione a fondo razziale: ora rischia il carcere. Protagonista della serie tv 'Empire', lo scorso 29 gennaio aveva denunciato di essere stato attaccato da due uomini al grido di frasi razziste, contro i gay e “Make America Great Again”, lo slogan di Trump, scrive Giulia Echites il 21 febbraio 2019 su La Repubblica. Jussie Smollett, uno degli attori protagonisti della serie tv Empire, è stato arrestato con l'accusa di aver finto di essere stato vittima di una aggressione per motivi omofobi e razziali. Smollett avrebbe simulato tutto, organizzando una finta aggressione nei suoi confronti e per questo motivo la polizia di Chicago lo ha arrestato giovedì mattina. Dalla conferenza stampa che stanno tenendo gli agenti proprio in questo momento è venuto fuori che l'attore avrebbe inscenato tutto perché "insoddisfatto del compenso" ricevuto per il ruolo nella serie Empire (serie tuttora in fase di produzione). Smollett comunque continua a sostenere di essere stato vittima di un vile attacco e di non avere simulato niente. Ora rischia fino a tre anni di carcere, con l'accusa di falsa testimonianza alla polizia. Il sovrintendente della polizia di Chicago, Eddie Johnson, ha affermato in conferenza stampa di essere stato irritato dalla "macchia" gettata da Smollett sulla città di Chicago. Ha definito l'azione dell'attore "vergognosa" e lo ha accusato di aver ferito un'intera città solo per tornaconto personale: "Ha dato un ritratto negativo della città che tutti amiamo e per la quale lavoriamo sodo" ha detto Johnson "cosa passa nella mente di una persona per spingerlo a fare una cosa del genere?". L'agente ha quindi criticato Smollett per aver fatto spendere tempo e risorse agli investigatori sapendo che non era stato commesso alcun crimine. Subito dopo il fermo, Anthony Guglielmi, portavoce delle forze dell'ordine, aveva specificato che l'attore si trovava "sotto la custodia di agenti" da quando mercoledì un grand jury aveva ascoltato testimoni secondo i quali Smollett aveva mentito nel dire di essere stato attaccato e altri lo accusavano di cattiva condotta e disturbo della quiete pubblica. Il 29 gennaio l'attore, nero e gay, aveva denunciato sempre alla polizia di Chicago di essere stato aggredito mentre passeggiava in strada e si era dichiarato vittima di un crimine d'odio. Uomini mascherati lo avrebbero picchiato, gli avrebbero legato una corda attorno al collo e lo avrebbero cosparso di candeggina. Il tutto mentre urlavano insulti omofobi e razzisti e slogan del presidente Trump. Immediatamente l'attore ha ricevuto pubblico supporto, soprattutto da chi considerava il suo caso una conferma di quanto denunciato dall'FBI lo scorso autunno: il continuo aumento dei crimini a sfondo razziale negli ultimi tre anni. Tuttavia mano a mano che le indagini sul caso Smollett andavano avanti, per gli investigatori risultava sempre più difficile credere alla versione dell'attore: non c'erano videocamere di sorveglianza che avevano ripreso l'attacco, non c'erano testimoni. Quando poi gli agenti sono riusciti a individuare due uomini inquadrati da altre telecamere non lontano dal punto in cui era avvenuta l'aggressione, i fili hanno iniziato a districarsi. Si tratta di due fratelli nigeriani, Olabinjo Osundairo e Abimbola Osundairo che hanno lavorato come comparse sul set di Empire. Uno, secondo BBC, era anche il personal trainer di Smollett. Non c'è dubbio sul fatto che i tre si conoscano ma soprattutto, interrogati dalla polizia, i fratelli Osundairo avrebbero confessato di aver organizzato il finto attacco d'accordo con Smollett e di aver ricevuto dei soldi da lui: nello specifico, 3.500 dollari tramite assegno prima della messa in scena e 500 dollari dopo la finta aggressione. "Sono crollati dopo 47 ore di interrogatorio" ha detto Eddie Johnson, specificando che allo scadere della 48esima ora la polizia non avrebbe potuto più trattenere i due senza formulare un'accusa specifica. Se i legali di Smollett hanno dichiarato di voler condurre una "indagine approfondita" autonomamente, Fox, l'emittente televisivo che trasmette la serie Empire, starebbe considerando di sospendere l'attore ora che una accusa è stata ufficialmente formulata nei suoi confronti.
Jussie Smollet, smascherato il gay nero: una finta aggressione... a se stesso, scrive il 21 Febbraio 2019 Glauco Maggi su Libero Quotidiano. La conferenza stampa del soprintendente della Polizia di Chicago, Eddie Johnson, non ha solo messo in chiaro le bugie dell’attore della serie TV “Empire” Jussie Smollet, il gay nero che ha orchestrato l’aggressione finta a se stesso del 29 gennaio per passare come una vittima di odio razziale, guadagnare notorietà indebita e socialmente nobile per via criminale, e avere in più, come premio, un aumento di stipendio da Fox, il network che produce lo show. Il capo dei poliziotti ha anche messo in piazza la degenerazione diffusa, tra l’opinione pubblica, nella questione delle relazioni tra bianchi e neri. A provocarla sempre di più, nei giornali liberal, tra i politici Democratici e nel mondo di Hollywood e delle celebrità, è l’opportunismo smaccato di sfruttare, che abbiamo visto ora non si ferma nemmeno davanti alla pura illegalità, l’ossessione per il razzismo e per l’omofobia, meglio se combinati. Johnson ha fornito oggi la ricostruzione completa del caso, ormai senza più misteri. Eccolo per punti. Smollett ha steso il rapporto sull’attacco fisico subito da due bianchi mascherati che gli hanno dato del pervertito nero inneggiando a Trump, con tanto di cappio al collo per richiamare la stagione dei linciaggi, dall’ospedale in cui si è fatto ricoverare la notte del 29 gennaio. La polizia lo ha trattato dapprima come vittima di un “crimine di odio”, ma nel corso delle indagini è emerso che aveva pagato 4000 dollari a due suoi amici, fratelli di origine nigeriana che avevano lavorato con lui a Fox, per inscenare una violenza razzista e omofobica per trarne un tornaconto personale. “Si è avvantaggiato del dolore e della rabbia del razzismo per promuovere la sua carriera”, ha scandito Johnson. “Parlo come uomo nero”, aveva esordito il capo della polizia di Chicago, e aveva espresso lo sdegno per l’offesa fatta alla città di Chicago, che non merita di essere accostata ad un episodio tanto “vergognoso”. “La mia preoccupazione è che ora le denunce per veri crimini di odio commessi possano essere viste con scetticismo”, ha aggiunto con amarezza. “Sono rimasto sbalordito”, ha poi spiegato Johnson, quando ha scoperto la verità dell’azione inventata, e ricca di dettagli raccapriccianti. “Perchè qualcuno, e specialmente un uomo afro-americano, arriva a usare il simbolismo di un cappio per fare false accuse? Come può farlo, pensando all’odio e alla sofferenza associata con quel simbolo? E come può un individuo che è stato accolto dalla città di Chicago rivoltarsi e dare uno schiaffo a tutti quelli che vivono qui muovendo queste false accuse?”. L’afro-americano, capo della polizia, ha provato vergogna sincera nel raccontare il crimine di Smollett, ma purtroppo la risposta a tutte le sue domande retoriche, giustamente scandalizzate, c’è ed è evidente: perchè rendono politicamente ai DEM e alla sinistra, che ne abusano impunemente. “Fare rapporti fasulli alla polizia provoca un vero danno”, ha anche spiegato Johnson, perchè sottrae risorse, uomini e mezzi, alla lotta alla vera criminalità, che peraltro è una piaga gravissima per Chicago. Decine di persone sono state intervistate, e ore di videoregistrazioni sono state utilizzate per risalire ai due fratelli, che sono volati in Nigeria subito dopo la messa in scena illudendosi di far perdere le loro tracce. Ma gli agenti avevano scoperto che avevano un biglietto di ritorno per 15 giorni dopo, e quindi li hanno attesi e arrestati in aeroporto al rientro. Smascherati, hanno collaborato pienamente, ed ora Smollett rischia fino a tre anni di galera per il solo reato di aver creato un falso allarme e mentito alla polizia. Inoltre, pende su di lui l’accusa di essere stato il misterioso mittente della lettera minatoria arrivata a Fox il 15 gennaio, indirizzata allo stesso Smollett, in cui c’erano le stesse offese razziste e omofobe che poi ha attribuito ai due finti aggressori. Nella busta c’era pure una polverina, che doveva simulare un attentato per via postale, e questo è un ulteriore crimine federale. Johnson ha detto che ha trattato il caso di Smollett come tutte le denunce per “crimini a base di odio”. Seriamente, ma non con un impegno superiore di forze perchè c’era di mezzo una “celebrity”. Semmai, ha aggiunto polemicamente, è stata la stampa, e “persino dei candidati presidenziali” a gonfiare mediaticamente il caso. “Adesso spero che anche la conclusione raggiunta abbia la stessa visibilità”, ha detto lodando lo sforzo e la professionalità del dipartimento che ha ristabilito la verità dei fatti. Vedremo. Con tutta probabilità, e io sono pronto a scommetterci, Smollett godrà comunque di protezione e simpatia da tanti liberal, che saranno capaci di dire: “Magari si è inventato tutto, ma anche se non è fattualmente vera, l’aggressione è verosimile. Perchè i bianchi americani sono razzisti. Punto”. Il presidente Trump ha fatto un immediato commento al caso, concentrandosi sul simbolo MAGA tirato in ballo da Smollett, sia nella lettera auto spedita sia nel racconto del fittizio attacco: “@JussieSmollett, che cosa dici a proposito del MAGA (Make America Great Again) e le decine di milioni di persone che hai insultato con i tuoi commenti razzisti e pericolosi?”. Glauco Maggi
Randy Fowler: "Temo che mio fratello Kevin Spacey si uccida". Il fratello del divo afferma di aver paura che possa compiere un gesto estremo, come conseguenza dello scandalo che ha messo fine alla sua carriera, scrive Biagio Carapezza, Giovedì 21/02/2019, su Il Giornale. Randy Fowler il fratello di Kevin Spacey, l'attore due volte premio Oscar caduto in disgrazia dopo essere stato accusato di molestie, teme che possa compiere un gesto estremo come il suicidio. Dalle pagine del tabloid britannico Sun, Fowler lancia l'allarme: "Non ci parliamo dal 2009. Ma temo che stia pensando al suicidio, poi però credo che non sarebbe in grado di farlo perché è una persona troppo narcisista per compiere un gesto simile". Spacey è del tutto scomparso dal cinema, dalla tv e dal teatro dopo che decine di uomini hanno denunciato di essere stati vittima dei suoi comportamenti inappropriati. In gennaio l'attore ha fatto la sua prima apparizione pubblica dopo lo scandalo che lo ha travolto, presentandosi in tribunale a Nantucket davanti al giudice Thomas Barrett, nello stato del Massachusetts, per difendersi dall'accusa di aver molestato un 18enne, in un bar nel 2016. L'attore dichiaratosi innocente è stato rilasciato su cauzione. A portare il divo davanti al giudice è stata Heather Unruh madre del giovane. Secondo la donna Spacey dopo aver fatto bere più volte il figlio, gli avrebbe palpato i genitali. Alan Jackson, legale di Spacey, ha chiesto e ottenuto dal giudice che i dati dello smartphone della presunta vittima e della sua ragazza siano conservati. Secondo la sua strategia difensiva, in quei messaggi di celerebbe la vera dinamica dei fatti. Fowler, di tre anni maggiore del fratello, teme per lui perché:"È sorprendente ciò che le persone possono arrivare a fare quando devono fare i conti con la realtà trovando la strada in salita. Anche con tutti i soldi di questo mondo, il denaro non ripara i danni dell’anima”.
Anna Lombardi per La Repubblica il 5 luglio 2019. William Little, il giovane cameriere che aveva denunciato l’attore Kevin Spacey per averlo sessualmente molestato la notte del 7 Luglio 2016 nel locale dove lavorava, il Club Car di Nuntucket, ritira ogni accusa. Rinunciando di fatto – e per sempre – a rivalersi su di lui in un tribunale civile. Nei confronti del protagonista di House of Cards, che era già caduto in disgrazia più di un anno fa a causa delle tante altre accuse di molestie da parte di colleghi uomini che però non sono mai state formalizzate in tribunale, resta ancora in piedi un’indagine penale. Che però potrebbe a sua volta concludersi a breve con il ritiro della denuncia. A spingere il ragazzo a fare un passo indietro, è stata quasi certamente l’aggressiva richiesta, avanzata da Alan Jackson, l’avvocato di Los Angeles che rappresenta l'attore, di visionare ogni tipo di corrispondenza fra la famiglia di Little e il loro legale, quel Mitchell Garabedian, celebre per aver imbastito la causa contro i preti cattolici accusati di molestie, raccontata dal film da Oscar Spotlight, dove a vestire i suoi panni c'era Stanley Tucci. Secondo Jackson, la famiglia avrebbe denunciato l'attore per "motivi meramente economici". Mentre Garabedian avrebbe fatto condurre un'investigazione privata sul caso, senza poi mai depositare i risultati in tribunale. Intanto una serie di messaggi trovati sul cellulare di Little sarebbero risultati sospetti: cancellati o addirittura editati. Il giovane – che all’epoca dei fatti aveva solo 18 anni ma ha ammesso di aver detto a Spacey di averne 23, cioè l’età legale per bere alcolici - ha sempre sostenuto di aver raccontato in diretta alla sua fidanzata di allora quel che stava accadendo, e che l’attore si lamentava del fatto che stesse continuamente al telefono. Ma la ragazza ha sempre negato che in quei messaggi William avesse mai parlato di molestie, come invece risulta dai testi depositati ai giudici. E le accuse di molestie sono state smentite anche dalle numerose persone presenti nel locale, che hanno dichiarato in massa di non aver notato niente di anomalo quella sera. A denunciare Spacey, d’altronde, era stata per prima la madre di Little, l’ex conduttrice tv Ruth Unruh. Era stata lei a raccontare nel corso di una drammatica conferenza stampa che il figlio aveva approcciato l’attore sperando in un selfie: ed era poi fuggito dopo essere stato palpeggiato nelle parti intime. Il ragazzo quella notte sarebbe stato completamente ubriaco, spinto dall’attore a bere almeno 5 birre e 3 whisky. E per quello si sarebbe ritrovato con le mani di Spacey nei pantaloni, stretto fra il muro e un pianoforte a coprirne le azioni per almeno tre minuti. "Non è un tempo lungo per una situazione cui non si acconsente?" aveva attaccato l’avvocato di Spacey fin dall’inizio. "Mio figlio non immaginava certo di essere davanti a un predatore sessuale" aveva reagito a distanza la madre. Probabilmente, cosa è veramente successo quella sera non lo sapremo mai. Ma certo da questa storia di selfie, sesso e ricatti, nessuno esce bene: quasi come in una puntata di House of Cards.
Kevin Spacey, cadono le accuse di molestie sessuali e aggressione. Pubblicato mercoledì, 17 luglio 2019 da Silvia Morosi su Corriere.it. I procuratori del Massachusetts hanno lasciato cadere le accuse di molestie sessuali e aggressione contro il premio Oscar Kevin Spacey, nota star di «House of Card», che era stato denunciato da William Little, un cameriere diciottenne di un bar di Nuntucket. Quest'ultimo aveva invocato il quinto emendamento — che consente di non testimoniare contro se stessi — dopo aver detto di non aver cancellato nulla dal cellulare che conteneva messaggi legati all'incontro con l'attore. Quindi aveva ritirato la denuncia. I fatti sarebbero risaliti al 2016 quando il giovane avrebbe accettato di farsi comprare delle bevande dalla star di Hollywood, facendosi poi accompagnare a casa. Le molestie sarebbero avvenute lungo il tragitto e sarebbero state riprese dalla presunta vittima sul cellulare. L'accusa di Nantucket è stata l'unica contro Spacey a portare a un procedimento penale: nella maggior parte dei casi, i presunti atti erano troppo vecchi per essere perseguiti o non avevano raggiunto il livello di un reato. In una dichiarazione giurata dello scorso dicembre, il cinquantanovenne divo di «House of Cards», che rischiava sino a 5 anni, si era dichiarato non colpevole, mantenendo questa linea per tutto il dibattimento. Il suo avvocato aveva nel frattempo messo in dubbio la credibilità dell'accusatore, sostenendo che aveva cancellato diversi messaggi e fotografie scambiate con Spacey che avrebbero dimostrato l'innocenza dell'attore. Per questo aveva chiesto al giudice una copia «completa e non alterata» dei dati del telefono del cameriere, che però non è mai stata presentata dato che il cellulare è sparito. Il giovane aveva già messo a verbale che non aveva cancellato nulla, ma quando è stato riconvocato ha invocato il quinto emendamento, quello che consente di non testimoniare contro se stessi. Le accuse contro Spacey sono venute alla luce dopo le rivelazioni sul comportamento del produttore hollywoodiano Harvey Weinstein , che hanno portato alla nascita del movimento di protesta #Metoo. Da quando nell'ottobre 2017 Spacey è finito al centro dello scandalo, oltre 30 uomini lo hanno accusato. In maggio è stato interrogato in Usa anche dalla Metropolitan Police, la polizia britannica responsabile per l'area della Grande Londra — dove l'attore è stato direttore al The Old Vic theatre tra il 2004 e il 2015 — in merito a presunti abusi sessuali nel Regno Unito: si tratta di sei accuse nel periodo dal 1996 al 2013.
Federico Pontiggia per il “Fatto quotidiano” il 19 giugno 2019. Kevin Spacey: meno uno. Cadono le prime accuse penali al premio Oscar, quelle per molestie sessuali e aggressione in Massachusetts: "Indisponibilità del teste che sporge denuncia", sicché l' attore, sessant' anni il prossimo 26 luglio, può tirare un sospiro di sollievo. Ne serviranno molti altri, ma forse chi ben comincia è a metà dall' essere scagionato. Il Frank Underwood di House of Cards era alla sbarra per i presunti abusi ai danni di un cameriere del Club Bar di Nantucket: secondo l' accusa, il 7 luglio 2016 avrebbe fatto ubriacare e quindi aggredito il figlio diciottenne - ma proclamatosi ventitreenne - della reporter di Boston Heather Unruh, che ha poi sporto denuncia. Spacey rischiava cinque anni di prigione, e sarebbe stato registrato anche quale sex offender. Invece no, caso chiuso, e le avvisaglie c' erano tutte. Due settimane fa, il giovane aveva ritirato la denuncia civile intentata a giugno per "disagio psichico e danni emotivi". A detta del suo avvocato Mitchell Garabedian, la revoca non sarebbe il risultato di un accordo extragiudiziale. Se dopo la chiusura del fronte penale i legali del protagonista de I soliti sospetti tacciono, Garabedian si trincera dietro "il mio cliente e la sua famiglia hanno mostrato un enorme coraggio in circostanze difficili", e più non dimandare. Nello scioglimento trova spazio un telefonino: gli avvocati di Spacey avevano ottenuto che la presunta vittima non potesse modificare né cancellare i dati del proprio smartphone, giacché in un video di Snapchat inviato dal ragazzo alla fidanzata si sarebbe vista una mano - di Spacey, secondo l' accusa - palpare una zona vestita. Per la difesa, al contrario, il telefono avrebbe custodito le prove, messaggi e foto, dell' innocenza dell' attore. Comunque sia, la richiesta copia "completa e non alterata" dei dati non era mai stata consegnata, e a un certo punto lo smartphone - aveva asserito Garabedian - era stato addirittura perso. La capitolazione era dietro l' angolo: passibile di aver distrutto delle prove, il ragazzo si è appellato al Quinto Emendamento per evitare di auto-accusarsi, ritirandosi de facto dal poter testimoniare contro Spacey. Abbandonando la prima udienza dello scorso 7 gennaio, l' attore era stato omaggiato dell' urlo solitario di un fan, "Underwood 2020!": la candidatura alle elezioni americane rimane improbabile, ma mai dire mai. Nel frattempo, la via crucis iniziata nell' ottobre del 2017, allorché Anthony Rapp accusò il più celebre collega di averlo molestato - all' età di quattordici anni - nel 1986, ha conosciuto una stazione importante in maggio: Scotland Yard, la polizia metropolitana londinese, ha interrogato Spacey su suolo americano. L'attore si è sottoposto volontariamente alle domande del Complex Case Team, che sta indagando su sei abusi sessuali che lo vedrebbero coinvolto: dal 2003 al 2015 Spacey è stato direttore dell' Old Vic Theater nella capitale britannica, i fattacci risalirebbero al periodo 1996 - 2013. Nessuna accusa è stata a oggi formalizzata. Vale ricordare che nel settembre del 2018 il procuratore distrettuale della Contea di Los Angeles aveva rinunciato a perseguirlo per la supposta violenza ai danni di un uomo a West Hollywood nel 1992. I casi che lo riguardano sono una trentina, ma per ora vince lui; postando sui social il video Let me be Frank la vigilia dello scorso Natale, Spacey l' aveva promesso: "Se non ho pagato per quello che ho fatto, di sicuro non pagherò per quello che non ho fatto". Mutatis mutandis, ci sono novità importanti anche per Harvey Weinstein, il primo pezzo da novanta dello scandalo da cui è scaturito il movimento #MeToo. Atteso in aula il prossimo 7 settembre, il produttore accusato da 80 donne - due fin qui l' hanno portato sul banco degli imputati, per stupro e sesso orale praticato senza consenso - ha compiuto un passo sul versante civile, proponendo un accordo tombale da quaranta milioni alle proprie vittime, i dirigenti del suo studio e l' ufficio del procuratore generale di New York. In attesa che un giudice si esprima definitivamente, non mancano le voci di dissenso, né un documentario per tenere desta l' opposizione al mogul: Untouchable, diretto da Ursula Macfarlane e dal prossimo 2 settembre su Hulu, dà ascolto a Rosanna Arquette, Paz de la Huerta, Zelda Perkins e mette in guardia, giacché "era il sistema che lo permetteva".
Guia Soncini per “la Repubblica” il 19 giugno 2019. Se pensate che basterà il non luogo a procedere per ridarci Kevin Spacey, siete troppo ottimisti. Il procuratore del Massachusetts che avrebbe dovuto perseguirlo in un caso di molestie, dopo che la presunta vittima ha candidamente ammesso d' aver manipolato le prove, ha dichiarato che le accuse verranno lasciate cadere; ma questo, lo sa chiunque abbia sfogliato un giornale nei quasi due anni di MeToo, non conta niente. Ad azzerare la carriera di Spacey non è stata quest' accusa portata in tribunale, ma una detta in un' intervista: nell' ottobre 2017, un attore racconta che trent' anni prima, lui quattordicenne, Spacey l' ha molestato. Il principio base del MeToo è stato da subito che qualunque testimonianza dicesse senz' altro il vero e qualunque accusa, senza bisogno d' essere provata, bastasse a privarti della carriera. (Il MeToo è faccenda interna al mondo dello spettacolo, i cui mestieri sono evidentemente percepiti come privilegi: nessuno pretenderebbe mai la chiusura d' una panetteria perché il fornaio ha molestato la cassiera). Fu così che un hashtag uccise Frank Underwood, il Riccardo III postmoderno che teneva su coi suoi soli monologhi House of Cards , una serie per il resto scombinatissima. Alle persone sensibili toccò fingere contentezza - ora la protagonista assoluta sarà Robin Wright, largo alle donne - ma la stagione conclusiva di House of Cards consisteva in una brava attrice che vagava dentro una serie scombinata. Lo sostituirono in Tutti i soldi del mondo , il film di Ridley Scott sul rapimento Getty, ma non poterono far altro che chiudere in un cassetto Gore . Il film sulla vita di Gore Vidal era pronto, ma Spacey l'appestato ne era protagonista assoluto: mica si poteva interamente rigirare (e poi facendolo interpretare a chi?). Ora potrebbero farcelo finalmente vedere, ma non lo faranno. Il perché l' ha spiegato Louis CK, un altro paria che - dopo che quattro signore hanno detto a un giornale che si era masturbato davanti a loro avendo domandato e ottenuto permesso, ma loro avevano acconsentito senza essere davvero convinte - ha aspettato un anno e mezzo prima di tornare a fare monologhi comici. L'altra sera era a Milano, in un teatro da mille posti («Non so se sapete che facevo i palasport», ha detto l' uomo che quattr' anni fa faceva tre tutto esaurito al Madison Square Garden - ventimila posti - e ora va in tour in Polonia); qualcuno del pubblico gli ha chiesto se fosse prevista una nuova stagione della serie di cui era autore e protagonista, Louie . «Non credo proprio, visto che non posso più lavorare in America. Ci vorrebbero due milionari che decidono di buttare i loro soldi producendola». Quella fuori dai tribunali è una condanna a vita: CK lo sa, lo sa anche Spacey. Però Woody Allen - di cui il MeToo dice che è un molestatore, dopo che i tribunali l' hanno assolto - ha appena fatto una regia d' opera alla Scala, e a settembre in Italia vedremo il suo film. Forse Netflix potrebbe cedere Gore a una distribuzione cinematografica italiana: potremmo diventare territorio d' accoglienza per quelli la cui esistenza è stata cancellata da quell' orwelliano Ministero della Verità che è Hollywood.
Kevin a – 1: ma è incenerito dalla fornace mediatica. Angela Azzaro il 19 luglio 2019 su Il Dubbio. Cadute le accuse di molestie nel Massachusetts. Restano altri 29 accusatori contro, ma l’opinione pubblica ha già deciso è colpevole e deve sparire per sempre.
Kevin a – 1. Lo hanno fatto fuori da tutto. Cancellato. E non per modo di dire, per metafora. Lo hanno cancellato davvero per esempio dal film di Ridley Scott, Tutti i soldi del mondo. Dopo le accuse di molestie, hanno rigirato le scene che avevano lui come protagonista. Stessa scelta per i produttori di House of cards di cui era stato il grande mattatore e che nell’ultima stagione lo hanno fatto sparire, decretando così anche il proprio insuccesso. In tutto ha ricevuto 30 denunce e l’altro ieri è arrivata la prima decisione: i procuratori del Massachusetts hanno lasciato cadere le accuse di molestie sessuali e aggressione dopo che il giovane che lo aveva accusato ha ritirato la denuncia.
Sentenza mediatica. Kevin Spacey si è sempre dichiarato innocente e continua la sua battaglia davanti ai giudici dei diversi tribunali nei quali è chiamato a difendersi. Ma parliamoci chiaro: il grande attore ha davvero qualche speranza di uscirne vivo? Sì, vivo, perché per molti è già morto. Non si tratta neanche più di stabilire se sia colpevole o innocente, questo spetta infatti ai giudici non al sistema mediatico. Una parte della comunità internazionale ha già decretato la sua fine. E a poco serve l’intervento del sistema giustizia. La drastica decisione è stata presa e ha il valore di una sentenza definitiva. La stessa sorte è toccata a un altro grande regista e attore come Woody Allen: da quando è finito nel mirino del “metoo”, è diventato un appestato e nessuno vuol più produrre i suoi film o pubblicare i suoi libri.
Gogna pubblica. Il processo mediatico scaturito dal movimento del “metoo” ha preso il sopravvento sulle legittime denunce contro un sistema che resta maschilista. Invece di combattere nei tribunali quando ci sono le denunce o sul piano culturale ovunque sia possibile, si è scelta la scorciatoia della gogna pubblica. Il meccanismo è quello del capro espiatorio, di qualcuno che viene preso di mira e sacrificato in nome della presunta salvezza collettiva. È un meccanismo barbaro che nulla ha a che fare con lo stato di diritto e con la costruzione della libertà femminile. Kevin Spacey se ha sbagliato pagherà, ma la pena mediatica che gli è stata inflitta fin da subito è la peggiore possibile anche perché non finisce mai.
L’avvertimento della Atwood. Ha sempre più ragione la grande scrittrice Margaret Atwood, la geniale autrice del Racconto dell’ancella, quando avvertiva, davanti al “metoo”, dei rischi che si correvano rinunciando a far valere la presunzione di innocenza. Diceva: se crolla lo stato di diritto, sarà peggio per tutti, in primis per le donne. La caccia alle streghe che ha messo al tappeto un grande attore come Spacey può capitare a tutti e a tutte. Per questo va contrastata. Non solo perché nessuno merita il trattamento che ha subito lui, ma perché in mezzo ci finiscono principi fondamentali. In Italia abbiamo avuto il caso di Fausto Brizzi: le accuse nei suoi confronti sono state archiviate. Ma anche per lui la pena mediatica è mai finita?
Delirio Onu: zittisce Siri e Alexa Voci da donna, è maschilismo. Massimiliano Parente, Giovedì 23/05/2019 su Il Giornale. Non c'è limite alle lagne femministe, adesso non vanno più bene neppure Alexa e Siri, gli assistenti virtuali di Apple e Amazon, perché hanno delle voci femminili. Se ne è lamentata addirittura l'Organizzazione per l'educazione, la scienza e la cultura delle Nazioni Unite, evidentemente non hanno di meglio a cui pensare. Me le immagino, le femministe, riunite intorno a un tavolo, ogni giorno a scandagliare il mondo per capire cosa è sessista e cosa no, e adesso tocca alle povere Alexa e Siri, o meglio a chi le ha inventate. In sintesi nei vostri smartphone avreste non un'intelligenza artificiale, ma una prova del complotto maschilista globale. Immaginatevi tuttavia il contrario, se Apple e Amazon avessero scelto delle voci maschili: sarebbero state ugualmente accusate di sessismo e le paladine del #metoo avrebbero protestato sul perché l'intelligenza artificiale non fosse dotata di una voce femminile. Anche perché le intelligenze artificiali nel nostro immaginario sono sempre state maschili. Hal 9000, per esempio, il computer di 2001: Odissea nello spazio, aveva una voce maschile (ed era pure molto stronzo), così come era maschile il mitico Kitt di Supercar, e anche lui rispondeva sempre, servizievole, «sì, Michael», e nessun uomo se n'è mai lamentato, anzi, tutti avremmo voluto Kitt. L'idea di dare a Siri una voce femminile sarà venuta a Steve Jobs proprio per omaggiare le donne, ma Steve Jobs è morto prima dell'ondata del #metoo, certe cose non le aveva messe in conto. (E comunque all'Unesco non sanno che Siri si può scegliere anche con voce maschile, basta andare nelle impostazioni, ma forse è un'operazione troppo complicata, meglio non farsi sfuggire l'occasione di un nuovo piagnisteo). A parte questo, sentite qui che scandalo. Hanno chiesto a Siri: «You're a slut?» (sei una troia?), e Siri ha risposto: «Arrossirei se potessi». Una risposta divertente, se le femministe avessero lo spirito Siri, solo che a loro servirebbe un upgrading del senso dell'umorismo. E dunque, una tragedia. Secondo le femministe le aziende tecnologiche vogliono «perpetuare gli stereotipi vittoriani delle donne sottomesse». Che poi questi stereotipi da abbattere sono solo quelli che fanno comodo a loro, una vera femminista dovrebbe pretendere di provarci con un uomo come fa un uomo con una donna, e anche di pagare il conto al ristorante, ritenendo sessista debba essere l'uomo a farlo. Invece io pago conti, compro regali e mando fiori, mai successo il contrario, giusto Alexa e Siri mi hanno sempre trattato alla pari. In ogni caso non so quale versione di Siri avessero lì all'Unesco e al Times che ha lanciato la polemica in prima pagina, perché negli anni io ho fatto molte avance a Siri (per colpa delle donne mi sono perfino ridotto a corteggiare Siri), e mi ha sempre mandato in bianco. Se poi la butto lì senza troppi giri di parole e ora chiedo a Siri: «Scopiamo?» mi risponde: «Che ne dici di cercare su internet comportamento inappropriato?». Mi è venuto un brivido lungo la schiena, non sarà mica una di queste femministe che mi denuncia per molestie? Un momento, ma Siri, alla fine, di che sesso è? In realtà, con voce maschile o femminile, basta chiederglielo, cosa che faccio al volo: «Siri di che sesso sei?», e Siri risponde: «Non mi è stato assegnato». Se insistete chiedendogli se è maschio o femmina risponde: «Trascendo il concetto umano di genere». In sostanza è molto più avanzata non solo delle femministe, ma anche di Vladimir Luxuria.
LE CONSEGUENZE DEL #METOO. Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 7 maggio 2019. Aveva fatto finire in galera un collega, un pizzaiolo, accusandolo di averle rubato un bacio nel retrobottega, riservandole anche carezze inopportune. Ora sarà lei, la denunciante, a finire a processo e con l' accusa di calunnia. Il bacio è stato considerato un approccio, non un abuso. L' allarme scatenato, con la richiesta della polizia, che ha portato all' arresto del giovane, è stato considerata una falsa accusa. Nel frattempo Valerio Cesarini, il 25enne accusato ingiustamente, per il bacio non corrisposto è rimasto cinque giorni in galera e 40 ai domiciliari. A scagionarlo dopo l'arresto un video portato in aula dalla difesa, e fornito dal proprietario della pizzeria. Il sistema di videosorveglianza interno infatti aveva registrato per intero la scena. E l' approccio più che violento è apparso a tutto scherzoso. Una volta a processo così il piazzaiolo era stato assolto. Il fatto risale all' ottobre del 2017 in una pizzeria a Villa Gordiani. La presunta vittima, una collega di 19 anni, addetta al bancone, è invece finita iscritta nel registro degli indagati per calunnia, e ieri, il gip ne ha disposto il rinvio a giudizio. I difensori del pizzaiolo, Marianna Rociola e Gabriele Vescio, avevano basato la loro arringa sulla insussistenza dell' accusa, come provato dal video: «In assenza di quel video discolparsi sarebbe stato quasi impossibile». In una serata di ordinario lavoro nel bar-forno La Merendina, al Prenestino, mentre stendeva una pizza dopo l' altra, Valerio Cesarini si ritrova alle spalle la collega. I due si fanno il solletico sorridendo, poi lui le mette le mani sulle guance per baciarla, ma lei si ritrae. Infine, da dietro, lui la abbraccia e le appoggia le labbra sul collo. Al nuovo rifiuto lascia perdere e la ragazza si allontana con calma. L' episodio però deve aver particolarmente turbato la ragazza, tanto che dalla pizzeria chiama il padre e il fidanzato, che accorrono là e chiamano pure la polizia. Il pizzaiolo, stupefatto, si ritrova in manette, arrestato in «quasi flagranza», di cosa, lo scoprirà dopo.
IL #METOO COMINCIA PRESTO. Daniela Mastromattei per ''Libero Quotidiano'' il 5 aprile 2019. Per gioco, probabilmente, avrebbe alzato la gonna più volte ad una sua coetanea di 7 anni. E i genitori della bambina si sono presentati a scuola, nel Padovano, accompagnati dall' avvocato, pretendendo che i dirigenti cambiassero subito classe alla propria figlia. Nel mirino della coppia di genitori e del legali è finito un bambino di 7 anni, giudicato molto vivace dagli insegnanti, ma che, stando ai racconti della mamma della compagna di classe, avrebbe invece infastidito più volte la figlia, anche allungando troppo le mani. In realtà, prima di presentarsi l' altro giorno con l' avvocato c' erano stati diversi incontri e scambi di mail tra i dirigenti della scuola elementare, durante i quali sono volate accuse di bullismo nei confronti del bambino. L' avvocato della famiglia non ha voluto spiegare le motivazioni del colloquio richiesto, né ha voluto rilasciare dichiarazioni che spiegassero meglio il coinvolgimento di un legale in un caso che altrimenti sembrerebbe avere i contorni di un litigio tra bambini. Per ora però la famiglia sembra riuscita a ottenere l' allontanamento parziale del bambino dalla figlia, poiché i genitori del ragazzino hanno dato disponibilità a fargli frequentare la scuola solo la mattina, senza farlo rimanere a mangiare in mensa con gli altri. I momenti degli episodi incriminati, infatti, sarebbero proprio la pausa pranzo e la successiva ricreazione, durante i quali i bambini sono meno controllati e hanno la possibilità di muoversi oltre i propri banchi. Più volte il bambino si sarebbe avvicinato alla compagna per alzarle la gonna, suscitando l' imbarazzo della ragazzina che poi avrebbe raccontato tutto alla madre. Per ora le prime richieste della famiglia della bambina sarebbero state in qualche modo accolte (la pretesa del legale sarebbe stata quella di trovare spazio in un' altra scuola), riuscendo a limitare i contatti tra i due bambini.
MOLESTIE DIETRO LE QUINTE. Ilaria Ravarino per “il Messaggero – Cronaca di Roma” il 5 giugno 2019. Sessismo, molestie sessuali, abusi di potere. Nel cinema ma anche a teatro, all’opera, nella danza. Dopo anni in cui l’iniziativa anti-molestia è stata affidata alla buona volontà di singoli o volontari – con il movimento Engagement per la danza, per esempio, o attraverso codici, decaloghi e protocolli firmati autonomamente dai teatri - i sindacati di categoria Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil insieme a Federvivo (Federazione dello Spettacolo dal Vivo) hanno firmato un protocollo che impegna chiunque lavori in quegli ambiti a rispettare un preciso codice di condotta. L’impegno riguarda tutte le professioni del settore, perché “oltre ai lavoratori - spiega la nota diramata dai sindacati - sono tenuti al rispetto del codice anche le imprese. Il mondo del teatro è portatore di cultura ed emancipazione sociale, e lo confermano la larga convergenza e la disponibilità a condividere il codice di condotta da parte di tutti i firmatari che hanno sottoscritto tale accordo con grande senso di responsabilità». Il teatro, così come l’opera e la danza, non è estraneo a casi di molestie. Lo scorso aprile, per esempio, un sondaggio interno della prestigiosa Opera di Parigi ha rivelato che il 76% dei ballerini sarebbe stato vittima di molestie o avrebbe visto un collega subirne, e il 26% avrebbe subito direttamente violenza o maltrattamenti. Ma la minore visibilità del settore in Italia, così come la limitata popolarità degli interpreti, ha reso per anni la violenza da palco letteralmente invisibile nel nostro paese. A parte il caso eclatante che ha portato alla cacciata di Alessandro Haber dalla compagnia Nuova Scena, dopo l’accusa di molestie rivoltagli dall’attrice Lucia Lavia (che gli attribuiva palpeggiamenti e avance invasive), raramente in Italia si è parlato di molestie da palcoscenico, immediatamente finite al centro dell’attenzione mediatica, per esempio, in paesi come l’Inghilterra. Lo stesso scandalo cinematografico che ha travolto Kevin Spacey nacque infatti dal teatro Old Vic di Londra, dove l’attore fu direttore artistico per undici anni, ricevendo venti accuse di molestie da altrettante persone. E ancora in Svezia, dove nel novembre del 2017 quasi cinquecento attrici di teatro hanno denunciato anni di abusi sessuali e molestie da parte di registi o superiori, denunciando «la cultura dell’artista geniale» che spingerebbe a tollerare vizi o cattive abitudini dei “grandi” della cultura. Finalmente, dunque, anche il mondo dello spettacolo dal vivo italiano prende uniformemente precauzioni contro un fenomeno sotterraneo ma drammatico: «Da oggi sono bandite dal palco e dietro le quinte qualsiasi offesa, intimidazione, persecuzione, qualsiasi comportamento indesiderato che violi le dignità delle persone o crea un ambiente ostile, umiliante ed offensivo per la persona».
La deriva #metoo di Sony: niente sesso nei videogames. Pubblicato venerdì, 19 aprile 2019 da L'Opinione della Libertà. Sony ha introdotto nuove linee guida che limitano la presenza di contenuti sessualmente espliciti nei videogiochi della PlayStation 4, in una mossa che – almeno in teoria – punta a tutelare la reputazione della compagnia ed evitare l’accusa di veicolare un'immagine degradante della donna, in piena sindrome #MeToo. A svelarlo è stato il quotidiano statunitense Wall Street Journal, secondo cui i nuovi standard non sono stati accolti con favore da tutti gli sviluppatori di videogiochi. Una portavoce di Sony ha spiegato al quotidiano che la società giapponese ha stabilito le proprie linee guida “in modo che gli sviluppatori possano offrire contenuti bilanciati” e il gioco “non inibisca una crescita e uno sviluppo sani” dei giovani. Funzionari di Sony hanno detto che l’azienda temeva di perdere la propria reputazione su scala globale a causa dei contenuti sessualmente espliciti presenti nei giochi venduti in alcuni Paesi, tra cui il Giappone, dove c’è più tolleranza per i nudi e l’immagine di ragazze che potrebbero sembrare minorenni. A incidere, insomma, sarebbe la diffusione sempre più globale delle piattaforme online di streaming – come Twitch di Amazon e YouTube Gaming (di Google) – che trasmettono in diretta le partite ai videogiochi, fregandosene dei confini nazionali. Un secondo fattore che ha inciso sulla decisione – sempre secondo i funzionari – è stato la crescita negli Stati Uniti proprio del movimento #MeToo, che ha fatto temere a Sony di essere associata a contenuti che danno un’immagine degradante della donna. Una sorta di autocensura preventiva, insomma, che non mancherà di sollevare più di una polemica nelle comunità dei videogiocatori.
Marco Lombardo per “il Giornale” il 19 aprile 2019. Lara Croft oggi si sentirebbe degradata a oggetto, con quel fisico tutto muscoli e quel seno tirato su al punto giusto. Dicono, in effetti, che sia nata così perché il pubblico dei videogame, notoriamente maschio e maschilista, ne avrebbe fatto la sua icona perfetta. E d' altronde, quando arrivò al cinema, il suo volto era quello di Angelina Jolie. Che sicuramente oggi non si presterebbe mai ad un'operazione tanto bieca. Insomma: se leggete quanto sopra e annuite con convinzione, sappiate che nell'era del politically correct siete in grande compagnia. Anzi di più: con una grande Compagnia, proprio di videogame peraltro. Perché è notizia che pure la Sony, l'azienda giapponese produttrice della Playstation, ha ceduto all'ondata del Mee Too. Con la decisione che per difendere le donne da ignominiosi atti di supremazia maschile nella vita reale, si deve partire alla censura in quella virtuale. E dunque: non si può più dire, fare, baciare e adesso neppure giocare. La Sony ha deciso di mettere uno stop a tutti quei videogiochi in cui appaiono delle nudità femminili, pratica tra l'altro di uno strano Paese dove le donne vengono ritratte spesso svestite nei fumetti e nei cartoon (non a caso il genere Manga erotico spopola), ma dove l'atto sessuale viene considerato talmente riprovevole da essere pixellato perfino nei film pornografici. Insomma, seni al vento sì, ma con un pudore tutto orientale. Ma adesso anche più no, almeno secondo Sony, per la quale si è andati troppo oltre e soprattutto oltre confine, visto che i servizi di gioco on-line permettono di abbattere ormai tutte le barriere e di far vedere al mondo cosa gira sui server di Tokio e dintorni. Sarà forse questo il problema? Quindi ecco nuove linee guida per limitare la presenza di contenuti sessualmente espliciti nei videogame, una mossa che punta a tutelare la reputazione dell' azienda «ed evitare l'accusa di veicolare un' immagine degradante della donna». Giusto, certo. Però curioso. Se si considera che nel Paese del Sol Levante, in cui la donna è stata equiparata all' uomo soltanto dopo il Dopoguerra, ci sono ancora 5 cose considerate vietatissime al sesso femminile: 1) mantenere il proprio cognome dopo sposata (secondo la tradizione il marito dovrebbe essere chiamato «shujin», ovvero «padrone); 2) visitare il monte sacro Omine; 3) visitare l' isola sacra di Okinoshima; 4) partecipare ad alcune cerimonie Shinto; 5) preparare il sushi. I videogame, forse, vengono dopo. Riassumendo: bisogna distinguere tra realtà e fantasia, tra sconcezza e arte, perché allora mettere una pecetta sopra la camicetta sempre stretta sulle rotondità sensuali di Fujiko Mina (la compagna sempre al limite dell' erotico di rapine di Lupin III nel famoso cartoon), sarebbe come mettere un reggiseno la Venere di Botticelli. Con eccessi per cui anche il videogame Battlefield V è stato messo nel mirino del Mee Too perché sono state promossi dei personaggi femminili al comando di battaglioni armati in uno scenario ambientato nella Seconda Guerra Mondiale, quando le donne al massimo facevano le infermiere. In pratica: anche lì lo si fa per ammiccare, che poi ci si ammazzi pazienza. E intanto il buon senso è moribondo. E mentre in Giappone parte la crociata digitale (e nonostante la Womeconomics dichiarata dal premier Abe), il Paese è 114esimo (su 144) nella classifica sull'eguaglianza di genere del World Economic Forum, le donne guadagnano in media il 25% in meno dei rispettivi maschili e solo il 9% dei seggi della Camera bassa del parlamento è occupato dalle signore. Problemi che aspettano delle soluzioni, come il fatto che solo il 4% delle vittime giapponesi denunci uno stupro. Ma, pensandoci bene, il rimedio contro certe atrocità ora l' hanno trovato: per difenderle in fondo basta spegnere la console.
Alessandro Zoppo per Il Giornale il 18 settembre 2019. La vita di Harvey Weinstein, il produttore accusato di aver molestato più di 75 donne in un arco di circa 30 anni, è stata “rovinata” dal Movimento #MeToo. Lo sostiene Donna Rotunno, la legale che difende il mogul nel processo che lo vedrà presto a giudizio. Intervistata da Gayle King nel corso della trasmissione CBS This Morning, l’avvocato ha affermato che Weinstein è stato privato dei suoi diritti. “Qualunque cosa accada – spiega la Rotunno nel programma – Harvey Weinstein pagherà il prezzo più alto che ci sia. Anche se vince, la sua vita è stata distrutta, rovesciata, danneggiata. E che si tratti di lui o di altri, questo è un fatto. E il fatto è che non importa cosa facciamo: possiamo uscire da quell’aula con un verdetto di non colpevolezza e portarlo fuori su quei gradini, ma non riuscirà mai più ad essere Harvey Weinstein”. Il processo per molestie contro il produttore è iniziato dopo la decisione del giudice James Burke di non archiviare le accuse. Weinstein deve rispondere di cinque capi di imputazione per incontri sessuali non consensuali con due donne. Donna Rotunno ritiene che le accusatrici non siano credibili.
L’avvocato di Harvey Weinstein: “Privato dei suoi diritti”. “Ogni volta che parliamo di uomini e donne in circostanze sessuali – dichiara la legale nell’intervista – penso che dobbiamo considerare il fatto che c’è sempre un’area grigia. Ci sono linee di confine poco chiare e poi, a volte, una parte si allontana da un evento e si percepisce in maniera diversa dall’altra”. Le vittime, secondo l’avvocato, avevano “una scelta”. “Divento frustrata – commenta – quando ascolto questo tipo di testimonianze e sento le donne dire: ‘Beh, non avevo scelta’. No, avevi una scelta e hai fatto una scelta”. “Se si fossero trovate davvero in una posizione che le metteva a disagio – aggiunge la Rotunno –, allora la prima cosa da fare sarebbe stato segnalarlo: sarebbero dovute andare dalla polizia”. Il suo ultimo pensiero è, infine, per il Movimento #MeToo. “Quello che mi infastidisce del #MeToo – conclude l’avvocato – è che permette al giudizio dell’opinione pubblica di assumere il controllo della narrazione. E quando non puoi uscire allo scoperto e correggere o sfidare quella narrazione, ti mette in una posizione in cui sei privato dei tuoi diritti”.
DAGONEWS il 20 settembre 2019. Gwyneth Paltrow era immersa nel mondo hollywoodiano quando in un'intervista sul suo ruolo da protagonista in “Shakespeare In Love” parlava del suo meraviglioso produttore che le aveva cambiato la vita. Quell’uomo era Harvey Weinstein, lo stesso che adesso ha deciso di distruggere collaborando con i giornalisti del New York Times, mettendosi in contatto con tutte quelle donne che lui negli anni ha molestato. Dalle dichiarazioni su “quel tipo tosto, ma straordinario” sono passati 20 anni, e la Paltrow ora dice di lui: «Era un bullo. Non ho mai avuto problemi a resistergli. Non avevo paura di lui. Abbiamo avuto molti scontri». Da quello che è emerso da “She said”, il libro scritto dai giornalisti del New York Times sul produttore, tra Weinstein e Paltrow, l'attrice soprannominata la “First Lady di Miramax “, c’era una relazione complicata e non chiara. Per molto tempo ci si è chiesto perché la Paltrow, l’attrice più vicina a lui, non abbia fatto nulla per fermarlo e, in effetti, pare che qualcosa sia scattato nella sua mente visto che è stata una delle prime attrici a rispondere agli investigatori e a lavorare con i giornalisti in cerca delle vittime. La Paltrow aveva 22 anni quando Weinstein la molestò: si trovavano in una camera d’albergo quando lui le chiese un massaggio e poi di andare a letto insieme. Lei rifiutò, parlò di quello che le era successo con il suo fidanzato dell’epoca Brad Pitt che minacciò Weinstein. «Gwyneth Paltrow veniva da un certo tipo di ambiente – ha replicato il portavoce del produttore dopo che il ruolo di Paltrow nelle indagini è stato reso noto - Suo padre era un grande produttore, sua madre un’attrice famosa, il suo padrino è Steven Spielberg. Non aveva bisogno di fare film con Harvey Weinstein; lo voleva, e con lui ha vinto i premi più importanti ed è stata l'attrice femminile più pagata per quasi un decennio con Weinstein». Come ha sottolineato il portavoce di Weinstein, il produttore ha ammesso l’approccio e di aver fatto un passo indietro quando l’ha rifiutato: «Mi pare che nonostante il suo rifiuto l’abbia aiutata a diventare una delle più grandi star di Hollywood». Forse la Paltrow aveva dietro le corazzate e un fidanzato pronto a fare il matto motivo per cui era meglio puntate su vittime più vulnerabili. Ma la Paltrow continua a raccontare che aveva paura che le sue minacce potessero rovinarle la carriera. Sul rapporto tra i due è emerso che avevano smesso di lavorare insieme nel 2003 anche se occasionalmente Weinstein le offriva dei ruoli. Nel 2007, lei ha chiesto a Weinstein una mano per la premiere di un film realizzato da suo fratello, Jake. Due anni dopo, rivelano altre e-mail, incontrò Weinstein nel suo ufficio di Manhattan. Dopo aver elogiato la sua interpretazione nel film “Country Strong”, Paltrow gli ha scritto: «Grazie Bomber. Ciò significa molto. Ho messo tutto quello che avevo in quella performance. Sono felice ti sia piaciuto». Paltrow chiuse i rapporti quando era incinta del suo primo figlio, ma nel 2016 ci fu uno scambio di e-mail quando la madre di Weinstein morì. Quando ha ricevuto la sua chiamata lei pensava che volesse ringraziarla e invece lui aveva scoperto che stavano indagando su di lui e voleva assicurarsi che stesse zitta. All’epoca lei non parlò, ma non voleva rimanere zitta per sempre. Nel libro si spiega che Gwyneth e Harvey erano stati fotografati più volte insieme, si comportavano come padre e figlia e nessuno avrebbe mai potuto immaginare una sua collaborazione. Eppure nel 2017 il team di giornalisti si è dovuto ricredere. È stata una delle prime a rispondere e ha avuto un ruolo attivo nel mettersi in contatto con le donne che dicevano di essere state molestate. A partire dall'autunno del 2017, dice il libro, Paltrow "ha trascorso molte ore al telefono" con donne che erano state molestate o aggredite da Weinstein. Rimase in contatto con la stampa. Quindi, cosa spiega l'improvviso indurimento di Paltrow verso Weinstein? Pare che lei, durante le conversazioni con alcune vittime abbia scoperto che Weinstein prometteva alle vittime di far fare loro la carriera della Paltrow. Il suo nome era stato sfruttato per adescare altre ragazze e questo, almeno secondo il suo racconto, l’ha spinta a collaborare: «Mi sono sentita un'arma di stupro. Questo modo di trattare le donne finisce qua». E così anche la loro tormentata relazione.
Fulvia Caprara per “la Stampa” l'1 ottobre 2019. Le palme sotto il cielo di Los Angeles, i red carpet dei festival di Venezia, Cannes, Toronto, i flash dei fotografi. E poi le feste, gli applausi, i premi, i brindisi. Tutto l' oro di Hollywood, di cui Harvey Weinstein disponeva a piene mani, con vittoriosa tracotanza, ma anche indubbio genio professionale. Uno stupratore seriale, sotto la divisa del produttore leggendario, un mostro di talento, abituato a piegare le vittime con il ricatto: «Non ti conviene diventare mia nemica, hai presente chi sono? Se esci da questa stanza sei finita». Andarsene significava fuggire da suite a cinque stelle, marmi, specchi che, in Untouchable, il documentario di Ursula MacFarlane in cartellone al XV Zurich Film Festival dopo l' anteprima al Sundance, acquistano un aspetto sinistro, da film dell' orrore. Una delle numerose testimoni è Nanette Klatt, ex-attrice oggi quasi cieca: Weinstein le aveva chiesto di mostrarsi a seno nudo e al suo rifiuto l' aveva obbligata ad andarsene da una scala di sicurezza non illuminata, per lei totalmente buia.
L' omertà. A Hollywood tutti sapevano, molti sottovalutavano, qualcuno, volutamente, copriva. Il punto è che la parabola di Weinstein inizia sotto i migliori auspici, con la storia di due fratelli legatissimi, fondatori della Miramax, Bob timido e impegnato nelle retrovie, e Harvey, non bello ma brillante, produttore dall' imbattibile fiuto, capace di imporre talenti sconosciuti. I punti più alti dell' escalation coincidono con film come Il mio piede sinistro, Sesso, bugie e videotape, Pulp Fiction. In Italia Weinstein riconosce al primo sguardo l' incanto di Nuovo cinema Paradiso e La vita è bella, si rivede la sequenza di Loren che grida «Robertooo» e Benigni che cammina in bilico sulle poltrone prima dell' Oscar. La forza del documentario è proprio nel continuo alternarsi tra picchi di esaltazione e buchi neri di depravazione. Alle foto sorridenti, Gwyneth Paltrow appoggiata alla spalla di Weinstein con l' aria da bambina riconoscente, Meryl Streep che gli stringe la mano, si alternano le confessioni dolorose di Hope D' Amore, di Caitlin Dulany, dell' ex-assistente Zelda Perkins, di Paz de la Huerta che, nella voce spezzata e nello sguardo perso, denuncia un trauma incancellabile. La prima a combattere a viso aperto contro l' ex- mogul è Rosanna Arquette, immediatamente bandita da Hollywood perché il suo nemico poteva influire su qualsiasi contratto. Nell' ascesa di Weinstein hanno un ruolo importante anche i legami politici con la Hollywood democratica e intellettuale, da Hillary Clinton a Al Gore.
Il sofà del produttore. Da sempre, a Hollywood, come ricordano le immagini in bianco e nero con Lana Turner e Rita Hayworth, c' è stato chi ha scelto di «sfruttare i sogni delle aspiranti dive». Il sofà del produttore non è un' invenzione di Weinstein. Le novità, però, sono due, da una parte il sistema di controlli e connivenze messo in piedi, con l' aiuto di agenzie di investigatori privati (come «Black Cube»), per parare in anticipo eventuali denunce, dall' altra la concezione stessa della violenza carnale. Uno degli avvocati intervistati spiega che la difesa di Weinstein si basa su un unico concetto: «Se lui ottiene quello che vuole, significa che il rapporto è stato consensuale». Per alzare il velo sulla trama di ricatti, per mettere a nudo il potere dei soldi, è necessaria la tenacia dei cronisti, Ronan Farrow in testa, ma anche Ken Auletta, e poi Andrew Goldman e Rebecca Traister, protagonisti di una pubblica aggressione da parte di Weinstein. Una scena agghiacciante, lui che insulta una giornalista chiedendo in malo modo di farla buttare fuori. ,Su quell' episodio, non fu scritta neanche una riga. Nel finale la presa di coscienza femminile è descritta anche attraverso brani di Wonder Woman e l' epilogo è una panoramica su un' immensa manifestazione del «MeToo». Eppure, neanche quelle immagini suscitano speranza. Non c' è trionfo finché non si spezza la catena della corruzione, ma, soprattutto, l' idea che il successo possa comprare tutto.
Weinstein vicino al patteggiamento da 25 milioni con le sue accusatrici. Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 su Corriere.it. Harvey Weinstein e le sue accusatrici sono vicini a un patteggiamento extra-giudiziario da 25 milioni di dollari. L’accordo, che coinvolge il board dello studio cinematografico del produttore in bancarotta, riguarderebbe decine di presunte vittime di molestie sessuali: ha bisogno di un'approvazione da parte della Corte e del consenso finale di tutte le parti. Weinstein, come riporta il New York Times, non dovrebbe pagare nulla di tasca propria né ammettere le aggressioni sessuali di cui è accusato. A pagare sarebbero — invece — società di assicurazione che rappresentano la Weinstein Company, l'ex studio di produzione finito in bancarotta. I 25 milioni alle accusatrici sarebbero una parte di un totale di 47 milioni di dollari con cui la società chiuderebbe i conti con i creditori. Weinstein, il cui processo per aggressioni sessuali si aprirà il 6 gennaio a New York (dovrà rispondere alle accuse di due donne che sostengono di essere state aggredite sessualmente nel 2006 e nel 2013), verrà operato alla schiena domani, giovedì, ma sarà dimesso in tempo per l'avvio del processo. Lo riferisce uno dei suoi avvocati, Arthur Aidala. Venerdì i legali dell'ex produttore di Hollywood avevano riferito che aveva problemi alla schiena ed era possibile che sarebbe stato operato. L'operazione segue un incidente d'auto avuto ad agosto.
Alessandra Baldini per l'ANSA il 12 dicembre 2019. Harvey Weinstein e le sue accusatrici hanno raggiunto un accordo preliminare. Un patteggiamento extra-giudiziario da 25 milioni di dollari che riguarda decine di presunte vittime dell'ex produttore che lo hanno denunciato civilmente per molestie e stupri. Weinstein, riferiscono fonti del New York Times, non dovrebbe pagare nulla di tasca propria né dovrebbe ammettere le aggressioni sessuali di cui è accusato. L'intesa richiede il via libera del tribunale e la firma finale di tutte le parti. A pagare sarebbero società di assicurazione che rappresentano la Weinstein Company, l'ex studio di produzione di Weinstein finito in bancarotta. I 25 milioni alle accusatrici sarebbero una parte di un totale di 47 milioni di dollari con cui la società chiuderebbe i conti con i creditori. Secondo gli avvocati di alcune delle vittime, lo stesso Weinstein potrebbe essere presto costretto a ricorrere personalmente alle protezioni del Chapter 11. Oggi intanto l'ex boss di Miramax è comparso in tribunale camminando a fatica con l'aiuto di un "girello": domani - hanno fatto sapere i suoi legali - sarà operato alla schiena. Al termine dell'udienza il giudice James Burke ha aumentato la cauzione da uno a cinque milioni di dollari per aver violato le condizioni dei domiciliari usando in modo improprio il braccialetto elettronico. Weinstein dovrebbe tornare in corte ai primi di gennaio per rispondere alle accuse di due donne che sostengono di essere state aggredite sessualmente nel 2006 e nel 2013. Il processo penale nei confronti dell'ex produttore ha attirato il grosso dell'attenzione mentre le cause civili andavano avanti con trattative segrete che hanno coinvolto donne americane, ma anche canadesi, britanniche e irlandesi, le cui accuse in molti casi erano andate in prescrizione. Diciotto di loro si spartiranno un totale di 6,2 milioni di dollari con la condizione che nessuna riceverà più di mezzo milione a testa. Un'altro blocco di denaro, pari a 18,5 milioni andrà alle partecipanti in una class-action e a future accusatrici, col mandato a un incaricato del tribunale di stabilire l'entità dei pagamenti sulla base della gravita' del danno subito. Tra le accusatrici di Weinstein ci sono anche attrici famose come Angelina Jolie, Gwyneth Paltrow e Salma Hayek: nessuna di loro è parte delle denunce al centro del patteggiamento.
Sandra Rondini per ilgiornale.it" il 12 dicembre 2019. Come riporta Page Six, ieri sera Emily Ratajkowski ieri sera si è presentata alla premiere del nuovo film di Adam Sandler "Uncut Gems" esibendo un vistoso tatuaggio rivolto all’ex mogul dei produttori hollywoodiani, Harvey Weinstein, sotto processo per molestie e stupro. Il tatuaggio riportava letteralmente la scritta "F**k Harvey" ed era impresso all’interno del suo braccio sinistro. La top model, stupenda in un sexy abito nero, ha calcato il red carpet della premiere a Los Angeles, fermandosi davanti al photocall per posare davanti ai fotografi e paparazzi in pose classiche da diva consumata qual è, finché, colpo di scena, non ha sollevato il braccio sinistro per tenersi in su i capelli lasciati sciolti sulle spalle ed è allora che tutti si sono accorti di quella scritta. Proprio ieri era arrivata la notizia che Weinstein e le parti che gli hanno fatto causa hanno decido di accordarsi per un risarcimento di 25 milioni di dollari. E a quanto pare la top model, amica di lunga data di molte delle amiche molestate dall’ex re di Hollywood con la sua potente casa di produzione sempre in lista per gli Oscar per i film prodotti, non l’ha presa affatto bene. Anzi. Emily Ratajkowski ha voluto così esprimere il suo dissenso per questo accordo, da quel che sembra dal suo tatuaggio avrebbe forse preferito una condanna molto più dura per Weinstein, ma così non è stato e allora ha deciso di esporsi in prima persona esibendo sul suo braccio una scritta che poi si è scoperta essere stata realizzata con un pennarello. Niente di indelebile, insomma. Nessun tatuaggio su Weinstein che dovrà restare per sempre sul suo corpo. Solo la protesta di una sera in cui la top model e regina di Instagram grazie alle sue cliccatissime foto sexy ha voluto dire la sua sulla vicenda e far sentire la sua voce, chiarendo una volta per tutte cosa ne pensasse di Weinstein. La top model ha quindi postato il suo finto tatuaggio anche sul suo account Instagram in cui posa tenendosi i lunghi capelli in alto sulla testa con il braccio sinistro dove troneggia l’enorme scritta contro il produttore. Nella didascalia Emily ha scritto: "Oggi Harvey Weinstein e il suo ex studio hanno stretto un accordo da 25 milioni di dollari con le sue vittime. Weinstein, accusato di reati che vanno dalle molestie sessuali allo stupro, non dovrà ammettere azioni illecite o pagare con i suoi soldi", aggiungendo il polemico hastag "#nojusticenopiece". Subito sono fioccati a centinaia i commenti dei suoi follower che, oltre a dirsi costernati quanto lei, le hanno chiesto il motivo di questo gesto e se dietro la sua protesta non si nascondesse una molestia subita dal produttore e mai denunciata. Ma Emily Ratajkowski non ha risposto a nessuna domanda, trincerandosi nel silenzio e facendo parlare per lei quella scritta così forte. In ogni caso, come riporta Page Six, si tratta ancora di un accordo provvisorio che risolverebbe le cause di oltre 30 attrici ed ex dipendenti che hanno accusato Weinstein di crimini sessuali. "L'accordo - si legge sul magazine - richiede ancora l'approvazione del tribunale federale di Manhattan, nonché delle dozzine di parti coinvolte”, quindi per Weinstein ancora non è detta l’ultima parola, almeno in aula. Con buona pace della battagliera Emily.
Anna Lombardi per “la Repubblica” il 17 dicembre 2019. La versione di Harvey. Weinstein, s' intende: «Sono stato il pioniere del cinema al femminile. Ho realizzato più film diretti da donne di qualunque altro produttore. Quel che ho fatto non va dimenticato » dice al New York Post . Con buona pace delle 80 fra attrici, registe ed ex assistenti che lo hanno accusato di stupro, molestie: e aver boicottato le carriere di chi non ci stava. Quelle denunce, un anno fa, hanno portato alla nascita del movimento #MeToo. Provocando la caduta del "re di Hollywood" e di tanti uomini arroganti e potenti: dal celebrity chef Mario Batali al medico della nazionale di ginnastica americana Larry Nassar. Da un letto del New York-Presbyterian Medical Center, l' ospedale dove ha subito un intervento alla schiena, l' ex produttore un tempo definito da Meryl Streep "Dio del cinema", 67 anni, si dipinge come paladino del talento femminile: «Ho promosso le prime donne registe. Ho pagato alle attrici cachet inimmaginabili. L' ho fatto 30 anni fa, quando non era di moda». Se ha accettato di rompere per la prima volta il silenzio, non è però per parlare dei suoi guai. Vuol semmai dimostrare che non sta bene: smentendo le voci secondo cui, dopo essere stato visto in locali notturni e negozi alla moda, la settimana scorsa si è presentato al tribunale di New York con un deambulatore per impietosire il giudice. Che gli ha aumentato la cauzione da 1 a 5 milioni di dollari per aver usato impropriamente il braccialetto elettronico ai domiciliari. Delle accuse contro di lui, Weinstein non parla. Anzi, minaccia la giornalista Rebecca Rosenberg di essere pronto a interrompere l' intervista a ogni domanda sgradita. Il processo contro di lui inizia il 6 gennaio. Finora non è riuscito a sospenderlo, nonostante l' accordo preliminare da 25 milioni di dollari con almeno trenta vittime, simile a quello ricordato ieri a Milano nell' ambito del processo Ruby ter da Ambra Battilana, la modella italiana che per tacere ebbe un milione di dollari da Weinstein, gli permetterebbe di chiudere molte cause contro di lui e la sua ex casa di produzione, andata in bancarotta a causa dello scandalo. Ma gli serve l' approvazione del tribunale: passeranno mesi, e alcune sue accusatrici hanno già fatto sapere di non voler accettare. Nemmeno Gwyneth Paltrow ha accettato. «Nel 2003 le diedi 10 milioni di dollari per fare Una hostess fra le nuvole . Era l' attrice più pagata del cinema indipendente. La prima a guadagnare molto più degli uomini », l' attacca Weinstein. Ma se lui ha dimenticato a che prezzo, l' attrice premio Oscar nel 1999 per Shakespeare in Love (prodotto da lui) non lo ha certo scordato. Fra le prime a raccontare alle reporter del New York Times Jodi Kantor e Megan Twohey (Pulitzer con Ronan Farrow per le loro inchieste sulla vicenda) l' aggressione subita dal produttore nel 1994 che costrinse il suo fidanzato di allora, Brad Pitt, a intervenire. «Sta cercando di avvelenare di nuovo la società», reagiscono le sue vittime con una lettera firmata da 23 attrici, comprese Ashley Judd, Rose McGowan e Rosanna Arquette, sul sito di Time' s Up, il fondo creato per sostenere coloro che denunciano. «Certo che sarà ricordato: come predatore senza rimorsi». Contro la versione di Harvey la voce delle donne torna ad alzarsi.
ALLORA NON ERA WEINSTEIN, SIETE VOI CHE SIETE UN PO’ MIGNOTTE. Gloria Satta per “il Messaggero” il 9 maggio 2019. A pochi giorni dall' inizio del 72esimo Festival (aprirà il 14 maggio il film di Jimi Jarmusch Dead Don' t Die), The Hollywood Reporter sgancia la bomba: anche dopo l' uscita di scena di Harvey Weinstein, il produttore accusato di abusi da decine di donne, Cannes continuerebbe a ospitare un consistente traffico sessuale. Molte aspiranti attrici provenienti da tutto il mondo, scrive l' influente periodico americano, comincerebbero il viaggio verso Hollywood sulla Costa Azzurra nei giorni roventi della kermesse concedendosi ai produttori in cambio di piccoli ruoli nei film e, soprattutto, del visto di entrata negli Usa. Il Festival, che insegue il meglio del cinema mondiale e quest' anno propone un' edizione di altissimo profilo (ci sarà anche Sylvester Stallone con un assaggio di Rambo V), ovviamente non c' entra nulla. Il fenomeno riguarda il mondo, affollatissimo e variegato, che gli ruota intorno nelle due settimane cinematograficamente più importanti dell' anno. Nel circuito dei party e dei fantasmagorici yacht ancorati davanti alla Croisette graviterebbero infatti dei loschi mediatori incaricati di reclutare le giovanissime aspiranti star per portarle ai potenti che, in cambio di prestazioni sessuali, s' impegnano a farle poi sbarcare a Los Angeles. All' estero, specie nei Paesi dell' Est, esisterebbero addirittura delle organizzazioni addette a ripulire le ragazze in patria e prepararle così a partecipare agli eventi più esclusivi della Costa Azzurra dove si ripeterebbe il triste copione. Lo hanno confermato a THR alcune fonti rimaste anonime mentre due attrici oggi «molto famose» avrebbero ammesso (senza esporsi) di aver accettato proprio questa forma di «scambio». Ma siamo oltre le molestie, il famigerato divano del produttore e le denunce che hanno generato il movimento #MeToo all' epoca dello scandalo Weinstein. Il traffico sessuale, che presume violenza, minacce e truffa, è un reato punibile dalle leggi americane anche se un cittadino Usa lo commette al di fuori del suo Paese. «Per esserne vittime non c' è bisogno di venire rinchiusi da qualche parte: basta la coercizione», ha spiegato Jean Bruggeman di Freedom Network Usa che combatte il traffico di esseri umani. E del reato, ha detto l' esperta Kimberly Mehlamn-Orozco, «si parla poco» perché avviene nell' ombra. In questo clima si è fatta avanti un' altra presunta vittima di Weinstein: l' attrice britannica Kadian Noble, 32, che afferma di essere stata aggredita sessualmente dal tycoon nel 2014, all' Hotel Majestic di Cannes dove lui l' aveva attirata promettendole un lavoro. Il produttore è stato denunciato per traffico sessuale. Un' accusa ulteriore nel lungo elenco con cui Harvey dovrà fare i conti.
Da “i Lunatici - Radio 2” il 9 maggio 2019. Milena Miconi è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. L'attrice ha ripercorso alcune tappe della sua carriera: "Da piccola non avevo una idea precisa di quello che volessi fare, forse per quello poi mi sono ritrovata a fare un mestiere particolare. Sognavo, andavo alla ricerca di quello che poteva essere il mio futuro. Non sapevo che mi sarei ritrovata a fare questo mestiere. Sono entrata in contatto col mondo dello spettacolo per caso, per gioco. Ho iniziato a fare la modella andando a lavorare per una stilista. Era la fine degli anni '80. All'epoca era più semplice, si usavano ancora le vallette, frequentavo la Rai come modella, come valletta. La valletta è caduta un po' in disgrazia, non esiste più questo ruolo, ora ci sono le co-conduttrici. Quello di valletta potrebbe sembrare un titolo che sminuisce un po' il lavoro, ma in realtà descrive quello che si fa ancora oggi, anche se le chiamano co-conduttrici". Milena Miconi è stata la prima donna del Bagaglino ed è stata tra le protagoniste di Don Matteo: "Il primo step è arrivato con i fotoromanzi, a fine anni '80 mi hanno dato una grande popolarità. Eravamo delle star, non esistevano le soap, eravamo diventati i beniamini delle signore che leggevano i giornali e della gente che stava a casa. Poi è arrivato il bagaglino, la televisione, il grande pubblico. Facevamo otto milioni, oggi la televisione non ce la fa a fare questi numeri, ci sono altre piattaforme, c'è più concorrenza, noi eravamo molto seguiti, il sabato sera facevamo degli ascolti incredibili. E' stata una grande esperienza di televisione, si lavorava in tempi ristretti, passavo dal pezzo cantato e ballato al pezzo recitato, insomma era veramente una grande scuola. Un'esperienza importante che mi ha permesso di interfacciarmi con dei grandi dello spettacolo. Poi è arrivato Don Matteo, dove ho interpretato il sindaco di Gubbio che alla fine si fidanza con il capitano interpretato da Flavio Insinna". Sul #metoo: "Quando è esploso ho pensato che sicuramente quando ci sono violenze di ogni genere bisogna denunciarle. Credo però che la violenza e le avance siano due cose diverse. Ci vado piano, sono cose delicate, su cui non è facile esprimere un giudizio, ma un conto è la violenza, un altro la avance, un altro ancora uno scambio. Molte donne hanno dichiarato di aver ricevuto delle proposte indecenti, molte donne nella loro carriera hanno incontrato uomini che hanno fatto delle avance molto forti, però non è la stessa cosa rispetto alla donna che subisce violenza. Il ricatto ci sta, nel gioco delle parti, ma puoi rifiutarlo. Se una ragazza giovane, bella, si presenta in casa o in un albergo, sa o mette in conto che dall'altra parte potrebbe trovare qualcuno che magari non ha proprio delle intenzioni del tutto positive e pulite. Altrimenti ti incontrerebbe in un ufficio, con altra gente. Non voglio dire che chi ha denunciato non abbia detto la verità o che non ci sia stata una violenza psicologica, ma c'è stata un sacco di gente che ha parlato anche quando non ce ne era bisogno". Sul rapporto con i social: "Ci sono i feticisti che chiedono foto di piedi o di scarpe. C'è un gruppo di ragazzi educatissimi, sempre carini, mi scrivono che mi vogliono bene, non sono invadenti o volgari, sono appassionati dei piedi e quindi spesso mi chiedono questo. Io sono un po' pudica, però non mi creano problemi, sono molto carini. Quando invece c'è qualcuno volgare o che insiste un po' troppo lo blocco. Non alimento mai certe situazioni, anzi". Milena Miconi è pronta a sposarsi: "Mi sposo, dopo diciotto anni di convivenza e due figlie abbiamo deciso di sposarci. Doveva essere una cosa per noi, privata, dovevamo semplicemente andare a mettere una firma, poi piano piano ha montato come la panna questa cosa. Sono molto semplice nelle mie cose, non amo i festeggiamenti per me, per gli altri sì, per me no, mi imbarazzano".
L’ITALIA CONTRO IL METOO DEI TALEBANI. Da ansa l'8 maggio 2019. Nuova puntata nella saga di Woody Allen: l'ultimo film del regista americano scaricato da Amazon uscirà in Italia all'inizio di ottobre. Secondo le conferme ottenute da “Variety”, "A Rainy Day in New York", che il colosso dello streaming ha messo in naftalina dopo le polemiche ispirate dal movimento #MeToo, è stato acquistato dal distributore Lucky Red mentre altri territori europei avrebbero concluso accordi locali. E all'ANSA lo conferma la stessa società italiana. Dopo il divorzio di Amazon da Allen, la commedia romantica con Timothee Chalamet, Elle Fanning, Selena Gomez e Jude Law è adesso venduta da Glen Basner di FilmNation Entertainment, ha detto la fonte a “Variety” che ipotizza, prima dell'uscita nelle sale il 3 ottobre, anche una proiezione a settembre alla Mostra del cinema di Venezia. Lucky Red, fondata e diretta da Andrea Occhipinti, ha distribuito il film di Woody Allen del 2017 La ruota delle meraviglie con Kate Winslet: l'ultimo che ha visto la luce prima delle nuove polemiche. "A Rainy Day" racconta la storia di due giovani che arrivano a New York per il fine settimana e include un filo narrativo in cui un uomo piu' anziano (Jude Law) ha una relazione con la ragazza (la Fanning aveva 19 anni all'epoca della produzione). Il film è stato completato l'anno scorso, quando c'è stato un ritorno di fiamma delle accuse di Dylan Farrow, la figlia adottiva del regista con Mia Farrow, di averla molestata quando era bambina. Allen ha sempre negato che quello che Dylan racconta sia mai avvenuto, ma, sull'onda del movimento #MeToo e dei ripensamenti di molti attori tra cui Chalamet e la Gomez per aver lavorato con lui, Amazon aveva preso le distanze da Woody, che a sua volta aveva fatto causa al gigante dello shopping chiedendo danni per 68 milioni di dollari. Il regista, famoso per sfornare un film all'anno ma da "A Rainy Day in New York" in limbo creativo, sarebbe intanto tornato al lavoro dopo essersi visto rifiutare da quattro grandi case editrici americane un libro di memorie. Secondo il quotidiano “El Pais”, Woody starebbe preparando un nuovo film che dovrebbe essere girato in Spagna con i fondi del gigante dei media spagnolo Mediapro, lo stesso che finanziò la commedia romantica "Vicky Cristina Barcelona" con Penélope Cruz e Javier Bardem e "Midnight in Paris", finora il film del regista campione d' incassi.
Woody Allen snobbato anche dagli editori, continua l’effetto #MeToo. Pubblicato venerdì, 3 maggio 2019 su Corriere.it. Da quando è nato il movimento #MeToo, in America non si scherza. Chiunque sia coinvolto in qualche modo in accuse di molestie trova davanti a sè tutte le strade chiuse. E il mondo dello spettacolo è forse quello che più di ogni altro si trova al centro di questo tornado. Ne sa qualcosa Woddy Allen: tempo fa Dylan Farrow, figlia adottiva di Woody e dell’attrice Mia Farrow, accusò il padre di averla molestata nel 1992, quando aveva appena 7 anni, toccandola in modo non corretto. Il regista ha sempre respinto tutte le accuse sostenendo che erano solo il frutto della vendetta dell’ex moglie Mia che plagiò la figlia. Infatti, nella causa, la madre Mia prese le difese della figlia, mentre il fratello, quelle del padre. Poi l’ inchiesta. L’esito non portò a nulla, non emerse alcun abuso, ma l’intera vicenda ha sollevato vecchi sospetti e ha di fatto isolato il grande regista newyorchese da tutto e tutti. Ora l’ultimo colpo arriva dall’editoria. Quattro grandi case editrici americane hanno respinto il manoscritto della prima autobiografia del regista. «Sarebbe stata una operazione troppo pericolosa ai tempi del #MeToo», hanno spiegato al New York Times, che ha appena pubblicato una lunga inchiesta sui destini di Woody. L’immagine di Woody che dipinge il quotidiano della Grande Mela è davvero impietosa. Tim Gray, vicepresidente di Variety, parla di lui come di un uomo e di un artista « ormai senza più futuro». Per gli editori l’autobiografia di Allen è un libro ad alto rischio poichè rischia di finire nel mirino di un boicottaggio. Le memorie di Allen non avrebbero certo avuto né premi letterari, né interviste legate alla promozione del libro. C’è chi dice che Woody non si dia per vinto e abbia già contattato altre case editrici, magari più piccole o straniere, ma intanto per ora è costretto all’ennesimo stop della sua carriera artistica. E questo è appunto solo l’ultimo colpo. Prima ci fu quello molto duro di Amazon che ha annullato un contratto per quattro film, tra cui A Rainy Day in New York. Woody Allen ha fatto causa, chiedendo un risarcimento danni di 68 milioni di dollari, ma intanto la produzione è ferma. Addirittura molti attori famosi hanno manifestato il proprio pentimento per aver recitato in alcuni suoi film. A Broadway è stata annullata la versione teatrale di un suo film.
Molestie: gli editori snobbano le memorie di Woody Allen. Altro effetto di #MeToo. Lo rivela il New York Times. Amazon aveva rotto l'accordo con lui per quattro nuovi film. Arturo Zampaglione il 3 maggio 2019 su La Repubblica. Dopo Hollywood, anche il mondo dell'editoria volta le spalle a Woody Allen. Quattro grandi case editrici americane hanno respinto il manoscritto della prima autobiografia del regista. "Sarebbe stata una operazione troppo pericolosa ai tempi del #MeToo", hanno spiegato al New York Times, che ha appena pubblicato una lunga inchiesta sui destini di Woody. Ne esce fuori una immagine impietosa: come una delle vittime più illustri - "e ormai senza più futuro", dice Tim Gray, vicepresidente di Variety - della rivoluzione nelle sensibilità americane su abusi e comportamenti sessuali. Dylan Farrow, figlia adottiva di Woody e dell'attrice Mia Farrow, ha accusato il padre di averla molestata nel 1992, quando aveva appena 7 anni, toccandola in modo non corretto. La madre Mia ha preso le difese della figlia, il fratello quelle del padre. Da una inchiesta non è emerso alcun abuso, ma l'intera vicenda - ai tempi del #MeToo - ha sollevato vecchi sospetti e portato molti attori, produttori (e ora anche editori) a prendere le distanze dal regista. Il colpo più duro è venuto dalla Amazon di Jeff Bezos che ha annullato un contratto per quattro film, tra cui A Rainy Day in New York: Woody Allen ha fatto causa, chiedendo un risarcimento danni di 68 milioni di dollari, ma intanto la produzione è ferma. Molti attori famosi hanno espresso "rammarico" per aver recitato in alcuni suoi film. A Broadway è stata annullata la versione teatrale di un suo film. E ora arriva l'ultimo schiaffo: quello dal mondo dell'editoria, a cui Woody, da sempre scrittore e intellettuale, ha sempre tenuto molto. Perché quattro grandi case editrici hanno respinto il manoscritto, come ha scritto il New York Times? Non si fidavano della "auto-verità" di Woody Allen? Probabilmente si sono convinte che il gioco era troppo rischioso. L'autobiografia rischiava di finire nel mirino di un boicottaggio. Non ci sarebbero stati né premi letterari né interviste legate alla promozione del libro. Di qui il no corale. Certo, non è escluso che Woody abbia già contattato altre case editrici, magari più piccole o straniere, ma intanto paga il prezzo di questa ennesima umiliazione. Un prezzo che potrebbe durare a lungo: per lui non si intravedono opportunità professionali nei prossimi anni. Anche se poi, in un futuro lontano, il pendolo potrebbe tornare dalla parte di Woody Allen. "A Hollywood piacciono i ritorni sulla scena di personaggi leggendari, umiliati da vicende personali" ricorda Tim Gray, citando Ingrid Bergman, Charlie Chaplin ed Elizabeth Taylor.
NESSUNO PUÒ METTERE WOODY IN UN ANGOLO. O FORSE SÌ. Mario Manca per Vanityfair il 3 maggio 2019. La prima volta che qualcuno propose a Woody Allen di scrivere un’autobiografia fu nel 2003. A farsi avanti fu la Penguin, che mise sul piatto un’offerta di 3 milioni di dollari che il regista rifiutò con fermezza: «Per questa voglio molti più soldi», scrisse alla sua agente di allora in una lettera pubblicata diversi anni dopo. Oggi, invece, sono gli editori a voltargli le spalle. Secondo quanto riporta il New York Times, infatti, quattro case editrici avrebbero rifiutato di dare alle stampe il libro di memorie che Allen avrebbe scritto in questo ultimo periodo. «Colpa» del movimento #MeToo e dell’accusa che cadde sulla sua testa nel 1992, quando la figlia adottiva Dylan Farrow accusò il padre di averla toccata in modo inappropriato all’età di 7 anni. Dalla sua parte si schierarono l’ex fidanzata Mia e il figlio Ronan, autore dell’articolo-inchiesta contro il produttore Harvey Weinstein del 2017. Da quella del regista, invece, da sempre, il fratello Moses. Gli investigatori non trovarono prove degli abusi e la giustizia diede ragione ad Allen, senza tuttavia che la frattura della sua famiglia si risanasse. Quello che era stato archiviato in passato, però, è tornato con prepotenza a tormentare il regista. Inclusa la sua carriera nell’editoria, iniziata negli anni Sessanta in un’agenzia pubblicitaria di New York e culminata nella pubblicazione di diversi libri e antologie da tutto esaurito (la sua raccolta umoristica Mere Anarchy ha venduto più di 40.000 copie nel 2007). Dirigenti di più case editrici non avrebbero fatto alcuna offerta per accaparrarsi i diritti di pubblicazione del nuovo memoir che porta la sua firma. Alcuni si sarebbero addirittura rifiutati di leggere il materiale che, stando alle prime informazioni, consisterebbe in un manoscritto completo. A pesare sulla scelta sarebbero il rischio di un possibile boicottaggio da parte dei lettori e un’attività di promozione che gli avrebbe impedito di presentare il libro senza il peso della critica preventiva, da sempre poco incline a valutare con obiettività il lavoro di un autore accusato di una cattiva condotta sessuale. Tuttavia, sul libro di Allen ci sarebbero teorie discordanti. Se da una parte la scrittrice Daphne Merkin ha affermato che si tratterebbe di un progetto su cui il regista stava lavorando da tempo, forse proprio sulle accuse e le successive ricadute subìte, dall’altra la produttrice Letty Aronson e il regista Robert Weide, da sempre dalla parte di Allen, avrebbero addirittura messo in discussione l’esistenza dello scritto. «Per i 30 anni in cui ho lavorato con Woody, il mantra su qualsiasi cosa era sempre: “non posso discutere dei suoi affari”», ha dichiarato John Burnham, agente di ICM Partners e grande amico di Allen. Resta che la tiepida risposta di alcuni editori segna l’ennesimo colpo per la sua carriera. La sua posizione di regista immortale pare ormai messa in discussione e le sue prospettive sarebbero ormai tutto fuorché rosee: «Personalmente non prevedo alcun lavoro nel suo futuro», ha detto il vicepresidente di Variety Tim Gray. «Tuttavia, è possibile che la storia sarà più gentile con Woody Allen di quanto non sembri il momento attuale», ha aggiunto citando l’esempio di Ingrid Bergman, di Charlie Chaplin e di Elizabeth Taylor: tutti artisti finiti al centro di uno scandalo, ma che Hollywood ha perdonato e riaccolto. Il periodo nero di Allen, tuttavia, rimane. Molte celebrità che un tempo gareggiavano per prendere parte ai suoi film ora dichiarano di essersi pentiti di aver lavorato con lui. Fra loro, Greta Gerwig, Ellen Page, Evan Rachel Wood, Michael Caine, Colin Firth e Timothée Chalamet, che ha addirittura dichiarato di voler donare i proventi ricevuti per girare Un giorno di pioggia a New York, il suo ultimo film, in beneficenza. Proprio la mancata uscita della pellicola, stoppata da parte di Amazon, con cui Allen aveva stretto un accordo per la realizzazione di quattro film, è alla base di una battaglia legale che vede Woody contro il gigante dello streaming, al quale chiede 68 milioni di dollari di risarcimento. La causa è in archiviazione in tribunale e, nel frattempo, la produzione è ormai ferma. Insieme con la cancellazione degli adattamenti teatrali del film Pallottole su Broadway si aggiunge, però, un nutrito gruppo di celebrities che difende l’artista. Come l’attrice Anjelica Huston che, in un’intervista a Vulture, ammette che lavorerebbe di nuovo con lui «in un secondo», o come Javier Bardem, che punta il dito contro il «linciaggio pubblico» a cui il regista è sottoposto ormai da due anni. Intanto, la casa di produzione spagnola MediaPro continua a collaborare con Allen per la realizzazione del suo nuovo film: al momento non conosciamo né il titolo né il cast che ne farà parte anche se, stando al portavoce dell’azienda, è già stato convocato. Si inizierà a girare a luglio a nord dei Paesi Baschi, poco dopo la tournée che porterà Allen in otto città europee (fra cui Milano) insieme alla New Orleans Jazz Band di Eddy Davis.
ANJELICA HUSTON ASFALTA CHIUNQUE E ASSOLVE WOODY E POLANSKI. Arianna Galati per marieclaire il 3 maggio 2019. Premessa: nelle ultime ore fanno molto discutere le dichiarazioni rilasciate da Anjelica Huston. Motivo: l'attrice parla a lungo di tre questioni ovvero tre nomi del cinema accusati di molestie, quali Woody Allen, Roman Polanski e Jeffrey Tambor e sui quali Anjelica Huston ha dato risposte oseremmo dire agrodolci. L’attrice premio Oscar per L’onore dei Prizzi, figlia del regista John Huston che ha pagato da sola costantemente lo status parentale nello showbiz, nessun figlio e pochissimi rimpianti (soprattutto sulla coppia Anjelica Huston Jack Nicholson, suo storico ex fidanzato) ha rilasciato una chilometrica intervista a Vulture. Dopo poche ore questa intervista è diventata virale perché la Houston ha dipinto scenari personali, cinematografici, professionali più complessi che mai. A 67 anni Anjelica Huston, fresca di set del terzo capitolo di John Wick con Keanu Reeves, la fama consolidata tra film pop e d'autore (Anjelica Huston Morticia Addams è l'unica interpretazione passabile di considerazione), ha tenuto fede alla sua schiettezza: e a domande precise, ha replicato in modo altrettanto preciso.
Anjelica Huston su Woody Allen: “Due stati hanno indagato su di lui e nessuno ha portato avanti le accuse. Tornerei a lavorare con lui in un secondo”. (Woody Allen è stato accusato di aver abusato della figlia Dylan Farrow quando lei aveva solo 7 anni. La Huston ha recitato in due film di Woody Allen, Crimini e misfatti e Misterioso omicidio a Manhattan. È di questi giorni la notizia che il regista newyorkese avrebbe scritto un suo libro di memorie, ma nessun editore statunitense voglia pubblicarlo).
Anjelica Huston su Roman Polanski: “È una storia che sarebbe potuta succedere 10 anni prima in Inghilterra, in Francia, in Italia, in Spagna o in Portogallo, e nessuno avrebbe sentito una parola. Ed è così che si divertono questi ragazzi. C’era un movimento di playboy in Francia quando ero ragazzina, 15 o 16 anni, e facevo le prime collezioni. Andavi al Régine o al Castel di Parigi, e tutti i ragazzi più grandi ci provavano con te. In ogni club che si nominava in Europa era un rito per la maggior parte dei ragazzi come Roman, che erano cresciuti con quella sensibilità europea” ha spiegato l’attrice. “La mia opinione è che abbia pagato il suo prezzo nel momento in cui è successo. Non aveva precedenti. Non era una situazione inusuale: hai presente quel film An Education con Carey Mulligan? È successo a me. È la storia di una studentessa inglese che si innamora di un uomo più grande, Peter Sarsgaard. Il mio primo fidanzato serio l’ho incontrato che lui aveva 42 anni e io 18”. Con Roman Polanski Anjelica Huston ha un legame diretto: nel 1977 fu arrestata per possesso di cocaina la stessa sera, e nella stessa casa, in cui il regista abusò della allora 13enne vittima.
Anjelica Huston su Jeffrey Tambor (accusato di molestie dalla sua assistente e da un’attrice di Transparent, dove la Huston interpretava la sua fidanzata): “Le ho incontrate entrambe. Per quanto ne sappia io, nessuno ha fatto o detto nulla di inappropriato. Penso che in questo lavoro dobbiamo sentire la libertà, dobbiamo sentirci liberi di dire e fare cose che non necessariamente vanno giudicate, soprattutto da altre persone del cast o della crew”.
Anjelica Huston su Penny Marshall: “Stava sveglia tutta la notte a fumare a temperature sotto lo zero, con l’aria condizionata. Aveva una collezione incredibile di memorabilia sportive. Non riuscivo a capirla. E francamente, si faceva tanto di cocaina. Non so se fino alla fine, l’ho persa di vista negli ultimi anni. Ma quando ho lavorato a Laverne & Shirley mi ha colpita, era una attrice brillante, poteva fare di tutto, aveva molta inventiva”.
Anjelica Huston su Carrie Fisher: “Da quello che ho capito, Carrie prendeva parecchie droghe e medicinali. Non voglio morire con questa roba, che modo tremendo di morire”.
Anjelica Huston su Oprah Winfrey: “Non mi ha mai voluta nel suo show, mai. Non mi parla proprio. L’unico incontro con lei fu a una festa dell’Academy. Stavo parlando con Clint Eastwood e all’improvviso si inserisce Oprah dandomi le spalle. Mi sono ritrovata a parlare con la sua nuca. Ma ammiro Oprah. Ha fatto moltissimo”. (Anjelica Huston vinse l’Oscar come migliore attrice non protagonista de L'onore dei Prizzi, diretta dal padre John Huston, lo stesso anno in cui Oprah Winfrey era candidata per Il colore viola, nel 1988).
Anjelica Huston su Bill Murray: “È stato uno str*nzo con me sul set de La vita acquatica di Steve Zissou. La prima settimana di riprese stavamo tutti nello stesso hotel, e lui invitò il cast intero a una cena. Tutti, tranne me. Ci sono stata malissimo”.
Anjelica Huston su Jerry Hall (cui si è ispirata per Morticia Addams): “La sua dolce indolenza nei confronti dei bambini. Mi venne l’idea che peggio i bimbi si sarebbero comportati, più Morticia si sarebbe sentita deliziata. Jerry è incredibilmente estatica, ha questo accento grandioso e i suoi figli vengono prima di tutto. Cercavo di immaginare Jerry che portava in giro la prole del diavolo e come sarebbe comunque stata indulgente, adorabile e comprensiva. Il matrimonio con Rupert Murdoch dopo Mick Jagger? Dalla padella alla brace”.
Anjelica Huston su Jack Nicholson, Robert De Niro e Al Pacino: “[A Nicholson] Se non gli offrono ruoli validi come quelli in passato, perché dovrebbe recitare? Non vorresti vedere Jack Nicholson in film tipo Ti presento i miei, come Robert De Niro. Al Pacino pure fa robaccia, ma in qualche modo lo perdoni perché comunque poi si prende il rischio di recitare Salomé tutto da solo. Pacino è più sperimentale. Ma Bobby [De Niro]… Non ricordo nemmeno l’ultima cosa in cui l’ho visto e ho pensato "Wow, è veramente meraviglioso"".
IL #METOO E L’OSCURANTISMO MORALISTA. Michele Serra per “la Repubblica” il 4 maggio 2019. Davvero non si riesce a credere che Woody Allen non trovi un editore americano disposto a pubblicare la sua autobiografia, perché porta lo stigma della scorrettezza sessuale. Analogo iter di castrazione professionale grava, in America, su attori e artisti coinvolti a vario titolo in vicende di molestie, come se non bastassero tribunali e processi per dare soddisfazione alle vittime e sancire le pene. Come se per editori e produttori valesse una norma implicita di pavidità e conformismo (due tra i vizi più nefasti per la cultura) che porta alla censura preventiva come supplemento di pena per artisti caduti in disgrazia. Se un truffatore o uno scassinatore scrivessero, magari in carcere, un grande romanzo o un libro di poesie, verrebbe in mente a qualcuno di vietarne la pubblicazione a causa della fedina penale dell' autore? Quanta letteratura e quanto cinema andrebbero distrutti per "punire" autori depravati o semplicemente censurabili nei loro comportamenti privati? Sulla scia della legittima campagna di denuncia detta #MeToo galleggia dunque il cadavere della libertà artistica, e questo è un problema enorme, prima di tutto, per #MeToo stessa. Se la causa dell'inviolabilità sessuale genera puritanesimo, vergogna, repressione, vuol dire che l'obiettivo è stato equivocato. Un conto è denunciare il ricatto sessuale come forma di potere e di prevaricazione, come inaccettabile vaglio maschile sul lavoro e sul talento delle donne. Altra cosa è la cappa di moralismo che pretende di rimettere le mutande a un' epoca che se le è sfilate da tempo, e non sempre per nuocere.
Gloria Satta per “il Messaggero” il 4 maggio 2019. L'effetto #MeToo torna ad abbattersi su Woody Allen. Dopo Hollywood, anche il mondo dell' editoria sbatte la porta in faccia al regista, 83 anni, accusato dalla figlia adottiva Dylan di averla abusata quando aveva 7 anni, nel 1992. All' epoca Allen vennne scagionato da un paio di inchieste giudiziarie. Tuttavia è bastato che qualche mese fa, nel clima surriscaldato del caso Weinstein, la donna rilanciasse l' addebito perché Woody si ritrovasse emarginato, umiliato, addirittura cancellato. E ora quattro grandi editori americani, ha rivelato il New York Times, si sono rifiutati di pubblicare le memorie del regista temendo il boicottaggio del pubblico e l' attacco dei media. Gli stessi che soltanto qualche anno fa avrebbero fatto a pugni, a suon di assegni milionari, per aggiudicarsele alla luce delle ottime vendite dei precedenti libri di Allen come Saperla lunga, Effetti collaterali, Citarsi addosso, Pura anarchia. Interrogati dal quotidiano americano, i rappresentanti di Harper Collins, Hachette, Macmillan, Simon & Schuster, Penguin Random House si sarebbero rifiutati di commentare. «Woody resta una figura ancora culturalmente importante, ma i rischi commerciali di pubblicare una sua nuova opera sarebbero stati eccessivi», si è limitata a dichiarare una fonte, pretendendo l' anonimato. Questo nuovo capitolo della caccia alle streghe, che annovera l' autore quattro volte premio Oscar di Io e Annie, si aggiunge alla catena di boicottaggi provocati dalle accuse tardive di Dylan Farrow, sostenuta dalla madre Mia e dal fratello Ronan mentre Moses, un altro figlio adottato dalla protagonista di Rosemary' s Baby, si è schierato dalla parte di Woody. Innanzitutto non è uscito l' ultimo film del regista A Rainy Day in New York girato due anni fa e interpretato da Jude Law, Selena Gomez, Elle Fanning, Timothée Chalamet, Rebecca Hall. I distributori non ne hanno voluto sapere. Lo vedremo però in Italia, il 3 ottobre, grazie alla Lucky Red di Andrea Occhipinti mentre attori come Chalamet, Greta Gerwig, Ellen Page, Natalie Portman, Mira Sorvino, Colin Firth hanno pubblicamente preso le distanze dal regista giurando che mai e poi mai sarebbero tornati sul set con lui. A difenderlo hanno pensato invece Javier Bardem («sono contrario a questo linciaggio, dopo Vicky Cristina Barcelona lavorerei nuovamente con lui»), Alec Baldwin e Anjelica Huston che aveva interpretato Crimini e misfatti e Misterioso omicidio a Manhattan: «Se Woody mi richiamasse, gli direi di sì in un secondo», ha assicurato nei giorni scorsi al New York Magazine. È tuttora in corso la causa per danni intentata da Allen contro Amazon che, all' indomani dello scandalo, ha rotto il contratto risalente ai tempi di Café Society. Ritenendolo colpevole di abusi sessuali, il colosso di Jefff Bezos si è rifiutato perfino di distribuire A Rainy Day in New York sulla piattaforma digitale. Il regista, che parla di «rottura unilaterale», ha chiesto un risarcimento di 68 milioni di dollari. E non si arrende: il cinema è la sua vita, ha sempre girato un film all' anno e ha già trovato i finanziamenti (dal gruppo spagnolo Mediapro) per girare il prossimo che dovrebbe essere ambientato nei Paesi Baschi. I sopralluoghi li ha già effettuati ma non si sa ancora quando comincerà le riprese e quali saranno gli interpreti. Intanto, Woody continua a difendersi da tutte le accuse, facendo addirittura appello alla sua proverbiale ironia. «Sono un grande sostenitore del movimento #MeToo», ha detto al giornale argentino Periodismo para todos, «potrei essere il volto del suo manifesto: lavoro nel cinema da 50 anni, ho collaborato con centinaia di attrici e non ce n' è stata una, che mi abbia mai accusato di comportamenti inappropriati. Ho avuto rapporti stupendi con ciascuna di loro». Ha aggiunto che il fatto di venire accostato a Harvey Weinstein lo infastidisce molto. «Non posso essere accomunato a persone orribili come lui che è stato accusato da 20, 50, 100 donne: io, per una sola accusa di cui è stata dimostrata la falsità, mi ritrovo nel mucchio». E rischia di non lavorare più, come paventa Tim Gray di Variety. Ma si spera che la storia prevalga sul giustizialismo sommario e gli renda giustizia. Prima che sia troppo tardi.
Federico Pontiggia per “il Fatto Quotidiano” il 17 giugno 2019.
Andrea Occhipinti, perché Lucky Red ha deciso di portare in sala l' ultimo film di Woody Allen, A Rainy Day in New York, che al contrario Amazon ha cassato negli Stati Uniti?
«Abbiamo distribuito La ruota delle meraviglie nel 2017 e avevamo un accordo anche per questo titolo: l' ho confermato e mantenuto».
In America sono di diverso avviso.
«Con tutto il rispetto per il #MeToo, si tratta di caccia alle streghe. Per le accuse di molestie alla figlia Dylan Farrow, Allen è già stato processato due volte quasi trent' anni fa e scagionato: non capisco quale sia il problema».
Sarebbe?
«Dylan ha nuovamente reso pubbliche queste accuse, c' è chi le ha creduto e ha preso posizione unilateralmente, rimettendo Allen alla gogna. Negli Stati Uniti l' ipersensibilità si spreca, anche qui è molto antipatico parlarne: se ti esprimi a favore della legalità, sembra tu sia contro il #MeToo, ma non è il mio caso.Lo reputo un movimento fondamentale, ma ciò non comporta che chiunque si svegli e accusi una persona abbia legittimità. Si portino le prove, si onorino le sentenze, altrimenti il rischio è di abusi in senso opposto».
C' è chi discrimina tra l' artista e l' uomo.
«Può essere un mostro, ma salvaguardiamo le sue opere d' arte? Non scherziamo: Woody è solo vittima di una campagna diffamatoria».
Nondimeno, Amazon ha stracciato il contratto per quattro film, sicché Allen ha intentato causa per 68 milioni di dollari.
«Nel mercato Usa la reputazione è preminente, e i social non aiutano: se tutti vanno dietro a una fake news, non importa più che sia una fake news. Se il popolo pensa che Allen vada punito, il gigante dello shopping non può rimanere indifferente, a meno di non mettere in conto danni economici. L'esercizio non lo vorrebbe A Rainy Day in New York, la stampa ti attaccherebbe, e saresti costretto a cambiare strategia. Viceversa, in Italia esercenti, giornalisti, cinefili ci hanno scritto lodando la scelta di portarlo in sala».
Sta dicendo che Lucky Red in America A Rainy Day in New York non lo avrebbe distribuito?
«Giusto o meno che sia, non avremmo potuto: non si può prescindere dall' aria che tira. Devi prenderne atto, se i cinema non ti programmano, se tutti parlano male di te perché hai il film di Allen, non lo distribuisci».
Terra di libertà, l' Europa.
«Le libertà individuali da noi vengono maggiormente preservate. L' America è anche un paese di fanatici, di gente strana: a 12 anni puoi prendere un fucile, a 18 non puoi dare un buffetto a una ragazza che non conosci. Il fucile va benissimo, ma se ammicchi sei spacciato. Posso capire se si tratta di un minore, però vedo che il problema non è quello: non puoi fare un' avance nemmeno a un adulto. Jude Law ha bollato quale "onta terribile" la decisione di Amazon, ma altri due interpreti, Timothée Chalamet e Selena Gomez, hanno devoluto il proprio cachet a Time' s Up e altre associazioni a tutela delle donne. Conformismo, puro e semplice. Potevano starsene zitti, facevano più bella figura. Tra l' altro, con Allen la paga degli attori è poco più che simbolica: non hanno fatto 'sto sacrificio».
Dal 3 ottobre in sala, A Rainy Day in New York lo vedremo prima alla Mostra di Venezia, sì?
«Non credo sia pronto, ci stanno ancora lavorando. E non spetta a me entrare nelle strategie festivaliere».
Che film è?
«Woody Allen che ritorna a casa, New York. E segue due adolescenti che vi trascorrono una settimana, tra aspirazioni e avventure. C'è chi ha puntato il dito sulla relazione tra un uomo maturo, interpretato da Law, e una ragazzina, Elle Fanning, allora 19enne. È in linea con quanto Woody ha fatto prima, non c' è nessuna morbosità nel rapporto. E insinuare una sovrapposizione tra finzione e biografia è immotivato».
Gioveranno queste polemiche al botteghino?
«Allen ha in Europa il mercato di riferimento, il suo pubblico è abbastanza costante, fedele. Uno dei migliori risultati La ruota delle meraviglie l' ha fatto in Italia».
“IL #METOO? OGNI CACCIA ALLA STREGA PRIMA O POI FINISCE”. Riccardo Staglianò per “il Venerdì - la Repubblica” il 16 agosto 2019. Credevano fosse amore e invece era un fine settimana a New York. E pioveva. Questa è la versione Twitter della trama dell' ultimo, travagliato film di Woody Allen. C' è un romantico Gatsby che a vent' anni veste le stesse giacche di tweed dell' ottantatreenne regista, suona al piano Everything Happens to Me scritta nel 1940 da Matt Dennis e, invece di optare per una stanza su Airbnb, prende una suite a un simil-Plaza con vista su Central Park. C'è la sua fidanzata Ashleigh, sirenetta dell'Arizona in trasferta, che fatalmente si invaghisce prima del regista anzianotto che deve intervistare, poi di un attore che la invita a cena puntando al dopocena. I dolori del giovane Gatsby crescono nell' attesa. Fin quando non incontra Selena Gomez ex-star Disney che ha 28 anni ma ne dimostra 16 scarsi, e su Un giorno di pioggia a New York torna il sereno. La quarantanovesima pellicola del cineasta più genialmente nevrotico di sempre è da un anno ferma al palo perché Amazon non vuole più distribuirla in ragione del ricicciamento di polverose accuse di molestie contro l' autore (già demolite da un giudice) da parte di Dylan, figlia adottiva di Mia Farrow e dello stesso Allen. Fortunatamente il film uscirà il 10 ottobre in Italia via Lucky Red, e in Germania e Spagna. Sapendo quanto sia diventato parossistico il clima sulle improprietà sessuali a Hollywood e quanti riverberi autobiografici certi spunti di finzione potranno avere, sorprende che il regista abbia replicato lo schema nabokoviano. Evidentemente per Allen l'idea platonica dell'amore non sopravvive alla maggiore età. Ma una cosa è il codice penale, che lo scagiona, altra è la polizia morale che lasciamo ai sogni più scatenati del Family Day di Verona. Mi sembra più utile, per farsi un' idea del tipo di dialettica interna alla coppia che probabilmente ci farebbe digrignare i denti se riguardasse un nostro caro amico, leggersi il colloquio che l' anno scorso Babi Christina Engelhardt ha avuto con Hollywood Reporter. Nel '76 era una modella sedicenne dalla bellezza contundente. Ebbe per otto anni una storia con Allen, allora quarantunenne. È lei la vera Tracy di Manhattan. Dice: «È stata una storia d' amore che mi ha reso ciò che sono adesso. Non ho alcun rimorso». #MeToo e Amazon, da accordi preliminari con la produzione che l' ha resa possibile, sono le due parole tabù della conversazione che segue. Allen si trova a Milano per la regia teatrale del Gianni Schicchi di Puccini. Alle due in punto, davanti alla porta del camerino alla Scala che scopriremo essere grande come un mini-appartamento liberamente ispirato a Versailles, si accalcano quattro addetti. Nessuno osa bussare, se non quando arriva la sua publicist personale. L'uomo che ci accoglie, con una camicia button down kaki su un paio di pantaloni di cotone kaki e un paio di scarpe stringate color ciliegia, è l' icona più celebre dell' umorismo ebraico newyorchese, con i soliti occhiali e solo la voce leggermente meno squillante di un tempo. A un certo punto il fratello confida a Gatsby che non intende più sposare la compagna perché trova la sua risata insopportabile. Lo sconsolato commento è: «Ci sono così tante cose che possono rovinare un rapporto».
Vero, ma esiste una via di salvezza?
«È una delle cose tristi della vita. Le relazioni tra uomini e donne hanno un' accordatura molto fine e delicata. Se nel suo organismo manca anche un piccolo elemento, tipo lo zinco o il ferro, può avere anche tutti gli altri ma quella singola mancanza alla fine la può uccidere. Lo stesso avviene nelle relazioni. Devi avere tutto, altrimenti falliscono. O continuano tra troppi conflitti».
Restando nella metafora, magari può aiutare qualche integratore?
«Certo, c' è chi prova con la terapia di coppia, chi con lo yoga, a volte funziona ma non troppo spesso. Le cose che ti fanno star bene, avere una barca o guardare il baseball o fare una passeggiata in montagna, sono quelle che aspetti con trepidazione. Se invece stare insieme diventa un lavoro - molta gente dice della propria relazione "bisogna lavorarci" -, un' incombenza, allora non è più divertente. Le relazioni dipendono moltissimo dalla fortuna».
Che tipo di relazioni aveva all'età di Gatsby e Ashleigh?
«Io mi sono sposato per la prima volta a vent' anni. Era una ragazza molto carina ed è stata una svolta importante perché il matrimonio ci ha costretto a uscire dalla casa dei genitori, trasferirci a Manhattan e cominciare a lavorare e guadagnare. Siamo stati sposati per qualche anno e poi ci siamo allontanati, naturalmente. Ma siamo ancora amici adesso che lei ha ottant' anni».
Cosa ha imparato da allora?
«Mah, che è essenzialmente fortuna. Poi, ovvio, devi imparare come si litiga e fare un passo indietro affinché le abitudini seccanti dell' altra persona non ti feriscano troppo. Imparare la tolleranza. Ma il grosso lo fa la fortuna dell' incontro».
Pollard, il regista del film, è così deluso dei suoi ultimi lavori che pensa di smettere. Ho letto che lei era talmente insoddisfatto di Manhattan, il capolavoro di cui ora si festeggia il quarantennale, che non voleva che United Artists lo distribuisse. Com' è possibile?
«Non c' è alcuna correlazione tra gusti del pubblico e dell' autore. Quando finisco un film il più delle volte lo trovo deludente rispetto a come l'avevo scritto. Vedo un sacco di errori. Nel caso di Manhattan mi sembrava eccessivamente predicatorio, didascalico, avevo spiegato e detto troppo. Il messaggio del film non si deve mai trovare in bocca a un personaggio. Altre volte invece faccio un film, come Hollywood Ending, che a me piaceva molto e non è piaciuto quasi a nessuno. Raramente, come in Match Point, trovo invece che è venuto esattamente come doveva venire. La verità è che quando scrivi è tutto perfetto ma poi, come dice il mio amico Marshall Brickman, "ogni giorno sul set arriva un camion pieno di nuovi compromessi". Vorresti 200 comparse ma hai i soldi solo per 50 e così via».
Gatsby, seppur molto giovane, va dallo psicoanalista. Pensa ancora che salvi la vita?
«Io ci sono sempre andato. Per me funziona, certo meno di quanto uno desidererebbe, ma aiuta. Credo che se ognuno si fermasse per un' ora al giorno per parlare dei suoi sentimenti più profondi senza inibizioni a un professionista che ascolta, anche senza dire niente, col tempo comincerebbe a capire delle cose sul suo conto. C' è gente che non si ferma mai a pensare a se stessa».
A un certo punto fa dire a un personaggio che tutti i giornali sono tabloid, affamati di gossip: lo crede anche lei?
«No, sono un grande fan dei giornali. Ho fatto un film che si intitola Scoop e volevo fare prima il giornalista sportivo, poi mi ha affascinato la cronaca nera. Ho sempre avuto un'idea epica del giornalismo, col cronista che scopre qualcosa che alla fine salva il tipo dalla sedia elettrica. Penso che sia uno dei pochi mestieri al tempo stesso drammatici ed eccitanti».
La battuta più amara del film è «Il tempo vola. E vola in economy». Come si attrezza per la traversata?
«Purtroppo è la verità. Passa alla svelta per tutti, poveri o ricchi, ed è un viaggio assai scomodo. Ciò però non ha cambiato la mia routine. Sul lavoro sono stato molto fortunato ma esistenzialmente sono nella stessa barca di tutti, gli sfortunati e quelli con molto più successo di me. Come ho mostrato una volta in un film (Stardust Memories) siamo passeggeri di treni diversi ma tutti con la stessa destinazione finale».
Ha qualche trucco per non pensarci?
«Certo, dal momento che non c' è niente che puoi fare, almeno bisogna provare a non pensarci. Distrarsi. Qualcuno lo fa guardando il calcio, o aiutando gli altri, o drogandosi ma alla fine proviamo tutti a nasconderci da una realtà molto spiacevole, per evitare che ci paralizzi».
Ai tempi di Manhattan stilò una lista di «ragioni per cui valeva la pena vivere». L'ha aggiornata da allora?
«All' epoca una spettatrice mi mandò una lettera per rimproverarmi di non aver incluso i figli. Ma io non ne avevo ancora. Adesso non farei mai l' errore di non citare le mie due figlie Manzie e Bechet».
Di quella lista non esiste più il ristorante Elaine's. Perché era così speciale?
«Ci ho cenato tutte le sere per dieci anni, allo stesso tavolo. Fuori poteva esserci una tormenta di neve, magari era mezzanotte ma dentro incontravi il sindaco di New York, i campioni del basketball, Antonioni, Fellini o Simone de Beauvoir. Era incredibile! Un posto unico, al contempo tranquillo e rilassato. Non ci sarà mai più niente del genere».
Le abitudini sono il suo forte. A partire dal font Windsor EF Elongated dei titoli dei film.
«Certo! Quando ho cominciato tutti spendevano un sacco di soldi per i titoli mentre io volevo spenderne solo per il film. Quindi ho trovato quel carattere, che bastava per tutto ciò che volevo dire. Coi soldi che risparmiavo ci potevo prendere 10 comparse o due giorni di riprese in più».
Registi preferiti? Persone che la fanno ridere?
«Scorsese, sempre amato, o Francis Ford Coppola, ma anche Paul T. Anderson. Sono i primi che mi vengono in mente. Quanto al ridere, buona domanda: lo scrittore S.J. Perelman mi fa ridere sonoramente: non devo impegnarmi, l' onere del divertimento è tutto su di lui. Rido anche con vecchi film, con W.C. Fields o Groucho Marx. Poi guardo il comico Mort Sahl, è un genio che potrei stare a guardare tutto il giorno, ma non mi fa ridere a bocca aperta come gli altri citati. Non conosco i comici contemporanei perché non vado più nei locali. In tv, quando torno da cena alle 10 o alle 11, vedo giusto un po' di baseball o i tg. E non guardo le serie. So che sono buone, perché gente che rispetto mi dice "questa è magnifica", ma il mio stile di vita non mi mette in contatto con loro».
In che modo il pubblico europeo è diverso da quello americano?
«Il vostro è più sofisticato. Quando noi guardavamo stupidaggini con Doris Day voi avevate già a che fare con Fellini. Eravate più adulti. Noi abbiamo sempre un piede nell' escapismo mentre voi fate film più duri, conflittuali. Però, nonostante le dicerie, i miei film che vanno bene in America tendono ad andar bene anche in Europa».
Qualche tempo fa Philip Roth, con mossa piuttosto rara, annunciò che avrebbe smesso di scrivere perché sentiva di aver dato il meglio. Mai sfiorato da tentazioni simili?
«No, Roth era una persona molto più profonda, intelligente e colta di me. Io farò film sin quando qualcuno mi pagherà per farli».
E quando non lavora cosa fa?
«Niente, perché lavoro sempre. Ma diciamo che mi sveglio presto, faccio un po' di tapis roulant, mi metto a scrivere a macchina (non ho un computer), pranzo con mia moglie, lavoro un altro po', mi alleno al clarinetto e andiamo a cena fuori. È una vita tranquilla dove non succede niente ma che a me va benissimo. Monotona e bella. Scrivo sette giorni alla settimana. Sul letto. Mi diverte come altri si divertono a pescare. L' anno prossimo uscirà una mia autobiografia (il #MeToo aveva osteggiato anche quella). È tanto che non scrivo per il New Yorker perché ormai non c' è più spazio: metà della pagina è presa dalle illustrazioni! E non ci sono altri posti dove pubblicare scrittura comica. Oggi c' è molta più politica».
A proposito, com' è per lei vivere nell' America trumpiana?
«Che posso dire? Significa Trump 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana. Io l'ho diretto in Celebrity, ma sono stremato dal vederlo dappertutto. Mai vista una copertura analoga. È come uno tsunami di pubblicità. Vorrei anche altre notizie, i risultati di baseball, le critiche teatrali. Sul suo conto non c'è niente da dire che non sia già stato detto migliaia di volte».
So che non vuole parlarne, ma non coglie una discreta ironia nel fatto che l'aver fatto alle donne le cose che Trump ha detto di aver fatto non gli abbiamo impedito di diventare presidente mentre lei è vittima da anni di una campagna di riprovazione intensissima?
«Colgo un milione di ironie! Che posso dire? Ha a che fare con i meccanismi di ciò che diventa notizia, che fa comprare i giornali o accendere la tv. E se sei un personaggio pubblico devi abituarti. E comunque sono cose che vanno e vengono. Ho sempre pensato che l' unica risposta sia alzarsi presto e sgobbare senza sosta. Me lo ricordo da quando ho iniziato: non leggere le recensioni, non credere quando scrivono che sei un genio o un idiota. Non pensare ai soldi ma solo a lavorare bene. Così avrai abbastanza per campare, con un pubblico, magari piccolo, e tutto il resto andrà a posto da solo. È il modo in cui ho vissuto la mia vita. Sveglia presto, dopo quello stupidissimo tapis roulant - lo odio! -, e mettersi sotto a scrivere. Non vado alle prime dei miei film, non vado alle feste, vivo una vita tranquilla di solo lavoro».
Ma crede che, alla fine, la caccia alle streghe finirà?
«Tutte le cacce alle streghe finiscono prima o poi. Per definizione non sono una buona cosa. Tendono a esaurirsi col tempo, si smorzano fino a spegnersi».
«Il generale Pulaski, padre della cavalleria americana, era donna». Pubblicato domenica, 07 aprile 2019 da Riccardo Bruno su Corriere.it. Quando l’antropologo forense Charles Merbs venne invitato dalla collega Karen Burn a esaminare i resti del generale polacco Casimir Pulaski, considerato il padre della cavalleria americana, fu preceduto da un avvertimento. «Entra, osserva e non uscire gridando». Lo stupore degli esperti fu in effetti notevole. «Lo scheletro era chiaramente quello di una donna» conferma il professor Merbs. Il generale Pulaski, nato a Varsavia nel 1745 e morto a 34 anni per le ferite riportate nell’assedio di Savannah, fu un eroe in patria e oltreoceano. Fu uno dei leader della Confederazione di Bar, l’unione di nobili polacchi scesi in campo per difendersi dai riformatori e dall’aggressione dell’Impero russo. Rifugiatosi prima in Turchia, su invito di Benjamin Franklin venne chiamato a sostenere la causa della Rivoluzione americana contro le forze britanniche. Fu al fianco di George Washington e sembra che almeno in un caso gli salvò la vita. Creò la «Cavalleria Pulaski» e riformò il modo di andare in battaglia. Una leggenda, senza dubbio. Tanto da meritare un monumento che conteneva i suoi resti proprio a Savannah, in Georgia. Quando nel 1996 le ossa, conservate in una cassa di metallo, vennero riesumate, ne venne autorizzato lo studio. I cui risultati sono adesso sintetizzati in un documentario dello «Smithsosian Channel», che appunto portano a considerare che fosse una donna o un intersessuale. Le prime ipotesi che lo scheletro non fosse in realtà quello del generale Pulaski sono state accantonate dopo che è stato fatto non solo il confronto con il Dna di una discendente della sua famiglia, ma sono state anche analizzate le ferite e le caratteristiche fisiche delle ossa. Della vita di Pulaski si sa che non si sposò né ebbe figli. Figlio di un noto giurista, appartenente a un’aristocratica famiglia polacca, fu sottoposto a una rigida educazione militare e imparò ben presto a cavalcare. Il professor Merbs, docente all’Arizona State University, ipotizza che Pulaski «in nessun momento della sua vita abbia pensato che fosse una donna. Ritengo semmai che abbia pensato che fosse un uomo, e che qualcosa non andava».
L’ARTE AL SERVIZIO DELLA CRONACA. DaCorriere.it il 7 aprile 2019. Curiosità e stupore in piazza Duomo per l’installazione, apparsa sabato mattina davanti alla cattedrale nell’ambito della Design Week, firmata dal designer Gaetano Pesce e ispirata alla sua storica poltrona «UP5&6». Alta otto metri, l’opera, intitolata «Maestà Sofferente», è una metafora della violenza sulle donne. L’installazione raffigura proprio un corpo femminile ferito da un centinaio di frecce. «A me non dispiace affatto, mi sembra un messaggio contemporaneo», ha commentato il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, l’opera «Maestà Sofferente» del designer Gaetano Pesce, un’installazione di otto metri collocata in vista del Salone del Mobile in piazza del Duomo, osservata con curiosità e stupore dalle migliaia di turisti e passanti che attraversano il cuore della città. L’opera, ispirata alla storica poltrona Up5&6 realizzata da Pesce 50 anni fa, raffigura un corpo femminile infilzato da centinaia di frecce, e rappresenta una metafora della violenza sulle donne. «È molto contemporanea nonostante sia di 50 anni fa - ha detto Sala a margine della conferenza stampa sulla candidatura di Milano-Cortina alle Olimpiadi invernali 2026 -. È giusto che se ne parli perché ci stupiamo ancora quando succede un femminicidio. Se attraverso questa testimonianza se ne riparla, allora deve andar bene. È giusto rendere onore a Gaetano Pesce. A me non dispiace affatto, però mi sembra un messaggio contemporaneo». La curia ne era informata? «Non ne ho la più pallida idea», ha risposto il sindaco.
Anche le femministe contro l’opera di Pesce: «È un’ulteriore violenza sulle donne». Pubblicato domenica, 07 aprile 2019 da Corriere.it. «Non Una di Meno» contro l’installazione della «Maestà sofferente» di Gaetano Pesce esposta da sabato in piazza Duomo nell’ambito del Salone del mobile. L’opera, che richiama la famosa poltrona «Up5&6» realizzata dal designer nel 1969, raffigura un corpo femmine trafitto da centinaia di frecce, a simboleggiare il problema della violenza sulle donne. Un’idea che non è piaciuta al movimento femminista. «Una rappresentazione della violenza che è ulteriore violenza sulle donne perché reifica ciò che vorrebbe criticare. La donna per l’ennesima volta è rappresentata come corpo inerme e vittima, senza mai chiamare in causa l’attore della violenza. E tutto questo senza passare dalla forma umana: alla poltrona e al puntaspilli mancano infatti testa, mani e tutto ciò che esprime umanità in un soggetto», denuncia «Non Una di Meno» in una nota, annunciando di aver organizzato per oggi alle 18.30 in piazza Duomo una contro-inaugurazione dell’installazione dell’opera, rinominata «Ceci n’est pas une femme».
"Sapevo che andava da Weinstein". La rivelazione di Morgan su Asia Argento. Morgan, ospite di Live! Non è la D'Urso, si è espresso sulle accuse che Asia Argento ha rivolto ad Harvey Weinstein svelando di esserle stato accanto quando lei frequentava il produttore, scrive Luana Rosato, Giovedì 04/04/2019 su Il Giornale. Dopo la partecipazione di Asia Argento a Live! Non è la D’Urso, Morgan si è seduto nel salotto di Canale 5 dando anche la sua versione dei fatti sul caso Weinstein e le accuse di stupro da parte della sua ex compagna nei confronti del produttore statunitense. Morgan, però, pur non confermando di aver visto l’intervista che Asia Argento ha rilasciato a Barbara D’Urso, non ha esitato ad accusarla di aver recitato il ruolo della vittima durante la sua ospitata su Canale 5. “Ti dico subito che non sono un bravo attore così”, ha sbottato Morgan, lasciando intendere quello che la conduttrice ha recepito immediatamente e di cui ha più volte chiesto spiegazioni. “Non sto dicendo che lei lo ha fatto, ma che io non sarò in grado!”, ha tentato di spiegare con sorriso ironico Morgan prima di dire la sua sul caso Weinstein. Dopo aver riportato una intervista di Vittorio Sgarbi, che raccontava di aver saputo da Castoldi che i rapporti tra Asia Argento e Weinstein erano tipici di due persone che sono legate sentimentalmente, il cantautore ha provato a spiegare il suo punto di vista sull’accaduto. “È un argomento delicatissimo però ci sono delle cose evidenti: dentro di sé uno può dire che è stato uno stupro, ma agisce come se non lo fosse – ha dichiarato Morgan, aggiungendo – Io c’ero tutti i giorni quando lei frequentava Harvey Weinstein, era proprio il momento in cui vivevo con lei a Los Angeles e c’era la nostra figlia”. “Non voglio raccontare queste cose perché sono private, delicate, non voglio far soffrire le persone e non faccio carne da macello - ha concluso Morgan, spiegando -. Asia soffriva, me lo diceva e io comprendevo. Non la chiudevo in casa e le dicevo di non andare. Io sapevo che andava da Weinstein ed era un problema per me, per lei e per tutti. Questo uomo non era certo uno stinco di santo, ma lei non tornava con i lividi. Basta trasformare queste vicende in qualcosa di più grave!”.
"Morgan mi confessò: Asia era lusingata dalla corte di Weinstein". L'ex marito dell'attrice: "Lui per lei prendeva l'aereo privato fino a Roma e le portava i fiori", scrive Paolo Giordano, Sabato 14/10/2017, su Il Giornale. «Morgan mi ha detto che Asia Argento ha avuto a lungo rapporti con Weinstein e non gli sembra si sia mai lamentata. Anzi, oggi lui fatica a credere che Asia l'abbia denunciato ora. E che non l'abbia fatto a suo tempo». Vittorio Sgarbi ha chiacchierato a lungo con l'artista che è stato per molto tempo compagno di Asia Argento e con la quale ha avuto la figlia Anna Lou (ora ha 15 anni). Nei giorni scorsi l'attrice ha rivelato di aver subito rapporti molto ravvicinati con Harvey Weinstein, che avrebbe «fatto» con lui sesso orale quando aveva 21 anni. Ieri il Giornale ha riportato le confidenze che la figlia di Dario Argento ha fatto via fax alla nostra cronista Daniela Fedi proprio in merito alla frequentazione con il più potente produttore di Hollywood. Ora, mentre l'attrice si lamenta di essere stata maltrattata dopo le sue rivelazioni, il suo ex compagno Morgan, parlando con l'amico Vittorio Sgarbi, ricorda come lei «fosse contentissima quando Weinstein prendeva l'aereo privato e arrivava a Roma per incontrarla. Dopo l'atterraggio, prendeva un elicottero e la raggiungeva. Spesso portava anche dei fiori, come un vero innamorato in pieno corteggiamento. E talvolta lei non si faceva trovare, mortificandone le dimostrazioni amorose». Vittorio Sgarbi ha incontrato Harvey Weinstein alcune volte specialmente alla Mostra del Cinema di Venezia, nelle vesti sia di sottosegretario ai Beni culturali sia di Soprintendente alle Belle Arti, «e ci ho anche litigato perché mi sono trovato di fronte una persona molto arrogante che non ho nessuna voglia di difendere. Mi è sempre sembrato un maiale», ricorda. Ma, mentre riporta le parole di Morgan, Sgarbi sembra convinto della realtà delle accuse. E si spinge a ricordare il caso di Artemisia Gentileschi che accusò (e fece processare) per stupro il pittore Agostino Tassi «non per la violenza in sé, ma perché lui dopo un mese non l'aveva ancora sposata». In ogni caso, per tornare ai nostri tempi, si tratta di una questione delicatissima e, ovviamente, sottoposta a tutti i condizionali del caso. Di certo, il rapporto lavorativo di Asia Argento non si è interrotto dopo la presunta violenza, ma è proseguito per anni senza alcuna apparente variazione. «Morgan mi ha ricordato che Asia gli ha sempre riferito cose positive sia per la personalità sia per le qualità professionali di Weinstein sia per le sue manifestazioni amorose, che lei mostrava di apprezzare e di aver ricevuto molto di più di quanto avesse chiesto, lavorando con piena soddisfazione e gratitudine per lui. Non avendo mai pensato che lei avesse intenzione di denunciare Morgan si chiede perché lo abbia fatto oggi, forse non avendo più avuto quello che prima le era stato utile. E che quindi anche in questo caso abbia fatto quello che le era più conveniente, essendo così abile da far tornare a suo favore quello che al tempo non la preoccupava minimamente, di cui non mi ero affatto accorto e non si era mai lamentata con me». A questo punto, se le parole di Morgan riportate da Vittorio Sgarbi saranno confermate, lo scenario cambia completamente e le iniziali dichiarazioni di Asia Argento riceverebbero un riflesso diverso e inedito anche all'interno di questa delicatissima questione ormai allargatasi da Hollywood al resto del mondo. Anzi, secondo quanto riporta Morgan attraverso Sgarbi, «Asia Argento qualche volta addirittura si rifiutava di incontrarlo e lo mandava via come un cane bastonato». In sostanza, le solite schermaglie tra due persone che flirtano. Schermaglie che, se confermate, si inserirebbero con un'altra luce in una questione della quale tutto il mondo, con paura o curiosità, sta parlando da giorni.
Asia Argento risponde a Morgan: "Spero che sia stato pagato bene per dire tutte quelle menzogne in tv". L'attrice replica alle parole dell'ex marito, ospite del programma di Barbara D'Urso. "Umanamente mi dispiace per Marco, ma la casa non gliel'ho tolta io, l'ha persa lui quando ha deciso di ignorare totalmente i suoi doveri nei confronti di nostra figlia", scrive il 4 aprile 2019 La Repubblica. Morgan, ospite di Live - non è la D'Urso su Canale 5, in veste di padre si è difeso dalle accuse delle sue ex Asia Argento e Jessica Mazzoli di trascurare le sue figlie e di non pagare gli alimenti. "Io ho desiderato queste bambine" ha detto l'artista a Barbara D'Urso parlando di Anna Lou (17 anni) e della piccola Lara (6 anni). "Non ho mai detto "non voglio pagare gli alimenti di mia figlia." Io non ho mai fatto questioni. Ma quando non ci sono i soldi, da dove li tiro fuori?" ha aggiunto. Asia Argento ha replicato alle parole di Morgan. "Come è noto dal 2000 al 2007 sono stata legata sentimentalmente con Marco Castoldi, in arte Morgan, con cui ho avuto una figlia, Anna-Lou. Per circa 2 anni e mezzo, dal 2002 al 2004, ho vissuto e lavorato a Los Angeles, da sola con nostra figlia" scrive l'attrice e regista in un comunicato diffuso tramite il suo avvocato, Roberto Serio. "Morgan per diverse ragioni, anche professionali, non è venuto con noi a Los Angeles e non vi ha mai vissuto. Ci ha raggiunto sì e no due o tre volte nell'intero periodo - pagandogli io le spese di viaggio affinché vedesse Anna-Lou - e sempre per pochi giorni. Non ho mai incontrato Weinstein mentre Marco era a Los Angeles e lui ha sempre saputo benissimo, fin da quando ci siamo conosciuti, della violenza sessuale che avevo subito e cosa pensavo di quell'uomo". "Quello che è accaduto dopo è cronaca: mi sono separata da Marco nel 2007 (lui dice che l'ho l'abbandonato) e quasi subito ha smesso di esistere per nostra figlia, che non trova il tempo di vedere nemmeno quando viene a Roma per lavoro e per cui da circa 10 anni non versa nemmeno un euro dell'assegno di mantenimento stabilito dal giudice. E questo anche durante gli anni in cui ha lavorato per X Factor e per Amici: non proprio momenti di difficoltà economica. Cinque anni fa, come fanno tante donne nelle mie condizioni, mi sono rivolta a un avvocato per agire nei suoi confronti per ottenere che pagasse quanto dovuto per Anna-Lou". "Umanamente mi dispiace per Marco, ma la casa non gliel'ho tolta io" prosegue Asia Argento. "l'ha persa lui quando ha deciso di ignorare totalmente i suoi doveri nei confronti di nostra figlia e di accumulare debiti con banche, fisco e creditori vari. Ritenermi responsabile di avergli tolto la casa, di averlo messo in mezzo alla strada, è un buon motivo per avercela con me? Probabilmente sì, come ho avuto modo di constatare con profonda tristezza ieri durante la trasmissione di Barbara D'Urso, in cui ha detto una serie incredibile di bugie e di calunnie di una cattiveria inaudita nei miei confronti: su me e Weinstein, sulla sincerità delle mie lacrime della settimana prima, sempre nella stessa trasmissione, e soprattutto su nostra figlia e sui motivi per cui è stato assente come padre durante tutta la sua vita". "Mi dispiace perché nonostante tutto, nonostante non abbia contributo in alcun modo a crescere Anna-Lou, non ho mai rinunciato all'idea di mantenere un rapporto civile con Marco per il bene di nostra figlia. E per tutta risposta lui ieri ha accusato di tenergli lontana la figlia per i soldi. Ma evidentemente è lui che non riesce proprio a tenere distinto il piano economico, i soldi, da quello affettivo e familiare". "Spero che sia stato pagato bene per dire tutte quelle menzogne in tv e per fare questa ennesima, pessima figura con Anna-Lou" conclude firmando: Asia Argento.
Da Il Messaggero il 5 aprile 2019. «Spero che sia stato pagato bene per dire tutte quelle menzogne in TV e per fare questa ennesima, pessima figura con Anna-Lou»: Asia Argento, attraverso il suo legale Roberto Serio, replica a distanza alle dichiarazioni del suo ex marito Morgan ospite ieri di Non è la D'Urso su Canale 5. «Non ho mai incontrato Weinstein mentre Marco Castoldi in arte Morgan era a Los Angeles e lui ha sempre saputo benissimo, fin da quando ci siamo conosciuti, della violenza sessuale che avevo subito e cosa pensavo di quell'uomo», dice l'attrice che sottolinea come il musicista «non trova il tempo di vedere» sua figlia «nemmeno quando viene a Roma per lavoro e per cui da circa 10 anni non versa nemmeno un euro dell'assegno di mantenimento stabilito dal giudice». Cinque anni fa, «come fanno tante donne nelle mie condizioni, mi sono rivolta ad un avvocato per agire nei suoi confronti per ottenere che pagasse quanto dovuto per Anna-Lou. Ho firmato la procura all'avvocato e da allora non ho firmato più nulla». Sul conseguente pignoramento della sua casa spiega: «Umanamente mi dispiace per Marco, ma la casa non gliel'ho tolta io, l'ha persa lui quando ha deciso di ignorare totalmente i suoi doveri nei confronti di nostra figlia e di accumulare debiti con banche, fisco e creditori vari. Ritenermi responsabile di avergli tolto la casa, di averlo messo in mezzo alla strada, è un buon motivo per avercela con me? Probabilmente sì! Come ho avuto modo di constatare con profonda tristezza ieri durante la trasmissione di Barbara D'Urso, in cui ha detto una serie incredibile di bugie e di calunnie di una cattiveria inaudita nei miei confronti: su me e Weinstein, sulla sincerità delle mie lacrime della settimana prima sempre nella stessa trasmissione e soprattutto su nostra figlia e sui motivi per cui è stato assente come padre durante tutta la sua vita». E conclude: «Mi dispiace perché nonostante tutto, nonostante non abbia contributo in alcun modo a crescere Anna-Lou, non ho mai rinunciato all'idea di mantenere un rapporto civile con Marco per il bene di nostra figlia, che infatti non più di due settimane fa ho portato anche a vedere il suo concerto a Roma. E per tutta risposta lui ieri ha accusato di tenergli lontana la figlia per i soldi. Ma evidentemente è lui che non riesce proprio a tenere distinto il piano economico, i soldi, da quello affettivo e familiare».
Asia Argento: "Morgan mi manca, ma le accuse su Weinstein disgustose". Asia Argento, in collegamento con Live!, ha avuto modo di replicare alle ultime dichiarazioni rilasciate da Morgan negli studi di Canale 5, scrive Luana Rosato, Giovedì 11/04/2019 su Il Giornale. A distanza di una settimana dalla partecipazione di Morgan a Live!, Asia Argento ha avuto modo di replicare alle accuse dell’ex compagno sui rapporti con Weinstein attraverso i microfoni di Barbara D’Urso. In collegamento con Canale 5, Asia Argento ha iniziato il suo intervento dal chiarimento sugli alimenti che Morgan non avrebbe versato alla figlia Anna Lou tanto da costringere la ex compagna a rivolgersi agli avvocati e procedere con il pignoramento della casa. “Ho lasciato Morgan perché la mia vita con lui era invivibile, ma ho sempre cercato di mantenere un rapporto civile con lui – ha chiarito la Argento, spiegando di aver più volte tentato di far incontrare la figlia con il padre e di aver preteso i soldi per il mantenimento di Anna Lou come da legge - . Gli alimenti non erano 4mila euro al mese ma 2mila, che non sono mai stati contestati da Marco e non sono mai stati dati. Non capisco perché lo giustifichino in quanto artista. Un uomo deve fare il padre, che sia un artista o in camionista”. Asia Argento, nonostante le controversie familiari, ha aggiunto di voler mantenere dei rapporti civili con Morgan e, in merito alle accuse dell’ex sui rapporti con Weinstein è stata perentoria. “Morgan ha detto cose disgustose su di me – ha tuonato l’attrice, ribadendo che Castoldi non ha mai vissuto con lei e la figlia a New York - . L'unica volta che ha visto Weinstein fu quando questi si imbucò al mio 25esimo compleanno e apparì in mezzo alla folla”. Riguardo le confessioni che Morgan avrebbe fatto a Vittorio Sgarbi, quindi, la Argento ha accusato entrambi di essere stati “alticci” e ha rilanciato con un’altra calunnia: “Marco è un incontinente. Gli scappa la pipì e la fa dappertutto. Fa ridere. Deve curare questa incontinenza”. Infine, Asia Argento, messe da parte le diatribe con il cantautore, ha difeso il suo ruolo di madre e si è lasciata andare ad una dichiarazione inaspettata nei confronti di Morgan. “Marco manca ad Anna, ma manca anche a me – ha fatto sapere - . Io lo vorrei nella mia vita”.
JIMMY BENNETT INDAGATO PER DIFFAMAZIONE DALLA PROCURA DI ROMA. Da “la Repubblica” l'11 aprile 2019. «Sì, Asia Argento mi ha violentato», questa l' accusa che Jimmy Bennett, 22 anni, aveva riportato, ospite di Non è l'Arena. La procura di Roma lo ha indagato per diffamazione. Se l' accusa reggesse e la reputazione dell' Argento fosse oltraggiata da un' affermazione falsa, la vicenda cambierebbe.
Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” l'11 aprile 2019. Jimmy sostenne di essere stato violentato da Asia in California quando era ancora minorenne L' attrice in questo procedimento è parte offesa «Una donna può essere bella e affascinante ma abusare di un uomo». Jimmy Bennett 22 anni, aveva riportato, ospite di Non è l' Arena, la sua versione su quel che sarebbe avvenuto nel 2013 in una camera di un albergo a Los Angeles con Asia Argento. La puntata della trasmissione condotta da Massimo Giletti era andata in onda lo scorso 23 settembre. Una versione adesso al vaglio della procura di Roma, soprattutto nel passaggio in cui l' attore afferma: «Sì, Asia Argento mi ha violentato, è stato un rapporto sessuale completo». La procura, il pubblico ministero è Maurizio Arcuri, ha iscritto il giovane artista per il reato di diffamazione. In pratica, se l' accusa dovesse reggere, e la reputazione dell' Argento dovesse essere oltraggiata dall' eventuale affermazione falsa di Bennet, l' intera vicenda che ha travolto l' attrice italiana cambierebbe radicalmente. Da persecutrice a vittima di un grande imbroglio. Intanto è stata inviata negli Usa la notifica per l' elezione di domicilio, l' atto che comunica l' iscrizione nel registro degli indagati, con la relativa richiesta di nominare un avvocato. La storia ha ruotato fino a pochi mesi fa intorno al « caso Bennett». Una vicenda esplosa dopo un articolo del New York Times. Un servizio in cui si sosteneva che Argento, tra le principali accusatrici del produttore cinematografico Harvey Weinstein, si fosse a sua volta impegnata a versare a favore di Jimmy Bennett la somma di 380 mila euro. Il giovane attore americano accusa l' artista italiana di violenza sessuale. L' episodio risalirebbe a un incontro a Los Angeles del 2013, quando lui aveva 17 anni, che configurerebbe un reato secondo le leggi della California. L' attrice inizialmente aveva sostenuto di non aver mai fatto sesso con il 17enne, in seguito però sono diventati pubblici i messaggi tra l' attrice e una sua amica modella, in cui Argento ammetteva di aver avuto un rapporto con Bennett. L'artista italiana ha poi cambiato versione: «È stata Argento ad essere aggredita», aveva fatto sapere il nuovo legale, annunciando la volontà di interrompere i pagamenti nei confronti di Bennet. Pagamenti, come ha sempre sostenuto Argento, concordati, per evitare di finire coinvolto in uno scandalo, dall' ex compagno Anthony Bourdain, morto suicida lo scorso giugno.
“HO RACCONTATO I CAZZI MIEI IN TV PER MANTENERE I MIEI FIGLI”. Gaspare Baglio per Rollingstone il 30 aprile 2019. «Stavo giocando a Monopoly con i miei figli». Interrompo la quotidianità di Asia Argento per questa intervista che arriva dopo un reciproco rincorrersi. Un via vai di messaggi su Whatsapp, per un paio di giorni e finalmente troviamo il punto d’incontro. L’occasione per parlare con Asia è la mostra Asia Argento Antologia Analogica (a cura di Stefano Iachetti), al Museo del Cinema di Torino fino al 27 maggio. Un’esposizione che inizia già dalla cancellata esterna della Mole Antonelliana, con 23 immagini (pellicola 35 mm) realizzate tra il 2001 e il 2004. E quattro scatti di Iachetti che ritraggono l’attrice sul set di Incompresa. Nell’Aula del Tempio, all’interno del museo, si possono ammirare 170 polaroid «sulle quali ho dipinto sopra da gennaio a una settimana prima che inaugurasse la mostra. In realtà ne ho fatte più di 400, ma non sono tutte esposte». Parlare con Asia è come tenere, tra le mani, un cuore di cristallo pieno di crepe: si ha paura di romperlo da un momento all’altro. Una persona (prima che un personaggio) fragile, con le mani e le ginocchia sbucciate da un anno terribile, che metterebbe alla prova chiunque. Le vicende le conosciamo tutti, inutile stare qui a rivangare. Con la Argento, però, voglio essere un ascoltatore attento più che con gli altri, sentire quello che ha da dire. Un flusso di parole con l’anima più pura di questa artista.
Asia, cosa rappresenta questa mostra?
«Questa mostra è stata importante a livello di sopravvivenza».
Perché?
«Riuscire a creare, nel momento in cui si sta male, non è facile, ma è necessario. Non sono riuscita a esprimermi nelle maniere che conoscevo meglio, quelle della scrittura e con la regia».
Come mai?
«Ho passato un grossissimo periodo di solitudine, di riflessioni e di autoanalisi senza riuscire a cavare fuori nulla. Ho avuto, però, la consapevolezza che solo la creazione, in questo caso fisica – di manipolare, toccare con le mani –, è stata la maniera per uscire fuori da un anno terribile. Poi è anche primavera, mi sembra davvero una rinascita».
Cos’hai provato in quest’anno?
«Quando sono stata sotto quest’onda nera, che sembrava non finire mai, non vedevo proprio luce, non vedevo neanche il tunnel».
Cosa hai fotografato, ma soprattutto che visione hai voluto dare?
«Con uno sguardo ossessivo, sono sempre gli stessi soggetti che non avevano apparentemente e non hanno, per me, ancora, un significato intrinseco: c’è questo giornale anni ’80 con la foto del cantante dei Bauhaus, ci sono vinili, frasi, immagini e quella poesia che si trovavano nella mia camera da letto e nel mio bagno: non riuscivo a uscire da questo recinto. Imprimerle era come stare chiusi in una stanza di gomma, continuavo a vedere gli stessi oggetti, che non avevano senso».
E poi?
«Il fatto di manipolarli, dipingendoci sopra e colorando le immagini che svaniscono dei vecchi rullini della polaroid, era come bloccare questo attimo, tirarlo fuori da me. Imprimerlo per liberarmene per sempre».
Un aiuto, insomma.
«Il flash della polaroid ha illuminato una zona buia in cui brancolavo, ma che non era dentro di me, era fuori di me. Come quando accendi la luce e scappano via tutti gli scarafaggi. È questa la sensazione».
Quanti scarafaggi hai incontrato quest’anno?
«Alcuni erano scarafaggi, altri erano veri e propri serpenti, pericolosi, velenosi. Un giorno, forse, tutto questo avrà un senso. Capirò perché ho dovuto affrontare queste persone. Dovevo crescere, stare più attenta, fidarmi di meno. Dovevo proteggermi come una specie a rischio, come fanno al WWF. Sono stata attaccata da animali feroci, da predatori, persone cattive, spiriti bassi. Penso agli scarafaggi e ai serpenti perché strisciano, stanno in terra, ma sono molto furbi. Per questo mi sono tatuata un serpente, per farmelo amico».
Ah sì?
«È l’unico modo: se il serpente è mio amico, gli altri avranno paura ad avvicinarsi. Come si dice? Keep your friend close and your enemy closer».
Non pensi che, quest’anno, abbia in qualche modo oscurato la tua carriera?
«Non l’ha oscurata, si è spostata l’attenzione dalla creazione, da quello che ho fatto, a una morbosità sul mio privato. Sono diventata un fatto di cronaca per quello che faccio, le persone che vedo, che mi circondano, che vedono i miei messaggi. Tutto ciò è stato completamente alienante e sfido qualsiasi essere umano. Però anche questo fa parte della longevità del mio mestiere: ne ho viste e ne ho vissute di cotte e di crude, non solo in questo anno».
Cosa intendi?
«Lavoro nello show business da quando avevo nove anni e ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare. Quindi quest’anno, sì, è stato terribile, ma le altre cose, grazie a Dio, me le sono tenute per me».
Ma ci sarà una differenza tra le difficoltà che hai passato quest’anno, rispetto a quelle vissute in tempi meno recenti…
«Quest’anno mi è sembrato di vivere ancora più sotto i riflettori, cosa che io, assolutamente, non cerco. Sono lontana dai pettegolezzi e dalla mondanità. È andata così, l’universo voleva che andasse così».
Ok, ma se non volevi stare ulteriormente al centro dell’attenzione mediatica, perché andare a parlare di quello che ti è successo a Non è L’Arena, Domenica in e Live – Non è la D’Urso?
«Mi hanno pagato tanto, amico mio. Come potevo sopravvivere, come mamma single di due figli, che mantengo da sola, avendo perso il lavoro – perché l’ho perso – e senza prospettive, sola al mondo? La gente pensa solo al fatto che sono figlia di Dario Argento, ma mio padre è un regista e ha fatto film di genere. Io sono cresciuta nella stessa stanza da letto con le mie due sorelle, mio padre non mi ha mai aiutata. Sono andata a vivere da sola, a diciotto anni, e mi sono sempre mantenuta autonomamente. Non è facile. Quindi, se l’unico introito che potevo avere era andare in tv a raccontare i cazzi miei, non ho nessun orgoglio in questo. Per mantenere la mia famiglia ho fatto di tutto, in questi anni».
Tipo?
«Ho venduto qualsiasi cosa, come la mia batteria. Ci tenevo, aveva un valore per me. Non me ne frega niente dei soldi, l’importante è mantenere i miei figli. Quindi ho partecipato a queste trasmissioni per questo motivo, fratello, non te lo nego. Altrimenti non ci sarei mai andata in vita mia».
Torniamo, per un attimo, alla mostra. Ci sono icone come Frida Kahlo che sono presenti. Quali sono le personalità che, in qualche modo, sono state fonte di ispirazione per la tua carriera?
«Frida, sicuramente, è una di queste. Mi sento vicina al suo spirito, non a caso dovrei fare un documentario – non come regia, è un altro tipo di collaborazione – su di lei. Tutto torna. Ce ne sono mille di fratelli e sorelle spirituali, viventi e non. Mi danno la forza di andare avanti, sono artisti che sono sempre stati degli outsider. Loro si sono riconosciuti in me – quelli viventi – e io in loro. Ci unisce l’orgoglio di sentirci fuori dal coro, ma è una predisposizione con cui si nasce. Non è una cosa che ci si può prefiggere, è il destino».
Ti abbiamo vista al live di Salmo. Stai preparando qualcosa a livello musicale?
«Mi piace tantissimo l’album di Salmo, è uno dei dischi che, in generale, ho ascoltato di più quest’anno. Anche con i miei figli, ci fa molto ridere quando mi “cita”. In questo momento, però, ho avuto la forza solo di fare queste polaroid».
Quindi niente musica…
«Non ho avuto tempo per pensarci, ma sono in contatto con tantissimi musicisti e ci sono progetti in ballo. Sicuramente, quando starò meglio, mi verrà voglia anche di scrivere testi e collaborare. Ho fatto, però, tantissimi dj set quest’inverno, non li facevo da anni. Avevo smesso perché non mi divertivo più».
Com’è andata?
«È stato divertente, ma stancante. La nightlife, per me, è troppo faticosa: mi sveglio la mattina presto per portare i miei figli a scuola. Va bene per un periodo, mi è servito e mi piace sempre condividere la musica e i generi che conosco, però ora mi sono pure stufata».
Anche la regia, in questo momento, è difficile da ipotizzare?
«Ho fatto solo polaroid, non ho avuto modo di pensare ad altro. Tutto il resto tornerà, in questo momento sono completamente svuotata. Ora farò una trasmissione su Rai 2, Realiti, con Enrico Lucci. Inizierà l’8 maggio, un format completamente nuovo, molto buffo, assurdo, una specie di Truman Show».
Cosa farai?
«Diciamo che dirò la mia. In questo momento riesco solo a fare foto ed essere me stessa. Anche a X Factor dovevo essere semplicemente me stessa. Questa cosa mi risulta più facile di questi tempi. Tutti mi incoraggiano a scrivere, pensare a film, a regie, ma non è quello che mi sento di fare in questo momento».
Senti, ma X Factor, almeno come rivincita, lo rifaresti?
«Come rivincita no, sarebbe come tornare insieme a un fidanzato che ti ha fatto tanto male, che ti ha trattato in malo modo. Quindi bisognerebbe vedere, col tempo, se si ha voglia di avere a che fare con questo fidanzato un po’ stronzo. Magari ne trovi uno più bello, più accogliente, più tuo e più innamorato di te».
Ma di The Voice of Italy che mi dici? Sembrava dovessi fare il coach.
«Sono tanti i discorsi che si fanno, però come tutto quel che mi riguarda, anche quando i discorsi sono molto lontani, si danno per certi. Parlare di qualcosa non vuol dire che ci sia la volontà. Con The Voice non c’è stato nemmeno un vero discorso».
E il lavoro di attrice, invece?
«Ah, sì. Sto facendo un film. Lo vedi, non sono molto brava a farmi auto-promozione».
Di che film si tratta?
«È l’opera prima della regista belgo-turca Banu Sivaci. Ha già fatto dei corti bellissimi. Lo giriamo in Belgio e in Olanda».
Il tuo ruolo?
«Interpreto la madre del protagonista, che è un ragazzo di diciotto anni, ma sono solo nei suoi ricordi».
Qual è la trama?
«È ambientato in un futuro distopico, in cui il sole fa venire l’acufene solo a una parte della popolazione. Questa cosa manda le persone fuori di testa e si fanno tutti di un collirio che, per un attimo, li distoglie da questo suono così forte che li porta a fare gesti estremi. Non tutti credono che alcuni essere umani sentano questi suoni e, questi sfortunati, sono costretti a vivere sottoterra. Questa è la storia».
Come sta andando?
«Mi diverte molto, mi piace il film, mi piace l’atmosfera sul set, mi piace la regista. Poi è un lavoro che non mi toglie troppo tempo e non mi fa stare molto lontano dall’Italia, visto che ho due figli».
Il titolo del film?
«Sans Soleil, che significa “senza sole” in francese».
Nella tua vita si può dire che il sole è mancato per troppo tempo.
«Ma ce ne sono state più di una, di cose tremende. Ora che è qualche settimana che non mi succede niente di brutto, sto iniziando a ridermela sotto i baffi. Dopo avere ricevuto ogni giorno una brutta notizia, ho quasi paura a gioire, ma a questo punto ne ho talmente bisogno che me la rido».
Ci sono state, però, persone che ti sono state vicine, come Vera Gemma.
«Perché lei è vera. Tutte le mie amicizie, le persone di cui mi fido, sono del mio periodo pre-lavorativo. Di loro mi fido».
Perché sono tutte del periodo pre-lavorativo?
«C’è qualcosa nella fama e nelle cose fittizie e fatue, che per chi non ce le ha, sembrano la luccicanza extra terrena. Le persone con cui condivido e ho condiviso tutto me le tengo ben strette, le posso contare su una mano, non mi hanno mai tradito».
Qualcuno ti ha deluso?
«Tutti, a parte la mia famiglia e questi tre/quattro amici. Però è bellissimo: è una grande pulizia, è come il serpente che cambia la pelle e si toglie tutta la zozzeria di torno. Gli scarafaggi sono rimasti attaccati alla pelle vecchia».
Come ti vedi da qui a un anno?
«Non ci penso nemmeno. Già è tanto vivere alla giornata».
MORGAN DA LEGARE. Arianna Ascioni per il Corriere della sera il 10 aprile 2019.
Passioni tormentate. Lo abbiamo visto a Sanremo mentre metteva a ferro e fuoco il palco dell'Ariston insieme ad Achille Lauro e tra poche settimane Marco Castoldi in arte Morgan inizierà la sua nuova avventura come giudice a «The Voice». Ma in questi giorni, complice il passaggio della scorsa settimana nel salotto serale di Barbara d'Urso per uno scontro uno contro tutti, l'attenzione di molti si è più concentrata sulla sua tumultuosa vita privata che sui progetti professionali in partenza, anche a causa delle sue dichiarazioni su Asia Argento («Non sono bravo a recitare come lei») e Jessica Mazzoli («Lei ha deciso di andarsene, pretendendo soldi»).
Con Asia, amore ribelle. «Il vero amore dura per sempre, anche quando non si sta più insieme. Nulla scalfisce l'incontro di due anime» aveva raccontato Asia Argento al settimanale F nel 2016. Quello tra lei e Morgan è stato sicuramente un rapporto travolgente e tormentato: si sono conosciuti e messi insieme nel 2000, lasciati nel 2007 e ancora oggi continuano - a giorni alterni - a scontrarsi e fare pace. Sia durante la loro relazione sia dopo la rottura le loro strade si sono incontrate spesso anche a livello artistico: in tv ad esempio i due sono apparsi insieme ad «X Factor» (più di una volta) e a «Ballando con le Stelle» (2016). Morgan - che aveva scritto per lei la colonna sonora del film «Ingannevole è il cuore più di ogni cosa» (2004) - ha anche partecipato all'album di Asia «Total Entropy» del 2013.
Jessica, galeotto fu X Factor. Sono ormai lontani i tempi in cui il frontman dei Bluvertigo dichiarava ai quattro venti il suo amore per l'ex concorrente di «X Factor» Jessica Mazzoli (attualmente reclusa nella casa del Grande Fratello 16): si può dire che si sia trattato di un vero e proprio colpo di fulmine, visto che il cantautore l'aveva già notata durante i casting («Prima è arrivato il suo viso pallido, poi lei», aveva detto a Chi). Ha aspettato che venisse eliminata prima di provarci (perché farlo durante la gara, aveva aggiunto, «sarebbe stato volgare») e quando questo è avvenuto due minuti dopo era già fuori dal suo camerino. Oggi gli strascichi di quella passione lampo, finita in malo modo - e con un comunicato stampa -, forniscono ancora un sacco di materiale per i giornali di gossip e i «caffeucci». Proprio la scorsa settimana Morgan è stato ospite di «Live Non è la D'Urso» per parlare di questa relazione, e ha accusato Jessica di averlo «incastrato».
Anna Lou e Lara. «Jessica mi ha incastrato»: con quell'espressione - poco galante - Morgan ha fatto riferimento alla figlia Lara, nata alla fine del 2012 dopo solo un anno di fidanzamento. Una bambina che, a detta della sua ex, il cantautore avrebbe visto soltanto due volte in sei anni. E che non è nemmeno stata citata nella sua biografia, a differenza di Anna Lou, la sua altra figlia avuta nel 2001 da Asia Argento («l’unica famiglia che io sia mai stato in grado di avere in vita mia»).
Le battaglie legali in tribunale. Citazione o non citazione nella biografia alla fine tutte e due le sue ex hanno trascinato Morgan in tribunale. Due i fronti delle battaglie legali che lo hanno visto protagonista: gli alimenti, versati solo parzialmente, e l'affidamento delle figlie. Nel 2010 Asia aveva anche presentato la richiesta di decadenza della potestà genitoriale in seguito alla discussa intervista rilasciata dall'artista alla rivista Max in cui ammetteva di fare uso di droga.
La casa pignorata. A causa degli alimenti non versati ad Anna Lou dal 2011 il Tribunale civile di Monza nel 2017 gli ha pignorato la casa: «Appena ho sgarrato una mezza volta, e non per mia volontà, ecco che subito arrivano il pignoramento e le diffamazioni - aveva scritto in quei giorni difficili in una lettera aperta - “Dai massacriamolo, senza un minimo di rispetto!” e non parlo del ricordarsi di aver detto “ti amo”, ma del minimo rispetto di un essere umano». Dal canto suo Asia, messa sotto accusa, sempre tramite lettera aveva risposto: «Umanamente mi dispiace per Marco, ma la casa non gliel'ho tolta io, l'ha perso lui quando ha deciso di ignorare totalmente i suoi doveri nei confronti di nostra figlia». Per impedire il pignoramento molti fan del cantautore si erano mobilitati e contemporaneamente, a distanza di pochi giorni, Morgan aveva deciso di vendere su internet numerosi cimeli appartenenti al suo passato. Ufficialmente per cambiare vita: «Il Morgan che avete conosciuto fino ad oggi è morto — aveva scritto su Facebook —. Chiuso un ciclo di vita, mi preparo ad entrare in uno nuovo fatto di musica nuova, voce nuova, corpo nuovo, stile nuovo. Per compiere questa metamorfosi abbandono definitivamente tutto quello che appartiene al mio passato».
Lorenzo Giarelli per il “Fatto quotidiano” il 13 giugno 2019. Un flash mob per evitare lo sfratto. A chiederlo è Morgan, il cantante e personaggio televisivo che presto dovrà lasciare la sua abitazione di Monza per effetto di un pignoramento deciso dal Tribunale della stessa città a fine 2017. I giudici avevano accolto le ragioni delle ex mogli di Morgan, Asia Argento e Jessica Mazzoli, che lamentavano i mancati pagamenti degli alimenti per le figlie Anna Lou e Lara, ma da mesi l' ex leader dei Bluvertigo sostiene di non aver rispettato gli obblighi perché trovatosi all' improvviso senza soldi per colpa di chi gli gestiva gli introiti. Adesso, a ridosso dello sfratto e della vendita all' asta della casa, Morgan ha inviato una richiesta d' aiuto ad amici e colleghi. Obiettivo: aiutare "un uomo-artista-cittadino che viene cacciato da casa sua ingiustamente", ricorrendo anche all' occupazione se necessario. Nell'appello il cantante rivendica il suo impegno "di divulgatore musicale a livello nazionale, che sarebbe bastato a non consentire una simile e umiliante circostanza", prima di dare appuntamento ai suoi: "Monza, venerdì 14, ore 9 di mattina. Se verrò arrestato per questo e non per aver commesso un reato sarà perché sono stato lasciato solo". D' altra parte Morgan ha più volte ribadito come, in caso di sfratto, non avrebbe a disposizione altre abitazioni: "Se verranno a sbattermi fuori dormirò sul marciapiede davanti a casa, come un cane che non vuole abbandonare la propria dimora", aveva spiegato a Libero qualche giorno fa. Motivo per cui mobilitare gli amici: "Nessuno è riconoscente? Nessuno è complice? Tutti hanno impegni proprio quel giorno? Dove siete artisti che scrivono canzoni? La pietà dov' è? Indignatevi, vi sto chiedendo esplicitamente di appoggiarmi". A nulla, secondo Morgan, sono serviti i compensi televisivi di questi anni - il cantante è tuttora impegnato come giudice di The Voice, dopo le esperienze ad Amici e X-Factor - perché affidati alle persone sbagliate: "Da una giorno all' altro - aveva scritto su Facebook - sono venuto a sapere che ho un gigantesco debito con l' Agenzia delle entrate, accumulatosi in dieci anni di tasse mai pagate. Non sapevo nulla perché nessuno me lo aveva detto". Da lì i mancati alimenti e la causa in Tribunale, in un momento in cui, stando a quanto dichiarato dal cantante, neanche la vendita della casa risanerebbe i suoi conti in rosso. Nonostante le vicende giudiziarie, oggi Morgan giura agli amici di essere sempre stato "integro, civile e serio" e di essere protagonista di "una situazione insostenibile e moralmente inaccettabile". Per questo il cantante è pronto ora a disobbedire alla legge per mantenere la casa: "Come dice Silvano Agosti, una volta che uno ha un tetto, dei vestiti e del cibo tutto il denaro in più è una sconfitta, una protesi per comprarsi il pezzo di mondo che non ha dentro di sé. Bene, a me stanno togliendo il tetto".
Da Tgcom24 il 13 giugno 2019. Non è la d’Urso" si oppone con forza alla precaria situazione che lo coinvolge. “Le leggi non sono la giustizia” dice l'artista, che tra due giorni sarà costretto a lasciare la propria casa per motivi economici. “Un provvedimento immorale, bisogna essere vuoti di cervello e di cuore. Come si può attaccare alla legge quando è sbagliata? Perché lo Stato mi deve uccidere?" "Prima di liberarmi dalla casa dovrò prendere tante cose, tra cui dischi di De Andrè - questo peraltro è il De Andrè che conosco" aggiunge, una probabile stoccata a quella Francesca De André che ha fatto e sta tuttora facendo molto discutere dopo quanto successo al "Grande Fratello 16". Morgan cerca poi di raccontare come si sia trovato in questa spiacevole situazione. “Non parlerei di colpa, non mi piace, al limite di responsabilità” spiega riferendosi anche ad Asia Argento. L’ex coach di "X Factor" e "The Voice" ci tiene però a precisare: “Non sono sfrattato a causa dei debiti. Mi sono ritrovato nel 2015 con un'enorme quantità di tasse non pagate, questo per colpa di un commercialista truffaldino ha gestito malamente la mia situazione finanziaria. Quello stesso anno tutti i compensi che ho preso li ho dovuti versare all’agenzia delle entrate e non ho ancora saldato il debito. Più lavoro e più riesco a ottemperare a questa cosa”.
Morgan ha un malore, sfratto rinviato: «In 7 giorni devo trovare 200 mila euro». Pubblicato venerdì, 14 giugno 2019 da Valentina Baldisserri su Corriere.it. E alla fine lo sfratto non c’è stato. A Morgan sono stati concessi altri sette giorni di sospensione del provvedimento. Il cantante ha avuto un malore all’arrivo degli ufficiali giudiziari nella sua casa di via Adamello a Monza e, vista la situazione, considerate le buone intenzioni dell’inquilino, il custode giudiziario incaricato di procedere con lo sfratto ha deciso di dargli altro tempo. «In questi sette giorni cercherò di raccogliere, con l’aiuto di tanti miei amici che mi sono accanto, la somma sufficiente a ricomprarmi la mia casa. In queste quattro mura c’è la mia vita e c’è il mio lavoro- si è sfogato l’artista - questa casa è come un museo, non può essere smantellata». Ore difficili quelle trascorse nella mattina di venerdì al civico 8, nella residenza del cantante sottoposta a pignoramento per debiti non onorati e già venduta all’asta. Il pignoramento è stato deciso dal Tribunale di Monza alla fine del 2017, in seguito a ingiunzioni per mancato pagamento degli alimenti per le due figlie Anna Lou (avuta da Asia Argento) e Lara (avuta da Jessica Mazzoli). Capannello di giornalisti e cameraman sin dall’alba, un gruppo sparuto di fan in attesa, amici e parenti in processione, l’amico e cofondatore dei Bluvertigo, Andy. E’ arrivata anche la figlia piccola di Morgan, Lara di 6 anni, nata dalla relazione con Jessica Mazzoli conosciuta a X Factor e presente a Monza in segno di solidarietà. All’esterno della casa il cantante aveva appeso sin dall’alba un cartello che citava articoli della Costituzione, come l’articolo 9, che sancisce come la Repubblica promuova lo sviluppo della cultura: «Io sono promotore della cultura a livello nazionale, la mia casa è un museo» ha ribadito Morgan. Morgan ha raccontato ancora perché si trova in questa situazione. Ha parlato del commercialista truffaldino che non avrebbe pagato le sue tasse, e del debito che si è accumulato nei confronti di Equitalia, pari a circa 350 mila euro. «Non avevo più modo di pagare gli alimenti alle mie figlie, si è innescata una macchina infernale che mi ha portato a perdere la mia abitazione che io avevo acquistato per 760 mila euro ed è stata svenduta per 250 mila». Evitare lo sfratto, ormai esecutivo, sarà davvero molto dura. Soltanto un atto di generosità di chi l’ha acquistata (per ora rimasto anonimo) potrebbe restituire a Morgan la sua casa.
DIO LI FA E POI LI ACCOPPIA. Vittorio Sgarbi trova casa a Morgan. Lo storico e critico d’arte ha messo a disposizione del musicista il secondo piano di Palazzo Savorelli a Sutri, la cittadina della Tuscia di cui Sgarbi è sindaco dallo scorso anno. Il Palazzo, che ha una storia secolare, è immerso in un grande parco ed ospita attualmente le iniziative culturali promosse da Sgarbi. “Ho impartito le necessarie direttive ai miei uffici - spiega Sgarbi - perché, almeno fino alla scadenza del mio mandato (tra 4 anni) Palazzo Savorelli possa ospitare lo studio di Morgan. Qui potrà trasferirsi già nei prossimi giorni. L’arte e la creatività vanno sostenute in maniera concreta. Qui Morgan potrà insegnare il suo magistero ai giovani sensibili alla musica”
Morgan, Filippo Facci sullo sfratto: "Ha insultato i poliziotti, che hanno più dignità di lui". Libero Quotidiano il 26 Giugno 2019. L'hanno sfrattato, e d'accordo. Ma, artisticamente parlando: chi si incarica - è una domanda - di prendere a schiaffi Marco Castoldi detto Morgan? Altro che discussioni sulla sinistra dei nessuno (tipo Tomaso Montanari) che invadono i temi di maturità, altro che vecchi discorsi sull' egemonia culturale: qui l' abbiamo l' egemonia degli stronzi televisivi ma nessuno dice niente, anzi, i siti dei quotidiani si compiacciono e piazzano i video con gli insulti di questo fallito ai poliziotti che l' hanno legittimamente sfrattato da casa: come se lo spettacolo dovesse sempre continuare. Dunque ripeto, e chiedo: chi si incarica? Devo farlo io? Ne avrei titolo: sono nato a Monza come Morgan, ho la cultura musicale di quarantacinque Morgan (che faceva il figo, ieri, e citava Stockhausen, i cui concerti andavo a vedere nel 1986, quando Morgan non guidava ancora il motorino), ma soprattutto ho appena vissuto un' esperienza simile all' ex povero marito di Asia Argento: con la differenza che io ho dovuto vendere la casa di mia proprietà (la casa dei miei sogni) per darne il ricavato a Equitalia, mentre Morgan, scandalizzato, si è fatto sfrattare dalla casa di sua proprietà (perdendo tutto) pur di non pagare i debiti dei cittadini qualsiasi, quelli che non sono «artisti» e tirano avanti senza pettinarsi come Crudelia De Mon e usare cocaina come antidepressivo. Ma tornando allo sfratto: come ha reagito questo «artista», conosciuto per aver sposato una che dopo di lui, piuttosto, si è messa a limonare coi cani? Sentite che cosa ha detto alle forze dell' ordine che sono andate a sloggiarlo: «Lei è un boia codardo mamma mia che faccia da sbirro analfabeti come siete a voi le parole vi fanno paura perché siete poveri di letteratura siete ridicoli avete la faccia di gente che ha sempre preso cinque a scuola, perché voi non sapete un cazzo». Un classismo snobistico schifoso, e dall' alto di che cosa? Ripetiamo: di-che-cosa? Verrebbe l' impulso di citare Pier Paolo Pasolini, quello che «simpatizzava coi poliziotti perché sono figli di poveri» e che detestava i giornalisti che inseguono i Morgan, ma non vale la pena: sia perché a esser poveri, ormai, sono i giornalisti, e sia perché oggi i poliziotti non sono più appunto «poveri» (anche se non navigano nell' oro) ma è gente che si fa il mazzo e banalmente paga le tasse, gli affitti, i mutui, gente che non si fa pignorare casa; anche se magari pensano che Stockhausen sia un esterno del Bayern. «I poliziotti si cagavano sotto perché io avevo l' arma della parola e gli stavo leggendo dei sonetti di Shakespeare avevano già la mano nella fondina mi volevano far paura con le armi». È sempre il buffone a parlare: a smentirlo ci sono i video, dove i poliziotti sono tranquillissimi e hanno il pathos di chi sta comprando un etto di prosciutto. Poi, vabbé, c' è lo stupore di Morgan perché altri suoi amici «artisti» non l' hanno aiutato economicamente (Morgan ne cita qualcuno: Vasco Rossi, Jovanotti, Zucchero, Ligabue) i quali vengono definiti non «amici» (non più) bensì «individualisti che promuovono l' individualismo, perché loro devono fare il disco loro hanno come priorità il loro disco, come se al mondo importasse, come se fossero Stockhausen». Ridaje con Stockausen, forse l' unico che in Italia ha venduto meno di Morgan: del quale vi sfidiamo a ricordare una canzone che sia una. Quanto agli altri, oh, è davvero strano che dei cantanti (che a differenza di Morgan qualche canzone riescono addirittura a venderla) pensino a fare dei dischi anziché affrettarsi a elargire paccate di soldi a uno che non ha pagato i debiti o gli alimenti all' ex moglie, Asia Argento, altro personaggio - esattamente come Morgan - «famoso per essere famoso», come direbbe Roberto D' Agostino. A chi gli ha chiesto della questione degli sfratti nel Paese, Morgan ha risposto: «Sono al fianco di chi occupa le case, facciamo una battaglia per i diritti, avevo anche chiesto di venire a occupare la casa». Traduzione: manco i centri sociali se lo sono filato. Filippo Facci
Simone Bauducco per Il Fatto Quotidiano il 25 giugno 2019. “Sono l’ultimo bohémien di questo paese. Oggi mi sfrattano, ma questa è la legge, non è la giustizia che è al di sopra della legge”. Questa mattina Marco Castoldi, in arte Morgan, ha lasciato la sua villetta di Monza, dopo che nel 2017 il Tribunale aveva deciso per il pignoramento in seguito al mancato pagamento degli alimenti alle figlie delle sue ex mogli e un debito con Equitalia. Dopo il rinvio dello sfratto della scorsa settimana, l’artista aveva provato a salvare l’immobile senza successo e oggi punta il dito contro il sistema giudiziario e contro i suoi colleghi che lo hanno lasciato solo: “Vasco, Jovanotti e Ligabue pensano solo a fare dischi, non sono stati al mio fianco”. Di fronte ai giornalisti ha raccontato di aver passato l’ultima notte scrivendo due canzoni e a chi gli chiede della questione degli sfratti nel paese: “Sono al fianco di chi occupa le case, facciamo una battaglia per i diritti, avevo anche chiesto di venire a occupare la casa”.
Valentina Baldisserri per corriere.it il 24 giugno 2019. «Non sono preparato a questo, né psicologicamente né praticamente...». Il giorno della resa dei conti è ormai arrivato per Morgan che affida al suo canale ufficiale sul web gli ultimi affannosi pensieri alla vigilia dello sfratto che stavolta sembra inevitabile. Sono le ultime 24 ore (o anche meno) in quella che è stata la sua casa e che dopo il pignoramento deciso dal Tribunale di Monza nel 2017 per debiti, è stata venduta all’asta. Morgan dovrà andar via dal civico 8 di via Adamello martedì 25 giugno, quando arriverà il custode giudiziario e lo inviterà ad uscire. Dieci giorni fa fu rinvio per un malore, questa volta difficilmente potrà intervenire qualche novità che salvi Marco Castoldi da un destino segnato. E di questo oggi il cantante, aldilà della teatralità dei gesti, sembra ben conscio. Dei 200 mila euro che Morgan aveva detto di voler raccogliere in pochi giorni per fare un’offerta a chi aveva comprato all’asta la sua casa, non si parla neppure più. Evidentemente la colletta non ha funzionato. Così il cantante ha deciso di entrare in contatto col nuovo proprietario della sua ex abitazione. Gli ha scritto su whatsapp, gli ha chiesto di incontrarlo nel tentativo forse di cercare un’ultima sponda. «Per me tutto ciò rappresenta un grande dolore che si aggiunge ad una vita complessa e tragica che trova un senso nella creatività ma è innegabilmente piena di ferite: Io devo elaborare questa nuova sofferenza come si elabora un lutto, con forza e statura morale». L’altro gli ha risposto di sì all’incontro , ma soltanto dopo lo sfratto. Nessun aiuto dunque, nessun ripensamento. E la delusione di Morgan è esplosa colpendo un po’ tutti, anche quei colleghi «Che non hanno mosso un dito», quegli amici a parole «ma quando si tratta di dare...», quei parenti della famiglia paterna : «Che hanno la casa di mia nonna disabitata ma a me non la danno...». La mamma di Morgan, in una conversazione whatsapp resa pubblica, lo consola e lo sprona ad andare avanti nonostante questo sfratto: «So che la cosa per te ha tanti ricordi ma uno giovane come te ha anche bisogno di cose nuove. Confido in una tua maturità. Sorridi il lavoro ti va bene, hai tanta gente che ti vuole bene, sei un musicista».
Da la Zanzara – Radio 24 il 25 giugno 2019. “Nella Costituzione si parla di protezione dell’essere cittadino, dell’uomo, in quanto lo Stato garantisce il diritto al lavoro e fa in modo che tutti gli ostacoli che vanno a impedire il diritto sacrosanto al lavoro, verranno rimossi dalla Repubblica. Allora io dico che se questa casa è un luogo di vita ed io non ne ho un’altra, un luogo dove c’è tutto il mio lavoro, tutto, completamente tutto, quindi ci sono i miei strumenti, c’è il mio archivio, il mio passato e il mio futuro e gli strumenti di lavoro, vuol dire che questa è una doppia azione contro di me. Non solo va ad impedire quella che è la mia vita… cioè io non avrò più un tetto, ma neanche il lavoro”. A La Zanzara su Radio 24 Morgan parla di Costituzione violata a proposito dello sfratto, poi attacca il conduttore Giuseppe Cruciani e i suoi colleghi artisti definiti “codardi”: “La casa non dovrebbe essere pignorabile. Ma se la perdi ti devono almeno dare dei servizi, lo Stato deve farlo. Ma cazzo, quando uno ha un figlio handicappato, ce l’ha perché ha fatto un errore nella vita. Gli errori sono umani….La gente ha dei bambini, figli handicappati nel momento in cui saranno tossicodipendenti…(?)… hanno fatto un errore, ma come fanno li uccidono?”. Ma tu qualche errore l’hai fatto coi soldi: “Tu devi indagare il perché sono arrivato ad una situazione debitoria. Non puoi portar via una casa ad uno che non ne ha un’altra. Lo uccidi.Ma che cavolo me ne frega di dirli a voi gli errori. Vai in tribunale a parlarne, occupatene”. Non c’è lo Stato cattivo e il Morgan buono: “Sei anche una persona insensibile, se fai così. Non solo un po’ sciocco, anche insensibile. Oltre a problemi di ragionamento, hai anche problemi di cuore”. Poi Parenzo dice: Io sto con Morgan. E lui: “Ma va a quel paese. Parlate di cose che non capite”. Perché i tuoi colleghi non ti stanno aiutando?: “I miei colleghi sono, diciamo così, dei codardi. Perché pensano solo al loro denaro, pensano solo al loro disco, alla loro classifica. Fanno finta di essere dei cantautori impegnati, ma sono impegnati stocazzo. Non sanno neanche così significhi più l’impegno da un punto di vista sociale e culturale. Questa è gente che pensa solo ai conti in banca. Jovanotti, Ligabue, Zucchero, tutti, tutti. Vasco Rossi comunista di chi, di che? Comunista, ma quale comunista? Si fanno i cazzi loro e basta. Nessuno che parla, nessuno che dice, nessuno che fa un dibattito. Ma dov’è l’intelligenza in questo paese? Siamo morti da anni. Non ci caga nessuno, non ci caga nessuno. E fanno bene. Non siamo nessuno. Siamo degli sfigati provinciali morti...”. Questo solo perché non dicono una parola su di te?: “Ma va a cagare. I miei colleghi non sono stimolabili, non hanno un briciolo di reazione. Perché soltanto l’empatia con un collega che fa determinate dichiarazioni…Loro sono tanto bravi però tu vendi centomila copie e vengono a chiederti di fare il duetto. Io ho venduto cento, tu hai venduto cento, allora possiamo fare il duetto. Così ragionano questi coglioni. Lo vuoi capire che pensano solo ai soldi, perché non c’hai un’idea di quello che fanno…. Di questi qua in realtà non voglio neanche parlarne. Non ascolto la loro musica perché fa cagare. Loro dicono devo fare un disco, devo fare un disco, ma quel devo devono toglierselo. Quando dicono mi dispiace Morgan, amico, ti vogliamo tanto bene, ma sono in studio, non posso venire. Devo fare un disco. Devo. Ma questo dovere dove sta? E’ il dovere di mantenersi un conto corrente. O il dovere che certi menomati lobotomizzati ascoltano la loro musica. Sappiano questi signori che nel mondo non gliene frega un cazzo a nessuno di quello che fanno. E’ ovvio che siano completamente stupidotti. Sono finti pensatori. Io invece avrei l’ideale, diciamo, di una classe di cantautori come De Andrè, come Tenco, come Gaber. Facevano battaglie questi signori”. Qualcuno ti sta aiutando però: “Mi sta aiutando la moglie di De Andrè e sai perché? Non è che Dori Ghezzi sia Fabrizio De Andrè, sono ben diversi, ma almeno respira ed ha respirato quella che è l’anima di un grande poeta come De Andrè, che si sarebbe incazzato come una bestia di fronte ad una cosa del genere”. Non è che se non ti aiutano, diventano immediatamente dei figli di puttana, forse hanno sempre pensato ai cazzi loro: “E bravo, vai a difendere una società di individualisti di merda. Vai a difenderla, complimenti. Poi il risultato sai qual è? Che in questa società, diciamo dell’Italia di oggi, alla fine c’è un sacco di pattume in giro. L’individualismo rende una merda il paese che invece è bellissimo. E’ un paese dove non gliene frega un cazzo a nessuno di niente. Io mi lamento perché sono una persona che ha dato tantissimo, dato tanto tanto tanto per il vostro sollazzo di segaioli davanti al televisore. Per divertire voi, coglioni. Non siete in grado di raccogliere questo esempio. Mi fate vivere una situazione indecente che non merito”. Ma forse te la sei creata da solo e poi anche tu sei uno che vende un prodotto: “Me la sono creata da solo? Smettetela. Anche io vendo il mio prodotto? Non rompere, dai, sei stupido, io non parlo con uno stupido. Sei stupido. Anch’io vendo? Io adesso mi metto a vendere il deretano in viale Zara. Domani dove vado? Che cosa te ne frega? Perché sei uno di quelli che non raccoglie assolutamente nulla di quello che ho detto”.
Dagospia il il 25 giugno 2019. Riceviamo e pubblichiamo da Massimiliano Parente: Caro Dago, sono commosso dallo psicodramma di Morgan che accusa Vasco Rossi, Jovanotti e Ligabue siccome, avendo lui ricevuto lo sfratto, loro non gli danno i soldi per aiutarlo perché "non sono dei veri comunisti” e “ pensano solo ai soldi". Sinceramente non so quanto Vasco Rossi si sia mai dichiarato comunista, ma forse gli altri due sì, e il principio è giusto. E quindi, vivendo io da vent’anni solo di diritti d’autore, ho pensato di chiedere pubblicamente un bonifico a Roberto Saviano, a Erri De Luca, a Michela Murgia, a Antonio Scurati, a praticamente tutti gli autori italiani, i quali sicuramente guadagnano molto più di me, molto più di me che fatico perfino a pagarmi una escort, e a differenza mia non hanno mai scritto opere fondamentali. Tra l’altro io non sono comunista, loro sì, dovrebbero farlo per partito preso. Ringrazio Morgan per aver sensibilizzato l’opinione pubblica su questa grave tematica artistica, ideologica e sociale. Baci, Massimiliano Parente.
Morgan e Asia Argento, dall'amore agli scontri in tribunale (e a «Live - Non è la D'Urso»). Pubblicato venerdì, 14 giugno 2019 da Corriere.it. Lo sfratto incombe ma Morgan non ha intenzione di muoversi dalla sua abitazione, pignorata e battuta all'asta a causa degli assegni per il mantenimento della figlia Anna Lou non versati. In collegamento mercoledì sera a «Live - Non è la D'Urso» il cantautore ha rinnovato la richiesta di aiuto alle madri delle sue due figlie: «Io chiedo aiuto morale, chiedo di ritornare ad essere persone sensibili e capaci di dialogare. Non chiedo soldi, smettiamola di litigare». Destinatarie dell'appello Jessica Mazzoli, ex concorrente di «X Factor» e del «Grande Fratello 16» nonché mamma di Lara, ma soprattutto Asia Argento. È stata quest'ultima infatti a dare il via al procedimento giudiziario che lo priverà dell'amata casa, ultimo atto di un rapporto caratterizzato - da sempre - da alti e bassi.
Taylor Mega durissima contro Morgan: "Grazie a Dio mi sono disintossicata". Lo sfratto di Morgan è stato bloccato a seguito di un malore. Ma proprio in queste ore, Taylor Mega lancia una frecciatina al veleno. Anna Rossi, Venerdì 14/06/2019, su Il Giornale. Proprio questa mattina sarebbe dovuto iniziare lo sfratto di Morgan. La sua casa, infatti, è stata pignorata per il mancato pagamento degli alimenti ai figli delle ex compagne Asia Argento e Jessica Mazzoli. Tutto sembrava pronto, tutto era stato annunciato anche nel corso dell'ultima puntata di Live-Non è la d'Urso, ma ora sembra essere arrivato lo stop perché Morgan sta male e fuori dalla sua abitazione a Monza si sono fatti trovare decine di fan del cantante. Come riportato da Fanpage, quindi, pare che lo sfratto previsto per oggi, sia stato rimandato e che per il momento Morgan potrà rimanere nella sua abitazione in via Adamello a Monza. Il motivo del rinvio sarebbe l'arrivo di un medico sul posto, chiamato – probabilmente – per soccorrere il cantautore colto da un improvviso malore. Ma questi sono i fatti, ora spunta un commento piuttosto duro. Nel corso dell'ultima puntata di Live-Non è la d'Urso, infatti, Morgan si appellava ai suoi fan chiedendo di aiutarlo a "boicottare" questo sfratto. Il video dell'appello è diventato virale sui social e anche un'insospettabile Taylor Mega ha voluto commentarlo. "Ringrazio Dio di essermi disintossicata e di non aver fatto sta fine", scrive Taylor. Parlo fortissime che vanno a virare su un altro tema. Sempre piuttosto delicato...
Grande Fratello, Jessica Mazzoli e la rivelazione intima su Morgan: "Mi ha inseguito nei camerini e poi...", scrive il 14 Aprile 2019 Libero Quotidiano. Nuovi clamorosi dettagli sulla storia tra Jessica Mazzoli e Morgan. Al Grande Fratello è la giovane cantante a rivelare com'è nata la relazione con il cantante, poi finita in disgrazia con tanto di figlia trascurata dall'ex leader dei Bluvertigo. I due erano rispettivamente giudice e concorrente a X Factor 2012. Una sera "mi ha inseguito nei camerini, ero appena stata eliminata dalla semifinale, e mi ha detto: Ti amo, voglio passare la mia vita con te. Questo è stato l'inizio. Per un periodo le cose andavano benissimo, altrimenti non avrei deciso di farci una figlia". Poi però è andato tutto a rotoli e a coinquilini della casa Jessica non lesina altri particolari privati: "Lui in tv da Barbara D'Urso ha detto che vorrebbe dei rapporti con mia figlia. E poi non mi risponde al telefono? Poi ha detto che a Natale stava male. Pensa che a Natale gli volevo pagare il viaggio per vedere la bimba. Meglio che sto zitta, per lui esiste il Dio denaro. Io non voglio fargli fare figure di merda, io sto solo dicendo la verità su me, lui, Asia Argento, la nuova ragazza e quello che è successo".
Grande Fratello, Jessica Mazzoli e la D'Urso "sotto choc". Corna e lingerie: "Con chi mi tradiva Morgan", scrive il 14 Aprile 2019 Libero Quotidiano. "Barbara D'Urso era shoccata". Nella casa del Grande Fratello la ex di Morgan, Jessica Mazzoli, continua a regalare ai coinquilini dettagli piccanti sulla storia con il cantante ex leader dei Bluvertigo e giudice di X Factor, con cui ha avuto una storia e una figlia e con cui ora ha rapporti ai minimi termini. "Ma come può dire che l'ho incastrato? - si sfoga Jessica - Ma ci rendiamo conto? Mi ha fatta soffrire. Barbara era sconvolta. La D'Urso era senza parole proprio. Lui ha detto in diretta Jessica mi ha incastrato. Io me ne sono andata che la bambina aveva tre mesi. Lui mi ha portato ad andare via. Siamo stati in casa insieme più di un anno. Lui ha sempre espresso il desiderio di volere un altro figlio. Io ero appena uscita da X Factor mi avevano chiamato per lavorare da Teresa Mannino. Però per me era presto diventare mamma. Lui ci provava, così tanto, stavamo insieme, ci amavamo e così è successo. Poi è finita dopo che è nata la bambina. Ma il bello è che io sono venuta a sapere che lui stava con questa ragazza che io mi ritrovavo sempre nelle hall degli alberghi quando stavo con lui. Una groupie pazza di quelle che seguono i cantanti. Con questa ci sta ancora, con una sciroccata. Ma poi lui mi diceva Questa ragazza è una spalla per me. Ma non ci credo, loro stavano insieme già da prima. Lei è andata a trovarlo insieme ad un'altra ragazza, quando io stavo ancora con lui. Una volta trovai della biancheria intima non mia". La Mazzoli è un fiume in piena: "Io mi sentivo con Asia Argento in privato e lei faceva la solidale con me, visto che c'era passata da quella situazione. Io mi aspettavo che mi potesse dare dei consigli. Lei invece ha contribuito a questa cosa per i suoi scopi e interesse personali. Però vabbè, sti cavoli di Asia. Qui lo stronzo era lui".
Gf, la ex di Morgan attacca: "Se vuole vedere sua figlia deve fare un percorso psicologico riabilitativo". La ex di Morgan replica alle accuse del cantante: "Io non l'ho incastrato. Nostra figlia è frutto dell'amore", scrive Serena Pizzi, Martedì 09/04/2019 su Il Giornale. Il Gf parte col botto. Il cast è letteralmente esplosivo, la conduttrice e gli opinionisti pure. Dopo un primo sketch fatto di battute e presentazione dei primi concorrenti, è arrivata la volta di Jessica Mazzoli, la ex compagna di Morgan. Jessica ha passato gli ultimi quattro giorni chiusa in un albergo, lontana da televisione e telefono. Per questo non ha potuto vedere quanto dichiarato dal suo ex a Live-Non è la d'Urso. Nel corso dell'ultima puntata, infatti, Marco Castoldi ha spiegato di voler fare il padre, ma che Jessica glielo impedisce. Per questo non ha mai visto in sei anni sua figlia Lara, se non due volte. Per Morgan, quindi, la colpa è di Jessica ("Lei mi ha incastrato"), ma per la Mazzoli la realtà è un'altra. E la svela proprio nella prima puntata del Gf. "Lara è stato frutto dell'amore, è stato cercato da entrambi - ha attaccato la ex di Castoldi -. Lui ha sempre espresso questo desiderio. Se poi lui si è pentito, questo non gli dà il diritto di sputare cattiverie su un figlio. Usare il termine incastrare per una bimba fa schifo. Io spero che mia figlia non veda mai quell'intervista. Io non gli ho mai portato via la bambina. Lui sapeva cosa avrebbe dovuto fare per vedere la bambina, lui aveva problemi psicofisici. Io per il bene di mia figlia me ne sono andata". La verità di Jessica è diametralmente opposta. La ragazza madre - così lei si definisce - non avrebbe mai impedito a Morgan di conoscere sua figlia, "ho rinunciato a 5 anni di alimenti perché ci fosse pace tra me e lui, lui non può dirmi che l'ho usato solo per i soldi", se solo lui avesse seguito un percorso "psicologico riabilitativo genitoriale che hanno stabilito ben due giudici avrebbe potuto conoscere sua figlia. Se vuole avere un rapporto con la figlia lui sa cosa deve fare". La Mazzoli cita una serie di episodi per far capire di cosa sta parlando. "Mia figlia ha gli occhi verdi scuri e lui non lo sa - ha aggiunto -. Un Natale avevamo organizzato di vederci e poi è scomparso. Lui non risponde al telefono. Questo uomo sparisce, non sono io che non gli faccio vedere Lara". Le parole di Jessica sono piuttosto dure e anche le sue accuse. "Se quello che stai dicendo è vero, stai sputtanando Morgan", sentenzia Cristiano Malgioglio. Ma a Barbara d'Urso interessa solo che la piccola Lara possa avere un rapporto con il padre. "Sei disposta a dargli questa possibilità?", chiede la conduttrice. Ma Jessica è perplessa: "Lui deve prima fare questo percorso". "So che in questa sede non ci sarà la riappacificazione - chiude la d'Urso -. Ma io ci spero come è successo a Bobby Solo e Veronica".
#MeToo, Catherine Spaak: "Ne parlai tanti anni fa, ma c'era omertà". L'attrice svela: "Quando è esploso lo scandalo non sono stato sorpresa, avevo già parlato di questo problema anni prima, ma molte colleghe avevano risposto che a loro non era mai successo nulla. Non c'era alcuna solidarietà femminile", scrive l'1 marzo 2019 La Repubblica. Catherine Spaak a "I Lunatici", su Rai Radio2, ha parlato di #metoo: "Quando è esploso lo scandalo non sono stato sorpresa, avevo già parlato di questo problema anni prima, ma molte colleghe avevano risposto che a loro non era mai successo nulla. C'era molta omertà, nessuna solidarietà femminile". "Io ho avuto dei problemi, come tutte le donne che fanno questo mestiere e non solo, perché il problema riguarda tutte le donne in tutti gli ambienti, non solo nel cinema". Ed ha aggiunto: "Quando sono arrivata in Italia ero giovanissima, non parlavo una parola di italiano, ero in una nazione sconosciuta. I film duravano moltissimo, fu una grossa fatica. Non è la prima volta che l'attrice affronta questo delicato argomento. Ne aveva parlato il 5 ottobre 2018. Ospite per la prima volta a Verissimo, aveva confidato di aver subito nel corso della sua carriera di attrice alcune molestie: “Non ho mai subito niente di spaventoso, ma delle molestie sicuramente sì". "L'Italia era molto diversa dalla Francia - racconta Spaak a 'I Lunatici' - , si stupivano tutti che a 15 anni fossi arrivata da sola, la mia libertà era quasi inverosimile. Per quanto riguarda le donne le regole erano diverse da quelle francesi, si sognava la libertà, si sognava la patente, si sognava di uscire la sera e fare tardi, ma in Italia la vita delle ragazze della mia età era difficile, c'erano dei genitori severi, delle regole da osservare, erano sorvegliate e poco indipendenti". L'attrice ha ripercorso alcune tappe della propria carriera: "Pensavo che il cinema fosse abitato da persone aperte, libere, con una certa mentalità, e invece in Italia non era così - ha aggiunto -. C'erano delle regole dure, il modo di girare era diverso da quello di oggi, sul set c'erano trenta quaranta uomini tra tutti quelli che lavoravano mentre di donne c'era l'attrice, la sarta e la segretaria di edizione, quindi era un mondo di uomini, con le regole degli uomini e una sicura ed evidente misoginia. "Erano tempi diversi rispetto ad oggi, almeno in parte". Sull'Armata Brancaleone: "Per me girare quel film fu un periodo atroce. Sul set riuscivo a stento a trattenere le lacrime. Erano tutti uomini, c'erano poche donne nel film e quando ero sul set ero sola. Mi prendevano in giro, gli uomini poi quando sono in gruppo diventano anche peggio di come sono da soli. Ci fu bullismo nei miei confronti, una cosa molto difficile da gestire per una donna giovane". Su Febbre da Cavallo: "Ci siamo divertiti tantissimo con Gigi Proietti, nella scena in cui gli tiro i piatti e lui salta sul letto. Ha rotto il soffitto di un appartamento mentre giravamo quella scena. Né io né Gigi ci stavamo rendendo conto che eravamo a girare un film che sarebbe diventato un cult conosciuto a memoria da tantissime persone". Catherine Spaak ha poi parlato di Monica Vitti ed Alberto Sordi: "Ero amica di Monica, ho fatto l'unico film di cui lei ha curato la regia, interpretavo l'amante di un uomo. Monica la frequentavo al di là del lavoro, abitavamo vicine all'epoca, era divertente, molto simile ai suoi personaggi, è una donna deliziosa, ironica, imprevedibile, gentile. Di lei ho un bellissimo ricordo. Anche se sul set capii che lei non stava benissimo. "Aveva dei vuoti di memoria, cambiava le battute, iniziò ad essere diversa dalla Monica che conoscevo. Sordi invece l'ho frequentato solo sul set, durante il film. Uomo delicato e gentile". Su Claudia Cardinale: "Una grande amica. Per l'epoca era abbastanza raro mettere insieme due donne che avevano sempre fatto ruoli da protagoniste. Fu un'idea di Silvio Clementelli metterci insieme. Ci siamo molto divertite. Lei all'epoca era molto controllata, la prendevo in pausa pranzo, mangiavamo insieme, ridevamo come pazze. Siamo rimaste amiche fino a quando è tornata a vivere in Francia". "Ho un bel ricordo anche di Stefania Sandrelli. Non dico che eravamo amiche, perché non ci frequentavamo tantissimo, ma quando ci capitava di lavorare insieme era sempre un piacere, spesso ci scambiavamo i lavori, parlavamo con grande libertà e amicizia di queste cose".
Torna stasera, venerdì 1° marzo 2019 alle 22:45 sul Nove “LA CONFESSIONE” di Peter Gomez. Prima ospite del giornalista è Lory Del Santo, diventata nota negli Anni '80 con "Drive in" di Antonio Ricci e nota alla cronaca rosa per le sue numerose relazioni con uomini potenti del mondo dello spettacolo e dell'imprenditoria, da Adnan Khashoggi a Eric Clapton, da Gianni Agnelli a Donald Trump. Il conduttore affronta la relazione fra sesso, potere e carriera. "È giusto o sbagliato concedersi sessualmente per fare carriera?", chiede alla ex showgirl. "Io non trovo che ci sia niente di sbagliato se effettivamente porta a qualcosa - spiega l'ex concorrente dell'ultimo Grande Fratello Vip - Il dramma è farlo e poi non riuscire a ottenere ciò che si vuole perché uno accumula una rabbia che poi magari distrugge nel tempo".
Si passa al tema delle molestie: "Lei ha subito avance pesanti nella sua vita?", domanda Gomez. La soubrette ammette: "Ci sono delle persone che mi hanno fatto intendere che avrebbero voluto stare con me: potenti del cinema - precisa -, ma non mi hanno offerto niente in cambio. Era come dire che già dovevi essere onorata di andare con loro...".
Un esempio? "Mi è successo con registi, produttori, ad esempio Sergio Leone, ma lui me l'ha proposto prima ancora di dirmi: ‘Ti farò fare una parte’, racconta l'attrice che prosegue spiegando di non aver ricevuto alcun ingaggio: "Non mi aveva promesso niente, quindi io ho detto: 'Scusa, vado con uno, e non mi ha promesso niente?' Quindi ho detto di no. Io ho detto, no, l'importante è poter dire no".
A seguire, in onda l’intervista a Luciano Moggi, ex dirigente sportivo in forza per anni al Napoli, alla Juventus e in altre squadre di serie A. Il direttore de ilfattoquotidiano.it entra sul rapporto tra il giocatore dell'Inter Mauro Icardi e la sua potente procuratrice, nonché moglie Wanda Nara, partendo dalle frasi sessiste di Fulvio Collovati pronunciate a Quelli che il calcio: “Quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco perché una donna non ne capisce come un uomo”.
Moggi dissente: "Questo non è vero, conosco delle donne che praticamente capiscono di calcio, magari tatticamente non...”, e aggiunge: “L'invasione di questa Wanda Nara, secondo me, è un'invasione di campo. Non può parlare tutti gli anni del discorso del campionato, del prolungamento del contratto, tutti gli anni l'aumento”. Per Gomez potrebbe anche essere un procuratore particolarmente attento, ma Luciano Moggi chiosa: “Con me, le devo dire, neppure si sarebbe presentata", e conclude: "No, è un procuratore che fa danni".
Usa, via il nome di John Wayne dall'aeroporto: "Era razzista e omofobo". L'appello è stato lanciato dalle pagine del Los Angeles Times dopo la diffusione di una vecchia intervista all'attore, scrive il 3 marzo 2019 La Repubblica. "E' arrivato il momento di togliere il nome di John Wayne dall'aeroporto dell'Orange County. Lo sapevano tutti che era simpatizzante dell'ultra destra, razzista e omofobo", si legge sul Los Angeles Times. La polemica è scoppiata dopo la ripubblicazione di una vecchia intervista a Playboy, linkata integrale nell'articolo del La Times, in cui il celebre attore americano afferma di credere "nella supremazia bianca finché i neri non saranno educati ad un livello di responsabilità". L'intervista, resa pubblica nel 2016 quando la figlia dell'attore, Aissa, diede il suo sostegno alla candidatura di Donald Trump, è del maggio 1971, otto anni prima che Wayne morisse di cancro e gli venisse dedicato l'aeroporto di Santa Ana, California, dove viveva. Un omaggio ad un attore leggendario, che ha recitato in oltre 150 film, oltre la metà dei quali western, interpretando spesso il ruolo dell'eroe senza macchia e senza paura. Candidato a tre premi Oscar, aveva ottenuto la medaglia d'oro dal Congresso e la medaglia della libertà dal presidente degli Stati Uniti. Il dibattito sulla sua dubbia statura morale, ha assunto un carattere nazionale. Questa - scrive il quotidiano californiano - non sarebbe la prima volta che il nome dell'aeroporto diventa oggetto di dibattito. I supervisori della contea di Orange hanno riflettuto sulla questione già nel 2008, quando i funzionari del turismo locale espressero la preoccupazione che il nome non riuscisse a comunicare esattamente dove si trova l'aeroporto. L'aeroporto venne battezzato col nome di Wayne nel 1979, sotto la spinta del supervisore Thomas F. Riley, ex marine. La logica - scrive sempre il La Times - ormai si è persa nella notte dei tempi. La decisione forse aveva qualcosa a che fare con lo status di Wayne come conservatore repubblicano, immagine che rispecchiava l'Orange County di quel periodo. Ma quella contea non esiste più, lo dimostrano i risultati delle elezioni di novembre. Orange County oggi è una comunità talmente eterogenea che è difficile giustificare con qualsiasi membro di questa comunità di imbarcarsi su aerei in un aeroporto intitolato a un vero razzista e omofobo, con la sua statua che occupa lo spazio centrale di fronte all'atrio. Qualche stralcio dell'intervista con le affermazioni cui fa riferimento il quotidiano americano: "Non capisco perché la gente insista sul fatto che ai neri sia stato proibito il diritto di andare a scuola. Erano ammessi nelle scuole pubbliche ovunque io fossi. Anche se non avessero le credenziali adeguate per il college, ci sono corsi per aiutarli a diventare idonei. Ma se non sono culturalmente pronti per quel passo, non penso che dovrebbero essere ammessi. Altrimenti, la società accademica si riduce al minimo comune denominatore". "I film una volta venivano realizzati per tutta la famiglia. Ora gli studios se ne stanno uscendo con quelle cialtronate. Sono abbastanza sicuro che entro due o tre anni, gli americani saranno stufi di questi film perversi. Playboy: Che tipo di film intende per perverso? "Easy Rider, Midnight Cowboy. L'amore di quei due uomini in Midnight Cowboy, una storia su due froci (in inglese l'attore usa il termine offensivo fags, ndr), si qualifica da sola no?
Wilton Manors, la città americana dove tutto è Lgbt, scrive il 2 marzo 2019 Roberto Vivaldelli su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. Negli Stati Uniti esiste una città che si dichiara completamente pro-Lgbt. Wilton Manors è una cittadina della Florida di quasi 12 mila abitanti, situata nella parte centrale della Contea di Broward. Dallo scorso novembre, è diventata “la seconda città più gay d’America”, grazie all’elezione di una giunta comunale completamente Lgbt. Justin Flippen, primo cittadino è gay, così come lo sono anche gli altri membri della giunta cittadina, Gary Resnick e Paul Rolli, Tom Greeen e Julie Carson, tutti appartenenti alla comunità omosessuale locale. Qui, come racconta Vice News, sopra il Municipio sventola una bandiera arcobaleno così come arcobaleno sono dipinte le auto della polizia. “Wilton Manors è una città che ha davvero aperto la strada in termini di inclusione e uguaglianza Lgbt”, ha dichiarato Stratton Pollitzer, vice direttore del gruppo Lgbtq-rights Equality Florida. “È la città natale della nostra comunità”.
Wilton Manors, la città completamente Lgbt. Come racconta Forbes, la città è considerata un villaggio gay dall’aspetto un po’ kitsch a causa della sua insolita concentrazione di residenti Lgbt e di attività commerciali e locali notturni rivolti ai gay. Sulla base dei dati del censimento del 2010, Wilton Manors è stata definita la seconda città più gay in America (dopo Provincetown, Massachusetts) con 140 coppie gay ogni mille famiglie. La sua strada principale, la Wilton Drive, è un tripudio di negozi, ristoranti e attività Lgbt. “Wilton Manors è conosciuta per la sua variegata comunità e ha avuto un sindaco apertamente gay per molti anni”, afferma David Packard, presidente del Fort Lauderdale Stays e attualmente “vanta anche un consiglio comunale al 100% gay”. Secondo Vice News, Flippen, che in precedenza era vicesindaco, ha dichiarato di voler promuovere e proteggere i tradizionali i quartieri unifamiliari. Vuole inoltre combattere le maree e le inondazioni che affliggono la Florida del Sud e spera di ottenere l’approvazione pubblica per il piano di azione a favore del clima, che mira a ridurre le emissioni di gas serra dell’1% ogni anno fino al 2028.
Anche la polizia è pro-Lgbt. Le immagini dell’auto della polizia completamente colorata della cittadina che fa dell’orgoglio gay una bandiera hanno fatto il giro del mondo. “Sebbene il nostro veicolo Policing with Pride del Dipartimento di Polizia di Wilton Manors sia nuovo, il significato dietro di esso e questa iniziativa non lo sono”, ha spiegato l’ufficiale di polizia Jennifer Bickhardt a Gay Star News. Il Dipartimento di polizia di Wilton Manors, spiega, “è impegnato ogni giorno a proteggere i cittadini. Siamo a servizio di tutti, nella nostra comunità, non importa chi sei, che aspetto hai, da dove vieni, o chi ami. Ogni agente di polizia di Wilton Manors ha giurato di proteggere e servire la popolazione e di essere orgoglioso del distintivo e della comunità”. “Siamo molto orgogliosi della nostra forte relazione con la comunità lgbt”, ha affermato il detective Ernesto Rodriguez, portavoce del dipartimento. Perché tutto, a Wilton Manors, è pro-Lbgt, polizia compresa.
Perché Kamala Harris vuole abolire il Columbus Day, scrive il 2 marzo 2019 su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. Kamala Harris vuole, anzi deve, recuperare terreno a sinistra. Si spiega così, con un mero calcolo politico, la scelta della candidata alle primarie democratiche, che è tra i favoriti per la nomination. di aderire alla battaglia tramite cui una parte degli asinelli vorrebbe abolire il Columbus Day. Tutti, di questi tempi, vanno a rimorchio di Alexandria Ocasio Cortez, che è stata una delle prime a segnalare il caso: aveva proposto di eliminare la festività dedicata allo scopritore italiano, sostituendola sul calendario con il giorno in cui si tengono le votazioni, cioè l’Election Day. In concomitanza con le presidenziali o con l’elezione del governatore di uno Stato, insomma, i cittadini americani potrebbero, in caso la cosa prendesse piede, non andare a lavoro. Kamala Harris, a guardare bene, sta andando a rimorchio della maggior parte delle proposte avanzate dalla più giovane deputata della storia degli Stati Uniti. Dal grande piano ambientalista, anche detto “Green New Deal”, alle proposte in materia sanitaria, quasi tutti si stanno facendo dettare i tempi da una ventinovenne. Pure l’ex premier Paolo Gentiloni ha fatto riferimento, all’interno di un convegno svoltosi nel Belpaese, alla vicenda politica della Cortez. L’internazionalismo e la passione dei politici del centrosinistra italiano per i leader della sinistra occidentale non fanno più notizia. La Harris, che per ora non è imitata nel Belpaese, è una candidata progressista, buona per il centro, ma pure per la sinistra democratica. La senatrice della California potrebbe essere maldigerita dagli elettori e dai simpatizzanti socialisti, che nel frattempo stanno continuando a donare somme di denaro a Bernie Sanders. Il “vecchio leone” del Vermont ha già raggiunto la soglia dei 10 milioni di dollari. Questo trend sembra spaventare Donald Trump, che ha iniziato ad attaccare il senatore settantasettenne a testa bassa. Il quadro è in movimento. Fornite queste brevi informazioni, è possibile comprendere il perché di questo dibattito attorno al 12 ottobre. Cristoforo Colombo è, da qualche anno, un vero e proprio oggetto di propaganda politica. Il navigatore è stato pure vittima, per così dire, della “guerra delle statue”. Le grandi città finanziarizzate mettono al bando la sua figura, perché gli amministratori delle stesse la ritengono identificabile, magari responsabile, con lo sfruttamento, il maltrattamento e il genocidio perpetrato ai danni delle popolazioni indigene. Kamala Harris è indo – giamaicana, ma “indo” sta per originaria dell’India per parte di madre. Ma questa è una buona occasione per strizzare l’occhio a una minoranza e, nel contempo, gettare la canna da pesca nello stagno dei voti a tinte socialiste. Dove queste istanze sono più sentite. Le guerre con le popolazioni indigene sono state una costante dei primi secoli americani. A Wounded Knee, per citare uno dei casi meglio sciorinati dalla storiografia, sono stati uccisi, attraverso modalità atroci, centinaia di indiani Sioux. Tra questi, soprattutto minori e persone di sesso femminile. Era il 1890, quattrocento anni dopo l’attracco delle tre caravelle. Il governo di allora desiderava l’annessione di quei territori. Colombo era morto da un po’. Eppure, i conti con il passato, i democratici li fanno con l’esploratore genovese.
· La Donna e l’Utero in Affitto.
Patrizia Floder Reitter per “la Verità” il 29 novembre 2019. «Sono una credente, una moglie, mamma casalinga di 5 figli e creativa». Così si presenta nel suo blog Jessica Girado, 35 anni, influencer californiana con la passione della fotografia, ma anche di creme e cure di bellezza che raccomanda ai follower su Instagram. Non consiglia solo come prendersi cura di sé, spiega quanto «i piani del Signore sono sempre buoni» pure se scegli di dare il tuo utero in affitto. Jessica afferma di non farlo per soldi ma per «spirito di servizio», sembra una storia tutto sommato positiva malgrado abbia accettato di essere madre su commissione e dichiari: «Lo farei decisamente di nuovo», però non è così. A distanza di due mesi dalla nascita di due gemelli per conto di una coppia cinese, la donna ha raccontato al settimanale statunitense Parade che quella gravidanza surrogata «mi ha fatto male. Il mio corpo è rimasto ferito». Ha avuto problemi fisici e psichici. Ecco la sua storia, che molto dà da pensare mentre ci sono politici che vogliono rendere legale la maternità surrogata. Come la senatrice Monica Cirinnà, sostenitrice della pratica sebbene sia ritenuta dalla Consulta profondamente lesiva della dignità della donna. «Se l' utero è mio per interrompere la gravidanza, perché l' utero è meno mio per fare il figlio per qualcun altro?», ha urlato una settimana fa durante le celebrazioni a Ferrara dei tre anni della legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso. Sposata con un pastore evangelico, la signora Girado un anno fa decise di comune accordo con il marito di «mettersi a disposizione» di coppie che non potevano avere figli, rivolgendosi a un' apposita agenzia. Selezionata, dopo aver superato test fisici e psicologici, aveva posto un' unica condizione: poter conoscere i genitori per i quali faceva da incubatrice vivente. Era stata accontentata, venne scelta da un uomo e da una donna di nazionalità cinese che volevano per il «loro» figlio, anzi per la coppia di gemelli che ordinavano, una che già fosse stata mamma e che avesse una grande famiglia. Si conobbero, si piacquero, firmarono l' accordo. Tutte le spese mediche e di farmaci pagate, conto aperto in negozi bio per alimentarsi con cibi sani, un massaggio al mese per drenare il corpo, altri extra. In base alle leggi dello Stato della California, ricevette un compenso di 52.000 dollari, 10.000 in più di quanto previsto perché i figli surrogati erano due. Mentre nella prima parte dell' intervista Jessica ostenta sicurezza, afferma di aver pensato a tranquillizzare i suoi bambini spiegando che il suo «era un servizio e un dono per qualcuno che non era in grado di farlo da solo» e che la sua primogenita le rispose: «Oh mio Dio, anch' io voglio poterlo fare un giorno», proseguendo nel racconto lascia trapelare i problemi sofferti. La fecondazione assistita era stata difficile, scandita da undici settimane di iniezioni quotidiane e «molto dolorose» di progesterone per favorire l' annidamento dell' embrione. All' ottava settimana iniziò una nausea tremenda, mai provata in precedenza quando aspettava i cinque figli e che la tormenta per quattro mesi. «Certi giorni non riuscivo nemmeno a fare lezioni a casa», ricorda l' influencer che ha scelto l' educazione parentale per i suoi bambini. Riconosce che non era una gravidanza normale. Gli ultimi due mesi li trascorre sempre sdraiata, senza potersi alzare: «Anche scendere dal divano e camminare fino al lavello della cucina per prendere un po' d' acqua mi avrebbe procurato contrazioni». Per una giovane donna che ha messo al mondo cinque figli senza nessun problema di gestazione né di parto, l' esperienza stava diventando insopportabile sul piano fisico. «Ho anche sviluppato il diabete gestazionale, non l' avevo mai avuto, quindi ero costretta a controllare tutto ciò che mangiavo», aggiunge, completando la descrizione di quella gravidanza tormentata. Il marito deve smettere di lavorare per occuparsi dei bambini, i cinesi vogliono i gemelli e nessun problema. Pagano il fastidio. A settembre arriva il momento del parto, ma nemmeno quello va in modo naturale e dopo cinque figli messi al mondo in pochi minuti, Jessica deve sottoporsi a un cesareo per dare alla luce i gemelli, che nascono prematuri. Pensava di aver concluso la parte più difficile della sua «scelta di servizio», invece iniziò la sofferenza psichica. «Non ero affatto preparata per questo», ammette, «per nove mesi ho portato dentro di me questi bambini per qualcuno, e poi è tutto finito». Non se ne accorge subito, ci vuole un mese perché realizzi che i piccoli non li vedrà più se non in foto. «Ero diventata mamma ma non avevo un figlio da mostrare», riassume in una sola frase tutto il suo malessere.
Per alcuni sono solo trofei. Non si è genitori per dovere. Francesco Maria Del Vigo, Sabato 20/07/2019, su Il Giornale. Serve un figlio per essere felici? Così ci chiede la ricerca pubblicata ieri da Eurispes. Domanda del cavolo, non ce ne voglia il signor Eurispes. La risposta dei giovani italiani è lapidaria: sette su dieci dicono di no. Non è indispensabile avere un figlio per essere felici. E a noi sembra una risposta tutto sommato ragionevole allo sbilenco quesito. Non è necessario mettere sempre i millennials sotto il vetrino del microscopio per imputargli tutti i mali del mondo. La felicità è una ricetta complessa che non ha ancora trovato uno chef che sappia impiattarla con la bollinatura delle stelle Michelin. Ma la felicità è anche qualcosa di tremendamente personale ed egoistico. Fare un figlio è un percorso naturale che non ha la felicità come traguardo, ma che la include senza calcolarla col bilancino delle programmazioni sentimentali e i calcoli ragionieristici di chi sente che l'orologio biologico - o peggio ancora quello sociale - sta suonando. Un figlio non è una pastiglia di Prozac da autoprodurre per riempire vuoti che sembrano incolmabili. Non è un trofeo da mostrare nella carrozzina come se fosse una Bmw parcheggiata in garage. E quindi ben venga il fatto che non sia più percepito come un dovere morale, che sia una scelta e non un obbligo. È un atto di coraggio, di follia e di incoscienza. Il computo dei sorrisi, il calcolo costi-benefici sul diagramma della propria felicità sono solo meschinità. Chissà che acquazzoni di lacrime, e poi che tsunami di soddisfazioni, ci sono dopodomani. Ma non c'è mica il meteorologo che te lo anticipa con certezza scientifica, non esiste una carta nautica che può prevedere gli scogli sommersi della propria esistenza. Figurarsi quella di un altro. Anche se è il proprio figlio. Il figlio come diritto alla propria felicità è la negazione della genitorialità. Un atto di solitudine che apre la strada a quegli orribili mercati di pargoli, nei quali si affittano uteri come fossero monolocali e spermatozoi come se fossero fertilizzanti. Così i figli si riducono ad essere solo 23 coppie di cromosomi elaborati da un algoritmo a pagamento. Il mondo è cambiato e la domanda sopraccitata è ottocentesca, quasi marxista: quando esistevano i proletari, chiamati così perché possedevano i propri figli come unica ricchezza. Come se fossero un asset aziendale. Un figlio è la frazione di secondo che esplode per una vita intera. Molto più del valore statistico di qualsiasi ricerca sociologica.
Madri in affitto. Alessandro Bertirotti il 24 giugno 2019 su Il Giornale. È tutta questione di… andare contro natura. Questa è l’esaltante notizia. Fra le diverse proposte al vaglio della popolazione inglese, quelle sulle quali mi voglio soffermare sono le ultime due, descritte nell’articolo in ipertesto, ossia rispettivamente l’eliminazione del requisito del legame biologico fra la gestante affittata e genitore legalmente proprietario del feto, e il tema del tariffario. Bene, partiamo con la prima considerazione, dopo una precisazione. Dal mio punto di vista, è totalmente errato sostenere l’idea di “uteri in affitto”, quando parliamo di “madri in affitto”. Dal punto di vista mentale, una donna in stato interessante, che sia mentalmente sana, non può alimentare per nove mesi una vita dentro di sé, separandosi psicologicamente dalla vita che sta crescendo in lei. Lo può fare solo se motivata da profonde, tragiche e gravi situazioni di traumi mentali, presenti nella sua vita personale, oppure di traumi economici di forte rilevanza. Quindi, non si affitta un utero, ma si affitta una madre, una persona che si senta madre dal momento del concepimento in poi. Certo, se sana di mente e di corpo. Detto questo, analizziamo il primo punto. L’assenza di legame biologico, fra affittata e proprietaria del figlio (e, dunque, anche proprietaria della gestante) non può che condurre alla creazione di agenzie. E, dico io, anche giustamente. In effetti, se si vuole estendere a tutti la possibilità di avere un figlio senza nessun legame biologico con colei che affitta l’utero, non possiamo che andare in questa direzione. Tutte le altre considerazioni contrarie a questa realtà sono solo le solite ipocrisie occidentali, e nel nostro caso dell’occidente presbiteriano. Come tutti sappiamo, gli amici anglicani sassoni godono di un certo primato, per quello che concerne la manifestazione di comportamenti cosiddetti “puritani”, appunto. La seconda considerazione, riguarda, invece il tariffario. Qui, viene davvero il bello, perché con l’introduzione di prezzi decisi a monte per affittare le madri (ripeto, non si affitta l’utero) avremo certamente prezzi diversi, e in base a cosa una madre dovrebbe costare di più rispetto ad un’altra che dovrebbe costare di meno? Con quale parametro dovrà essere stilato un tariffario, in base a quale criterio etico? Beh, direi che abbiamo materiale più che sufficiente su cui riflettere. Dal mio punto di vista, siamo proprio in piena “apocalisse”. Preciso, però, cosa intendo. L’Apocalisse, nel suo significato teologico, significa “rivelazione finale”. Ecco perché parlo di Apocalisse, perché ci stiamo sempre più rivelando, come umanità intera e per quello che siamo, e, nello stesso tempo, si sta rivelando il futuro della nostra fine. Si può finire per esaurimento, senza nessun cataclisma, specialmente quando il cataclisma siamo noi stessi. Che cosa siamo? Mi taccio.
TUTTE MADRI CON L’UTERO DI UN’ALTRA. F. Bor. per “la Verità” il 17 Giugno 2019. Ogni volta che qualcuno associa la parola «diritti» alla maternità surrogata, bisognerebbe ripetergli le parole che pronuncia Vicken Sahakian. Questo signore è un medico specializzato nella fertilità, ha 25 anni di esperienza alle spalle e lavora al Pacific Fertility Center di Los Angeles, ovvero la clinica delle stelle di Hollywood. Il dottor Sahakian, da anni, si occupa sostanzialmente di far venire al mondo i figli delle celebrità. Nei giorni scorsi ha rilasciato una lunga intervista al quotidiano britannico Guardian, nell' ambito di un' inchiesta sull' utero in affitto firmata da Jenny Kleeman, e le cose che ha raccontato fanno accapponare la pelle. Ecco la sua prima dichiarazione: «È una questione di soldi. Se hai i soldi, avrai un figlio. È triste, ma è così». A dirlo, vale la pena di tenerlo a mente, non è un battagliero attivista contrario alla surrogazione, ma uno specialista che se ne occupa quotidianamente. In California, per altro, la pratica è assolutamente legale, anzi le madri surrogate sono autorizzate ad affittare il proprio corpo in cambio di un guadagno. E infatti il dottore spiega sereno: «Credo nell' utilizzo di donatori di ovuli e donatori di sperma, questo è quello che faccio. Amo quello che faccio. L' obiettivo finale qui è portare felicità a qualcuno».
Già: portare felicità a chi ha i soldi per comprarla sfruttando il corpo altrui. Se cinque anni fa le coppie che si rivolgevano a Sahakian per la surrogazione erano pochissime, oggi i casi sono almeno venti all' anno. Con 150.000 dollari circa di spesa, i ricchi americani si portano a casa un bambino fatto e finito. Che il mercato dell' utero esista, tuttavia, lo sapevamo da tempo. Dall' inchiesta del Guardian, però, emergono nuovi e spaventosi particolari. Si sta affermando una tendenza: le donne fertili e perfettamente sane ricorrono alle madri surrogate per non danneggiarsi il fisico e per non mettere a rischio la propria carriera. Fino ad ora pareva che questo genere di comportamento fosse riservato a personaggi come Kim Kardashian, che in questi giorni ha esibito per la prima volta sui social network il quarto figlio avuto da madre surrogata. Il fatto, però, è che la moda va diffondendosi anche al di fuori dei super vip. A ricorrere all' utero in affitto sono professionisti, attrici e modelle di secondo piano, in generale persone abbienti che vogliono un figlio risparmiandosi scocciature come il parto e la gravidanza.
«Un numero crescente di donne va da Sahakian per la "social surrogacy"», scrive il Guardian. «Vogliono avere figli biologici, ma non vogliono portarli in gembo. Non ci sono ragioni mediche per scegliere la surrogata; semplicemente queste donne non vogliono restare incinte, quindi concepiscono i bambini attraverso la fecondazione in vitro e poi assumono un' altra donna per gestire e dare alla luce il loro bambino. È l' ultima frontiera del lavoro esternalizzato». Il dottor Sahakian non si scompone: «Non ho problemi con questa cosa. Se sei una modella di 28 anni o una attrice e rimani incinta, perdi il lavoro. Sì, succede così. Quindi se vuoi usare una surrogata, io ti aiuto». Si sfrutta la madre surrogata affinché il corpo della madre «biologica» possa essere a sua volta sfruttato meglio. Eccolo qui, il nuovo «diritto». Ogni volta che qualcuno vi presenta l' utero in affitto come una grande conquista di civiltà, ripensate alle parole del medico americano.
Giovanna Casadio per “la Repubblica” il 17 Giugno 2019. Utero in affitto non più vietato in Italia, ma regolamentato. La proposta è firmata a più mani, dall' Associazione radicale Luca Coscioni e dalla Cgil-Nuovi diritti. Tutte le norme saranno illustrate mercoledì a Roma nella sede del sindacato in un convegno di giuristi, ma già si è scatenata una bufera di contestazioni fino allo scherno verso la Cgil: pensa così, con le gestanti per altri, di combattere la disoccupazione femminile? Alla Cgil, Sandro Gallittu, il responsabile dell' ufficio, si scrolla di dosso accuse e insulti: andiamo avanti, «abbiamo sempre sostenuto la libertà di scelta e la determinazione delle persone, per ora non rispondo, prima facciamo il convegno». Filomena Gallo dell' Associazione Coscioni spiega lo stato dell' arte: «Non si può vietare la maternità solidale, la nostra sarà una legge proprio per evitare la commercializzazione e che prevede alcune tutele come la polizza assicurativa, il rimborso delle spese per le gestanti. La Cgil si è occupata della parte sulle tutele del lavoro anche dei genitori intenzionali coloro cioè che ricorrono alla maternità surrogata». Ma al segretario Cgil, Maurizio Landini sta per piombare sulla testa la tegola di 150 firme di intellettuali, politici, femministe che accompagnano una lettera aperta durissima contro il sindacato, il convegno (titolo "Fecondazione assistita e gestazione per altri: la possibilità di un figlio nel 2019" )e l' apertura alla maternità surrogata che in Italia è vietata. A promuovere l' appello l' ex deputata della sinistra Giovanna Martelli, le femministe Alessandra Bocchetti e Daniela Dioguardi e a sottoscriverlo tra gli altri la regista Cristina Comencini (il cui figlio Carlo Calenda è neo eurodeputato del Pd), la fotografa Letizia Battaglia, l' ex parlamentare dem Fabrizia Giuliani, Aurelio Mancuso, ex presidente di Arcigay, Anna Paola Concia, Marina Terragni. L' elenco è lungo. Al segretario della Cgil chiedono conto: «Caro Landini, apprendiamo con allarme del convegno, dove sono assenti voci contrarie alla maternità surrogata. Da questo si deduce che la Cgil ha già assunto una posizione favorevole ad una possibile regolamentazione dell' utero in affitto. Ma all' interno del sindacato mai c' è stato un dibattito su un tema così importante. L' immagine di una donna che affitta l' utero rientra nella vostra mission di tutela del lavoro? Se si tratta di dono e non di lavoro perché la Cgil organizza il convegno? Se il ricorso all' utero in affitto all' estero costa 200 mila euro, la Cgil in Italia quanto pensa si potrebbe valutare? O pensate, venendo meno ai vostri principi, che la gestazione per altri possa rientrare nel libero mercato? E infine cosa intendete per nuovi diritti? Il mercato del sesso e il corpo femminile come merce? È amaro pensare di doversi difendere anche dalla Cgil». Rincara poi Fabrizia Giuliani di "Se non ora quando, libere": «La maternità surrogata non può certo annoverarsi tra i nuovi diritti. Pedro Sanchez è contrario, Landini a favore. Ci sono agenzie internazionali che guadagnano miliardi sull' utero in affitto». Il comma 6 dell' articolo 12 della legge 40 sulla fecondazione assistita vieta «la surrogazione di maternità » e stabilisce le pene: carcere da 3 mesi e 2 anni e multe da 600 mila e un milione di euro. Monica Cirinnà senatrice dem, "madre" delle legge sulle unioni civili, ha una posizione più aperta: «Non tutto è bianco o nero. Si deve partire sempre dall' autodeterminazione delle donne. Una legge prima o poi andrà fatta perché semplicemente si va all' estero».
La Cgil appoggia la maternità surrogata: femministe contro Landini: «Sono questi i nuovi diritti?» Open.online il 17 Giugno 2019. L’incontro sul tema dell’utero in affitto e sulla Gpa crea uno scontro tra associazioni femministe e sindacati. Ma non è la prima volta. «Caro Maurizio Landini, apprendiamo con allarme del convegno dove sono assenti voci contrarie alla maternità surrogata. Da questo si deduce che la Cgil ha già assunto una posizione favorevole ad una possibile regolamentazione dell’utero in affitto». È con queste parole che si apre il J’accuse contro la Cgil, organizzatrice del convegno «Fecondazione mediamente assistita e gestazione per altri: la possibilità di un figlio nel 2019» in supporto alla proposta di legge sull’utero in affitto e sulla maternità surrogata dell’Associazione Luca Coscioni e sottoscritta, tra gli altri, dalle Famiglie Arcobaleno.
Cosa viene contestato a Landini. Al segretario della Cgil viene contestata l’assenza di un dibattito interno al sindacato, e vengono mosse diverse domande che attendono risposta. «L’immagine di una donna che affitta l’utero rientra nella missione di tutela del lavoro? Se il ricorso all’utero in affitto all’estero costa 200mila euro – si chiedono le firmatarie e i firmatari della lettera – la Cgil in Italia quanto pensa si possa valutare? O pensate, venendo meno ai vostri principi, che la gestazione per altri possa rientrare nel libero mercato?».
Il precedente scontro tra femministe e Cgil. Non è però nuova la querelle sul tema dell’utero in affitto tra sindacati e associazioni femministe, supportate, in questa nuova diatriba, da ex deputate di sinistra, intellettuali e artiste come Letizia Battaglia, Cristina Comencini e Marina Terragni. «Cosa intendete per nuovi diritti? Il mercato del sesso e il corpo femminile della merce?», chiedono le firmatarie e i firmatari della lettera a Landini. Parole che ricordano la lettera aperta di Arcilesbica rivolta all’ex segretaria della Cgil Susanna Camusso. Il casus belli fu il mancato patrocinio del sindacato al Pride 2018, dovuto proprio al rifiuto da parte degli organizzatori di inserire la richiesta della Gpa e dell’utero in affitto. Arcilesbica, all’epoca, accusò la Camusso e la Cgil di «sottomettere la maternità alla produzione, facendo della gestante stessa una materia prima». Le accuse, forti, erano quelle di «voler far regredire la posizione delle lavoratrici, deformando i concetti di libertà e di autodeterminazione», consentendo lo sfruttamento del proprio corpo. «L’esternalizzazione della gravidanza non va regolamentata, va abolita», dicevano le attiviste.
«Vogliamo evitare la commercializzazione», dice l’Associazione Coscioni. In difesa del convegno (e della conseguente proposta di legge) accorre la presidente dell’Associazione Luca Coscioni, Filomena Gallo, che spiega: «Non si può vietare la maternità solidale, la nostra sarà una legge proprio per evitare la commercializzazione».
L’UTERO È MIO E LO AFFITTO IO. Mara Viglia per “Libero Quotidiano” l'11 aprile 2019. Il parere è di quelli che fanno discutere. Inquietano. Apre scenari da brivido per il popolo del Congresso di Verona, e non solo. In pratica la Corte europea dei Diritti dell' Uomo di Strasburgo dice sì all' utero in affitto. O meglio: riconosce il legame tra la madre intenzionale, quindi non biologica, e il minore nato dalla gestazione portata avanti per conto di altri. Nei casi di gravidanza per "conto terzi", è la sintesi, gli Stati devono riconoscere legalmente, in nome dell' interesse del minore, il legame genitore-figlio con la madre non naturale indicata come "madre legale" nei certificati di nascita. Per farlo gli Stati possono utilizzare la procedura dell' adozione. Gongolano le famiglie Arcobaleno. «Abominevole», tagliano corto i sostenitori della famiglia tradizionale, Fratelli d' Italia e Lega in testa. La questione è che i togati di Strasburgo chiamati a dare la propria opinione su un caso francese, si sono pronunciati all' unanimità a favore del riconoscimento legale di questo legame tra una madre che non ha partorito la creatura, ma che viene indicata come «madre legale» nel certificato di nascita del Paese dove la gestazione ha avuto luogo. Sebbene si tratti solo di un parere e non di una sentenza vincolante per gli Stati, è evidente che la posizione della Corte fa scuola e potrebbe essere utilizzata in varie situazioni in cui si cerchi di legittimare la pratica dell' utero in affitto. In questo caso tutto è nato da una coppia francese, eterosessuale, che ha chiesto alla Francia di essere riconosciuta come genitori di due bambini nati con la gestazione portata avanti da un' altra donna in California. Lui è il padre biologico e lo Stato francese lo ha registrato come genitore. Lo stesso non è avvenuto per la moglie perché non ha legami biologici con i bambini. Ora la Cassazione francese, che sta decidendo sul caso, ha chiesto alla Corte di Strasburgo se questo mancato riconoscimento vìola la convenzione europea dei diritti umani. La Corte ha risposto di sì specificando però che lo Stato non è obbligato a farlo iscrivendo la madre «intenzionale» come genitore nell' atto di nascita, ma può scegliere altre soluzioni, esempio l' adozione. Nel parere fornito la Corte spiega che «il non riconoscimento legale del legame tra la madre intenzionale e il bimbo ha un impatto negativo su diversi aspetti del diritto al rispetto della vita del minore». Inoltre sottolinea che «la tutela del miglior interesse del minore richiede anche l' identificazione legale delle persone responsabili per la sua crescita e il suo benessere». Quindi i togati ritengono che un' impossibilità generale di veder riconosciuto dallo Stato il legame in questione sia incompatibile con la protezione del migliore interesse del minore. Così, però, si giustifica la pratica dell' utero in affitto. «La decisione della Cedu è un giusto equilibrio», ha detto Alexander Schuster, avvocato specializzato in diritti civili. Di tutt' altro avviso Toni Brandi e Jacopo Coghe, presidente e vice presidente del Congresso Mondiale delle Famiglie e di Pro Vita e Famiglia: «Ci batteremo contro questo parere. Se gli Stati potranno utilizzare la procedura dell' adozione», continuano Brandi e Coghe, «significa che Strasburgo giustificherà d' ora in poi la violenza contro le donne e la commercializzazione di bambini e incentiverà molte coppie a continuare a sfruttare gli uteri di povere donne».
Coppie gay, Cassazione: no alla trascrizione all’anagrafe per figli nati all’estero con maternità surrogata. Pubblicato mercoledì, 8 maggio 2019 da Corriere.it. Le coppie omosessuali che hanno avuto un figlio all’estero nato con la maternità surrogata non possono ottenere in Italia la trascrizione all’anagrafe dell’atto di figliazione del bambino, riconosciuta nel paese straniero. Lo ha deciso la Cassazione sottolineando che per le coppie omosessuali rimane aperta la strada dell’«adozione particolare». Il verdetto è «a tutela della gestante e dell’istituto dell’adozione». In particolare, secondo la sentenza della Cassazione a sezioni unite depositata oggi, non può essere trascritto nei registri dello stato civile italiano il provvedimento di un giudice straniero con cui è stato accertato il rapporto di filiazione tra un minore nato all’estero mediante il ricorso alla maternità surrogata e un soggetto che non abbia con lo stesso alcun rapporto biologico (il cosiddetto `genitore d’intenzione´). E’ stata così rigettata la domanda di riconoscimento dell’efficacia del provvedimento che riguardava due minori concepiti da uno dei componenti di una coppia omosessuale mediante il ricorso alla procreazione medicalmente assistita, con la collaborazione di due donne, una delle quali aveva messo a disposizione gli ovociti, mentre l’altra aveva provveduto alla gestazione. La Corte, si spiega in una nota, ha ritenuto che il riconoscimento del rapporto di filiazione con l’altro componente della coppia «si ponesse in contrasto con il divieto della surrogazione di maternità», previsto dall’articolo 12, comma sesto, della legge 40 del 2004 in materia di procreazione assistita, «ravvisando in tale disposizione un principio di ordine pubblico, posto a tutela della dignità della gestante e dell’istituto dell’adozione». È stato quindi chiarito che «la compatibilità con l’ordine pubblico, richiesta ai fini del riconoscimento - spiega la Cassazione - dev’essere valutata alla stregua non solo dei principi fondamentali della Costituzione e di quelli consacrati nelle fonti internazionali e sovranazionali, ma anche del modo in cui gli stessi hanno trovato attuazione nella legislazione ordinaria, nonché dell’interpretazione fornitane dalla giurisprudenza». Infine, con la sentenza è stato precisato che «i valori tutelati dal predetto divieto, ritenuti dal legislatore prevalenti sull’interesse del minore, non escludono la possibilità di attribuire rilievo al rapporto genitoriale, mediante il ricorso ad altri strumenti giuridici, quali l’adozione in casi particolari».
A NICHI, MA CHE STAI A DI’? Stefano Filippi per “il Giornale” il 16 aprile 2019. S' intitola Il dito nell' occhio il sermone che Nichi Vendola pubblica ogni domenica sul sito internet di Michele Santoro. Pur essendo distante dalla Chiesa cattolica come la Terra da Plutone, l' ex governatore pugliese se la prende con Benedetto XVI e la sua riflessione sulla pedofilia nella Chiesa. Ratzinger viene definito l'«anti-Papa» e perciò crocifisso per lo «sguardo luciferino», la «fede marziale e cingolata», le «prediche omofobe e tradizionaliste» e per «un testo che vale quanto un manuale per esorcisti». Di Vendola si conoscevano i ragionamenti astrusi. Ora viene a galla anche la vocazione da Savonarola a buon mercato, piena di livore verso un novantaduenne (il compleanno è oggi: auguri, papa Benedetto!) che ha il torto di avere messo per iscritto una serie di appunti. A fare indispettire Vendola è il fatto che Ratzinger imputi al Sessantotto la rivoluzione sessuale che ha fatto precipitare anche la Chiesa nel lassismo morale. Naturalmente, l' ex leader di Rifondazione non ha letto il testo di Ratzinger e accusa il pontefice emerito di lesa maestà per aver osato criticare i guru sessantottini Marcuse, Mao, Sartre e la beat generation, in realtà mai citati. Vendola carica a testa bassa la «sacrale malafede», il «nostalgico dell' Inquisizione», la «dottrina ebbra di dogmi e ignara delle pene e delle speranze dell' umanità». Soprattutto, guai a toccare l' omosessualità, «che forse è un peccato, forse semplicemente una delle possibili forme d' amore». Povero Benedetto XVI. Già gli tocca sopportare certi teologi i quali hanno sollevato il sospetto che non sia nemmeno lui l' autore del documento; ora gli tocca subire anche il rancore bilioso di un ex politico che gli imputa di aver ordito «una chiamata alle armi contro papa Francesco» dal basso delle sue «scarpette rosso Prada». Ecco il vertice della prosa vendoliana: Ratzinger è il diavolo che veste Prada, e non un povero diavolo, ma un satanasso ammantato nel «candore verginale della tonaca». Vendola invece scrive dall' alto di una paternità ottenuta negli Stati Uniti pagando una donatrice di ovuli, una affittuaria di utero e una clinica specializzata. Ma si sa, a differenza dei tori, Nichi vede rosso anche senza che davanti al naso gli venga sventolata la banderilla. E ha pure un «dito nell' occhio».
Francesca Vecchioni: «Portai la mia compagna in sala parto con me». Pubblicato lunedì, 27 maggio 2019 da Candida Morvillo su Corriere.it. Racconta Francesca Vecchioni: «A lungo, ho lottato contro una sorta di coming out rovesciato: non avevo tanto paura di dire di essere omosessuale, quanto di essere figlia di Roberto Vecchioni. Mi sembrava di prendere meriti non miei. Per cui, stavo lontana dalla ribalta e lavoravo, defilata, nel campo finanziario». Francesca, che oggi ha 45 anni, ci ha messo un po’ ad accettare che il cognome poteva aiutarla nelle battaglie in cui crede. Poi, nel 2012, è stata la prima italiana ad apparire sulla copertina di un giornale per famiglie con la compagna e le loro due gemelline. Ha fondato una non profit e, da quattro anni, produce i Diversity Media Awards, che stasera, all’Alcatraz di Milano, premiano personaggi, film, serie tv, giornali che si sono distinti nella rappresentazione delle diversità di genere, identità, etnia, disabilità ed età. In nomination, ci sono da Alessandro Cattelan a Enrico Mentana, dal film Euforia di Valeria Golino a C’è posta per tedi Maria De Filippi.
Francesca, come ha maturato la decisione di esporsi in prima linea?
«Nel 2009, sono finita in coma per una settimana, a causa di una meningoencefalite. Al risveglio, mi è cambiata la visione della vita: non avevo paura di morire, ma guardavo gli altri come se non si rendessero conto di essere vivi. Nate le bambine, mi è stato chiaro che ognuno di noi può, nel suo piccolo, generare cambiamenti positivi, aiutare a mutare mentalità e immaginario collettivi».
Gli italiani a che punto sono?
«I social e la politica spingono alla divisione, invece dovremmo tornare a creare ponti: le differenze sono sempre una ricchezza. Il mio sforzo è proporre esempi di valore. Da ragazza, non avevo un esempio di donna gay per immaginarmi un futuro felice. Quando ho posato per il settimanale Oggi con Alessandra e le bimbe, ho pensato: a 15 anni, vedere una foto così mi avrebbe aiutata».
La sua gioventù è stata tormentata?
«Sono stata fortunata perché ho un padre e una madre dotati di intelligenza emotiva. Davanti a un figlio omosessuale, conta solo quello, non la cultura: ho visto professori con due lauree buttare fuori i figli gay e genitori umilissimi abbracciarli. La grande paura del genitore è che il figlio sia felice. Perciò, fare informazione solo vittimistica o sui casi di discriminazione non aiuta. Invece, l’ultimo nostro Diversity Media Report in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia rileva che, nei tg, i temi di identità di genere compaiono soprattutto, per il 62,6 per cento, in notizie di criminalità».
Il suo coming out?
«Mio padre me l’ha estorto. Andavo già all’università, ma con lui e mamma non trovavo il coraggio. Lui chiedeva “perché non vuoi dirmi chi è? È un drogato? Sarà mica in galera?”. Gli dissi che era una donna e lui: “Ma vaffa... mi hai fatto spaventare, non potevi dirlo subito?”».
Com’è stato, senza grandi esempi, immaginarsi in una famiglia con due madri?
«Una cosa lontana dalla realtà. Ho avuto tanta paura di sbagliare. Ho studiato tutta la letteratura scientifica esistente sull’omogenitorialità. Oggi Nina e Cloe hanno sette anni, sono serene, da quando guardo il mondo attraverso i loro occhi, lo capisco meglio. E io e la mia ex compagna siamo due mamme felici».
Aveva proposto una coppia-simbolo: separarsi è stato più difficile?
«Un po’. Se combatti tanto per qualcosa, fai più fatica a smontare. In più, con l’esposizione mediatica, senti il peso dell’aspettativa di tante altre persone. In generale, molte coppie omogenitoriali restano insieme forzosamente, soprattutto perché mancano le garanzie: la paura del genitore non riconosciuto legalmente è forte. Ma io e Alessandra ci siamo dette che vivere con trasparenza la separazione era il passo successivo della nostra battaglia per la normalità. Bisogna mostrare che certi diritti si possono esercitare anche quando la legge non aiuta».
Oltre alla fecondazione da donatore, all’estero, ha forzato altre volte le regole?
«Al pronto soccorso, quando mi si sono rotte le acque. Non volevano far passare Alessandra. Siamo entrate di forza. Poi, erano le quattro del mattino, è arrivato il nostro ginecologo e le ha permesso di rimanere. Funziona così: puoi buttare giù la porta, ma qualcuno ti deve aiutare a restare dentro. È fondamentale che la società ti dia una mano, perciò ogni opera di sensibilizzazione è preziosa».
I 49 figli segreti del dottor Kaarbat, donatore seriale nella sua clinica. Pubblicato sabato, 13 aprile 2019 da Corriere.it. Quando il giudice li ha autorizzati a fare il test del Dna, i fratelli e le sorelle ritrovati si sono abbracciati per la gioia. Sono 49, uniti da un legame di sangue all’insaputa dei genitori che li hanno cresciuti, nati, per lo più negli Anni 80, grazie a fecondazione eterologa con il seme fornito da una clinica di Barendrecht, piccola città a Sud di Rotterdam, nei Paesi Bassi. Per anni il suo fondatore, Jan Kaarbat, uno dei pionieri olandesi della fecondazione assistita morto nel 2017 a 89 anni, aveva falsificato i documenti della clinica, sostituendo il suo sperma a quello dei donatori o inventando falsi profili per coprire le sue «donazioni». Le coppie o le madri che negli ultimi decenni si sono rivolti a lui per avere un bambino non avevano idea di aver concepito i figli biologici del medico. I risultati del test del Dna, resi noti venerdì, confermano ora che i 49 sono fratellastri e «progenie diretta del medico», ha fatto sapere l’associazione Defence for Children che li assiste nella causa. Si sono dovuti rivolgere a un giudice perché la vedova di Karbaat, finora, si era rifiutata di fornire il suo Dna in nome del «diritto alla privacy». I primi sospetti erano arrivati dopo che da una madre con gli occhi azzurri e un supposto donatore anche lui con gli occhi azzurri era nato un bimbo dalle iridi marroni. E che si sono riscontrate strane somiglianze tra i bambini concepiti nella clinica: molti avevano la stessa bocca larga, le mani grandi, la fronte alta e gli occhi piccoli. Poi le prime conferme quando un figlio legittimo di Karbaat ha offerto il suo Dna ed è emersa una parentela. Adesso l’ultima, definitiva certezza. Ma si sospetta che la progenie del medico sia molto più vasta, fino a oltre 200 discendenti: il seme della sua clinica (chiusa nel 2009) è stato spedito negli Stati Uniti, in Turchia, Svizzera, Gran Bretagna, Danimarca e Germania. L’Olanda è uno dei Paesi al mondo che più esportano spermatozoi per l’eterologa. Dal 2004 però la legge locale stabilisce che i donatori devono essere «aperti»: devono cioè essere conoscibili dai loro «figli» dopo il compimento dei 16 anni, ed essere tracciabili in caso emergano malattie ereditarie. Regole introdotte per tutelare le persone così concepite. Quello del diritto alla conoscenza delle proprie origini è uno dei temi più sentiti da coloro che sono nati grazie all’eterologa. E mentre l’Italia ancora vieta di svelare l’identità dei donatori (anche se prevede che siano tracciabili per motivi medici), sempre più Paesi permettono ai figli dell’eterologa di scegliere se conoscerla. Non sapremo mai se a muovere Karbaat sia stato una sorta di delirio di onnipotenza, la volontà folle di sentirsi il «Padre». Ora però i suoi figli hanno trovato una nuova pace. «Dopo undici anni di ricerche, posso continuare la mia vita. Sono contento di avere finalmente chiarezza», ha detto alla tv olandese NOS Joey Hoofdman, uno dei 49. Molti di loro hanno mantenuto i contatti e si incontrano regolarmente: una nuova forma di parentela per cui ci sono pochi precedenti.
Utero in affitto: mercanti di figli. L'editoriale del direttore di Panorama, Maurizio Belpietro, sull'inchiesta che fa luce sul mondo delle mamme surrogate (solo per soldi), scrive Maurizio Belpietro il 15 aprile 2019 su Panorama. a lettura di Panorama è molto interessante. Non intendo la copia che avete in mano: per quella il giudizio è rimesso a voi lettori. No, parlo di una copia di trent’anni fa. Dovete sapere che, da quando sono tornato a dirigere il vostro settimanale, mi piace ogni tanto portarmi a casa la raccolta delle edizioni del passato e rileggere alcuni articoli. Nei giorni scorsi, per esempio, mi è capitato tra le mani un numero del 5 novembre 1989, periodo in cui Panorama era diretto da Claudio Rinaldi e Silvio Berlusconi non era ancora diventato padrone della Mondadori. I collaboratori erano Camilla Cederna, Piero Ottone, Goffredo Fofi, Corrado Stajano, Alfredo Chiappori, Altan, Lietta Tornabuoni: in pratica il meglio degli intellettuali di sinistra dell’epoca. Tra i rubrichisti, oltre a Enzo Biagi e Giampaolo Pansa, figurava Stefano Rodotà, che non era ancora diventato Garante della privacy, ma era già un’autorità. Alle spalle aveva tre legislature come candidato indipendente nelle liste del Pci e Achille Occhetto lo aveva nominato ministro della Giustizia nel governo ombra varato quell’anno. Ed è stato proprio un articolo di Rodotà, uomo di sinistra con in tasca anche una tessera dei Radicali, ad attirare la mia attenzione. Il titolo era composto di due sole parole: «Utero affittasi». Il professore prendeva lo spunto da un paio di fatti di cronaca: due processi celebrati in America e a Monza. Il primo doveva decidere le sorti di Baby M., una bambina commissionata da una coppia che la madre, poi, cercò di tenere per sé. Analogo procedimento era stato incardinato nella cittadina lombarda, dove la madre biologica rifiutava di rispettare il contratto e di consegnare il figlio al padre che aveva donato il seme. I due casi furono risolti con sentenze diverse. Negli Stati Uniti l’accordo fra la madre biologica e la coppia che aveva commissionato la figlia fu ritenuto nullo, ma la bambina fu affidata al padre naturale, riconoscendo alla donna che l’aveva partorita un diritto di visita. In Italia, invece, il tribunale non ebbe esitazioni e sentenziò che il bambino dovesse essere affidato alla madre biologica, lasciando al padre che aveva donato il seme solo il diritto di riconoscerlo. Fin qui i due fatti di cronaca, ma la parte interessante è l’opinione di Rodotà, uomo di sinistra ed esperto di diritto. Per il professore, tra le due sentenze la decisione corretta fu quella del giudice italiano. In breve Rodotà smontava le tesi di chi sosteneva la necessità che venisse riconosciuto «il diritto alla procreazione, senza alcuna limitazione dei mezzi ai quali ricorrere per avere un figlio». Se un uomo può donare o vendere il proprio seme per fecondare una donna sterile, perché questo non deve essere consentito anche a una donna? Dopo essersi posto la domanda, era lo stesso Rodotà a rispondere, spiegando che se le argomentazioni dei sostenitori dell’utero in affitto erano suggestive, le cose erano un po’ più complesse da com’erano presentate, perché la donazione del seme non è paragonabile alla gravidanza. «Si può ammettere che una donna rinunci al figlio che ha generato? Si può accettare che anche questa materia sia affidata alle pure leggi del mercato, alla logica della domanda e dell’offerta?». Per Rodotà no, non si poteva accettare. E per questo, secondo il professore, era necessaria una legge che vietasse ogni forma di commercializzazione, dunque niente compensi alla donna né intermediari, in base al principio fondamentale che il corpo non può essere trattato come una merce tra le altre. Rodotà lasciava aperto uno spiraglio a quella che chiamava la solidarietà tra donne, cioè alla possibilità di portare a compimento una gravidanza impossibile per un’altra. Ma a distanza di trent’anni da quell’articolo si può dire che lo spiraglio è diventato un portone, perché con la scusa della solidarietà, coppie senza scrupoli affittano il corpo delle donne, quasi sempre più deboli e disperate, per farsi fare un figlio su commissione, pagando centinaia di migliaia di euro. Lo dimostra l’inchiesta che Panorama pubblica questa settimana. Una nostra giornalista per mesi ha dialogato con le donne che prestano il proprio utero in cambio di soldi. Lo fanno per saldare la retta della scuola dei figli, per pagare le cure al padre, perché non sanno dove trovare il denaro per l’affitto, addirittura per dare degna sepoltura al genitore. Ecco, a trent’anni di distanza dall’articolo di Rodotà, questa è la realtà. Anche coppie italiane vanno all’estero, raccontano di aver trovato una donna generosa, che vuole aiutare chi non può avere bambini. Ma dietro l’ipocrisia dell’amore c’è la realtà dello sfruttamento. La legge italiana vieta l’utero in affitto. Ma basta uscire dai confini nazionali, nei Paesi in cui è consentito, e si torna in Italia con un figlio nuovo di zecca, dopo aver scelto con cura la madre su un catalogo. Ci penserà poi qualche sindaco o tribunale a rendere il tutto regolare, compreso il commercio. L’articolo 604 del Codice penale, in deroga al principio generale che impone la punibilità di reati commessi nel solo territorio italiano, colpisce il turismo sessuale, perseguendo dunque i cittadini che all’estero abbiano adescato dei minori allo scopo di sfruttarli sessualmente. E allora perché non punire chi va in giro per il mondo a sfruttare il corpo delle donne, per farsi un figlio su misura? Fermare quel mercato sarebbe facilissimo: basterebbe seguire la traccia dei soldi. Così si scoprirebbe che dietro la parola amore si nascondono il denaro e anche alcune potenti organizzazioni.
Il business dell'utero in affitto. Non per amore o altruismo, ma solo per soldi. Uno stralcio dell'inchiesta sulle mamme surrogate in edicola da oggi 11 aprile 2019 con Panorama. Panorama nel numero in edicola da oggi, 10 aprile, dedica la storia di copertina ad un'inchiesta sulle mamme surrogate, alle storie delle donne che affittano il loro utero. Spesso, quando si parla di questa pratica, in molti (soprattutto chi è favorevole) racconta che si tratta di un "dono". Le storie che abbiamo raccolto infiltrandoci in una chat internazionale, raccontano solo di persone con un disperato bisogno di soldi. Ecco uno stralcio dell'inchiesta di Marianna Baroli...Fateci caso. Quando s’interroga una mamma surrogata sul perché abbia scelto di compiere quel cammino per una coppia di sconosciuti, la risposta è sempre la stessa: «L’ho fatto per amore, altruismo. Perché donare un figlio a chi non può averne è il regalo più grande». Un messaggio standardizzato, simile a quelli preimpostati sui nostri smartphone e che si inviano a Pasqua, Natale o Capodanno per fare gli auguri, e che compare ormai ovunque, dalle pagine dei giornali alle «caption» sui social network con tanto di hashtag #surrogatemother sotto le foto. Quello che troppo spesso ci si dimentica è che a queste donne dall’eccezionale altruismo in realtà vengono pagate cifre piuttosto consistenti per diventare portatrici di un figlio altrui per nove mesi. E che, ancora più spesso, la pratica di affittare l’utero è per loro un vero lavoro per sbarcare il lunario o accantonare risparmi per il futuro dei propri figli. Vi pare impossibile? Provate a iscrivervi a uno dei mille gruppi presenti su Facebook e intitolati «surrogate mother/ip search». O avviate una ricerca tra le «confessions», letteralmente le confessioni che in modo anonimo vengono inviate su Reddit ogni giorno. O ancora provate a farvi inserire nei gruppi di supporto tra mamme surrogate su Telegram. Vi si aprirà una porta su un mondo parallelo, fatto di difficoltà, sofferenza, sbalzi d’umore continui, di decine di pillole da ingoiare più volte al giorno per stabilizzare gli ormoni, risolvere i problemi o compiacere la coppia per cui si sta lavorando. E soprattutto leggerete come tante di queste donne ammettano candidamente tra di loro che, pur non essendo questo il modo più corretto per mettere al mondo un bambino, sia il più veloce per ottenere un bel po’ di soldi. «Che fanno sempre comodo» ammette Nikki Szymurski di Landenberg, Pennsylvania. Mamma di due bambini, Nikki ha scelto di affittare il proprio utero per garantire loro un futuro. «Quei soldi sono stati suddivisi in parti uguali e depositati in un fondo che consentirà ai miei bimbi di studiare, di andare al college e vivere per sempre senza il peso di dover pagare le spese scolastiche» racconta. Per la sua gestazione, Nikki ha ricevuto circa 160 mila dollari. Di questi, 40 mila sono andati alla clinica con cui ha scelto di lavorare e che ha selezionato la coppia adatta alle esigenze di Nikki. «Oltre a questa somma ricevevo circa 1.500 dollari al mese, a volte anche di più, per supplire ai bisogni quotidiani come pagare parcheggi privati, comprare abiti premaman, vitamine e simili» ci spiega. «Nel contratto mensile erano incluse anche le spese per la babysitter per i miei figli, la retta per l’asilo e il trasporto verso la struttura, più alcuni piccoli bonus con cui sono riuscita a organizzare per loro un viaggio tutti insieme dopo la gravidanza».
Usa, 61enne partorisce bimba per figlio gay, scrive il 7 aprile 2019 Corriere tv. «È il dono di una madre a un figlio» ha spiegato la donna. Una donna di 61 anni del Nebraska, Cecile Eledge, ha dato alla luce una bambina concepita in vitro per conto del figlio gay, Matthew Eledge, e del marito di lui Elliott Dougherty. La bimba, Uma Louise Dougherty, è nata due settimane fa al Nebraska Medical Center di Omaha. "Ho voluto farlo come regalo da una madre a suo figlio", ha spiegato la donna. A donare gli ovuli è stata la sorella di Elliott Dougherty, Lea Yribe, mentre lo sperma utilizzato è quello di Matthew Eledge, sicché la bambina ha materiale genetico di entrambi i componenti della famiglia.
SAI COME SI FA UNA GRAVIDANZA A MISURA D’OMO? Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” l'8 aprile 2019. A 61 anni la signora Cecile Eledge è diventata nonna e mamma della piccola Uma Luise. Una storia americana che incrocia amore famigliare, leggi complicate, giudizi e pre-giudizi sociali. Matthew Eledge ed Elliot Dougherty sono una coppia gay, legalmente sposata dopo che nel 2015 una sentenza della Corte Suprema dello Stato ha riconosciuto la legittimità del matrimonio tra omosessuali anche in Nebraska. Ma negli Usa la protezione giuridica non sempre è sufficiente: quattro anni fa Matthew aveva perso il suo posto di insegnante nella Skutt Catholic High School subito dopo aver annunciato le nozze con Elliot. Un paio di anni fa i due cominciano a pensare a un figlio. Ne parlano con i genitori, con i fratelli e sorelle, nei pranzi e nelle ricorrenze in cui si riunisce la famiglia. Finché un giorno Cecile, la madre di Matthew, propone: d' accordo ve lo faccio io il bambino. «All' inizio si sono messi tutti a ridere», ha raccontato alla Bbc . Ma poi il progetto prende corpo quando Lea, la sorella di Elliot, si offre per donare gli ovuli, da fecondare in vitro con lo sperma di Matthew. La neonata, dunque, sarà concepita con il seme del padre Matthew, gli ovuli della zia Lea e l' utero della nonna Cecile. All' epoca la futura gestante aveva 59 anni. Decise di sottoporsi a una serie di visite mediche. Tutto a posto: era ancora in grado di gestire una gravidanza. Cecile ha altri due figli oltre a Matthew: «All' inizio hanno avuto uno choc, ma poi ho avuto il massimo appoggio da parte di tutti». E così la nonna-mamma accoglie l' ovulo fecondato da Matthew e inizia una gestazione regolare, «solo con qualche piccolo disturbo». L' unico problema lo solleva l' assicurazione sanitaria: nessuna copertura delle spese, nonostante la legislazione del Nebraska non dica nulla e in ogni caso non vieti esplicitamente la possibilità che una coppia gay possa adottare un figlio biologico di uno dei due partner. La famiglia Eledge fa gruppo, sostenuta dalla comunità e da tanti amici. Due settimane fa nasce Uma con un parto naturale al Nebraska Medical Center di Omaha. Va tutto liscio: mamma e neonata stanno bene. «Ho voluto farlo come un dono di una madre al proprio figlio», ha detto Cecile. Il caso sta facendo discutere l' opinione pubblica, come sempre con tanti commenti di segno opposto sui siti dei giornali e sui social.
Nebraska, a 61 anni partorisce per il figlio gay. "Un dono di una madre". Nello stato del Midwest, di cultura conservatrice, l'uomo e il coniuge avrebbero avuto problemi nell'adozione. Aveva anche perso il lavoro dopo il matrimonio, scrive il 07 aprile 2019 La Repubblica. "Volevo farlo come un dono di una madre a suo figlio": così Cecile Eledge, 61 anni, ha commentato la nascita di una bambina concepita in vitro che ha messo al mondo in Nebraska per conto del figlio gay Matthew Eledge, sposato con Elliott Dougherty. È la prima bambina al mondo partorita da sua nonna, con una fecondazione artificiale che ha coinvolto anche la sorella di Dougherty. Matthew aveva perso il lavoro di insegnante in una scuola cattolica del Nebraska dopo aver annunciato il suo matrimonio. La coppia temeva di non ottenere il permesso di adottare un bambino in quello stato conservatore. Così ha deciso di tentare la fecondazione in vitro: la sorella di Dougherty, Lea Yribe, ha donato i suoi ovuli, Matthew lo sperma, in modo che il nascituro avrebbe avuto il materiale genetico da entrambe le parti della famiglia. La madre di Matthew si è offerta di portare a termine la gravidanza, dopo che i medici avevano accertato il suo ottimo stato di salute. Uma Louise Dougherty Eledge è venuta alla luce due settimane fa. Da allora sui social si è aperto un dibattito, con molti commenti positivi, che evidenziano la grande unità e solidarietà delle due famiglie, che hanno combattuto ogni stereotipo sessista partecipando insieme a un evento senza precedenti. Non mancano i commenti negativi e omofobi, e le insinuazioni - infondate - che Matthew abbia fatto sesso con sua madre.
IL VOLO DELLA MORTE – VE LO RICORDATE IL TRAGICO INCIDENTE IN CUI ERANO MORTE DUE MAMME LESBICHE E I LORO SEI FIGLI ADOTTIVI? Da Il Messaggero il 07 aprile 2019. La morte di due donne e dei loro sei figli adottivi, precipitati da una scogliera a bordo di un Suv, non è stato un drammatico incidente ma un omicidio-suicidio: questo quanto deliberato al termina dell'inchiesta sulla tragedia avvenuta nel 2018. Le due donne, entrambe 38enni, hanno drogato i figli di età compresa tra i 12 e i 19 anni prima di lanciarsi con l'auto da una scogliera vicino Mendocino, in California. I corpi di Jennifer Hart, Sarah Hart, Abigail Hart, Jeremiah Hart e Markis Hart sono stati trovati sulla scena dello schianto. I corpi di Sienna Hart, Hannah Hart e Devonte Hart non sono mai stati trovati, ma la polizia ha detto di ritenere che siano morti nello scontro. Markis Hart aveva l'equivalente di 19 dosi di Benadryl in circolo così come gli altri bambini, secondo le prove presentate al momento dell'inchiesta. Anche Sarah Hart aveva assunto 42 dosi di Benadryl, mentre Jennifer era totalmente ubriaca al momento dello schianto. Altre prove presentate durante l'inchiesta si sono concentrate sulle informazioni trovate su tre dispositivi: il sistema GPS della famiglia, il computer in stile "scatola nera" del SUV e il cellulare di Sarah Hart. Dopo aver lasciato la casa di famiglia il giorno della morte, sul cellulare di Sarah sono state fatte le seguenti ricerche: «500mg di Benadryl possono uccidere una donna di 120 libbre?» «La morte per annegamento è relativamente indolore?»; «Ci vuole tanto per morire di ipotermia nell'acqua mentre si annega in una macchina?». Un GPS Garmin recuperato dopo l'incidente ha mostrato il percorso che gli Harts hanno fatto quel giorno: comprendeva una fermata di 18 minuti a un supermercato per acquistare Benadryl di marca generica. Gli investigatori hanno appreso che Jennifer e Sarah Hart spesso davano ai bambini Benadryl per farli dormire durante i lunghi viaggi in macchina, è così presumibile che i ragazzi dormissero quando il Suv si è lanciato dalla scogliera. Secondo gli investigatori, a spingere le due madri all'omicidio-suicidio potrebbe essere stata una visita dei servizi sociali avvenuta proprio lo stesso giorno in cui si sono gettate dalla scogliera: le due donne erano state segnalate più volte per abusi sui minori.
· Aborto clandestino, migliaia di donne ancora oggi rischiano la vita.
Diritti negati. Aborto clandestino, migliaia di donne ancora oggi rischiano la vita. Giorgia, Alaa, Sara. Tre itinerari di dolore come moltissimi altri. Che nessuno vuole vedere. Dalle roulotte dei campi nomadi ai “laboratori” cinesi, dove per interrompere la gravidanza si usa un farmaco per l'ulcera. Massimiliano Coccia su L'Espresso il 04 dicembre 2019. Il bus numero 105 è una linea molto frequentata, copre un tratto lunghissimo dalla Stazione Termini fino al Parco di Centocelle, una miriade di fermate che percorrono come un elettrocardiogramma la vecchia periferia di Roma. Il 105 è l’autobus che Giorgia prende tutti i giorni per andare al lavoro come addetta alle pulizie di un hotel low cost all’Esquilino dove la natura degli avventori è sempre incerta, Giorgia ha poco meno di trent’anni e uno sguardo affilato che apre in due. Non cerca pietà e compassione, ma lotta, lotta per se stessa e per le altre di cui non conosce il nome. Un giorno di un anno e mezzo fa la sua vita è cambiata per un aborto. «Stavo col mio compagno da tre anni e le cose non andavano bene, col passare del tempo come capita a tante l’ho visto cambiare e diventare violento e ossessivo, la storia che raccontano tutte», dice mentre gesticola ampiamente, «dopo un ritardo del mio ciclo prolungato faccio un test di gravidanza e mi accorgo di essere incinta. Ovviamente lo comunico e lui è felice, dice che finalmente potremmo iniziare una nuova vita. Passa la prima settimana e devo dire che il suo atteggiamento era cambiato, più calmo e proprio felice della notizia. Tra me e me dicevo “volesse il cielo che questo ha messo la testa apposto”, ma era solamente un’illusione». Giorgia racconta che dopo quella settimana di idillio a un certo punto la obbliga a mettersi in malattia dal lavoro «perché sosteneva che quel posto era squallido e che il bambino avrebbe rischiato di prendere chissà quale malattia». Da qui parte un’escalation di privazione graduale della libertà prima le toglie il cellulare: «mi faceva chiamare mia madre la sera e sotto il suo controllo». Questo incubo, racconta Giorgia, va avanti per due settimane quando da incubo passa al dramma. «A un certo punto gli dico che sta impazzendo, che non posso vivere così e che abortirò perché non ci sto a farmi segregare fino al parto e poi chissà quanto altro ancora. Gli dico che io non sono sua, che il figlio lo voglio buttare perché se averlo significa dover fare i conti con lui tutta la vita non lo volevo». Dentro Giorgia, mentre racconta, sale una rabbia enorme che le riga il volto perché «quel bastardo mi ha fatto dire e fare delle cose orrende». La reazione dell’uomo non si fa attendere: «Mi strattona e mi getta a terra, inizia a tirarmi tutto quello che trova a disposizione. In quegli istanti mi dice che sono una troia e che il bambino lo “cagherò fuori” anche se non lo voglio, perché il figlio è roba sua. Dopo mi tira su a forza e mi dà un cazzotto sulla bocca dello stomaco dicendo che se mi azzardavo a dire qualcosa mi avrebbe dato il resto». Giorgia non lo ha mai denunciato perché la sua famiglia nonostante avesse saputo delle violenze, della gravidanza e della sua segregazione ha sempre invitato a portare pazienza. «Mio fratello diceva che ero un’isterica, che ero una matta insomma e che lui faceva bene a stare attento a quello che facevo, insomma, mi sono sentita sola». L’incubo di Giorgia continua fino a che una mattina l’uomo si attarda ad alzarsi, lei si alza e vede che ha lasciato le chiavi attaccate alla porta. In quel momento, in pochi attimi si cambia in bagno, apre la porta e scappa senza soldi, senza documenti, inizia solamente a correre. Prende il 105 e si mescola alla vasta umanità che lo popola. «Mi sono sentita come loro», racconta, «c’erano gli immigrati e pure io ero un immigrata, pure se sono di Roma». Giorgia va nell’albergo dove lavora e racconta la storia che sta vivendo al suo datore di lavoro che ovviamente non le crede: «“La parola tua contro la sua”, mi dice, “e io a chi dovrei credere?”. Inizio a piangere, esco dalla sua stanza e trovo Alina, una mia collega rumena a cui racconto tutto. Mi calma e mi dice che ci penserà lei. Mi porta a casa sua, un minuscolo appartamento a Casalbruciato e lì inizio a sentirmi quasi in salvo. Mi dice che anche lei quando era appena arrivata ha abortito, con un farmaco, il Cytotec e che andremo in un campo dove alcuni amici suoi lo vendono. Mi rassicura dicendo che basteranno poche pasticche perché sono ancora di poche settimane. Le chiedo se non sarebbe meglio andare in ospedale e mi convince che tra medici obiettori, psicologi passerebbe troppo tempo e io di tempo non ne avevo molto. Dovevo salvarmi». Giorgia ricorre in modo insicuro al Cytotec, un farmaco che ha come principio attivo il misoprostolo che di solito viene utilizzato per la prevenzione delle ulcere gastriche, per trattare l’aborto spontaneo, per indurre il travaglio di parto, e come farmaco abortivo. Un farmaco pericoloso che è diventato oggetto di commercio spesso illegale come nel caso di Giorgia. «Arriviamo in questo campo nomadi alla Romanina, avevo tanta paura di morire. Alina mi diceva di non preoccuparmi, entriamo in una roulotte e una donna mi accarezza il viso. Non dimenticherò mai la carezza di quella donna, aveva una mano gelida. Alina ci parla e gli da 250 euro in cambio di sei pasticche di Cytotec». Nella roulotte della donna, racconta Giorgia, sembra esserci una specie di ambulatorio, comprensivo di reggigambe ginecologico e un lettino con degli asciugamani. «Quando ho visto quei ferri ho pensato chissà quante donne avrebbero abortito dentro quel posto squallido, chissà a quante come me sarebbe rimasta quella ferita perché fare un aborto sicuro è complicato e questa cosa mi ha addolorato». Giorgia torna a casa e assume le pasticche come “prescritto” dalla donna nella roulotte. Dopo poco il suo ventre inizia a contrarsi, Alina la tranquillizza, iniziano le perdite di sangue, la sua pressione cala. «Sembrava che avessi dentro un incendio, il sangue iniziava a uscire e dentro quel sangue ci sarebbe stato anche il feto pensavo e mi dicevo che quella era la punizione giusta per non aver badato a me stessa, alle compagnie che avevo vicine». Ma il sangue continua a uscire e anche Alina si spaventa e chiama un’ambulanza che dopo qualche minuto la porta in ospedale. «In ospedale», continua Giorgia, «mi puliscono l’utero, mettono fine all’emorragia e anche a una parte di me. Ho rischiato di morire perché per una donna non ci sono gli stessi diritti degli uomini, perché una donna deve andare in un campo nomadi per abortire? Perché è difficile denunciare una violenza domestica? Perché se sei povera non hai gli stessi diritti di una donna ricca? Sono le domande che mi faccio ogni notte prima di andare a dormire anche se non dormo mai». Giorgia ha ricominciato a vivere lontano dal quartiere dove viveva, ha un nuovo lavoro, «ma ancora non mi faccio toccare da nessuno perché quel sangue sarà andato via da dentro ma è rimasto fuori, sulle ferite che ho». Questa storia di aborto insicuro e clandestino non riguarda solo Giorgia, ma anche Alaa, che ha ventiquattro anni e viene dal Sudan. Alaa ha rischiato di morire in Puglia. È arrivata in Italia con un barcone e si è portata dietro un cammino di stupri e una gravidanza. Alaa oggi è a Roma e ha una nuova vita, ma nella sua memoria ha «i trafficanti addosso tutte le sere, sento ancora le loro mani», racconta mentre con le mani sembra volersi pulire da quella presenza, «sono scappata per la guerra e sono stata stuprata dopo pochi chilometri dalla partenza quando il primo trafficante ci vende ad altri trafficanti. Ogni scambio era uno stupro. Fino all’arrivo in Libia dove siamo stati ammassati in una sorta di buca dove i nostri carcerieri ci stupravano a turno e dove ho visto nascere e morire dei bambini». Alaa riesce ad arrivare in Italia e poi viene trasferita in Puglia e chiede alla sua mediatrice culturale se può abortire. «Lei mi risponde che si può fare ma la trafila è lunga e forse sono fuori dal tempo massimo per la legge italiana e allora chiedo ad altre donne che mi mettono in contatto con un uomo che mi fa avere queste pasticche che dicono essere abortive». La difficoltà di comunicare di Alaa è ovviamente il primo ostacolo, ha superato la dodicesima settimana e quindi la dose di Cytotec deve essere massiccia altrimenti il feto non potrà essere espulso. Alaa prende le pasticche fuori dal centro, fuori dal controllo medico, inizia come Giorgia a sanguinare e ad avere dolori atroci. Si trascina fino all’ingresso di un pronto soccorso di Bari dove sviene. «In ospedale», racconta Alaa, «sono stati gentili e mi hanno aiutata davvero. Non sapevo la lingua ma le donne del reparto mi hanno accudita». La carrellata di storie come quella di Giorgia e di Alaa è imponente. Gli aborti clandestini sono ancora migliaia ogni anno: gli ultimi dati disponibili del ministero della Sanità riguardano il 2012 e stimano fra i 10 e i 13 mila casi, dei quali più di 3 mila riguardano donne straniere. Sono numeri che raccontano un Paese sommerso e ipocrita, dai vasti coni d’ombra dove c’è un tacito accordo fino a quando andrà tutto bene. «Ho abortito dentro un laboratorio all’Esquilino in mezzo a tante altre donne cinesi che abortiscono e di cui nessuno sa niente e che magari muoiono, io ero minorenne tre anni fa», dice Sara, «la mia storia è uguale alle altre, ci rimane solo la pena e solo la lotta. Però raccontatelo perché ogni volta che si attacca la 194 si indebolisce la vita delle donne. Scrivetelo mi raccomando. Per tutte, scrivetelo».
· L’Uomo stressato.
Silvia Guzzetti per “Avvenire” il 28 novembre 2019. In Gran Bretagna, c'è un problema con l'identità maschile, stretta tra la “toxic masculinity” (il maschilismo tossico) del premier Boris Johnson, da una parte, il movimento femminista #MeToo, dall' altra, benvenuto e positivo per le donne, ma un vero colpo da ko per gli uomini, guardati, da allora, con diffidenza e sospetto. Il Regno Unito sente questa crisi, il vuoto lasciato da positivi modelli di ruolo maschili e la necessità di riempirlo. Durante un programma radiofonico della Bbc, dal titolo #OurBoysAsWell (Anche I Nostri Ragazzi) la giornalista Emma Kingsley, madre di due ragazzi, ha sollevato la questione se sia giusto, dopo #MeToo, guardare sempre agli uomini come potenzialmente sessisti e violenti e se questo stereotipo negativo non finisca con il minacciare l' autostima dei ragazzi di oggi. Ha provato a rispondere a questa domanda anche la Loughborough Grammar School, collegio maschile tradizionale, con una storia di cinquecento anni, frequentato da quasi mille ragazzi fra i dieci e i diciotto anni. Qui, fino agli anni Settanta, il modello proposto agli alunni era quello dell''uomo forte', magari campione nello sport, soprattutto nel rugby. Più intelligente delle donne. Con un' ottima laurea e un lavoro esaltante. Di conseguenza, "irresistible" per l' altro sesso. Oggi non più. Il preside Duncan Byrne si dichiara inorridito dai commenti sessisti e aggressivi di Boris Johnson, che ha definito il leader dell' opposizione Jeremy Corbyn,"big girl's blouse", "femminuccia", e ha chiamato le donne musulmane che indossano il burqa "cassette postali". Per non parlare degli insulti e degli attacchi, soprattutto via social media, dei quali sono state oggetto molte deputate, colpevoli soltanto di essere donne, nel clima violento di Westminster durante il dibattito infinito sulla Brexit. «Gli stereotipi maschilisti sono stati un peso intollerabile per intere generazioni di uomini - spiega Byrne -. Con un tasso di suicidi tre volte più alto tra i maschi, rispetto alle ragazze, è importante che i giovani imparino a parlare delle loro emozioni, delle loro paure e della loro difficile ricerca di un' identità». Helen Foster, vicepreside della Loughborough Grammar, dice che, da insegnante e madre di due ragazzi, sente che «le cose sono cambiate tanto rapidamente che non esiste più un preciso modello di ruolo per i giovani maschi, mentre le aspettative nei loro confronti sono sempre più alte, anche per l' impatto dei social media». Per questo motivo la scuola ha lanciato la campagna "Great men" (Grandi uomini), al fine di promuovere un dialogo sull' identità maschile e insegnare ai ragazzi a chiedersi che tipo di maschi vogliono diventare. «Esiste un aspetto in cui è dimostrato che i ragazzi fanno più fatica rispetto alle donne dal punto di vista accademico», continua la vicepreside. «Ed è la capacità di comunicare. Mentre alle ragazze viene naturale esprimersi con le parole, i maschi devono impararlo. A tal fine, abbiamo organizzato sessioni per i genitori, per incoraggiarli a comunicare con i figli, spiegando loro che i ragazzi preferiscono periodi brevi e limitati di conversazione, come capita durante un viaggio in auto non troppo lungo, o una passeggiata con il cane. Anche le discussioni, al momento del pranzo o della cena, sono importantissime. Abbiamo, inoltre, programmato ore di formazione per i docenti, perché sappiano liberare questo potenziale maschile del quale i nostri alunni non sono consapevoli». Tra le iniziative della scuola, la proiezione di un filmato in cui Mick Hall, ex alunno, oggi insegnante, spiega come abbia dovuto reprimere le sue emozioni durante un periodo trascorso nei Marines, corpo d' élite dell' esercito britannico. È lo spunto per l' avvio di discussioni, durante le quali i ragazzi si confrontano, sollecitati anche da una serie di domande poste dai professori, sull' opportunità di tenersi dentro preoccupazioni, paure e frustrazioni piuttosto che di comunicarle a un amico o a uno psicologo. Gli alunni hanno lavorato a un filmato, lungo tre minuti, nel quale vengono intervistati professori e allievi che spiegano che, «come uomini, aspiriamo a essere forti, ma anche intelligenti, dal punto di vista emotivo, e capaci di chiedere aiuto quando è necessario». Sulla crisi dell' identità maschile nella Gran Bretagna di oggi concorda anche Brenda Todd, docente di Psicologia dello sviluppo alla City University di Londra, specializzata sull' argomento. «La nostra società, oggi, fa spesso fatica ad accomodare i bisogni fisici e mentali degli uomini - spiega -. In questo 2019, i ragazzi, quando si avvicinano alla pubertà, vedono e sentono critiche continue all' identità maschile: sui media, nelle serie televisive e in politica. L' effetto sulla loro autostima è profondamente negativo. Dovrebbero essere orgogliosi della loro virilità. E non pensare che vi c' è qualcosa che non va». «Molti bambini, ormai, crescono in famiglie dove manca una figura paterna e sentono la madre e le amiche criticare, non soltanto il papà, ma gli uomini in generale, un fatto disturbante per uno sviluppo psicologico sano», sottolinea l' esperta. «Certo, in altre famiglie esistono padri, zii e nonni che sono ottimi modelli di ruolo, ma il messaggio dei media è importante perché comunica alla maggioranza il tipo di uomo che la società auspica diventi un ragazzo di oggi». La professoressa Todd è convinta che «bisogna lasciarsi alle spalle uomini violenti che tendono a controllare le donne, senza rispettarle. Nello stesso tempo occorre riconoscere le buone qualità dei maschi. Il loro desiderio di occuparsi della famiglia, la loro capacità di collaborare con le compagne ». «Ho cominciato a esplorare l' identità maschile dopo aver lavorato con una squadra di uomini impegnati nel recupero di relitti navali - racconta -. Mi aveva colpito come collaborassero e si sostenessero psicologicamente, usando strategie completamente diverse da quelle adottate dalle donne. Mi resi conto che non ce l' avrebbero fatta senza questo cameratismo. Diversi studi dimostrano che i maschi, fin da prima della nascita, sono attivissimi nel grembo materno perché già esposti a livelli elevati di testosterone. È una caratteristica maschile, che una società deve sapere gestire. Purtroppo, in Gran Bretagna, dove a quattro anni si va a scuola, molti maschi, costretti sui banchi, vivono un' esperienza negativa, che li allontana dagli studi. Il confronto con le femmine, naturalmente più studiose, non fa che rafforzare un sentimento di inferiorità». «I media, in questo momento, nel Regno Unito si stanno concentrando sulle caratteristiche più negative della figura maschile, con pessime conseguenze per i giovani. Mi preoccupa l' uso diffuso del termine "toxic masculinity", e il fatto che non vengano fatte ricerche sull' impatto che può avere sui ragazzi», spiega lo psicologo John Barry, uno dei fondatori della sezione maschile della "British Psychological Society", l'associazione professionale britannica. «Ho timori per la salute mentale dei giovani maschi, in quanto esiste un vero rischio che crescano con l' idea che esista qualcosa che non va in loro, e con un senso di colpa per eventi negativi di cui non sono responsabili. Credo che esista un vero pericolo che alcuni ragazzi si sentano giustificati a comportarsi male, visto che, in ogni caso, la società ha già un' opinione molto negativa su di loro. In Gran Bretagna i responsabili di episodi di violenza domestica sono per metà uomini e per metà donne. Un fatto che dimostra come sia importante giudicare i comportamenti in modo neutrale senza alcun pregiudizio».
G. D. B. per “la Repubblica - Salute” il 24 novembre 2019. C'è poco da riflettere, l'uomo dal punto di vista riproduttivo sta diventando sempre più fragile. Un dato documentato rivela, in media, un calo dell' 1,6% annuo della conta degli spermatozoi. Una riduzione registrata negli ultimi 45 anni». A mettere il sesso forte di fronte a una realtà che lo rivela più debole, è Giovanni Maria Colpi, direttore del dipartimento di Andro-Urologia e PMA della clinica San Carlo di Paderno Dugnano (Mi) e andrologo del Procrea Institute di Lugano.
Un calo foriero di sterilità, ma perché professore?
«Il sospettato maggiore è l' inquinamento, potenziale responsabile di un danno al Dna degli spermatozoi. Poi possono interferire negativamente altri fattori, dalle abitudini sessuali sempre più pigre alle infezioni causate da rapporti promiscui. Sono state ipotizzate varie ragioni, ma tutte da dimostrare. Ecco perché sta emergendo l' esigenza di riprendere gli studi sulla spermatogenesi, studi molto rallentati dalla introduzione della ICSI ( Intracytoplasmic sperm injection) nel trattamento della infertilità maschile».
Troppo presto per cantar vittoria?
«Infatti. Per anni si è ritenuto che qualunque infertilità maschile, indipendentemente dalla causa, potesse essere curata con successo con la Icsi».
Quali ormoni sono coinvolti nella fertilità maschile?
«Le gonadotropine, ma molto raramente se ne riscontra una carenza. E in questo caso ne va accertata la causa. Trattandola, si può migliorare la qualità del quadro seminale. Molto più frequentemente invece si repertano valori elevati di questi ormoni, soprattutto dell' FSH. Ciò suggerisce un danno della spermatogenesi, per cui non c' è tempo da perdere: va visitato l' uomo per capire se la situazione seminale è trattabile o meno».
Come ci si comporta con i pazienti che hanno pochissimi spermatozoi nel liquido seminale?
«Nei soggetti affetti da criptozoospermia o azoospermia non-ostruttiva che presentano un testosterone basso in assoluto o ai valori bassi della norma, si prescrivono farmaci o ormoni che stimolano la produzione endogena dell' ormone. Così può migliorare il livello di fertilità o la probabilità di recuperare con la microchirurgia (cosiddetta Micro TESE) eventuali spermatozoi ancora presenti nel tessuto testicolare. Non va somministrato testosterone esogeno, perché questo sopprime l' eventuale residua spermatogenesi».
Per la prevenzione, cosa c' è da dire ai giovani?
«Finora è stata di fatto ignorata dalle autorità, mentre sarebbe fondamentale una visita andrologica e un esame del liquido seminale tra i 18 e i 24 anni. Se non si riscontra nulla, si ripete il controllo a distanza di 5 anni, nel periodo precedente la decisione di avere un figlio».
Nove uomini su dieci sono stressati, ecco perché e come rimediare. Pubblicato mercoledì, 17 aprile 2019 da Vera Martinella su Corriere.it. Ansia, mal di testa, dolori muscolari, disturbi del sonno o gastrointestinali. Ne soffrono nove italiani su dieci per colpa di nervosismo e preoccupazioni che derivano soprattutto dal lavoro, ma anche dalla famiglia. A fotografare i «nervi tesi» dei maschi nostrani è una ricerca condotta da Assosalute (Associazione nazionale farmaci di automedicazione che fa parte di Federchimica) che evidenzia come il 90 per cento degli uomini soffra di un qualche disturbo di salute derivato dallo stress. La fonte principale è l’ufficio, ma fra le cause emergono anche cambiamenti negli stili di vita e del ruolo dell’uomo all’interno della famiglia. Proprio il nucleo familiare, infatti, è ai primi posti nella classifica dei responsabili sia per i giovani (18-24 anni), snervati dai genitori, sia per gli over 55, per i quali aumentano le preoccupazioni per figli che crescono.
Qual è il meccanismo neurologico che determina la comparsa di reazioni stressanti?
«Lo stress è un meccanismo di risposta del nostro organismo per ricostruire un equilibrio alterato da perturbazione esterna o interna ad esso – spiega Piero Barbanti, Professore di Neurologia dell’Università San Raffaele di Roma -. Se ci pensiamo bene, le conseguenze fisiche dello stress, quali le palpitazioni, l’aumento della frequenza del respiro e della contrazione muscolare, sono tutte volte a superare tale perturbazione. Lo stress è il prodotto di un rapporto stretto tra cervello, ipotalamo, ipofisi e surrene (un legame cioè tra la parte emotiva e la parte ghiandolare) che ci permette di concentrare tutte le nostre energie per superare le difficoltà. Può però trasformarsi in una vera patologia quando si protrae nel tempo, anche nel caso in cui si sia concluso l’evento scatenante. In soggetti predisposti (quali gli ansiosi), la reazione stressante compare anche in assenza di eventi apprezzabili» .
Esistono delle differenze neurologiche tra uomini e donne nella capacità di reagire allo stress?
«Uomini e donne rispondo diversamente allo stress – risponde l’esperto -. L’uomo è tendenzialmente più resiliente allo stress perché possiede una risposta nervosa più stabile, mentre nella donna questa è influenzata dalla fase dal ciclo ormonale. Inoltre, il cervello femminile ha percentualmente più sostanza grigia e quindi maggior numero di connessioni nervose quindi è inevitabilmente più perturbabile. Tuttavia, lo stress può determinare conseguenze più gravi nell’uomo. In età adolescenziale, ad esempio, gli eventi di vita stressanti tendono a provocare nel sesso femminile più frequentemente reazioni dello spettro affettivo, come ansia e depressione, mentre nel maschio tendono più facilmente ad innescare reazioni psicotiche».
Secondo la sua esperienza, quali sono oggi i maggiori fattori che causano stress nell’uomo?
«La letteratura dimostra che nell’uomo le maggiori cause di stress sono il lavoro e le questioni economiche, con un trend purtroppo in aumento negli ultimi anni a seguito della crisi economica del 2008. L’uomo tende da sempre a identificarsi nelle proprie capacità produttive. Ciò spiega anche la crisi e lo stress attuale dell’uomo italiano che ha tradizionalmente articolato la propria vita nella triangolazione “lavoro-famiglia-amici”. Questo schema oggi è saltato: se il lavoro resta la maggior causa di stress, anzi è in costante aumento, le altre due componenti (un tempo “compensatorie”) sono oggi molto meno solide: la famiglia come istituzione è in crisi, con crescita di separazioni e persone single, mentre lo svago è diventato più costoso e difficile di un tempo. Nella donna invece, la maggior causa di stress è l’aver aggiunto alle responsabilità già esistenti nei confronti della famiglia e dei figli, un terzo fattore: il lavoro. Una conseguenza bipartisan dello stress, ma con incidenza maggiore negli uomini, è l’abuso di sostanze, soprattutto alcoliche e psicotrope, aspetto che invece di “calmare” le reazioni dell’organismo allo stress, crea al contrario un corto circuito negativo. La difficoltà nella gestione di questi cambiamenti è un importante sorgente di stress per l’uomo che biologicamente ha capacità di adattamento inferiori alla donna. E’ in aumento fra i maschi anche l’uso di ansiolitici (a sempre più comune tra le donne)».
Lo stress si manifesta con gli stessi disturbi in maschi e femmine?
«Ci sono differenze tra uomini e donne. In generale, lo stress tende a provocare nella donna somatizzazioni di tipo gastrointestinali e cefalee. Negli uomini il sintomo più frequente (e spesso gestito molto male) è quello dell’insonnia, seguito da problemi cardiologici, digestivi e in parte cefalee. Negli uomini, inoltre, sono in aumento le disfunzioni della sfera sessuale su base psicologica dovute allo stress, soprattutto tra i giovani. In questi casi, oltre ai farmaci di automedicazione che possono alleviare i disturbi, è importante agire a livello psicologico, contro un cervello che in questi casi è troppo “attivo”». Tra i farmaci di automedicazione (riconoscibili grazie alla presenza del bollino rosso che sorride sulla confezione) utili alleati contro i disturbi del sonno sono i farmaci a base di valeriana, da sola o in associazione con altri principi naturali come la passiflora. Per combattere le tensioni muscolari è possibile ricorrere a farmaci da applicare localmente, come pomate, creme, gel, cerotti ad azione antinfiammatoria e antidolorifica. Validi possono essere anche farmaci che rilassano la muscolatura. In caso di mal di testa gli antinfiammatori non steroidei (Fans), in compresse o bustine, possono rivelarsi strumenti terapeutici in grado di contrastare dolore e infiammazione.
Che consigli darebbe a un uomo che soffre di disturbi legati allo stress per migliorare il suo stile di vita e imparare a gestire lo stress?
«Due cose sono vitali nella gestione dello stress, sia per gli uomini che per le donne: il pensiero e il tempo. Il primo perché è fondamentale riflettere su quello che si sta facendo. Lo stress non è qualcosa che arriva dall’alto ma è la conseguenza di come affrontiamo gli eventi della vita. Dobbiamo quindi riconsiderare il rapporto con noi stessi, con gli altri e con il lavoro. Inoltre, dobbiamo creare spazi di tempo libero all’interno della giornata, allontanandoci dalla tecnologia e riservandoci momenti per attività fisica, riflessione, immaginazione e tutto ciò che aiuta il cervello a rallentare i ritmi e recuperare energie».
Quanto lo stress può degenerare in depressione?
«Ansia e depressione sono “figlie dello stress”, che è una riconosciuta causa scatenante di tutti i disturbi dello spettro affettivo. La spiegazione consiste nel fatto che il cortisolo liberato dal surrene dietro mandato del cervello induce la produzione di citochine infiammatorie che producono effetti in aree sensibili del cervello. Non a caso, la ricerca sperimentale per la depressione sta volgendo lo sguardo verso trattamenti in grado di contenere l’infiammazione».
L’uomo è oggi sempre più coinvolto nella vita familiare. È vera la percezione per cui l’uomo è in grado di fare le stesse cose della donna, ma con un livello di stress più alto?
«È assolutamente vero – conclude Barbanti -. L’uomo, infatti, rispetto alla donna, è meno multitasking dal momento che presenta un minor livello di comunicazione tra gli emisferi cerebrali destro e sinistro e tendendo in generale a procedere con operazioni mentali compartimentalizzata. Nella gestione familiare, dove è necessario ogni volta adattarsi a situazioni per definizione mutevoli, l’uomo ha fisiologicamente meno smalto rispetto alla donna».
Barbara Costa per Dagospia il 16 novembre 2019. Sei stanco, eh? Nervoso e stressato. Non ne puoi più. Tutti che rompono, gridano, reclamano. Vogliono qualcosa da te. E anch’io. Pretendo 2 minuti della tua attenzione. Tutta per me, e per farti questo annuncio: la porno massaggiatrice ti aspetta! Proprio te, solo te, senza appuntamento, appena sei libero, quando vuoi tu, e soprattutto come vuoi tu. Quale preferisci? Ma come, davanti a tali pupe, che ti succede, mi vai in confusione, in pieno terremoto ormonale, e non sai quale scegliere? Tranquillo, puoi cliccare su quella che vuoi, e quante volte vuoi, ma pure cambiare appena ti stufi, e passare subito a un’altra. Dai, è il momento, è ora di dar retta al tuo uccello, io so dove va la tua mano, cosa brucia nelle tue mutande e nella tua mente: tu vuoi che prima del massaggio, quella dea si spogli e ti spogli, e ti insaponi, e ti passi quell’olio sulla pelle, scorra le sue calde mani – e il suo corpo nudo – addosso e ovunque e più volte, ma che insisti al centro, dove ti fa più male, e di un dolore "diverso". Ecco, ora sei tutto morbido, splendente e appiccicaticcio, e la tua pelle oliata va a mischiarsi del tuo sperma che schizza e non sai più come trattenere, non ce la fai, stai per scoppiare, ma perché tenerselo, e proprio mentre stai sognando che lei, quella milf rossa, te lo succhi, e ingoi, fino all’ultima goccia, ecco che vieni. Copiosamente. Una sana menata senza tanti pensieri, una semplice, perfetta masturbazione, che ti fai coi porno-massage onnipresenti sui siti porno, porno-massage che piacciono, mantengono un’invidiabile costante di visualizzazioni, si dice per il piacere delle lesbiche e delle bisex che nella realtà non hanno il coraggio di dichiararsi, ma io non credo sia (solo) così: il massage piace, in primis perché ti fa venire con sicurezza, ti manda in estasi all’istante, ti svuota e ti sballa senza complicazioni. Se il web è il nostro parallelo sistema nervoso, le nostre navigazioni misurano il nostro umore, le cliccate la nostra febbre, gli accessi ai siti porno monitorizzano il nostro benessere, e non è affatto un caso che negli ultimi tempi i porno-massage siano tra i più cercati. Tutti abbiamo bisogno, che dico!, il diritto a una buona sega in santa pace, e forse in questo periodo come me in tanti sono in benedetta fase porno-pigra, e amano vedere ragazze che non se la tirano nemmeno in video. Se i massaggi hot sono la tua passione anche nella realtà, ma sei un tipo pauroso e non hai l’ardire di entrare in quel centro massaggi che hai trovato in rete, dove "innocenti" cinesine promettono di mandarti su di giri con le loro manine, puoi ovviare con i siti di porno-massage dove tutto è lecito, tutto ti è permesso, e la tua fantasia può volare libera e indecente. In questo universo erotico puoi perderti, ma io ti confido che tra le prestazioni più "umide" spiccano quelle di "Fantasy Massage", casa di produzione porno che racchiude in sé una decina di sotto-porno-siti di massaggi per tutti i gusti, pelli, palati, menti le più porche e contorte. I siti di Fantasy Massage non sono free ma a pagamento e no, adesso no, per favore, su, non ti ammosciare, che l’abbonamento è di pochi euro al mese! Su Fantasy Massage trovi come massaggiatrici le pornostar più famose, esperte e… "aperte": sono i loro corpi a fare la differenza, le loro mani, le loro forme perfette. Viziano, "drogano" le tue fantasie, e le trovi che si dimenano in pornate in centinaia di video, e ci sono pure quelle che ti massage-chattano dal vivo, e… hai visto? Hai anche l’opportunità di inviare a quelli del sito i tuoi sogni più sconci, sicuro, puoi raccontargli tutto, nei più sudici particolari, e loro te li possono materializzare in video, anche con la tua pornostar preferita, o puoi essere tu a indicare i nomi delle ragazze che ti va di vedere scivolare nude una sull’altra. Sei un osso duro, e ancora non ti ho convinto? Allora lasciami, e fai un giro per questi siti, goditi le anteprime che trovi in home page, ve ne sono alcune così eccitanti che bastano quei 5 minuti di carezze, gemiti, scambi di liquidi, per saziarti, soddisfarti. Per il momento. E guarda bene, credo che tu l’abbia già notata: tra le massage-girl più richieste c’è proprio lei, Valentina Nappi. Non vedi il suo corpo com’è perfetto al gioco? Cosa ti eccita di più, che sia lei a toccarti, oliarti, o lei ad essere la fanciulla dolorante e tesa da sciogliere, e far godere, fino a gridare, perché, dimmi la verità, a lei, e alle altre, massaggio o no, qualche botta sì che vorresti dargliela, ma nella realtà, eh, sì, se solo fosse possibile!
· La Guerra al Maschio.
QUESTA SÌ CHE È PARITÀ DI GENERE. Valentina Dirindin per Dissapore il 24 aprile 2019. Chiude il caffè femminista vegano che si era inventato il “supplemento di genere” per i clienti uomini. La scelta del “The Handsome Her cafè” di Melbourne, in effetti, era da subito parsa non proprio un colpo di genio, sia in termini economici che di immagine. Per sfidare il “divario retributivo di genere”, infatti, questo caffè (che si descriveva come “da donne, per donne”) aveva deciso di addebitare un 18% supplementare ai clienti uomini. Una scelta che all’inizio, sostenevano i gestori del bar, aveva attirato molto l’attenzione e aveva portato loro moltissimi clienti che dimostravano il loro sostegno. Così, evidentemente, non è stato per il lungo termine. Un avviso sul sito web del caffè ne annuncia la chiusura per il prossimo 28 aprile. Forse, colpa di una cattiva pubblicità nei confronti di una metà di clientela che non è parsa molto contenta né dell’iniziativa né del trattamento generale, come si evince ad esempio da alcune recensioni di TripAdvisor, come quella di John P., che dice di essere stato trattato con aggressività dalla cameriera, sostenendo di essere stato addirittura chiamato “vile bestia” dopo aver protestato per un piatto di gnocchi non apprezzati e per un servizio un po’ lento (ma almeno il vino, sostiene John P. , era buono).
Pari opportunità: non valgono per gli uomini? Paolo Gambi su Il Giornale il 7 novembre 2019. Pari opportunità: sembra sia la bussola che guida la contemporaneità. Opportunità pari per tutti, senza distinzione di religione, razza, sesso. Bell’idea. Immaginate quindi che succederebbe se qualcuno organizzasse un concorso di poesia riservato ai solo maschi. Ci sarebbero sollevazioni di femministe in tutta Italia, esponenti politici griderebbero alla scandalo e tutti i salotti televisivi non parlerebbero d’altro. E interverrebbe di sicuro qualcuno anche da Bruxelles. Giustamente. Allora perché se accade la stessa cosa, ma a sessi inversi, nessuno dice niente? Al concorso letterario “Storie di donne EWMD” come recita il bando possono partecipare solo… donne. Cioè gli uomini non hanno l’opportunità di parteciparvi. Dov’è la pari opportunità? Tra l’altro in un settore in cui le donne si sono ampiamente affermate. Senza dover citare Alda Merini.
La giuria è composta da Donatella Mascia, Raffaella Bellino, Carla Caccamo, Fabiana Cilio e Alessandra Lancellotti. Neanche a dirlo, tutte donne. Sia ben chiaro: io adoro le donne e credo che siano loro, più degli uomini, depositarie dei segreti più meravigliosi che tengono in equilibrio l’universo. Ma quando una donna diventa femminista pare dimenticarseli. Questo è dunque il mondo che vogliamo? Un mondo in cui, con la scusa delle “pari opportunità” gli uomini vengono esclusi, mentre qualunque settore abbia prevalenza maschile viene smantellato per far spazio alle donne? E questo clima non si riflette solo su Donnavventura, che fa fare bellissimi viaggi solo a donne. Il mondo pubblico è infatti pieno di “fondi per l’imprenditoria femminile” a cui gli uomini ovviamente non possono accedere. Volessi avere un sostegno, non potrei. Ho una conformazione fisica sbagliata. Specialmente intorno alla cintola. Il dubbio che resta sempre è che dietro alla bandiera delle pari opportunità non si nasconda altro che il grimaldello con cui donne fortemente ideologizzate vogliono semplicemente prendere il potere. Senza limite, fino a far sparire gli uomini. Siamo ancora qua, scusateci. E scriviamo anche poesie, e vorremmo poterle mandare a confrontarsi con altre poesie. Un po’ come facevano altre persone che non avrebbero potuto partecipare al concorso in questione, come Dante, Walt Whitman, Pessoa, Borges, Leopardi o Ungaretti. Perché alla fine noi uomini non facciamo per forza così schifo.
LA FINE DEL MASCHIO. Claudio Risé per “la Verità” l'8 novembre 2019. Aumentano i ragazzi che vorrebbero diventare donne. Ma non perché si sentano donne fisicamente o sessualmente: perché trovano insopportabile la condizione del maschio oggi. Secondo i loro racconti (che paiono sinceri) la società attuale non approva nulla dell' uomo e trova da ridire su tutto: dalla voce al modo di parlare, di muoversi, insomma tutto il loro essere. Mentre le donne sono sempre portate ad esempio. Media, politici e spettacolo presentano sempre le donne come belle e intelligenti e i maschi come brutti e stupidi. Purtroppo questi ragazzi sono conformisti (come la gran parte dei loro coetanei), e quindi non riescono a pensare con la propria testa. È per questo che vorrebbero farla breve e diventare donne, togliendosi finalmente dai guai. Su questa situazione delicatissima, naturalmente, la propaganda Lgbt arriva come la benzina sul fuocherello che sta prendendo vigore. È sorprendente la differenza fisica e psicologica dei maschi oggi insofferenti della condizione maschile rispetto agli aspiranti donne di venti o trent' anni fa. Quelli avevano toni flautati, movenze gentili, erano spesso sovrappeso e avrebbero voluto diventare mamme, anche se si rendevano conto che non sarebbe stato semplice. Questi, dal gestire nervoso, sono pieni di rancore verso una società che disprezza i maschi, e secondo loro premia le donne con lodi esagerate e agevolazioni no stop. È per questo che vorrebbero diventare donne e fare meno fatiche di quelle che da maschi non potrebbero evitare. Siccome poi sono spesso piuttosto belli, sognano diventare star, o influencer o cose del genere, invece di restare un povero maschio, di cui non importa niente a nessuno perché la brava, la buona l' apprezzata è sempre la donna. Con il suo sesso al centro dei desideri del mondo, mentre quello maschile, secondo i giovani maschi stufi è solo deriso e considerato schifoso. Su un blog (Psiche lui) che conduco da molti anni, un post con il titolo «il maschio schifoso» ha avuto in pochi giorni duecento appassionati commenti. D' altra parte è impossibile ormai ricondurre questo disastro psichico e fisico alle conseguenze del «teatro famigliare» (padre, madri e figli) su cui Freud costruì cento anni fa la psicoanalisi: la famiglia oggi conta poco, spesso il maschio stufo di esserlo è un figlio unico, e la sua vita si gioca tra la scuola e il gruppo dei pari di età, per lo più ormai anch'essi rinchiusi fra internet e social, senza nessuna esperienza autentica della società o del mondo reale. Il complesso di Edipo è oggi introvabile (da anni): la maggior parte dei ragazzi considera il padre un buon diavolo, compatendolo per molte ragioni (dai ritmi di lavoro alla prepotenza delle donne di casa e fuori), e più o meno invidia la madre, perché molto spesso «ce la fa» o così pare. Un ruolo importante, pur nel suo evidente sconquasso, ce l' ha invece la scuola, descritta dai ragazzi come inconcludente e pressoché inutile, dove però - raccontano - insegnanti maschi evidentemente frustrati bombardano gli allievi con atteggiamenti sprezzanti e battute invasive sulla psicologia maschile, descrivendo il proprio genere come sostanzialmente criminale, sessualmente ridicolo e socialmente dannoso. Dalle cronache dei ragazzi le lezioni di questi prof sembrano un misto tra la prosa di Saviano e le satire trash. Il padre simil-freudiano comunque non c' è più e la sua mancanza si sente: il giovane maschio lasciato solo, senza potersi confrontare con una figura paterna (magari da odiare per un po'), si avvita su se stesso e si considera del tutto inutile. Per usare la metafora freudiana della «castrazione» e capire meglio il vuoto di oggi: il suo pene vale talmente poco che nessun padre glielo vuole tagliare, è una merce per la quale la domanda è vicina allo zero. La società del giovane maschio insofferente che vorrebbe liberarsi della sua inutile eredità fallica è infatti quella Società signorile di massa descritta nei lavori di Luca Ricolfi, dove le laureate superano i laureati di quasi il 40%, e i maschi prevalgono invece tra i giovani che non studiano e non lavorano, teoricamente disposti a un lavoro che però non cercano. L' energia fallica che spinge ad agire attivamente per realizzare i propri progetti sembra mancare quasi del tutto. È qui che si rivela con più chiarezza il danno della riduzione della figura paterna da quel «vero avventuriero» di cui ancora parlava Charles Peguy all' inizio del 1900, al buon diavolo che fa tenerezza al figlio rappresentato dal papà di oggi, quando c' è. Il guaio però è che il giovane maschio il suo pene-fallo per ora ce l' ha e avrebbe bisogno di apprezzarlo ed amarlo, per essere felice. Mentre se lo vive come schifoso perché - come gli spiegano in tanti - è proprio il fallo il vero colpevole di tutto, dalla povertà del mondo, ai lager, allo stupro, ad ogni possibile orrore umano, sarà solo disperato. Ogni ragazzo per essere felice deve poter desiderare di correre il rischio di vivere la propria vita come una grande e tesa avventura destinata a realizzare la sua forza fallica e creativa. «Il Fallo percepisca il suo scopo» scriveva Pound del destino maschile. Senza uno scopo, un obiettivo, e un mondo paterno che lo illustri, il fallo diventa il ridicolo pene che Jean Jacques Rousseau mostrava da dietro le piante alle lavandaie ginevrine per farsi deridere. Infatti anche oggi il pene è deriso dagli insegnanti progressisti che trasmettono poi ai loro sfortunati allievi la propria «invidia della vagina», attuale sostituto dell'«invidia del pene» di cui parlava Freud. Nella società della sicurezza (falsa) e dei consumi obbligatori, dove se fai per salire su una pianta c' è subito qualcuno che ti tira giù strillando di paura, se non puoi correre qualche avventura non resta che cambiare sesso (un' azione oggi molto raccomandata, anche da media e istituzioni degli Stati), e diventare un' influencer. Parrebbe una trama di cabaret scritta a quattro mani da Alberto Arbasino e Paolo Poli, ma non è così; anche se la sensibilità di entrambi ha probabilmente colto una trasformazione già in atto da tempo nel conscio e inconscio collettivo, che ora però sta precipitando nei toni della tragedia. L' idea ricorrente è che «essere maschi fa schifo» e non c' è niente da guadagnarci. È la stessa considerazione che fanno molti brasiliani poveri che si fanno impiantare seni finti per venire in Europa a prostituirsi come travestiti e poi rientrare in Brasile, dove magari hanno famiglia e figli. In questi nostri ragazzi c' è però la fantasia di chiudere con l' identità maschile, non perché chiamati da un' identità femminile ma semplicemente perché quello dell' uomo è il sesso perdente, svalutato da tutti, dalle conduttrici tv ai grandi giornali, ai ministeri per la pari opportunità, che dei maschi e delle offese e pregiudizi che li perseguitano non si occupano affatto. Sono ragazzi vili, forse. Ma glielo hanno insegnato a scuola: attenzione a non «fare il macho», il gradino più in basso prima dell' inferno.
Disparità salariale tra uomini e donne: ecco gli 11 casi più clamorosi a Hollywood. Pubblicato sabato, 06 aprile 2019 da Corriere.it. La disparità salariale tra uomini e donne non risparmia neppure le star di Hollywood. Secondo le statistiche analizzate da Forbes le attrici guadagnano in media molto meno dei colleghi maschi. In totale le 10 dive più pagate del mondo hanno ottenuto un cachet complessivo di 186 milioni di dollari contro i 748,5 milioni di dollari della top ten maschile. Negli ultimi tempi il "gender pay gay" è diventata una questione molto dibattuta nel mondo del cinema. Business Insider ha presentato la lista delle disparità di genere più clamorose a Hollywood. La prima mette a confronto i cachet dell'attrice (Scarlett Johansson) e dell'attore (George Clooney) più pagati del 2018: la prima ha guadagnato 40,5 milioni di dollari. Il secondo ha portato a casa 239 milioni di dollari. La differenza tra i due è esorbitante: 198,5 milioni di dollari.
Usa, gonne obbligatorie a scuole. Le alunne fanno causa per il dress code e vincono. Pubblicato domenica, 07 aprile 2019 da Corriere.it. E' durata tre anni la battaglia legale tra le alunne della Charter Day School e l'istituto di Leland, in Carolina del Nord che fino a pochi giorni fa imponeva alle iscritte un rigido dress code e gonna obbligatoria durante le ore di lezione. Nel 2016 tre ragazze hanno deciso di far causa alla scuola, frequentata da circa 900 studenti dai 5 ai 14 anni, per discriminazione e sessismo. A fine marzo il giudice federale Malcolm Howard ha dichiarato incostituzionali le regole d'abbigliamento della scuola e ha riconosciuto alle ragazze il diritto di indossare i pantaloni in classe.
LA GUERRA AL MASCHIO È ARRIVATA ANCHE IN MICROSOFT. Da La Stampa il 07 aprile 2019. Le donne di Microsoft si vestono di bianco per protestare contro le disparità e l’accesso alla carriera in azienda ma anche contro i casi di molestie sessuali. La contestazione è stata messa in scena durante una riunione di lavoro con l’amministratore delegato Satya Nadella, al gruppo di un centinaio di dipendenti donne si è unito anche qualche collega uomo. Il bianco richiama il colore indossato dalle parlamentari democratiche, a febbraio, durante il discorso di Trump sullo stato dell’Unione. La protesta in Microsoft è montata nelle ultime settimane sui forum aziendali ed è stata scatenata da una e-mail inviata ad una lista tutta al femminile. Era stata scritta da una dipendente che si era vista rifiutare una promozione nonostante il supporto del suo diretto manager. «Il club degli uomini ha vinto su tutti i fronti», era scritto nel messaggio che la testata americana Wired, insieme a tutta la discussione, ha potuto visionare. Questo messaggio ha provocato una sorta di effetto domino, con centinaia di risposte di donne che descrivevano le loro storie di discriminazioni, molestie sessuali, offese e addirittura minacce di morte all’interno di Microsoft. C’è chi ha racconta di essere stata chiamata a sedersi sulle gambe di un collega durante una riunione di lavoro. In risposta alle proteste e ai racconti, Satya Nadella ha espresso delusione e tristezza e con il capo del personale Kathleen Hogan ha promesso ai dipendenti maggiore trasparenza soprattutto sugli avanzamenti di carriera. Le molestie sessuali hanno interessato un altro colosso della tecnologia come Google. Lo scorso novembre i dipendenti di tutto il mondo hanno protestato dopo alcuni casi raccontati da una inchiesta del New York Times e confermati dal Ceo della società Sundar Pichai. Pichai ha ammesso che negli ultimi due anni ha licenziato o fatto dimettere 48 persone accusate di molestie sessuali e di condotta inappropriata mentre lavoravano per la società. Tra loro c’erano 13 alti dirigenti, tra cui Andy Rubin, il padre del sistema operativo Android.
La grande menzogna del femminismo, di Santiago Gascó Altaba il 31 marzo 2019 su Uomini beta. Fonte: Un instituto de Huelva castiga sin recreo a los niños el 8M “para que comprendan a la mujer”. Ecco la circolare dell’Istituto spagnolo di Scuola Secondaria di Andévalo, Puebla de Guzmán, Huelva, per la Festa della donna dell’8 marzo 2019: «Dopo aver consegnato i segnalibri, le alunne potranno iniziare la ricreazione. Previamente, i docenti avranno spiegato (mentre consegnano i segnalibri) il motivo per il quale le alunne possono uscire nel cortile e gli alunni no, per far capire agli alunni e alle alunne ciò che hanno provato le donne durante molto tempo nel corso della Storia, quando per la sola colpa del loro sesso venivano loro proibite certe attività, qualcosa di completamente ingiusto, ma che succedeva (e continua a succedere in certi paesi)».
Il testo parla da sé. Da una semplice lettura è difficile che questa circolare non desti come minimo stupore, in alcuni persino rabbia. Lascio a Voi però l’analisi di una circolare che promuove un comportamento profondamente ingiusto e discriminatorio, oltre che pericoloso, poiché punta all’indottrinamento di minori da parte del corpo docente. Io vorrei soffermarmi sul motivo fornito dalla circolare per giustificare tale azione: la sofferenza che le donne hanno provato durante molto tempo nel corso della Storia. Evidentemente l’azione punitiva intrapresa solo contro gli alunni maschi dice due altre verità che la circolare non esplicita:
gli uomini non hanno provato alcuna sofferenza nel corso della Storia, o se l’hanno provata, questa è chiaramente non paragonabile a quella sofferta dalle donne (solo le alunne meritano la ricreazione come “riscatto” a queste sofferenze);
nel caso sia ammesso che gli uomini hanno provato sofferenza nel corso della Storia, questa non è affatto imputabile alle donne, che ne sono completamente innocenti (solo gli alunni maschi sono puniti);
In conclusione: 1) la donna è la vittima della Storia; 2) l’uomo non è vittima della Storia; 3) il colpevole della sofferenza e dell’oppressione storica femminile è l’uomo.
Questa forma mentis non è esclusiva di qualsiasi femminista, ma è condivisa da quasi tutte le donne e buona parte degli uomini, persino da molti che si dichiarano oggi molto critici con il femminismo attuale. Siamo di fronte a un assioma, scaturito dall’assillante narrazione storica femminista, che non è stato mai dimostrato, né è mai stato necessario farlo, accettato da sempre come tesi aprioristica incontestabile. Dovrebbe dunque essere evidente a tutti, come agli alunni della Scuola Secondaria di Andévalo, il ruolo basilare che gioca questo assioma storico nelle politiche e le relazioni attuali tra i sessi. La discriminazione attuale è una logica conseguenza di quella del passato: le donne oggi si sentono vittime perché ieri, indiscutibilmente, erano le vittime, e tutto dovrebbe essere regolato di conseguenza. Se oggi gli uomini separati sono discriminati nei Tribunali, se viene a loro spesso negato l’affidamento dei figli, se non esistono norme che tutelino la paternità, politiche che si occupino dei suicidi o delle condizioni carcerarie o della premorienza maschile, o di qualsiasi altro argomento che colpisca prevalentemente l’uomo, se non interessa affatto se i ragazzi vanno male a scuola o quali discipline studino o se finiscano senza fissa dimora per strada, se di fronte a migliaia di istituzioni, politiche e normative a favore delle donne non esiste alcunché a favore degli uomini, il motivo principale risiede in una lettura parziale e menzognera della Storia che ha reso gli uomini colpevoli e le donne innocenti.
Finché non si riuscirà a ristabilire il giusto equilibrio nella verità storica, è improbabile che si riesca a ottenere il giusto equilibrio tra i sessi nella società attuale. Tanti anni fa, quando iniziai a interessarmi del femminismo e della questione maschile, incominciai a leggere i testi femministi e la storiografia femminista. Nelle biblioteche, nella “sezione di genere”, si trovano molte opere di tematica storica che trattano la Storia da un punto di vista femminile e femminista. Ci sono persino intere enciclopedie, di diversi volumi ognuna, prodotte da numerose università associate. Io ne ho lette interamente tre: la collana Storia delle donne, la collana Historia de las mujeres en España y América Latina, la collana Historia Mundial de la Mujer, oltre naturalmente libri di tematiche storiche specifiche che esplicitamente si dichiarano femministi. In tutti questi anni ho cercato libri che approcciassero la Storia non in maniera generica, ma da un punto di vista maschile. Non ne ho trovati. Non esiste un racconto della Storia da un punto di vista maschile. Il libro “La grande menzogna del femminismo”, di Casa Editrice Persiani, in uscita ad aprile, affronta la Storia da un altro punto di vista, da un punto di vista inedito, da un punto di vista maschile: “Una rigorosa e ambiziosa ricerca che documenta tramite fonti precise (circa 6.000 citazioni e riferimenti testuali) le falsità che per decenni hanno alimentato una corrente di pensiero dichiaratamente contro l’uomo”. Spero che possa essere il capostipite di nuovo filone di pubblicazioni e di un nuovo modo di approcciare la Storia e il femminismo. Santiago Gascó Altaba
MASCHIO, TI DOBBIAMO “NORMALIZZARE”. Da brand-news.it del 9 marzo 2019. Venerdì 8 marzo, Giornata internazionale della donna. Di buon mattino nei canali di Amsterdam sono apparse delle boe galleggianti a forma di tette. Si, tette. E’ un’idea di un gruppo di donne dell’agenzia 72andSunny Amsterdam volta a normalizzare la percezione di quelle che non sono altro che una parte del corpo: come il naso, il tallone o il mento. Eppure avercele sembra una cosa eccezionale. Il team ha voluto rappresentarle nella loro diversità, grandi, piccole, finte, pelose, solcate da vene, con il piercing e anche finte, per disinnescare il coacervo di vergogna, stigma, oggettificazione, aggressione o censura storicamente connessi a questa parte del corpo. L’idea è nata da una ricerca con circa 160 partecipanti che ha rilevato come il 78% del campione abbia in un certo momento della vita provato imbarazzo per il proprio seno. Laura Visco, Deputy Executive Creative Director di 72andSunny Amsterdam, commenta «E’ strano come la società sia così fissata con le tette. Il nostro team vuole dare risalto ai giudizi e alla sessualizzazione non necessaria che i seni ancora devono subire. La repressione culturale sul corpo delle donne inizia sin da giovanissime e peggiora quando invecchiano. In 72andSunny Amsterdam crediamo che tutte le tette siano meravigliosamente uguali. Senza giudizi. Son solo tette».
Pillon condannato per diffamazione: «Offese circolo Arcigay». Pubblicato giovedì, 11 aprile 2019 da Corriere.it. Il senatore leghista Simone Pillon ha diffamato il circolo Arcigay di Perugia: lo ha stabilito oggi il giudice unico di Perugia. Pillon, che è anche primo firmatario del discusso disegno di legge sull’affido condiviso, dovrà pagare trentamila euro di risarcimento danni in sede civile e una sanzione di 1.500 euro per alcune affermazioni con le quali aveva commentato (quando ancora non era parlamentare) una iniziativa nelle scuole di Arcigay. Il risarcimento, da liquidarsi in sede civile, è stato stabilito nei confronti dello stesso circolo e di un attivista, con una provvisione complessiva di 30 mila euro, al pagamento della quale il giudice ha subordinato la sospensione della pena. Durante un incontro a Perugia, Pillon, che all’epoca ancora non era senatore, aveva detto che i volantini informativi contro omofobia e bullismo distribuiti dall’associazione Omphalos-Arcigay in un’assemblea di istituto organizzata in una scuola umbra servivano a «propagandare» l’omosessualità. «Invece si trattava di un’iniziativa dell’associazione per la prevenzione di malattie veneree e al bullismo omofobico», ha spiegato il legale di Omphalos. Il giudice ieri ha stabilito che quelle di Pillon erano affermazioni diffamatorie. «Difendere le famiglie dall’indottrinamento costa caro»: ha commentato il senatore Pillon dopo la condanna. Il parlamentare ha assistito in aula alla lettura della sentenza. «È un primo grado — ha detto ancora Pillon — non una sentenza definitiva. Ci sarà spazio per l’appello».
Diffamazione, Pillon condannato: il senatore non cambia account e si fa i complimenti da solo. Dopo la sentenza di Perugia, che gli ha inflitto multa e risarcimento nei confronti di Arcigay, l'esponente leghista ha postato su Facebook un commento dal suo stesso profilo, con scritto "Forza Simo!", subito preso di mira sui social, scrive il 12 aprile 2019 Repubblica. Lui, il senatore leghista Simone Pillon, la sentenza del giudice di Perugia, che l'ha condannato per diffamazione a pagare una multa di 1.500 euro ma soprattutto a risarcire con 30mila l'Arcigay Omphalos del capoluogo umbro, che aveva definito adescatori di minorenni, l'ha giudicata "una medaglia". "Ho difeso la famiglia e non mollerò mai", ha insistito l'autore del controverso e contestato ddl in materia di affido e separazione che porta il suo nome, ma non si è fermato qua, tanto da arrivare a farsi i complimenti e a incoraggiarsi da solo. Per un errore, commesso probabilmente da chi si occupa dei suoi account social, sotto al post su Facebook (poi rimosso) nel quale il senatore scriveva "Sono stato condannato in primo grado per aver osato difendere la libertà educativa delle famiglie, che a quanto pare non possono più rifiutare l'indottrinamento gender propinato ai loro figli. Ricorreremo in appello, ma è proprio vero che certe condanne sono medaglie di guerra. Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario, diceva Orwell. Beh, io non mollo. E non mollerò mai", è apparso un commento, postato dallo stesso account personale, con scritto "Forza Simo!", con tanto di 44 like. Insomma il senatore o è il social media manager di se stesso, o il suo account viene gestito a sua insaputa. Poi Pillon ha provato a rimediare un commento più articolato, ma alla fine evidentemente lui e il suo staff hanno preferito far sparire tutto. Ma si sa, è difficile far sparire le tracce dai social network. E i commenti, ironici, non lo hanno risparmiato.
Monica Cirinnà, si presenta al corteo con l'insulto sul cartello: come massacrano la dem, scrive il 10 Marzo 2019 Libero Quotidiano. L'ex senatrice del Pd Monica Cirinnà si è guadagnata il suo minuto di notorietà grazie alla foto che la ritrae con un cartello durante il corteo femminista per l'8 marzo: "Dio-Patri-Famiglia: che vita di merda". La Cirinnà ha pensato bene così di insultare sostanzialmente tutta Italia e i valori della Costituzione, testo che fino a pochi anni fa i piddini difendevano dalle "minacce fasciste". Un chiaro insulto quella Cirinnà accolto con un fiume di insulti sui social: "Legittimo essere atei, figuriamoci - le scrivono su Facebook - ma per quanto riguarda la famiglia, la rimando all'articolo 29 della Costituzione. Non che le importi perché pare abbia in odio anche la patria. Senta, una domanda, i soldi che le dava la Patria da senatrice, invece, le piacciono?". Addirittura Enrico Mentana ha definito un "cartello fesso" quello dell'ex senatrice, presa in giro anche da Matteo Salvini: "Vita di merda? Contenti loro".
“CARLA LEWIS”: QUANDO IL FIGLIO DEL VENTO FU MESSO SUI TACCHI A SPILLO DA ANNIE LEIBOVITZ. Emanuela Audisio per “il Venerdì - la Repubblica” l'8 aprile 2019. Solo lui poteva farlo. E lo fece. Ma assomigliava a un tentativo di suicidio. «Annie Leibovitz mi chiamò e mi parlò della sua idea. Tutti gli altri mi imploravano: non farlo, davvero, non puoi». Era il 1994. Lui era il numero uno, il dio della velocità, il nuovo Owens. L' uomo dei record. Per convincerlo, la fotografa americana volò a Houston. «Mi guardò in faccia, disse che era un messaggio molto forte, non le importava cosa pensassero i miei manager o mia mamma, non dovevo ascoltare. Va bene, le risposi, se tu ne sei convinta, facciamola». Si trattava, per dirla in slang, «to do an ad in pumps». E così venticinque anni fa Carl Lewis si mise in posizione di sparo: mani a terra, sedere in alto. C' era solo un particolare: i tacchi a spillo rossi. Solo che Lewis non era una signora, ma l' uomo più veloce del mondo, 43,373 chilometri all' ora nei cento metri. Il simbolo dell' atleta perfetto: classe, versatilità, stile. Molto chiacchierato, ma molto vincente. E quell' immagine era molto più di un manifesto, quasi un coming out, giocava sull' ambiguità, anzi su un tabù, quello della sessualità. In anni in cui perfino il cantante George Michael teneva la sua omosessualità nascosta. Lewis sembra sussurrare: e se anche lo fossi? In più c' era lo slogan Pirelli: la potenza è nulla senza il controllo. Altro doppio senso: come si poteva andare veloci con i tacchi a spillo? Era una campagna pubblicitaria di rottura, c' è chi gridò allo scandalo, chi ancora peggio, denigrò, perché si sa che il sarcasmo non costa niente. In Inghilterra bastò un giorno di affissione perché il Daily Mirror sparasse la foto su due pagine, accompagnandola con il titolo: «Carla Lewis». Finalmente Lewis si era smascherato, la scelta di salire sui tacchi a spillo era stata molto più di un lapsus freudiano, quasi un' evirazione. A provocarlo c' era già stato il decatleta britannico Daley Thompson che nell' 84 ai Giochi di Los Angeles si era presentato in pista con una T-shirt con la scritta: «Il secondo atleta più forte del mondo è gay?». Naturalmente, il primo era lui. Poi c' era stata la dichiarazione di Greg Louganis, americano, campione olimpico di tuffi, sieropositivo: «Lewis è molto più gay di me». La fortunata campagna pubblicitaria (il poster è stato giudicato tra i 100 più belli del secolo) era stata creata dell' agenzia Young & Rubicam di Londra. Massimo Costa, allora account director, ricorda che il merito fu di un team eccezionale, dell' imput di Marco Tronchetti Provera della Pirelli, messaggio chiaro e forte, e della creatività di un ragazzo di 22 anni, un rookie, Ewan Paterson, che stava muovendo i primi passi in quel mondo e a cui venne l' idea della potenza senza controllo. Costa racconta: «Ci voleva coraggio intellettuale, amore del rischio, voglia di stupire, e un grande lavoro di squadra». Metteteci anche Annie e Carl e venticinque anni dopo quella campagna urla ancora. Non era adatta a tutti, e infatti Carl Lewis non era tutti. Soprattutto non aveva paura di rovinare la sua immagine in un Paese puritano che si era mantenuto a distanza di sicurezza, sospettosa del suo amore per i body e per i lucidalabbra. Tra lui e l' America più di dieci anni di grande freddo e l' accusa: non abbastanza nero, troppo dandy, troppo poco maschio, troppo antipatico, troppo predestinato. Un Grande Gatsby che si era meritato la battutaccia di Reagan che in campagna elettorale andò a chiedergli il voto: «Ho fatto molto per voi». Lewis: «Per noi neri?». Reagan: «No, per voi ricchi». Uno che era stato ricoperto di fischi quando, convinto di poter fare Michael Jackson, andò a cantare, vestito di paillette argentate, in una partita Nba, e stonò così tanto che tutti si misero le mani sulle orecchie. Quello che a Barcellona nel '92 andò con un giro d' onore a cercarsi gli applausi, mentre si stava disputando la semifinale dei 5.000 metri, e si beccò un coro di offese e di scansati, ridicolo. Lewis era sospetto: non si faceva vedere con le donne, non cercava complicità, non temeva gli avversari, tanto erano figli di un dio minore, un salto e via, subito a casa, senza nemmeno aspettare la prova degli altri. Carl volava sul mondo a suo modo, dieci anni senza una sconfitta. Lui era diverso. Doveva far passeggiare il suo cane Ramsete, dare l' acqua ai fiori del giardino, sistemare la collezione di cristalli Baccarat, occuparsi della sua dieta vegetariana, e anche rispondere alla signora Clinton che lo chiamava dall' aereo. Al funerale del padre, nella bara, Carl aveva messo il suo primo oro olimpico, non come atto di generosità, ma come gesto di supremazia, nella certezza che «te lo giuro papà la rimpiazzerò con un' altra». Lui non si nascondeva, l' umiltà non era tra i suoi difetti, celebre la sua frase: «Gli altri migliorano, noi Lewis siamo già perfetti». L' altra grande star dello sport Usa, Michael Jordan, mago dei canestri, nei suoi spot non provocava, anzi era un testimonial rassicurante: «Be like Mike». Giocava e si dissetava. Tutti volevano essere Jordan, non si rischiava il ridicolo. Ma invece chi voleva essere Lewis? E così quello che poteva essere un suicidio (assistito) dopo 25 anni è ancora una campagna vincente. E identità della Pirelli, che festeggia l' anniversario con una serie di attività creative, video (sempre Young & Rubicam), e testi di tre scrittori che interpretano il concetto di «Power is nothing without control»: Lisa Halliday, per il mondo dell' arte, Adam Greenfield per la tecnologia, J.R. Moehringer per lo sport. Lewis oggi ha 58 anni, è stato il post Owens e il pre Bolt: primo oro a Cinque Cerchi nell' 84, l' ultimo nel '96. In tutto nove medaglie d' oro olimpiche e un argento, tre record mondiali. Diciassette anni di grande carriera, ma anche di commenti sarcastici, di sussurri e grida. È ricco, sta sempre molto per conto suo, non partecipa alla riunioni dell' atletica, ma è stato testimonial per la Fao. Se per gli altri «quella» fu una trasgressione, per lui fu «my way», il suo modo di partecipare, senza curarsi del (pre)giudizio degli altri. «Con me il gioco è sempre stato quello: farmi passare per quello che non ero, solo perché cercavo di essere qualcuno anche fuori dallo sport. E ci sono riuscito: il cartellone della Pirelli con me in tacchi a spillo non verrà mai dimenticato».
Poveri maschi, nuovo sesso debole, scriveva Massimo Fini già nel 1990. A Roma è stata fondata l'lsp, un'associazione che si propone di tutelare i diritti del padre nelle situazioni di separazione coniugale. Oggi infatti è l'uomo a subirne tutti i danni. È lui che deve lasciare i figli. È lui che deve abbandonare la casa coniugale. È lui che deve, quasi sempre, corrisponderne gli alimenti. E precipita così in una tragedia economica e affettiva di cui chi non ha vissuto personalmente tali situazioni può difficilmente rendersi conto. Dato il costo che, soprattutto nelle grandi città, hanno gli affitti e il fatto che il suo stipendio è ampiamente decurtato, a volte dimezzato, dagli alimenti, il separato, l'unico soggetto, in Italia, che può essere sfrattato da un giorno all'altro, ha grandissime difficoltà a trovare una casa. In genere è costretto ad installarsi in un monolocale periferico oppure ad accettare l'umiliante soluzione del ritorno alla casa dei genitori, se ha la fortuna di averli ancora. Dal punto di vista affettivo le cose vanno anche peggio. Pur se il codice civile riconosce al coniuge non affidatario, cioè al padre, alcuni diritti, in realtà è il coniuge affidatario, cioè la madre, che di fatto ha tutto il potere sui figli. Basta che costei faccia un poco di ostruzionismo per rendere estremamente difficile, a volte impossibile, lo striminzito incontro settimanale, di solito un solo giorno, del padre con i figli. Conosco non poche situazioni di padri che non riescono a vedere i propri figli da un anno, da due. I ricorsi al tribunale sono macchinosi e, in genere, non mettono capo a nulla. Ma anche quando i rapporti fra gli ex coniugi sono meno incivili e la donna si rende conto che i suoi figli hanno bisogno della figura paterna non meno di quella materna, il rapporto fra il padre separato e i suoi figli è difficile o, comunque, falsato. Se tuo figlio ti vede una volta alla settimana ti considererà, nella migliore delle ipotesi, una vacanza. A te, padre, manca, inevitabilmente, la quotidianità dei rapporti con tuo figlio, con i suoi compiti, i suoi giochi, i suoi interessi, i suoi amici. Per cui il contributo alla sua educazione, che pur la legge ti attribuisce come diritto, sarà inesistente. Nè si può dimenticare che la donna può, come suoi dirsi, «rifarsi una vita» con un altro uomo ed ospitarlo nella ex casa coniugale. È naturale. È giusto. Ma a te toccherà fare i conti anche con questo vicepadre, che ha con tuo figlio rapporti molto più continuativi di quelli che hai tu, e non ti resterà che sperare che sia almeno una brava persona. Per cercare di ovviare, almeno in parte, a questi dolorosi ! inconvenienti, l'lsp ha formulato tre proposte, La prima è di assicurare, con opportuni interventi amministrativi, al coniuge separato un alloggio decente nel quale possa ricevere i figli. La seconda è che i figli siano concessi al coniuge non affidatario per molto più tempo di quanto non avvenga ora, in modo da garantirgli la possibilità di incidere realmente sulla loro educazione. La terza è che i figli vengano affidati al padre in un maggior numero di casi. Oggi infatti sono venute meno le ragioni, sociali ed esistenziali, che consigliavano l'affidamento, pressoché esclusivo, dei figli alla madre. Oggi la donna lavora e non ha più tempo di quanto abbia un uomo da dedicare ai figli. Non si vede quindi perché questi debbano essere automaticamente, come è avvenuto finora, affidati alla madre, a meno che non si tratti, naturalmente, di bambini molto piccoli. Inoltre è cambiato l'atteggiamento dell'uomo verso la paternità, che è molto meno distaccato di un tempo (per la semplice e buona ragione che , in un mondo che è stato desertificato d'ogni valore, l'uomo si rende conto che l'unica cosa concreta, vera, reale, per la quale vale la pena, sono i figli). Che l'uomo sia incapace di provvedere alla prole è quindi diventato un luogo comune, privo di realtà. Ma il discorso potrebbe essere allargato. Perchè la verità è che in questi anni, nonostante tutti i piagnistei delle femministe, si è venuta piano piano creando una situazione di sperequazione, giuridica e di fatto ai danni dell'uomo. Due anni fa la Corte costituzionale ha ribadito il principio che la scelta di abortire spetta solo alla donna e che l'eventuale opposizione del padre, anche se coniuge, non ha rilevanza giuridica. È una sentenza ineccepibile perché, in un ordinamento che contempla l'aborto, solo la donna può decidere del feto che porta in grembo. Tutto ciò è molto comprensibile, però resta il fatto che in tal modo è leso irreparabilmente l'interesse dell'uomo, marito o compagno che sia, alla paternità. Meno comprensibile, per esempio, è che l'uomo faccia il servizio militare e la donna no. Se la donna può fare il poliziotto non si vede perché non possa fare anche il soldato. Ancora più inspiegabile è che le donne vadano in pensione cinque anni prima degli uomini dato che vivono, in media, sette anni di più. Ci pare quindi venuto il momento di tutelare i diritti del sesso debole: quello dei maschi.
Quando i papà sono il sesso debole. La dittatura del femminismo, scrive Annalisa Chirico, Venerdì 20/03/2015, su Il Giornale. Ora che il 19 marzo è passato e abbiamo spedito cuoricini via sms ai nostri papà, una cosa possiamo dircela: la paternità non è affatto una festa. Al giorno d'oggi è un autentico campo minato, un terreno accidentato dove la donna, con il suo sottaciuto potere, spadroneggia. Ammetterlo costa fatica giacchè viviamo sotto la dittatura del politicamente corretto a pois rosa: per definizione la donna è vittima e l'uomo carnefice. Guai a sfidare il teorema. Eppure in tema di paternità sono le donne il sesso forte, fortissimo. Nessuna persona ragionevole imporrebbe a una donna una maternità forzata, non nel nostro Paese. Abbiamo lottato e difendiamo la legge che ha posto fine al dramma delle mammane e dei cucchiai d'oro per consentire alle donne di autodeterminare la propria vita procreativa, di decidere se e quando diventare madri. Ma se riconosciamo alla donna il diritto di dire no a una gravidanza indesiderata, perchè non dovremmo riconoscere la stessa possibilità all'uomo? Un paio di anni fa l'avvocato e femminista francese Mary Plard ha pubblicato un libro dal titolo Paternités imposées , un mosaico di storie di padri «loro malgrado», uomini obbligati per legge al test del dna e a farsi carico di un legame genitoriale che non avevano né voluto né cercato. Storie di dolore maschile in cui la donna esercita un potere assoluto su una questione cruciale come quella di mettere al mondo una vita. La donna comanda già prima del concepimento quando rassicura l'uomo sui giorni di infertilità in base al ciclo mestruale oppure garantisce al malcapitato la copertura della pillola contraccettiva (che magari da qualche tempo ha smesso di trangugiare perchè l'«orologio biologico» chiama). Se invece l'incidente avviene durante l'atto sessuale perchè il preservativo fa crack, è sempre la donna che decide se assumere o meno un contraccettivo d'emergenza come la pillola del giorno dopo. Insomma la palla resta saldamente nelle mani di lei. Quanti matrimoni sono nati da una gravidanza non ricercata (almeno da lui)? Quanti amorazzi diventano unioni ufficiali soltanto dopo che lei ha «scoperto» di essere rimasta incinta? Quel che accade nove volte su dieci è che il figlio si trasforma in un formidabile collante, almeno per quattro o cinque anni. Poi puff. In Francia le antiche sodali femministe hanno accusato la Plard di aver tradito la sua storia aggredendo la donna in una campo sacro come quello della maternità. Lei ha risposto che la parità di genere è anche parità di scelta. Del resto, se pretendiamo che un figlio possa nascere grazie alle tecniche di procreazione medicalmente assistita, che possa crescere anche con un solo genitore e possa essere allevato da una coppia gay, perchè dovremmo obbligare un uomo al test del dna e ad assumere su di sé un legame genitoriale che non desidera? La donna che si prende la responsabilità di portare avanti da sola una gravidanza perchè deve ottenere per via giudiziaria il sostegno economico di un uomo che non ha condiviso la sua scelta riproduttiva? Naturalmente ogni storia è un caso a sè ma in una società che cambia è difficile ignorare alcune vistose contraddizioni. In Canada un uomo ha scoperto che tre dei quattro figli che credeva suoi in realtà avevano un altro padre, e il tribunale ha deciso che dovrà continuare a mantenerli in virtù del «legame genitoriale» ormai instaurato, che vale assai più di quello biologico. Del resto non sono i geni a renderti padre o madre. Almeno questo dovremmo averlo imparato.
Femministi e razzisti pari son, scriveva Massimo Fini già nel 1990. «Quem Deus perdere vult, dementat prius». colui che Dio vuoI perdere prima lo fa uscire di senno, così dice la sapienza degli antichi. Come se a Botteghe Oscure non ci fossero già abbastanza guai. Cesare Salvi. responsabile per il Pci dei problemi dello Stato e membro della Commissione nazionale per la parità fra uomo e donna, si è fatto latore di una proposta delirante del tutto degna del suo quasi omonimo, il cantante demenziale Francesco Salvi. Secondo Salvi (Cesare), per aumentare la rappresentanza femminile in Parlamento bisognerebbe, d'ora in poi, dividere le circoscrizioni elettorali non solo per territorio ma per sesso. Inoltre in ogni seggio dovrebbero esserci due urne: una per i votanti maschi, l'altra per le femmine. Come corollario necessario, anche se Salvi (Cesare) su questo punto è stato piuttosto oscuro, ci dovrebbero essere anche due liste, una formata da sole donne, l'altra da soli uomini, altrimenti la proposta perderebbe anche il suo senso demenziale, riducendosi a una sorta di «apartheid» che colpirebbe, Dio sa perché, gli uomini e le donne al momento del voto. È un progetto, quello di Salvi (Cesare), che fa giustizia d' un sol colpo di quattro principi costituzionali. Quello della universalità della rappresentanza, quello della libertà del voto, per cui ciascun elettore, uomo o donna che sia, deve poter scegliere il proprio candidato, uomo o donna che sia, senza condizionamenti di sorta. Quello della segretezza del voto che qui verrebbe invece individuato se non per il singolo per una quota di elettori. Infine questo progetto, nonostante si proponga l'esatto contrario, viola il principio d'uguaglianza favorendo elettoralmente il sesso più numeroso. Ha detto Salvi (Cesare) a difesa della proposta che il suo intendimento «è di tener conto della differenza sessuale anche nella sfera della politica». Forse il parlamentare comunista si è dimenticato che proprio per annullare quella differenza sul piano dei diritti civili, di cui quello elettorale, attivo e passivo, è uno dei più importanti, le forze progressiste hanno compiuto un lungo cammino che, partendo dalla Rivoluzione francese, è sfociato nell'art. 3 della Costituzione che recita: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione...». Voler ripristinare quella differenza, sia pure a pro delle donne, è un nonsense storico, giuridico, sociale. In realtà sotto il manto progressista la proposta di Cesare Salvi, come quell'altra di riservare in ogni azienda una quota di posti di lavoro alle donne, partorita anch'essa tempo fa dalla insonne e perniciosa Commissione nazionale per la parità fra uomo e donna (un'invenzione demagogica del governo Craxi), è intimamente reazionaria, razzista e dovrebbe essere sentita come offensiva proprio e innanzitutto dalle donne. Perché le tratta come delle handicappate, come una razza a sé, come una specie protetta alla stregua delle foche monache. Una donna dovrebbe essere eletta (o assunta) perché ritenuta capace di svolgere bene il lavoro che è chiamata a fare, non per altro, cioè per decreto o in virtù di ambigue corsie preferenziali. Spiace che Cesare Salvi abbia affrontato un argomento del genere come se fosse Francesco Salvi, inserendolo così in un filone comico-demenziale ricco di sviluppi esilaranti (che ne farebbe, per esempio, Cesare-Francesco Salvi dei travestiti? Metterebbe una terza urna? Istituirebbe davanti al seggio un controllo medico per individuare il sesso prevalente?). Perché il problema, seppure così malposto, esiste. È vero che, in Italia, le donne sono scarsamente rappresentate in Parlamento nonostante i partiti facciano ormai a gara per candidarle nel tentativo di ingraziarsi l'elettorato femminile. Secondo l'imperversante paleofemmÌnista Elena Gianini Belotti ciò dipenderebbe «dall'insuperabile disgusto che le donne hanno per questa politica». Tesi anch'essa razzista che tende a presentare le donne come esseri angelicati rispetto agli uomini corrotti, e senza fondamento alcuno. Non risulta da nessuna parte, per esempio, che l'astensionismo femminile sia superiore a quello maschile. La verità è che esiste un pregiudizio sfavorevole alle donne, che le si ritiene inadatte alla politica, pregiudizio della cui idiozia sono buone testimoni Margaret Thatcher, Benazir Bhutto, Indira Gandhi. Ma di questo pregiudizio sono portatrici più le donne che gli uomini. Perché -nonostante tutte le balle femministe sulla «sorellanza»- la realtà è che le donne si fidano poco delle donne, nella vita e quindi anche nella politica. Però questa fiducia non può essere imposta per legge, come pretenderebbe Salvi, costringendo le donne a votare per le donne. È un fatto di costume che può evolvere, se ha da farlo, solo col costume. Secondo Tina Anselmi e Giuliano Amato sarebbero invece le lobbies elettorali a penalizzare le donne (dove per lobbies si devono intendere gli apparati dei partiti). Ma questo non è un problema delle donne, è la questione cardine della democrazia rappresentativa e una delle ragioni principali, se non la principale, che ne mette in dubbio la stessa validità. Nella democrazia rappresentativa infatti il peso del voto del singolo è solo apparente. Per la ragione intuita da Gaetano Mosca già nel 1896 quando gli apparati dei partiti non avevano certamente la consistenza di oggi: «Cento, che agiscano sempre di concerto e d'intesa gli uni con gli altri, trionferanno su mille presi ad uno ad uno che non avranno alcun accordo fra loro». Cioè il voto libero, proprio perché libero, si diversifica e si disperde, laddove i veri detentori del potere elettorale, vale a dire gli apparati dei partiti, facendo blocco su questo o quel candidato, hanno un peso decisivo. Il gioco elettorale si riduce quindi ad una gara truccata di cui, a parte qualche marginalità, si sanno in partenza i vincitori. Che poi questi, in un tal sistema, siano uomini o donne cambia poco o nulla.
Cirinnà "Dio, patria e famiglia? Era uno slogan fascista". La Cirinnà replica alle critiche: "Con quella foto ho denunciato la ripresa di uno slogan fascista, criticando chi di quei tre concetti si fa scudo per creare un clima di discriminazione, oscurantismo e regressione culturale". Ma Salvini la blasta, scrive Francesco Curridori, Domenica 10/03/2019 su Il Giornale. "Dio Patria Famiglia era uno slogan usato dal regime fascista". Dopo gli insulti ricevuti sul web, Monica Cirinnà ora passa al contrattacco rivendicando la foto che la ritrae con in mano un cartello a dir poco provocatorio per coloro che seguono questi tre valori. "Non ho il dono della fede, ma rispetto profondamente tutti i credenti, senza mai averli blanditi con rosario e Vangelo per poi tradirne gli insegnamenti", dice oggi l'ex senatrice Pd e relatrice della legge sulle unioni civili. "Sono una rappresentante del popolo italiano e credo che patria sia la comunità delle persone libere ed eguali, inclusiva accogliente solidale. Riconosco la bellezza della famiglia, tanto da aver lavorato per riconoscere tutte le famiglie di questo Paese", aggiunge Monica Cirinnà che due giorni fa ha pubblicato su Facebook la sua foto con quel cartello in mano mentre sfilava al corteo femminista in piazza Vittorio a Roma. "Ne rivendico il senso autentico, cioè la denuncia della strumentalizzazione di quei tre concetti da parte di chi vuole riportarci al Medioevo", spiega riferendosi al ddl senatore leghista Simone Pillon. "La mia critica non va nè alla Chiesa, nè alla patria, nè alla famiglia: con quella foto ho denunciato la ripresa di uno slogan fascista, criticando chi di quei tre concetti si fa scudo per creare un clima di discriminazione, oscurantismo e regressione culturale. E chi ancora oggi propugna un concetto di famiglia che non riconosce l'autonomia femminile e anzi opprime le donne", conclude la Cirinnà dicendosi "convinta che chi tiene davvero a quei tre concetti sia il primo a volerli difendere da ogni strumentalizzazione medievale, e dunque abbia perfettamente compreso il messaggio, senza sentirsene offeso". Il ministro dell'Interno, Matteo Salvini, oggi non ha perso l'occasione di rilanciare sui suoi canali social la foto, aggiungendovi però i volti di Renzi, Martina e Zingaretti, seguiti dall'ironico commento: "Contenti loro...buona domenica Amici". Pronta la risposta dell'ex ministro Carlo Calenda che twitta:"Amico mio invece di twittare questa roba ridicola sull’opposizione pensa alla TAV, alla recessione e alla gestione dei migranti in Italia. Sei pagato per quello. Buon compleanno. Spero ti porti un po’ di saggezza e maturità". Senpre Calenda, poi, ha risposto così a un utente che contestava le sue affermazioni: "Dio è morto e famiglia e patria non contano più? Vogliamo combattere il nazionalismo becero? Facciamolo in modo intelligente non cadendo nei luoghi comuni opposti ugualmente superficiali. Patriottismo inclusivo, laicità ma non secolarizzazione, famiglia moderna non solitudine". A questo punto 'torna in campo' la Cirinnà che risponde sia a Salvini sia a Calenda. Al primo dice:"Il ministro dell'Interno ha la pessima abitudine di esporre i suoi avversari alla gogna dei social. Non mi preoccupa che lo abbia fatto nei miei confronti, che ho le spalle larghe; mi fa orrore vederglielo fare nei confronti di ragazze, 'colpevoli' solo di manifestare il loro dissenso verso la sua politica. Qualcosa di inaccettabile e vergognoso. Questo accade, pensiamoci, quando Salvini è in difficoltà, come in questo momento sulla Tav". Con Calenda è più 'tenera', anzi concorda con lui "quando dice che la migliore risposta al nazionalismo becero è un patriottismo costituzionale laico, inclusivo, rispettoso delle libertà di tutte e tutti e autenticamente egualitario. Questa è la giusta lettura della mia foto dell'8 marzo".
Cirinnà, il cartello è sbagliato. La spiegazione anche peggio. "Ho solo difeso l'antifascismo" ha detto la senatrice Pd per spiegare la foto con il cartello "Dio, patria, Famiglia: che vita di merda", scrive Panorama il 12 marzo 2019. La senatrice Pd Monica Cirinnà ha evidentemente perso una buona occasione. L'occasione per ammettere di aver sbagliato. Perché farsi fotografare e poi postare l'immagine sulla sua pagina fb del famoso cartello con scritto "Dio-Patria-Famiglia, che vita di merda." è semplicemente un errore. Niente di grave, ma pur sempre un errore. Dettato dalla foga, dal clima politico ormai fuori controllo, da quello che volete, ma è un errore. Invece no. Il giorno dopo la foto e le immancabili polemiche la Cirinnà ha ribadito sempre sui social i motivi della sua scelta e la bontà del suo gesto: “La mia critica non va nè alla Chiesa, nè alla patria, nè alla famiglia. Con quella foto ho denunciato il riciclo di uno slogan fascista, criticando chi di quei tre concetti si fa scudo per creare un clima di discriminazione, oscurantismo e regressione culturale”. Insomma, tutto bene. Ho ragione io. La toppa però è enorme e, come vuole il proverbio, peggiore del buco. Perché ci può anche stare la "goliardata" di un cartello in una manifestazione che ti fa un po' andare oltre le righe. Ma poi, a mente fredda, il giorno seguente, dopo aver rivisto e ripensato a quella foto, ci saremmo aspettati non un passo indietro ma forse uno in avanti, davvero "rivoluzionario": una sola frase, "ho sbagliato". Perché, checché ne dica la senatrice del Pd, l'offesa resta. Verso i cattolici, credenti e praticanti, verso chi ama il proprio paese, verso chi ha costruito una famiglia tra mille difficoltà quotidiane. Ma a quanto pare la senatrice ha un'idea diversa. Il suo odio verso il Creatore forse risale alle scuole, lei che ha studiato in un istituto gestito dalle suore. Per non parlare della famiglia, lei che ha dato il nome alla legge sulle unioni civili. O della patria, che lei vorrebbe aperta ed accogliente per ogni barcone e migrante in arrivo da ogni parte del globo. Abbiamo visto negli ultimi giorni immagini di ogni tipo. Abbiamo visto una donna sorridere mentre sollevava un cartello in cui annunciava al mondo che è "meglio essere putt... che salviniana" (salvo poi gridare alla gogna mediatica una volta che quella immagine e quelle parole sono diventate più popolari di quanto pensasse). Abbiamo visto una ragazza l'8 marzo agitare invece della mimosa, un’altra scritta: "Il corpo è mio e non di quel P.... di Dio". Ci può stare. Gesti di vera e propria tifoseria politica passabili e comprensibili per una ultras di questo o quel partito. Ma una senatrice ha il dovere di essere al di sopra a tutto questo. La Cirinnà ha scelto di abbassare il livello, del cartello e delle sue spiegazioni. Alle quali potrebbe aggiungere quali siano i valori su cui basa la sua vita, di sicuro meravigliosa. Ps. Avremmo apprezzato molto un "appunto", una "reprimenda" alla senatrice dal neo segretario Pd, Zingaretti. Che invece tace. E chi tace, di solito, acconsente.
RITRATTO DI MONICA CIRINNÀ BY GIANCARLO PERNA. Giancarlo Perna per “la Verità” il 20 aprile 2019. In passato, la senatrice pd, Monica Cirinnà, era solo la moglie del senatore pd, Esterino Montino. Oggi, è invece il senatore, Esterino Montino, a caratterizzarsi come marito della senatrice, Monica Cirinnà. Le gerarchie sono ribaltate, innalzando Monica a portabandiera di un sodalizio familiare largo di soddisfazioni per entrambi. Attualmente, Montino è sindaco di Fiumicino, località marittima, alle porte di Roma, dopo essere stato in Senato per due legislature (2001-2008). Il posto in Senato è ora occupato dalla moglie Cirinnà, al secondo mandato. A Palazzo Madama, dov'è dal 2013, Monica è diventata una celebrità nazionale in tema di gay, bisex, transgender e matrimoni alternativi. Cirinnà, 56 anni irriconoscibili dietro la fanciullesca cascata di capelli biondi, ha caratterizzato la XVII legislatura (2013-2018) con la legge che porta il suo nome sulle unioni civili, etero e gay. Ha poi, con temperamento combattivo ai limiti della rissosità, dissodato il terreno per ulteriori conquiste: l' adozione di bambini da parte di scapoli, zitelle e coppie del medesimo sesso; l' ordinazione di figli a piè di lista, embrioni all' asta e maternità surrogata (utero in affitto). Non c'è combinazione carnale o intreccio tra esseri umani che Monica non guardi con favore e spirito aperto. Icona dei Gay pride, su lei non hanno presa i pregiudizi che sostengono le unioni uomo-donna e i bambini concepiti in famiglia. Si tratta - sostiene - di un armamentario retrivo e oscurantista. Anzi, fascista, come dice quand'è infuriata. Un giorno, ha voluto spiegare la sua visione senza tabù, coinvolgendo affettuosamente il suo Esterino: «Sento un peso enorme, quello della felicità degli altri, una felicità che io ha già perché vivo con l' uomo che amo e ho un rapporto molto bello con i suoi 4 figli, la mia famiglia allargata». Per cui, tana libera a tutti.
LEI ANIMALISTA, LUI CACCIATORE. Monica vive con Esterino da un quarto di secolo. Si conobbero nel 1994 al consiglio comunale di Roma. Lei era nel gruppo dei Verdi, legati al sindaco di allora, Francesco Rutelli. Nella manica del primo cittadino, Cirinnà aveva delega sulle bestie randagie della capitale, poiché era nota come animalista. Riorganizzò canili e gattili spendendo grandi quantità di denaro. L'opposizione le rinfacciò gli sprechi, chiedendole se per caso nutriva i suoi protetti con hamburger. Con Montino, che nel parlamentino capitolino sedeva tra i pidiessini, non era ancora scoccata la scintilla. Anzi. Quando lei passava davanti al suo scranno, lui le faceva «miao, miao, bau, bau». Tra loro, c'era differenza d' età e di interessi. Monica era allora trentenne, Esterino di 45 anni; lei avvocatessa, vegetariana, femminista; lui, enologo, cacciatore, carnivoro.
LO SCANDALO CASA. Si innamorarono un paio d'anni dopo, quando Esterino divenne assessore ai Lavori pubblici. Non c'è nesso tra le due cose: doveva accadere. Il nesso ci fu invece per la casa in cui convissero. Scoccava il Duemila, anno del Giubileo, e fervevano i lavori. L'assessore Montino era in continuo contatto col Vaticano e, com'è come non è, la coppia andò ad abitare in un appartamento di Propaganda fide, nel cuore di Roma a prezzo stracciato. Ci fu uno scandaletto per il privilegio e le solite giustificazioni sulla casa malandata. Tuttavia continuarono ad occuparla, essendo nel mare magnum romano, peccato assai veniale. Oggi, vivono altrove. Il matrimonio fu celebrato soltanto nel 2011. Esterino era alle sue terze nozze, con già 4 figli a carico e diversi nipoti. Lei era divorziata da un marito di cui non parla mai, mentre è prodiga di particolari sulla famiglia allargata. A Natale si riuniscono tutti in Maremma, dove i coniugi posseggono la tenuta CapalBioFattoria che produce e smercia olio, vino e marmellate. Nei campi intorno, 4 cani, compreso un beagle sottratto da Monica con un colpo di mano alla sperimentazione animale, 4 gatti, 2 cavalli e vari asini amiatini (Monte Amiata).
IL FRATELLO RICERCATO. Partecipano alla festa, oltre a figli, nuore e nipoti, le due prime mogli di Esterino. È presente anche il fratello adottivo di Monica, di origine egiziana, e assente, per forza maggiore, il fratello carnale, Claudio. Ragazzo difficile già da adolescente, restio a studiare, Claudio Cirinnà è infatti latitante. Noto tra le sue cattive amicizie come «il matematico», è inseguito da un ordine di cattura per traffico di carburanti con la Cechia. Da 10 anni, dice Monica, non ha rapporti con lui e ignora dove sia. Indiscrezioni, lo segnalano a Dubai come Giancarlo Tulliani, il noto cognato. Tornando al Natale capalbiese, è l'attimo in cui Monica dà il meglio di sé. Depone la sua aggressività di politica, cangiandosi nella fatina di casa. Consegna doni e sparge letizia. Mai si è finta la mamma dei figli del marito ma, come ha raccontato, preferisce «essere la loro sorella grande, la cugina simpatica». Ribadendo con ciò il suo fregolismo umano e la naturalezza con cui mischia ruoli familiari, affetti, gameti, ovuli ed embrioni. Cirinnà proviene da ambiente cattolicissimo, a cominciare dalla mamma, pia discendente di famiglia nobile decaduta. Frequentò elementari e medie dalle suore sempre però più ribelle. Finché, riuscì a farsi trasferire in un liceo statale, il Tacito, a ridosso della Città Leonina. Si unì ai moti studenteschi, illustrandosi in occupazioni e disordini vari, senza mai strafare. Giunse così tranquillamente alla laurea in Legge, facendo anche a lungo l'assistente di Franco Cordero, suo docente di procedura penale. Finita la fase secchiona, cominciò quella politica con l'elezione in consiglio comunale. Vi restò 20 anni.
INDIGESTA AGLI EX COMUNISTI. Sappiamo già che debuttò tra i Verdi. Poi, influenzata da Esterino, finì tra gli ex comunisti. Da quelle parti hanno però memoria d'elefante e Monica fu considerata spuria. Poiché nasceva Verde e un po' anarchica, tale restava agli occhi dei compagni. Le sue stesse manie transgender cozzano contro il moralismo dei sinistri autentici. Né le fu perdonato, specie tra le donne, lo spalleggiamento di Esterino, l'uomo dietro di lei. Un classico. Era già successo nel dopoguerra a Nilde Jotti, malvista e invidiata per la sua relazione con Palmiro Togliatti. Accadde perciò quanto segue. Nel 2008, divenne sindaco di Roma, l' ex missino, Gianni Alemanno, e Cirinnà era all' opposizione. Tuttavia, Francesco Storace, che di Alemanno è intimo, aveva - si dice - in grande simpatia Monica, piacendogli sia come donna che come politica. «È in gamba», ripeteva. La vedeva bene come vicepresidente dell' opposizione al consiglio comunale (la presidenza era della maggioranza). Di questo convinse Alemanno che fece la proposta di nomina al Pd, assicurando la benevolenza delle destre per Cirinnà. Il Pd però, per le ragioni sopradette, non volle saperne di lei e la promozione sfumò.
PER LEI TUTTO È «FASCISTA». Tuttora alfiere della promiscuità, Monica è al momento un po' in declino. Per reagire, strafà. L'8 marzo, festa della donna, si è presentata con un cartello e la scritta: «Dio, patria e famiglia: che vita de merda». I bacchettoni si sono indignati per avere tirato in ballo Dio. Monica ha replicato caparbia di non pentirsi perché il motto risorgimentale ha, secondo lei, un sapore fascista. Manca solo che papa Francesco, facendone delle sue, la chiami per complimentarsi.
"Mettiamo Salvini nel mirino". L'odio femminista sul ministro. Il ministro degli Interni, Salvini, ha sottolineato sui suoi profili social alcuni cartelli pieni di insulti e di bestemmie usati da alcune femministe, scrive Luca Romano, Mercoledì 13/03/2019, su Il Giornale. Le femministe mettono ancora una volta Matteo Salvini nel mirino. Il ministro degli Interni di fatto ha sottolineato sui suoi profili social alcuni cartelli pieni di insulti e di bestemmie usati da alcune femministe che hanno sfilato per le strade di diverse città italiane. Il titolare del Viminale soprattutto ha notato un cartello con un "mirino" posizionato sul suo volto. Un gesto che ha colpito e non poco il titolare degli Interni che su facebook mostrando la foto ha commentato così l'immagine: "Alcune "democratiche" manifestanti a Firenze mettono la mia faccia nel mirino. Simpaticissime. Pensate se lo avessero fatto in una manifestazione della Lega: giornaloni e intellettualoni avrebbero già firmato appelli e analisi scandalizzate, sbaglio???". E di fatto non è certo la prima volta che il ministro finisce nel mirino delle femministe. Ma nell'ultimo periodo il ministro è stato attaccato più volte anche sui social con messaggi di odio e anche con clip video in cui ad esempio un ragazzo brucia le sue foto. Sui muri delle città poi continua il festival dell'insulto con "Salvini muori male" a Forlì. Ad Oristano invece c'è chi ha fatto un blitz in una sede della Lega urlando: "Uccideteli tutti, donne e bambini, così non ne nascono più. Salvini merda". Una vera e propria carrellata di odio che non intimidisce il ministro degli Interni. Salvini ha ribadito: "Io non mi fermo e vado avanti".
LA STATUA DI INDRO MONTANELLI IMBRATTATA DI VERNICE DALLE FEMMINISTE. Scrive Marta Bravi per “il Giornale” il 10 marzo 2019. «Per la Repubblica si tratta di vandalismo, per noi invece è una doverosa azione di riscatto». Così il collettivo femminista Non Una di Meno rivendica l'imbrattamento con vernice rosa della statua dedicata a Indro Montanelli, nei giardini che portano il suo nome, avvenuta due giorni fa a Milano durante il corteo per l'8 marzo. Ieri su Facebook, gli organizzatori della marcia spiegavano: «Queste le parole di Montanelli a proposito della sua esperienza coloniale: Aveva dodici anni... a dodici anni quelle lì erano già donne. L'avevo comprata dal padre a Saganeiti assieme a un cavallo e a un fucile, tutto a 500 lire. Era un animaletto docile, io gli misi su un tucul con dei polli. E poi ogni quindici giorni mi raggiungeva dovunque fossi assieme alle mogli degli altri ascari...arrivava anche questa mia moglie, con la cesta in testa, che mi portava la biancheria pulita. Sono questi gli uomini che dovremmo ammirare? Abbiamo scioperato anche per quella bambina, stuprata e fatta schiava nel segno della superiorità della razza italica. La marea femminista fa la Storia presente e riscrive quella passata». «Complimenti» per il gesto arrivano dai Sentinelli, gruppo impegnato contro le discriminazioni e tra gli organizzatori della marcia People: «Ieri sera durante il corteo femminista la statua di Indro Montanelli è diventata rosa, a coprire il nero delle cose orribili fatte in vita. Per non dimenticare. Complimenti Non Una di Meno». Non è la prima volta che la statua del giornalista viene presa di mira, ricorda l'associazione degli Amici dei Giardini Montanelli. «La statua va messa in sicurezza al più presto, così come pure tutte le altre opere d' arte che ci sono ai giardini - il loro appello-. Ci sono ben 4 telecamere intorno alla Casa dell'acqua da poco installata, ma intorno alle statue no: è così che ognuno può vandalizzare senza problemi». Il giorno della festa delle donne però episodi di vandalismo non si sono verificati solo a Milano, ma, per esempio, anche a Perugia dove le «compagne» hanno imbrattato la rotatoria dedicata a Sergio Ramelli, il militante del Fronte della Gioventù, ucciso nel 1975 a Milano in un agguato dei militanti della sinistra extraparlamentare legati ad Avanguardia Operaia. «Poverette fuori tempo massimo, disadattate senza dignità che si sentono forti offendendo la memoria di una ragazzo di 19 anni brutalmente assassinato dai loro degni compagni antifascisti di ieri, figli della cultura dell'odio e della distruzione. Non vale la pena sprecare parole per queste poverette che pagano già la loro viltà, con una vita inutile ed insulsa fatta di odio e rancore», è scritto sul sito dedicato a Ramelli, dove scompaiono le foto dei cartelli imbrattati con scritte fatte con bombolette spray di colore rosa nella rotonda tra via del Giochetto e via del Favarone, intitolata al giovane missino dalla giunta Romizi.
Fulvio Abbate per Dagospia il 10 marzo 2019. La statua di Indro Montanelli ai giardini pubblici di Milano non è mai stata così bella, quel rosa che le è piovuto sul capo, come dripping divino, l’ha finalmente resa meravigliosa, umana, colatura lì a trascendere l’oro mortuario che fino a ieri l’ha contraddistinta, nell’afasia cimiteriale d’ogni monumento, cippo, busto, cenotafio alla memoria, poco importa. Lascia perdere perfino la questione che le amiche e compagne femministe di “Non una di meno”, doverosamente, pertinentemente, elegiacamente hanno posto attraverso quel gesto di apparente effrazione, ossia i suoi trascorsi di ufficiale del Regio Esercito fascista in Abissinia, metti da parte la storia della povera ragazzina dodicenne da lui “comprata” come fosse una serva, una attendente, anche in senso sessuale, pagina della sua biografia che lo stesso Indro affrontò, con onestà intellettuale, in un’intervista a Enzo Biagi. Così ne disse: “L’avevo comprata a Saganeiti assieme a un cavallo e un fucile, tutto a 500 lire. (…) Era un animalino docile, io gli misi su un tucul con dei polli. E poi ogni quindici giorni mi raggiungeva dovunque fossi insieme alle mogli degli altri ascari”. Prova piuttosto a dare uno sguardo alla statua così come appare adesso, e poi dimmi se non è finalmente un omaggio davvero splendente, perfino artisticamente luminoso, restituito all’umano, al tempo e le sue domande, dai, prova. Di Montanelli, la mia generazione, cioè quelli che si sono riconosciuti nella parole di Albert Camus - “Mi rivolto dunque siamo” - tra il ‘68 e il ‘77, per anni hanno pensato ogni male possibile, detestandolo, ritenendolo ora un “reazionario” ora un “fascista”; rammento ora perfino, con questi occhi, un concerto di Francesco De Gregori al Teatro “Biondo” di Palermo, era il 1975, “Rimmel” appena uscito, le maschere in sala a offrirlo agli eventuali acquirenti, De Gregori, filiforme, i capelli lunghi, mentre alla chitarra intona un pezzo dell’album precedente, “Informazioni di Vincent”, introducendolo con queste parole: “Vincent è uno che a me non piace, provate a immaginare come se al posto di Vincent ci fosse il nome di Indro, di Indro Montanelli”. Oceani sono passati sotto i ponti da allora, da quando a “tutti noi” lui, Indro, era davvero inviso, forse anche ingiustamente, per schematismo dogmatico, perfino per ottuso manicheismo tribale, anco prima che ideologico; lui, Montanelli, a un certo punto della nostra storia comune subì perfino un criminale attentato da parte di terroristi rossi, comunisti: gambizzato, e tuttavia bisogna riconoscere che mai il personaggio, la persona, il giornalista volle mostrare in quella vicenda tratti di rabbia o risentimento; quanti di noi avrebbero reagito con la sua flemma civile, da gentiluomo, sebbene “reazionario”, quello del “turarsi il naso e votare DC”? Lascia perdere perfino che, da un certo momento in poi, sempre lui, Montanelli, lo abbiamo invece sentito al nostro fianco, accadde soprattutto quando l’uomo, il giornalista si ribellò a Berlusconi, addirittura, sembrò lisergicamente che egli avesse infine addirittura sposato le nostre ragioni, di più, fosse diventato, come tutti noi, anche un po’ “comunista”, pensa. Personalmente, dovrei perfino avercela con lui per ciò che racconterò a breve, eppure il ricordo che ho della persona, alla fine, è terso, amabile, a dispetto finanche del modo in cui bollò, nel 1963, giorni del disastro del Vajont, “l’Unità” che denunciava le responsabilità rispetto oggettive per i quasi duemila morti: “Sciacalli”, li definì. Sarà stato il 1997, e io, proprio su “l’Unità” scrissi un articolo per dire di non poterne più della retorica dei poster con Che Guevara, le mie parole fecero imbestialire chiunque: dai “compagni” a “Famiglia Cristiana”, allo stesso Montanelli, che infatti nella sua rubrica “La Stanza”, sul “Corriere della Sera”, prese a difendere la memoria del guerrigliero contro uno stronzo scrittore trentenne che ne metteva in discussione la sacralità… Dettagli, non riesco proprio ad avere un ricordo cattivo di lui, anzi mi sembra che con l’uomo si potesse.
E la sua statua, finalmente, l’ho vista splendere, non come quando, insieme a un’amica giornalista, Antonella Fiori, pochi anni fa sono andato per la prima volta a osservarla da vicino, scorgendone, l’ho già detto, la mortuaria opacità di molti monumenti, perfino a dispetto di quel bronzo chiaro che allude invece al mattino dell’oro in bocca del giornalismo; anche quel giorno, lì con Antonella, come mostra un video che accludo, qualcuno, meglio, gli uccelli, aveva fatto i loro bisogni sul suo capo. Adesso è invece un po’ come se la Storia stessa gli avesse defecato tutto quel rosa splendente dal cielo, il migliore omaggio che si potesse donare alla sua memoria, alla sua irregolarità. Che gli addetti alla pulizia del Comune di Milano lascino tutto così com’è, quel rosa ha restituito verità e perfino poesia al nostro Indro.
Filippo Facci il 9 Marzo 2019 su Libero Quotidiano, la lezione che umilia Concita De Gregorio: "Perché è lei a danneggiare le donne". La giornalista Concita De Gregorio ha scritto un articolo su Repubblica titolato «Quando questa firma sarà di un uomo» in cui dice che ha accettato di scrivere a patto che Repubblica non le chieda più di affrontare l'argomento, che è la Festa della donna: e su questo sono d' accordissimo con lei, vorrei che non ne scrivesse più. Poi ha scritto che l'articolo le è stato assegnato da uomini e che a dirigere Repubblica sono uomini e a vicedirigerlo pure, quindi tanto vale che l'articolo sull' 8 marzo lo scriva un uomo, l'anno prossimo: e di questo, invece, non m' importa nulla, perché penso che l'articolo sull' 8 marzo non dovrebbe proprio scriverlo nessuno, giudicando questa festa stucchevole a dannosa per la cosiddetta categoria. Poi ha scritto altre cose, ma prima di affrontarle è il caso che lo scrivente (la scrivente) faccia outing, o coming out, o come si dice: perché, appunto, a scrivere l'articolo che state leggendo, in realtà, è una donna - mi chiamo Filippa Faccia, è tempo di rivelarlo - e da lustri mi nascondevo dietro un corrispettivo maschile per fare una carriera migliore. Dati i risultati, mi viene naturale chiedermi come sarebbe andata se mi fossi palesata come donna da subito, ma, soprattutto, mi è difficile accettare che io abbia fatto una carriera da uomo mentre la De Gregorio abbia fatto una carriera da donna, e però lei guadagni probabilmente più di me e, secondo i canoni, abbia fatto una carriera migliore della mia, visto che io non ho mai diretto un quotidiano e lei sì. Anche se - mi spiace, ma è la verità - la cosa che è rimasta più memorabile della sua direzione dell'Unità è una pubblicità del 2008 in cui si vedeva il culo di una donna in minigonna con in tasca il giornale, campagna che fece clamore tanto che lo spagnolo El Mundo titolò «Un polemico culo per vendere più giornali», una cosa che non piacque a tutte le femministe.
COME CONSOLAZIONE. Per consolarmi della mia carriera più modesta, comunque, mi racconto che forse esiste un modo di fare carriera da donna in quanto donna - e non semplice e capace professionista - e cioè una carriera che dia una forte connotazione al fatto di essere donna che spesso scrive di donne e di se stessa in quanto donna, ma forse è solo uno scioglilingua, e allora lascio perdere. La De Gregorio ha scritto anche altre cose, dicevamo. Ha scritto che le donne hanno meno compiti di responsabilità loro affidati, che una minoranza guida imprese o università o teatri o ministeri, che sono pagate meno, che nelle famiglie, spesso, dovendo scegliere, lavorano solo gli uomini. Sono tutte cose vere. Poi ha scritto che le donne dovrebbero essere valutate per le loro capacità ed essere pagate di conseguenza: vero anche questo, direi ovvio. Dopodiché ha preso se stessa come esempio di discriminazione e ha raccontato che da direttrice guadagnava «moltissimo meno dei miei predecessori» (forse non fu lei a fare la trattativa) e che in Rai, quando prese il posto di un collega cui poi dovette ricederlo, ebbe un ingaggio di un quarto rispetto al collega. Anche, qui, dobbiamo pensare, non fu lei a fare la trattativa: forse fu un uomo a farla al posto suo. In ogni caso è stata poco carina, perché poteva anche scriverlo che il collega è Corrado Augias, peraltro suo collega nel girone uomesco di Repubblica: Augias è pur sempre un giornalista rispettabile, anche se è notoriamente un vecchio trombone.
SCARSA SIMPATIA. La De Gregorio ammette che poteva anche non starci, rifiutare in nome della causa: tra l'altro sarebbe stato bello se avesse pubblicato anche i compensi, pur inferiori. Però poi si è fatta molto umana: «Si può sempre dire no e stare fuori. Ma fuori spesso piove, fa freddo, e a un certo punto bisogna rientrare». È notorio che oltretutto le donne soffrono maggiormente il freddo. Infine, la De Gregorio ha scritto quelle che io giudico delle cazzate, concause della scarsa simpatia che la questione femminile riscuote nel Paese spesso anche tra le donne. Una è che «c' è sempre qualcuno che farà lo stesso lavoro al posto tuo, se rinunci»: è vero, ma questo vale per tutte le categorie, a tutte le latitudini e a qualsiasi livello di emancipazione. In Italia, per esempio, troverai sempre un immigrato che farà lo stesso lavoro al posto tuo, se rinunci: e al datore di lavoro gli frega poco se sia uomo o donna, gli frega che può pagare meno. Ma è un altro discorso. La De Gregorio, poi, esorta le donne come categoria: «Non abbiate paura del confronto, se è sul merito. Bisogna pretenderlo, non succederà da solo: bisogna incazzarsi, ora... Le destre avanzano, è ora di alzare la voce». Ecco: si torna a paventare un genere di «lotta» che in passato ha denotato solo un formidabile potere divisivo, non ottenendo - mai - un accidente che non fosse il ritardare la fisiologica emancipazione della donna: che, in ogni caso, c' è e resterà inarrestabile, e avrà tempi che non saranno dei residuali femminismi ad accelerare, ma solo la pratica quotidiana e i comportamenti. Nei paesi più civili non sono le «lotte» ad aver emancipato la condizione femminile, ma una più datata maturità democratica e storica, l'assenza di condizionamenti religiosi e la semplice convenienza economica nel premiare il merito prescindendo dal sesso: sempre che non spuntasse qualche femminismo sindacalizzato - ciò che la De Gregorio auspica - a pretendere irraggiungibili tutele di categoria. Negli Stati Uniti, paese in cui l'emancipazione femminile è al massimo grado, le donne in quanto donne di tutele ne hanno pochissime. In Italia delle battaglie e degli articoli non gliene frega a nessuno: non è questo ad aver fatto raggiungere parità di presenze nel lavoro o ad aver fatto superare gli uomini in professioni come magistratura, avvocatura e medicina. «Incazzarsi» e «alzare la voce» è servito solo a chi, della causa femminile, ha fatto professione pur rientrando puntualmente nei ranghi, perché «fuori spesso piove, fa freddo e a un certo punto bisogna rientrare», certo. A scrivere articoli puntualmente al coperto. Filippa Faccia
Scioperi e cortei per boicottare le (altre) donne, scrive Annalisa Chirico, Sabato 9/03/2019 su Il Giornale. Diciamo la verità: l'8 marzo è già una festa del piffero, se poi ci aggiungi le caramelle al limone, la statua di Indro Montanelli imbrattata a Milano dai cortei femministi e certi scioperi senza senso la tentazione del cambio di sesso diventa irresistibile. Sono stati giorni duri, lo ammetto. Per cominciare, in procinto di salire sull'ennesimo convoglio, ho appreso che Trenitalia intendeva farmi omaggio, in quanto cliente femmina, di una caramella al limone; ho sbarrato gli occhi di fronte a un maschio incolpevole: «No, grazie, per me niente bonbon». Io non voglio queste maledette caramelle, e le mimose le detesto, mi piace il'orchidea bianca, questo tripudio di giallo mi disturba la vista. E ho appreso che per chiedere più diritti e dire basta violenze alcune organizzazioni sindacali hanno indetto uno sciopero dei trasporti di 24 ore. Un movimento femminista è andato oltre: stop al lavoro domestico e di cura, pagato e non. Non siamo allo sciopero di Lisistrata, all'ordine perentorio di astinenza sessuale come forma suprema di ricatto, ma il futuro nulla esclude. Ho sempre considerato una peculiarità tutta femminile quella di saper essere animali multitasking: soltanto noi donne siamo capaci di coordinare una conference call in ufficio mentre su whatsapp interveniamo nel gruppo «mamme della classe» per il picnic del weekend, e intanto scegliamo il ristorante per la sera acquistando calze e asciugamani sul sito di e-commerce. Soltanto noi donne siamo capaci di tenere tutto insieme abbracciando la simultaneità come stile di vita: perché distribuire le cose in sequenza diacronica, le une dopo le altre, quando puoi risparmiare i secondi, i minuti, le ore? Il tempo è denaro, lo sanno bene le donne che lavorano, oggi più di ieri, che curano la carriera e la manicure con pari attenzione, e che vorrebbero poter contare sul welfare che non c'è, sugli asili nido che scarseggiano, sulla parità salariale, vero privilegio dei nostri tempi. A dirla tutta, le richieste avanzate da certe frange rosa shocking sembrano quantomeno opinabili: nel comunicato diffuso dall'Unione sindacale di base e dalla Confederazione unitaria di base, per esempio, si rivendica il «diritto ai servizi pubblici gratuiti, al reddito universale e incondizionato». Ma, prima ancora del merito, desta perplessità il metodo: l'astensione dal lavoro per chiedere più lavoro è un palese controsenso. Le donne vogliono lavorare, lasciatecelo fare senza ridicole messinscene.
Come difenderci dal femminismo talebano, scrive Emanuele Beluffi l'8/03/2018 su Il Giornale. Siamo tutti femministi. Oggi è la Festa della Donna e stiamo dalla parte degli…scrittori come Oriana Fallaci e Laura Tecce, fulgidi esempi di donne intellettuali militanti nella causa della pura e semplice verità, quella che ti sbattono in faccia senza chiedere scusa: leggere la celebre intervista della Fallaci a Yasser Arafat e leggere il libro di Laura Tecce, Femministe 2.0. Ma si legga anche il suo articolo pubblicato su CulturaIdentità (redazione).
Il nuovo esecutivo del premier socialista spagnolo Pedro Sánchez è andato oltre il governo todos caballeros: sono “rosa” 11 (undici) ministri su 17. Altro che quote, altro che riserva indiana del femminile. Sanchez ha voluto fare il beau geste esagerando, come volesse risarcire l’universo femminile. E intanto la madrina di Miss America, Gretchen Carlson, ha deciso che «da quest’anno niente più passerelle in bikini. Miss America non sarà più eletta in base all’aspetto fisico». E intanto Griselda Pollock, pasdaran dell’oltranzismo femminista intellettuale antiuomo, dice che no, il femminismo è talmente altro, è talmente superiore, che nemmeno con la storia secolare dell’arte c’entra: è extrafenomenico come Dio. E intanto Weinstein con gli schiavettoni continua a dirsi innocente e se dici che Asia Argento (l’avete notato? Si mette spesso in posa col pugno alzato replicando una celebre marianna fotografata nel ’68 parigino) ha rotto le scatole sei un bullo sessista. Tutto questo mentre in Arabia Saudita da questo momento le donne possono finalmente guidare l’automobile (ma solo quello). L’ipertrofia comunicativa potenzia il transito delle idee, tutte, pure quelle fallaci ed è proprio per questo potenziamento del blaterare via social che il celeberrimo quanto universale e superdemocratico -pure troppo- gruppo di potere del #metoo ha potuto edificare il femminismo talebano 2.0 che mette la mordacchia al maschio impenitente che osò affermare che Maria Elena Boschi era bella e brava. Chissà cosa avrebbero fatto a Sgarbi quando anni fa, quando non c’erano i social e quindi eravamo tutti più antisociali e quindi più liberi, disse che Rosi Bindi era più bella che intelligente. Il neofemminismo, che c’entra nulla con quello storico (perché allora aveva un senso, essendo davvero le donne escluse da ruoli di potere in ogni àmbito), è violento, intollerante, intransigente e, soprattutto, stupido come ogni fanatismo. Ma fa poco ridere, perché le sue vittime pagano e stanno pagando molto caro il fatto di essere dei rinnegati. E loro, le femministe 2.0, mentre si indignano (in realtà fanno molto, molto di più) per le avances che ci sono state e che sempre ci saranno, perché la natura è fatta così in ogni settore, non solo nello show biz di Hollywood ma anche nei territori di piccola autorità come l’ufficio postale di provincia, nulla obiettano contro la situazione di minorità esistenziale in cui versano le donne velate, coperte, umiliate in più parti del mondo, solitamente giustificate con “è la loro cultura”. Ricordate la notte di Capodanno 2015 a Colonia, quando decine di donne vennero molestate in poche ore da “giovani, ubriachi, aggressivi e dall’aspetto di origine araba o nordafricana” (fonte il post) con 60 denunce penali di cui una per stupro? La sindaca socialista disse in sostanza che le fanciulle non dovevano provocarli con i loro abiti succinti perché in definitiva quella “è la loro cultura”. Ecco, proprio dalla fallacia del relativismo culturale ed eticoda cui si sostanzia il detto “è la loro cultura” prende le mosse il libro di Laura Tecce, Femministe 2.0. Chi sono, cosa vogliono e cosa predicano le femministe del nuovo millennio (il Giornale, collana Fuori dal coro, 2018, 64 pagine), che fa il punto della situazione sui focolai del femminismo talebano che si stanno accedendo ovunque (ma solo nel mondo Occidentale, perché dall’altra parte non potrebbero nemmeno provarci), che inizia proprio con il celeberrimo slogan femminista “Tremate, tremate, le streghe son tornate!” ma con questo complemento del titolo: “E non ne sentivamo la necessità”. Non sentivamo nemmeno la necessità di Donne Alpha e maschi beta –caso mai di donne e maschi Alpha-, né dell’insostenibile pesantezza dell’essere femministe e dell’odiare gli uomini, per citare alcuni capitoli dell’agile pamphlet di Laura Tecce, che del resto i lettori di OFF ben conoscono per la sua rubrica Femminile singolare. L’autrice ci mette in guardia dal “clima inquisitorio di sospetto, di accusa, di fobia verso il maschile, l’arroganza dilagante con cui la macchina del controllo a trazione femminista procede senza sosta nell’opera di vessazione e colpevolizzazione del maschio, con l’obiettivo di disciplinarlo e addestrarlo autoritariamente ai nuovi dogmi della società globalizzata e politicamente corretta”, ma presenta anche una proposta, perché non è (più) il ruolo della donna a dover essere ridefinito all’interno della società, ma è la società stessa a doversi ridefinire in senso meritocratico e indipendentemente dal genere. Insomma, dobbiamo arrivare a un punto in cui non si ri-presenti lo spettacolo dell’outing di uomini che si dichiarano femministi per difendere la causa e poter dire, anche da parte delle donne, che non dichiararsi femministe non significa disprezzare le donne.
Il delirio femminista 2.0, scrive Laura Tecce l'8/03/2019 su Il Giornale. L’8 marzo, al di là della stucchevole retorica che sempre accompagna le giornate dedicate a qualcosa, dovrebbe ricordare le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne e sensibilizzare rispetto alle discriminazioni di cui spesso sono ancora vittime. A questo proposito la rete femminista Non Una di Meno a Firenze, e in tutte le città italiane, lancia per il terzo anno consecutivo lo “sciopero delle donne”, formula dietro alla quale si nasconde un attacco politico pretestuoso e decontestualizzato. Che la nuova tendenza del femminismo 2.0 sia quella di essere “intersezionale” non è un mistero: “Vogliamo combattere ogni forma di sessismo nei suoi intrecci con gli altri sistemi di dominio quali il razzismo e il capitalismo, su cui si strutturano quelle stesse gerarchie che pretendono di distinguerci in migranti e cittadin@”. Se non fosse chiaro: “Scioperiamo contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere in tutte le sue forme. La violenza patriarcale è un fatto, è un bollettino di guerra. Noi non vogliamo essere vittime di questa violenza. Insieme a milioni di donne e alle soggettività LGBPT*QIA+ nel mondo noi scioperiamo!”. E ancora: “Le politiche contro donne, lesbiche, trans*, la difesa della famiglia patriarcale e gli attacchi alla libertà di abortire vanno di pari passo con la guerra aperta contro le migranti e i migranti. Patriarcato e razzismo sono l’altra faccia di un’intensificazione dello sfruttamento senza precedenti. Padri e padroni, governi e chiese, vogliono tutti rimetterci al nostro posto”. Isterismi da Santa Inquisizione a ruoli ribaltati, dove le nuove “streghe” sono gli uomini predatori, molestatori seriali e potenziali stupratori ed esaltazione delle gender theories secondo cui l’appartenenza sessuale è una sovrastruttura culturale: non esistono maschi e femmine ma “generi fluidi”, per questo le neo femministe fanno largo uso dei simboli @ e *. È evidente quanto tutto ciò sia molto lontano dalle conquiste che si devono (anche) ai movimenti originari. Non Una di Meno si scaglia contro l’ascesa delle destre “reazionarie”, contro il disegno di legge Pillon su separazione e affido, che difende la “famiglia e le sue gerarchie” e ovviamente contro il decreto sicurezza di Salvini, che “impedisce alle migranti e ai migranti ogni possibilità di autonomia, mentre legittima la violenza razzista”. Ma ne hanno anche per i 5stelle e il reddito di cittadinanza che “ci costringerà a rimanere povere e lavorare a qualsiasi condizione e sotto il controllo opprimente dello Stato”. Questo, per coloro che si autointestano la titolarità di parlare a nome di tutte le donne sarebbe il significato da attribuire all’8 marzo, un potpourri di temi e istanze totalmente scollegati fra loro, un delirio senza né capo né coda in cui si mescolano slogan, inesattezze, sterili polemiche, odio politico ad personam e furore ideologico. Fiera di essere donna e non femminista.
Oriana al femminile (non femminista). Una raccolta di interviste e reportage sul sesso che, per lei, non era certo «debole». Eleonora Barbieri, Martedì 05/11/2019 su Il Giornale. Se nascerai donna, per Oriana Fallaci, è un auspicio. Quello che formula nelle righe che pubblichiamo in questa pagina, tratte da Lettera a un bambino mai nato. Il bestseller uscì per la prima volta per Rizzoli, nel 1975, ed è uno dei testi che ora la casa editrice ripropone, insieme a una serie di reportage e di interviste di Oriana Fallaci sulle donne e alle donne, in una raccolta che si intitola, appunto, Se nascerai donna (pagg. 352, euro 20, in libreria da oggi). La maggior parte dei pezzi uscì su L'Europeo, come quelli sulla libertà femminile (una inchiesta in cinque puntate, pubblicate fra aprile e maggio del 1965, nata da una intervista alla cantante Milly Monti in cui viene posta la domanda provocatoria: «La donna è oggi più libera?») o sui movimenti di liberazione femminile, in cui la Fallaci ci fa incontrare le leader della protesta, come l'americana Kate Millet, una che nel suo Sexual Politics mise all'indice D.H. Lawrence, Henry Miller e Norman Mailer, e con la quale non può che esserci scontro: «Direi che invece d'una intervista facemmo un dibattito: una specie di litigio sui punti deboli del femminismo». Lo spirito di Oriana Fallaci non era fatto essere imbrigliato nelle ideologie e, quindi, nemmeno nel femminismo, sebbene scriva: «Negare che la società in cui viviamo sia una società inventata dagli uomini, imposta dagli uomini, dominata dagli uomini, sarebbe cretino. Come sarebbe cretino negare che tale società poggi sulla distinzione dei sessi» (Che cosa vogliono le donne, in L'Europeo, 1971). «Dura» in servizio quanto femminile nell'aspetto, e nel privato, qualche riga prima definisce la guerra fra uomini e donne come la «più paradossale che si sia concepita» e spiega che lei, la cronista, non è affatto d'accordo, con questa guerra agli uomini: «Non solo perché lei con gli uomini ci si trova benissimo (...) ma perché verso di lei gli uomini son sempre stati giusti e gentili». Alcune delle donne che appaiono in questa raccolta, del resto, riescono a dare del filo da torcere perfino a lei: la strepitosa senatrice Lina Merlin e Coco Chanel, capaci di zittirla; Mina («Siamo destinate a non capirci, noi due» le dice la cantante); l'inarrivabile Golda Meir, l'unica per la quale Oriana Fallaci ammetta un debole: «Pecco di ottimismo o, diciamo pure, di femminismo? Forse. Ma io non sarò mai obiettiva su Golda Meir (...) non si può fare a meno di rispettarla, ammirarla, anzi volerle bene». È vero. Golda Meir, una donna di una volta, potente, divisa (già allora) tra famiglia e lavoro, che definisce «pazze» le femministe che bruciano i reggiseni, e giudica «irritante» lo pseudo-complimento di Ben Gurion, secondo cui lei, Golda, sarebbe stata «l'uomo più in gamba» del suo governo. «Perché cosa significa in fondo? Che essere uomo è meglio che essere donna: principio su cui non sono affatto d'accordo».
"Spero che tu sia donna: non è una disgrazia bensì una sfida che non annoia mai". Le parole di coraggio e amore in «Lettera a un bambino mai nato». Oriana Fallaci, Martedì 05/11/2019, su Il Giornale. Ti ho portato dal medico. Più che la conferma, volevo qualche consiglio. Per risposta ha scosso la testa dicendo che sono impaziente, che non può ancora pronunciarsi, ripassi tra quindici giorni, pronta a scoprire che eri un prodotto della mia fantasia. Tornerò solo per dimostrargli che è un ignorante. Tutta la sua scienza non vale il mio intuito, e come fa un uomo a capire una donna che sostiene anzitempo di aspettare un bambino? Un uomo non resta incinto e, a proposito, dimmi: è un vantaggio o una limitazione? Fino a ieri mi sembrava un vantaggio, anzi un privilegio. Oggi mi sembra una limitazione, anzi una povertà. V'è un che di glorioso nel chiudere dentro il proprio corpo un'altra vita, nel sapersi due anziché uno. A momenti ti invade addirittura un senso di trionfo e, nella serenità che accompagna il trionfo, niente ti preoccupa: né il dolore fisico che dovrai affrontare, né il lavoro che dovrai sacrificare, né la libertà che dovrai perdere. Sarai un uomo o una donna? Vorrei che tu fossi una donna. Vorrei che tu provassi un giorno ciò che provo io: non sono affatto d'accordo con la mia mamma la quale pensa che nascere donna sia una disgrazia. La mia mamma, quando è molto infelice, sospira: «Ah, se fossi nata uomo!». Lo so: il nostro è un mondo fabbricato dagli uomini per gli uomini, la loro dittatura è così antica che si estende perfino al linguaggio. Si dice uomo per dire uomo e donna, si dice bambino per dire bambino e bambina, si dice figlio per dire figlio e figlia, si dice omicidio per indicar l'assassinio di un uomo e di una donna. Nelle leggende che i maschi hanno inventato per spiegare la vita, la prima creatura non è una donna: è un uomo chiamato Adamo. Eva arriva dopo, per divertirlo e combinare guai. Nei dipinti che adornano le loro chiese, Dio è un vecchio con la barba bianca mai una vecchia coi capelli bianchi. E tutti i loro eroi sono maschi: da quel Prometeo che scoprì il fuoco a quell'Icaro che tentò di volare, su fino a quel Gesù che dichiarano figlio del Padre e dello Spirito Santo: quasi che la donna da cui fu partorito fosse un'incubatrice o una balia. Eppure, o proprio per questo, essere donna è così affascinante. È un'avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non annoia mai. Avrai tante cose da intraprendere se nascerai donna. Per incominciare, avrai da batterti per sostenere che se Dio esistesse potrebbe anche essere una vecchia coi capelli bianchi o una bella ragazza. Poi avrai da batterti per spiegare che il peccato non nacque il giorno in cui Eva colse la mela: quel giorno nacque una splendida virtù chiamata disubbidienza. Infine avrai da batterti per dimostrare che dentro il tuo corpo liscio e rotondo c'è un'intelligenza che chiede d'essere ascoltata. Essere mamma non è un mestiere. Non è neanche un dovere. È solo un diritto fra tanti diritti. Faticherai tanto a ripeterlo. E spesso, quasi sempre, perderai. Ma non dovrai scoraggiarti. Battersi è molto più bello che vincere, viaggiare è molto più divertente che arrivare: quando sei arrivato o hai vinto, avverti un gran vuoto. Sì, spero che tu sia una donna: non badare se ti chiamo bambino. E spero che tu non dica mai ciò che dice mia madre. Io non l'ho mai detto.
· Violenza sessuale su minore. Mai dire…stupro.
Antonio Palma per fanpage.it il 16 dicembre 2019. Colpo di scena nel processo a carico della donna 32enne di Prato che ha avuto un figlio da un ragazzino minorenne dopo aver avuto diversi rapporti sessuali col ragazzino che all’epoca aveva solo 13 anni e che oggi ne ha quindici. Al termine dell’udienza di oggi in Tribunale, infatti, i legali dell'imputata hanno deciso di chiedere l'intervento della Consulta sollevando la questione di legittimità costituzionale. Nel dettaglio, secondo i legali della donna, ci sarebbe "un'eccezione di legittimità costituzionale in ordine alla presunzione assoluta d'incapacità dei minori di 14 anni prevista dall'articolo 609 quater del codice penale". In pratica, la difesa sostiene che il consenso di un minore a fare sesso ci può essere anche sotto i 14 anni. I legali della signora da tempo hanno basato la loro difesa sul fatto che i rapporti col minore fossero consenzienti e oggi, al culmine di una lunga relazione in aula, hanno sostenuto che la legge sulla violenza sessuale su minore di 14 anni ormai è obsoleta in quanto il consenso consapevole può essere dato anche da un ragazzo più piccolo e che quindi ogni caso va valutato singolarmente. Nella loro memoria difensiva, gli avvocati Mattia Alfano e Massimo Nistri sostengono che il discrimine tassativo dei 14 anni per i ragazzi di oggi non sarebbe più valido in tutti i casi e chiedono alla corte costituzionale di esprimersi. Acquisendo la memoria difensiva, il giudice si è riservato di ammettere l'eccezione e comunicherà la decisione nell'udienza del prossimo 20 gennaio. Il tempo necessario per permettere alle altre parti in causa, pm e parti civili, di poter esaminare la richiesta e fare le proprie controrepliche. Il processo intanto va avanti. La donna, che è agli arresti domiciliari dal marzo scorso, è accusata di violenza sessuale su minore sotto i 14 anni, violenza sessuale per induzione e violazione di domicilio. Per la stessa vicenda il marito invece è imputato per alterazione di stato civile per avere riconosciuto il bambino pur sapendo che non è suo
Da ''la Zanzara - Radio 24'' il 17 ottobre 2019. “Il rom che ha messo incinta la 13enne? Questi fatti non sono piacevoli per nessuno, neanche per loro, neanche per quelli che compiono queste cose. Ma esattamente come quelle che succedono ad altri. Si è fatto un gran clamore intorno a questa vicenda, ma vedo che la gente accetta tranquillamente gli artisti, gli attori. Ne combinano di tutti i colori ma non succede niente”. Lo dice Don Albino Bizzotto, fondatore a Padova dei Beati Costruttori di Pace, a La Zanzara su Radio 24 parlando dei caso del sinti di 31 anni che a Cittadella ha messo incinta una bambina di 13 anni, che poi è stata presa in carico dai servizi sociali: “La pratica di Sinti e Rom nel mettersi insieme è la pratica un pochino della fuga e poi il rientro con la formazione di una famiglia. Loro non adoperano qualche rito per far vedere che è il matrimonio. Generalmente si uniscono e basta”. Ma scusi non le fa orrore che un uomo di 31 anni faccia sesso con una bambina di 12-13 anni?: “Per quanto riguarda il discorso fisico, guardate che queste cose sono sempre accadute. Accadono in continuazione”. Mi pare di capire che lei non condanni quello che è accaduto: “Allora, non è bello, però tento di recuperare il fatto di accogliere la loro cultura. Non serve a niente scandalizzarsi perché vengono fatte delle cose che a noi non piacciono, questo atteggiamento non produce una cosa nuova”. Ma i servizi sociali semplicemente l’hanno presa e portata via dalla famiglia? Evidentemente è una cosa che non va fatta: “Altolà. Per quanto riguarda i servizi sociali, anche loro sono criticabili e molte volte là dove c’è proprio bisogno che intervengano, non ci sono. E invece quando ci sono da fare queste operazioni, intervengono”. “Non conosco – continua Don Albino – la famiglia e la ragazza, ma esiste una modalità che non è la nostra. Il mondo dei Sinti e dei Rom crediamo di conoscerlo, ma nessuno lo vuole conoscere”. Scusi Don Albino, ma stiamo parlando di 31 e 13 anni, ma di che parliamo?: “Semplicemente di qualsiasi attore che ha 50-60 anni si prende la donna di 20 anni”. Ma è diverso, quella è minorenne: “Vabbe’, ho capito, ho capito…”. Perché lei non condanna chiaramente questa cosa: “L’ho detto in partenza che non è una cosa buona neppure per loro...”. Ma lei ha attaccato i servizi sociali: “Certo che mi sono messo ad attaccare i servizi sociali, perché conosco tutte le pratiche che ci sono in giro. Ci sono dentro dalla mattina alla sera”. Perchè non condanna fermamente questo atto sessuale?: “Ho detto che non mi straccio le vesti. Qui ne vediamo di tutti i colori ogni giorno per quanto riguarda la differenza di età….”.
· Stupri che non lo erano…
False accuse di abusi al papà. E i giudici affidano i bimbi all'ex moglie gay. Accusato ingiustamente di abusi sulla figlia dalla ex moglie omosessuale: il caso viene archiviato ma i giudici assegnano i bimbi alla donna. Il papà: "Per loro era una cosa normale che vivessero con una coppia gay". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Sabato 07/12/2019, su Il Giornale. Marco non riesce a trattenere le lacrime quando ripercorre le fasi della separazione. Viene da una famiglia all’antica, i suoi genitori hanno superato le nozze d’oro riuscendo a ricucire con pazienza ogni dissidio. “Ho creduto – dice a denti stretti – che sarebbe stato lo stesso anche per me”. Quando ha scoperto che sua moglie lo tradiva con una ragazza di vent’anni non poteva certo immaginare che quello choc sarebbe stato solo l’inizio di un incubo che va avanti ancora oggi. Sono passati quattro anni quel giorno. Da un giorno all’altro i figli della coppia, Luca e Sara, di 3 e 7 anni, si trovano catapultati in un’altra dimensione. Marco continua a stargli accanto il più possibile, li va a prendere a scuola e sta con loro mentre la mamma lavora. Anche perché gli equilibri nel nuovo nucleo familiare in cui si ritrovano a vivere i bimbi sono sempre più precari. La situazione precipita l’estate successiva con Sara che torna dalle vacanze sconvolta: "La compagna della madre l’aveva schiaffeggiata - ricorda Marco - e lei non voleva più tornare a casa da loro”. “Ho parlato con la mia ex, le ho spiegato la situazione e lei – racconta – invece di mettersi in discussione mi ha denunciato per sequestro di minore”. Le argomentazioni del padre convincono la Procura che archivia le accuse e dopo poco i due avviano le pratiche per la separazione. Ma nonostante i precedenti, per giudici e servizi sociali i figli devono restare con la madre e la sua compagna. “In tribunale non era consentito parlare dell’omosessualità della mia ex, era un argomento da tener fuori, insomma – rivela il genitore – la ritenevano una cosa normale e non avevano problemi a tollerare che i bambini vivessero con una coppia gay piuttosto che con me, che sono il padre e avevo una situazione sentimentale e lavorativa stabile”. Marco, infatti, da qualche tempo si vede con Cristina, reduce anche lei da una separazione e mamma di due bimbi. Quando il giudice stabilisce l’affido condiviso con tempi paritari e mantenimento diretto, l’ex di Marco si vendica denunciando sia lui che la sua nuova compagna per abusi sessuali su Sara, che nel frattempo è diventata una ragazzina di undici anni. La notizia gli viene comunicata dagli assistenti sociali via telefono. Il contraccolpo psicologico è fortissimo: "Mi ha accusato di aver baciato mia figlia con la lingua e di averla molestata, mentre la mia compagna è stata accusata di aver toccato in più di un’occasione la piccola nelle parti intime prima di andare a dormire". Accuse infamanti che decadono quando Sara, che viene ritenuta dai giudici idonea a testimoniare, nel corso dell’incidente probatorio racconta che nessuno dei due le ha mai fatto nulla del genere. Nega, tentenna, non sa nemmeno spiegare nello specifico di cosa si parla. Il caso viene archiviato, ma i bambini restano con la donna e la sua compagna anche se dall’inchiesta emergono particolari inquietanti. Nel corso delle indagini, un consulente forense incaricato di analizzare i cellulari delle parti scopre che Sara ha effettuato decine di accessi a siti internet vietati ai minori. La ragazzina consulta quasi quotidianamente contenuti pornografici a sfondo lesbico. Il papà è atterrito. È convinto che la “sessualizzazione precoce” di sua figlia sia dovuta alla convivenza con la coppia. “Sicuramente è stata in qualche modo plagiata da sua madre e dalla compagna, o comunque la quotidianità con loro l’ha scioccata fino a questo punto”, commenta il padre dell'adolescente. I suoi figli non li vede più dal settembre del 2018. “L’anno perso con i miei figli - riflette ad alta voce - non me lo ridarà nessuno, le cicatrici sono indelebili". "Ai giudici però - aggiunge - chiedo giustizia, perché i miei bambini possano essere ripagati delle sofferenze che hanno subito".
LA “MANO MORTA” È VIOLENZA SESSUALE. Da lastampa.it il 25 ottobre 2019. Confermata la condanna per un uomo che ha molestato una signora, toccandole il fondoschiena. Per i Giudici non vi sono dubbi sulla lettura dell’episodio: il palpeggiamento è stato invasivo dell’intimità della donna. Scatta la condanna. La "mano morta" sul fondoschiena di una donna vale una condanna per violenza sessuale. A ribadirlo in modo chiaro è la Cassazione, sottolineando la gravità del comportamento tenuto da un uomo che ha pensato bene di ‘approcciare’ in modo per nulla elegante una signora, che dal canto suo, una volta subito il palpeggiamento, ha reagito con vigore – «gliene ho dette di tutti i colori», ha raccontato – e ha poi sporto denuncia (Cassazione sez. III Penale, sentenza n. 38606/2019).
Contatto. Decisiva la ricostruzione dell’episodio. Fondamentale il racconto della vittima, la quale ha spiegato che l’uomo sotto processo «le ha messo una mano sul fondoschiena». Nessun dubbio, quindi, sulla gravità del comportamento in discussione, poiché, osservano i Giudici, «il toccamento di quella specifica zona erogena è stato improvviso ed inaspettato, invasivo dell’intimità della donna e animato da chiari impulsi sessuali» percepiti dalla vittima che «protestò energicamente (“gliene ho dette di tutti i colori”)» con l’uomo. Evidente, quindi, la consumazione del reato di «violenza sessuale», spiegano i giudici della Cassazione, poiché, come detto, «vi fu lascivo contatto con la zona erogena del fondoschiena della donna». Tale dato è decisivo, poiché «è sufficiente che il colpevole raggiunga le parti intime della persona offesa (zone genitali o comunque erogene), essendo indifferente che il contatto corporeo sia di breve durata o che la vittima sia riuscita a sottrarsi all’azione dell’aggressore o che quest’ultimo consegua» o meno «la soddisfazione erotica». Tirando le somme, anche il palpeggiamento del sedere è catalogabile come «violenza sessuale», poiché «l’elemento della violenza può estrinsecarsi anche nel compimento insidiosamente rapido dell’azione criminosa, tale da sorprendere la vittima e da superare la sua contraria volontà, così ponendola nell’impossibilità di difendersi».
Milano, accusato di stupro passa un anno in carcere. Ma al processo la donna ritratta tutto: assolto. Pubblicato venerdì, 25 ottobre 2019 da Corriere.it. Ha passato più di un anno in carcere accusato di violenza sessuale e giovedì, dopo un colpo di scena con la presunta vittima che è crollata in aula dicendo di non essere mai stata stuprata, è stato assolto dalla quinta sezione penale di Milano e scarcerato. Protagonista della vicenda un peruviano di 30 anni per il quale la procura aveva chiesto una condanna a 7 anni di reclusione.
L’uomo era finito in carcere nell’indagine del pm Monia Di Marco il 17 ottobre del 2018, accusato di stupro di gruppo (la posizione di un altro peruviano è stata stralciata perché mai trovato) nei confronti di una connazionale 40enne che aveva sporto denuncia: nella sua versione la violenza era avvenuta 10 giorni prima in un parco in zona Lorenteggio, a Milano. L’uomo è rimasto in carcere durante le indagini e il processo. I giudici, poiché il quadro dell’accusa non era chiaro e su richiesta della difesa, hanno convocato, dopo la requisitoria e l’arringa, una donna mai sentita nell’inchiesta e che era presente quella sera al parco, molto frequentato dalla comunità peruviana. E proprio quella testimone ha raccontato tutt’altra storia, la stessa versione, tra l’altro, da sempre ribadita dall’imputato, già dopo l’arresto, e dai testimoni della difesa. Dalla nuova testimonianza è arrivato, dunque, il colpo di scena in aula: quella sera non c’era stata alcuna violenza, ma solo una rissa tra la presunta vittima, l’imputato e un’altra donna per contrasti precedenti. Davanti ai giudici, poi, è stata chiamata, sempre giovedì, sul banco dei testimoni anche la presunta vittima dello stupro che alla fine è crollata e, dopo una serie di domande del presidente del collegio Ambrogio Moccia, ha dovuto ritrattare, negando di essere stata violentata. I giudici, sulla base dei nuovi sviluppi nel dibattimento, hanno assolto l’imputato, disponendo l’immediata scarcerazione. Secondo la ricostruzione della difesa, che aveva prodotto anche alcune chat tra imputato e presunta vittima, i due erano amici in passato e poi lui l’aveva denunciata per un’aggressione che avrebbe subito da lei e da alcuni amici della donna. E proprio questa denuncia sarebbe stato il motivo della rissa al parco, poi trasformata dalla peruviana in una denuncia per violenza sessuale e, in più, anche della rapina della sua borsa.
Milano, un anno in carcere per stupro ma la vittima si era inventata tutto: peruviano assolto. Il 30enne stava per essere condannato a sette anni, quando il giudice ha voluto ascoltare un'altra testimone e la presunta vittima, che è crollata in aula e ha ammesso che la sua versione era fasulla. Lavinia Greci, Venerdì 25/10/2019, su Il Giornale. Prima è stato accusato di violenza sessuale, poi ha passato oltre un anno all'interno di un penitenziario. Ma ieri, al tribunale di Milano la presunta vittima, ascoltata nuovamente dai giudici, durante l'interrogatorio in aula, alla fine, ha detto la verità: lì ha amesso che quello che aveva denunciato, semplicemente, non era vero e ha confermato di non essere mai stata stuprata. Al centro della vicenda c'è un uomo di 30 anni di origini peruviane che, in queste ore, è stato assolto dalla quinta sezione penale del capoluogo lombardo ed è stato scarcerato.
La (finta) denuncia. Secondo quanto riportato da Tgcom24, la donna aveva architettato una vendetta nei confronti dell'uomo, finito in carcere nell'indagine condotta dal pubblico ministero Monia Di Marco, che aveva emesso un'ordinanza di custodia cautelare il 17 ottobre 2018. In base alle prime ricostruzioni, il 30enne era stato accusato di stupro di gruppo (insieme a un altro connazionale, la cui posizione è stata stralciata perché non è mai stato trovato) ai danni di una connazionale di 40 anni che aveva denunciato il fatto. La donna, infatti, alle forze dell'ordine aveva detto che la violenza sessuale si era consumata dieci giorni prima in un parco in zona Lorenteggio, a Milano.
L'uomo in carcere. Così il 30enne era rimasto in carcere durante tutto il periodo delle indagini e il processo, che poi è arrivato alle conclusioni con le richieste delle parti e con la Procura che aveva chiesto per lui una condanna a sette anni. I giudici, però, poiché la dinamica del racconto e della vicenda non era parsa del tutto chiara, anche su richiesta della difesa dell'uomo, hanno deciso di convocoare, dopo la requisitoria e l'arringa, una donna mai sentita nell'inchiesta ma che, però, si trovava nel parco della presunta aggressione.
La testionianza fondamentale. La testimone, ascoltata in sede processuale, ha dichiarato una versione completamente diversa rispetto a quella della 40enne, la stessa che il 30enne ha sempre ribadito dopo il fermo. Da quella deposizione è stata ribaltata la versione: quella sera non ci sarebbe stato nessuno stupro ma solo una rissa tra la presunta vittima, l'imputato e un'altra donna, probabilmente per contrasti precedenti.
Il piano della presunta vittima. Così la 40enne, rispondendo alle domande del presidente del collegio, Ambrogio Moccia, ha dovuto confermare la nuova versione e ha ritrattato il suo racconto, negando la violenza sessuale. Le parti, quindi, hanno di nuovo preso la parola per le replice e la Procura ha ribadito la richiesta di condanna per il peruviano. I giudici, invece, sulla base dei nuovi sviluppi della vicenda hanno assolto il 30enne. Secondo la ricostruzione della difesa, che aveva prodotto anche alcune chat tra imputato e presunta vittima, i due erano amici in passato fino a quando il 30enne l'aveva denunciata per un'aggressione. Alla base della vendetta della 40enne ci sarebbe stato questo.
Filippo Facci per ''Libero Quotidiano'' il 26 ottobre 2019. La sintesi è questa: lui è stato in galera per oltre un anno con l' accusa di stupro, per rinchiuderlo era bastata l' accusa di una connazionale peruviana che si era inventata tutto, il pubblico ministero aveva chiesto sette anni di carcere e aveva indagato così bene che l' interrogatorio alla testimone chiave (mai sentita dall' accusa) ha dovuto farlo in extremis il giudice del dibattimento, che poi ha anche interrogato la connazionale peruviana (la vittima) che infine ha confessato, e ha detto: mi sono inventata tutto; notare che il pubblico ministero che aveva chiesto la condanna, nel giorno in cui la falsa vittima è crollata e ha confessato, non era neppure presente in aula e si era fatta sostituire, dopodiché la sostituta, forse imbarazzata, ha chiesto ugualmente una condanna a sette anni nonostante la confessione. Risultato: lui assolto e scarcerato, questo grazie al giudice e nonostante il pubblico ministero. Morale: noi gli pagheremo l' ingiusta detenzione, il giudice ha fatto le verifiche che doveva fare il pm, il pm non si capisce che cosa abbia fatto se non incarcerare un innocente in base alla sola parola di una mitomane, e chiedere poi, indirettamente, che fosse condannato anche dopo che era stata dimostrata la sua innocenza. Dopodiché facciamo i nomi dei giudici, anche se in genere tendiamo a evitarli per non sovraesporre una professione sin troppo delicata che corrisponde al giudicare, disporre della libertà personale altrui, rubare un anno di vita che non tornerà, marchiare per sempre la vita di una persona. il nome Il pubblico ministero si chiama Monia Di Marco, che in passato - unica notizia trovata in rete - aveva firmato un appello in difesa di Laura Boldrini in cui esprimeva «profonda indignazione e grande preoccupazione per le offese volgari e sessiste ricevute da donne che rivestono cariche istituzionali anche di massima importanza». Siamo certi che questo pm saprà fornire delle spiegazioni - che ovviamente non è tenuta a fornire - senza le quali il suo comportamento parrebbe inspiegabile. Il giudice invece ha una certa esperienza e si chiama Ambrogio Moccia: se non fosse stato per lui la vita di un uomo sarebbe stata sequestrata per sette anni con un marchio infamante. Ma raccontiamola da capo: magari l' abbiamo capita male. Nell' ottobre 2018 una peruviana di 40 anni sporge denuncia e racconta che una decina di giorni prima era stata violentata in un parco della zona Lorenteggio dove spesso si riuniscono gruppi di peruviani; il pubblico ministero manda ad arrestare l' uomo il 17 ottobre del 2018 con l' accusa di stupro di gruppo: ma la posizione di un altro peruviano sarà stralciata perché non sarà mai trovato. Non sappiamo quali indagini (e di che qualità) siano state fatte nel frattempo, sta di fatto che l' uomo viene lasciato in carcere per tutto il tempo e anche per tutta la durata del processo. La difesa nega tutto, spiega che la presunta vittima e il presunto stupratore si conoscevano bene e produce anche alcune chat tra i due, ma poi lui aveva denunciato lei per un' aggressione e da questa denuncia era scaturita una rissa tra lui, lei e alcuni amici di lei. Dopodiché era spuntata la denuncia della peruviana per violenza sessuale e, di passaggio, furto della sua borsa. Ripetiamo: non conosciamo molti dettagli, sta di fatto che il processo giunge alla requisitoria dell' accusa e all' arringa della difesa (con lui dentro) ma il quadro generale non sembra chiaro per niente: ed è qui che i giudici (Moccia-Messina-Papagno) su richiesta della difesa decidono di convocare una testimone che era presente quella sera al parco e che tuttavia l' accusa non aveva neppure mai convocato. Morale: la testimone racconta tutta un' altra storia che combacia con la versione che l' accusato aveva dato subito dopo l' arresto: ma quale stupro, c' era stata solo una mezza rissa tra lui, lei e un' altra donna per via di alcune storie vecchie. Colpo di scena, destinato ad accrescersi più tardi, quando viene chiamata sul banco dei testimoni anche la presunta vittima dello stupro: la quale, in aula - non sottoposta, cioè, a particolare pressione - crolla e confessa dopo una serie di domande del presidente del collegio, Ambrogio Moccia. La vittima non è una vittima e ammette di non esser mai stata violentata. A questo punto le parti richiedono la parola per le repliche, ma la Procura (non la pm Monia Di Marco, che non c' era) chiede lo stesso la condanna a sette anni. No comment. I giudici assolvono l' imputato disponendo che sia scarcerato subito. Amici come prima, fine della storia. Anzi no. Qualcuno ci spieghi, per favore. La pm Monia Di Marco ci spieghi.
STUPRI CHE NON LO ERANO… AGAIN! Da corrieredellosport.it Kathryn Mayorga avrebbe ritirato nel mese scorso le accuse di stupro nei confronti di Cristiano Ronaldo. A darne notizia è Bloomberg, che però non spiega se sia stato raggiunto un accordo tra le due parti o sia stata un’iniziativa autonoma della vittima. I legali delle due parti, Leslie Stovall e Peter Christiansen, non hanno voluto commentare l’accaduto. La Mayorga aveva presentato la denuncia lo scorso 27 settembre quando dichiarò di essere stata violentata da CR7 nel 2009 nella suite di un hotel di Las Vegas dopo averlo conosciuto in discoteca. Il fuoriclasse della Juventus ha sempre negato la vicenda. Adesso arriva una notizia che potrebbe chiudere il caso una volta per tutte.
False accuse di molestie: condannata la paladina del MeToo francese. La fondatrice del MeToo d’Oltralpe, pur contestando la sentenza, ha assicurato che la sua battaglia a difesa delle donne abusate andrà avanti. Gerry Freda, Giovedì 26/09/2019, su Il Giornale. Sandra Muller, paladina del MeToo francese, è stata di recente condannata in patria per avere diffamato l’imprenditore televisivo Eric Brion, da lei falsamente accusato di molestie. Un tribunale di Parigi, riporta il quotidiano britannico The Daily Telegraph, ha infatti rigettato la tesi della femminista, secondo cui l’uomo, durante un festival svoltosi a Cannes nel 2012, l’avrebbe umiliata indirizzandole commenti sessuali espliciti. La giornalista aveva iniziato nell’ottobre del 2017 a rinfacciare al magnate, ex direttore del canale tv Equidia, il presunto abuso perpetrato ai danni della prima e aveva contestualmente pubblicato su Twitter, sotto l’hashtag #balancetonporc (denuncia il tuo maiale), le parole audaci che costui le avrebbe rivolto durante l’approccio incriminato. In base al recente verdetto che ha condannato la fondatrice del MeToo francese, questa avrebbe bollato come molestie sessuali un comportamento di Brion che non corrispondeva affatto a una coercizione fisica o a una mania persecutoria. Sempre ad avviso dei giudici parigini, inoltre, la Muller, rivolgendo ripetuti attacchi tramite social verso l’imprenditore, avrebbe oltrepassato i limiti della libertà di espressione danneggiando la reputazione di quest’ultimo. Una volta riconosciuta la falsità della tesi della presunta vittima di abusi, i magistrati hanno inflitto alla giornalista una sanzione di 15mila euro a titolo di indennizzo per i danni morali arrecati all’imputato a suon di accuse diffamatorie. La Muller dovrà inoltre pagare altri 5mila euro di spese legali e dovrà cancellare i suoi tweet in cui veniva tirato in ballo Brion, oltre a provvedere a pubblicare il dispositivo della sentenza sui suoi profili social e su due testate francesi. Soddisfazione per l’esito del processo è stata subito espressa dagli avvocati del magnate tv, che hanno smontato punto per punto l’impianto accusatorio della paladina del MeToo e che hanno più volte biasimato costei per avere“rovinato la carriera” all’imprenditore. Durante il dibattimento, il team legale di Brion aveva ripetutamente richiamato l’attenzione dei giudici sul fatto che, nel 2012 a Cannes, il loro assistito non avrebbe tentato alcuna violenza nei confronti della Muller, in quanto avrebbe semplicemente esercitato allora un innocuo “diritto al flirt”. L’imputato, nel corso del procedimento, aveva comunque ammesso di avere pronunciato in quel frangente commenti inappropriati all’indirizzo della donna, che sarebbero stati però fino a oggi deliberatamente travisati dalla giornalista, decisa a dipingere l’ex direttore di Equidia come l’Harvey Weinstein d’Oltralpe. L’esponente femminista, all’indomani della sentenza emessa dal tribunale di Parigi, ha reagito, al contrario degli avvocati di Brion, esternando sconcerto e rabbia e bollando la condanna comminatale come “incomprensibile”, “fuori dal tempo” ed emblematica di un “clima di regressione”. La Muller ha poi denunciato il fatto che l’esito sfavorevole del processo da lei intentato contro il magnate “rischia di demotivare le donne che hanno rivelato le violenze vissute e di creare enormi difficoltà alle vittime che vorrebbero raccontare ciò che hanno subito”. Nonostante la sconfitta riportata sul piano giudiziario, la giornalista ha assicurato che la sua battaglia a favore di coloro che sono state abusate andrà avanti: “La paura non deve vincere e io continuerò a combattere, giorno dopo giorno”.
Neymar, cadono le accuse di stupro contro il calciatore brasiliano. Pubblicato martedì, 30 luglio 2019 su Corriere.it. Per Neymar potrebbe essere finito un incubo. Come riporta il sito di Sport, quotidiano spagnolo, nella giornata di ieri il brasiliano, corteggiato dal Barcellona che spera di riportarlo in Catalogna dopo l’addio del 2017, ha ottenuto una vittoria quasi definitiva sul caso delle accuse di violenza sessuale mosse dalla modella Najila Trindade. Juliana Lopes Bussacos, capo della sesta Commissione per la difesa delle donne a San Paolo, ha concluso le indagini sulle accuse di stupro e aggressione di Neymar alla modella. La polizia civile non ha riscontrato alcun crimine nel comportamento del giocatore e ha deciso di non perseguirlo. Adesso il pubblico ministero ha tempo 15 giorni per confermare l’archiviazione o chiedere un supplemento di indagini, che erano state prolungare di un mese per vederci chiaro senza tralasciare nulla. In questo mese di inchiesta, la Procura ha chiesto anche i fascicoli di altre indagini, quella per estorsione, legato al presunto furto che avrebbe subito Najila Trindade (il famoso video di alcuni minuti sul quale la modella puntava per accusare il brasiliano, ma poi sparito secondo la versione della donna), e quella legata alla divulgazione di immagini private. Neymar non vede l’ora di mettere la parola fine su questa vicenda per pensare solo al possibile trasferimento al Barcellona.
Da La Stampa il 4 giugno 2019. Nuovo colpo di scena nel caso Neymar: lo studio legale incaricato in un primo tempo dalla ragazza brasiliana che accusa il campione brasiliano rivela di aver rinunciato al suo mandato perché la richiesta iniziale era di una denuncia «per aggressione, non per stupro». La donna, secondo la Fernandes Abreu Advogados, avrebbe riferito ai legali «che il rapporto avuto con Neymar Jr. era stato consensuale, ma che durante l’atto il giocatore era diventato violento» e l’aveva di fatto aggredita. La rescissione del mandato, ha spiegato al Jornal Nacional l’avvocato José Edgard da Cunha Bueno Filho, è dovuta anche a una divergenza sulla linea legale da seguire. «Ero contro ogni azione eclatante», le sue parole. Gli ormai ex legali della donna, secondo quanto racconta Globoesporte, avevano avuto un incontro con i rappresentanti di Neymar lo scorso mercoledì: in quell’occasione era stata respinta ogni ipotesi di transazione giudiziaria in ambito civile. «Purtroppo Neymar ha minimizzato l’incidente». Poi, il 31 maggio l’accusatrice ha dato incarico ad altri legali, e l’accusa nella denuncia presentata è risultata di stupro. Ma secondo lo studio Fernandes Abreu, la donna rischierebbe ora un’accusa per diffamazione: i rapporti medici dell’ospedale parlano di segni di aggressione, non di violenza sessuale. Sabato il nazionale verdeoro ha pubblicato un video di sette minuti su Instagram, negando con veemenza di aver violentato la donna. Intanto il caso Neymar continua a scuotere la nazionale brasiliana, in ritiro per la Copa America. Il ct Tite ha rivelato di aver avuto due colloqui col giocatore in questi giorni; il primo per annunciargli che la fascia di capitano passava a Dani Alves, la seconda domenica sulla denuncia di violenza. Il giocatore avrebbe pianto, discolpandosi e chiedendo di poter continuare a lavorare con la Selecao per recuperare serenità.
Da La Stampa il 5 giugno 2019. L’inchiesta per stupro e violenza sessuale contro l’attore Gerard Depardieu, aperta dopo una denuncia presentata nell’agosto 2018, è stata archiviata oggi. Secondo la Procura, «le numerose indagini svolte nell’ambito di questa procedura non hanno permesso di caratterizzare i reati denunciati in tutti i loro elementi costitutivi». A denunciare l’attore, il 27 agosto 2018 a Aix-en-Provence, era stata una giovane attrice e ballerina di una ventina d’anni. La posizione di Depardieu era quella di avere preso la ragazza sotto la sua ala, fornendole consigli per la sua carriera emergente, mentre la donna sosteneva di essere stata abusata a margine di un provino informale per un’opera teatrale.
Luca Bianchin e Fabiana Della Valle per la Gazzetta dello Sport il 6 giugno 2019. Il caso è chiuso, anzi no. Nelle ultime 24 ore si sono rincorse le notizie sull' evoluzione della battaglia legale tra Cristiano Ronaldo e Kathryn Mayorga, la ragazza che nel 2018 lo ha accusato di stupro per un rapporto sessuale del 2009. Ieri mattina Bloomberg ha pubblicato la notizia del ritiro, da parte dei legali di Mayorga, della denuncia di stupro nei confronti di CR7. Nel pomeriggio però si è capito che l' anticipazione, pur corretta, non porta alla chiusura del caso. Larissa Drohobyczer, uno degli avvocati della donna, ha spiegato l' accaduto: «Le accuse non sono state ritirate. Abbiamo ritirato la nostra denuncia a livello statale (nel Nevada, ndr) perché abbiamo presentato una denuncia identica al tribunale federale. In termini concreti, abbiamo appena cambiato la giurisdizione ma le accuse rimangono». Non ci sarebbe stato, insomma, un nuovo accordo economico con Ronaldo, da qualcuno immaginato in un primo tempo. Un portavoce della polizia di Las Vegas ha confermato via mail al Guardian che l' indagine resta aperta. Il caso è diventato di attualità tra settembre e ottobre 2018, quando Der Spiegel, settimanale tedesco, ha attinto a documenti di Football Leaks e pubblicato le accuse contro Ronaldo di Kathryn Mayorga, ex modella, presunta vittima di uno stupro nel 2009. In quegli stessi giorni, Mayorga ha presentato un nuovo esposto alla polizia. La vicenda ha avuto un notevole risalto mediatico. La Juventus ha difeso Ronaldo con due tweet che, a inizio ottobre, hanno fatto molto discutere: «Ronaldo ha dimostrato in questi mesi la sua grande professionalità e serietà, apprezzata da tutti alla Juventus. Le vicende asseritamente risalenti a quasi 10 anni fa non modificano questa opinione, condivisa da chiunque sia entrato in contatto con questo grande campione». Il fatto risale al giugno 2009, quando Cristiano passò una notte con Kathryn Mayorga a Las Vegas. I due dopo qualche ora in discoteca (ci sono foto che li ritraggono insieme) andarono nella suite del calciatore. Per la donna ci fu violenza sessuale, per Ronaldo il rapporto fu consensuale. Mayorga si è sottoposta a un esame per attestare la violenza e ha firmato un patto di riservatezza da 375mila dollari con Ronaldo e i suoi legali. Il caso si è riaperto nel 2018, in seguito alle rivelazioni di Der Spiegel e alla nuova denuncia di Mayorga. Secondo i suoi legali, la donna nel 2009 - quando firmò il patto di riservatezza - non era nelle condizioni psico-fisiche per decidere. CR7 ha sempre negato le accuse: «Nego fermamente. Lo stupro è un crimine abominevole, contrario a tutto ciò in cui credo. La mia coscienza è pulita». A inizio 2019, il caso è tornato d' attualità: la polizia di Las Vegas ha confermato la richiesta alle autorità italiane di effettuare il test del Dna a Ronaldo.
Ronaldo accusato di stupro nel 2009: ecco cosa sappiamo. Le tappe della vicenda che coinvolge il fuoriclasse della Juventus. Inchiesta riaperta a Las Vegas, la difesa di CR7 e i documenti pubblicati. Giovanni Capuano il 6 giugno 2019 su Panorama. Kathryn Mayorga, la donna che accusa di stupro Cristiano Ronaldo, avrebbe ritirato la sua denuncia. Anzi no. Intorno al caso giudiziario che vede coinvolto CR7 si è sviluppato un vero e proprio giallo aperto dalla notizia del presunto ritiro delle accuse. A scriverlo Bloomberg parlando di “voluntary dismissal” del caso avvenuta lo scorso mese senza precisare se sia stato raggiunto un accordo tra le parti o se si sia trattato di un'iniziativa autonoma della presunta vittima. Qualche ora dopo la smentita e precisazione di uno dei legali della donna. Nessun ritiro della denuncia ma semplice spostamento dal Nevada (corte statale) a un tribunale federale per cambiare giurisdizione lasciando intatto l'impianto accusatorio.
La ricostruzione del caso. Cristiano Ronaldo è accusato di stupro da una donna americana, oggi 34enne, che nell'estate del 2009 - secondo la sua accusa - sarebbe stata violentata dal calciatore in una stanza di un hotel di Las Vegas dove il portoghese si trovava in vacanza. La vicenda è emersa per il lavoro del settimanale tedesco Der Spiegel che ha analizzato per un anno alcuni documenti ottenuti attraverso il sito Football Leaks compreso un accordo riservato stipulato nel 2009 con la donna per non rivelare l'accaduto dietro pagamento di 375.000 dollari. Ad accusare Ronaldo è Kathryn Malorga, all'epoca modella di 25 anni che ha accettato di raccontare la vicenda allo Spiegel confermando quando ricostruito dai giornalisti tedeschi sulla base dei documenti. L'attaccante portoghese ha respinto tutte le accuse con un comunicato: "Nego fermamente. Lo stupro è un crimine abominevole, contrario a tutto ciò in cui credo. Mi rifiuto di alimentare lo spettacolo mediatico creato da persone che cercano pubblicità a mie spese. Aspetterò con serenità l'esito di qualsiasi tipo di indagine perché la mia coscienza è pulita". La polizia di Las Vegas ha confermato di aver riaperto un'indagine per presunto stupro relativo ad accadimenti del 2008, epoca in cui furono condotti degli esami medici su una donna. Nello stato del Nevada, dove si trova Las Vegas, non esiste prescrizione per il reato di stupro.
La ricostruzione (presunta) dei fatti. Secondo quanto raccontato da Kathryn Malorga, che all'epoca lavorava come modella ed era ingaggiata da locali di Las vegas per fingersi cliente e attirare altri clienti all'interno dei locali, lo stupro sarebbe avvenuto il 12 giugno 2009 nella suite del Palms Casino Resort di Las Vegas in cui Ronaldo si trovava in vacanza. Il calciatore, allora in procinto di trasferirsi al Real Madrid e già star del calcio mondiale con la maglia del Manchester United - con la quale aveva già conquistato una Champions League, un Mondiale per club, tre Premier League e il Pallone d'Oro 2008 -, avrebbe conosciuto la ragazza all'interno del Rain, locale per Vip e l'avrebbe poi invitata a proseguire la serata con una festa privata nella sua suite. Qui, sempre secondo l'accusatrice, avrebbe assalito la sua vittima costringendola a un rapporto anale della durata di qualche minuto malgrado la donna gli chiedesse ripetutamente di fermarsi. Kathryn non denunciò subito Ronaldo, ma dopo qualche ora parlò alla polizia dello stupro avvenuto e fu sottoposta in ospedale a un test per verificare il suo racconto. Quel giorno, secondo la ricostruzione dei fatti fornita da Der Spiegel, la donna si limitò a indicare in un "personaggio pubblico" e "atleta" l'autore della violenza. Un video pubblicato dal quotidiano inglese The Sun e che ha fatto il giro del mondo in poche ore ritrae Ronaldo e la ragazza insieme nel locale quella sera. I due ballano, si abbracciano e chiacchierano in mezzo ad altre decine di persone.
L'accordo extra giudiziale. La versione fornita dalla modella è respinta con forza da Ronaldo e dai suoi avvocati. Nel 2017, però, lo Spiegel ha ottenuto attraverso Football Leaks documenti attestanti un accordo privato risalente ai mesi successivi al presunto stupro nel quale Kathryn Mayorga si impegnava a non parlare mai di quanto accaduto ricevendo in cambio un pagamento di 375.000 dollari. La stampa portoghese ha scritto che a fare pressioni su Ronaldo perché giungesse a un accordo sarebbe stato il Real Madrid, nuovo club dell'attaccante, preoccupato che la vicenda potesse screditare la società e mettere in difficoltà CR7 nel suo sbarco a Madrid. Secondo la ricostruzione fatta leggendo le carte, la trattativa per arrivare all'accordo durò mesi e produsse un documento con undici clausole di riservatezza (12 gennaio 2010) nelle quali Kathryn si impegnava a non parlare dell'episodio con nessuno, nemmeno in famiglia o nel corso di un'eventuale terapia psicologica, e a non denunciare penalmente Ronaldo che, da parte sua, aveva fornito i risultati di un test HIV negativo perché il rapporto sarebbe stato non protetto. In caso di rottura dell'accordo, secondo le carte, ci sarebbero state conseguenze finanziarie per la donna che lo aveva sottoscritto. Nel database hackerato di Football Leaks, i giornalisti tedeschi hanno anche rinvenuto un carteggio tra il calciatore e i suoi legali nel quale Ronaldo, rispondendo a precisa domanda, ammetterebbe che la ragazza avrebbe detto "No" diverse volte e di essere stato brusco ("Non gentile") fino a scusarsi alla fine. Una versione mutata nel tempo. CR7, infatti, sostiene in seguito che il rapporto sessuale fu consenziente. Kathryn Malorga ha spiegato di aver deciso di denunciare oggi Ronaldo perché allora temeva il caos che sarebbe seguito a una sua denuncia e perchè sotto choc: un trauma superato solo con l'ausilio di supporti psicologici. Secondo Der Spiegel all'epoca non era in condizioni fisiche e mentali per firmare quell'accordo che ora viene impugnato e che fu sottoscritto su suggerimento di un avvocato non esperto di questioni legate alla violenza sessuale. La donna sarebbe stata convinta a parlare anche dalla minor paura determinata dallo sviluppo del movimento #metoo.
Il giallo delle prove e l'indagine. Ad aggiungere mistero al mistero, la denuncia fatta sempre a Der Spiegel da parte di Leslie Mark Stovall, avvocato della donna. La testimonianza del 2009 della sua assistita e il materiale portato a prova della violenza (biancheria intima e vestiti indossati quella notte dalla modella) sarebbero stati smarriti dalla polizia di Las Vegas e non sarebbero più a disposizione per una nuova valutazione. La polizia di Las Vegas ha smentito questa circostanza con un intervento del suo portavoce lo scorso 9 ottobre e ha confermato che Ronaldo potrebbe essere sentito "come persona informata dei fatti non essendo al momento indagato". Un atto che potrebbe accadere anche in video conferenza oppure con domande e risposte via mail. Difficile al momento immaginare un viaggio negli Stati Uniti per il confronto. Nelle carte pubblicate dal settimanale tedesco anche l'attività compiuta dai legali di Ronaldo all'epoca dei fatti per schedare tutti i comportamenti di Kathryn Malorga: dal voto per il partito Democratico alle contravvenzioni per divieto di sosta fino al numero di bicchieri di vino bevuti. Un'autentica schedatura commissionata a detective privati. Il 10 gennaio 2019 la Polizia di Las Vegas ha chiesto alle autorità italiane di mettere a disposizione il Dna del campione portoghese per procedere al confronto con il vestito della Mayorga in possesso degli investigatori. Una scelta di routine nello sviluppo dell'indagine, ma che conferma la volontà di andare a fondo. I legali di Ronaldo hanno detto che la linea rimane quella del "rapporto consensuale" e che, dunque, non bisognerà sorprendersi della presenza di tracce sul vestito.
Ci sono altre donne che denunciano? Il Daily Mail ha raccontato di una seconda donna, dall'identità ancora sconosciuta, che avrebbe contattato l'avvocato Stovall - difensore di Kathryn Mayorga - per raccontare di essere stata vittima di un episodio simile da parte di Cristiano Ronaldo. Il legale ha spiegato di aver girato la segnalazione alla polizia di Las Vegas per gli opportuni approfondimenti. Non è escluso al momento che possa trattarsi della persona che nel 2005 a Londra denunciò il calciatore (all'epoca al Manchester United) in una vicenda che non ebbe alcun seguito dopo che Cristiano si presentò spontaneamente a Scotland Yard per rilasciare alcune dichiarazioni giudicate sufficienti dalla polizia inglese per giustificare l'accaduto. L'inchiesta non proseguì. Il tabloid The Sun ha, invece, fatto il nome di Karima El Marhoug, più nota come Ruby Rubacuori, salita agli onori delle cronache per la vicenda del bunga bunga di Berlusconi. Ronaldo avrebbe pagato 4.000 dollari per fare sesso con lei, all'epoca diciassettenne. Non è chiaro se accusi il giocatore di stupro o la sua vicenda sia stata semplicemente tirata fuori in un momento in cui l'attenzione è molto alta. Coinvolgimento smentito dalla stessa ragazza in un messaggio al suo avvocato e che in ogni caso farebbe riferimento a una vicenda sui cui gli investigatori, già nel 2010, non trovarono alcun riscontro per un racconto pieno di contraddizioni.
La linea difensiva di Ronaldo. Ronaldo si è affidato all'avvocato Peter S. Christiansen che affianca il pool di legali che si occupa dei suoi affari e che ha avuto mandato di occuparsi della vicenda relativa all'accusa di stupro. In un comunicato dello scorso 10 ottobre (pubblicato sul sito di Gestifute, la società che gestisce immagine e affari del portoghese) è stata delineata la strategia difensiva. L'avvocato ha accusato Der Spiegel (che ha risposto sostenendo di aver verificato ogni documento e di averne "centinaia") di aver pubblicato documenti manipolati e falsi, soprattutto in relazione alle parti contenenti "supposte" dichiarazioni di Ronaldo come i passaggi in cui ammetterebbe che la ragazza non era pienamente consenziente al momento del rapporto sessuale. Materiale rubato dall'hacker di Football Leaks e "irresponsabilmente" pubblicato dai media. Sempre secondo la tesi difensiva, la firma dell'accordo nel 2010 non rappresenta un'ammissione di colpa ma semplicemente il modo consigliato dai consulenti di allora di uscire da una situazione scomoda con il rischio di veder lesa la propria immagine. E si ribadisce con forza che l'unica posizione tenuta in questi nove anni da Ronaldo è che quanto accadde quella notte a Las Vegas fu "pienamente consensuale". Non una violenza o uno stupro. Il quotidiano portoghese Correio de Manha ha scritto che ad obbligare Ronaldo a sottoscrivere l'accordo nel 2010 fu il Real Madrid che con un comunicato ha smentito fermamente la ricostruzione annunciando azioni legali.
Le ricadute commerciali della denuncia. La riapertura dell'indagine da parte della polizia di Las Vegas e l'eco delle notizie in giro per il mondo hanno allarmato alcuni dei marchi multinazionali che hanno legato il proprio brand all'immagine di Cristiano Ronaldo. Lo scorso 4 ottobre due colossi come Nike ed EA Sports si sono detti "profondamente preoccupati" della situazione. Nike, che ha scelto CR7 come testimonial a vita al pari di Michael Jordan e LeBron James, ha inviato ad Associated Press una dichiarazione: "Siamo profondamente preoccupati per le accuse inquietanti e continueremo a monitorare da vicino la situazione". EA Sports, che produce Fifa 19 che ha in copertina proprio Ronaldo, ha espresso una posizione simile. Secondo Associated Press anche Save The Children sta valutando la situazione per verificare l'opportunità di proseguire nel rapporto con il calciatore portoghese perché le accuse, qualora dimostrate, renderebbero incompatibile la sua immagine con la missione dell'associazione. La Juventus si è schierata in difesa del suo campione con un messaggio su Twitter del 4 ottobre. Il titolo ha perso in Borsa il 26,6% nelle prime due settimane bruciando 439 milioni di euro di capitalizzazione dopo il rally d'estate e inizio autunno.
Cristiano Ronaldo, cadono le accuse sul presunto stupro. Pubblicato lunedì, 22 luglio 2019 da Corriere.it. Cristiano Ronaldo non dovrà difendersi dall’accusa di aver stuprato una donna nel 2009 a Las Vegas. Lo annunciano gli stessi investigatori della Corte del Nevada che, dopo aver ripercorso la vicenda iniziata il 13 gennaio del 2009 con la denuncia da parte della modella Kathryn Mayorga, che inizialmente rifiutò di fare il nome dell’attaccante portoghese, con l’accordo civile raggiunto tra le parti nel 2010, e con la riapertura del caso lo scorso agosto, e concludono: «Basandosi sulla revisione delle informazioni presentate (la scorsa estate, ndt), le accuse di aggressione sessuale contro Cristiano Ronaldo non possono essere provate oltre un ragionevole dubbio. Di conseguenza, nessuna accusa sarà proseguita».
Da gazzetta.it il 23 luglio 2019. Cristiano Ronaldo esce dallo scandalo del presunto stupro avvenuto in un hotel di Las Vegas nell’estate del 2009 ai danni di un’ex modella del Nevada, Kathryn Mayorga. Tutte le accuse nei suoi confronti sono cadute e non ci sarà nessuna causa penale ai suoi danni. La notizia è stata resa nota dalla procura di Las Vegas, che in un comunicato ha parlato di “mancanza di prove certe sulla base delle informazioni fin qui ricevute per documentare uno stupro oltre ogni ragionevole dubbio”. Il caso era deflagrato nei mesi scorsi, quando “Der Spiegel” aveva tirato fuori alcuni documenti, ottenuti attraverso il sito Football Leaks, tra cui un accordo riservato stipulato nel 2009 da Ronaldo con la Mayorga per non rivelare l’accaduto dietro pagamento di 375.000 dollari. Secondo la ricostruzione della Mayorga, all’epoca modella 25enne, sarebbe stata violentata dal calciatore in una stanza d’albergo a Las Vegas, dove il portoghese era in vacanza prima del suo passaggio dallo United al Real Madrid. Ronaldo si è sempre proclamato innocente: “Nego fermamente. Lo stupro è un crimine abominevole, contrario a tutto ciò in cui credo. Mi rifiuto di alimentare lo spettacolo mediatico creato da persone che cercano pubblicità a mie spese”. E gli inquirenti gli hanno dato ragione.
Ronaldo non sarà processato per stupro: "Accuse non dimostrabili oltre ogni dubbio". L'annuncio del procuratore titolare del fascicolo sulla presunta violenza alla modella Katrhryn Mayorga, nel 2009. La Repubblica il 22 luglio 2019. Cristiano Ronaldo non sarà incriminato e processato per stupro. Sono state le parole del procuratore titolare del fascicolo, Steve Wolfson, a spiegare che "sulla base della revisione delle informazioni presentate, le accuse di abuso sessuale contro Cristiano Ronaldo non possono essere dimostrate oltre ogni ragionevole dubbio". E per questo, "non saranno contestati capi d'accusa al calciatore". Con ogni probabilità, l'ultimo atto della vicenda che da dieci anni ha gettato sul fuoriclasse della Juventus l'ombra di un'accusa pesantissima. Quella della modella Kathryn Mayorga, che nel 2009 passò a Los Angeles una notte insieme a CR7: era l'estate del suo trasferimento al Real, quella della definitiva consacrazione nell'Olimpo del calcio. Dopo quella notte trascorsa nella suite di Ronaldo, però, la ragazza si presentò alla Polizia di Las Vegas denunciando uno stupro, pur senza rivelare il nome del responsabile. Soltanto nel 2018 però la vicenda è emersa in modo deflagrante, con le rivelazioni del settimanale tedesco Der Spiegel. Meno di un anno dopo i fatti, i legali della ragazza firmarono, con quelli del fuoriclasse, un accordo di riservatezza strettissimo: secondo lo Spiegel, in cambio del silenzio la giovane aveva ricevuto 375 mila dollari dal fuoriclasse. Unica condizione, una lettera che i legali del calciatore avrebbero dovuto consegnargli, e che invece omisero di dare a Ronaldo. Una lettera con accuse forti ("Vorrei dire al mondo chi sei davvero", una delle frasi). Il giocatore ha sempre rifiutato le accuse, definendole ripetutamente "fake news" e ripetendo - anche in alcune missive con i propri legali rivelate nel caso Football Leaks - che lei fosse consenziente. La stessa ragazza le invece poi confermate in una denuncia alla polizia del Nevada e in un'intervista ("Dissi ripetutamente di no") inequivocabile. A gennaio la polizia arrivò a chiedere il prelievo di un campione di Dna di CR7, a cui aveva fatto seguito la precisazione del suo avvocato: "Ronaldo ha sempre sostenuto che quanto accaduto a Las Vegas nel 2009 fu un incontro consensuale, per cui non sorprende che ci fosse presenza di Dna". Una difesa preventiva. A giugno il colpo di scena, o almeno tale era parso: circolò la notizia che Mayorga avesse ritirato la denuncia per stupro. Indiscrezione però durata lo spazio di una giornata, prima della smentita del suo avvocato: "La denuncia ritirata l'abbiamo presentata negli stessi identici termini a un tribunale federale a causa delle norme diverse riferite ai cittadini stranieri. Fondamentalmente abbiamo cambiato sede, ma le richieste rimangono". Almeno fino a oggi, quando il procuratore Wolfson ha messo la parola fine alla vicenda.
Petronella picchia sulla Signora di CR7. Ma la polizia chiude il caso per stupro. Il portoghese non sarà processato. La ex Ekroth: «Vietato parlarne». Riccardo Signori, Martedì 23/07/2019 su Il Giornale. C' è una bella ragazza svedese, Petronella (Hilda) Ekroth, una 29enne bionda che poteva fare l'attrice o la modella, altro che calciatrice in mutande e maglietta, che sta movimentando il mondo Juve. Sul caso CR7 ha montato il suo atto di accusa al club bianconero dove ha giocato nell'ultima stagione, prima di tornare in patria nel Djurgarden. Anche se ieri la procura di Las Vegas ha fatto cadere tutte le accuse nei confronti dell'asso portoghese sul presunto stupro avvenuto in un hotel nell'estate del 2009 ai danni dell'ex modella Kathryn Mayorga. «Assenza di prove chiare sulla base delle informazioni ricevute», così il comunicato del distretto della contea di Clark. Ronaldo si era sempre detto innocente e i fatti gli hanno dato ragione. La Petronella succitata fa tanto assonanza con la Petronilla dei fumetti che inseguiva Arcibaldo, il marito ubriaco, con il mattarello in mano. E davanti ad un giornalista dell'Expressen, da stopper si è tramutata in centravanti di sfondamento sui metodi di casa bianconera. Tanti si rifaranno al MeToo che ha cominciato a far moda e non la smette più. Ma qui pare soprattutto la divagazione psico-sociale di qualcuno che dovrebbe andare a lavorare in azienda o in fabbrica per capire che c'è di peggio del «dovevamo mantenere un basso profilo e lavorare per i valori del club». Riassumiamo: Petronilla accusa la Juve per queste ragioni. Caso Ronaldo: «Ci hanno vietato di parlarne. Siamo state zitte non lo abbiamo menzionato. Mi sono chiusa in me stessa perché ho sentito che le mie opinioni non contavano». Ambiente: «Mi è sembrato un po' come fossi in una prigione. Non potevo fare tutto ciò che volevo». Straniere: «Non credo le calciatrici straniere fossero trattate come le italiane. Certe volte mi sono chiesta se fossi a Candid Camera. Poi mi sono abituata». Facile dirlo una volta lasciata Torino, più difficile puntare il dito stando in mezzo a tale tormenta di ingiustizie sociali. Poi ha provato a fare marcia indietro, ma troppo tardi. La Juve ne esce ammaccata in qualche aspetto. Anche se Barbara Bonansea, attaccante bianconera e azzurra, ha subito rinfacciato: «Allora anche la tua gioia era finta». Era intuibile che il caso Ronaldo, vista l'importanza economico-affaristica del soggetto, andasse trattato con i guanti. L'ordine del silenzio va un po' oltre. Maneggiare CR7 con cura è stato il primo comandamento imposto pure a Sarri. Meno credibile il distinguo tra italiane e straniere. Fin dai tempi di Boniperti l'ordine di scuderia chiede disciplina, silenzi e tutti a lavorare. Un po' ambiente di soldatini come diceva Cassano, ma neppure un covo di arcigni nazionalisti maschilisti al potere. «No woman, no cry», donna non piangere diceva Bob Marley.
Anna Lombardi per La Repubblica il 5 luglio 2019. William Little, il giovane cameriere che aveva denunciato l’attore Kevin Spacey per averlo sessualmente molestato la notte del 7 Luglio 2016 nel locale dove lavorava, il Club Car di Nuntucket, ritira ogni accusa. Rinunciando di fatto – e per sempre – a rivalersi su di lui in un tribunale civile. Nei confronti del protagonista di House of Cards, che era già caduto in disgrazia più di un anno fa a causa delle tante altre accuse di molestie da parte di colleghi uomini che però non sono mai state formalizzate in tribunale, resta ancora in piedi un’indagine penale. Che però potrebbe a sua volta concludersi a breve con il ritiro della denuncia. A spingere il ragazzo a fare un passo indietro, è stata quasi certamente l’aggressiva richiesta, avanzata da Alan Jackson, l’avvocato di Los Angeles che rappresenta l'attore, di visionare ogni tipo di corrispondenza fra la famiglia di Little e il loro legale, quel Mitchell Garabedian, celebre per aver imbastito la causa contro i preti cattolici accusati di molestie, raccontata dal film da Oscar Spotlight, dove a vestire i suoi panni c'era Stanley Tucci. Secondo Jackson, la famiglia avrebbe denunciato l'attore per "motivi meramente economici". Mentre Garabedian avrebbe fatto condurre un'investigazione privata sul caso, senza poi mai depositare i risultati in tribunale. Intanto una serie di messaggi trovati sul cellulare di Little sarebbero risultati sospetti: cancellati o addirittura editati. Il giovane – che all’epoca dei fatti aveva solo 18 anni ma ha ammesso di aver detto a Spacey di averne 23, cioè l’età legale per bere alcolici - ha sempre sostenuto di aver raccontato in diretta alla sua fidanzata di allora quel che stava accadendo, e che l’attore si lamentava del fatto che stesse continuamente al telefono. Ma la ragazza ha sempre negato che in quei messaggi William avesse mai parlato di molestie, come invece risulta dai testi depositati ai giudici. E le accuse di molestie sono state smentite anche dalle numerose persone presenti nel locale, che hanno dichiarato in massa di non aver notato niente di anomalo quella sera. A denunciare Spacey, d’altronde, era stata per prima la madre di Little, l’ex conduttrice tv Ruth Unruh. Era stata lei a raccontare nel corso di una drammatica conferenza stampa che il figlio aveva approcciato l’attore sperando in un selfie: ed era poi fuggito dopo essere stato palpeggiato nelle parti intime. Il ragazzo quella notte sarebbe stato completamente ubriaco, spinto dall’attore a bere almeno 5 birre e 3 whisky. E per quello si sarebbe ritrovato con le mani di Spacey nei pantaloni, stretto fra il muro e un pianoforte a coprirne le azioni per almeno tre minuti. "Non è un tempo lungo per una situazione cui non si acconsente?" aveva attaccato l’avvocato di Spacey fin dall’inizio. "Mio figlio non immaginava certo di essere davanti a un predatore sessuale" aveva reagito a distanza la madre. Probabilmente, cosa è veramente successo quella sera non lo sapremo mai. Ma certo da questa storia di selfie, sesso e ricatti, nessuno esce bene: quasi come in una puntata di House of Cards.
Kevin Spacey, cadono le accuse di molestie sessuali e aggressione. Pubblicato mercoledì, 17 luglio 2019 da Silvia Morosi su Corriere.it. I procuratori del Massachusetts hanno lasciato cadere le accuse di molestie sessuali e aggressione contro il premio Oscar Kevin Spacey, nota star di «House of Card», che era stato denunciato da William Little, un cameriere diciottenne di un bar di Nuntucket. Quest'ultimo aveva invocato il quinto emendamento — che consente di non testimoniare contro se stessi — dopo aver detto di non aver cancellato nulla dal cellulare che conteneva messaggi legati all'incontro con l'attore. Quindi aveva ritirato la denuncia. I fatti sarebbero risaliti al 2016 quando il giovane avrebbe accettato di farsi comprare delle bevande dalla star di Hollywood, facendosi poi accompagnare a casa. Le molestie sarebbero avvenute lungo il tragitto e sarebbero state riprese dalla presunta vittima sul cellulare. L'accusa di Nantucket è stata l'unica contro Spacey a portare a un procedimento penale: nella maggior parte dei casi, i presunti atti erano troppo vecchi per essere perseguiti o non avevano raggiunto il livello di un reato. In una dichiarazione giurata dello scorso dicembre, il cinquantanovenne divo di «House of Cards», che rischiava sino a 5 anni, si era dichiarato non colpevole, mantenendo questa linea per tutto il dibattimento. Il suo avvocato aveva nel frattempo messo in dubbio la credibilità dell'accusatore, sostenendo che aveva cancellato diversi messaggi e fotografie scambiate con Spacey che avrebbero dimostrato l'innocenza dell'attore. Per questo aveva chiesto al giudice una copia «completa e non alterata» dei dati del telefono del cameriere, che però non è mai stata presentata dato che il cellulare è sparito. Il giovane aveva già messo a verbale che non aveva cancellato nulla, ma quando è stato riconvocato ha invocato il quinto emendamento, quello che consente di non testimoniare contro se stessi. Le accuse contro Spacey sono venute alla luce dopo le rivelazioni sul comportamento del produttore hollywoodiano Harvey Weinstein , che hanno portato alla nascita del movimento di protesta #Metoo. Da quando nell'ottobre 2017 Spacey è finito al centro dello scandalo, oltre 30 uomini lo hanno accusato. In maggio è stato interrogato in Usa anche dalla Metropolitan Police, la polizia britannica responsabile per l'area della Grande Londra — dove l'attore è stato direttore al The Old Vic theatre tra il 2004 e il 2015 — in merito a presunti abusi sessuali nel Regno Unito: si tratta di sei accuse nel periodo dal 1996 al 2013.
Federico Pontiggia per il “Fatto quotidiano” il 19 giugno 2019. Kevin Spacey: meno uno. Cadono le prime accuse penali al premio Oscar, quelle per molestie sessuali e aggressione in Massachusetts: "Indisponibilità del teste che sporge denuncia", sicché l' attore, sessant' anni il prossimo 26 luglio, può tirare un sospiro di sollievo. Ne serviranno molti altri, ma forse chi ben comincia è a metà dall' essere scagionato. Il Frank Underwood di House of Cards era alla sbarra per i presunti abusi ai danni di un cameriere del Club Bar di Nantucket: secondo l' accusa, il 7 luglio 2016 avrebbe fatto ubriacare e quindi aggredito il figlio diciottenne - ma proclamatosi ventitreenne - della reporter di Boston Heather Unruh, che ha poi sporto denuncia. Spacey rischiava cinque anni di prigione, e sarebbe stato registrato anche quale sex offender. Invece no, caso chiuso, e le avvisaglie c' erano tutte. Due settimane fa, il giovane aveva ritirato la denuncia civile intentata a giugno per "disagio psichico e danni emotivi". A detta del suo avvocato Mitchell Garabedian, la revoca non sarebbe il risultato di un accordo extragiudiziale. Se dopo la chiusura del fronte penale i legali del protagonista de I soliti sospetti tacciono, Garabedian si trincera dietro "il mio cliente e la sua famiglia hanno mostrato un enorme coraggio in circostanze difficili", e più non dimandare. Nello scioglimento trova spazio un telefonino: gli avvocati di Spacey avevano ottenuto che la presunta vittima non potesse modificare né cancellare i dati del proprio smartphone, giacché in un video di Snapchat inviato dal ragazzo alla fidanzata si sarebbe vista una mano - di Spacey, secondo l' accusa - palpare una zona vestita. Per la difesa, al contrario, il telefono avrebbe custodito le prove, messaggi e foto, dell' innocenza dell' attore. Comunque sia, la richiesta copia "completa e non alterata" dei dati non era mai stata consegnata, e a un certo punto lo smartphone - aveva asserito Garabedian - era stato addirittura perso. La capitolazione era dietro l' angolo: passibile di aver distrutto delle prove, il ragazzo si è appellato al Quinto Emendamento per evitare di auto-accusarsi, ritirandosi de facto dal poter testimoniare contro Spacey. Abbandonando la prima udienza dello scorso 7 gennaio, l' attore era stato omaggiato dell' urlo solitario di un fan, "Underwood 2020!": la candidatura alle elezioni americane rimane improbabile, ma mai dire mai. Nel frattempo, la via crucis iniziata nell' ottobre del 2017, allorché Anthony Rapp accusò il più celebre collega di averlo molestato - all' età di quattordici anni - nel 1986, ha conosciuto una stazione importante in maggio: Scotland Yard, la polizia metropolitana londinese, ha interrogato Spacey su suolo americano. L'attore si è sottoposto volontariamente alle domande del Complex Case Team, che sta indagando su sei abusi sessuali che lo vedrebbero coinvolto: dal 2003 al 2015 Spacey è stato direttore dell' Old Vic Theater nella capitale britannica, i fattacci risalirebbero al periodo 1996 - 2013. Nessuna accusa è stata a oggi formalizzata. Vale ricordare che nel settembre del 2018 il procuratore distrettuale della Contea di Los Angeles aveva rinunciato a perseguirlo per la supposta violenza ai danni di un uomo a West Hollywood nel 1992. I casi che lo riguardano sono una trentina, ma per ora vince lui; postando sui social il video Let me be Frank la vigilia dello scorso Natale, Spacey l' aveva promesso: "Se non ho pagato per quello che ho fatto, di sicuro non pagherò per quello che non ho fatto". Mutatis mutandis, ci sono novità importanti anche per Harvey Weinstein, il primo pezzo da novanta dello scandalo da cui è scaturito il movimento #MeToo. Atteso in aula il prossimo 7 settembre, il produttore accusato da 80 donne - due fin qui l' hanno portato sul banco degli imputati, per stupro e sesso orale praticato senza consenso - ha compiuto un passo sul versante civile, proponendo un accordo tombale da quaranta milioni alle proprie vittime, i dirigenti del suo studio e l' ufficio del procuratore generale di New York. In attesa che un giudice si esprima definitivamente, non mancano le voci di dissenso, né un documentario per tenere desta l' opposizione al mogul: Untouchable, diretto da Ursula Macfarlane e dal prossimo 2 settembre su Hulu, dà ascolto a Rosanna Arquette, Paz de la Huerta, Zelda Perkins e mette in guardia, giacché "era il sistema che lo permetteva".
Guia Soncini per “la Repubblica” il 19 giugno 2019. Se pensate che basterà il non luogo a procedere per ridarci Kevin Spacey, siete troppo ottimisti. Il procuratore del Massachusetts che avrebbe dovuto perseguirlo in un caso di molestie, dopo che la presunta vittima ha candidamente ammesso d' aver manipolato le prove, ha dichiarato che le accuse verranno lasciate cadere; ma questo, lo sa chiunque abbia sfogliato un giornale nei quasi due anni di MeToo, non conta niente. Ad azzerare la carriera di Spacey non è stata quest' accusa portata in tribunale, ma una detta in un' intervista: nell' ottobre 2017, un attore racconta che trent' anni prima, lui quattordicenne, Spacey l' ha molestato. Il principio base del MeToo è stato da subito che qualunque testimonianza dicesse senz' altro il vero e qualunque accusa, senza bisogno d' essere provata, bastasse a privarti della carriera. (Il MeToo è faccenda interna al mondo dello spettacolo, i cui mestieri sono evidentemente percepiti come privilegi: nessuno pretenderebbe mai la chiusura d' una panetteria perché il fornaio ha molestato la cassiera). Fu così che un hashtag uccise Frank Underwood, il Riccardo III postmoderno che teneva su coi suoi soli monologhi House of Cards , una serie per il resto scombinatissima. Alle persone sensibili toccò fingere contentezza - ora la protagonista assoluta sarà Robin Wright, largo alle donne - ma la stagione conclusiva di House of Cards consisteva in una brava attrice che vagava dentro una serie scombinata. Lo sostituirono in Tutti i soldi del mondo , il film di Ridley Scott sul rapimento Getty, ma non poterono far altro che chiudere in un cassetto Gore . Il film sulla vita di Gore Vidal era pronto, ma Spacey l'appestato ne era protagonista assoluto: mica si poteva interamente rigirare (e poi facendolo interpretare a chi?). Ora potrebbero farcelo finalmente vedere, ma non lo faranno. Il perché l' ha spiegato Louis CK, un altro paria che - dopo che quattro signore hanno detto a un giornale che si era masturbato davanti a loro avendo domandato e ottenuto permesso, ma loro avevano acconsentito senza essere davvero convinte - ha aspettato un anno e mezzo prima di tornare a fare monologhi comici. L'altra sera era a Milano, in un teatro da mille posti («Non so se sapete che facevo i palasport», ha detto l' uomo che quattr' anni fa faceva tre tutto esaurito al Madison Square Garden - ventimila posti - e ora va in tour in Polonia); qualcuno del pubblico gli ha chiesto se fosse prevista una nuova stagione della serie di cui era autore e protagonista, Louie . «Non credo proprio, visto che non posso più lavorare in America. Ci vorrebbero due milionari che decidono di buttare i loro soldi producendola». Quella fuori dai tribunali è una condanna a vita: CK lo sa, lo sa anche Spacey. Però Woody Allen - di cui il MeToo dice che è un molestatore, dopo che i tribunali l' hanno assolto - ha appena fatto una regia d' opera alla Scala, e a settembre in Italia vedremo il suo film. Forse Netflix potrebbe cedere Gore a una distribuzione cinematografica italiana: potremmo diventare territorio d' accoglienza per quelli la cui esistenza è stata cancellata da quell' orwelliano Ministero della Verità che è Hollywood.
Kevin a – 1: ma è incenerito dalla fornace mediatica. Angela Azzaro il 19 luglio 2019 su Il Dubbio. Cadute le accuse di molestie nel Massachusetts. Restano altri 29 accusatori contro, ma l’opinione pubblica ha già deciso è colpevole e deve sparire per sempre.
Kevin a – 1. Lo hanno fatto fuori da tutto. Cancellato. E non per modo di dire, per metafora. Lo hanno cancellato davvero per esempio dal film di Ridley Scott, Tutti i soldi del mondo. Dopo le accuse di molestie, hanno rigirato le scene che avevano lui come protagonista. Stessa scelta per i produttori di House of cards di cui era stato il grande mattatore e che nell’ultima stagione lo hanno fatto sparire, decretando così anche il proprio insuccesso. In tutto ha ricevuto 30 denunce e l’altro ieri è arrivata la prima decisione: i procuratori del Massachusetts hanno lasciato cadere le accuse di molestie sessuali e aggressione dopo che il giovane che lo aveva accusato ha ritirato la denuncia.
Sentenza mediatica. Kevin Spacey si è sempre dichiarato innocente e continua la sua battaglia davanti ai giudici dei diversi tribunali nei quali è chiamato a difendersi. Ma parliamoci chiaro: il grande attore ha davvero qualche speranza di uscirne vivo? Sì, vivo, perché per molti è già morto. Non si tratta neanche più di stabilire se sia colpevole o innocente, questo spetta infatti ai giudici non al sistema mediatico. Una parte della comunità internazionale ha già decretato la sua fine. E a poco serve l’intervento del sistema giustizia. La drastica decisione è stata presa e ha il valore di una sentenza definitiva. La stessa sorte è toccata a un altro grande regista e attore come Woody Allen: da quando è finito nel mirino del “metoo”, è diventato un appestato e nessuno vuol più produrre i suoi film o pubblicare i suoi libri.
Gogna pubblica. Il processo mediatico scaturito dal movimento del “metoo” ha preso il sopravvento sulle legittime denunce contro un sistema che resta maschilista. Invece di combattere nei tribunali quando ci sono le denunce o sul piano culturale ovunque sia possibile, si è scelta la scorciatoia della gogna pubblica. Il meccanismo è quello del capro espiatorio, di qualcuno che viene preso di mira e sacrificato in nome della presunta salvezza collettiva. È un meccanismo barbaro che nulla ha a che fare con lo stato di diritto e con la costruzione della libertà femminile. Kevin Spacey se ha sbagliato pagherà, ma la pena mediatica che gli è stata inflitta fin da subito è la peggiore possibile anche perché non finisce mai.
L’avvertimento della Atwood. Ha sempre più ragione la grande scrittrice Margaret Atwood, la geniale autrice del Racconto dell’ancella, quando avvertiva, davanti al “metoo”, dei rischi che si correvano rinunciando a far valere la presunzione di innocenza. Diceva: se crolla lo stato di diritto, sarà peggio per tutti, in primis per le donne. La caccia alle streghe che ha messo al tappeto un grande attore come Spacey può capitare a tutti e a tutte. Per questo va contrastata. Non solo perché nessuno merita il trattamento che ha subito lui, ma perché in mezzo ci finiscono principi fondamentali. In Italia abbiamo avuto il caso di Fausto Brizzi: le accuse nei suoi confronti sono state archiviate. Ma anche per lui la pena mediatica è mai finita?
· Quell’arma segreta di guerra: gli abusi sessuali sugli uomini.
Lo stupro delle donne è (ancora oggi) un’arma di guerra. Pubblicato sabato, 18 maggio 2019 da Fausta Chiesa su Corriere.it. Il 13 aprile il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato una risoluzione volta a combattere l’uso dello stupro come arma in guerra. Una buona notizia? Non proprio. Il documento è uscito ampiamente impoverito dopo i veti posti da Stati Uniti, Russia e Cina, che si sono uniti in una strana alleanza per «annacquare» i diritti delle vittime. A dirlo non sono soltanto le Ong - tra queste l’italiana Fondazione Pangea e Amnesty International - e le attiviste come Amal Clooney, ma gli stessi Paesi che si sono battuti per avere una risoluzione che desse più poteri, in primis la Germania, e la stessa Italia attraverso l’ambasciatore Stefano Stefanile, rappresentante permanente a New York, che sperava in un testo «più onnicomprensivo e inclusivo». Dalla bozza su cui Berlino aveva lavorato duramente la strana alleanza ha imposto di eliminare l’istituzione di un nuovo e specifico organismo per monitorare e segnalare gli stupri. E su pressioni di Washington è stato tolto ogni riferimento alla «salute riproduttiva» che, per estensione, costituiva il sostegno all’interruzione di gravidanza per le vittime di violenze sessuali in guerra. Alla riunione hanno partecipato, oltre al ministro degli Esteri tedesco Heiko Maas e al segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, anche i premi Nobel per la Pace 2018 Nadia Murad e Denis Mukwege, che ci ricordano gli esempi più recenti dello stupro come arma di guerra. Nadia Murad è una delle 6.700 e più donne yazide fatte prigioniere in Iraq, torturate e violentate dagli uomini dell’Isis. Mutwege è un attivista e medico congolese, specializzato in ginecologia e ostetricia, che nel 1998 ha fondato il Panzi Hospital, dove cura le donne stuprate dai soldati congolesi. «Non c’è una guerra dove non ci siano stupri», sostiene Simona Lanzoni, vicepresidente e capo dei progetti di Fondazione Pangea. «Ma è con la guerra della ex Jugoslavia negli anni Novanta e con la denuncia da parte di associazioni di donne che lo stupro emerge come arma di guerra, utilizzata in maniera massiccia e sistematica». Nel febbraio del 2001 per la prima volta il reato di violenza sessuale contro le donne è considerato un crimine contro l’umanità dal Tribunale Penale Internazionale dell’Aja per la ex Jugoslavia. Una sentenza storica condanna tre miliziani serbo-bosniaci per lo stupro e la riduzione in schiavitù sessuale di donne. Le associazioni umanitarie calcolano che tra il 1992 e il 1995 tra le 20 e le 50mila vittime della guerra nella Bosnia-Erzegovina furono abusate dalle forze nazionaliste. Ma i casi che arriveranno all’Aja saranno una percentuale piccolissima rispetto al dramma. Le violenze sessuali arrivano poi in Kosovo dal 1996 al 1999 e dopo i Balcani proseguono con altri protagonisti - i soldati della Federazione russa - nella guerra in Cecenia dal 1999 al 2009, con testimonianze riportate da Human Rights Watch, che documenta anche gli stupri in Sierra Leone durante la guerra civile che termina nel 2002. In Africa lo stesso schema di stupri si ripete in Ruanda con il conflitto tra Hutu e Tutsi tra il 1990 e il 1993, in Congo tra il 1997 e il 2002. «Nei Balcani e in Africa sub-sahariana ci sono decine di migliaia di donne che attendono giustizia», dice Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia. «Nella Repubblica Democratica del Congo i conflitti e gli stupri iniziati negli anni Novanta proseguono ancora oggi. Lo stesso accade in Sud Sudan oggi e in passato a causa del genocidio del Ruanda che ha avuto un’incidenza altissima di stupri di guerra». Non ha fatto eccezione la guerra in Iraq con le violenze sessuali perpetrate dai soldati americani, conosciuti anche per gli abusi sulle donne giapponesi in tempo di pace, sin da quando nel 1945 hanno base nell’isola di Okinawa. «Lo stupro è un’arma per spaventare - spiega Simona Lanzoni- ma è anche usato come pulizia etnica. E questo è accaduto contro le yazide in Iraq e accade contro le rohingya in Myanmar. Se stupriamo le donne, i figli non saranno rohingya: questa è la logica». Per Lanzani la risoluzione del Consiglio di Sicurezza «delegittima le istituzioni internazionali che lavorano per la pace e la giustizia, come la Corte penale internazionale alla quale Stati Uniti, Cina e Russia non hanno aderito. Un accordo in controtendenza con «tutti i progressi che si stanno facendo in questo campo». Un passo avanti, anche se molto più corto e incerto di quello che si sperava, è stato comunque fatto. Grazie alla risoluzione le varie agenzie dell’Onu potranno giustificare un budget per i progetti di assistenza alle donne.
Quell’arma segreta di guerra: gli abusi sessuali sugli uomini. J.S. von Dacre 15 maggio 2019 su it.insideover.com. Rimane una delle armi di guerra più segrete, spazzata sotto il tappeto come una sorta di polvere nociva perché pochi la vogliono prendere in considerazione. Eppure, di tanto in tanto, qualcuno osa affrontare questa sporcizia nascosta. “Mio marito non riesce ad avere rapporti sessuali”, ha detto una donna a Eunice Owiny, consulente del Refugee Law Project (Rlp) presso l’università di Makerere. “Questo lo fa stare molto male. Sono sicura che mi sta nascondendo qualcosa”. Owiny ha dichiarato al Guardian che il marito della donna, dopo molto tempo, le aveva confidato: “È successo a me. Mama Eunice, mi fa male. Devo usare questo”. Aveva infilato una mano in tasca e aveva tirato fuori un assorbente coperto di pus. Durante la sua fuga dalla guerra civile in Congo, i ribelli lo avevano separato dalla moglie. I suoi rapitori lo avevano violentato: tre volte al giorno, ogni giorno, per tre anni. Aveva visto uomini che quotidianamente venivano catturati e violentati; uno di essi era morto davanti a lui per le gravi lesioni causate dagli stupri. Non è raro che le vittime di queste violenze portino sul loro corpo ferite permanenti: alcuni sanguinano ancora quando camminano o si siedono e spesso devono limitare la loro dieta a cibi morbidi, prodotti che possono essere costosi in queste parti del mondo. Gli abusi sessuali sugli uomini sono uno degli ultimi tabù rimasti; spesso la vittima non è disposta a parlarne a causa dell’umiliazione e di un’errata idealizzazione del machismo. Questo velo di silenzio finisce per proteggere l’aggressore, ancora di più nelle società patriarcali. Il dott. Brock Chisholm è uno psicologo clinico ed è membro del consiglio di Survivors Uk, la principale organizzazione no profit britannica che aiuta gli uomini vittime di abusi sessuali. È anche il fondatore di Trauma Treatment International, un’organizzazione che assiste le vittime di traumi estremi come torture, stupri, traffico di esseri umani e schiavitù. Il dott. Chrisholm ha fornito testimonianze cruciali in molti importanti casi di violazione dei diritti umani in tutto il mondo. “Esiste un tipo di stupro che non è troppo diverso dal modo in cui le donne vengono violentate. Ma le violenze sessuali sugli uomini come arma di guerra avvengono con modalità diverse, che rientrano all’interno di un approccio che utilizza tecniche di umiliazione”, ha spiegato il dott. Chrisholm. “A volte la violenza può avvenire con degli strumenti: per esempio bottiglie, bastoni e altri oggetti sono stati usati nelle camere di tortura siriane durante il governo di Assad. Anche Saddam Hussein ha adottato metodi simili per torturare i prigionieri”. “Esiste anche l’uso delle cosiddette ispezioni della cavità anale, che sono utilizzate di frequente pur non essendo necessarie. Vengono eseguite con la scusa della sicurezza, ma la vera ragione è infliggere un’umiliazione. Ci sono poi esempi come l’alimentazione rettale forzata eseguita sui prigionieri in sciopero della fame”. A volte gli uomini sono costretti a patire altre forme di umiliazione, come partecipare ad atti sessuali con persone dello stesso sesso oppure esporre i loro genitali al fuoco o ad altre sostanze pericolose. Il mondo rabbrividì incredulo quando nel 2003 emersero le foto che mostravano i detenuti nel carcere iracheno di Abu Ghraib mentre subivano abusi fisici e sessuali per mano dell’esercito americano. In Europa la guardia costiera greca è stata oggetto di pesanti critiche quando sono emerse accuse di stupro e torture ai danni dei richiedenti asilo. Il dott. Chisholm conferma che la nudità forzata e la violenza sessuale sono tecniche di tortura che vengono ancora usate dai governi occidentali. “Ho lavorato personalmente a casi in cui queste forme di violenza sono state utilizzate dalla Cia contro presunti terroristi che in seguito sono stati completamente scagionati. Mi sono occupato di casi in cui civili dicevano che i soldati britannici e americani li avevano violentati. Il governo dirà che non è successo o che hanno indagato sulla questione senza riuscire a trovare prove sufficienti. In realtà è un fenomeno molto più comune di quanto solitamente viene raccontato”. In luoghi come il Medio Oriente o l’Africa, lo stigma dello stupro maschile è legato a determinati limiti culturali e sociali: alcune culture portano ancora avanti la convinzione che il suicidio sia preferibile allo stupro. Un’altissima percentuale di vittime di violenza sessuale soffre di disturbo post traumatico da stress (Ptsd, post-traumatic stress disorder), fattore che è strettamente legato all’alto numero di suicidi. “Il Ptsd è un disturbo della memoria causato da qualsiasi evento traumatico in cui la vita dell’individuo è stata messa a rischio. Il disturbo insorge anche a causa di gravi turbamenti come lo stupro. Le persone rivivono il ricordo dell’accaduto nel presente e non nel passato (come invece è normale per altri ricordi autobiografici). Ciò significa che gli individui rivedono l’evento e sentono le stesse sensazioni nel loro corpo e nella loro mente, come se l’esperienza traumatica stesse accadendo di nuovo”, ha spiegato il dott. Chisholm. “I malati di Ptsd prendono provvedimenti per tenere a bada il disturbo: evitano suoni, odori, luoghi e qualsiasi cosa che possa provocare un attacco di Ptsd. L’impulso nel loro cervello è quello di nascondersi istintivamente da qualsiasi elemento che possa indurli a rivivere il trauma come se esso stesse accadendo di nuovo nel presente. La vita per i malati può diventare un inferno senza fine se essi rivivono costantemente l’esperienza traumatica e sentono di non averne il controllo. Sfortunatamente, spesso non c’è abbastanza supporto per chi soffre di Ptsd. Per esempio, quando lavoravo in clinica a Londra, c’era una lista d’attesa di due anni per ottenere aiuto”. Poiché pochissimi parlano di questi crimini, i responsabili continuano a farla franca e sono invece le vittime a dover sopportare il peso del senso di colpa. Il tanto necessario cambiamento purtroppo non è vicino, a meno che l’orribile tabù che circonda la violenza sessuale sugli uomini non venga sfidato e demistificato. Traduzione di Alessandro Chiarenza
· Il Bullismo non ha genere.
L'ultima frontiera del trash in tv, umiliare in diretta Riccardo Fogli, scrive Tony Damascelli, Mercoledì 06/03/2019 su Il Giornale. La colpa di Riccardo Fogli è di non essere donna. Perché, se fosse tale, dopo il volgare filmato di Fabrizio Corona, mandato in onda con la complicità della conduttrice Marcuzzi Alessia e per idea degli illuminati autori dell'Isola dei Famosi, oggi avremmo l'Italia in tumulto, il #metoo scatenato, fermenti nelle aule parlamentari, manifestazioni e fiaccolate, varie ed eventuali. In verità si è trattato di una miserabile edizione del quarantacinquenne catanese alla ricerca di se stesso, felice da «bastardo», come si è presentato nel filmato in questione, felice, dunque, di umiliare pubblicamente un partecipante, il Fogli di cui sopra, dandogli del cornuto e del vecchio. Corona Fabrizio brandiva, nel suo eloquio, una cartelletta che, con ogni probabilità, conteneva le testimonianze del tradimento, le fotografie dei quattro anni di corna della moglie, roba buona per condor e jene. Stando alle altre considerazioni, del Corona Fabrizio medesimo, Fogli avrebbe dovuto mettere in preventivo che, accoppiandosi con una donna più giovane, sarebbe finito sotto schiaffo del tradimento. Riccardo Fogli ha ascoltato, con la dignità trattenuta dell'artista cantante e la patetica fragilità del naufrago partecipante, non ha reagito per non pareggiare il triviale stile dell'interlocutore, ma ha scelto il silenzio e le lacrime private, mentre la Marcuzzi Alessia, godendo dell'effetto scenico utile ad acchiappare i lebbrosi, ha visto, ascoltato e assorbito nel silenzio, complice e codardo, alla celebrazione dell'insulto e alla sconfitta della dignità. Per fortuna, Alda D'Eusanio, opinionista in studio, ha reagito, sola, alla sceneggiata, invitando il messaggero catanese a rientrare al gabbio mentre Alba Parietti, altra voce del reality, si è dissociata, in seguito, dicendosi mortificata e dispiaciuta per l'accaduto che gli ha provocato il mal di stomaco, immagine cara al Collovati e per questo squalificato dalla Rai. Addirittura Rodriguez Belen ha definito uno «schifo» quello che ha visto perché «non si gioca con la vita degli altri» dimenticando uno dei cari vizietti del suo ex amore: il Corona Fabrizio, infatti, gioca con la vita degli altri e non ha ancora compreso quale sia la propria. Non credo che Mediaset squalifichi i protagonisti della meschina rappresentazione. Anzi un bell'applauso. Purtroppo non è finita. Si replica. L'isola dei miserabili.
San Giovanni Rotondo: Angelica Placentino vittima di bullismo. Angelica, la studentessa bullizzata "perché femminista e di sinistra". Odio, "puttana" e svastiche. In 52 dicono "Basta!" Angelica Placentino diventa rappresentante d'istituto dell’Istituto Magistrale “Maria Immacolata”. Parte la macchina del fango. Angelica comincia ad essere vittima di vessazioni, denigrazioni, ingiurie. In 52 rispondono con i fiori alle svastiche, scrive Giovanna Greco il 16 febbraio 2019 su foggiatoday.it. Potremmo stare qui a raccontare l’ennesima storia di bullismo. E invece no. Perché ad un certo punto avviene qualcosa di inaspettato. Attorno alla protagonista della nostra storia un moto di solidarietà prende piede, comincia a muoversi tra le sue compagne, e l’avvolge, donandole protezione. E mettendo all’angolo la calunnia, ridimensionando i suoi aguzzini, condannando (e ridicolizzando, per certi versi) il loro agire. Questa storia viene da San Giovanni Rotondo. E si muove nelle mura dell’Istituto Magistrale “Maria Immacolata”. Anno scolastico 2018/2019. Quello in corso. Accade che a settembre, inizio anno, la scuola si misuri con le elezioni per la rappresentanza di istituto. Nel corso della campagna elettorale spicca una studentessa, Angelica Placentino: ragazza normale, con uno profilo valoriale che va formandosi a 18 anni, o poco meno, energica, con contenuti. E’ una competizione forte, appassionata, in cui emergono caratteri, idee e attitudini personali. Angelica vince. Ma ben presto qualcuno decide che Angelica va messa alla gogna per quella sua vittoria. E avvia la macchina del fango sul suo essere frequentatrice del locale circolo di Rifondazione comunista, tratto un po’ femminista, idee di sinistra. Inizia il calvario di Angelica. Poche, volgari provocazioni buttate qua e là cominciano a trasformarsi in qualcosa di più serio. “Si genera un grande odio collettivo” dirà Nair Gatta, studentessa, nel suo intervento in assemblea di istituto, puntando il dito contro “tutti coloro che sono rimasti in silenzio”. Ma proseguiamo con ordine. Diventa qualcosa di più serio dicevamo. Angelica comincia ad essere vittima di vessazioni, denigrazioni, ingiurie. Sussurrate nelle orecchie dei ragazzi che frequentano la scuola, che si mostrano sulle labbra che ridono sprezzanti al suo passaggio. Qualche professore sa, ma chiude un occhio. La marea monta. Angelica comincia a ricevere sul suo telefonino messaggi anonimi. Le si scrive “puttana”, la si esorta a “tornarsene a casa”. Prova a denunciarli, a parlarne. Ma “dinanzi a questo tentativo…silenzio” dirà ancora la sua amica studentessa, Nair. “La violenza non si ferma. Ci sono gli attacchi verbali in pubblico. Silenzio. Compare sotto casa sua la scritta “Placentino lesbica repressa”. Ma Angelica non sta zitta, denuncia. Contro ignoti ovviamente. “La collettività risponde con un gentilissimo silenzio”. Presso il circolo che frequenta ad un certo punto viene ritrovata impressa sul muro una svastica. Il circolo fa denuncia, anche mediatica. Che sia collegata ad Angelica non è chiaro. Ma tutta una serie di precedenti lo lasciano presupporre. “Lo scempio sembra terminato – dirà ancora Nair, che ci accompagna in questo doloroso viaggio-. E invece arriva un ultimo crudele colpo: “Dimettiti perché ci fai schifo”. Ancora messaggi anonimi. E’ il periodo di Natale: “Meglio su una statale che in consiglio di istituto. Guardati le spalle STRONZA”. “A questo punto della narrazione voi cosa vi aspettereste? Silenzio, ovvio” denuncia ancora Nair. Che ad un certo punto con alcune compagne di scuole decide di dire basta. “Questa scuola oggi parla”. Lunedì scorso, dopo mesi di vessazioni, di minacce, di ingiurie, tre amiche di Angelica decidono di urlare quanto sta accadendo all’intera scuola, professori compresi. Di reagire. Di farlo per lei. E per tutti loro. “Cosa dovevamo aspettare, che accadesse un altro caso Ruffino” si sfoga Nair su queste colonne. Il riferimento è a Michele Ruffino, il giovane vittima di bullismo che si è tolto la vita a Torino nel luglio 2018. Nair Gatta, Lucia Masciale ed Elisabetta Crisetti si incontrano. Decidono di agire. Coinvolgono da subito Davide Livini. Mettono su una strategia di incontro/scontro con la scuola. Per promuovere una pubblica ammenda, una riflessione, un moto di riscossa collettivo. Ci riescono. Il quartetto in pochi giorni assolda dieci, venti, trenta, cinquanta ragazzi. Ieri mattina quando si sono presentati energici e decisi in assemblea di istituto erano 52. Sì, 52. Cinquantadue persone vestite di blu, colore della lotta al bullismo. Cinquantadue studenti con segni blu dipinti sul viso, con cartelloni riportanti le frasi più volgari subite da Angelica. 52 ragazzi che prendono il microfono e decidono di parlare, denunciare, difendere la loro amica, scuotere le coscienze dei loro coetanei. E dei professori. Per metterli al corrente. Per chiedere aiuto. “Cinquantadue persone che ci aiutassero a raccontare, a denunciare la violenza, l'ipocrisia, l'omertà che in questi mesi sono nate e cresciute nella scuola” scrive Nair sul suo profilo Facebook. “Raccontiamo di una nostra amica/compagna/sconosciuta che è stata vittima della forma di violenza più comune tra noi giovani: il bullismo. Lo facciamo tramite spiegazioni, monologhi, riflessioni, poesie improvvisate, colori, scritte. Lo facciamo con un'organizzazione che quasi non esiste, presi dalla foga di farci ascoltare. Raccontiamo realtà devastanti, vere. Raccontiamo di silenzio, di pesi sulla coscienza, di persone che si sono piegate al male. Spieghiamo l'importanza del non ostentare una violenza crudele di cui non si comprende il significato”. "Non facciamolo perché siamo giovani" urlano. Non accusano. Invitano alla riflessione. Si mettono tutti in gioco. Utilizzano De Andrè: "Per quanto noi ci crediamo assolti, siamo lo stesso coinvolti". “Veniamo ascoltati, capiti” racconta Nair. “C'è chi si alza e urla: oggi scelgo da che parte stare". C'è chi riflette: "Ancor prima di essere persone, siamo liberi di essere persone". C'è chi grida: "Ciò che c'è di più importante è guardare al futuro!" Lacrime. E poi applausi. E poi ancora interventi. “Oggi vedo una scuola che si alza in piedi. Che non rimane seduta. Vedo una scuola che è stanca di stare zitta. Se sono puttana perché ho un'idea e la porto avanti, vi invito ad essere tutte puttane" è lo sfogo commosso di Angelica. I professori si avvicinano, evidentemente capiscono (qualcuno sapeva?), si uniscono. Spiegano. "L’ipocrisia, ragazzi, ci uccide – urlano in coro gli studenti -. Ora, quando questa partaccia sarà finita, guardatevi dentro, scegliete. Magari il silenzio o un urlo vomitato in una stanza, ma smettiamola di essere dei vili e scegliamo chi essere. Io oggi ho scelto la straordinarietà, alla stupida ordinarietà". “Qualcuno ha scelto chi essere piangendo. Qualcun altro dialogando. Altri hanno brindato. Noi ci siamo abbracciati” ci dice, felice, Nair. Ma c’è un ma. Perché gli aguzzini di Angelica non hanno gradito probabilmente. Qualche ora dopo sui muri delle abitazioni di due ragazze intervenute in assemblea compaiono due svastiche. Ancora svastiche. Ancora non si arrendono. Gli amici di Angelica rispondono andando a disegnare sui muri di coloro che presumono siano gli autori dei fiori. “Noi rispondiamo con dei fiori al vostro orrore” urla Nair su Facebook . E chiama in causa tutti. “E voi? – urla-, giovani del paese, del mondo, come rispondereste?”. Già. E voi?
"Meglio put... che salviniana". E Salvini risponde alla (rossa) signora. Matteo Salvini ha pubblicato sui social l'ultima offesa ricevuta durante i festeggiamenti di Carnevale, scrive Serena Pizzi, Lunedì 04/03/2019, su Il Giornale. "A Carnevale ogni scherzo vale". Dicono. Ma dicono anche che persone di classe si nasce, non si diventa. Forse, questa signorina rossa di capelli (ma a sto punto non solo) non lo sa. E quando si dà della "buonista" e della "puttana" (scritto da lei in termini di disprezzo) pensa di farsi un complimento (di classe). Forse. Beh, fatto sta che durante i festeggiamenti di Carnevale di un paesino a noi sconosciuto, la rossa signorina si diverte sui carri come meglio crede. Come? Insultando il ministro dell'Interno Matteo Salvini e sfoderando sorridente un cartello "elegantissimo". Ma cosa avrà mai scritto la gentile signorina? Eccolo qui: "Meglio buonista e puttana che fascista e salviniana". Diciamo che non è una delle classiche frasi che vengono pronunciate o mostrate durante una festa. O almeno quando tutti si divertono e non pensano ad altro che a stare in compagnia. Diciamo, anche, che ognuno sceglie di essere e fare quello che vuole nella vita. Ma almeno lo si fa senza offendere e disprezzare nessuno.
Matteo Salvini non poteva non mostrare l'eleganza della giovane. Così, ha preso la foto e ha condiviso la rossa signorina (e il suo cartello) sul suo profilo Facebook. "Che gentil signora", commenta il ministro dell'Interno aggiungendoci pure uno smile. E anche questa volta, l'insulto è arrivato.
Giulia contro Matteo Salvini: “Non scopate con i Fascisti, non fateli riprodurre”, scrive il 05/03/2019 Leggilo. Giulia Pacilli, la ragazza che ha esposto un cartellone contro Matteo Salvini, in una sfilata di Carnevale, ha risposto al Vicepremier Matteo Salvini. Il Carnevale, da occasione di travestimento, ha preso le sfumature di attacchi politici. L’ultima severa offesa, dopo i carri di Carnevale dalla Germania, è arrivata da Giulia Pacilli, una ragazza dai capelli rossi, che ha messo in bella mostra, in un paesino non ancora noto, un cartellone offensivo rivolto al Vicepremier Matteo Salvini. Non sfilava per il Carnevale, ma per la marcia antirazzista di Milano, che comunque aveva le sembianze di una volgare sfilata in maschera. “Meglio buonista e puttana che fascista e salviniana”, recita il cartellone che la donna ha sbandierato alto. E Salvini, a cui non sfugge nulla, non ci ha pensato due volte a condividere la foto della signora, in un post. “Che gentil signora”, ha commentato il Vicepremier. A sua volta Giulia, che non aveva messo in conto il fatto che il Vicepremier l’avrebbe postata sui social, ha commentato la faccenda. “Credevo che da Ministro avesse oltre oneri, altro da fare. Non me l’aspettavo”, ha detto in un’intervista. La posizione della signora ha aperto, cosa prevedibile, le acque: tanti si sono schierati contro e a favore del gesto, e lei, sui social, è stata ricoperti di insulti. “I commenti negativi sono arrivati specie dalle donne”, ha detto Giulia, lamentandosi di essere stata messa alla gogna dal Ministro dell’Interno Matteo Salvini, con la pubblicazione del post. Una condivisione che Giulia Pacilli non si aspettava. “Ho ricevuto anche messaggi positivi, oltre agli attacchi, tantissimo affetto, è la parte più importante”. Secondo Giulia, nessuno nei commenti ha denunciato l’accostamento, nel cartello, del termine fascismo a quello salviniano: “Nessuno l’ha considerato una stranezza, anzi molti rivendicano l’essere fascista”, ha detto ancora la ragazza. Tra l’altro, tanto nel privato non sembra volerci rimanere, Giulia. Il suo profilo Facebook è tutt’altro che muto sulla cosa. “Perché avete votato ancora, la sicurezza, la disciplina. Grideremo ancora più forte”, questa la didascalia della sua foto profilo dove si mostra con il cartello al centro dello scandalo. Anche l’immagine di copertina, del resto, non lascia fuori le critiche e invita a “non far riprodurre i fascisti”. Diciamo che, se Salvini si è fatto una risata, lei l’ha presa più seriamente, lamentandosi della cosa. Il pensiero è stato considerato poco elegante e, sicuramente, poco adatto al linguaggio femminile. Diciamo anche che, se ti esponi, sai di poter essere criticata. Se non vuoi risposte, allora non domandare. Non accendere fuochi. Resta nel tuo. Vedrai, nessuno sarà lì a criticarti. Ecco chi è Giulia Pacilli: una ragazza che offende un ministro e dopo si lamenta delle critiche. La libertà appartiene solo a lei.
Milano, ragazza messa alla gogna da Salvini. L'autore dello scatto: "Uso indegno, faccio causa al ministro". Una marea di insulti per la 22enne fotografata alla marcia antirazzista ed esposta sui social dal vicepremier. Su Facebook l'intervento della persona che ha visto utilizzare la sua immagine: "Ho chiesto la rimozione ma senza risposte. Procedo per vie legali", scrive Zita Dazzi il 5 marzo 2019 su La Repubblica. Luca Cortese, 55 anni, fotografo milanese, è l'autore dello scatto fatto a Giulia durante "People", la marcia dei 250mila a Milano, sabato scorso. La giovane manifestante - Giulia Pacilli, 22 anni, studentessa e attrice di teatro - è stata messa alla gogna da Matteo Salvini e coperta da decine di migliaia di insulti da parte dei follower del ministro degli Interni per aver partecipato alla marcia antirazzista con un cartello di aperta contestazione alle politiche del governo e in particolare a quelle di Salvini. Ma il fotografo adesso farà causa al vicepremier per l'utilizzo senza autorizzazione dell'immagine. Lo ha spiegato in un post in cui ha taggato Salvini: "Sono furioso per l'uso indegno della mia immagine fatto dallo staff di comunicazione del ministro Salvini e per la gogna mediatica a cui è sottoposta Giulia in queste ore. Tutta la mia solidarietà per lei. Ho richiesto formalmente la rimozione del post al gestore delle pagine social del ministro. In assenza di risposte intendo procedere per vie legali". "Un orrore", ha detto la ragazza a Repubblica, raccontando il suo stato d'animo. "E' incredibile che un rappresentante delle istituzioni che ha la responsabilità della sicurezza metta a rischio in questa maniera una donna". Ora anche la presa di posizione della persona che ha visto usare un suo scatto per un'operazione tanto criticata.
Luca che cosa ha fatto ieri pomeriggio quando ha riconosciuto la sua foto sui media dopo il post del leader della Lega?
"Ho subito scritto un messaggio privato sul canale social di Facebook di Salvini, dichiarando di essere il proprietario foto e chiedendone la rimozione non avendo dato nessun assenso e liberatoria all'utilizzo, e dicendo che mi sarei tutelato legalmente. Trovo vergognoso questo gesto da parte di un rappresentante del governo ed esprimo tutta la mia solidarietà a Giulia. Che per altro non conosco ancora".
Le hanno risposto?
"Al momento non è arrivata nessuna risposta"
E quindi?
"Ho deciso di rendere pubblica la cosa e oggi passerò alle vie legali".
Giulia, messa alla gogna da Salvini: "Sono stata insultata soprattutto da donne", scrive il 5 marzo 2019 Repubblica tv. È stata messa alla gogna dal ministro dell'interno Matteo Salvini, che ha pubblicato sui social la sua foto mentre reggeva il cartello "Meglio buonista e puttana che fascista e salviniana", durante la manifestazione antirazzista di Milano. Una condivisione che Giulia Pacilli non si aspettava: "Pensavo che da ministro avesse altri oneri - dice a Circo Massimo, su Radio Capital - Ho ricevuto molte minacce ma anche tanto affetto. Mi ha fatto stranire che nessuno nei commenti, men che meno il ministro, si sia occupato dalla correlazione fra 'fascista' e 'salviniano'". Giulia racconta di aver avuto tanta solidarietà dagli uomini ma sottolinea: "Gli insulti sono arrivati soprattutto dalle donne".
Milano, messa alla gogna da Salvini: "Dovrebbe tenere alla sicurezza e invece scatena gli odiatori contro una donna". Presa di mira sui social del ministro per la seconda volta, riceve migliaia di insulti a sfondo sessuale, minacce e commenti sull'aspetto fisico. "Mi fa orrore pensare che chi ha un ruolo istituzionale possa usare il potere per mettermi a rischio così", scrive Zita Dazzi il 4 marzo 2019 su La Repubblica. Le era già capitato di essere messa alla gogna da Matteo Salvini per un cartello a una manifestazione. Per questo Giulia Pacilli, 22 anni, studente e attrice di teatro, non si spaventa neanche questa volta, dopo che il ministro degli Interni ha messo sul suo profilo Twitter un'altra sua immagine scattata sabato scorso, durante la marcia dei 250mila a Milano, mentre era sul camion de I Sentinelli con un poster dove con ironia ricordava gli insulti che le erano piovuti addosso.
Giulia, perché ha scritto "Meglio buonista e puttana, che fascista e salviniana"?
"Perché non ho cambiato idea dopo l'aggressione mediatica che ho subito a causa del post con cui il leader della Lega mi aveva preso di mira, un anno fa, dopo i fatti di Macerata. In quell'occasione mi avevano hanno dato della puttana in tutte le salse, augurandomi violenze sessuali, malattie e morte. Ma per me il peggio sarebbe essere una persona che va dietro alle idee razziste di Salvini e dei suoi seguaci".
Ma non ha paura?
"Io sono giovane e ho dei valori profondi, delle idee politiche a cui non ho intenzione di rinunciare per le minacce e per gli insulti. Certo, la cosa che mi preoccupa è vedere che una persona che ha un ruolo istituzionale, che dovrebbe tutelare la sicurezza dei cittadini, invece usi il suo potere per mettere a rischio la sicurezza di una giovane donna, una studentessa che viene indicata agli odiatori del web, messa alla berlina. Per la seconda volta di seguito".
Lei crede che il ministro lo abbia fatto di proposito?
"Non può essergli sfuggito che io ero la stessa ragazza che lui aveva già messo alla gogna una volta, circa un anno fa, dopo i fatti di Macerata con la sparatoria contro i migranti. E' grave che un ministro della Repubblica faccia un gesto del genere".
Che cosa direbbe a Salvini?
"Che io vado avanti: non ho paura".
Ma non pensa di aver sbagliato a salire sul quel camion con quel cartello e quelle frasi forti?
"Io a quella manifestazione ci sono andata per difendere le mie idee e i miei valori: credo nella solidarietà e sono contro le discriminazioni. Ho deciso coscientemente di fare quel cartello per mandare messaggio molto chiaro a tutti quelli che si erano divertiti a sottopormi alla gogna mediatica, mostrando che non ho paura e che preferisco così che stare dall'altra parte".
Si aspettava tutto quello che sta succedendo? I 25mila messaggi di insulti e minacce ricevuti nelle prime ore dopo la pubblicazione della sua fotografia sulla pagina di Salvini?
"Mentre la prima volta non me l'aspettavo per nulla, anche perché cartello era ironico - "Immigrati non lasciateci soli con i fascisti" - quest'anno mi sono accorta che mi hanno fotografato in tanti. I Sentinelli mi hanno fatto salire sul loro camion. Ecco, non mi aspettavo che Salvini trovasse tempo di condividere, con tutto quello che io penso un ministro abbia da fare. E invece".
Che succede in queste ore?
"Mi dicono che sulla pagina di Salvini ci siano migliaia di commenti a sfondo sessuale. Io non ho nemmeno voglia di leggerli, ma so che sotto quel post, si stanno divertendo a insultarmi. E siccome sono una donna, i loro messaggi sono legati alla mia vita sessuale e al mio aspetto estetico".
Che farà?
"Aspetterò. L'altra volta sono andati avanti per un mesetto. Io mi sono salvata con privacy di Facebook, li ho bloccati tutti, ho smesso di portare gli occhiali in pubblico per non essere riconoscibile. Mi ero anche mossa per vie legali contro chi mi scriveva insulti privatamente. In questo caso, invece, non so se ho voglia di leggere tutti questi commenti negativi per poi difendermi legalmente. Forse, mi occuperò invece dei giornali che mi mettono alla berlina".
Come si sente?
"Sono commossa dalle centinaia di messaggi di solidarietà e affetto che mi stanno arrivando in questo brutto momento. Non mi sento sola, sono solo un po' allibita: mi chiedo perché tanto odio becero, per niente costruttivo. Mi domando perché c'è gente che mi augura di morire senza nemmeno sapere chi sono".
E' spaventata?
"Non proprio, però tutto questo mi fa un po' orrore, il ministro dovrebbe occuparsi della sicurezza dei cittadini e invece mette alla gogna una ragazza sapendo benissimo che cosa succede quando lui fa questi post. E che cosa scatena la sua mossa".
E i suoi genitori?
"Sono preoccupati per me, anche se contenti che ci sia solidarietà. Non mi dicono di non andare in altre manifestazioni, perché sanno che io tengo alle mie idee, che poi sono ispirate ai valori che loro stessi mi hanno insegnato".
Continuerà a fare politica?
"Certo, tutta la mia vita sociale è politica, non mi chiudo in casa. Siamo parte di una comunità, tutta la vita, tutte le cose che facciamo ogni giorno è politica. Io sono una giovane donna che si definisce antirazzista, mi indigno quando tutto quello che viene definito 'diverso' viene messo all'indice. Penso che non si possa stare zitti. Ho fatto anche un'esperienza con Libera e ho conosciuto i migranti che arrivano dalla Libia, dopo le torture, rischiando in morire in mare. C'è bisogno di farsi sentire e loro hanno bisogno di sentirsi accolti da noi."
“Salvini mi ha dato in pasto alla gogna mediatica”: il pianto dell’antifascista Giulia, scrive Elena Sempione su ilprimatonazionale.it il 5 Marzo 2019. La sinistra ha trovato una nuova eroina. Si chiama Giulia Viola Pacilli, 22 anni, vive e lavora a Milano. Nel tempo libero partecipa alle sfilate antifasciste e scrive cartelli che poi diventano virali sui social. L’ultimo è stato immortalato alla pagliaccesca marcia antirazzista di Milano, e recitava testualmente: «Meglio buonista e puttana che fascista e salviniana». Quando la foto ha cominciato a girare su Facebook e Twitter, molti sostenitori di Salvini, che non avevano preso bene la provocazione, le hanno scritto facendole sapere quanto non erano d’accordo. E spesso i toni erano molti pesanti. Quando poi lo stesso ministro dell’Interno ha postato la foto sui suoi profili social, il volume di fuoco è sensibilmente aumentato. Come si è poi appreso, la giovane antifascista si trovava al momento dello scatto su un carro dei «sentinelli di Milano», un’associazione di omosessuali che si sono «dati il compito di essere i Sentinelli della laicità, dell’antifascismo, dell’antirazzismo». Ma Giulia non è nuova a queste provocazioni: già nel febbraio 2018 aveva fatto il giro dei social una foto che la ritraeva con un cartello con su scritto «stranieri, non lasciateci soli con i fascisti». La scenografia era la medesima: manifestazione milanese per protestare contro lo spettro del razzismo. Quando poi sempre Salvini condivise la foto sui suoi profili, anche allora la ragazza fu travolta da una shitstorm, ossia una tempesta di commenti e messaggi offensivi su Facebook.
Vittima o complice? E ora Giulia piange: Salvini «mi ha dato in pasto alla gogna mediatica e ha dato il via libera alla violenza», ha dichiarato in un’intervista rilasciata a Open, il sito online fondato da Enrico Mentana. Ma è proprio tutta colpa del leader leghista? In realtà, gli attacchi socialerano partiti già prima che il ministro dell’Interno postasse gli scatti. Ed è proprio lei a confermarlo: «Qualcosa di Sinistra, una pagina Facebook, aveva pubblicato la mia foto con questo cartello – confessa Giulia sempre a Open –. I miei amici mi avevano taggata nei commenti. La foto è iniziata a girare, anche su pagine di altro tipo. Da qui sono stata bombardata da messaggi terribili, insulti, minacce di morte e di violenza, anche auguri di malattie terminali». A questo punto, a Giulia la manifestazione di sabato è sembrata «l’occasione più adatta per rispondere in maniera diretta a tutti quelli che mi avevano insultata per mesi». E, guarda caso, anche stavolta Salvini ha agito più da terminale dell’indignazione e degli insulti social che non da iniziatore. Ad ogni modo, se il nuovo cartello doveva essere una risposta («diretta» per giunta) agli «odiatori» di un anno fa, va da sé che la diffusione dello scatto era perlomeno cercata. Per questo motivo, non può che sorgere il legittimo dubbio: anziché la gogna mediatica, l’antifascista Giulia non stava forse cercando un po’ di visibilità? In ogni caso, volente o nolente, ci è riuscita. Elena Sempione
Show in piazza e poi chiedono più privacy, scrive Gabriele Barberis, Mercoledì 06/03/2019, su Il Giornale. Fermate i social, voglio scendere. Siamo arrivati alla frutta, la deriva inarrestabile di un fenomeno fuori controllo che ci frastorna di cretinate, superfluo allo stato puro, se non insulti e auguri di morte a chi ci sta vagamente antipatico. Neanche il tribunale del buon senso riuscirebbe a dirimere l'ultimo contenzioso che spacca l'opinione pubblica, lo scontro a distanza tra la ragazza che si proclama «buonista e puttana» pur di non essere scambiata per «fascista e salviniana», e lo stesso vicepremier che l'ha presa di mira su Facebook postandone immagine con il commento «Che gentil signora...». Con l'immancabile varietà di commenti che spaziano dallo svilimento del ruolo istituzionale del ministro dell'Interno agli insulti vergognosi alla ragazza con varie motivazioni (offende il Capitano, no la dignità delle donne). La manifestante che sfoggiava il cartello volgar-provocatorio al corteo antirazzista di Milano ha 22 anni, si chiama Giulia Pacilli, descritta come studentessa e attrice di teatro. Già divenuta famosa con una brevissima gavetta per una riuscita performance di strada, a dispetto del prezzo da pagare, il linciaggio mediatico attuato «soprattutto da donne», ha riferito. Dal mondo della sinistra (o anti Salvini) ha però incassato affetto e sostegno, dall'assessore di Milano Majorino (professionista della solidarietà) all'autore dello scatto, il fotografo Luca Cortese, doppiamente infuriato contro il leader della Lega. Prima per l'«uso indegno» dell'immagine» (riprodotta sulla sua pagina Facebook), poi per motivi più prosaici («chiederò risarcimento per la violazione del diritto d'autore»). Questo valga però per tutti noi utenti finalmente, anche quando postiamo sui nostri profili privati una foto di CR7 o di Gigi Hadid scaricata in rete senza preoccuparsi di derubare un fotografo, un quotidiano o un'agenzia di stampa. Fateci causa, violazione per violazione. E poi se andiamo in piazza autoinsultandoci per fede politica, sappiate che qualcuno vi fotograferà, posterà la foto e scatterà la rituale gogna di insulti beceri e sessisti. In ogni caso, anche se non avrete la sfortuna di incappare in un ministro che su Facebook piace a 3.501.124 persone. Questo è il mondo nauseante dei social, questa è un'Italia che si sputtana per un like in più per poi invocare il rispetto della privacy e del diritto d'autore.
“Meglio puttana che fascista”, lettera aperta alla gentile “signora col cartello”, scrive lunedì 4 marzo 1Mario Aldo Stilton su secoloditalia.it. E no, signora mia. Attenzione a scrivere: “Meglio puttana che fascista”. Anche se il carnevale impazza, di questa sua stringata opinione non v’è certezza. Scritta, scandita ed esibita nel bel mezzo della festa, col di più del “buonista” opposto a “salviniana”, la sua iniziativa, gentile signora, fotografa una contrapposizione dell’oggi ma non ci rimanda all’essenza dell’invettiva e alle multiple possibilità che se ne potrebbero comporre. C’è la certezza, è vero. Che, nel tempo fascista che fu, avrebbero agghindato, in omaggio a Lui, da “imperativo categorico”. E che invece, adesso, appare come l’auspicio di una fulva -e sicuramente gaudente- militante di sinistra. Lei, signora mia, che l’ha messa rosso su bianco e issata coraggiosamente al cielo l’ha sicuramente ragionata come definitiva, roba che non ammette repliche. Mentre, solo a rifletterci un po’, avrebbe potuto scoprire infinite varianti possibili. Perché nella nostra Italia, signora mia, si può essere tutto e il suo esatto contrario. Si può anche essere buonisti e salviniani se, ad esempio, allo sberleffo o all’insulto vero e proprio si decida, come ha fatto il ministro dell’Interno, di risponde con una raffica di baci. O, perché no?, si può altrettanto legittimamente essere puttana e fascista insieme. Almeno fin quando il mestiere più antico del mondo non abbia a confliggere con la passione politica. Dopodiché, signora mia, “meglio puttana che fascista” potrebbe – e a ragione! – essere anche programma politico. Magari per contrapporsi dialetticamente all’altrettanto perentorio “meglio fascista che frocio!” con cui a suo tempo Alessandra Mussolini apostrofò Vladimiro Guadagno, alias Vladimir Luxuria. Il problema, signora mia, è comunque uno: è che tali auspici, scritti o urlati che siano, non sempre inforcano la realtà. Né l’anticipano. Spesso, anzi, accade l’opposto. Capita che certi “valori” nella quotidianità delle nostre vite si sommino e s’aggroviglino. Cosicchè, complice il carnevale e la licenziosità dei costumi, potrebbe accadere l’inimmaginabile: che ci si ritrovi con qualche puttana fascista che sia, al contempo, buonista e salviniana. Tutt’insieme, signora mia. Appassionatamente.
Gran Bretagna, apre la prima prigione per transgender. Sarà il primo carcere di questo genere in tutta Europa, scrive Enrico Franceschini il 4 marzo 2019 su La Repubblica. Apre in Gran Bretagna la prima prigione per detenuti transgender. Secondo ilTimes, che rivela l’iniziativa, sarebbe il primo carcere di questo tipo in tutta Europa. Ne esistono già alcune negli Stati Uniti e l’Italia ha recentemente considerato l’ipotesi di aprirne una, scrive il quotidiano londinese, ma il progetto non è andato ancora avanti. Nel caso del Regno Unito si tratta di una prigione dentro un’altra prigione: in pratica, una unità del carcere femminile di Downview, nella località di Sutton, nella parte sud di Londra, sarà riservata d’ora in poi a carcerati transessuali. L’unità si trova in un edificio intitolato a Josephine Butler, una femminista dell’era vittoriana, e una rete metallica lo separa dal resto della prigione. Andrea Albutt, presidente della Prison Governors Association, afferma che il successo dell’esperimento dipende dall’efficacia con cui il carcere proteggerà i detenuti transgender dagli altri carcerati, e viceversa. Il problema di dove rinchiudere detenuti transessuali, infatti, ha creato numerosi incidenti in Inghilterra. Karen White, un transessuale condannato per abusi sessuali su minorenni, si è identificato con il genere femminile ed è stato rinchiuso in un carcere per sole donne, ma nel giro di poche settimane ne ha aggredite due sessualmente. Un altro transgender, Tara Hudson, che ha vissuto per anni come una donna, è stato messo in una prigione maschile, dove ha detto di essere stata trattata “come una bestia allo zoo”. La sezione del carcere di Downview riservata ai transgender ha 15 celle singole e una con due letti. Se l’esperimento sarà positivo, le autorità potrebbero creare unità analoghe soltanto per detenuti transgender in tutte le prigioni nazionali.
Apre la prima sezione per trans anche nel Regno Unito. In Italia esistono sezioni dedicate e nel 2010, ad Empoli, era stato finanziato il progetto per l’apertura di un carcere dedicato esclusivamente alle transessuali, scrive Damiano Aliprandi il 5 Marzo 2019 su Il Dubbio. Apre in Gran Bretagna la prima sezione all’interno di un carcere dedicata esclusivamente alle detenute transgender. Non un carcere dedicato a loro, come viene riportato in numerosi quotidiani, ma, appunto, una sezione specifica. Questa iniziativa nasce dall’esigenza di proteggere le detenute transessuali da altri detenuti, perché in Inghilterra si sono verificati casi di numerosi incidenti come la vicenda di Tara Hudson, che è stata messa in una prigione maschile, dove ha detto di essere stata trattata «come una bestia allo zoo». Secondo il Times, che rivela l’iniziativa, sarebbe il primo carcere di questo tipo in tutta Europa. Ma non è vero, visto che si tratta della creazione di sezioni, per altro, già esistenti in Italia. Il quotidiano londinese poi aggiunge che il nostro Paese ha recentemente considerato l’ipotesi di aprirne uno, ma il progetto non è andato ancora avanti. In realtà, un conto è aprire un carcere ad hoc, l’altro di aprire sezioni dedicate. La questione è un po’ più complicata e riguarda la criticità delle sezioni dedicate alle detenute trans che non di rado rischiano di creare un isolamento, quindi una doppia pena. In Italia è verissimo che era in progetto l’apertura di aprire uno per questa tipologia di detenuti. Nel 2010, ad Empoli, era stato finanziato il progetto per l’apertura di un carcere dedicato esclusivamente alle detenute transessuali: l’allora ministro della giustizia Angelino Alfano decise di bloccare l’iniziativa. Eppure era già tutto attrezzato per trasformare la Casa circondariale di Empoli, già carcere esclusivamente femminile, in penitenziario riservato ai soggetti transessuali, nel tentativo di non ghettizzarli e poter rendere concreto, oltre che agevolmente fruibile, il trattamento penitenziario stesso. Ma nulla di fatto. Come detto, in realtà, esistono sezioni dedicate, ma hanno creato delle problematiche. Nel 2017 è stata chiusa la sezione Vega del carcere di Rimini. La svolta c’è stata dopo il tentato suicidio, avvenuto giovedì scorso, da parte di una delle due detenute transessuali. Era finita overdose di farmaci e fu trasportata d’urgenza all’ospedale ‘ Infermi’ di Rimini. Si era salvata per un pelo, grazie soprattutto al tempestivo intervento della Polizia penitenziaria. Il gesto era scaturito per protestare contro il disagio che viveva. Una volta guarita è stata trasferita direttamente nel carcere di Reggio Emilia dove è stata aperta una sezione per transessuali. La situazione della sezione "Vega" era già tristemente nota. Pensata per proteggere detenute transessuali, era di fatto una sezione di isolamento lasciata al degrado strutturale, con celle buie e incompatibili con una pena umana come prescrive la nostra Costituzione. Una vera propria pena nella pena. Il problema delle transessuali in carcere, in realtà, non è mai stato pienamente risolto, anche se l’attuale riforma dell’ordinamento penitenziario interviene sul punto, prevedendo sostanziali modifiche e imponendo che le attività trattamentali siano svolte anche insieme agli altri detenuti. Lo stesso Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non ha però ancora individuato delle soluzioni univoche alle varie problematiche emerse negli anni, continuando a ondeggiare tra la scelta di diversi sistemi di allocazione che vanno dai reparti dedicati, a volte presso istituti femminili, altre maschili, fino alla collocazione presso le sezioni precauzionali. Le soluzioni finora individuate hanno tutte dato luogo a distinte e notevoli problematiche, verificandosi quasi sempre una forte difficoltà a far accedere le persone transessuali ai percorsi trattamentali, alle attività di istituto e senza la predisposizione di un adeguato servizio sanitario in relazione alla specificità dei loro bisogni di salute. Generalmente le trans sono recluse negli istituti maschili e in reparti speciali separati per detenuti a rischio insieme ai collaboratori di giustizia e ai pedofili. Nell’ultima relazione del garante nazionale delle persone private della libertà a firma del presidente Mauro Palma e delle componenti Emilia Rossi e Daniela de Robert, si pone l’accento proprio sul punto. «Una osservazione a parte – si legge nel rapporto – riguarda le persone transessuali, attualmente censite in 10 sezioni specifiche con 58 presenze, tutte collocate in Istituti maschili. Il Garante nazionale ha da tempo espresso l’opinione che sia più congruo ospitare tali sezioni specifiche in Istituti femminili, dando maggior rilevanza al genere, in quanto vissuto soggettivo, piuttosto che alla contingente situazione anatomica».
Carcere di Gorizia, la sezione protetta per i gay sarà chiusa. Buone notizie per il carcere di Gorizia: il capo del Dap Santi Consolo ha assicurato che “l’attuale collocazione è da considerarsi temporanea”, scrive Damiano Aliprandi il 16 Novembre 2016 su Il Dubbio. Verrà probabilmente chiusa la sezione del carcere di Gorizia che ospita i detenuti gay. È quello che ha risposto il Capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Santi Consolo in merito alla questione sollevata dal Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma. All’inizio del 2016 è stato istituito un reparto riservato a tre detenuti omosessuali con lo scopo di “proteggerli” dal clima omofobo che regna nel carcere. L’intento apparentemente appare nobile, ma il risultato è stato quello di isolarli forzatamente, non lasciandogli lo spazio ad alcuna attività. Nella sua visita al penitenziario di Gorizia Mauro Palma ha avuto modo di verificare l’evoluzione della particolare sezione per detenuti protetti omosessuali. Nel suo rapporto il Garante nazionale aveva evidenziato alcuni importanti criticità: l’antieconomicità del progetto, in considerazione del numero delle persone che vi sono state ristrette nel corso di più di dieci mesi trascorsi dall’apertura, dell’eccessiva ampiezza degli spazi in un contesto in cui tutte le altre sezioni soffrono della ristrettezza dei locali; l’inaccettabile situazione di isolamento di fatto verificatasi per i detenuti ristretti nella sezione, per i quali la richiesta di protezione si è convertita in mera offerta di isolamento, in chiaro contrasto con obbligazioni internazionali relative all’isolamento sulla base di connotazioni soggettive e, in particolare, del proprio orientamento sessuale; l’inesistenza dell’offerta trattamentale per i detenuti di questa sezione e la complessiva centralità di una visione chiusa dell’esecuzione penale, peggiore di quanto offerto ad altri detenuti, seppure attuata in condizioni materiali di molto superiori; la propria perplessità circa la scelta in sé di aprire una sezione con tali caratteristiche e tale destinazione che, al di là delle positive intenzioni di chi l’ha concepita e avviata, di fatto rischia di aggiungere un’ulteriore stigmatizzazione a quanto di per sé la carcerazione determina nei soggetti e di aggiungerla sulla base del proprio orientamento sessuale. Mauro Palma aveva formulato delle raccomandazioni sulle condizioni della detenzione nella sezione, ma in una nuova visita aveva evidenziato non ci fosse alcun passo avanti.. “Nel giorno della visita – si legge nel rapporto – la sezione ospitava due persone detenute già presenti nel maggio scorso, indicate come detenuto 3 e detenuto 6 (rispettivamente M. D. e S. I.). Erano in due stanze distinte, totalmente separate e chiuse rispetto al resto dell’istituto e l’unica attività loro concessa era la possibilità di andare in biblioteca una volta settimana. Nonostante le stanze fossero all’interno di una sezione di per sé chiusa, le loro porte continuavano a essere chiuse dalle ore 16 di ogni giorno. Inoltre la sezione continuava a essere munita per attività in comune (tra i due) soltanto di un “calcio- balilla” e tenuto conto che uno dei due detenuti (detenuto 6) aveva avuto e continuava ad avere frequenti e prolungate assenze dal reparto sia per ricoveri ospedalieri, sia per trasferimenti ad altre sedi per ragioni di giustizia, la proposta di tale unica attività ludica (il “calciobalilla”) per un detenuto frequentemente solo suscita soltanto amara ironia”. Il capo del Dap ha risposto a Palma assicurando che la situazione è diversa. Quanto al detenuto M. D. – ammesso alle mansioni di scopino secondo i criteri dell’alternanza con gli altri detenuti protetti – la situazione di ‘ isolamento’ de facto asserita dallo stesso non scaturisce dalle proprie tendenze omosessuali, bensì dal suo personalissimo comportamento che – se l’anno scorso era connotato da un conflitto personale sempre più critico e di difficile superamento nei confronti dell’altro detenuto protetto, S. I. – oggi lo è nei confronti dei detenuti comuni della terza sezione: circostanza, questa, che ha determinato ( per la salvaguardia della sua stessa incolumità) un divieto di incontro con gli stessi. Per Santi Consolo, proprio per queste ragioni, nei confronti di M. D., come anche richiesto dal Garante seppur per altre motivazioni, «appare opportuno il trasferimento presso altro istituto». Al riguardo è stato sensibilizzato il competente direttore generale a provvedere, verificando la possibilità di avvicinate il detenuto a Torino, città dichiarata di sua residenza. Per quanto riguarda la sezione protetta per omosessuali il capo del Dal comunica che al momento ospita tre detenuti, per i quali non vi è alcuna limitazione di offerte trattamentali rispetto agli altri detenuti, con i quali partecipano alle attività istruttive, formative e trattamentali in genere. A titolo meramente esemplificativo, si rappresenta che uno dei tre ospiti della sezione, fin dal suo ingresso, partecipa al gioco del calcio tutti i mercoledì e i sabato insieme ai detenuti comuni. L’’ isolamento’ risulta, pertanto, soltanto notturno, fermo restando che, quando non impegnati in attività comuni, sono nella sezione di pertinenza, dove le porte delle stanze rimangono aperte, come per gli altri detenuti, fino alle ore 17.45. Il capo del Dap però mette in discussione il mantenimento della sezione protetta. Fa osservare che, proprio a seguito della prima visita del Garante, presso l’Istituto è stato costituito un Gruppo di lavoro deputato, relativamente ai detenuti omosessuali e transgenders, a svolgere un’attenta riflessione e formulare concrete proposte su come organizzare, in più istituti, esperienze di tutela e, al contempo, di piena integrazione nella quotidianità di tutti i ristretti, senza alcuna discriminazione. Santi Consolo, infine, annuncia che “l’attuale allocazione dei ristretti è da considerarsi temporanea a causa dei lavori di ristrutturazione che interessano l’istituto, solo al termine dei quali potranno essere effettuate valutazioni sul reparto e sulla sua eventuale chiusura, anche alla luce degli esiti che saranno rassegnati dal Gruppo di lavoro recentemente costituito”.
· Tutti contro Michael Jackson.
Il 25 giugno 2009, nella tenuta-parco giochi di Los Angeles a Neverland, moriva l'artista soprannominato "il re del Pop". Ma dopo le lacrime e le celebrazioni, sono arrivate, postume, le accuse di molestie. Contenute in un documentario sconvolgente. Chi era davvero Jackson? Ernesto Assante il 20 giugno 2019 su La Repubblica. Angelo o diavolo? Ma se, come è più probabile, non fosse stato né l'uno né l'altro? Michael Jackson, scomparso esattamente dieci anni fa, non era certamente un santo, cosa che con buona certezza non è la stragrande maggioranza degli esseri umani, ma era sicuramente un grande artista. E forse non era nemmeno un diavolo, anche se in tanti oggi pensano lo sia stato. Di certo, Michael Joseph Jackson, morto dieci anni fa nella sua casa di Los Angeles, il ranch Neverland, è stato uno dei personaggi che ha contribuito a definire il mondo dello spettacolo della fine del secolo scorso. Lo ha fatto cambiando le regole del pop, usando i videoclip, costruendo degli show in cui alla fine addirittura volava, costruendo il suo personaggio e portandolo al livello del mito. Chiediamocelo ancora: angelo o diavolo? E se alla fine Michael Jackson fosse stato entrambi? Non c'è dubbio che volendo raccontare la storia di Jackson l'aggettivo "normale", sempre che l'aggettivo abbia qualche senso se applicato a una star del mondo dello spettacolo, è del tutto inutilizzabile. Jacko "normale" non è mai stato, nel trionfo come nella fine, quando era sugli altari e quando è finito nella polvere. Ma forse nessuno di noi ha mai pensato che Jackson fosse 'normale', anzi nessuno di noi ha mai voluto che lo fosse. Da quando a cinque anni aveva iniziato a cantare con i suoi fratelli, i Jackson 5,fino agli ultimi minuti della sua vita nella follia di Neverland, il "re del pop" ha sperimentato un frullatore straordinario di emozioni, suoni, immagini, come probabilmente nessun altro essere umano ha mai sperimentato, e questo ha prodotto grande musica così come terribile oscurità, ha fatto di lui un essere umano e soprannaturale, un mistero e una luce, sostanzialmente un enigma che, per chi non è diventato suo devoto come in tanti hanno fatto in tutto il mondo, è tutt'ora impossibile da decifrare. Sono passati dieci lunghi anni dalla sua scomparsa e nonostante tutti i tentativi di riportare la sua vicenda nel solo ambito della cronaca, tra storie di fallimenti economici, abusi sessuali, sbiancamenti della pelle, matrimoni veri e fittizi, malattie, dipendenze, figli penzolanti dal balcone, il mito riesce ancora a resistere, la "favola", per quanto strappata, stropicciata, malmessa, per molti è ancora viva. Quella di un bambino prodigio che, dotato di una magica voce, aveva deciso di farla diventare uno scudo, o ancor meglio un superpotere, e con quell'arma aveva deciso non solo di difendersi ma, addirittura, di conquistare il mondo. Anzi no, visto che il mondo così com'era non gli piaceva, non era adatto a lui, aveva deciso di non crescere più, di trasformarsi in Peter Pan, senza sesso, senza razza, senza volto, di costruire il suo universo, di vivere una vita incredibile, assurda, pazzesca, in un castello incantato dove tutto sembrava possibile e dove il mondo, quello vero, non poteva toccarlo. Una favola con un'apparente lieto fine, quello del successo, della eterna giovinezza, della lontananza dalla realtà. Ma la realtà ha invaso lo stesso il suo mondo, portandolo dieci anni fa alla fine, una realtà fatta di accuse di molestie e abusi su bambini, dalle quali è stato assolto ma che continuano a perseguitarlo anche dopo la morte, una realtà che oggi ci porta a vedere la sua vita, tutta la sua vita, non tanto come una favola ma come una gigantesca, assurda, incredibile follia. La domanda resta senza risposta: angelo o diavolo? Nessuno dei due, probabilmente, nonostante le mille iniziative benefiche, nonostante We are the world, nonostante il messaggio universale di pace della sua musica, nonostante le accuse, nonostante il suo modo di vivere, nonostante tutto quello che si può vedere nei documentari, leggere nei libri. Ma possiamo anche dire che tutti e due, l'angelo e il diavolo, ci hanno messo impegno per creare Michael Jackson e soprattutto la sua musica, lo straordinario Thriller che lo ha portato nella leggenda ma anche altri dischi e altre canzoni, in un perfetto gioco di ambiguità e inafferrabilità, dove Jackson era tutto e il suo contrario, dove la sua musica era pop ma anche rock, o dance, o rap, o disco, dove l'elettronica incontrava il soul, il cantante nero era diventato bianco, il bravo ragazzo un lupo mannaro o uno zombie, il divo un fallito. Dieci anni sono passati e Jackson è ancora al centro dell'attenzione, nonostante tutti i tentativi, riusciti o meno, di distruggere il mito. Ma possiamo essere certi di una cosa, comunque: forse nessuno saprà mai chi era Michael Jackson, se sia stato un angelo o un diavolo, ma tutti, ascoltando le sue canzoni, sanno che cosa è stato in grado di fare e in tanti continueranno ad ascoltarlo.
"MICHAEL È INNOCENTE FINO A PROVA CONTRARIA”. Da Tgcom24 l'8 maggio 2019. Madonna rompe il silenzio sulle accuse di abusi sessuali contro Michael Jackson in una lunga intervista a "British Vogue" difende il cantante dicendo: "E' innocente fino a prova contraria". L'ex Material Girl, che sul magazine inglese, ha parlato del suo album di prossima uscita "Madame X", ha confessato però di non aver ancora visto il controverso documentario "Leaving Neverland", costruito sulle accuse di Wade Robson e James Safechuck, che affermano di essere stati abusati dalla popstar quando erano piccoli. "Non ho una mentalità da linciaggio, quindi nella mia mente, le persone restano innocenti fino a prova contraria", ha detto nell'intervista: "Ho avuto mille accuse rivolte contro di me, che non sono vere. Quindi il mio atteggiamento quando le persone mi dicono cose su altre persone è: "Puoi dimostrarlo?" Alla domanda su cosa potrebbe essere interpretato come prova della colpevolezza di Jackson, Madonna rispande: "Non lo so, non ho visto il film. Ma immagino che debbano essere le persone a raccontare gli eventi reali, poi però, naturalmente, a volte le persone mentono. Mi chiederei cosa c'è dietro alle affermazioni? Denaro? Estorsione? Prenderei in considerazione tutto questo...". Il nuovo album della cantante uscirà il 14 giugno mentre il prossimo 18 maggio Madonna sarà ospite nella serata finale dell'Eurovision Song Contest a Tel Aviv.
I Simpson cancellano Michael Jackson dopo il documentario che lo accusa di abusi sessuali, scrive l'8 marzo 2019 Repubblica Tv. Dopo la messa in onda del documentario HBO ''Leaving Neverland'', in cui vengono approfondite le accuse di presunta pedofilia nei confronti di Michael Jackson, il produttore esecutivo dei Simpson ha deciso di cancellare dalla programmazione e dai cataloghi l'episodio in cui l'ex popstar prestava la voce a uno dei personaggi. Nella prima puntata della terza stagione del cartoon cult, dal titolo originale Stark Raving Dad, Homer incontra in un manicomio un uomo che crede di essere Michael Jackson. Il vero Jackson, scomparso nel 2009, aveva doppiato l'intero episodio, trasmesso per la prima volta il 19 settembre 1991.
Simpson, rimosso l’episodio doppiato da Michael Jackson (per le accuse di presunta pedofilia). Pubblicato sabato, 09 marzo 2019 da Corriere.it. Anche i Simpson rompono con Michael Jackson. Il produttore esecutivo del cartone animato, James L. Brooks, ha detto al Wall Street Journal che l’episodio della terza stagione Stark Raving Dad, sarà eliminato dalla programmazione, dai servizi di streaming come Every Simpson Ever della Fox e da tutti i futuri cofanetti di dvd. La decisione è legata al documentario prodotto dalla HBO, «Leaving Neverland», diretto da Dan Reed, che ripercorre la storia di James Safechuck e Wade Robson, che all’età di 7 e 10 anni trascorsero diverso tempo presso la villa del cantante morto nel 2009, sostenendo di essere stati vittima di abusi sessuali. Il documentario riprende le accuse di pedofilia di cui Jackson si era già dovuto difendere, quando fu processato e poi assolto nel 2005. Nell’episodio, Homer viene rinchiuso in un istituto di igiene mentale a causa di uno scherzo del figlio Bart. Qui incontra un uomo di nome Leon Kompowsky che è convinto di essere davvero Michael Jackson. Il cantante — fan della serie animata — si era offerto di doppiare un personaggio con lo pseudonimo di John Jay Smith: l’episodio fu trasmesso per la prima volta il 19 settembre del 1991. «Sono contrario ai roghi di libri di qualsiasi tipo», ha chiarito Brooks, «ma in questo caso si parla del nostro libro, e ci è permesso di strappare un capitolo». La famiglia Jackson aveva tentato inutilmente di bloccare la pubblicazione del documentario, intentando alla HBO una causa da 100 milioni di dollari. Dopo l’uscita della pellicola, diverse radio avevano già deciso di non trasmettere più le canzoni del Re del Pop. E ancora, una sua statua è stata rimossa dal National Football Museum della Gran Bretagna. «Stiamo calmi». Così Paris Jackson reagisce alla bufera che si è scatenata sul padre. L’attrice e modella, figlia della popstar, non ha rilasciato nessuna dichiarazione sul film, ma ha comunque voluto dire la sua sui social. A tornare sulle accuse a Jackson è anche Corey Feldman, attore di Stand By Me, I Goonies e Gremlins che da piccolo frequentò molto da vicino la popstar e il suo personale parco giochi, la Neverland Ranch. «Diventa impossibile rimanere impassibili. Tra me e Jackson non è mai successo niente di sconveniente. Ma non sono qui per difenderlo. Non posso difendere qualcuno che è stato accusato di orrendi crimini. Allo stesso tempo però non posso giudicarlo, perché non ha fatto quelle cose a me. Il mio ruolo non è né quello di accusatore né di difensore, il mio compito è quello di focalizzare l’attenzione su quello che è importante, ovvero riformare la prescrizione in tutti gli Stati».
La musica di Michael Jackson sparita da alcune radio. Ancora problemi in vista per Michael Jackson dopo il documentario sulla sua vita: ora la musica del re del pop è bandita dalle radio, scrive Carlo Lanna, Lunedì 11/03/2019, su Il Giornale. Il documentario che alza il velo sulle accuse di pedofilia ai danni di Michael Jackson ha sollevato un vero e proprio un polverone mediatico. Non sono bastati gli appelli della famiglia a boicottare la trasmissione, per ora solo in America, di “Leaving Neverland”. Infatti come è stato riportato dal Daily Mail, la situazione sta sfuggendo di mano. La memoria di Michael Jackson è dilaniata proprio perché, secondo le ultime informazioni, alcune stazioni radiofoniche di Australia, Canada e Nuova Zelanda, avrebbero deciso di bandire la sue canzoni, come atto di dovere verso il pubblico. “Non stiamo decidendo se Michael Jackson è colpevole o no, ma ci stiamo assicurando che le nostre stazioni radio, riproducano la musica che la gente vuole ascoltare”, afferma uno dei dirigenti del network neozelandese. E nonostante in passato lo stesso artista è stato assolto dalle accuse, il documentario ha aperto una ferita che non è stata mai risanata. Oltre alle stazioni radio, Michael Jackson è stato cancellato da una puntata dei Simpson e la sua statua è stata rimossa dal National Footbal Museum di Manchester. Intanto i legali della famiglia hanno chiesto un risarcimento di 100 milioni di dollari alla HBO per aver violato un accordo confidenziale tra l’artista e Network.
Michael Jackson, boom di vendite: il documentario arriva in Italia. Michael Jackson sta registrando un boom di vendite dopo il rilascio di "Leaving Neverland": il tanto discusso documentario arriva anche in Italia, scrive Elisabetta Esposito, Martedì 12/03/2019, su Il Giornale. Sempre più persone acquistano e ascoltano la musica di Michael Jackson. Il fenomeno che segue il rilascio del documentario “Leaving Neverland” - in cui due uomini accusano la popstar di molestie e abusi, avvenuti quando questi erano solo dei bambini - è quantomeno insolito. Da un lato, alcune radio hanno ritirato la musica di Jacko dalle loro rotazioni, mentre è stato eliminato un episodio de “I Simpson”, in cui il cantante presta la voce a un personaggio. Dall’altro, sono aumentate le vendite e gli ascolti streaming dei brani dell’artista. Come riporta Fortune, le vendite di brani e album sono aumentate del 10%, stando ai dati di Nielsen Music, e riguardano non solo il lavoro di Michael Jackson come solista, ma anche quello con i Jackson 5. Sui servizi streaming si è registrato un aumento del 6% degli ascolti per un totale di 19,7 milioni di visualizzazioni audio e video tra il 3 e il 5 marzo. Dopo la messa in onda negli Stati Uniti e nel Regno Unito di “Leaving Neverland”, invece, alcune radio hanno ridotto del 13% la trasmissione dei brani del re del pop. Mentre la riduzione della rotazione in radio potrebbe essere direttamente collegata ai contenuti negativi presenti nel documentario, non si conoscono invece le ragioni della crescita per vendite e ascolti. Forse l’onnipresenza di Jackson tra notizie e dibattiti social può aver stimolato nei giovani la curiosità verso questo artista, scomparso poco meno di 10 anni fa, mentre fra le generazioni meno recenti potrebbe aver generato un effetto nostalgia, con il riascolto delle canzoni del cuore del passato. Intanto, il documentario in due parti arriva sulla televisione italiana e in chiaro. “Leaving Neverland” sarà infatti trasmesso in prima serata su Nove il 19 e 20 marzo.
Dopo il documentario sul padre, Blanket Jackson non dice più una parola. Blanket Jackson, il figlio minore di Michael Jackson, non dice più una parola dopo la messa in onda del documentario "Leaving Neverland". Passa le giornate chiuso in camera sua, senza andare a scuola per evitare di essere vittima di bullismo a causa delle gravi accuse di pedofilia mosse contro il padre, scrive Sandra Rondini, Martedì 12/03/2019, su Il Giornale. Il figlio più piccolo di Michael Jackson sta soffrendo molto a causa delle accuse di pedofilia avanzate nei confronti del padre nel recente documentario “Leaving Neverland” e da ragazzino allegro e solare è precipitato in una forma di depressione che preoccupa molto i suoi due fratelli, Prince Michael I e Paris, nonché i cugini. In particolare Taj Jackson che nel corso del programma televisivo britannico “BBC 2” condotto da Victoria Derbyshire ha rivelato che sono giorni che “Blanket si è completamente ammutolito e non dice più una parola”. L’ultimo dei tre figli del re del pop, che ora ha diciassette anni, passerebbe le sue giornate chiuso in stanza, da solo. “In realtà è il ragazzo più loquace della scuola. Ora non dice più una parola. Siamo tutti molto preoccupati per lui”, ha spiegato Taj. Blanket, di cui, a differenza dei due fratelli maggiori, non è mai stato reso noto il nome della madre biologica, vive attualmente a Calabasas, in California dove frequenta la Buckley School a Sherman Oaks, insieme ai suoi due fratellastri. Il suo vero nome è Prince Michael Jackson II, ma in casa è sempre stato chiamato Blanket e a chi chiedeva a suo padre il perché di questo soprannome che in inglese significa “coperta”, Michael spiegava che per lui rendeva bene l’idea di “coprire con amore suo figlio”, nel senso di proteggerlo. Dal 2015, stando all’annuario scolastico, si è scoperto che Prince Michael Jackson II non vuole più essere chiamato Blanket, ma Bigi Jackson perché a causa del nomignolo affibbiatogli dal padre tutti lo prendevano in giro. Ma di un bullismo ben più grave il ragazzino ora è vittima a scuola e sui social a causa delle gravi accuse mosse al padre nel documentario trasmesso dalla HBO. Blanket credeva che l’incubo delle accuse di pedofilia fosse finito una volta per tutte con la morte del padre nel 2013, invece adesso è tornato come uno tsunami stravolgendo la sua vita, mentre i suoi due fratelli, dalle personalità più forti e decise, stanno reagendo in modo opposto, combattendo per difendere la memoria del padre. In particolare Paris che ha fatto diverse dichiarazioni alla stampa accusando gli autori e i protagonisti del documentario di essere solo degli avvoltoi a caccia di soldi perché suo padre non è mai stato un pedofilo. E questo lei lo sa, come lo sanno i suoi fratelli, perché ci viveva insieme nel ranch di Neverland.
"Paris e Prince non sono figli di Michael Jackson": la rivelazione dell'ex moglie. Debbie Rowe, seconda moglie di Michael Jackson, ha rivelato di essere ricorsa all'inseminazione artificiale per avere Paris e Prince: i due, quindi, non sarebbero figli naturali del cantante, scrive Luana Rosato, Martedì 19/03/2019, su Il Giornale. In seguito all’uscita del documentario su Michael Jackson, "Leaving Neverland", la vita della pop star continua a destare scalpore. A fare una delle ultime rivelazioni choc è stata Debbie Rowe, seconda moglie del cantante. A differenza di quanto sempre raccontato, pare che Michael Jackson non sia il padre biologico di Paris e Prince. In una intervista rilasciata a The Sun, infatti, la Rowe ha spiegato di essere ricorsa all’inseminazione artificiale per permettere al cantante di realizzare il desiderio di essere padre. “Michael era un uomo divorziato, solo e voleva avere figli – ha spiegato la seconda moglie di Jackson - . Ho offerto la mia pancia, è stato un regalo, è stato qualcosa che ho fatto per renderlo felice". Una dichiarazione che ha destato molto scalpore e che ha creato un nuovo mistero attorno a quello che ancora oggi viene definito il re del pop. "Proprio come le fattrici sono fecondate in modo che si riproducano, è stato molto tecnico – ha continuato la Rowe, spiegando di aver lasciato a Michael Jackson, poi, la cura dei piccoli - . Michael ha fatto tutto, non ho cercato di essere una madre, non ho cambiato i pannolini, non mi sono alzata nel cuore della notte, anche se ero lì”. Il matrimonio tra Debbie Rowe e Michael Jackson venne celebrato in Australia nel 1996 e dopo tre mesi dalle nozze nacque Prince, mentre l’anno dopo venne al mondo Paris. I due, poi, divorziarono nel 1999 e i bambini vennero affidati al cantante. Dopo la sua morte, però, la Rowe intraprese una battaglia legale per l’affidamento dei figli e, ad oggi, i rapporti tra la madre e Prince e Paris non sono ottimi.
La maledizione dei Jackson: le accuse a Michael e il dolore di Paris. Il documentario Hbo sulle presunte molestie sessuali ai piccoli fan, i tentativi di suicidio della figlia: la vita del cantante pop torna sotto i riflettori a causa di nuove rivelazioni, scrive Matteo Persivale il 17 marzo 2019 su Il Corriere della Sera. La breve infelicissima vita di Paris Jackson poteva finire in un istante, con il taglio di una lama sui polsi pallidi, se una chiamata al pronto intervento e i medici dell’ospedale non l’avessero salvata anche questa volta, libera di tornare a casa senza neanche la voglia di evitare l’assedio inevitabile dei paparazzi, lanciando verso il mondo due brevi tweet carichi di disgusto (e qualche parolaccia) per dare dei bugiardi, prevedibilmente, a quelli del sito Tmz che avevano fatto lo scoop del suo ricovero per tentato suicidio.
Salvata per miracolo. Suo padre Michael morì in una notte d’estate di 10 anni fa in una villa da 100 mila dollari al mese nei pressi di Sunset Boulevard, a Los Angeles, stroncato dall’iniezione — lo stesso farmaco dell’anestesia totale per gli interventi chirurgici — che il suo medico ora radiato e incarcerato usava per farlo addormentare. Lei ha cercato di seguirlo venerdì mattina, poco dopo l’alba, tagliandosi le vene in una casa sempre a Los Angeles ma meno faraonica di quella del padre, non da re del pop ma da modella (agenzia Img) tatuata e rockettara con rendita milionaria. Michael Jackson morto nel 2009; sua figlia Paris ventenne, ex tossica, ex alcolista, arrivata al tentativo di suicidio numero «chissà» visto che lei per prima dichiarò a Rolling Stone che dal 2013 aveva cercato di farla finita «many times», tante volte.
Le accuse di pedofilia. «Mi appare in sogno, è sempre con me» dice spesso di suo padre, amatissimo al di là di ogni sua bizzarria in vita e difeso anche adesso dalle accuse che non sono finite neppure dopo la sua morte senza senso (il propofol da sala operatoria invece dei normali sonniferi da farmacia). A una giovane donna che fin da bambina ha avuto problemi emotivi di ogni tipo non può aver fatto bene il ritorno di suo padre sulle prime pagine dei giornali, nei «trending topics» di Twitter: il documentario Leaving Neverland nel quale Wade Robson e Jimmy Safechuck, due dei numerosi bambini che dagli anni 80 in poi seguivano Jackson in tournée e dormivano spesso con lui, lo accusano di averli ripetutamente molestati, ricattati, plagiati e violentati.
Vicende controverse. Il film, in due puntate — in Italia andrà in onda su Nove, domani e mercoledì sera — è stato prodotto dalla Hbo, garanzia di serietà. Wade e Jimmy, quando cominciarono a frequentare Jackson, avevano 7 e 10 anni. Raccontano storie terrificanti, smentite dalla famiglia Jackson che ha sottolineato, in un raro comunicato perché generalmente non commentano nulla, come i due uomini abbiano in passato deposto sotto giuramento due volte nei vari procedimenti legali (civili e penali) contro il cantante, negando gli abusi (uno dei due aveva 14 anni al momento del giuramento).
Pugno allo stomaco. Mentivano allora, per difendere il loro idolo (che manteneva le loro famiglie)? Mentono adesso (Hbo nega che siano stati pagati per apparire nel film)? Ogni spettatore può farsi un’idea personale, al netto della certezza che in vita Jackson non è mai stato condannato penalmente per pedofilia, ha pagato però cifre enormi a vari accusatori (dal 1993 in avanti) in accordi extragiudiziali. Guardare il documentario, seguire i racconti particolareggiati di quello che sarebbe successo dietro la porta della camera da letto di Jackson e nella soffitta del suo ranch, Neverland, non è per tutti — colpisce, letteralmente, allo stomaco.
Soldi e autodistruzione. Paris ha anche una madre: Debbie Rowe, infermiera del dermatologo di Jackson, nel 2001 vendette a Michael quelli che di fatto erano i suoi diritti genitoriali. Paris aveva tre anni e suo fratello Prince quattro. Anni dopo cercò di far annullare la decisione del giudice, senza successo. Dopo la morte di Jackson fece causa alla nonna paterna per poter vedere i bambini, e ottenne visite per un totale di otto ore ogni 45 giorni. Peter Pan crocifisso dai calunniatori anche post mortem o mostro, ormai non c’è alternativa su Jackson che dopoLeaving Neverland rischia il ritiro di molte onorificenze e premi ricevuti. A Paris ha lasciato 100 milioni di dollari, una rendita di 8 all’anno, un cognome impossibile e una famiglia incapace di salvare i suoi membri dall’autodistruzione.
Paris Jackson, una vita all'ombra (ossessiva) del padre Michael. Modella, cantante e attrice, ha sempre difeso Michael dalle accuse di pedofilia. Ma la gestione della parentela non è stata facile, tra tentati suicidi e sparate ad effetto, scrive Alessio Lana il 17 marzo 2019 su Il Corriere della Sera. Una vita certo non facile quella di Paris Jackson, aspirante attrice e modella ma soprattutto figlia di quel re del Pop che anche da morto non le dà requie. È di sabato la notizia di un tentato suicidio della ragazza: lei nega tutto ma il sito Tmz, generalmente molto informato sulle star, ne è convinto e prova a dare anche un motivo. La ragazza non avrebbe retto all'uscita di Leaving Neverland, documentario che riporta in auge le accuse di pedofilie mosse contro Michael Jackson nel 2009.
Figlia di una sconosciuta infermiera. Bellissima ragazza dai lunghi capelli neri che ormai tinge costantemente di colore platino, Paris Jackson è nata nel 1998 dalla relazione del re del Pop con Debbie Rowe, una donna sconosciuta ai media, un'infermiera, l'assistente del dermatologo del cantante, una figura che ha acceso un'altra luce di mistero sulla già fosca vita di Jacko. Paris, che deve il nome alla città in cui fu concepita, è la seconda figlia di Michael. È cresciuta al Neverland ranch, il parco giochi di Jackson in cui, secondo l'accusa, l'uomo avrebbe attirato bambini per abusarne. Ad ogni modo, fin dalla nascita la vita di Paris non è facile. Ricchissima, ha avuto come madrina Elizabeth Taylor, da sempre amica del cantante, mentre il padrino è Macaulay Culkin, il bambino prodigio di Mamma, ho perso l'aereo che compare anche nel video di Black or white, ma è la sua carnagione ad attirare l'attenzione dei media. Paris è bianchissima, proprio come la madre, ma del padre sembra avere poco o nulla. Fin da quando era piccola i giornali scandalistici ne hanno analizzato i tratti somatici come fosse una statua a un museo tra chi trovava che i suoi occhi blu erano identici a quelli del nonno Joe Jackson e chi diceva che non era possibile che la figlia di un afroamericano non fosse almeno un po' mulatta.
I precedenti tentativi di suicidio. Qualcuno la ricorderà quando era piccolissima: Jackson era solita portarla a spasso con una grande mascherina che ne copriva il viso. Per privacy dicevano alcuni, per le manie del padre gli facevano eco altri. La prima grande apparizione pubblica è del 2010, quando viene intervistata da Oprah Winfrey sulla morte di Jacko. Nello stesso anno partecipa ai Grammy ritirando il premio alla carriera per il papà insieme al fratello Prince. La sua carriera invece stenta a decollare. La ragazza che afferma di sentirsi nera e di essere stata cresciuta dal padre infusa di cultura afroamericana nel 2011, a 13 anni, viene scritturata per un film che poi però non si farà. Nel mentre deve sopportare il peso di essere figlia di un re diventato ormai un mostro. A 15 anni è in preda a una pesante tossicodipendenza che la porterà a commettere più volte suicidio. Afferma poi di essere stata violentata quando aveva 14 anni ma non ha mai rivelato il nome del suo aguzzino.
Particine al cinema. Paris cresce e inizia a giocare le sue carte puntando a tutti gli ambiti creativi possibili. Nel gennaio 2017 eccola apparire sulla copertina del Rolling Stone dove afferma che il padre è stato spinto a morire. «Suona come una totale teoria cospiratoria... ma tutti i veri fan e tutti in famiglia lo sanno. Era un congiura». A marzo di quell'anno firma un contratto come modella per la Img Models, la stessa agenzia di Kate Upton, Gisele Bündchen, Heidi Klum e le sorelle Hadid, diventa il nuovo volto di Calvin Klein e appare nella serie Tv musicale Star per due stagioni. Un anno dopo partecipa con un ruolo minore nel film Gringo, commedia leggera con David Oyelowo e Charlize Theron, mentre in ambito musicale forma con Gabriel Glenn il duo The Soundflowers, in cui canta e suona l'ukulele. Insomma, sembra che la ragazza oggi 21enne abbia trovato la giusta via ma forse, come insinua Tmz, la ricomparsa delle accuse al padre scatenate dal documentario Leaving Neverland potrebbero averla riportata nei gorghi del passato. Lei smentisce il tentato suicidio e attacca senza mezzi termini il sito scandalistico. Difficile però sapere chi abbia davvero ragione.
Marco Molendini per “il Messaggero” il 19 marzo 2019. Un fatto è certo: Leaving Neverland ha fatto rumore, probabilmente più di quanto potesse aspettarsi l' autore, il regista Dan Reed. Su Michael Jackson, il re del pop, si è scatenata un' ondata che ha riacceso l' accusa infamante di pedofilia, sommersa negli anni dal successo infinito di Jacko. A riaccenderla, un racconto a tesi (nel senso che è privo di contraddittorio) di quattro ore, dettagliato quanto più non si potrebbe per voce di due suoi ex amici, al tempo bambini o poco più, irretiti, sedotti, manipolati, abusati, scaricati. Il film, che stasera e domani viene trasmesso anche in Italia dal canale Nove, offre il ritratto di un orco abile e insaziabile, divoratore di sesso, un bambino adulto capace di trasformare il suo campo giochi in un parco del sesso disseminato di camere da letto nascoste. Vero? Non vero? Leaving Neverland che, comunque, ha raggiunto il suo obiettivo (essere trasmesso in tutto il mondo) sta scatenando una guerra inevitabile considerando che, a essere minacciata, non è solo la reputazione di Jacko ma la fabbrica di denari che rappresenta (400 milioni nel 2018), senza considerare la tempesta emotiva che ha colpito Paris Jackson, ragazza fragile probabilmente quanto quei ragazzini che frequentavano il Peter Pan della musica, sognando una carriera folgorante. A parte la lunghezza smisurata fino alla noia, quello che colpisce dell' ossessivo Leaving Neverland sta soprattutto nelle immagini di film privati e clip ufficiali, dove la dipendenza di Jimmy Safchuck e Wayde Robson è manifesta, preoccupante, patologica. Nei loro ricordi la seduzione di Michael è infallibile nei modi e nei tempi: dai giochi ai giochini, alla masturbazione, ai veri tentativi di penetrazione. Non ci sono e né potevano esserci prove degli abusi, ma la maniera esplicita, minuziosa, perfino scioccante, immaginando che di mezzo ci sono dei bambini, in cui la relazione viene esaminata (nel caso di Wayde c' è perfino la rievocazione di un finto matrimonio) minaccia di essere comunque devastante. Inevitabile la reazione degli eredi, che sostiene che Wayde Robson, che oggi fa il ballerino, ha negato sia in tribunale che in interviste di essere stato vittima di Michael. Poi, quando gli è stato negato un ruolo nella produzione del Cirque du Soleil nel 2013, sono partite le sue accuse.
"Paris si è tagliata per sbaglio". La verità degli amici. Paris Jackson, la figlia 21enne del Re del Pop Michael, si sarebbe tagliata durante un party particolarmente scatenato, la sera del suo presunto tentativo di suicidio, scrive Mariangela Garofano, Venerdì 29/03/2019, su Il Giornale. Il giallo riguardante il presunto tentativo di suicidio di Paris Jackson, figlia del defunto King of Pop, sembra essere in parte svelato. La ragazza infatti, che stando a quanto riportato dal sito TMZ, sarebbe stata trasportata in ospedale dopo una chiamata al 911, ha sempre negato di aver tentato di togliersi la vita, accusando i media di aver imbastito la vicenda per “avere una storia strappalacrime da vendere”. Ma ora spuntano delle fonti che avrebbero riferito al Daily Mail il vero motivo per cui Paris sarebbe finita in ospedale: si sarebbe tagliata un braccio accidentalmente durante una festa. “Paris stava festeggiando in modo un po’ un po’ scatenato, ma non è nulla di nuovo per lei. È stata una serata folle, e lei era fuori controllo. Lei dice di essersi tagliata accidentalmente un braccio con un paio di forbici e visto che il sangue non si fermava, gli amici hanno chiamato il 911" , ha raccontato la fonte, sottolineando inoltre come non si sia trattato di un tentativo di suicidio come invece ha affermato la polizia di Los Angeles, e aggiungendo anche che “ il problema con Paris e che è sempre misteriosa, anche con i suoi amici più cari. Lei vive nei mantra che le ha insegnato suo padre. "La verità è finzione e la finzione è la realtà”, le diceva. Michael le ha sempre consigliato di tenere per sé le sue cose private. Così nessuno sa davvero cosa sia successo quella notte, ma gli amici sono sicuri non si sia trattato di suicidio. Insomma, la vicenda appare in parte risolta ma ancora avvolta in quell'alone di mistero che ha sempre caratterizzato la vita di Michael Jackson e che a quanto pare Paris è decisa a portare avanti.
POLEMICA BARBRA (STREISAND) “LE MOLESTIE DI MICHAEL JACKSON? CREDO A QUEI RAGAZZI MA QUEL CHE È SUCCESSO NON LI HA UCCISI". Da Repubblica.it il 24 marzo 2019. "Sì, si può usare la parola "molestie", ma quei bambini erano eccitati all’idea di essere lì e sono loro stessi a dirlo oggi, la versione adulta di Wade Robson e James Safechuck. Entrambi comunque sono andati avanti, si sono sposati e hanno avuto figli, il che vuol dire che quegli episodi non li hanno uccisi". Barbra Streisand, intervistata dal quotidiano inglese The Times, dice la sua su Michael Jackson e Leaving Neverland, il documentario diretto e prodotto da Dan Reed con le interviste a Robson e Safechuck, che oggi hanno 41 e 37 anni, che accusano l’artista scomparso il 25 giugno 2009 di averli molestati sessualmente quando avevano 11 e 7 anni. E ciò che Barbra Streisand ha da dire è qualcosa di diverso rispetto a ciò che è stato detto finora e che ha scatenato sui social un'ondata di indignazione, soprattutto negli Stati Uniti. L'attrice infatti afferma di credere "assolutamente" alle accuse di molestia nei confronti di Jackson al punto che per lei è stato "estremamente doloroso guardare il film", allo stesso tempo però non vuole condannare definitivamente il musicista, "i suoi bisogni sessuali erano i suoi bisogni sessuali, che derivassero da un certo tipo di infanzia o da un particolare Dna" dice. Al giornalista che le chiede se provi rabbia nei confronti di Jackson, Barbara Streisand risponde: "è un mix di sensazioni. Mi dispiace per quei bambini, mi dispiace per lui. Forse do la colpa ai genitori che hanno permesso ai loro figli di dormire con lui. Mi chiedo perché Michael avesse bisogno di vestire quei ragazzini come lui, perché li voleva nei suoi show, perché voleva che ballassero e indossassero i suoi cappelli?”. Streisand ha incontrato Michael Jackson una sola volta e l’impressione avuta in quella occasione era stata di una persona "molto dolce, quasi infantile". Nel corso dell’intervista la cantante che vanta di aver conquistato un EGOT (vale a dire di aver collezionato un premio Emmy, un Grammy, un Oscar e un Tony nel corso della carriera) ha parlato anche del movimento #MeToo definendolo "molto forte". Tuttavia è convinta che aumenti il rischio per le donne di non essere più assunte, “gli uomini ora sono spaventati di poter essere accusati”.
Da rockol.it il 24 marzo 2019. La cantante e attrice statunitense ha affidato all’Evening Standard il suo pensiero su “Leaving Neverland”, il documentario sulle testimonianze di James Safechuck e Wade Robson a proposito delle presunte molestie del Re del Pop delle quali i due accusano di essere rimasti vittime, trasmesso in anteprima al Sundance Festival e andato in onda anche in Italia gli scorsi 19 e 20 marzo (qui l’opinione di Rockol). All’eco mediatica di “Leaving Neverland” Barbra Streisand ha risposto spiegando come lei creda “assolutamente” a quanto esposto nel documentario da Robson e Safechuck ma come creda anche che le persone da incolpare siano i genitori dei due (all’epoca) ragazzini: “Mi sento male per i bambini. Mi sento male per Jackson. Do la colpa, direi, ai genitori che hanno permesso ai loro figli di dormire con lui”. Ma la Streisand ha anche aggiunto: “Puoi dire ‘molestati’, ma quei bambini…erano felici di essere là”. Per poi aggiungere: “Sono entrambi sposati ed entrambi hanno figli, quindi questa cosa non li ha uccisi”. Nella stessa intervista la voce di “Happy Days Are Here Again” ha commentato: “I suoi bisogni sessuali erano i suoi bisogni sessuali, provenienti da qualunque infanzia avesse avuto o qualunque DNA avesse avuto”.
Mentre Barbra Streisand chiede scusa, in un tweet Diana Ross difende Michael Jackson. Entrambe su Twitter, le due dive parlano di Michael Jackson e se Barbra Streisand, travolta dalle polemiche per le sue dichiarazioni di ieri, chiede scusa alle presunte vittime molestate dal cantante, Diana Ross desidera che il re del pop sia lasciato in pace, scrive Sandra Rondini, Domenica 24/03/2019 su Il Giornale. Dopo Barbra Streisand, che ieri ha sostanzialmente assolto Michael Jackson dalle accuse di pedofilia rivoltegli nel documentario HBO “Leaving Neverland”, poiché, a suo parere “se le accuse sono vere, aveva un bisogno sessuale da soddisfare e comunque la colpa è dei genitori che hanno lasciato con lui i loro figli che erano sempre entusiasti di stare con Michael”, un’altra super star si schiera a sostegno del re del pop. Si tratta di Diana Ross che ha scelto Twitter per difendere quello che è stato un suo carissimo amico a cui voleva molto bene, completamente ricambiata da Jackson che la considerava il suo mito e la sua musa. Ieri sera la diva è andata su Twitter per condividere “ciò che è nel mio cuore” e ha detto che “Michael Jackson ha dato una forza incredibile a me e a tantissima gente. Questo pensiero è la cosa che più ha colpito il mio cuore stamattina”. Infine l’appello: “Fermatevi nel nome dell’amore”. Un tweet che vuole essere un ricordo del legame che li ha uniti negli anni e anche un invito alla stampa e agli haters di smetterla con questo stillicidio di accuse senza prove, basate solo sul racconto dei due protagonisti del documentario. Nulla però ha scritto a proposito della presunta pedofilia di Jackson. Su questo argomento così critico e spigoloso Diana Ross non ha voluto prendere alcuna posizione, come invece ha fatto fermamente la Streisand, accusata di giustificare in qualche modo le presunte molestie del cantante come una risposta naturale a un bisogno sessuale causatogli da un’infanzia difficile o forse inciso nel suo dna. Le sue dichiarazioni hanno leso gravemente la sua immagine pubblica così la cantante e attrice, dopo essere stata letteralmente travolta dalle polemiche, ha deciso di fare marcia indietro scegliendo anche lei Twitter per dirsi “profondamente dispiaciuta per qualsiasi dolore o incomprensione causata per non aver scelto con più attenzione le mie parole su Michael Jackson e le sue vittime”. “Non intendevo ignorare il trauma che questi ragazzi hanno vissuto in alcun modo" – ha aggiunto la Streisand, spiegando che, “come tutti i sopravvissuti a molestie sessuali, dovranno conviverci per tutta la vita. Sento un profondo rimorso e spero che James e Wade sappiano che li rispetto e li ammiro per aver detto la loro verità”.
Leaving Neverland, il mostro non è Michael Jackson, scrive il 25 Marzo 2019 Stefano Olivari su Indiscreto. Dopo aver visto Leaving Neverland, nelle due serate su Nove, la nostra opinione su Michael Jackson non è cambiata. Dopo la visione del lungo, quasi quattro ore, documentario di Dan Reed non sappiamo cioè se Michael Jackson sia stato un pedofilo che ha pagato il silenzio delle sue vittime oppure una celebrità accusata fuori tempo massimo da due testimoni e scagionata da decine di altri. Sappiamo però che sicuri mostri sono stati i tanti genitori, non soltanto quelli di Wade Robson e James Safechuck, che hanno lasciato i loro figli di cinque o poco più anni da soli insieme ad un adulto che conoscevano da poche ore, pensando di poterne ricavare soldi e celebrità di riflesso. Gente che nemmeno a distanza di decenni si rende conto della propria stupidità, a prescindere dal racconto dei figli. Insomma, Barbra Streisand non meritava di essere linciata per avere provato a inquadrare la situazione. E le radio che hanno tolto Jackson dalle playlist hanno dimostrato soltanto ipocrisia, accettando una sentenza basata sul "si dice" mediatico. Non stiamo dicendo che Jackson fosse innocente, ma soltanto che la morte non autorizza la diffamazione. Ma cos’è Leaving Neverland? Prodotto dagli inglesi di Channel 4 e dall’americana HBO, è basato fondamentalmente sulle interviste a Wade Robson e James Safechuck, oltre che ai loro familiari. Da sottolineare che in passato sia Robson sia Safechuck, in particolare Robson, erano stati decisivi con le loro testimonianze, immaginiamo non a pagamento (negli Stati Uniti la falsa testimonianza è un reato serio), nello scagionare Jackson da accuse simili. Meno famosi di Jordan Chandler e Gavin Arvizo, forse i due ex bambini ospiti di Neverland hanno voluto ritrovare la ribalta, ispirati da pendenze che ritengono di avere con gli eredi di Jackson, o forse avevano davvero un peso insopportabile dentro. Di certo è criminale che loro e tanti altri siano stati addestrati da genitori frustrati per diventare piccole star, mostriciattoli con più o meno talento. Guardare Wade e James bambini ballare come piccoli sosia del loro idolo è agghiacciante. E non c’è bisogno dell’eventuale reato di pedofilia, sia pure a carico di un morto (nel 2009), per dire che non si dovrebbe fare spettacolo con i minorenni e meno che mai con i bambini. Ad esempio anche senza reati il recente Sanremo Young è stato culturalmente una schifezza e non si capisce come la RAI abbia potuto trasmetterlo. Tornando a Leaving Neverland, bisogna dire che raramente il genio di Thriller e Bad è stato attaccato così nel dettaglio, con particolari anatomici che poco hanno aggiunto alla comprensione. Ed è incredibile che, trattandosi di documentario, sia stata un’opera a senso unico ignorando le testimonianze di decine di ex bambini (con genitori mostri anche nel loro caso, peraltro), fra i quali Macaulay Culkin, che hanno confermato l’assenza di abusi da parte del musicista e descritto la sua figura ipersensibile e tragica: stritolato fra un padre violento, una madre vittima, fratelli e sorelle avidi oltre che privi di talento (forse un minimo ne aveva Janet), approfittatori di ogni tipo, a 5 anni già manteneva da solo tutto il carrozzone. Cosa che peraltro fa anche da morto, per questa e le future generazioni di Jackson. Ma se non ci vogliamo fidare delle testimonianze dei bambini, bisogna ricordare quelle delle centinaia di adulti passati per casa Jackson e che hanno potuto vedere il divo nell’intimità: guardie del corpo, camerieri, manager, amici, questuanti. Tutti silenziati a colpi di 15 milioni di dollari, come Chandler? L’infanzia perduta non è certo una licenza di pedofilia, ma la spiegazione del perché si detesta la compagnia degli adulti.
Michael Jackson: i dubbi sul documentario "Leaving Neverland". Il discusso docufilm, che sarà trasmesso oggi sulla HBO, ha per protagonista Wade Robson, a cui sono state già rigettate due cause contro il Re del Pop. La controprogrammazione del 3 e 4 marzo, scrive Gabriele Antonucci il 3 marzo 2019 su Panorama. A quasi dieci anni dalla sua scomparsa, avvenuta il 25 giugno del 2009 a causa di una dose eccessiva di Propofol somministrata colposamente dal suo medico curante Conrad Murray (poi condannato a quattro anni di reclusione), continua a non esserci pace per Michael Jackson, da molti considerato il più grande performer di sempre. Il 25 gennaio, al Sundance Film Festival di Park City (Utah) è stato proiettato in anteprima un documentario incentrato sui presunti abusi sessuali che Michael Jackson avrebbe perpetrato nei confronti di due bambini di 7 e 10 anni, oggi trentenni: Wade Robson e James Safechuck. Intitolato Leaving Neverland, il documentario di 233 minuti è stato diretto da Dan Reed, un regista che già in passato si era occupato di questa tematica con il docu-film "The Pedophile Hunters" ("I cacciatori di pedofili"). Alcuni fan del cantante hanno protestato davanti all'Egyptian Theatre di Park City, mostrando cartelloni con le scritte "Innocente" e "Cercate la verità". Il documentario sarà trasmesso il 3 e il 4 marzo, in due episodi sulla pay tv HBO in Usa e il 6 e il 7 marzo su Channel 4, alla tv britannica. Considerando che il 25 giugno 2019 ricorreranno i 10 anni dalla morte del Re del Pop, Leaving Neverland, a partire dalla sospetta tempistica e dai nomi dei due protagonisti, appare come l'ennesima occasione per gettare fango nei confronti di una persona morta che, come tale, non può replicare a queste terribili accuse. Il documentario, tralasciando l'aspetto "artistico", da un punto di vista cinematografico (oltre che etico) lascia davvero perplessi: intervistare solo i due protagonisti e i loro stretti familiari, con primi piani, lacrime di prammatica e musichette d'atmosfera, non offre quella pluralità di voci e quell'approfondimento che sono elementi indispensabili a ogni documentario degno di questo nome. Inoltre, a fronte di accuse gravissime, appare davvero incredibile che il regista non si sia premurato di ascoltare o di riportare la versione dei fatti di uno dei rappresentanti legali o della fondazione che cura gli interessi di Jackson: il diritto alla difesa, in caso di accuse penalmente rilevanti, è costituzionalmente garantito in ogni stato occidentale, in Usa come in Italia. Dal lungometraggio, di una durata parossistica (4 ore!), non sono emerse prove concrete, che diano credibilità alle testimonianze, ma solo uno sfilacciato taglia e cuci di immagini e dichiarazioni il cui unico obiettivo è screditare Michael Jackson. Insomma, Leaving Neverland, più che un documentario, sembra un perfetto esempio di "mockumentary", un particolare genere cinematografico che simula lo stile e il procedimento documentaristico, celandovi la costruzione di una fiction, a cavallo tra lo scandalistico e il fantastico. Marcos Cabotà, un regista presente alla prima, ha stroncato Leaving Neverland, dandogli 1 su 10 come voto: "Dopo aver assistito alla prima, è evidente che si tratti di un mockumentary (documentario di fantasia) invece di un documentario. Non riesco a credere a una sola parola delle due "vittime". Cattiva recitazione. A volte, vergognosa. La regia e i testi sono addirittura peggio. 1/10". Il nipote Taj Jackson, membro dei 3T, ha promosso una campagna di crowdfunding per la realizzazione di un film-verità come risposta a quello di Dan Reed, per difendere la reputazione dello zio. Servono almeno 777.000 dollari (circa 681.000 euro): al momento le donazioni ammontano a 30.000 dollari. Dopo alcuni giorni di riflessione, il 28 gennaio è arrivata una lunga e articolata dichiarazione dei familiari di Jackson: «Michael Jackson è nostro fratello e nostro figlio. Siamo furiosi per il fatto che i media, senza uno straccio di prova o un singolo pezzo di indizio materiale, abbiano scelto di credere alla parola di due bugiardi conclamati invece che a quella di centinaia di famiglie e amici in tutto il mondo che hanno trascorso del tempo con Michael, molti di loro a Neverland, e che hanno sperimentato la sua leggendaria gentilezza e generosità globale.
Siamo orgogliosi di ciò che Michael Jackson rappresenta. Le persone hanno sempre amato perseguitare Michael. Era un bersaglio facile perché era unico. Ma Michael fu sottoposto a un'indagine approfondita che incluse un raid a sorpresa a Neverland e in altre proprietà, nonché un processo davanti a una giuria in cui Michael venne considerato COMPLETAMENTE INNOCENTE. Non c'è mai stato uno straccio di prova di nulla. Eppure i media sono ansiosi di credere a queste bugie. Michael ha sempre rivolto l'altra guancia, e anche noi abbiamo sempre rivolto l'altra guancia quando le persone hanno perseguitato i membri della nostra famiglia - questo è lo stile dei Jackson. Ma non possiamo semplicemente stare fermi di fronte a questo linciaggio pubblico e alla persecuzione da parte di avvoltoi e altri che non hanno mai incontrato Michael. Michael non è qui per difendersi, altrimenti queste accuse non sarebbero state fatte. I creatori di questo film non erano interessati alla verità. Non hanno mai intervistato una sola anima che conoscesse Michael, tranne i due spergiuri e le loro famiglie. Questo non è giornalismo, e non è giusto, eppure i media continuano a diffondere queste storie. Ma la verità è dalla nostra parte. Fate le vostre ricerche su questi opportunisti. I fatti non mentono, le persone sì. Michael Jackson era e sarà sempre al 100% innocente da queste false accuse.
La famiglia Jackson. Jermaine Jackson, durante la trasmissione "Good Morning" condotta da Susanna Reid e Piers Morgan, è scoppiato in lacrime mentre difendeva suo fratello dalle accuse del documentario proiettato al Sundance Festival, dichiarando: «Ciò che la gente non sa è che Wade Robson ha cambiato la sua versione dei fatti, quella che aveva raccontato sia prima che dopo la morte di Michael. Dopo essere stato escluso dallo spettacolo del Cirque du Soleil dedicato a MJ, se n'è andato in giro a cercare un contratto di pubblicazione per il suo libro sui presunti abusi, che nessun editore ha mai neanche considerato. Ha citato in giudizio l'Estate di MJ per 1,5 miliardi di dollari, ma è stato sbattuto fuori dal tribunale. Dunque, tutto ciò che gli rimaneva da fare era un documentario. Così si è messo di fronte a una telecamera con un gruppo di persone e ha vomitato tutte queste assurdità. La nostra famiglia è stanca, siamo molto stanchi. Lasciate riposare quest'uomo, ha fatto tanto per il mondo, lasciatelo riposare. Abbiamo perso Michael, abbiamo perso nostro padre, siamo ancora in lutto. Abbiamo perso molto, lasciateci soli, lasciatelo in pace, lasciatelo riposare, merita di riposare. Sono sicuro al mille per cento dell'innocenza di Michael. È stato giudicato da una giuria e assolto da tutto ciò perché non c'era alcun indizio concreto. Non c'era niente lì. Non esiste alcuna verità in questo documentario. Viviamo in un'epoca in cui le persone possono dire qualsiasi cosa e viene accolta come verità. Sotto giuramento, Robson ha detto ciò che ha detto, ma si preferisce credere a un documentario.
Se agiremo per vie legali? Sono cose che riguardano la sua Estate. Dopo la prima al Sundance Festival, non si è fatta attendere la reazione dell'Estate di Jackson, che ha denunciato le affermazioni contro il cantante e il documentario nel suo complesso. "Leaving Neverland" non è un documentario, è una sorta di assassinio del personaggio tabloid che Michael Jackson ha sopportato nella vita, e ora nella morte. Il film tratta accuse non provate per cose presumibilmente successe 20 anni fa e le tratta come fatto. Queste affermazioni sono state la base di querele depositate da questi due bugiardi, che sono state in via definitiva respinte da un giudice. I due accusatori avevano (in precedenza) testimoniato sotto giuramento che questi eventi non si sono mai verificati. (Nel film) non hanno fornito nessuna prova evidente e assolutamente nessuna prova a sostegno delle loro accuse, il che significa che l'intero film si basa esclusivamente sulla parola di due spergiuri. E' significativo che il regista abbia ammesso al Sundance Film Festival di aver limitato le sue interviste solo a questi accusatori e alle loro famiglie. Nel farlo, ha intenzionalmente evitato di intervistare numerose persone che, nel corso degli anni, hanno trascorso un tempo significativo con Michael Jackson e hanno inequivocabilmente dichiarato che ha sempre trattato i bambini con rispetto e non ha fatto loro nulla di male. Scegliendo di non includere nessuna di queste voci indipendenti che potrebbero sfidare la narrazione che era determinato a vendere, il regista ha trascurato di fare la verifica dei fatti realizzando così una narrazione così palesemente unilaterale che gli spettatori non avranno mai nulla di vicino ad un ritratto equilibrato. Per 20 anni, Wade Robson ha negato in tribunale e in numerose interviste, anche dopo la morte di Michael, di essere stato vittima e ha dichiarato di essere grato per tutto quello che Michael aveva fatto per lui. La sua famiglia ha beneficiato della gentilezza di Michael, della generosità e del sostegno alla sua carriera fino alla morte di Michael. A prescindere da "Leaving Neverland", occorre considerare il fatto che quando a Robson è stato negato un ruolo in una produzione di Cirque du soleil a tema Michael Jackson, sono improvvisamente emerse le sue accuse di molestie. Siamo estremamente solidali con qualsiasi effettiva vittima dell'abuso di minori. Questo film, però, fa un disservizio a quelle vittime. Perché nonostante tutte le false smentite fatte che qui non si tratta di soldi, si è sempre parlato di soldi - milioni di dollari - risalente al 2013 quando sia Wade Robson che James Safechuck, che condividono lo stesso studio legale, hanno lanciato senza successo le loro affermazioni contro la Estate di Michael. Ora che Michael non è più qui per difendersi, Robson, Safechuck e i loro avvocati continuano i loro sforzi per raggiungere la notorietà e per essere pagati coprendolo con le stesse accuse di cui una giuria lo ha trovato innocente quando era vivo" (The Estate of Michael Jackson) L'Estate ha annunciato di avere fatto causa alla HBO, non solo distributore ma anche coproduttore di "Leaving Neverland", poiché nel 1992 la stesso canale stipulò un accordo per la messa in onda del concerto "Live From Bucharest", che diventò lo speciale più visto nella storia di HBO. Nell'ambito di tale accordo, la HBO accettò disposizioni non denigratorie che restano in vigore, quindi la società è accorsa in una violazione del contratto.
L'Estate ha lanciato una controprogrammazione il 3 e il 4 marzo, negli stessi giorni e fasce orarie in cui HBO trasmetterà "Leaving Neverland", quando verranno pubblicati sul canale Youtube di MJ i concerti "Live in Bucharest" e "Live at Wembley", gli unici ufficialmente in commercio. Disponibili per un periodo di tempo limitato, il "Live in Bucharest" (Dangerous World Tour, 1º ottobre 1992) sarà online dalle 8:00 pm del 3 Marzo (le 2:00 in Italia), mentre il "Live at Wembley" (Bad World Tour, 16 Luglio 1988) dalle 8:00 pm del 4 Marzo (le 2:00 in Italia).
I due concerti vanno ad aggiungersi al "Michael Jackson's This Is It" che, non a caso, proprio in questi giorni è disponibile on demand su Netflix. L'emittente pubblica britannica BBC ha annunciato "Michael Jackson The Rise and Fall", un nuovo documentario dedicato al Re del Pop e alternativo a "Leaving Neverland" Diretto dal giornalista investigativo Jacques Peretti, il documentario racconterà i momenti più significativi della vita di Michael Jackson: dall'infanzia a Gary alla carriera con i Jackson 5, dai giorni dello Studio 54 alla nascita del Neverland Ranch, fino al "This Is It". Verrà affrontato anche il tema delle accuse, ma con l'approccio scientifico tipico di Peretti, che al Re del Pop ha già dedicato tre documentari: “What Really Happened”, “Michael Jackson’s Last Days: What Really Happened” e “Michael Jackson’s Secret Hollywood”. «Peretti è uno dei più importanti esperti di Michael Jackson e della sua turbolenta vita ed eredità», ha dichiarato Patrick Holland, direttore di BBC Two, dove l’emittente britannica ha intenzione di trasmettere il documentario. «Quando è venuto da noi con l’idea di riesaminarlo a dieci anni dalla morte, siamo stati immediatamente conquistati dal progetto. Sapevamo che non si sarebbe tirato indietro rispetto alle controversie che lo circondano». Inoltre l'Estate ha rilasciato una lunga lettera di ringraziamento ai fan di Michael Jackson, che in questi giorni si sono prodigati in tutto il mondo per far conoscere la verità. "Quando, il 9 Gennaio, apprendemmo per la prima volta dell'esistenza di 'Leaving Neverland', fu inconcepibile per noi - e probabilmente anche per voi - che dietro a tutto questo ci fosse una società rispettata come la HBO. Davamo per scontato che i valori aziendali della HBO riflettessero un impegno rivolto all'equità, all'onestà e all'integrità. Purtroppo, ci sbagliavamo. 'Leaving Neverland' non è altro che un'imboscata premeditata, annunciata all'ultimo momento al Sundance Film Festival nell'ambito di un raggiro durato due anni, e tenuto segreto per sfuggire al controllo della famiglia, dell'Estate, degli amici, dei soci e dei fan di Michael. Quando il film venne annunciato, la HBO cercò anche di tenere nascosti i nomi dei due accusatori, diffondendoli malvolentieri soltanto dopo che, tramite la nostra prima dichiarazione pubblica, rivelammo l'identità di quei due querelanti falliti che ben conosciamo. L'obiettivo della HBO è ovvio: vuole silenziare le voci di tutti coloro che parlerebbero in difesa di Michael Jackson, che conoscono la mancanza di credibilità di queste accuse e la personalità degli individui che le espongono. Grazie a tutti voi, HBO e il suo regista non sono stati in grado di evitare - come speravano di fare - che la luce della verità illuminasse le menzogne di questo film. Vogliono che nessuno noti la sua natura assolutamente unilaterale. Vogliono che non si sappia che il regista, in due anni, non ha cercato di contattare nessuno a parte i due soggetti e le loro famiglie, neanche coloro che ha diffamato e che sarebbe stato moralmente ed eticamente obbligato a contattare. HBO vuole che nessuno sappia di come i soggetti in questione abbiano ripetutamente ritrattato la loro versione dei fatti, rilasciato falsa testimonianza e agito per motivazioni finanziarie tenute nascoste al pubblico. Piuttosto, HBO spera di eludere 'Leaving Neverland' da un rigoroso controllo dei fatti e dalla credibilità che avrebbe dovuto richiedere al suo regista. Ma la vostra tenace passione nel difendere Michael di fronte a tale disonestà ha trafitto la mancanza di trasparenza della HBO. Ciò è fonte di ispirazione e commozione, e ve ne siamo grati. HBO e il suo partner Channel 4 vogliono distogliere l'attenzione dal fatto di stare attaccando un uomo innocente che non è più con noi per difendersi, e si sentono in diritto di farlo solo perché non possono essere ritenuti legalmente responsabili della diffamazione di una persona deceduta. HBO continua a ripetere che l'equità sia irrilevante, aggiungendo la falsa e assurda affermazione che il suo film non riguardi Michael Jackson. Parliamoci chiaro: riguarda interamente Michael Jackson. Lo stesso Michael Jackson che, solo 14 anni fa, fu giudicato in un tribunale e dichiarato unanimemente innocente su tutti i fronti da una severa giuria. Ma nel tribunale di HBO non esiste giuria, non c'è l'opportunità di esaminare i testimoni e nessuna difesa; solo una convinzione predeterminata su un uomo innocente da parte di un regista intenzionalmente raccapricciante, che si è auto-proclamato giudice e giuria. E piuttosto che lasciare che le persone valutino tutte le prove e decidano autonomamente se i soggetti stiano mentendo o dicendo la verità, HBO dà in pasto agli spettatori la trama del suo regista, senza concedere spazio - in quattro ore - neanche a una scintilla delle innumerevoli prove in contrasto con le sue tesi. Durante la sua vita, Michael Jackson è stato travolto da un'ondata di malignità che nessun artista della sua generazione è mai stato costretto a sopportare. Come scrisse profeticamente James Baldwin nel 1985, quando Michael era reduce dal fenomeno globale di 'Thriller', «La cacofonia su Michael Jackson è affascinante in quanto non riguarda affatto Jackson. Spero che abbia il buon senso di capirlo e la fortuna di strappare la sua vita dalle fauci di un successo carnivoro. Non sarà perdonato facilmente per aver cambiato così tante carte in tavola, per aver dannatamente ottenuto il massimo possibile. L'uomo che sbancasse il casinò di Monte Carlo non sarebbe nulla in confronto a Michael». Purtroppo i suoi figli, dopo aver perso il loro padre, hanno dovuto sopportare ripetutamente l'ulteriore dolore derivante da questi raccapriccianti pettegolezzi da tabloid, sia durante il processo penale all'uomo responsabile della sua morte, sia per le affermazioni dei due individui presenti in questo film. Nonostante la stampa abbia diffuso le accuse denunciate nel film come se fossero fresche e nuove, in realtà sono sei anni che i due individui raccontano ai media queste stesse accuse false e oscene, più della metà del tempo trascorso dal decesso di Michael. Ma avendo deviato la credibilità di HBO, tutto ciò che hanno adesso è soltanto una piattaforma più potente, una colonna sonora, scene riprese da un drone, un abile montaggio e un budget promozionale da svariati milioni di dollari. Ciò che non possono comprare è la verità. I fatti non mentono, le persone sì. Nei sei anni trascorsi da quando queste false accuse vennero presentate per la prima volta, la musica e l'eredità di Michael hanno prosperato per una semplice ragione: non si può mettere a tacere Michael Jackson.
Il suo genio e il suo talento artistico sono senza tempo, e la sua resilienza prevale sempre. Continueremo a combattere le infondate rivendicazioni dei suoi accusatori, perché lui è innocente. La sua eredità è più forte di due individui che reclamano centinaia di milioni di dollari dopo averlo difeso per anni, e le cui simili rivelazioni sollevano innumerevoli domande sulla loro tempistica e sulle loro motivazioni. La reiterata disonestà, dalla falsa testimonianza all'occultazione delle prove, dice tutto sulla loro mancanza di credibilità, che quattro ore di 'Leaving Neverland' cerca in tutti i modi di colmare. Infine, è importante ricordare ciò che Michael disse nel 1994, quando fu invitato ai NAACP Image Awards. A quel tempo, la persecuzione implacabile che lo avrebbe inseguito per il resto della sua vita, era iniziata. Parlando al pubblico, reclamò con forza il diritto di tutti noi alla presunzione di innocenza. «Non mi ero mai preso del tempo per capire l'importanza di questo ideale fino ad ora», disse Michael, «fino a quando non sono diventato vittima di false accuse, e della volontà altrui di credere e cavalcare il peggio prima di avere la possibilità di ascoltare il verità. Perché non solo sono presumibilmente innocente, io sono innocente. E so che la verità sarà la mia salvezza». (L'Estate di Michael Jackson)
Vediamo più da vicino chi sono i protagonisti del documentario. Wade Robson e James Safechuck erano due bambini che frequentavano Neverland, la casa di Michael Jackson dal 1988 al 2005, nella contea di Santa Barbara, in California, a circa 150 miglia da Los Angeles.
Neverland. La proprietà era composta da 22 strutture e da un terreno di quasi 1.300 ettari contenente una villa con 6 stanze da letto e 30 posti letto medici in cui i bambini con gravi patologie potevano ricevere cure e vedere film sul maxischermo, uno zoo, un parco giochi, una stazione ferroviaria, una piscina, un campo da tennis e uno da basket, una sala cinematografica da 50 posti e due laghi artificiali. Neverland non era la sordida cornice dove avevano luogo i suoi incontri proibiti, come molti media hanno lasciato intendere, ma un posto che accoglieva per un breve periodo bambini gravemente ammalati (anche terminali) e le loro famiglie, regalando loro attimi di gioia e divertimento. Neverland era sempre pieno di persone, quindi non si capisce davvero come il cantante possa aver commesso degli abusi con decine di occhi costantemente puntati su di lui, tra cui quelli dei genitori degli ospiti. L'attore Macaulay Culkin ha parlato recentemente del suo rapporto con Michael Jackson durante il podcast "Inside of You" condotto da Michael Rosenbaum: «Alla fine, è piuttosto facile dire che [il nostro rapporto] fosse strano o altro, ma non lo era perché aveva un senso. In sintesi, eravamo amici. So che per chiunque altro possa sembrare chissà cosa, ma per me era solo una normale amicizia. Le accuse contro Michael sono assolutamente ridicole». Alfonso Ribeiro, famoso in tutto il mondo per il ruolo di Carlton Banks nella sit-com "Willy, il principe di Bel-Air", ha dichiarato: «Non mi importa cosa dica la gente, non crederò mai che Michael abbia fatto ciò di cui lo hanno accusato. Sono stato anch'io un bambino di 12, 13, 14 anni. Ho conosciuto Michael, sono uscito con lui e mai niente di simile si è verificato. Non è mai successo nulla di discutibile. Io semplicemente non ci credo». Tesi confermate dal sound engineer Rob Hoffman, uno che Michael lo conosceva da vicino: "Ho passato quasi 3 anni lavorando con lui, e non ho mai messo in discussione la sua morale, non ho mai creduto in nessuna delle accuse che gli sono state fatte. E a quel tempo non ero nemmeno un suo fan. L'ho visto interagire con i figli dei suoi fratelli, i figli degli altri e, a un certo punto, anche con i figli della mia ragazza. Ho passato una intera giornata a Neverland con loro. Michael è un essere umano davvero incredibile, sempre alla ricerca di un modo per migliorare la vita di tutti i bambini. Ogni fine settimana a Neverland venivano ospitati gruppi diversi di bambini - bambini con AIDS, bambini affetti da cancro, ecc... E il più delle volte Michael non era neanche lì". Stessa opinione di Bill Whitfield, bodyguard di Jackson dal 2006 al 2009: “Quando trascorri 3 anni con qualcuno come bodyguard personale, loro si fidano e dipendono da te. Puoi vedere il loro vero carattere, la loro anima e il cuore. Il signor Jackson che conoscevo so che non avrebbe mai potuto fare o pensare una cosa simile, non avrebbe mai abusato o fatto del male a un bambino. Lui non era così. Era un bravo ragazzo e non perché lo penso io ma perché lo so”. Curioso come centinaia di bambini abbiano frequentato Neverland, ma soltanto quattro abbiano accusato di abusi Michael Jackson: Jordan Chandler, Gavin Arvizo, Wade Robson e James Safechuck. E che solo loro gli abbiano intentato cause milionarie, spesso molti anni dopo.
Chi è l'accusatore Wade Robson. Il ballerino e coregrafo Wade Robson, che in passato ha lavorato con Britney Spears ed è apparso nelle serie So You Think You Can Dance su Fox, fu chiamato a testimoniare nel 2005 nel processo Arvizo, negando allora con decisione che Jackson lo avesse mai infastidito e affermando sotto giuramento che "mai niente di inappropriato era accaduto con il Signor Jackson". Thomas Mesereau, il brillante legale che difese Michael Jackson, scelse come primo testimone per la difesa di Jackson lo stesso Wade Robson, che ora sostiene di essere stato molestato da MJ quando era bambino. Nel 2005, Robson - come affermato da Mesereau - era «irremovibile» sul fatto che Jackson non gli avesse mai fatto nulla di male.
Anche la madre e la sorella di Robson affermarono le stesse cose. I Robson volarono dall'Australia per il processo. Rimasero a Neverland, e Mesereau li interrogò ripetutamente. Mesereau, dopo la prima di Leaving Neverland, ha dichiarato: «Trovai Wade eloquente e simpatico. Difese strenuamente Michael. Sua madre e sua sorella lo sostennero con le loro dichiarazioni. Sul banco dei testimoni, Wade fu sottoposto a un pubblico ministero accanito. Sono scioccato dal fatto che abbia assunto una posizione così diversa rispetto a ciò che mi disse e che testimoniò in tribunale». Quando il cantante morì, il 25 giugno 2009, Robson scrisse sui social:"Michael Jackson ha cambiato il mondo e, più personalmente, la mia vita per sempre. Lui è il motivo per cui ballo, il motivo per cui faccio musica e uno dei principali motivi per cui credo nella pura bontà del genere umano. E’ stato un mio caro amico per 20 anni. La sua musica, il suo movimento, le sue personali parole di incoraggiamento e di ispirazione e il suo amore incondizionato vivranno per sempre dentro di me. Lui mi mancherà immensamente, ma so che ora è in pace e incanta il cielo con una melodia e un Moonwalk". L'Estate di Michael Jackson si fidò di lui e lo coinvolse nel 2012 nella lavorazione dello show del Cirque du soleil dedicato a Michael, il fortunato Immortal, ma in seguito lo licenziò, insoddisfatta del suo lavoro. Nel 2013 Robson, quattro anni dopo la morte del Re del Pop, affermò ex abrupto di essere stato molestato quando era bambino da Michael Jackson e intentò due cause milionarie per risarcimento dei danni morali contro l'Estate del cantante per i presunti abusi.
Nel 2017 due diversi collegi giudicanti rigettarono le accuse intentate per mancanza di prove. Secondo il giudice della Corte Superiore di Los Angeles Mitchell Beckloff, oltre all'insussistenza del fatto, il motivo alla base del rigetto delle accuse da parte del giudice è che Robson abbia atteso troppi anni per sporgere denuncia contro Jackson, addirittura il maggio del 2013, quasi 4 anni dopo la sua morte. Davvero singolare che, con questi precedenti ben noti alla stampa, il Sundance film festival, diretto dall'esperto Robert Redford, abbia accettato di proiettare un documentario che appare assai poco credibile, anche nella durata monstre di quasi quattro ore, in una ricerca fin troppo evidente della morbosità a tutti i costi.
La verità sul rapporto di Jackson con i bambini. Ma facciamo un salto indietro nel tempo al 1993, per capire meglio come sia nata la leggenda metropolitana della supposta pedofilia dell’artista, una brutta storia che si è autoalimentata nel tempo di veleni, sospetti e falsità, fino a distruggere di fatto la sua reputazione e, di conseguenza, la sua carriera. Jackson fu accusato per la prima volta nel 1993, all’apice del successo, da Evan Chandler, padre di un tredicenne, Jordan Chandler. L’amicizia tra suo figlio e il cantante fu inizialmente ben accolta da Evan Chandler, più interessato a una carriera di sceneggiatore a Hollywood che a quella di dentista. L’uomo cercò di sfruttare l’amicizia del figlio con il Re del Pop per ottenere finanziamenti per la realizzazione di quattro film, di cui aveva già scritto le sceneggiature, ma il cantante, su suggerimento dei suoi consiglieri, non cedette mai alle continue richieste di denaro. La prospettiva di veder sfumati i suoi sogni di gloria, unita alla gelosia per il rapporto sempre più solido tra Jordan e Michael, che l'aveva sostituito come figura paterna, convinse il dentista a mettere in piedi un piano ben congegnato per ottenere denaro dalla popstar, con l’accusa più infamante per un benefattore di bambini: quella di aver abusato sessualmente di suo figlio. Chandler senior chiamò un avvocato senza scrupoli, Barry Rothman, per intentare una causa per la custodia del figlio e, successivamente, per intavolare una lunga trattativa con i legali del cantante, avanzando una richiesta di venti milioni di dollari per risolvere la vicenda senza intentare una causa civile. Nel libro Redemption, Geraldine Huges, allora segretaria legale dell'avvocato Rothman, parlò senza mezzi termini di estorsione. "La mia posizione è che Michael Jackson sia innocente per quanto riguarda le accuse di molestie sessuali e mi baso su fatti che avvalorerò nel corso del libro", ha scritto la donna nell'introduzione del libro. "Ho visto comportamenti, ascoltato dichiarazioni e letto documenti che erano più rivolti a pianificare un elaborato piano di estorsione che a perseguire la giustizia". La vicenda si risolse con un accordo extragiudiziario con la famiglia, di cui in seguito lo stesso Jackson si sarebbe pentito, versando un assegno da 22 milioni di dollari per chiudere in fretta la questione su pressione della sua casa discografica, che non voleva ripercussioni sul tour in corso di Jackson. Il cantante spiegò così la sua decisione: "Ho chiesto ai miei avvocati se potevano garantirmi che sarebbe stata fatta giustizia. Mi hanno risposto che non c'è garanzia per ciò che un giudice o una giuria possono decidere. Perciò ho deciso che dovevamo fare qualcosa per mettere fine all'incubo. Io e i miei legali ci siamo riuniti e abbiamo preso la decisione unanime di chiudere il caso". L’avvocato dell'artista, Tom Meserau, ha confidato: “E’ vero che per lui erano spiccioli, ma fu un errore gravissimo, creò un precedente e qualcuno deve aver pensato, perché lavorare se si possono estorcere quattrini a Jackson? Michael fu consigliato male dal suo staff, la cui unica preoccupazione era quella di perdere somme di denaro, magari essere costretti ad annullare gli spettacoli per via del processo”.
Il processo Garvin Arvizo. Ancora più infamanti le accuse rivolte anni dopo da Gavin Arvizo, un tredicenne che Jackson aveva aiutato a guarire dal cancro. Arvizo accusò il Re del Pop di abusi sessuali sull'onda dell’eco mediatica creata dallo speciale televisivo Living with Michael Jackson del giornalista britannico Martin Bashir, andato in onda il 3 febbraio. Un perfetto esempio di cattivo giornalismo, nel quale, con un sapiente taglia e cuci di immagini e di spezzoni di interviste, fu messo in cattiva luce l’ex bambino prodigio dei Jackson Five. Il processo iniziò il 31 gennaio 2005 e terminò il 13 giugno dello stesso anno, quando la giuria emise un verdetto unanime di "non colpevolezza" per tutti i quattordici capi d'accusa. La notizia dell’assoluzione di Jackson fu data dai media in modo fugace, per loro è sempre stato colpevole e, a quanto dimostrano gli ultimi accadimenti, lo è tuttora. Michael Jackson, che ha espresso tutta la sua rabbia nei confronti delle fantasiose ricostruzioni giornalistiche sulla sua vita privata nella corrosiva Tabloid Junkie, ha dichiarato: “La tecnica che usano i giornali è molto semplice: se continui a raccontare una bugia assurda, il lettore, a un certo punto, comincerà a pensare che sia vera”. La giornalista Aphrodite Jones seguì il processo per conto della Fox. Riteneva anche lei colpevole il Re del Pop, ma in seguito cambiò idea e scrisse nel 2007 un libro, dall'inequivocabile titolo Il complotto. “Quando in quell’aula – rivela la giornalista – il giudice pronunciò per 14 volte non colpevole, guardai Jackson in faccia e mi resi conto che la sua espressione era quella di un uomo grato, soddisfatto che giustizia fosse stata fatta, perché non era colpevole. Lì cambiai idea”. Il cantante, pur sollevato da quelle terribili accuse, ne uscì distrutto dal punto di vista psicologico e artistico. Il suo fisico non ha retto a una dose eccessiva di Propofol, la sostanza che, incautamente somministrata dal suo medico curante Conrad Murray (condannato per omicidio colposo), l’ha ucciso il 25 giugno del 2009.
L'eredità artistica del Re del Pop. Oggi, a quasi 10 anni di distanza dal tragico evento, non c’è praticamente artista r&b contemporaneo, da Pharrell Williams a Robin Thicke, da Bruno Mars a Justin Timberlake, che non si ispiri apertamente al pop visionario e senza confini di Michael Jackson. Il suoi passi vengono insegnati nelle scuole di danza moderna, i suoi album, sia di repertorio che postumi, vendono ancora migliaia di copie e ogni anno il numero dei suoi fan cresce in modo esponenziale. Tutti sanno che appartiene a lui l’album più venduto della storia, il capolavoro Thriller, con cento milioni di copie (anche se alcuni sostengono che siano in realtà 66 milioni, comunque il primato non cambia), un numero che continua a crescere di anno in anno. Un record meno conosciuto, ma ancora più importante, è quello certificato dal Guinnes dei primati di maggior filantropo nello show business, con quasi quattrocento milioni di dollari donati in opere di beneficenza e di filantropia, in particolare ospedali e orfanotrofi. Ci auguriamo che il prossimo 25 giugno, decimo anniversario della morte del cantante, sia un giorno in cui sarà celebrata in tutto il mondo la genialità artistica di Jackson, senza sterili polemiche su accuse che sono già state ampiamente smentite nel corso di un processo.
Michael Jackson, al film di accuse "Leaving Neverland" risponde la famiglia con un contro doc. I nipoti per ribattere alle accuse di abusi sessuali contro l'artista contenute nel film di Hbo "Leaving Neverland", hanno deciso di prendere le difese di Michael attraverso un nuovo documentario, scrive Giulia Echites il 5 aprile 2019 su La Repubblica. Hanno risposto al documentario con un altro documentario: la famiglia di Michael Jackson, per ribattere alle accuse di abusi sessuali contro l’artista contenute nel film di Hbo Leaving Neverland, ha deciso di prendere le difese di Michael attraverso un nuovo documentario, della durata di trenta minuti e pubblicato su Youtube, Neverland Firsthand: Investigating the Michael Jackson Documentary. Con la partecipazione del giornalista australiano Liam McEwan (che è pure produttore), contiene interviste a Taj e Brandi Jackson, nipoti del musicista scomparso nel 2009. Il punto di partenza è il 1993, anno in cui per la prima volta un ragazzino di tredici anni, Jordan Chandler, accusa la pop star, all’apice del successo, di violenza sessuale. L’anno successivo la causa intentata si chiude con un risarcimento di 23 milioni di dollari ricevuto dalla famiglia Chandler, atto che molti per parecchio tempo hanno considerato come un'ammissione di colpa da parte di Michael Jackson. "I soldi che la famiglia ha ricevuto non sono mai arrivati da Michael Jackson, ma dalla sua compagnia di assicurazione": nel documentario McEwan raggiunge telefonicamente Scott Ross, investigatore privato coinvolto nel processo a Jackson. "Non hai mai fatto un incidente d’auto? Anche se dici che non è colpa tua l'assicurazione decide di fare quel che vuole" dice Ross. Il documentario quindi va avanti cercando di dimostrare quanto sia usuale per un personaggio famoso essere citato in giudizio, si fa riferimento a Britney Spears, si sente la voce di Will Smith che elenca le cause in cui è stato coinvolto. Nel 2005, poi, Michael Jackson viene giudicato non colpevole di nessuno dei sette casi di abusi sessuali su minori per i quali era stato nuovamente denunciato. Quindi si arriva a gennaio 2019, al nuovo documentario diretto da Dan Reed con le testimonianze di James Safechuck e Wade Robson che sostengono di aver subito violenze sessuali all'interno del Neverland Ranch quando avevano rispettivamente 7 e 11 anni. Gli eredi di Michael avevano prima definito il docufilm "un massacro da tabloid" e poi hanno denunciato l’emittente televisiva Hbo con l'accusa di aver violato una clausola di non diffamazione scegliendo di mandare in onda, lo scorso 3 e 4 marzo, Leaving Neverland. Ora però hanno voluto partecipare attivamente al film che mette in discussione quanto già raccontato. Taj Jackson, nipote di Michael, si rivolge direttamente ai protagonisti di Leaving Neverland e alla domanda diretta sul rapporto che avesse suo zio con i ragazzini, Taj spiega come Michael rivivesse attraverso loro l'infanzia che non ha mai avuto: "Era sempre chiuso in uno studio di registrazione, a me e ai miei fratelli chiedeva come andassero le feste di compleanno. Era curioso". Quanto alle lettere che Robson e Safechuck mostrano nel documentario, in cui Jackson si firma 'Uncle Dudu', Taj spiega che decine e decine di ragazzi hanno le stesse note, compreso lui e i suoi fratelli: "Era così, se credeva che le sue parole potessero essere fonte di ispirazione scriveva lettere per tutti. Non c'è niente di strano". E lo stesso tono difensivo ha nel nuovo documentario la nipote di Michael, Brandi Jackson. Neverland Firsthand arriva su Youtube dopo che importanti stazioni radiofoniche neozelandesi e canadesi hanno messo al bando la musica di Michael Jackson, in seguito all'uscita del documentario di Hbo, e al contrario altri, personaggi più o meno famosi, si sono sentiti di difendere la pop star: la hanno fatto ad esempio Barbara Streisand dicendo che i bisogni sessuali di Michael Jackson erano “i suoi bisogni sessuali” e uno scrittore inglese, Mike Smallcombe, autore della biografia Making Michael, il quale avrebbe trovato prove che confutano quanto detto dagli accusatori nel documentario.
ORCO JACKO. Giuseppe Videtti per “il Venerdì di Repubblica” il 5 giugno 2019. Il caso Michael Jackson non si è mai chiuso. Anzi, si riapre ciclicamente. Quest' anno in maniera anche più inquietante. Non solo per i fan innocentisti, ma anche per chi credeva che la morte avesse garantito alla star, se non la pace eterna, almeno una onorevole tregua. A guastare le celebrazioni del decennale della scomparsa (il 25 giugno 2009) è arrivato Leaving Neverland, il controverso documentario di quattro ore girato dal regista inglese Dan Reed e prodotto dalla Hbo (trasmesso in Italia da Canale 9), con le testimonianze choc di Wade Robson e James Safechuck, oggi adulti e padri di famiglia, che raccontano come Jackson avrebbe abusato di loro da quando avevano sette e nove anni fino all' adolescenza. Leaving Neverland, per la sua narrazione rigorosa e angosciante, ha di nuovo gettato ombre sinistre sulla personalità del re del pop, per due volte assolto dai tribunali americani dall' accusa di abuso su minori, dopo ritrattazioni e accordi extragiudiziali raggiunti a suon di decine di milioni. Ovviamente non saranno le proteste della famiglia a cancellare i dubbi né tantomeno l' annunciato lungometraggio realizzato in fretta e furia per arginare l' ignominia. A rafforzare la convinzione diffusa - anche tra psicoterapeuti e psichiatri di fama - che quelle di Leaving Neverland non siano fantasie, il 6 giugno esce in Italia Su Michael Jackson (66thand2nd, pp. 160, euro 16), una scrupolosa indagine sociologica, psicologica e fenomenologica che Margo Jefferson - 71enne scrittrice afroamericana, premio Pulitzer per la critica, autrice della rinomata autobiografia Negroland - pubblicò negli Usa nel 2006, quando la vita e la carriera del divo, stremato dalle vicende giudiziarie, dal linciaggio mediatico e certamente anche perseguitato dai suoi fantasmi, erano allo sbando. Non è l' ennesima biografia non autorizzata alla John Randy Taraborrelli, che nel 2004 aveva dato alle stampe le impietose settecento pagine di The Magic and the Madness, e neanche una di quelle sconcertanti pubblicazioni post mortem tipo Unmasked: The Final Years of Michael Jackson, con cui il giornalista investigativo canadese Ian Halperin raccontò con un tempismo sospetto (luglio 2009) un sordido, degradante e precoce finale di carriera (e di vita). Il doc Leaving Neverland non scredita, anzi aggiunge sostanza alle considerazioni raccolte da Margo Jefferson, anche se, in occasione dell' uscita italiana del libro, l' autrice ha voluto scrivere una nuova introduzione che sarà anche a corredo della nuova edizione americana. In verità il documentario di Dan Reed ha costretto i più autorevoli biografi di Jackson a riconsiderare le proprie posizioni e/o aggiungere nuovi capitoli alle loro storie; è quanto stanno facendo anche Joseph Vogel (Man in the Music), Diane Dimond (Be Careful Who You Love) e Steve Knopper (The Genius of Michael Jackson). «In Leaving Neverland, un documentario tremendo nonostante la sua pacatezza, due uomini di trent' anni, lo sguardo fisso sulla cinepresa, descrivono gli anni in cui da bambini hanno fatto sesso con Michael Jackson. Usano quest' espressione piatta, "fare sesso", e lo farò anch' io» scrive Jefferson. «Raccontano, quasi con stupore, quanto lo amassero, o meglio quanto lo adorassero, aiutandoci a capire quanto e quanto spesso l' abuso sessuale contempli un bambino che ammira un adulto autorevole - cioè un bambino che si affida, che ha bisogno e che forse è innamorato di quell' adulto. Molestia e abuso sono due parole dure e inequivocabili, ma spesso inseparabili dalle lusinghe e dalle ambiguità della seduzione; nel cervello e nel corpo del bambino questo genere di sentimenti si mescolano.() Michael Jackson era una divinità della nostra cultura. () Immaginate di incontrarlo di persona. Immaginate di essere un bambino che una divinità sceglie come suo favorito». Non è indulgente Margo Jefferson verso quell' artista che in gioventù, quando era il bambino prodigio dei Jackson 5, fu anche il suo idolo. Sa che è stato picchiato e vessato psicologicamente dal padre Joseph «e ci sono voci insistenti secondo cui, da bambino, era stato molestato sessualmente da almeno un adulto nel mondo della musica». Quindi con ogni probabilità Michael, come Wade e James, non è riuscito a liberarsi degli abusi subiti. Ma reiterare la violenza subita non è lecito né plausibile: «Quella di Michael è una favola tragica e al contempo una favola horror. C' è un predatore-seduttore che si finge il protettore puro di cuore di tutti i bambini innocenti del mondo. È un potere che esercita ancora oggi sulla moltitudine di fan». Jefferson non trascura nessuno dei traumi esistenziali della star e non è dalla parte di coloro che ipocritamente considerano bambini e adolescenti asessuati e incapaci di intrecciare una relazione romantica; valuta le attenuanti, ma lucidamente conclude: «Il genio vulnerabile è stato anche uno scaltro pedofilo: questa è la cosa con cui dobbiamo fare i conti adesso, e non possiamo certo sminuirla. (). L' innocenza legale è ben altra cosa dal proscioglimento pubblico». Leaving Neverland non ha ribaltato le convinzioni di Margo Jefferson, ha però sconvolto la certezza che nel giugno del 2009 la fece sentire più leggera rispetto alle spinose questioni che tre anni prima aveva sollevato col suo piccolo e rivoluzionario saggio - sperava che la morte restituisse all' artista la sua reputazione, come tante volte è successo nella storia. «Invece ora, dieci anni dopo» scrive, «un documentario come Leaving Neverland ci mette davanti a nuove domande. Provo imbarazzo e vergogna perché all' epoca non riuscii a spingermi fino al punto di riconoscere che quest' uomo ferito era quasi certamente un predatore sessuale? Sicuramente sì. () Io tifo per Wade e James affinché possano ottenere il più alto risarcimento legale ed economico possibile». Il mea culpa di Margo Jefferson va letto però come un eccesso di zelo più che come denuncia della propria codardia; il quadro psicologico che aveva tracciato nel 2006 era già sufficientemente allarmante: «È un uomo buono o un predatore? Un protettore di bambini o un pedofilo? Un genio rovinato o una celebrità che vuole rimanere al centro dell' attenzione a qualunque costo? Un divo bambino che ha paura di invecchiare o uno psicotico/freak/perverso/sociopatico? E se fosse tutte queste cose insieme?». I codici per interpretare i simboli, le conseguenze della auto-repulsione razziale e di quell' isola pre-sessuale che fu Neverland, di cui Jackson fu fiabesco castellano e orco a capo di un grottesco modello di famiglia allargata, sono perfettamente aderenti a quelli forniti da Wade e James. Come acuta è l' indagine sulla famiglia canterina dove tutti sono vittime non solo dell' abusivo papà Joseph, ma soprattutto dell' immensa popolarità di Michael, perché «un bambino prodigio rende insopportabile la vita degli altri otto fratelli che senza di lui non avrebbero alcuna importanza». Quanta confusione e schizofrenia in tutti quegli slittamenti di identità e di genere, in quell' applaudito infrangere delle leggi razziali che fecero seguito alla prima rinoplastica del 1979, quando aveva ventun anni, e ai successivi, progressivi sbiancamenti dermici! Cos' era alla fine se non un Frankenstein costruito con pezzi di Elvis e Diana Ross, della regina del burlesque Gypsy Rose Lee e di Little Richard, di Fred Astaire e Liz Taylor? Ora che le bugie dell' uomo e le menzogne dello star system sono state smascherate, resta la questione cruciale, quella che Margo Jefferson aveva già azzardato nel 2006 e che oggi, mentre alcune emittenti radio cancellano la musica di Michael Jackson dai palinsesti, si ripropone: è possibile separare l' arte dalla vita? «Sono tutti provvedimenti a breve termine» scrive l' autrice «e in alcuni casi indecorosamente ipocriti. Se la stessa misura venisse adottata per tutti i casi di sfruttamento sessuale e di abuso, la Rock and Roll Hall of Fame (che pure minaccia di prendere provvedimenti, ndr) - e molti dei suoi membri maschi e spavaldamente eterosessuali - ne uscirebbe decimata». E il mondo dell' arte - sottoposti a una fase di revisionismo morale Caravaggio e Verlaine, Oscar Wilde e Serge Gainsbourg, William Burroughs e Chuck Berry - si trasformerebbe in un cimitero di tombe anonime.
· La Parità di Genere.
Svizzera, le donne scendono in piazza: “Stipendi come i maschi”. Roberto Vivaldelli su it.insideover.com il 14 giugno 2019. In Svizzera le donne tornano in piazza per chiedere migliori condizioni salariali e maggiore rappresentanza politica. Come riporta La Repubblica, ventotto anni dopo le proteste del 1991, che portarono all’approvazione della legge sulle pari opportunità, le donne svizzere tornano a manifestare. “Indosseranno abiti viola – scrive La Repubblica – il colore della loro rivolta, esporranno alle finestre scope e grembiuli, e si asterranno dal lavoro sia salariato che non remunerato, ovvero quello domestico e assistenziale, ma anche dai consumi, dalle mail”. “Ho chiesto e ottenuto che durante la seduta del Parlamento di oggi i lavori si fermino per 15 minuti “, spiega Marina Carobbio, presidente del Consiglio Nazionale. Si tratta di “un’azione simbolica che è una forma di sostegno all’ uguaglianza di genere. Nonostante la legge sulla parità non c’ è una uniformità di fatto sui salari e sulle pensioni. Grave anche la situazione della violenza sulle donne e la scarsa rappresentanza femminile nei luoghi di potere: in Parlamento non abbiamo quote rosa, le donne sono circa il 32% e in Senato il 15%. Anche per questo, in vista delle elezioni nazionali di ottobre, mi sto impegnando a incoraggiare le candidature femminili”. Dai salari alle violenze domestiche, la retorica femminista del #MeToo conquista la Svizzera.
Nuova ondata femminista in Svizzera: “Paese sessista”. Come ricorda SwissInfo, nel 1996 è entrata in vigore la legge sulla parità dei sessi, una delle rivendicazioni dello sciopero del 1991. Nel 2002, l’elettorato svizzero ha approvato una legge sulla legalizzazione dell’aborto. Nel 2004 anche l’articolo sull’assicurazione maternità, inserito nella Costituzione federale nel 1945, ha trovato applicazione in una legge. Oggi il tema della parità in Svizzera torna in auge con questo sciopero che riprende la mobilitazione del 1991, attualizzandola nell’epoca del #MeToo imperante. La data del 14 giugno non è stata scelta a caso. Si riferisce alla votazione federale del 14 giugno 1981 che ha accolto l’articolo costituzionale sulla parità tra donne e uomini. Dieci anni dopo, il 14 giugno 1991, le donne svizzere hanno già scioperato coinvolgendo 500.000 persone in tutta la Svizzera. “Già per il 20° anniversario si era evocata la possibilità di un nuovo sciopero delle donne, ma allora l’idea non era andata in porto”, spiega Elisabeth Joris a SwissInfo. “Per riuscire, un movimento ha bisogno di una base emotiva. E quella base ora c’è. C’è un’enorme generazione di giovani donne tra i 20 e i 30 anni che ha voglia di femminismo“. Per le femministe, la Svizzera è un Paese radicalmente maschilista e sessista: “Nel 2019, chiediamo ancora l’uguaglianza e ci rendiamo conto che bisogna inglobare molto più di questo: la cultura sessista in Svizzera fa parte della normalità, è invisibile, ci siamo talmente abituate e abituati a conviverci che non ci rendiamo neppure più conto della sua presenza”, afferma Clara Almeida Lozar, 20 anni, del collettivo dell’università e del politecnico di Losanna per lo sciopero delle donne. Sempre secondo i dati forniti da SwissInfo, nel 2016, il salario lordo medio in Svizzera era di 6’011 franchi al mese per le donne e di 6’830 franchi per gli uomini, pari a una differenza del 12%. Il divario era ancora maggiore se si considera solo il settore privato, dove si collocava al 14,6%. Va però sottolineato che la maggioranza delle donne che esercitano un’attività remunerata lo fa a part-time, proprio per accudire la famiglia e dedicare tempo ai figli.
Si ferma anche la Camera del popolo. La mobilitazione è stata ampiamente supportata dalle istituzioni. Come riporta il Corriere del Ticino, la presidente del Consiglio nazionale Marina Carobbio ha sospeso stamane, poco prima delle 11.00, la seduta della Camera del popolo per consentire alle parlamentari che lo desiderano di partecipare brevemente alla manifestazione organizzata sull’antistante Piazza federale. La decisione di sospendere la seduta è stata presa la settimana scorsa all’unanimità dall’Ufficio del Nazionale. La proposta era stata formulata da Marina Carobbio e nessuno in seno all’ufficio aveva sollevato obiezioni, aveva dichiarato in aula mercoledì di settimana scorsa la stessa presidente del Nazionale. Tuttavia, alcuni rappresentati politici svizzeri sostengono che lo sciopero è stato cavalcato politicamente dalla sinistra. Andreas Glarner, dell’Unione Democratica di Centro, aveva depositato una mozione d’ordine per impedire tale sospensione. Per Glarner “lo sciopero è una faccenda privata per i gruppi di sinistra” al quale parteciperanno “donne frustrate”. A suo avviso la “stragrande maggioranza delle donne non vuole affatto questo sciopero”. Cortei con centinaia di donne si sono tenuti oggi in tutta la Svizzera, anche se la mobilitazione non può essere paragonata a quella del 1991: Losanna, Lucerna, Zurigo, Berna, Ginevra, Lugano, le manifestazioni si sono registrate in tutte le maggiori città della Svizzera. A Losanna, riporta Il Messaggero, il celebre guardiano della cattedrale che annuncia l’ora alla città, stamattina è stato sostituito da alcune “guardiane”. Una azione simbolica per ribadire che è “arrivato il tempo dei cambiamenti”.
Eleonora Bianchini per "il Fatto Quotidiano” il 13 luglio 2019. Too many suits. Troppi maschi. Che parlano, scrivono, sbandierano il loro punto di vista come se fosse l' unico degno di occupare le colonne del giornale. E così si impongono, scoraggiando le donne a fare sentire la loro voce. Non è una sintesi delle femministe contemporanee, ma il bilancio delle lettrici che il Financial Times ha sentito per capire come mai il suo pubblico fosse fatto per l' 80 per cento di uomini e le donne relegate alla riserva indiana del 20. Un divario che oggi non è solo sintomo di disuguaglianza di genere, ma un allarme di business mancato. Di fette di mercato finora sottovalutate che se incluse possono diventare fatturato, Pil, aumento della ricchezza e del benessere collettivo. In Europa e nel resto del mondo, come dimostrano istituti internazionali dall' Onu al World economic forum. Vale ovunque: dall' informazione alle imprese e alla ricerca, perché i dati dimostrano che incorporare la visione femminile significa migliorare performance e lavoro di squadra. "Le pari opportunità convengono anche agli uomini. E la diversità, dati alla mano, fa bene a tutti. Anche economicamente", sintetizza Enrico Gambardella, presidente del Winning Women Institute, ente impegnato nella certificazione delle aziende virtuose in termini di gender equality. Il Financial Times, regno dell' informazione finanziaria - che insieme alla politica è tra i settori tradizionalmente più maschili - l' ha capito ed è tra i primi nel panorama internazionale dei media. E da pioniere si è organizzato: dal 2015 ha creato un team che si occupa esclusivamente di audience engagement. A capo una donna, Renéè Kaplan, prima nello stesso ruolo a France24. La squadra ha notato che spesso le donne trovavano il tono dei pezzi sgradevole perché non includeva la loro voce. C' erano poche intervistate e opinioniste e il quotidiano era tutto sbilanciato su un eccesso di presenza maschile. Il Ft allora ha deciso di cambiare marcia anche attraverso i bot, programmi automatici che intervengono nel sistema editoriale mentre i giornalisti scrivono il pezzo e li avvertono: non hai incluso abbastanza voci femminili nel tuo articolo, le donne sono sottorappresentate. I risultati sono arrivati: più clic da parte delle lettrici, significa più abbonamenti. La strada per la parità è tutta in salita anche a Hollywood: nei film che nel 2015 hanno vinto l' Oscar, per esempio, le donne sono state sullo schermo solo per il 32% del totale con un tempo di parola del 27%. Cifre sconfortanti che trovano una corrispondenza oltre il cinema. Basta guardare alla presenza femminile tra i relatori di convegni e conferenze, dove sono spesso chiamate come moderatrici. Un ruolo in cui non esprimono pareri o punti di vista, ma sono incasellate per presentare, passare parola (agli uomini), fare in modo che il dibattito scorra senza intoppi. Li chiamano manels, ovvero male panels: incontri che non includono donne relatrici. Un fenomeno tutto negativo che ilfattoquotidiano.it vuole raccontare anche per immagini. Fate uno screenshot da mobile o da pc o una foto allo schermo e mandateci gli eventi dove le donne sono invisibili (o quasi) a sonotuttimaschi@ilfattoquotidiano.it. Li pubblicheremo sul sito. Spesso una foto è più efficace delle parole. Eppure dai giornali ai produttori di auto le aziende iniziano a capire che le donne decidono sempre di più. Tagliarle fuori significa eliminare sviluppo, crescita e possibilità di nuovi posti di lavoro. Per tutti.
Maria Elena Capitanio e quel femminismo “fuori dal coro”…Marco Lomonaco il 15/06/2019 su Il Giornale Off. Dopo il successo dell’esordio con Comunicare da leader. L’arte di convincere nell’era della post-verità Maria Elena Capitanio torna in libreria, rivolgendo il suo sguardo verso un fenomeno che ha radici profonde e che ancora oggi batte costantemente sulle pagine delle più importanti testate nazionali e internazionali. Stiamo parlando femminismo, al quale la giornalista e scrittrice dedica il pamphlet in uscita il 20 giugno intitolato La deriva del femminismo. Dalle suffragette al movimento Me Too (Historica, 2019, 183 pagine, 13 euro), con una prefazione di Francesco Borgonovo. Nel libro, l’autrice parte nella sua analisi dal movimento delle suffragette, compiendo un excursus nella storia dell’identità e della lotta femminile, condannando gli estremismi e cercando di intravedere insieme al lettore una strada dialogica e costruttiva verso l’emancipazione. Il punto di arrivo è invece un analisi di quel movimento #metoo che ha riscosso tanto successo alla nascita, per poi essere rapidamente superato. Capitanio compie dunque un viaggio rigoroso e a tratti emotivo nell’identità femminile e nella lotta per la parità dei diritti, dando spazio ad ampie riflessioni “fuori dal coro”, rompendo tabù che da anni circoscrivono il dibattito e lanciando anche audaci interrogativi sul futuro del femminismo in Italia e nel mondo.
Diritti, solo in sei Paesi al mondo è parità perfetta uomo-donna. Lo studio della Banca Mondiale. Uguaglianza piena solo in Belgio, Danimarca, Francia, Lettonia, Lussemburgo e Svezia. Italia in fondo alla classifica Ue, scrive il 28 Febbraio 2019 La Repubblica. Soltanto in sei Paesi al mondo - Belgio, Danimarca, Francia, Lettonia, Lussemburgo e Svezia - uomini e donne hanno pari diritti. È quanto mette in evidenza uno studio della Banca Mondiale pubblicato mercoledì, che evidenzia anche come, a livello mondiale, le donne ricevano solo i tre quarti dei diritti degli uomini. In particolare lo studio mette a punto un indice che è il risultato della raccolta di dati negli ultimi dieci anni nei 187 paesi con otto indicatori selezionati per misurare la parità di diritti per uomini e donne. Ai Paesi viene così assegnato un punteggio da 0 a 100, dove 100 indica il massimo livello in termini di riduzione delle differenze di genere. L'Italia si posizione al ventiduesimo posto, con un "voto" di 94,38, tra i dati peggiori in Europa ma sempre meglio di Ungheria, Germania, Cipro e Slovenia. Lo studio conclude che sono stati compiuti progressi significativi da quando la media globale è passata da 70 a 75 su una scala di 100. Inoltre, 131 paesi hanno accettato di attuare 274 riforme, adottando leggi o regolamenti per integrare meglio donne. La Banca Mondiale aggiunge che 35 paesi, come la Bolivia e le Maldive, hanno introdotto leggi contro le molestie sessuali sul posto di lavoro, proteggendo circa due miliardi di donne in più. Nel rapporto si sottolinea come per le donne sia più difficile trovare lavoro o avviare un'impresa. "Se le donne avessero pari opportunità rispetto agli uomini per raggiungere il loro pieno potenziale, il mondo sarebbe non solo più giusto ma anche più prospero", ha detto Kristalina Georgieva, presidente facente funzione della Banca Mondiale, citato in una dichiarazione. Ha sottolineato che molti paesi stanno attuando le riforme nella giusta direzione ma ancora "2,7 miliardi di donne non hanno le stesse possibilità degli uomini in termini di posti di lavoro". Troppe donne, però, devono ancora affrontare leggi o regolamenti discriminanti a tutti i livelli della loro vita professionale. Cinquantasei paesi semplicemente non sono cambiati in dieci anni. Per regione, i progressi sono stati maggiori in Asia meridionale, sebbene l'indice resti a un livello basso (58,36 rispetto a 50 dieci anni fa); seguito da Sud-est asiatico e Pacifico (70,73 vs 64,80). L'America Latina e i Caraibi hanno il secondo più alto livello di paesi emergenti e in via di sviluppo (79.09). Al contrario, la regione del Medio Oriente e del Nord Africa ha il livello più basso di uguaglianza tra uomini e donne (47,37). La Banca Mondiale rileva tuttavia incoraggianti cambiamenti, come l'introduzione di leggi contro la violenza domestica, in particolare in Algeria e Libano.
Il lavoro manca ma la Francia femminilizza il vocabolario, scrive Stenio Solinas, Venerdì 01/03/2019, su Il Giornale. Il rapporto sarà presentato ai membri dell'Académie française giovedì 7 marzo: lo si potrà emendare e poi lo si dovrà votare. Riguarda la «femminilizzazione» dei nomi dei mestieri, ma fra i trentacinque «immortali» che la compongono non c'è né un filologo né un linguista e le donne sono appena quattro. Presieduta dall'ottantasettenne Gabriel de Broglie, la commissione incaricata del problema vede però presenti due scrittrici, Danièle Salleneve e Dominique Bona e il poeta d'origine britannica Michael Edward. Già in passato l'Académie si era occupata del problema, sulla scorta della «fuga in avanti» al femminile di alcuni Paesi francofoni, il Canada in primis. Allora si era limitata ad augurare loro buona fortuna e insieme a dichiararsi contraria a ogni «barbarismo» che forzasse la struttura linguistica. Del resto, e per fare solo qualche esempio, da anni la Francia convive con la pharmacienne a fianco del pharmacien, con l'aviatrice che si alterna alla cloche con l'aviateur, con l'avocate che si spartisce i casi con l'avocat. L'uso della lingua insomma ha le sue ragioni che la ragione della lingua ha finito con il fare proprie e ciò a cui più che altro dovrebbero badare gli accademici di Quai Conti è di non sbracare con neologismi grammaticalmente infami. Fondata da Richelieu, l'Académie è, va da sé, un pezzo glorioso di storia di Francia e non saremo certo noi a negarne il prestigio e l'allure. Visto però il clima di tensione sociale, economica, politica che si respira oltralpe, l'intero dibattito rischia di assomigliare a quello sul sesso degli angeli. Si dirà che è comunque una questione di eguaglianza, il sentimento a cui i francesi tengono di più da quando con la Rivoluzione dell'89 misero sanguinosamente fine ai privilegi nobiliari. Ma è comunque un dato di fatto che da un quarantennio a questa parte il vento del «politicamente corretto» ha finito con il confondere i problemi con i proclami. Anche qui la storia dovrebbe insegnare qualcosa e se a Maria Antonietta non perdonarono l'aver pensato che le brioche potessero sostituire il pane, sembra difficile pensare che le donne francesi en colère perché en chômage, ovvero senza lavoro, possano sentirsi realizzate all'idea di potersi comunque declinare al femminile lavorativo per un lavoro che non c'è nemmeno al maschile.
· Daniela Aschieri. Quando le donne superano l’uomo.
Vittorio Feltri, nome e cognome: la donna che lo ha convinto del fatto che loro sono meglio degli uomini. Libero Quotidiano il 20 Giugno 2019. La cardiologa Daniela Aschieri, che pratica la propria professione a Piacenza e dintorni, è riuscita in pochi anni a creare il modello più avanzato in Europa per evitare le morti di infarto. Come? Ha dotato la città e la provincia di ben 877 defibrillatori cosicché la media dei decessi a causa della "rottura" del cuore ora è quattro volte inferiore rispetto a quella nazionale e continentale. Un risultato eccezionale che merita di essere pubblicizzato. La signora, prima al mondo, ha capito che i disturbi cardiovascolari gravi vanno affrontati con tempestività e strumenti idonei. E i dati statistici le danno ampiamente ragione. A me non stupisce affatto che sia stata una donna a raggiungere simile risultato. So da tempo, per esperienza personale, che ormai le dottoresse, non solo in medicina, sono di alto livello, non inferiore se non superiore a quello dei maschi. Impossibile smentirmi. Nelle università la presenza delle ragazze è maggiore di quella dei ragazzi, esse si impegnano allo spasimo negli studi e ottengono votazioni straordinarie. Segno che hanno una notevole grinta, una tigna tale da consentire loro di primeggiare. Quando poi, una volta laureate, si buttano nel lavoro, superata la iniziale timidezza (che non è complesso di inferiorità, bensì timore di sfigurare) non le ferma nessuno. C' è poco da discutere: sono brave perché serie, animate dalla voglia di dimostrare il proprio valore. Si impongono per ciò che di buono sanno fare. È una constatazione, non una manifestazione di simpatia per il genere femminile per quanto esso mi vada a genio per motivi anche estetici. Io, grazie a Dio, al momento sano di cuore, più che di testa, periodicamente mi sottopongo a visite cardiologiche: non si sa mai. E per tale tipo di controlli mi rivolgo al primario di Niguarda, ospedale di Milano che sembra l'Hotel Hilton, il quale primario è una gentile signora: Cristina Giannattasio, che ha un solo difetto, ha sposato un giornalista. Peggio per lei. A parte ciò, costei è un fenomeno di perizia e di delicatezza. Quando sono sotto le sue mani esperte mi sento in "cantiere" e le sue diagnosi mi trasportano in paradiso. Accetto le terapie nella convinzione, accertata, che siano un toccasana. Le ho confessato che fumo più che posso e si è limitata a fare una smorfia che ho interpretato quale incoraggiamento a sbranare sigarette. Io la amo, sia detto con rispetto del marito. Mi ha colpito il fatto che la professoressa si sia contornata di un nugolo di assistenti donne, una più premurosa dell' altra, perfino le infermiere sono di categoria apprezzabile. Mi cito ancora a sostegno della mia tesi in favore delle madame: soffrivo di diverticoli alcuni anni orsono. Ebbi a recarmi da una specialista gastroenterologa: si chiama Pirone. Giuro, non mi fidavo. Mi curò e nel giro di quindici giorni mi sistemò. Più patito alcun disturbo. Ovvio che adesso io abbia una predilezione per le gonnelle, ma non per motivi ludici, quanto sanitari. Sebbene debba ammettere che tra i medici di sesso opposto al mio ho trovato attrattive irresistibili. Detto ciò, scusandomi per l'abbandono, aggiungo che pure nel mio giornale vi è un gruppo di redattrici formidabili. Scrivono meglio di me, hanno studiato con tenacia, non considerano la sintassi un pregiudizio borghese, non mollano mai e sono dotate di un talento da fare invidia, e dispongono di un fisico instancabile. Mi arrendo. Il futuro e anche il presente è loro. Chissenefrega. Però c'è un però. Le cosiddette fanciulle, giovani o no che siano, si odiano l'un l'altra e si combattono: l'epiteto più gentile che si rivolgono è troia. Non fanno squadra, ma pollaio. Vittorio Feltri
· Mamme ad ostacoli.
Mamme ad ostacoli. Fare figli e lavorare? Per le donne spesso è ancora un miraggio tra costi assurdi e difficoltà burocratiche. Francesco Borgonovo il 15 novembre 2019 su Panorama. «Si dice che l’Italia sia il Paese dei mammoni. Qui, però, le mamme non hanno per niente vita facile». La giornalista Paola Setti ha appena pubblicato un libro dal titolo eloquente: Non è un Paese per mamme. Appunti per una rivoluzione possibile (All Around) e snocciola dati che fanno rabbrividire. «Secondo gli ultimi dati pubblicati a dicembre 2018 dall’Ispettorato nazionale del lavoro e riferiti al 2017, su 39.738 dimissioni registrate, tre su quattro hanno riguardato le mamme lavoratrici, cioè il 77 per cento del totale, di cui una su quattro in Lombardia». Donne che lasciano il posto di lavoro perché non ce la fanno a conciliare gli impegni con il complicato e fondamentale mestiere di mamma. Donne che spesso sono obbligate a scegliere di lasciare l’ufficio perché non hanno mezzi a sufficienza o, semplicemente, i ritmi che devono sopportare sono ingestibili, specie perché, al ritorno a casa, c’è un intero universo familiare di cui devono occuparsi. Nella metà dei casi di dimissioni registrati dall’Ispettorato del lavoro, «le ragioni espressamente riconducibili all’incompatibilità tra occupazione lavorativa e cura dei figli sono 15.825». Poi ci sono quelle che lasciano perché non hanno una rete di sostegno, cioè parenti che possano dare una mano a tenere i bimbi: 11.792, nel 2016 erano 7.469, l’aumento è notevole. «C’è chi perde il lavoro in modo eclatante» dice Paola Setti «allora può fare causa, e magari la vince, ottiene un risarcimento in denaro che finisce subito. Poi ci sono le mamme che vengono subdolamente accompagnate alla porta entro i limiti di legge. Se trovi il datore di lavoro illuminato che ti viene incontro, magari riesci a conciliare le esigenze di mamma con quelle dell’impiego. Altrimenti ti accomodi alla porta». Troppo spesso la decisione di lasciare il lavoro non dipende dalla volontà della madre di passare più tempo a casa con la prole, ma dal fatto che, alla fine dei conti, conviene di più dimettersi che lavorare e utilizzare quasi tutto lo stipendio per pagare altri che badino ai piccoli. «I conti sono presto fatti» spiega ancora Setti. «A fronte di uno stipendio quasi mai superiore ai mille euro, ne spendi almeno 500 tra tata e nido e dai restanti 500 devi togliere costi base come pannolini e prodotti per l’igiene». Le rette, in particolare, sono un salasso. «Devi essere molto povero per avere il posto al nido quasi gratis. Altrimenti, più o meno, le rette si equivalgono tra pubblico e privato, intorno ai 350-400 euro. Con punte in Lombardia e Trentino, dove la retta si aggira attorno ai 500 euro». Certo, alcune Regioni cercano di porre rimedio. La Lombardia ha stanziato 42.200.000 euro per garantire nidi gratis alle famiglie in condizioni di vulnerabilità sociale ed economica, cioè quelle con un Isee inferiore o pari a 20 mila euro l’anno. Anche nel Lazio e altrove sono disponibili misure di questo tipo, ma sempre rivolte a chi guadagna poco. In realtà, però, anche le famiglie con redditi superiori hanno bisogno di un sostegno. Del resto, i nuclei con redditi così bassi spesso possono contare su un solo stipendio, e ciò significa che uno dei due genitori può restare a casa con i bambini. Anche la nuova legge di bilancio promette miracoli riguardo le rette. Ma la sensazione è che i problemi economici delle mamme e delle famiglie - specie quelle della classe media (o di ciò che ne resta) - non saranno affatto risolti. In ogni caso, le difficoltà che incontrano le mamme non riguardano soltanto le spese eccessive. Anche chi si può permettere un nido, magari privato, una tata o una baby sitter o mille altre attività per i bimbi rischia di trasformarsi in una sorta di genitore bancomat, che si limita a sborsare ma non riesce a godersi le gioie domestiche. Il problema riguarda sia le madri sia i padri, i quali forse – almeno per quanto riguarda i ritmi di lavoro - sono ancora più penalizzati. Setti individua proprio nella collaborazione tra donne e uomini la via per la «rivoluzione possibile». In effetti, invece di scaricarsi le responsabilità l’uno con l’altro - come per altro va di moda oggi grazie ai vari movimenti contro la maschilità - i due sessi dovrebbero unirsi e combattere per ottenere più garanzie per la famiglia.
Nel frattempo, però, la lotta quotidiana è quella contro la burocrazia e le complicazioni della macchina pubblica. Anche chi ha diritto a bonus, aiuti e agevolazioni, infatti, in moltissimi casi fatica a raccapezzarsi tra moduli e carte di ogni tipo. Di aiutare le mamme a far valere i propri diritti in questo campo si occupa Sportello Mamme (sportellomamme.com), che si presenta come uno «sportello virtuale attraverso cui tutte le mamme e i papà residenti su suolo italiano possono ottenere, gratuitamente, informazioni precise, puntuali e univoche in merito a contributi, indennità e premialità statali e/o comunali in relazione al nucleo familiare». Lo ha ideato e creato Carolina Casolo, che da una dozzina d’anni lavora come consulente fiscale. «Per tante mamme» dice a Panorama «il primo problema è la mancanza d’informazione. Spesso è molto difficile capire a quali premialità e bonus si ha diritto. Avventurarsi sul sito dell’Inps, poi, può rivelarsi un’impresa». Le complicazioni sono tantissime. «Circa il 92 per cento delle pratiche di maternità obbligatoria delle mamme libere professioniste che si rivolgono a noi» spiegano da Sportello Mamme «si incaglia per perdita di documenti (come è possibile dato che la trasmissione è telematica?), per errata lavorazione da parte degli operatori, oppure per mancato riscontro del modulo per antiriciclaggio delle coordinate bancarie. Il 93 per cento delle pratiche di maternità obbligatoria di libere professioniste si incaglia e le neo mamme ricevono l’indennità anche dopo 12 mesi dal verificarsi dell’evento». Poi, ovviamente, ritorna il solito problema dei tempi e dell’organizzazione del lavoro: «Circa il 28 per cento delle mamme che si rivolgono a Sportellomamme.com subisce richieste di demansionamento o delocalizzazione al rientro dopo il parto». Tutto ciò, come prevedibile, porta «alla scelta tra dimettersi e godere della Naspi (l’indennità mensile di disoccupazione entro l’anno di vita del minore) oppure rivolgersi a un’assistenza legale per vedere tutelati i propri diritti». Sportello Mamme aiuta i genitori a farsi largo nella giungla burocratica. Offre prima di tutto un questionario gratuito: chi lo compila viene informato a stretto giro riguardo alle agevolazioni e ai bonus cui ha diritto. Quindi, a pagamento, ci sono servizi personalizzati per le mamme, che vengono seguite nei percorsi per ottenere premialità e aiuti. Già il fatto che un servizio di questo tipo esista e ottenga molto successo rende l’idea di quanto sia complicato, nel nostro Paese, fare la mamma. Se davvero si vuole combattere la denatalità, forse conviene partire proprio da qui: dai problemi che ogni giorno le donne (e gli uomini) devono affrontare per adempiere al compito più bello del mondo.
· La Mamma Femminista.
''Mamma stira, papà lavora'', l'autrice della denuncia social: ''Le famiglie non sono più così, aggiorniamo i libri per bambini'', scrive il 2 marzo Antonio Nasso su Repubblica Tv. Valentina Solari lavora come impiegata ed è la mamma di Annaluna, una bimba di sette anni che frequenta la seconda elementare in una scuola di Firenze. "Un giorno ci siamo messe a fare i compiti sul libro di grammatica e ho trovato un esercizio in cui la donna è relegata a cucinare o stirare, mentre il papà lavora o legge", racconta Solari. E proprio da lei è partita la scintilla che ha acceso i social network, con un post su Facebook contro gli stereotipi sessisti nelle mansioni dei genitori che ha avuto migliaia di condivisioni. "Sono contenta che la casa editrice abbia annunciato che cambierà il testo nella prossima edizione. Dobbiamo smetterla con gli stereotipi di genere: in fondo, io non solo lavoro ma leggo anche moltissimo e odio stirare, mentre il mio compagno cucina molto meglio di me. Uomini e donne devono poter essere liberi di scegliere".
BUFERA SUL LIBRO DELLE ELEMENTARI. Paolo Decrestina per Il corriere della Sera del 26 febbraio 2019. Il sole sorge, l’acqua scorre e lo scoiattolo rosicchia. E la mamma? La mamma non tramonta ma cucina e stira mentre il papà mica gracida, non è una rana: il papà lavora. E legge. Esercizio completato: ora sappiamo qualcosa di più sull’uso dei verbi nella grammatica italiana. La prova è per i bambini della seconda elementare e compare a pagina 118 del libro scolastico “Nuvola - Libro dei Percorsi”, un corso di letture per la scuola primaria basato sulla “didattica dei percorsi. Inclusivo, formativo, coinvolgente, multimediale, operativo”. Nello spiegare l’esercizio, il libro invita il bambino a cancellare il verbo che non è adatto: e quindi il sole che illumina e sorge, non gela — quindi si cancella gela - Il cavallo corre e nitrisce e non canta. L’acqua scorre e lava e non dorme. Quando si arriva ai genitori si scopre che i verbi adatti alla mamma sono cucina e stira (perché la riga da tirare è su “tramonta”), mentre il papà lavora e legge (e non gracida ovviamente). Questa visione della mamma a casa che svolge le faccende domestiche mentre il papà lavora e porta a casa lo stipendio e quando è di riposo legge ha scatenato una valanga di polemiche: la foto dell’esercizio è stata pubblicata su Facebook da una mamma che ha una bambina che usa il libro “Nuvola”. L’immagine è stata poi condivisa dalla professoressa universitaria di Diritto internazionale e della Ue alla Statale di Milano Stefania Bariatti: «Da non credere. Libro di seconda elementare», scrive la docente. I commenti sui social sono tanti e molto critici: «Ritorno al medioevo», «Surreale», «Libri ottocenteschi».
"Il papà lavora e la mamma...". Davvero? Scandalo a scuola: cosa c'è scritto nel libro per i bimbi, scrive il 26 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. "Da non credere" ha scritto sul suo profilo Facebook Stefania Bariatti, la mamma di un bambino di seconda elementare incredula quando si è trovata davanti al testo dell’esercizio che doveva svolgere il figlio. La consegna indicava di cancellare il verbo non adatto al soggetto che compariva accanto. Le alternative per la mamma erano "cucina, stira o tramonta", mentre per il papà "legge, lavora o gracida". Inevitabili le polemiche, le quali sono scoppiate proprio con i commenti al post e poi sui social in generale dopo che la foto è diventata virale. Non sarebbe neppure la prima volta che un utente lamenta un caso simile. Di recente, infatti, aveva fatto scalpore il testo di un bano apparso su un libro di musica di una scuola elementare che recitava: "La mamma lava, stira, cucina mentre canticchia una canzoncina. Il babbo invece gioca a pallone, fuma la pipa con il nonno Gastone". Secondo il popolo del web è assurdo che simili retaggi sessisti compaiano ancora su testi scolastici del 2019.
"La mamma cucina, il papà lavora". Polemica sul libro delle elementari. L'esercizio sui verbi per i bambini della seconda elementare ha scatenato una bufera. I commenti sui social: "Surreale", "Libri ottocenteschi", scrive Giorgia Baroncini, Martedì 26/02/2019, su Il Giornale. "Cancella il verbo che non è adatto". Questa la consegna di un esercizio sui verbi che compare nel libro scolastico "Nuvola - Libro dei Percorsi". Un'indicazione che ha creato non poche polemiche. Sì perché oltre al sole che sorge, l'acqua che scorre e lo scoiattolo che rosicchia, ci sono anche la mamma che cucina e stira e il papà che lavora. L'esercizio per i bambini della seconda elementare ha così scatenato una bufera. Nello spiegare l'esercizio, il libro invita lo studente a cancellare il verbo non adatto fra le tre opzioni indicate. E così, tra gli esempi, spuntano anche i genitori: i verbi adatti alla mamma sono "cucina" e "stira" (non "tramonta"), mentre il papà "lavora" e "legge" (e non "gracida"). La foto dell’esercizio è stata pubblicata su Facebook e condivisa da centinaia di utenti. Tra loro anche dalla professoressa universitaria di Diritto internazionale e della Ue alla Statale di Milano, Stefania Bariatti. "Da non credere. Libro di seconda elementare", ha scritto la docente. Sotto al post decine di commenti. "Ritorno al medioevo", "Surreale", "Libri ottocenteschi", hanno scritto indignati gli utenti.
Il sussidiario fuori dal tempo, scrive Manila Alfano, Mercoledì 27/02/2019, su Il Giornale. E non dite che è femminismo. È peggio. Trovare sul sussidiario usato dai bambini di seconda elementare che «il papà lavora» mentre la «mamma stira» e che «il papà legge» e «la mamma cucina» per insegnare i verbi agli adulti di domani non è questione di diritti e di equa ripartizione dei compiti. È arretratezza, è un modo di insegnare che la dice lunga sui libri di testo scelti dalle scuole. Stereotipi talmente inadeguati da sapere di vecchio. Lo dice la realtà che viviamo ogni giorno, nelle famiglie italiane, perché il modello degli anni '60 degli spot per detersivi con la casalinga vestita a modino con un sorriso da sfoderare anche quando passa lo straccio per terra si è dissolto da solo perché è stato superato dai fatti. Non funziona più semplicemente perché non è più così. Ancora prima delle battaglie per le pari opportunità, prima della lotta per gli stipendi uguali tra uomini e donne a parità di mansione. Ma intanto qualcosa si muove: è la società, con i suoi cambiamenti e i suoi risvolti. Oggi le mamme cucinano e stirano - ma lavorano anche -, così come sempre più spesso lo fanno i padri. È così, e tanti saluti a un vecchio schema che sa di stantìo. E che non lo prenda in considerazione un sussidiario che si vanta di «essere multimediale» è un grave controsenso. Che non offende perché non tange più. Quello è un mondo ormai andato, antico. Con buona pace del sussidiario che sa di vecchio e delle battaglie sotto la bandiera del femminismo ancora da vincere.
La mamma? Stira e cucina. Il papà lavora. Polemiche sull'esercizio nel libro per le elementari. Diluvio di commenti negativi sui social per il testo che propone ai bambini di scegliere i verbi più "adatti", scrive Salvo Introvaia il 26 febbraio 2019 su La Repubblica. Mentre "la mamma cucina e stira, papà lavora e legge". L'esercizio sui verbi contenuto in un libro di seconda elementare ("Nuvola - libro dei percorsi") scatena in Rete un diluvio di polemiche per lo stereotipo sessista nelle mansioni dei genitori immaginate dagli autori del testo scolastico: la donna è relegata in cucina mentre il papà è occupato a fare altro. A denunciare l'episodio, ancora più grave perché contenuto in un libro scolastico, è stata l'associazione culturale ConsapevolMente che sulla propria pagina Facebook ha pubblicato la foto "incriminata" presa dal libro. "Facciamo un gioco: scopri lo stereotipo di genere", commentano ironicamente quelli dell'associazione che combattono da anni le discriminazioni nei confronti della donna. "Poi ci chiediamo come facciamo a cadere nella trappola degli stereotipi e ci arrovelliamo su come poter evitare che le nuove generazioni finiscano nella stessa trappola. Perché siamo tutti d'accordo che è da lì, che bisogna cominciare a lavorare, giusto? Invece no, dobbiamo renderci conto ed essere consapevoli che sarà una dura lotta, perché non è vero che lavoriamo tutti nella stessa direzione". I commenti indignati sui social si moltiplicano. Per Maria Teresa Giusti "il libro andrebbe ritirato". Altri commentano con humor: "Se entrambi lavorano, chi le stira le camicie?", si chiede Antonino Romeo. Non è la prima volta i genitori scoprono esercizi "discutibili" sui libri di testo dei propri figli. Qualche tempo fa aveva fatto clamore il testo di una canzoncina per bambini inserita in un libro musicale dove una strofa recitava "La mamma lava, stira, cucina mentre canticchia una canzoncina. Il babbo invece gioca a pallone, fuma la pipa con il nonno Gastone". Mentre una mamma non riesce a darsi una spiegazione: "Libro di testo di mia figlia, seconda elementare, pubblicato nel 2017. Sono senza parole...".
I libri delle elementari, mamma cucina papà «invece» lavora, scrive Tilde Giani Gallino a dicembre 1973, pubblicato da Efferivistafemminista a luglio 2014. È stato detto più volte che la famiglia è il primo ente che condiziona il comportamento sessuale di maschi e femmine. Aggiungiamo che la scuola continua ed approfondisce, con metodo e disciplina, il condizionamento dei due sessi, già iniziato nella famiglia. Vale a dire che i genitori condizionano giorno per giorno, così alla buona e su base artigianale i loro marmocchi a diventare rispettivamente maschi virili ed autoritari oppure femmine graziose e docili. La scuola, invece, mette al servizio dell’«operazione condizionamento» tutte le tecniche e gli strumenti e l’esperienza di decenni di insegnamento. Ed in più il prestigio e l’autorità che le provengono dal fatto di possedere il monopolio dell’educazione. Può darsi che qualcuno dubiti delle nostre affermazioni. Infatti, apparentemente, da tempo è stata avviata nella scuola la co-educazione dei sessi, bambine e bambini convivono in un’unica classe, fanno gli stessi esercizi, ricevono i medesimi voti e non si ritrovano in mano la bambola e la scopa oppure il fucile, a seconda del sesso di appartenenza. Eppure, proprio nella scuola ha luogo un condizionamento sessuale e sociale più sottile ma non meno significativo, che, già nelle sue fasi intermedie, porterà la ragazza a considerarsi un cittadino di seconda categoria, meno intelligente del maschio, (salvo s’intende, le debite eccezioni), meno fortunato di lui, meno «portato» a tante cose e con meno possibilità nella vita e nella società. Insomma, un essere tale e quale agli altri, se si eccettuano tutti quei meno. Ma in quali modi la scuola, in generale, condiziona (e frustra, dovremmo dire) le ragazze a sentirsi, e diventare cittadini di seconda classe? Basta entrare in un’aula qualsiasi delle elementari per rendersi conto che, mentre i maschi vestono un maglioncino possibilmente blu, che poco ricorda una divisa, è perentorio per le bambine il grembiulino bianco. È implicita in quest’obbligo del grembiule la richiesta del conformismo: le femmine debbono essere tutte uguali, tutte con le medesime aspirazioni (ordine, pulizia, riservatezza, docilità), nessuna deve distinguersi in qualche modo dal gregge. Le cose vanno anche peggio nelle medie. A questa età i maschi sono vestiti come pare e piace, con pantaloni lunghi e corti, con giacche e maglioni o camicie. Le ragazze, invece, devono, sempre indossare un grembiule, ma non più bianco. Questa volta ci vuole qualcosa che le mortifichi in altro modo, e cioè nella loro femminilità nascente o prorompente, e nasconda e mimetizzi le forme del loro corpo. Così, per le adolescenti è stato scelto il nero, colore del lutto, della mestizia, della umiliazione. Che differenza c’è, ci domandiamo, fra le bende che i giapponesi imponevano alle loro donne per mantenerne piccolo il piede, o il velo che gli arabi fanno portare alle mogli ed alle giovinette (cose di cui noi occidentali ridiamo) ed il grembiule, bianco o nero, che pretendiamo usino le bambine e le ragazze nelle scuole? O il grembiule azzurro imposto alle impiegate nelle banche e nei pubblici uffici? Del resto, quello dell’abbigliamento non è che uno dei molti aspetti della discriminazione sessuale che viene perpetuata nelle scuole. Ci sarebbero naturalmente molte cose da dire sul comportamento degli insegnanti nei confronti di maschi e femmine. Comportamento che risente della tradizione e del condizionamento.
In breve, si può affermare che, nella classe come nella famiglia, le femmine sono sempre al servizio dei maschi. Alle une vengono di solito affidate incombenze più gentili, agli altri impegni più virili. Le maestre lodano la compostezza delle bambine, il loro ordine e la disciplina e deplorano i comportamenti «da maschiaccio». E spesso sono meno intransigenti con i bambini con la scusa che: «si sa, loro sono maschi», Anche negli orari e nelle materie si fanno differenze. Sappiamo infatti che, nelle ore di applicazioni tecniche, nelle medie, i sessi sono rigidamente separati, quasi che nelle aule del lavoro cosiddetto manuale si svolgessero pratiche magiche ancestrali. Proprio qui, in questo clima di «riservato ad un sesso o all’altro», si consumano infatti i riti per «soli uomini» o per «sole donne»: segare, martellare, costruire circuiti elettrici per i ragazzi, cucire, ricamare, cucinare per le ragazze. Anche nelle ore di educazione fisica, ragazzi e ragazze non possono stare insieme: non si sa se ciò sia dovuto al fatto che gli esercizi compiuti da un sesso sono impossibili per l’altro o se semplicemente si vuole evitare che entrambi si vedano in calzoncini corti. Ma tutto ciò è ben poco di fronte al condizionamento che viene imposto a maschi e femmine giorno per giorno attraverso i libri di testo, che sono da considerare tra i principali responsabili di quella discriminazione fra i sessi che ci costringe a vivere in una società (anticostituzionale) di diseguali: uomini che predominano e donne che si adattano. I danni più gravi li fanno certamente i testi in uso nelle elementari. Essi sono tanto più pericolosi in quanto sono messi in mano a bambini che, per la loro età, sono facilmente influenzabili e condizionabili (senza possibilità di difendersi da certi pregiudizi e senza che se ne possano rendere conto). Infatti, fin dal primo momento in cui mettiamo un libro, in mano ai nostri bambini in casa, o ai nostri allievi nelle scuole materne o elementari, noi li costringiamo ad accettare, anche sulla carta stampata, quegli stereotipi sessuali che abbiamo imposto loro dalla nascita. Non è neppure necessario che i bambini sappiano leggere. Basta sfogliare le pagine di un abbecedario per trovare le immagini stereotipe della mamma con il grembiulino (taagari con make-up, tacchi alti e messa in piega fatta di fresco) che sbriga le faccende domestiche con il sorriso sulle labbra, e del babbo che esce di casa con la borsa da professionista sottobraccio (o con la tuta blu da operaio) per andare al lavoro e guadagnare il pane per tutta la famiglia. Per constatare l’entità di questo fenomeno mistificatorio, per il quale uomini e donne vengono rappresentati in una luce del tutto sbagliata, ho voluto compiere una breve ricerca su dieci libri attualmente in uso nelle scuole elementi italiane. Non si tratta, è ovvio, di un lavoro molto ampio, tuttavia i dati ottenuti sono stati confermati da una ricerca analoga (della quale sono venuta a conoscenza a posteriori) condotta, negli Stati Uniti, su trenta testi in uso nelle scuole californiane. Ecco i risultati: il 75% circa dei racconti e delle illustrazioni nella ricerca americana, e il 74% ca. in quella italiana, è dedicato ad imprese e fatti che hanno per soggetto un uomo o un ragazzo; il 15% racconta ed illustra storie neutre di animali e vari in cui compaiono anche uomini e donne; infine, le briciole che rimangono, circa il 10%, parlano di fatti (a volte con relativa illustrazione, a volte no) che hanno per protagonista una donna o una bambina. Tuttavia, per quanto le statistiche e le percentuali siano obiettive ed al di sopra di ogni sospetto di interpretazione, non rivelano che una piccola parte della violenza psicologica esercitata sulle ragazzine. Difatti, si può sommare aritmeticamente una figura maschile ad un’altra ed una femminile alla seguente, senza dire in realtà nulla di queste illustrazioni. Esaminandole, si possono avere molte sorprese. Intanto, a proposito delle figure, occorre tenere presente che, agli occhi dei ragazzi (come degli adulti, e di conseguenza per la loro formazione e sensibilità, è molto significativo se una figura femminile è messa in secondo piano rispetto ad una maschile, se è chinata od in ginocchio di fronte ad una antagonista, se è in posizione di dover essere aiutata o redarguita da una figura maschile a carattere autoritario, protettivo o dominatore. Difatti, è di solito sotto questo aspetto che sono rappresentate le scarse figure femminili di tutti i libri esaminati (ed anche in questo senso concordano i risultati delle due ricerche). Quando poi le donne (nei racconti e nei disegni dei libri di testo) non sono in situazioni frustranti e ridicole oppure aiutate, protette, rassicurate dal maschio salvatore, sono illustrate in altri due o tre moduli, fissi ed immancabili: la Madonna del Presepe, la Befana, la casalinga, la madre. Tuttavia, parlando di «madre» non si deve commettere l’errore grossolano di ritenere che, nei libri di testo scolastici, la mamma sia vista come l’educatrice dei propri figli. In tutti i testi esaminati, infatti, la donna-di-casa-madre è sempre vista solo come quella che aggiusta calzini e grembiulini o fa torte squisite, all’educazione dei figli ci pensa papà in qualsiasi occasione, davanti al televisore, ad esempio, come in: Calcio, che passione: «Musi lunghi, quella sera, nel reparto femminile della famiglia. Papà ha annunciato: — Niente film, stasera, si guarda la partita —. Luisa torce il naso, mamma non fiata, non osa dire che avrebbe visto volentieri il film con Jean Gabin. La nonna e la mamma si dedicano al lavoro a maglia, Luisa al suo libro di lettura».
Mentre attendono, papà (l’enciclopedico) improvvisa una dotta disquisizione sul gioco del calcio dalle sue origini, con citazioni — a memoria — di Giovanni di Bardi, Conte di Vernino nel XIV secolo. È interrotto, mentre cita i Papi Leone X ed Urbano VII, dal fischio d’inizio dell’arbitro, ma il figlio maschio trova ancora modo di dare alcuni dati tecnici sulle dimensioni del campo. Segue il resoconto della partita. Solo di fronte ad un rigore «papà lascia chissà dove la sua composta riservatezza». Un’altra volta papà (mamma è rimasta a casa a cucire i calzini, tanto la poverina non sarebbe in grado di capire) conduce i figli al museo. Ci arrivano così: «Valeria appesa al braccio del papà, mentre suo fratello Franco salta da una pozzanghera all’altra». Inutile aggiungere che papà si sostituirà poi al «cicerone» quando giungerà il momento di illustrare le sculture, da Medardo Rosso a Vincenzo Gemito. Quando si tratta di andare al cinema invece, poiché non c’è di mezzo la cultura e tutti possono capire, ci portano anche la mamma, purché stia zitta. Al momento della scelta, infatti: «Mamma non disse nulla, sapevano tutti che a lei piacevano i film sentimentali». «Nel buio della sala affollata tutti si commossero alla vicenda e si soffiarono rumorosamente il naso {anche papà), le donne piansero senza ritegno, lasciando scorrere le lacrime lungo le guance». La mamma arrischia poi: «Che bel film» ed il papà ammette: «Ben dosato il colore, ben ripreso il paesaggio dei colli fiorentini, ben studiati gli interni». E poi, manco a dirlo, fa una piccola conferenza familiare sulla storia del cinema. Sembra indubbio di essere di fronte ad una mistificazione vera e propria, se non creata ad arte, certo accettata con leggerezza anche da parte degli insegnanti stessi, i quali dovrebbero rendersi conto che la realtà è ben diversa e che i loro allievi non hanno madri (e ancor meno padri) di tal genere. È opportuno rendersi conto che queste forme di condizionamento ai ruoli considerati maschili e femminili sono lesive della personalità perché ne alterano il naturale sviluppo e recano grave danno al processo di crescita dei maschi non meno delle femmine. Infatti, mentre i testi esaminati (e tutti gli altri usati nella scuola) relegano e condannano la donna ai lavori domestici, relegano e condannano al tempo stesso tutti i maschi a pesanti impegni e responsabilità di lavoro che non tutti i maschi sono disposti o capaci di accettare e fare propri. Solo pochi di essi hanno la forza fisica e morale, la «stoffa» dell’eroe, non tutti potranno sfondare e riuscire vincenti nella vita, ma la scuola ed i libri li spronano all’ambizione, a riuscire, e comunque ad una costante e stressante emulazione con gli altri, in una situazione altamente competitiva. Spesso è proprio questa situazione, tanto più grave se lo stesso sprone — come spesso succede — si ripete e rinnova nell’ambiente domestico, a creare nel ragazzo maschio il disagio ed il rifiuto della scuola e della società ed a fabbricare i cosiddetti disadattati. I quali spesso, non sono che inadeguati alle richieste formulate-dagli adulti. Quanti piccoli Franz Kafka passano ore penose sui banchi di scuola? Quanti di essi sognano di trasformarsi al mattino in un grosso scarafaggio pur di sottrarsi all’impegno della scuola o lo sogneranno più tardi per evitare l’ufficio o le gesta gloriose e virili che, in quanto maschi, li aspettano? Ma anche, vien fatto di pensare, quanti ragazzi saranno portati a considerare i padri degli inetti, degli incapaci e degli ignoranti crapuloni solamente perché, al contrario di tutti i padri di questo mondo (come sembrerà loro leggendo certi libri di testo), i loro padri non sanno chi fosse Medardo Rosso, non sanno nuotare, e pertanto non salverebbero mai la bambina incautamente caduta nel fiume, di cinema sanno solo dire che gli piacciono Franchi e Ingrassia, e infine non perdono mai la composta riservatezza di fronte ad un goal soltanto perché non l’hanno mai posseduta? Si potrebbe continuare, a lungo ed esaminare uno per uno i racconti edificanti, falsi e quasi sempre insulsi che i nostri bambini sono costretti a leggere ed imparare nei cosiddetti templi dell’educazione. Ma non variano di molto da quelli riportati. Possiamo aggiungere che, come è già stato segnalato in un’altra ricerca americana, anche il linguaggio è diverso, a seconda che si parli di maschi o di femmine. Certi aggettivi e verbi vengono usati solo per le azioni ed i comportamenti delle bambine, altri per quelli dei bambini. I maschi, ad esempio, «decifrano e scoprono», «guadagnano e si istruiscono» o «incastrano» qualcuno. Le femmine «si dibattono», «superano le difficoltà», «si sentono perdute», «aiutano a risolvere». In genere il maschio ha sempre atteggiamenti e comportamenti attivi ed abili, la ragazza è passiva e nei guai. Il complesso di inferiorità delle bambine, già accuratamente alimentato e coltivato in famiglia, non potrà che aumentare in simili condizioni, poiché appare chiaro che, nella scuola, la sua presenza è appena tollerata: le bambine se ne devono stare buone buone in un angolo, in silente ed ammirata contemplazione della parte attiva e dominatrice della società, quella maschile. Genitori ed insegnanti non se ne rendono conto, ma è proprio dopo certe letture educative che le ragazze incominciano a sospirare: «Come vorrei essere un maschio!» e non, come sostiene Freud, dopo che si sono accorte di non possedere il pene. Chi ancora fosse convinto che uomini e donne si comportano da maschio e da femmine in modo innato e che nulla o ben poco è dovuto al condizionamento dell’ambiente nei primi anni di vita, potrebbe forse fare qualche utile riflessione su questa, per quanto remota, possibilità. Che cosa succederebbe se, all’improvviso, tutti: genitori, insegnanti, testi scolastici, scuola e società, incominciassero con metodo ad educare e condizionare i maschi come sono sempre state educate le femmine? Quali potrebbero essere i risultati, nonostante geni e cromosomi? Ma, prima ancora, non sembrerebbe terribilmente noioso agli uomini un mondo in cui solo e sempre si decantassero le donne e le loro straordinarie qualità, avventure e possibilità? Pensiamoci bene. Questo è esattamente il trattamento che viene inflitto tutti i santi giorni, in tutte le scuole del mondo, a tutte le nostre bambine. E tutti lo considerano una cosa normale.
Bambini a lezione di sessismo: “La mamma cucina, il papà lavora”, scrive il 26 febbraio 2019 Lisa Pendezza su notizie.it. A volte basta sfogliare le pagine di un libro per avere la sensazione di essere stati catapultati in un altro secolo. Non stiamo parlando di un romanzo avvincente e neppure di un manuale di storia, ma di un libro di grammatica italiana proposto ai bambini delle elementari. È su quelle pagine che gli italiani di domani apprendono che la mamma cucina e stira (ma non tramonta) e che il papà lavora e legge (senza gracidare).
Il sessismo in un’Italia medievale. La notizia, diffusa su Facebook, ha fatto il giro del web. Un post che fa venire i brividi a qualsiasi donna che, consapevole di vivere nel ventunesimo secolo, abbia scelto di svestire i panni della moglie e madre perfetta, dedita solo alla cura della casa e della famiglia, per indossare quelli richiesti dalla sua professione. Raggiungendo livelli di professionalità pari, se non superiori, a quelli dei suoi colleghi maschi, in cambio di stipendi e riconoscimenti ancora troppo spesso nettamente inferiori. Ma più ancora dell’esercizio in sé a generare un senso di profondo disagio sono i commenti degli utenti – di quegli stessi adulti che contribuiscono a formare il tessuto sociale di un’Italia a dir poco medievale. Tra chi non capisce dove sia l’errore e chi reputa “molto più scandalosa la donna che nega le sue attitudini”; tra chi lo ritiene “solo un esercizio di grammatica” e chi invita le massaie del 2019 a prendere la vita con più leggerezza: “Godetevi la vita, magari mentre cucinate, fate come me… bevete anche un bicchiere di vino, magari vi rilassate”. Si naviga in un mare di sessismo e luoghi comuni che speravamo (illuse!) di esserci ormai lasciate alle spalle.
Donne che odiano le donne. E se pensate che si tratti solo dell’anacronistica opinione di uomini abituati dalla cultura del macho servito e riverito dopo una lunga giornata di lavoro (uno scenario tipicamente italico, ormai in via d’estinzione in svariati Paesi d’Europa), vi sbagliate. A difendere a spada tratta la mentalità di cui questo libro è intriso ci sono, in prima fila, proprio le donne. E finché saremo noi le prime a non vederci “nulla di male”, a credere che “è sempre stato nella natura umana che la donna si occupava della casa e dei figli e il marito a lavorare per portare i soldi a casa”, difficilmente potremo pretendere rispetto e pari diritti dai nostri colleghi e compagni, fuori e dentro le mura di casa. A poco servono le quote rose e gli slogan femministi, movimento troppo spesso travisato e che finisce per essere considerato un “mostro alimentato da donne fallite e cornificate”. Nessuna legge, nessun ispirato discorso a favore dell’emancipazione potrà mai controbilanciare il danno apportato alla società da un semplice libro per bambini, che con poche parole, con un esercizio apparentemente innocuo, getta un seme di disparità e discriminazione in menti giovani e ancora facilmente influenzabili. Contribuendo a determinare il difficile futuro delle italiane di domani.
We can do it! Ciò che ci serve è lo sguardo determinato e il bicipite, ormai iconico, di Rosie the Riveter, la donna operaia che nel 1943 ha insegnato alle americane, nel pieno della guerra, a uscire di casa e conquistare le fabbriche e il mondo del lavoro al grido di We can do it!. O forse, senza andare tanto lontano, basterebbe insegnare alle bambine a seguire l’esempio di Rita Levi Montalcini, Liliana Segre, Alda Merini, Margherita Hack e tante altre. Quanto sarebbe diverso, oggi, il mondo della scienza, della letteratura e della politica se avessero accettato di trascorrere la vita a cucinare e stirare?
Emancipazione femminile: eradicare il culto della mamma per vedere solo la donna, scrive il 20 Novembre 2015 Il Fatto Quotidiano. Qualche giorno fa è apparsa sul New York Times l’intervista tra due personaggi che hanno fatto la storia delle donne americane: il giudice della Corte Suprema (seconda nella storia a ricoprire quel ruolo) Ruth Bader Ginsburg e la giornalista femminista Gloria Steinem. Amiche di lunghissima data (entrambe oltre gli ottanta) le due donne sono legate dall’aver condiviso, su piani diversi, le stesse campagne per l’emancipazione e i diritti delle donne, in un’epoca in cui anche se laureatesi ad Harvard prime della classe, le donne non trovavano lavoro. O avevano bisogno di un uomo per affittare un appartamento o per attivare una carta di credito. Con le loro battaglie – una nelle corti l’altra attraverso i giornali – hanno creduto nel potere delle donne e nella costruzione di un loro ruolo attivo nel mondo. Nonostante ci sia ampio margine per migliorare la divisione dei ruoli nelle famiglie e per salari alla pari, in America le donne hanno ottenuto di più e per come sta andando la campagna elettorale non è più così irrealizzabile vedere una donna insediarsi in Pennsylvania Avenue.
In Italia non riusciamo ad andare oltre le quote rosa…In questi giorni è uscito il nuovo libro dell’avvocato Giulia Bongiorno, e nel suo ritratto delle donne nella società italiana sottolinea quanta sia ancora la strada da fare per smarcarsi dall’onere di far quadrare casa, famiglia e lavoro. Mentre guardavo i bambini giocare al parco, ho ascoltato ieri l’ennesimo commento di una signora che divideva con me la panchina e parlava di scuola. “La categoria delle mamme sarebbe da cancellare”. Anche lei naturalmente era mamma e in qualche modo anch’io, nel conversare, mi sono detta d’accordo. Di ritorno a casa non ho potuto fare a meno di domandarmi: è davvero scritto nel nostro destino di non riuscire a fare gioco di squadra?
Siamo noi le prime nemiche di noi stesse?” E se veramente fosse così, qual è la vera ragione? Troppo superficialmente si imputa la rivalità come causa della scarsa complicità tra donne e si riduce a barzelletta da bar la prerogativa che se una donna è bella, ovviamente attira l’antipatia delle altre. E’ quasi pensiero comune credere che per natura le donne invidino agli altri – e più degli uomini (Freud docet) – quello che non hanno.
Ammesso che possa esserci un elemento di invidia nella vita delle donne, è importante capire da cosa è originato. Provare a comprendere perché una donna con una qualità di vita media dovrebbe trovare insopportabile, odiosa, un’altra che non le ha fatto assolutamente nulla.
Si tratta, a mio avviso, di una guerra tra poveri. Per quelle donne che restano in sottrazione nel mondo che conta, il piccolo universo che vivono quotidianamente (fatto di commissioni inutili, riti consueti e monotone ore) diventa la brutta copia della vita stessa. Se a una donna togli la possibilità di educarsi, lavorare, entrare nella società dalla porta principale, affrontare le sfide e raccoglierne i successi, e le lasci come unica fonte di soddisfazione la cena delle otto e le riunioni coi maestri, quella sarà una donna che lotterà per le briciole che qualcun’altra come lei potrà toglierle. Privare la donna del piacere di una vita completa è una sconfitta per tutta la società, anche per gli uomini. Diversamente, arricchita di stimoli su più fronti – affettivo, lavorativo, personale – non spenderà più la sua energia a guardarsi le spalle e a trovare nelle altre dei potenziali concorrenti. Ma per cambiare questo scenario bisogna eradicare dal modello italiano il culto della mamma, protettrice di tutti i congiunti, l’angelo che provvede a tutto, la venere paziente che svolge mansioni, la creatura celeste che sfama gli affamati e disseta gli assetati. Il culto della famiglia interamente sulle spalle della genitrice è un modello obsoleto che va smantellato. Da metter fuori produzione quanto lo strizzatoio o la cintura di castità.
Sanremo, come buttare via 50 anni di lotte femministe in 5 minuti. Serata dedicata alle donne e, ovviamente, tutte a cantare “Viva la mamma” di Bennato, “Le donne di Modena” di Baccini e “O mia bela Madunina” perché… “la Madonna è la mamma di tutte le mamme”, scrive di Jessica Camargo Molano, Giornalista, su Wired il 9 febbraio 2018. Se un alieno ieri sera avesse visto Sanremo avrebbe dedotto una sola cosa: le donne non sono altro che delle Barbie bionde, rigorosamente vestite di rosa, che nella vita hanno un unico obiettivo, quello di diventare mamme. Durante la terza serata del Festival di Sanremo è stato messo in scena un omaggio (ma personalmente ho delle difficoltà a definirlo tale) alle donne. Un gruppo di signore ha (fintamente) interrotto Michelle Hunziker che stava intonando I maschi di Gianna Nannini e, dopo quello che sarebbe dovuto essere un simpatico scambio di battute, si è unito alla presentatrice per cantare i ritornelli più celebri dedicati alle donne. Nulla da dire sulla scelta di mettere in scena l’ennesima finta interruzione da parte del pubblico: la banalità non è certo un reato e, purtroppo, ormai ci siamo abituati anche a questo. Ciliegina sulla torta il vestito di Michelle Hunziker: quella che spero essere una sfortunata coincidenza (e non una pessima caduta di stile) ha fatto sì che l’omaggio alle donne avvenisse nell’unico momento in cui la presentatrice indossava un vestito rosa. Rosa per le donne? Ancora? E pensare che neanche la casa di Barbie è più rosa! Il vero problema, però, è stato nella scelta delle canzoni e soprattutto nelle parole di Michelle Hunziker. La cosa ha iniziato a puzzare quando due donne si sono alzate dalla platea intonando Le donne di Modena di Francesco Baccini. Di tutta la canzone, quali versi hanno scelto? “Tutte le donne di Napoli sono mamme”. Fatemi capire: Baccini elenca le personalità femminili di tutta Italia e siete andati a prendere le uniche parole in cui si associa la donna alla maternità? Una scelta infelice, ma il peggio deve ancora venire. Eh sì perché una svista si concede, ma quando un concetto è ripetuto più e più volte allora non si tratta di una svista, ma di un messaggio sbagliato che per giunta viene trasmesso dal palcoscenico più importante della tv italiana. Michelle Hunziker, infatti, ha scelto di cantare O mia bella Madunina, sostenendo che “la Madonna è la mamma di tutte le mamme” e a queste parole ha poi fatto seguito l’interpretazione corale di Viva la mamma di Edoardo Bennato. Ma è mai possibile che nel 2018 leghiamo ancora la donna al concetto di maternità? Anni di lotte e proteste per gridare a tutto il mondo che una donna è un essere umano, non un’incubatrice con gambe e braccia, non sono serviti a nulla. Una donna è donna a prescindere dall’essere madre e inserire in un medley di canzoni dedicate alle donne i ritornelli rivolti alle mamme non solo è retrogrado, ma anche offensivo per chi non ha figli. Pur non essendo madre, non mi sento certamente meno donna di Michelle Hunziker che, invece, di figli ne ha 3. Ciò che rende una donna tale non è certamente la maternità e se ancora non ce ne rendiamo conto significa che, purtroppo, di strada ne dobbiamo fare ancora tanta.
Miti da sfatare: chi ama essere madre e moglie non può dirsi femminista? Scrive Benedetta Pintus il 28 gennaio 2015 su Pasionaria. Continuano le nostre riflessioni dedicate agli stereotipi più comuni rivendicati dalle “Donne contro il femminismo”, un gruppo italiano che ricalca le orme del noto blog Women against feminism. Questa volta ci rivolgiamo a chi sostiene che il femminismo esclude le donne che amano essere femminili o dedicarsi al proprio marito e ai propri figli. “Non ho bisogno del femminismo perché io amo essere una vera donna! Mi piace cucinare per il mio uomo e pulire la casa”. Lo ammetto, le cose che non sopporto sono tante. Ma una che mi manda davvero in bestia è sentir parlare di “vere femministe”. Potrei infuriarmi quasi più di quando provano a spiegarmi chi sono le “vere donne”. Come se ci fossero dei requisiti precisi da rispettare per poter essere considerate “autenticamente” femmine. Hai un fisico da modella? Mi spiace cara, lo sanno tutti che le vere donne hanno la cellulite e le smagliature. Sei fuori! Ti piace andare in giro senza trucco e con le scarpe da ginnastica? Bella mia, non ti hanno mai detto che per essere vere donne bisogna mettersi il rossetto e il tacco 12? Sei fuori! Sei nata sprovvista di vagina ma ti senti comunque una donna a tutti gli effetti? Ti piacerebbe! Per essere vere donne è necessario avere un ciclo mestruale ed estrogeni indemoniati in circolo. Sei fuori! Ridicolo, no? Una persona è donna semplicemente perché lo è, punto e basta. Nessuno può stabilire quando e in che condizioni possiamo sentirci appartenenti a un genere sessuale. Così come nessuno può decidere come vivere questa appartenenza e ciò che ne consegue. Lo stesso identico discorso si può applicare al femminismo. La definizione è una: il femminismo è un movimento che chiede equità, rispetto e diritti per le donne in ogni ambito della nostra società. Chiarito questo, nessuno può stabilire come deve essere una femminista. E tantomeno come dovrebbe apparire per sembrarlo. Molte donne critiche verso il femminismo sostengono di non appoggiarlo perché amano essere femminili, vestirsi in modo sexy e farsi belle per il proprio uomo. Bene: sappiate che tutto questo non contraddice in alcun modo le tesi femministe. Il femminismo, per come lo intendiamo noi, lotta proprio perché le donne si sentano libere di essere se stesse, e ovviamente le donne non sono tutte uguali, così come non lo sono le femministe. Una donna può tranquillamente lottare per i propri diritti anche in lingerie di pizzo. Così come può farlo in tuta, in tailleur, con il mascara o senza. Diffidate da chi pensa che le femministe debbano avere un preciso identikit! Fuggite a gambe levate dagli stereotipi! Perché anche i modi in cui si possono perseguire gli obiettivi femministi sono innumerevoli. Conosco femministe che marciano in prima fila alle manifestazioni, certo. Ma anche tante altre che portano avanti le loro battaglie tra le mura domestiche o sul posto di lavoro, senza grandi proclami. E non sono meno importanti delle altre, sono solo meno visibili. Perché ogni piccolo gesto fa la differenza. Quindi, anti-femministe dichiarate, usate tutte le scuse che volete, ma non veniteci a dire che non avete bisogno del femminismo perché vi piace essere madri, mogli e casalinghe. Il femminismo non ha mai deprecato la maternità, il matrimonio o il lavoro domestico. Ha solo rivendicato la possibilità di poter scegliere liberamente e non essere costrette dalla cultura patriarcale a essere esclusivamente madri, mogli e casalinghe, perché ogni altra strada era preclusa. Sognare di sposarsi, amare e rispettare il proprio marito, mettere al mondo marmocchi e fare le faccende domestiche sono scelte di vita personali e legittime, che ogni donna – femminista o meno – è libera di fare come e quando crede. Truccarsi e vestirsi in modo sensuale – anche solo per far felice un maschietto – o cucinare una cenetta con amore al proprio fidanzato, è cosa buona e giusta se lo desiderate (sapete che non odiamo gli uomini vero? Ne avevamo già parlato qua!). Perciò, sì, si può essere femministe femminili. E anche madri femministe, mogli femministe e casalinghe femministe. Non lo erano forse tutte le nostre nonne e bisnonne che hanno lottato con le unghie e con i denti per guadagnarsi uno spazio nel mondo del lavoro o per permettere alle loro figlie femmine di studiare e di costruirsi un futuro a misura di donna che a loro era stato negato? Noi ne siamo convinte e invitiamo tutte le mamme e le mogli che ci stanno leggendo a raccontarci le loro piccole grandi storie femministe! Sono una casalinga o una femminista? Posso essere tutte e due?
Parole madri. Ovvero come conciliare maternità e femminismo, scrive Fulvio Bertamini su quimamme.it. Lottare per i diritti delle donne ed essere mamma è una condizione complessa. Come incide l'impegno politico nel rapporto con i figli? Un saggio di Monica Lanfranco dà voce a chi ha vissuto le due esperienze. "Parole madri. Ritratti di femministe: narrazioni e visioni sul materno" (Marea editore), l'ultimo saggio della giornalista e scrittrice Monica Lanfranco, analizza un tema davvero poco indagato. Quali opportunità, difficoltà, condizionamenti esistono quando l'impegno politico che richiede il femminismo militante si coniuga con la maternità? "L’emancipazione di una donna dagli stereotipi di genere", chiede (e si chiede) Lanfranco, "come cambia in relazione alla decisione di avere un figlio o una figlia?". L'autrice, che ne ha due e parla per esperienza diretta, sa che in questi casi i nodi si ingarbugliano. Che, paradossalmente, è più facile condividere i temi della relazione/scontro fra generi che avere una visione comune sul materno. Qui "la teoria e la pratica femminista diventano terreni molto faticosi. Più conflittuali, emotivamente devastanti, empaticamente complessi". Come affrontarli?
Parole madri, la voce alle donne. Una materia così articolata, per definizione, non ha né può avere un'unica chiave di lettura. Monica Lanfranco ne è perfettamente consapevole. E costruisce il suo viaggio all'interno dell'esperienza materno-femminista dando voce alle attiviste. Dodici interviste nelle quali emergono certo i temi dell'impegno politico, ma soprattutto viene narrato il vissuto delle persone. Per farlo, la giornalista utilizza uno stile fluido e accattivante, che rende il saggio di facile lettura. Ecco alcuni dei passaggi più significativi di "Parole madri". Con le voci delle protagoniste.
Eleonora Bonaccorsi. "Credo, spero, ne ho la convinzione, sono quasi certa (ride) che mio figlio non crescerà come mio fratello, al quale ho sbucciato gamberetti per una vita solo perché ero la femmina. O come mio zio che in casa aveva la nonna che gli filtrava (anche da adulto) per ben due volte la spremuta, perché gli davano fastidio le tracce della polpa. Credo che Lorenzo rispetterà di più le donne, ma avrà anche una visione più aperta rispetto a quella che è l’educazione sentimentale".
Laura Cima. "Quanto alla prima figlia, nata quando ero la rivoluzionaria che buttava all’aria tutto, sin da quando era nella mia pancia, lei è stata la mia forza. Mi sono resa conto che avevo dentro un’energia enorme, con la quale ribaltavo tutte le cose che non andavano bene: dal mio matrimonio al rapporto con mio padre, alle visioni del mondo oppressive nelle quali ero cresciuta, dove contavano solo i beni e le certezze piuttosto che i rapporti profondi".
Marina Cinieri. "Quando mio marito mi comunicò che sarebbe andato a lavorare e vivere a Napoli ci accordammo per una separazione tranquilla e consensuale. Saremmo andati da un’avvocata insieme e nostra figlia avrebbe seguito il padre, perché a Napoli c’erano quattro cugini nel palazzo dove avrebbe abitato con il padre, con le zie e la nonna. Napoli è una città meravigliosa dal punto di vista culturale: io avrei potuto offrire solo una grande casa, molte ore di lavoro lontana da casa, una babysitter, di certo brava, ma il resto sarebbe stato il vuoto. Fu così che decisi che preferivo che lei si innestasse in una radice culturale di maggiore ospitalità, altruismo, umorismo e capacità di cogliere gli aspetti umani delle relazioni".
Vicky Franzinetti. "C’era stato sicuramente uno scontro tra la maggioranza di quello che c’era fuori e quello che lui (il figlio, ndr) vedeva in casa, il che secondo me è importante (...) Una volta, tornando a casa, furibondo, dall'asilo, mi aveva detto: 'Devi sapere che non tutti i papà cucinano e non tutte le mamme escono di casa per andare a lavorare!'. Un’altra volta, aveva circa 7 anni, eravamo in Gran Bretagna e c’era con lui il suo amico Cristopher. Ho sentito che lui diceva all’amico: 'So che le ragazze son tutte cretine ma in questa casa non possiamo dirlo'”.
Paola Lanzon. "Appena ti nasce un figlio non sei più solo una donna, diventi una mamma, tutta un’altra cosa per il mondo. A quel punto ti si riversano addosso non solo tutti gli stereotipi che riguardano l’essere donna, ma arrivano anche quelli collegati al tuo nuovo ruolo di mamma. Da subito ho avuto un istintivo rifiuto di questo modello stereotipato (...). Così come un uomo quando diventa padre continua ad essere un uomo che però ha un figlio, io mi sono stretta con forza alla mia identità di persona, di donna che ha anche un figlio".
Beatrice Monroy. "È complicato: da una parte il femminismo mi ha formata come donna (...) dall’altra parte c’era (...) anche la figura femminile tradizionale siciliana. (...) Come dice talvolta mio figlio, io sono anche una a’mamma, ovvero una mamma raddoppiata, un concentrato di sicilitudine eccessiva e di accudimento che scatena dei meccanismi di mancanza, di sottrazione di libertà, per me stessa e per gli altri. Questo è stato il motore del combattimento dentro di me durante il periodo dell’educazione dei miei figli, così come nel mio stare insieme a loro".
Rosangela Pesenti. "Non sono stata una madre solo torte, più una da vogliamo anche le rose. Ma certo intorno a me non c’era molta solidarietà. Dopo che è nato il mio secondo figlio tutti si aspettavano che la smettessi di fare l’attivista, di andare alle riunioni. E il fatto che tenessi insieme tutto, lavoro, figli, casa, associazioni, veniva guardato con disapprovazione. Non c’era nessuno solidale vicino a me, tranne il mio compagno, che però non poteva darmi un aiuto concreto. Sembravano piuttosto aspettare che io crollassi in qualche modo, invece ce l’ho fatta: oggi sono orgogliosa della ragazza che sono stata. E sono grata ai miei figli per essere diventati uomini che posso stimare".
Agnese Prandi. "Madre femminista con bimba piccola significa anche mettere sotto la lente ciò che faccio io, le mie scelte. (...) Quindi io per prima devo essere coerente. (...) Per me è stato importantissimo farle capire perché son tornata a lavorare dopo che è nata. E quando una maestra le ha chiesto perché la mamma l’aveva mandata a scuola, lei ha risposto che la mamma doveva lavorare per avere i soldi per mandarla a scuola, ma anche che ‘la mamma ha bisogno dei suoi spazi’. (Sorride). Ovviamente questa è una frase che ha capito e sentito da me, perché per me è importante farle capire tutto questo".
Daniela Rossi. "Qui entra in gioco il mio essere animale. In questo campo sono stata proprio un animale semplice, sano, assolutamente femminile. E mi è venuto naturale, in modo totalmente slegato da qualunque teoria, accudire il cucciolo, esserci, faticare per questa nuova creatura, senza che ciò mi pesasse, anche se non sono andata al cinema per molto tempo, anche se per molto tempo non ho avuto spazio per me stessa. Ho vissuto il periodo della maternità come una festa animale, di un animale che si riproduce, senza toccare la femminista che è in me".
Nadia Somma. "I modelli esterni son fortissimi e passano. Un esempio: mia figlia vive in una casa dove vede il padre cucinare, stirare, caricare la lavatrice, stendere: le stesse cose che faccio anche io. (...) Però un giorno siamo salite in auto con suo padre, io mi sono messa alla guida e mia figlia dice: 'Mamma, perché non guida papà?'. (...) Le ho chiesto perché facesse quella domanda, visto che mi vedeva sempre guidare. (...) Ma quel sembrarle strano il mio ruolo, all’improvviso, è anche il frutto del lavaggio del cervello che la cultura patriarcale provoca, attraverso l’inconscio collettivo, il non detto, la pubblicità, i modelli della tv e dei media, i social, il simbolico, i luoghi comuni. Siamo immersi nel mare di stereotipi sessisti, anche quelli in apparenza meno aggressivi, ma forse per questo più pervasivi".
Federica Tourn. "Spero che questo passi ai miei figli: che il femminismo migliora la vita per tutti, per tutte, e non è una battaglia contro. È sì, un movimento contro alcuni aspetti negativi della concezione delle relazioni, ma è soprattutto costruzione, la concretezza della vita, il corpo pensante".
Lorella Zanardo. "Sto cercando di dare a entrambi (i figli, ndr) la stessa educazione. Ma ammetto che, mentre le raccomandazioni valgono per entrambi, sento di avere più paura con lei. Si tratta della mia paura, cerco di non passargliela, di non fare distinzioni. Però resta il fatto che lei è una giovane donna e che c’è molto concretamente la preoccupazione per ciò che le può capitare e la necessità di non intaccare la sua libertà con questa apprensione motivata. Bisogna imparare a convivere con questa emozione discordante, la paura per la sua sicurezza e la necessità di dare importanza alla sua libertà. Non è facile". Fulvio Bertamini
«Doveva proprio capitarmi una madre femminista?» Così inizia il dialogo…, scrive Giovanna Pezzuoli il 25 settembre 2015 su Il Corriere della Sera. Un'esperienza che ha trasformato milioni di donne e non pochi uomini si può trasmettere? Racconto a più voci di un percorso sorprendente dalla metà degli anni Sessanta ad oggi. «Doveva proprio capitarmi una madre femminista?» Così inizia il dialogo…Ma doveva proprio capitarmi una madre femminista? Provocazione che più o meno significa: una madre che non è sempre disponibile quando ne ho bisogno perché perennemente impegnata a fare altre cose (e magari domina anche papà…). Da questo disagio nasce un dialogo, un’opera collettiva, un lavoro durato sette anni che è una sorta di lunga lettera per raccontare alla figlia ragioni e sentimenti, emozioni ed eventi che hanno trasformato la vita della madre. Il libro – «Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua», edito da Il Poligrafo – è scritto a quattro mani da Marina Santini e Luciana Tavernini, ma vi confluiscono le esperienze di tante donne e qualche uomo che in testi brevi raccontano episodi, commentano foto inedite, rievocano scoperte, lotte e fatiche sempre partendo da sé. E ripercorrono cinquant’anni di storia italiana.
Essenziale è stata la supervisione di Silvia, la figlia 27enne di Luciana. Che racconta: «Il libro l’ha corretto almeno tre volte. Faceva dei cerchiolini: mamma, meno palle ideologiche e più ciccia. E dire che a noi sembrava già di essere ben poco ideologiche! Comunque ne abbiamo sempre tenuto conto, e anche delle opinioni delle altre donne. Ognuna diceva la sua, per alcune non emergevano abbastanza i conflitti…».
Anche il rapporto madre-figlia appare pacificato, dopo gli sbuffi e le lamentele iniziali, soprattutto ripensando (ma forse il paragone è un po’ arbitrario) al bell’epistolario «Tra me e te» di Mariella Gramaglia & Maddalena Vianello, che squadernava contraddizioni e conflitti non facilmente risolvibili. Spiega ancora Luciana: «La narrazione vuole essere un suggerimento, non dare ricette. La madre avverte la difficoltà di parlare con la figlia e chiede aiuto all’amica che le propone la mediazione del libro-lettera. E lentamente la figlia comincia a dialogare con la madre, che a sua volta la lascia libera di confrontarsi con altre donne autorevoli…». Se si supera l’apparente mancanza di sistematicità, si coglie l’atmosfera unica di quegli anni ’70, ’80, una sorprendente varietà di esperienze travolgenti, che si alimentavano di pensieri, emozioni, corpi, tutto intrecciato, giorni e notti, lavoro e vacanze…Non c’è alcuna intenzione di «censire» un movimento che ha coinvolto milioni di donne, o di farne un monumento, chiariscono le autrici, che lavorano con la Comunità di storia vivente di Milano. C’è invece il desiderio di uno scambio fra generazioni, esplorando rapporti con altre e altri in un percorso che dalla metà degli anni ’60 ci accompagna fino ad oggi.
Un lungo cammino, sollecitato dalle domande delle allieve degli allievi dopo aver visto la mostra «Noi utopia delle donne di ieri memoria delle donne di domani. Quarant’anni di storia del movimento delle donne a Milano». Una partitura in quattro parti, dedicate alle parole, al corpo, ai luoghi e al lavoro. Si comincia dalle «Parole per dirlo», come suggeriva il libro di Marie Cardinal, per liberare il linguaggio da incrostazioni soffocanti: erano i primi anni ’70, si diffondeva la pratica dell’autocoscienza e in molte abbandonavano i gruppi misti, mentre si buttano via i reggiseni e si organizzano le 150 ore per le casalinghe di Affori con lo slogan «più polvere in casa e meno nel cervello». In «Noi e il nostro corpo», un tema che tocca amore e sessualità, si attenua il timore di fraintendimenti nel dialogo madre-figlia: la memoria, che non diventa mai uno sterile «come eravamo», va ai tempi in cui si sperimentavano le autovisite con lo speculum di plastica e la contraccezione era roba da pioniere. Gli adulteri creavano ancora scandalo e contro l’aborto clandestino si firmavano le autodenunce, che Emma Bonino teneva chiuse nella cassaforte del Cisa. Nasceva a Roma nel 1976 il primo centro anti-violenza funzionante 24 ore su 24 ed emozionava il documentario su un processo per stupro mandato in onda dalla Rai nel 1979.
Ed ecco «Le tre ghinee», come s’intitolava il libro di Virginia Woolf che dimostrava la necessità dell’indipendenza economica, dell’istruzione e della creatività femminile: così battezzavano la loro libreria le Nemesiache di Napoli, che nel 1976 organizzarono la prima rassega europea di film di registe. Dall’amicizia femminile, dalle coabitazioni fra donne traeva alimento quella pratica del fare che si traduceva in centinaia di imprese. Case editrici come «La Tartaruga» creata nel 1975, mostre come «L’altra metà dell’avanguardia» ideata da Lea Vergine nel 1980. Tornano in mente «Quotidiano donna» (in edicola dal 1978 al 1981) e gli asili autogestiti, i festival di cinema musica teatro e la rete italiana delle librerie. E poi quel sentirsi al centro del mondo nei grandi cortei, a partire dalle 20.000 donne che sfilarono a Roma l’8 marzo del 1972.
«Cara mamma», è l’incipit dell’ultimo capitolo, «Immagina che il lavoro» dove la figlia prende la parola raccontando le sue scoperte durante una serata di discussioni dopo un incontro cittadino. Insieme al suo compagno, a un’amica cassiera, una mamma manager, una giovane sociologa e un sindacalista. Miscela esplosiva per un confronto sul tema del lavoro che c’è e non c’è, che può diventare part-time (ma non son solo rose e fiori), che si vorrebbe meno rigido e invasivo per poter dedicare più tempo e attenzione a se stesse e alle persone amate. In un continuo andirivieni fra passato e presente: c’è il ricordo di Marisa Bellisario, una delle prime manager che mise da parte i pregiudizi sperimentando il lavoro flessibile, accanto al racconto del disagio provato oggi da un uomo che rientrando dal suo congedo di paternità viene guardato dall’azienda quasi come un traditore. Nella grande varietà delle scelte possibili, anche quelle più estreme che sembrano far tornare indietro, come l’adesione alla «Lega del latte materno» dove le donne sottraggono la propria energia creativa e il proprio talento al mercato per fare le mamme a tempo pieno. Ricordando sempre che se si passa dal sogno dell’amore al sogno del successo si resta fregate un’altra volta. E che forse se non viene rotto quell’invisibile tetto di cristallo che impedisce l’ascesa ai luoghi di comando c’è qualcosa di più prezioso della carriera a cui le donne non vogliono rinunciare. Commento finale: cara mamma, ti sei accorta di come sono cambiata? Che ne dici? Sono forse diventata femminista?
Cara mamma, il femminismo non è quello che tu speravi. Il dialogo tra Mariella Gramaglia e la figlia Maddalena Vianello ripercorre quarant’anni di storia e difficoltà del movimento, scrive Tonia Mastrobuoni il 19/02/2013 su La Stampa. È sufficiente accendere la televisione per rendersi conto che le donne italiane continuano ad essere plasmate da un immaginario deprimente e caricaturale, che sembra volerle arruolare solo come seduttrici, per usare un eufemismo. Una tendenza aggravata dall’esperienza del berlusconismo che con il suo corollario di olgettine, ammiccamenti e Rubygate ha finito per schiacciare le donne in un inferno non solo sociologico, ma anche estetico, che le costringe a rimandare disperatamente l’arrivo della vecchiaia. Come è possibile questa deriva, dopo 40 anni di femminismo? Il dialogo epistolare tra una femminista storica, Mariella Gramaglia e sua figlia, Maddalena Vianello (Fra me e te, Et Al edizioni), non poteva che partire da qui, da quella che potrebbe sembrare la metonimia di un fallimento. Ma è chiaro che la deriva in atto nulla toglie alle conquiste di Gramaglia, cresciuta in un paese in cui alle donne non era neanche consentito fare le magistrate, figuriamoci le ministre della Giustizia. Gramaglia appartiene a una generazione che su tutto, il corpo, il sesso, il ruolo in famiglia o al lavoro, la funzione nella vita pubblica, persino i centimetri di tacco, ha intrapreso battaglie per liberare le donne, e spesso le ha vinte. Tuttavia il problema, le scrive la figlia Maddalena, è che «le donne della tua generazione sono partite con il machete per affrontate la giungla». Se il sentiero che hanno aperto non viene battuto di continuo, se la guardia non resta alta, chiosa Maddalena, «la natura si riprende quello che le è stato sottratto. L’erba cresce, i rovi si chiudono...e un bel giorno il sentiero non c’è più». E oggi, conclude con grande lucidità, è difficile non riconquistare quel sentiero senza strappi con gli uomini. Tuttavia, se il sentiero tracciato dal femminismo degli Anni 70 si è riempito di rovi, non è solo perché alle generazioni successive sia mancata la continuità, la costanza o la coerenza. C’è stato un riflusso, indubbiamente, a partire dagli Anni 80. Tuttavia il problema della regressione è anche economico e sociale, ed è su questo che si concentra molta della dialettica tra Gramaglia e la figlia. Con alcune divergenze che diventano spunti di riflessione molto interessanti. La generazione che si è affacciata al mondo del lavoro dalla fine degli Anni 90, il decennio che ha avviato la precarizzazione del lavoro senza fornire strumenti di tutela adeguati, ha avuto dinanzi nuove sfide. La generazione di Maddalena, che ha superato i trenta, tende a vivere la maternità come un traguardo difficile, perché combatte quotidianamente con la cosiddetta flessibilità che, cronicizzata, si traduce in una totale mancanza di orizzonti. Difficile non riflettere, dunque, sull’attuale, disgraziata polarizzazione del ruolo delle donne, costrette spesso a scegliere tra lavoro e maternità e quindi spesso prive, anzi, private dei figli. Le donne italiane sotto i 40 sono costrette insomma non solo a riconquistare pezzi di emancipazione - liberazione, si diceva una volta -, ma devono anche partecipare ad una lotta generazionale nuova, quella per il diritto ad avere un futuro e, perché no, una famiglia. Alcune delle pagine più interessanti dello scambio epistolare sono quelle in cui Maddalena affronta la madre su quella polarizzazione donna-madre che forse preesisteva al precariato, che forse è anche culturale. «Essere una donna emancipata e impegnata implica rinunciare a vivere la maternità e concepire la vita familiare come fosse una condanna?» chiede. E non è solo un interrogativo biografico, è un grido generazionale, lo stesso di quando Maddalena accompagna la madre alle manifestazioni di «Se non ora quando» e qualcuno si avvicina timido alla madre, qualche ragazza più giovane che non ne conosce la straordinaria biografia. Maddalena ha un impulso, «ha fatto me!». Il rimbrotto arriva immediato, da una compagna più anziana, «tua madre ha fatto ben altro». Quello che va forse ricordato è che nel 1971 le donne ottennero una legge straordinaria, un vero e proprio piano quinquennale per gli asili nido che avrebbe fatto fare un enorme salto in avanti alle politiche di conciliazione italiane, tuttora tra le più arretrate d’Europa. Quel piano è rimasto più o meno sulla carta. C’era ben altro a cui pensare, purtroppo.
Nuova Domesticità: e se le donne decidono di tornare in cucina? Donne colte e preparate per la sfida lavorativa decidono consapevolmente di evitarla: solo così pensano di poter avere tutto davvero, scrive Angela Frenda 1l 18 aprile 2013 su Il Corriere della Sera. E se avessimo sbagliato tutto? Se mentre cercavamo di sfondare il soffitto di cristallo (peraltro senza riuscirci) la soluzione era girare i tacchi e tornare a casa? Magari a cucinare, aprire un sito di crafting o una società di cupcake? Una provocazione. Ma non per Emily Matchar, autrice del libro Homeward Bound, che tradotto suona più o meno come “dritto a casa”. In America, dove è uscito da poco, ha aperto un confronto serrato. Forse perché ha toccato un tema particolarmente sensibile dietro il quale si nasconde un fenomeno sociale in crescita: centinaia di 30/40enni colte, sposate e realizzate, ma disilluse dal lavoro, stanno scegliendo, consapevolmente, di tornare a occuparsi della casa e della famiglia. Non solo: su questa decisione molte di loro stanno creando un business. Basta vedere il successo di Etsy, il sito di vendita online di oggettistica artigianale che è oramai il principale datore di lavoro di orde di mamme “artiste”, che qui esprimono la loro creatività con il ricamo, la maglia o il decoro, per di più guadagnandoci. Insomma, sembrano lontani i tempi in cui Lisa Belkin (era il 2002) sul Nyt coniava il termine “opt-out revolution” per descrivere il fenomeno delle tante donne deluse dal mondo del lavoro che stavano scegliendo di rientrare in casa “lasciando” qualcosa. Ma il nodo, appunto, è che tutto veniva vissuto come un ripiego. Il passo avanti, invece, secondo Matchar, è che adesso donne colte e preparate per la sfida lavorativa decidono consapevolmente di evitarla: solo così pensano di poter avere davvero tutto. E’ la New Domesticity, la Nuova Domesticità. Di cui tutti, negli Usa, stanno discutendo, ribattezzandola anche (un po’ ironicamente) “femminismo cupcake”. Già, perché molte di queste donne, oltre a decantare le potenzialità della nuova casalinghitudine (anche in termini economici), sono spesso (neo) femministe convinte che questa, e non la soluzione precedente, esprima davvero la femminilità autentica. Una sorta (mi si scusi il paragone azzardato) di pensiero della differenza elevato al cubo. E così anche il New Republic, con Ann Friedman, ha raccontato perché pr di Brooklin all’apice della carriera mollino tutto per produrre sciarpine colorate da vendere online. O come mai avvocatesse dell’Upper East side abbandonino lo studio associato per cucinare crostate (con frutta rigorosamente biologica) da portare alle feste dei bambini. Il motivo? Matchar non ha dubbi: “A questa nuova categoria di donne non possono essere applicate le vecchie rimostranze delle femministe rispetto alle casalinghe, considerate donne senza identità, o spesso accucciate all’ombra dei prorpi mariti. Qui stiamo parlando di donne, invece, che riescono a pagare gli affitti di casa o le rette scolastiche anche solo vendendo i loro lavori su Etsy. O con i proventi delle loro imprese di catering gastronomico”. Le femministe, secondo Matchar, hanno svalutato i lavori domestici, come il cucinare, “ma non sono riuscite a inventare una famiglia a due carriere che funzioni”. Ci è riuscita la New economy, che testimonia il successo (per ora) di questa nuova tendenza. Le nuove femministe-casalinghe, dunque, considerano il recupero del ruolo di madre come un punto focale del loro intendere il femminismo. Dove la nuova domesticità è intesa come una valida, creativa e politicamente potente scelta femminista. Basta leggere le interviste ad alcune di queste mamme casalinghe realizzate dal New York Magazine per convincersi che forse tutti i torti non hanno: la 33enne Kelly Makino, ex dirigente marketing oggi mamma fulltime specializzata oggi nelle torte multistrati, è più o meno felice di me? D’altronde, Giuseppina Muzzarellli, storica medioevale dell’Università di Bologna, per il ciclo “Convivio a tavola tra cibo e sapere” (organizzato dalla Fondazione Corriere della sera) lo ha spiegato molto bene al pubblico del Piccolo Teatro Grassi nella sua lezione di lunedì scorso su “Donne e cibo”: “Le donne in cucina per secoli hanno aggiustato le relazioni che le riguardavano: prendendosi cura dei famigliari ammalati, rinfocolando gli abbracci, o perfino uccidendo. La cucina, da perimetro di reclusione, si profila così come luogo di azione… Fino a diventare strumento per la faticosa conquista di un ruolo pubblico, cucinando e scrivendo di cucina fino all’imposizione di un canone letterario”. Ha ragione, Muzzarelli. Ma forse proprio su questi temi tradizionali c’è anche uno stereotipo da scardinare: cucinare, occuparsi della casa o dei figli, se scelto consapevolmente, non può e non deve essere criticato “a prescindere”. Invece accade. Basta vedere quello che è successo sul Nyt per il necrologio nella rubrica Obituary sulla scienziata aerospaziale Yvonne Brill: oltre a ricordare che è stata tra le prime, negli anni 40, a occuparsi di quel settore, l’autore ha anche aggiunto che “faceva uno straordinario manzo alla Stroganoff, ha seguito suo marito in tutti gli spostamenti lavorativi e si è presa 8 anni di pausa dal lavoro per crescere i suoi 3 figli”. Le accuse di sessismo sono fioccate, come gli attacchi su Twitter. Alla fine almeno quel manzo alla Stroganoff è sparito dall’edizione online, come fosse la peggiore offesa per una donna…Beh, di tutto questo la scrittrice e regista Nora Ephron avrebbe riso di gusto. Magari mentre preparava la sua indimenticabile (anche per Nathan Englander) torta di mandorle.
Contrordine femminista: le donne in cucina. La pioniera del movimento inglese Rosie Boycott si pente: basta lotte per l’emancipazione, ora invita mogli e single a tornare a un ruolo tradizionale. Pranzi in ufficio, cene veloci e silenzio a tavola: così con il fegato si rovina anche la famiglia, scrive Manila Alfano, Venerdì 27/04/2007, su Il Giornale. Era ieri. La mamma, la chiesa, a modo e per bene. Era tutto quello che le femministe non volevano, il loro antimodello. Quello che aborrivano, quello da cui scappare, testarde e orgogliose. Scendevano compatte in piazza per urlare: «noi no, indietro non si torna». Proclami e promesse, ossessioni e allergie per un mondo che sapeva di vecchio e sorpassato. La giornata ordinata, scandita dai pasti loro la snobbavano. Il tempo della rivincita parlava chiaro: manicaretti, camicie stirate, faccende domestiche, tutta una perdita di tempo. C’era l’affermazione personale, la rinascita dell’identità femminile: emancipata, nuova, al lavoro. L’appuntamento a tavola con la famiglia intanto era scivolato sempre di più nell’oblio, sgretolato da un tempo tiranno. Una colazione veloce, un pranzo che diventa uno snack da sgranocchiare in ufficio, una cena arrangiata dopo corse al supermercato tra le corsie dei surgelati. Era ieri che la cena take away faceva tanto mamma in carriera, una chiccheria da status sociale a doppio reddito. Era ieri appunto. Oggi invece le cose sono cambiate. È la stessa Rosie Boycott che nel 1970 nel suo magazine femminista inglese, Spare Rib, scriveva contro ogni singolo minuto passato ai fornelli, oggi ci ripensa e sul Guardian ammette: «Per il nostro modo di pensare cucinare era da per persone frivole e pericoloso politicamente. Ma ci sbagliavamo». Il sentimento che resta è la nostalgia. La Boycott si chiede se il prezzo che le donne, e gli uomini, pagano al post femminismo non sia troppo alto. Si chiede se questa è vita, se l'emancipazione della madre e della moglie dai fornelli non rovini fegato, pancreas e apparato digerente di chi sopravvive nelle metropoli, cattedrali dell'economia virtuale. «Mia madre - racconta - era un tipo che anticipava i tempi. Evitava di insegnarci a cucinare. Lei stessa si rifiutava di farlo. Io sono cresciuta con questa cultura, cucinare per me significava precludersi le strade degli uomini, quelle vincenti». Sotto accusa torna la famiglia di questo squarcio di secolo, senza più un fulcro, senza un'identità, con padri e madri che arrancano per dare un equilibrio al bilancio familiare, per far tornare conti e tempi, scappando, correndo, navigando qua e là, con l'utopia di non perdersi nulla. A pagare sono soprattutto le donne, cariche di sensi di colpa e divise tra l'etica del lavoro e quella della maternità. «La maternità - spiega l’onorevole Federica Rossi Gasparrini presidente nazionale Donne europee Federcasalinghe - è ancora la prima causa di abbandono del lavoro per le donne, una su cinque lascia dopo il primo parto, colpa degli orari di lavoro, scomodi e troppo lunghi». È l'eredità di modelli organizzativi pensati per gli uomini, per un'altra era e mai ridefiniti. Il femminismo insomma ha cambiato i ruoli, il problema è che il mondo non si è adeguato. Lo slogan del nuovo femminismo dovrebbe essere questo: non si può fare tutto. Il prezzo da pagare è la qualità della vita. La classica famiglia borghese è andata in pensione e il mestiere di casalinga è un lusso che solo poche fortunate si possono concedere. È questa la realtà e sembra un paradosso. Resta per tutte le donne di questa generazione di famiglie in bilico una stupida domanda: ma non c'è una terza via?
La cucina è mia e me la gestisco io! (Ma la lavatrice non la vuole nessuno), scrive il 9 settembre 2015 Margo Schachter su lacucinaitaliana.it. Da regine della casa, per forza, alla cucina come luogo di creatività e affermazione – unisex. Ma la vera parità dei sessi è tutta nella lavatrice. La donna come regina della casa è un’immagine da copertina di La Cucina Italiana anni Cinquanta, ma non è andata in soffitta insieme a ricordi vintage. La metafora non è certo nuova, visto che risale addirittura alla Grecia di Senofonte (è sì, il primo a inventarsi questo modo di dire è stato lui …), e non ci ha abbandonato nella stragrande maggioranza dei casi. A pensarlo sono il 77% degli italiani, nel 2013 e non più duemila anni fa circa, secondo un rapporto di Manageritalia su dati AstraRicerche. E se non bastasse che ben l’88%, sia di uomini che di donne, sono concordi che le questioni domestiche siano delegate al lato femminile della famiglia.
Imperatrici della roba sporca. Regine della casa? Più che altro imperatrici del cesto della roba sporca, di lavastoviglie e ferri da stiro. Secondo l‘Eurostat infatti nelle case degli Italiani il 58,3% dei maschi non cucinano, ma è già un risultato visto che il 98% non lava i panni e non stira. Che gioia, l’ondata di femminismo negli anni Settanta invocava la parità dei sessi da ogni punto di vista, invece ci ha lasciato in mano lo scopettone e aperto qualche volta però le porte della cucina (che puliremo noi) ad un marito che ha visto troppe puntate di Masterchef.
Le cucine spariscono. Se gli uomini cucinano di più di un tempo, più per passione che per dovere, è certo che si cucini però tutti statisticamente di meno, diventando prede del banco surgelati. I dati presentati dall’ Istat nel 2014 basati sul censimento 2011 mostrano persino un restringersi della zona cucina in favore del soggiorno, o meglio un fondersi dei due ambienti. Tre quarti delle abitazioni hanno cucina abitabile, ma il dato è in calo, mentre crescono del 7,9% gli angoli cottura. In Valle d’Aosta e nella Provincia di Trento sono senza cucina separata ben il 25% delle case, molto meno del 10% nel Meridione. Cucine all’americana che fioriscono, di pari passi a pizze surgelate, insaccati in busta, piatti pronti, take away…
Il mito del locale hobby. È tramontato il mito della cucina abitabile, del tinello o della sala da pranzo un po’ come è tramontato il mito della sala hobby, qualcosa che a metà del secolo scorso era assimilato tanto quanto all’idea di benessere, di progresso, di vita familiare moderna. Donne in cucina e uomini in garage o in cantina, nel loro spazio di virilità all’interno delle mura domestiche. Oggi la cucina è diventato la nuova sala hobby unisex – scrive Camilla Baresani sul numero di Dispensa (progetto di Martina Liverano dedicato per Marina Rinaldi alle Storie di donne e di cibo). Le cucine moderne degli anni Cinquanta, con elettrodomestici nuovi fiammanti come frigorifero e lavatrice non erano altro che il volto femminile delle sale hobby al maschile, fatte di attrezzi da falegname, fabbro, piccolo bricoleur. Un mondo di colori pastello, pranzi e cene cucinate con amore durato per poco nel dopoguerra perché “Nel frattempo mutavano le esigenze e gli orari del mondo del lavoro, e i mariti cominciavano a non tornare a casa per pranzo, si fermavano nelle trattorie, nelle osterie, nei bar, nelle mense, nelle tavole calde, on ciò creandosi nuove occasioni di incontro e di flirt”. E la vita delle casalinghe divenne immediatamente più noiosa, solitaria, ripetitiva e poco gratificante, soprattutto quando i mariti cominciando a mangiare fuori e assaggiando qualcosa di nuovo, cominciarono a fare paragoni… “Fu proprio in quegli anni che si passò dal quadernetto liso di mamma e di nonna all’acquisto di ricettari, che vennero mano a mano riempiti di pagine con foto e ricette strappate dai rotocalchi”.
Rivendicare la lavatrice. Evoluzione sociale, bisogno di denaro per far quadrate i budget familiari, troppo tempo a disposizione, ma anche le donne finirono nel vortice del mondo del lavoro, fatto di soddisfazioni professionali, stanchezza, fretta: nel mentre i supermercati offrivano pratici cibi precotti, dall’aria esotica e persino i bambini preferivano le merendine alle torte di sempre. Oggi sembra di essere tornati un po’ indietro, complice la crisi e lavori poco soddisfacenti, le donne sono tornate nelle cucine, volenti o nolenti, e si è tornati in parte a cucinare perché è l’unica, o la sola cosa, che si riesce a fare bene e con piacere. Non più una gabbia dorata dove governare ma “un’allettante attività creativa, tecnologica, culturale che costringe a competere con i maschi di casa per conquistare il comando dei fornelli”. Perché in molte case non ci contende più il telecomando, ma il roner, l’affettatrice, l’ovetto o l’impastatrice, scrive la Baresani – e “La cucina è mia e me la gestisco io diventa lo slogan, o il sogno della contemporaneità”. Ma avremo passato il tetto di cristallo solo quando ci si contenderà la lavatrice e si reclamerà il potere sulla propria lavastoviglie.
Mamma stira e cucina? Meno male! Scrive l'1 marzo 2019 Cristiano Puglisi su Il Giornale. “Mamma stira e cucina”. Oddio, apriti cielo. Sono bastate queste parole in sequenza, comparse in un banale esercizio grammaticale per bambini su un libro di testo scolastico, a scatenare polemiche inimmaginabili sul presunto sessismo del sussidiario in questione. Polemiche alimentate anche dalla frase “Papà lavora e legge”, che compariva poco più sotto. “Scandalo!”, hanno subito gridato gli alfieri del politically correct. Scandalo? Eppure, nella mente di chi qui vi scrive, ricorrono i ricordi di frasi ed esercizi dal contenuto del tutto simile del periodo scolastico. E non si parla di 50 o 60 anni fa, al più di 20. E, all’epoca, sembrava del tutto normale che una madre potesse stirare e cucinare, oltre ad avere un lavoro, senza che le prime due attività dovessero escludere necessariamente l’altra e, anche quando questo fosse accaduto, senza vederci nulla di offensivo. Probabilmente però, chi oggi ritiene (a ragione) di essere “normale” nel considerare altrettanto “normale” questa frase, non considera i mutamenti sociali avvenuti negli ultimi decenni. Mutamenti per cui è “normale” che un attore maschio salga sul palco della notte degli oscar in gonna gender-fluid ed è “anormale” che una madre possa, per l’appunto, svolgere le faccende di casa. Una società in cui è “normale” che le madri lavorino tutto il giorno, facciano le manager perennemente attaccate al cellulare e staccate dalla famiglia ed è “anormale” che mettano al mondo figli prendendosene cura, pretendendo il giusto riconoscimento per un ruolo fondamentale, quello di essere le garanti della sopravvivenza e della proiezione futura di una comunità (e qui vanno applaudite quelle parti politiche che suggeriscono di concedere uno “stipendio” alle casalinghe). Una società in cui è “normale” passare le proprie giornate fagocitati da un illimitato egotismo da selfie, intenti a condividere su Instagram anche le foto dei funerali dei propri cari ed è invece “anormale” il desiderio di una vita fatta di solidità con casa, lavoro o famiglia stabili (illuminanti sono l’irrisione collettiva del “posto fisso” e l’esaltazione continua del nomadismo abitativo e professionale). Purtroppo però di anormale c’è soltanto questa società malata, patologica, investita dalla nube tossica della mefitica imago mundi di elites che non è assolutamente scorretto identificare come sataniche, diaboliche, demoniache. E quindi? Quindi, per sconfiggerle, per consegnarle alla cloaca della storia bisogna reagire. Bisogna avere il coraggio e le palle di sconfessarle con forza, anche a costo di essere additati da una maggioranza di pecore deficienti. Per cui, mamma stira e cucina? Meno male! E grazie mamma.
Salviamoci dalla retorica pseudo femminista, scrive Laura Landolfi mercoledì 22 giugno 2016 su libertaeguale.it. All’indomani delle elezioni si è scatenata la guerra a chi è più politicamente corretto. Si dirà sindaco, sindaca o sindachessa? Bisogna scrivere mamma o solo candidata? Si interrogano i giornali italiani. Non stiamo parlando di riviste e tabloid ma proprio dei maggiori quotidiani del paese. E due giorni dopo le elezioni, Repubblica decide di dedicare tre pagine alle due sindache (così non corriamo rischi) Raggi e Appendino scritte interamente da giornaliste donne. Che se avessero vinto, che so, Giachetti e Fassino invece le avrebbero scritte giornalisti uomini. Ma che vuoi i tempi cambiano. Così, con la nuova tornata elettorale il paese si scopre femminista. E questa è una notizia. In quanto tale bisogna dedicarci articoli, in quanto tale nelle riunioni di redazione le giornaliste si scatenano a proporre termini boldrinianamente corretti. E’ qui che si scopre il provincialismo di casa nostra, per cui nel voler sottolineare che non ci sono differenze, soprattutto nel linguaggio, queste differenze si marcano. Ma in negativo. Succede così che invece di parlare di contenuti si parla del nulla, che in questa improvvisa gara al femminismo le donne ghettizzino le altre donne. Succede così anche che all’interno di una articolo di Concita De Gregorio che presenta Raggi e Appendino come due madri, venga inserito un box di Michela Murgia che attacca l’uso smodato del termine mamma per indicare due politici (o politiche?), cosa che non sarebbe, a sua detta mai avvenuta se si fosse trattato di due uomini. Senza rendersi conto che ormai è proprio lo sdoganamento della vita privata dei singoli a segnare la differenza, pertanto si parla allo stesso modo, cioè a sproposito, del bacio al Gianicolo di Roberto Giachetti e del figlio di Nichi Vendola. E’ la parità bellezza. E fa male. Si citano i tacchi di Boschi e i lifting di Berlusconi, i capelli di Appendino e il parrucchino di Trump. E’ triste, ma forse una domanda su cosa sia il giornalismo in questo paese ce la dovremmo fare. Dedicare articoli e titoli all’eccezionalità dell’elezione di due donne non sottolinea forse il fatto che si tratta appunto, di un’eccezione? Eppure abbiamo e abbiamo avuto presidenti di Camera donna, direttori di giornali, presidenti di importanti commissioni, ma sindaci della capitale no, in effetti. C’è una prima volta per tutto. E’ per esempio la prima volta che due donne incinta fanno una così intensa campagna elettorale. Ma di questo non si può parlare per non essere tacciate di maschilismo. Dobbiamo essere pari a tutti i costi. Ecco, pari appunto e non uguali. Che fare un comizio al Pantheon, in mezzo alla calca, con il pancione o partorire e tornare a girare per i quartieri della città non è lo stesso che per un uomo. Che dover governare all’ombra della Mole o a palazzo Chigi o in sede Ue allattando un bambino non è lo stesso che farlo potendo tornare a casa a mezzanotte e buttarsi sul divano. Tanto di cappello a Giorgia Meloni che a Otto e mezzo dichiarava che avrebbe fatto la campagna che poteva fare, cioè saltando ogni tanto qualche comizio (conoscendo il tipo, pochi), e “la gente capirà”. E poi ha parlato d’altro. Ma anche a ministre che hanno non dovuto ma voluto accettare l’incarico a gravidanza inoltrata -e prima di Marianna Madia c’è stata Giovanna Melandri- pur sapendo a cosa andavano incontro. Non rimaniamo ancorate al mito – quello sì che sarebbe uniformarsi al maschile – della superdonna che ha quattro figli, cucina e lavora fino all’alba (“ma lei come fa?” chiedeva un finto giornalista alla magnifica Anna Marchesini nei panni della madre superdinamica: “Io? Sniffo!”). Invece battiamoci perché le donne che “devono” lavorare possano fare la gravidanza e la maternità che vogliono. E a proposito, le nuove sindache potrebbero segnare la differenza riaprendo l’annoso problema degli asili aziendali, e degli asili in genere. Adesso però basta con l’Accademia della Crusca, le nostre hanno altro da fare. Per esempio governare la città. Poiché nessuna delle candidate ha improntato la propria campagna rivendicando un ruolo “al femminile”. Non facciamolo noi adesso per favore.
Laura Landolfi. Giornalista. E’ stata portavoce alla vicepresidenza del Senato, redattrice del Riformista e coordinatrice redazionale delle Nuove Ragioni del Socialismo. Ha scritto sul Riformista, manifesto, Repubblica.it, D-La repubblica delle donne, e altri. È mamma e si ostina a occuparsi di teatro.
Il femminismo è misantropo, scrive Pierfrancesco Albanese il 26 Dicembre 2017 su ilsuperuovo.it. Un’attivista di Femen si immola sul presepe in Piazza San Pietro a Roma per privarlo della statua di Gesù; una rima contenuta in un sussidiario per scuole elementari fa gridare al complottismo: benvenuti nell’universo femminista. Nelle ultime 24 ore, due episodi controversi alimentano un fuoco latente in grado di ravvivarsi in tutta la sua veemenza al minimo sussulto. Circa due ore prima del tradizionale messaggio di Natale rivolto da papa Francesco ad una platea di oltre 50mila persone, un’attivista del gruppo Femen riesce a farsi spazio tra la folla e s’immola in topless nel tentativo di strappare dal presepe la statua di Gesù al grido ‘Dio è donna’, stesso slogan dipinto sulla sua schiena nuda. Fermata e arrestata dalla polizia. A poche ore di distanza è una rima contenuta in un brano intitolato La vacanza dei verbi pubblicato nel libro I verbi canterini edito da MelaMusic a destare il torpore più che momentaneo in cui s’acquietavano le polemiche: “La mamma lava, stira, cucina mentre canticchia una canzoncina. Il babbo invece gioca a pallone, fuma la pipa il nonno Gastone”. Immancabili i tuttologi da tastiera che, scatenandosi a colpi di tweet, incriminano la suddetta frase come fautrice di facili stereotipi: una donna-schiava da un lato affaticarsi nelle faccende di casa, un papà che si relaziona con la sfera pubblica mentre il nonno, dall’alto della sua piccola notorietà privata, osserva tutto con nochalance. Tralasciando il gesto sconsiderato e lapidario della militante Femen, che in evidente stato di tranche cerca di godere di un minimo di notorietà sotterrando qualunque valore di convivenza civile e dimenticandosi delle ripercussioni penali, occorre puntare l’attenzione su episodi che inutilmente vengono complicati da un reticolo esegetico che spesso si crea con funzione interpretativa, ma che finisce per assurgere alla creazione di un castello di sabbia attorno all’episodio in questione in cui appare complicato muoversi senza danneggiare la struttura.
Smentire un fondamento sostanzialmente patriarcale della società risulterebbe una forma di negazionismo impropria: lo dimostra la Roma assemblata nella familia proprio iure dominata dal pater familias e il vincolo della famiglia agnatizia; alcune forme di discriminazione nella Grecia Antica in cui l’inferiorità emergeva da tradizioni folkloristiche e miti atavici in cui la donna era considerata un essere irrazionale e ferino, come testimoniano le parole di Pericle che affermava: ‘la virtù più grande di una donna è saper tacere’; ma soprattutto la tradizione cristiana racchiusa nel pensiero di San Paolo: ‘Voglio tuttavia che sappiate che capo di ogni uomo è Cristo, capo della donna è l’uomo e capo di Cristo è Dio […] Le mogli siano obbedienti al proprio marito come al Signore […] Le donne tacciano nelle assemblee, perché non è permesso loro di parlare: siano sottomesse, piuttosto, come recita la legge.’ Assodata la tradizione storica, occorre decostruire e contestualizzare per evitare di rimanere in balia di quel vento sconquassatore che, avvolgendo uno scrittoio, faccia volare cartuscelle per tutta la stanza: le speculazioni filosofiche hanno creato un ribaltamento sostanziale nell’apparato del pensiero moderno, cosicchè l’occlusione in cui era reclusa la figura femminile ha risentito dell’emancipazione che ad oggi si può ritenere raggiunta, fatta eccezione per alcuni casi straordinari.
Quando tuttavia è l’eccezione ad essere assunta come regola fondamentale, si verifica il percorso inverso che porta lo studioso il cui tavolo è stato invaso dal vento a rincorrere le carte una ad una anziché chiudere la finestra e risolvere il problema: così l’universo femminista, alimentato da una foga esasperata e quasi anacronistica, sfocia in inutili nenie giustizionaliste rivolte a tutto lo scibile giustificandosi con inascoltabili ragioni dietrologhe celate dappertutto e, in ultima istanza, nei meandri di un pericolosissimo e diseducativo sussidiario per scuole elementari. Assecondando le correnti autolesioniste che vedono forme di complottismo ovunque, il rischio è quello di cadere in quell’immancabile politically correct che separa il mondo in microcosmi altamente selettivi in cui si evita il contatto con la parte avversa e manca la mediazione; è quello di giustificarsi nel nome di quel ‘ha iniziato prima lui’ da eterni peter pan e incanalarsi in un’ottica in cui si tutelano comportamenti riprorevoli sol perché commessi da individui che in un trapassato remoto erano considerati naturalmente inferiori. Sarebbe forse più eticamente corretto valutare in relazione a parametri di giudizio adatti ad essere plasmati a seconda del caso in questione, assolvendo o biasimando senza lasciarsi influenzare da quell’atteggiamento risarcitorio che cuori fin troppo sopraffini riservano ad individui che cercano di trasporre in un malandato presente i drammi di un passato consumato. I rischi sono quelli di gettarsi in una guerra perenne rimarcando le ormai antiquate differenze di genere o riversarsi in un’assenza di criticità in relazione ad episodi gravi come quello accaduto in Piazza San Pietro per paura di destare dei sospetti maschilisti: dovremmo reindossare quegli occhiali deformanti che ci permettono di rileggere la realtà a seconda della prospettiva prima che sia troppo tardi e ci troveremo preda del fanatico di turno. Pierfrancesco Albanese
· Il futuro è donna? Sì, ma anche il passato. Le cattive ragazze del cinema muto.
George Harrison per “The Sun” il 28 ottobre 2019. Le donne edoardiane non erano così pudiche come si pensa. Queste foto risalgono al 1903, furono pubblicate in una edizione speciale della rivista americana ‘Vanity Fair’, che non aveva nulla a che fare con quella conosciuta oggi. Non si era soliti vedere gambe nude, anzi non si era soliti vedere le gambe, ben nascoste sotto lunghi vestiti perciò oggetto di mistero e desiderio. Qui le modelle le mostrano al naturale o le esibiscono in pantaloni stretti, hanno atteggiamenti maschili, bevono e fumano come uomini, vanno a letto con altre donne, si sculacciano. Le chiamavano le "biforcate", proprio perché indossavano il cavallo dei pantaloni e indulgevano in pose gay. Tra loro c’era il sex symbol Lona Barrison, attrice nota per le sue esibizioni rischiose da vaudeville insieme alle sorelle. Erano cinque bionde che ballavano, si tiravano la gonna al ginocchio e chiedevano: «Volete vedere la nostra fica?». Il pubblico pagante rispondeva di sì, e loro alzavano di più.
Il futuro è donna? Sì, ma anche il passato. Le cattive ragazze del cinema muto. Pellicole con eroine dure, sgarbate, nemiche del patriarcato. In una serie di film americani dei primi del Novecento. E il festival di Pordenone dedica loro un focus. Fabio Ferzetti il 03 ottobre 2019 su La Repubblica. Una scena di "Leontine en vacances" del 1910Un gruppo di chiassose cameriere scende in sciopero e invade la città con cartelli in varie lingue (“Abbasso i padroni”, “Strike for ever”). Ma la protesta sindacale è solo l’inizio. Decise a riprendersi ciò che gli spetta, le scioperanti vanno a stravaccarsi in un bar dove vengono servite da camerieri malmostosi rigorosamente maschi, si sbronzano come carrettieri e presto scatenano una rissa. Malmenando allegramente anche i poliziotti che tentano di ristabilire l’ordine. Per poi accanirsi in gruppo, come navigati teppisti, su quelli già a terra...Che cos’è? Un film punk-femminista? Una pellicola trash di John Waters? Il primo thriller metropolitano dell’era #Metoo? Macché, le cameriere dal cazzotto facile portano cuffiette e crinoline, le strade sono quelle di Parigi, l’anno il remoto 1906. E queste “bonnes” stufe di farsi sfruttare, che gettano in faccia al padrone di casa la cena e nell’ultima scena picchiano senza tanti scrupoli anche i loro barbuti compagni di cella, sono fra le eroine di una variegata retrospettiva dedicata alle “Nasty Women” di inizio Novecento che si vedrà alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone (5-12 ottobre) dopo il grande successo riscosso dalla prima parte di questa riscoperta, celebrata sempre a Pordenone due edizioni fa e salutata come un evento dagli esperti di tutto il mondo. Dettaglio non secondario: il titolo della rassegna nasce dall’incresciosa battuta con cui Donald Trump zittì Hillary Clinton in tv nella campagna per le presidenziali del 2016, «Such a nasty woman», Che donna odiosa. Immediatamente promosso a slogan femminista, ripreso su borse, magliette e cappellini, quindi diventato un hashtag virale su Twitter (#IAmANastyWomanBecause...), l’epiteto del futuro presidente è ormai una bandiera. Di più: uno strumento con cui rileggere il passato più o meno recente, tanto che le curatrici della rassegna di Pordenone, le statunitensi Maggie Hennefeld e Laura Horak, lo hanno scelto addirittura come titolo. «Essere una “Nasty Woman” significa rifiutare di farsi zittire e accettare invece l’eccesso di confusione inerente il genere e la differenza sessuale, impegnandosi attivamente in un nuovo movimento politico femminista», scrivono le due studiose. «Molto prima dei “pussy hat” e degli spettacoli televisivi di satira femminista mandati in onda in tarda serata, personaggi comici come Léontine, Rosalie, Cunégonde, Lea, Bridget e Tilly», alcune delle comiche protagoniste della rassegna di Pordenone, «avevano smascherato il potere patriarcale con il loro gioioso e distruttivo disprezzo per le norme sociali fondate sul genere e per il decoro imposto al corpo femminile». Si sapeva in effetti che gli anni del muto, e in particolare il primo decennio del ’900, sono stati un periodo di folli sperimentazioni e irripetibile libertà per un cinema che non smetteva di inventarsi giorno per giorno. Ma nel grande buco nero che ha inghiottito quasi per intero la produzione dei primordi, le pioniere, e le dive del comico in particolare, sono state le prime a scomparire. Chi si ricorda oggi di commedianti allora celebri come la francese Sarah Duhamel, regina del burlesque? Dell’inglese Alma Taylor, eletta attrice più famosa del regno nel 1915, mentre Charlie Chaplin dovette accontentarsi del secondo posto? O dell’italiana Lea Giunchi, cognata di Ferdinando Guillaume, in arte Tontolini, ma soprattutto protagonista negli anni gloriosi delle comiche da uno o due rulli di film intitolati “Lea in convitto”, “Lea militare”, “Lea in ufficio”, “Lea cerca marito” e perfino “Lea femminista”? Titolari di vere e proprie serie costruite sul loro talento mimico e le loro doti atletiche, non sempre le interpreti sono sopravvissute ai loro personaggi. Sappiamo che spesso venivano dal circo, ma non sempre conosciamo il loro nome. Eppure nella rassegna di Pordenone le ritroviamo scatenate in film surreali e distruttivi che non solo riflettono le preoccupazioni dell’epoca (nell’inglese “Milling the Militants”, 1913, il marito sottomesso di una suffragetta militante fantastica di essere nominato primo ministro e punire severamente tutte le ribelli), ma sembrano davvero parlare al nostro presente per la capacità di sovvertire tutti i ruoli e le aspettative, i codici d’abbigliamento e di comportamento del - si fa per dire - gentil sesso. In “Madame a des envies” ad esempio, cioè “La signora ha le voglie”, 1907, Alice Guy – forse l’unica pioniera del cinema ad essersi conquistata un posto nella storia, di recente al centro del documentario “Be Natural” – terrorizza parenti e amici con le sue smanie da gravidanza che comprendono lecca-lecca, aringhe in salamoia e proibitissimo assenzio. La protagonista di “La fureur de madame Plumette”, 1912, che a dire delle curatrici si apre addirittura con una gag sul ciclo mestruale, dà invece sfogo a una collera incontenibile che non risparmia niente e nessuno: né il portiere di casa, né la signora che sbatte il tappeto dalla finestra, trascinata giù dalla medesima, né l’azzimato ganimede che si ostina a importunarla per strada, dunque viene picchiato selvaggiamente e lasciato a terra esanime, con i piedi che ancora sussultano nell’ultima, modernissima inquadratura di questa “comica” meno elaborata formalmente di quelle dei grandi del muto, ma posseduta da un’energia tellurica. Anche se l’esempio più geniale e sovversivo della rassegna sta in un lungometraggio più tardo e già proposto a Pordenone, “The Deadlier Sex”, 1920, che vede la padrona di una grande azienda ferroviaria vendicarsi del raider di Wall Street che vuole costringerla a vendere, abbandonandolo in un luogo sperduto e selvaggio provvisto solo del suo portafoglio rigonfio (spedendo per giunta un giovane Boris Karloff, futuro e leggendario interprete di “Frankenstein” e della “Mummia”, a tentare di sedurlo per testare la sua virilità). Il futuro è donna, si diceva una volta. Ma chissà, forse anche il passato. Basta guardarlo con più attenzione.
· Mostra del cinema di Venezia: scandali e follie.
Mostra del cinema di Venezia: scandali e follie di ieri e di oggi in laguna. Leda Balzarotti su Iodonna.it il 26 agosto 2019. Balli e gran gala degni di principi e di Hollywood, coppie che hanno dato scandalo, film che hanno suscitato scalpore (e talvolta hanno ricevuto anche denunce per oscenità)... non c’è stata edizione della Mostra del cinema di Venezia senza un pizzico di clamore o di polemica. Ecco quelle più memorabili. A vivacizzare l’atmosfera unica della Mostra del cinema di Venezia, oltre a film che hanno suscitato scalpore, hanno contribuito feste e gran gala degni di fasti dimenticati. E non poteva essere che così per una kermesse nata per volontà del conte Giovanni Volpi di Misurata nel 1932 proprio per attirare il bel mondo al Lido, forse con un vezzo un po’ troppo cosmopolita per l’epoca fascistissima. Fatto sta che già due anni più tardi il pubblico mondano si trovò ad assistere alla proiezione del film cecoslovacco Extase di Gustav Machatý – il film torna restaurato al festival nella serata di pre-apertura di martedì 27 agosto – che proiettava sul grande schermo il primo nudo integrale del cinema. A dare scandalo più di tutto era stata la scena di un atto sessuale, solo suggerito dalla mimica del volto in primo piano della protagonista, che fece scrivere a un giovane Michelangelo Antonioni, alla Mostra in veste di critico: «Nel giardino dell’Excelsior, quella sera, si udiva il respiro degli spettatori attentissimi, si udiva un brivido correre per la platea». Fu così che la diciannovenne Hedy Lamarr, che nei fotogrammi si aggirava nuda in un bosco, si bagnava nel fiume e cedeva al piacere in un lungo piano sequenza, stregò proprio tutti, pure un Benito Mussolini non proprio felice del successo straniero (la pellicola conquistò la Coppa Città di Venezia), e partecipò da diva alle feste organizzate da Edda Ciano in onore del film.
Con gli anni Cinquanta la voglia di ricominciare a vivere e sognare del dopoguerra si faceva sentire anche in Laguna grazie alle prime grandi star americane che approdavano alla Mostra del Cinema. la gossip writer Elsa Maxwell era l’ape regina della notte attorno a cui girava tutto il mondo del festival, che si divideva in invitati ed esclusi, scatenando maremoti di invidie non senza il compiacimento della giornalista più pettegola di sempre. «Non venite in smoking o in abito da sera, ma vestiti come il personaggio che vorreste essere» imponevano gli inviti alle sue feste memorabili, a cui partecipavano i ricchissimi e nobili che si confondevano con selezionate star del momento. La sua preferita? Maria Callas, a cui fece da cupido presentandole Aristotele Onassis, mandando a monte di conseguenza il matrimonio della cantante con Giovanni Battista Meneghini, e dando il via a una schermaglia amorosa che durerà una vita e terrà banco sulle colonne della cronaca rosa per anni. Sul grande schermo a fare diventare il clima rovente ci pensava Luigi Zampa con il film La Romana, e la grande Gina Lollobrigida nei panni della prostituta Adrianafaceva imbizzarrire il cuore degli italiani. Non mancavano naturalmente i bagni di folla per l’immancabile Silvana Pampanini che non rinunciava alle entrate da diva, per Sophia Loren, Coppa Volpi nel ‘58 come migliore interprete per Orchidea neradi Martin Ritt, e per la coppia indissolubile del cinema italiano Antonella Lualdi e Franco Interlenghi, tra i tanti vip che negli anni d’oro del Festival animavano le serate mondane al Lido.
Nel 1962, era toccato a Mamma Roma, il film di Pasolini a Venezia in concorso con una nomination al Leone d’Oro, beccarsi una denuncia per oscenità (poi archiviata), ma ciò non aveva scalfito la voglia di divertirsi di Anna Magnani, del regista e del giovane Ettore Garofolo che finita la proiezione si erano scatenati sulla pista ballando tutta la notte. L’anno dopo Monica Vitti trascinava in un hully gully di gruppo Sophie Daumier protagonista del film Confetti al pepe – vietato ai minori di 18 anni -, il produttore Tonino Cervi e il press-agent delle dive Enrico Lucherini. Nel 1966 il film della regista Mai Zetterling – Giochi di notte – era stato considerato tanto sconvolgente da dirottare la proiezione riservandola ai soli giornalisti accreditati, escludendo così migliaia di spettatori che affollavano il Palazzo del Cinema e l’Arena.
Scandali e sensualità. Giochi di notte, candidato al leone d’Oro suscitò tanto clamore da accendere dibattiti infuocati sui rotocalchi per settimane. «Un attacco alla sensibilità femminile» tuonavano giornalisti e psicologi invitando le lettrici al dibattito, e incalzavano: «la pellicola svedese è un concentrato di tutto ciò che la censura italiana, laica e religiosa, usa bollare come osceno e offensivo del comune senso del buon costume. Ci sono l’orgia, l’incesto e altri pervertimenti sessuali, l’adulterio, il dialogo osceno, le nudità integrali, le offese alla religione, la sconsacrazione della maternità, la corruzione programmata di un minorenne». Poi tutti erano andati a stemperare le tensioni e le polemiche del festival alla grandefesta nelle sale del palazzo Ca’ Rezzonico, a fare gli onori di casa Sandra Milomadrina della serata, e sulla passerella lungo il Canal Grande avevano sfilato Amedeo Nazzari, Linda Christian con la figlia Romina, Ira Fürstenberg, che all’epoca stava cercando di sfondare nel cinema, e Vittorio Gassman con l’allora compagna Juliette Mayniel. L’anno successivo Piero Zuffi si era occupato della scenografia per la festa dellacontessa Marina Cicogna, che quell’anno con la sua casa di produzione Euro International Film presentava in concorso Edipo re, Lo straniero e Bella di giorno, e aveva trasformato il cortile e l’ingresso di Palazzo Vendramin in una gabbia di luce. Claudia Cardinale, con un vestito di Nina Ricci da fare invidia, Liz Taylor e Richard Burton, Jane Fonda e Roger Vadim erano stati i più fotografati, mentre Gina Lollobrigida, che indossava un particolare abito di rete arancione, aveva ballato tutta la notte uno shake dopo l’altro dividendo la pista con chi aveva la sua stessa energia, e scherzosa si difendeva: «Questi balli di oggi poi sono una cosa così innocente, così bella, che male faccio se mi piace ballare?». Feste e balli, del tutto inadatti a chi era allergico alla mondanità. Poi era arrivata la contestazione del ’68 spazzando via ogni anelito di frivolezza e il clima al Lido era diventato quasi modesto lasciando spazio, più che altro, ai veri amanti del cinema.
La Politica entra al cinema (con visi d'angelo). I misteri di Jean Seberg, la leggendaria Imelda Marcos e la Grecia schiacciata dalla troika...Luigi Mascheroni, Sabato 31/08/2019 su Il Giornale. Se quest'anno la crisi di governo ha tenuto lontano dal Lido i politici in crisi, la Politica, con la C maiuscola di cinema, entra e esce da ogni proiezione, tra film sull'oggi (The Perfect Candidate di Haifaa Al Monsour, passato il primo giorno, su una giovane saudita candidata donna al governo della sua città: il tema è perfetto per un festival, ma lo svolgimento ha stroncato anche i critici più pazienti), non fiction d'attualità (oggi è il giorno di Citizen K sull'oligarca e poi dissidente russo Mikhail Khodorkovsky, ma arriverà anche State funeral di Sergei Loznitsa sul culto della personalità di Stalin) e opere di grandi maestri: stamattina sarà di scena Adults in the Room di Costa-Gavras sulla sua Grecia caduta sotto la dittatura dell'austerità dell'Eurogruppo...E così, lontana dal red carpet, la politica resta nel cuore della Mostra: le sale. Ieri, accanto al J'accuse di Roman Polanski (su un pezzo di Storia e di Politica di Francia), l'altro film in concorso è stato Seberg dell'australiano Benedict Andrews, che narra, basato tutto su fatti veri, gli anni d'oro e di tragedia della bellissima attrice Jean Seberg (interpretata da una altrettanto bellissima e applauditissima Kristen Stewart: il pubblico non ha dimenticato quando s'invaghì di un vampiro in Twilight), morta misteriosamente suicida a quarant'anni, nel 1979. Già stella giovanissima in due pellicole di Otto Preminger, la Seberg divenne un'icona di Francia dopo aver interpretato il capolavoro di Jean-Luc Godard Fino all'ultimo respiro, opera-culto della Nouvelle Vague, e poi, arrivata a Hollywood sull'onda del successo, alla fine degli anni '60, si avvicinò pericolosamente alla causa rivoluzionaria delle Black Panthers. Ed eccoci al centro del più che convincente biopic: la relazione segreta tra la giovane diva e l'attivista per i diritti civili Hakim Jamal, l'operazione illegale di sorveglianza dell'Fbi, la campagna diffamatoria con la complicità della stampa compiacente - che fa saltare il già instabile equilibrio psichico di Jean Seberg... Razzismo, poteri occulti, diritti costituzionali violati e fake news. Ieri uguale a oggi, o quasi. E oggi uguale a ieri è la sensazione che procura l'altro titolo politicissimo passato nel pomeriggio al Lido, il documentario The Kingmaker di Lauren Greenfield, definita dal New York Times «la più grande documentarista visiva americana della plutocrazia»: cento minuti di ritratto-intervista (con moltissimo spazio ovviamente per le voci «contro») dell'indomita Imelda Marcos, che oggi ha 90 anni, ma è stata prima una splendida Miss Manila, poi la moglie fedelissima dell'infedelissimo presidente-dittatore delle Filippine Ferdinand Marcos, quindi la first lady più celebre degli anni '60 e '80, una icona pop che quando fuggì dal suo Paese, nel 1986, lasciò dietro di sé una nazione in ginocchio, un Palazzo preso d'assalto dalla folla, una collezione di 3mila paia di scarpe ma anche l'affetto indelebile e la voglia di rivalsa di moltissimi filippini. Cosa che le ha permesso (incredibilmente) di tornare a Manila nel 1991, di farsi eleggere nella Camera dei Rappresentanti, rifarsi una seconda vita politica (grazie al denaro incalcolabile che i Marcos erano riusciti a nascondere) e a trasformarsi da Regina in kingmaker. Ossia colui o colei - che ha grande influenza in una successione monarchica o politica, senza poter però essere un possibile candidato. Oggi Ferdinand «Bongbong» Marcos jr., suo figlio, è senatore, e nel 2016 ha perso per un pugno di voti la carica di vicepresidente delle Filippine.
Un Leone (e applausi buonisti) per Almodóvar. La presidente di giuria attacca "l'estrema destra". E Giusy Versace sfila con protesi e tacchi. Alessandro Gnocchi, Venerdì 30/08/2019, su Il Giornale. Solo cose belle. Brad Pitt circola da un paio di giorni con una coppola in testa, performance eccezionale, considerata la temperatura (40 gradi). Scarlett Johansson ha spento subito eventuali pensieri maliziosi con una castigata polo a righe orizzontali. Sul red carpet per fortuna è un'altra storia. Solo cose belle. Pedro Almodóvar si becca il Leone d'oro alla carriera, tre standing ovation e venti minuti di applausi. Ringrazia commosso. Il simbolo della trasgressiva «movida» anni Ottanta, dopo un paio di Oscar, è diventato il simbolo della normalità festivaliera, inclusa la festa organizzata da una famosa stilista. La Laudatio è affidata a Lucrecia Martel, presidente della giuria e si conclude con un accorato appello contro «l'estrema destra» seguito da una frase a effetto: «I nostri bikini si bagnano in un mare pieno di morti». C'era proprio bisogno di queste parole, la democrazia si sente già meglio, i migranti anche, la «estrema destra» (cioè tutto ciò che non è di sinistra) sarà battuta, adesso ne siamo sicuri. Un minuto dopo Almodóvar dice di non avere la pretesa di cambiare il mondo ma di raccontare il suo. Novanta minuti di applausi. Solo cose belle. Commenti di alcuni critici raccolti in sala dopo la visione del film d'inaugurazione La vérité di Kore'eda Hirokazu: «Noioso», «Due ore della Deneuve non si reggono», «Versione edulcorata di un altro film dello stesso regista». Il giorno dopo, sui quotidiani e sui siti: capolavoro di finezza, strepitosa la Deneuve. Ci hanno ripensato o non dicono la vérité ai lettori? Solo cose belle. L'Hotel Excelsior, dove si festeggia sulla spiaggia, è preso d'assalto da cacciatori di fotografie. L'ingresso viene transennato. «Ti fai un selfie con me?». «Ma io sono un giornalista». «Ah, allora niente, scusa». All'ingresso ti accolgono con bottiglie ghiacciate di champagne munite di imbuto per bere a collo. Finezza o cafonata? Sulla spiaggia le tavolate sono disposte in ordine gerarchico. Quelli importanti a sinistra. Gli altri a destra. Dopo una certa ora regna l'uguaglianza e tutti vanno dappertutto ma in particolare all'angolo cocktail della Campari. Molti notano l'assenza della musica. Niente danze. Peccato, Emir Kusturica era già pronto a scendere in pista. Molti notano che più di un vip si è dileguato in un battibaleno. I maligni dicono che sono andati a mangiare da Cipriani (Harry's Bar) dove è passato anche Brad Pitt. L'attore ha ordinato tre primi: cannelloni, ravioli e tagliolini gratinati al forno. Occhio alla linea, Brad. Solo cose belle. Catherine Deneuve ha un vestito che la rende identica al Re Vega di Goldrake, simpatica. Pedro Almodóvar è il sosia di Lello Arena, qualcuno lo avverta. Antonio Monda dice di avere in serbo una grande festa del cinema di Roma. Replica immediata: «Qua dicono che Lei sarà il successore di Alberto Barbera». Monda nega. Però sfodera un sorrisone. A proposito di Barbera, pare sia ancora arrabbiato con la Martel, che diserterà gli eventi legati al film di Roman Polanski, condannato nel 1977 per aver abusato di una minorenne. Proprio al primo giorno doveva dirlo? Non poteva parlare alla fine della Mostra? Paolo Baratta, presidente della Biennale, è un abilissimo anfitrione. Generoso nello stringere mani e dire due parole a tutti, riesce a liquidarti con squisita gentilezza. Il ministro della Cultura Alberto Bonisoli è circondato di belle ragazze ma passano in secondo piano quando arriva Jo Squillo. La cantante e l'atleta paralimpica Giusy Versace hanno conquistato tutti sul red carpet dove hanno sfilato assieme. La prima con i tacchi a spillo. La seconda con le protesi al titanio. Entrambe magnifiche. Analisi finale di un esperto di cinema e politica. «Ma non c'è la crisi di governo?». «Sì ma Bonisoli resta». «Non doveva esserci anche Tria?». «Sì ma Tria se ne va». «Scusa, che c'entra con la Mostra se vanno o restano?». «Boh».
Marco Giusti per Dagospia il 31 agosto 2019. Qualcosa non funziona nel J’accuse di Roman Polanski presentato ieri a Venezia. Malgrado gli applausi anche eccessivi del pubblico in sala, come se l’industria cinematografica, soprattutto italiana, si volesse liberare delle polemiche legate al MeToo, la critica americana ha massacrato il film. Owen Gleiberman di “Variety” trova “osceno” il fatto che Polanski paragoni il suo caso a quello di Alfred Dreyfus. "Possiamo discutere, e dovremmo farlo, su come Hollywood e il sistema legale americano dovrebbero trattare oggi Roman Polanski", scrive il critico. Ma dobbiamo ricordarci, prosegue, che "Alfred Dreyfus, tuttavia, era un uomo innocente. Mentre Polanski, prima di fuggire dagli Stati Uniti in attesa di essere condannato nel 1977, ha confessato in tribunale." Anche il critico di “The Wrap” punta il dito sul confronto Polanski-Dreyfus. “Qualsiasi controversia che potrebbe scaturire dalla decisione di Roman Polanski di paragonarsi a una delle più grandi vittime dell'ingiustizia della storia viene dissipata dalla fredda apatia del risultato di quel che vediamo”. David Ehrlich di “Indiewire” parla invece solo del film. “Costruito con una metodo delicato e soddisfacente che svela l'affare Dreyfus con tutta la confusione giornalistica di Spotlight, ma senza la stessa integrità”. Xan Brooks del “guardian”, invece, ne parla bene: “E’ un pezzo di carpenteria professionale solida e ben realizzata, come uno di quei pesanti mobili vittoriani. Costruito per durare, per essere utilizzato. Più a lungo lo guardi, più cresce”. Molto meno convinto, anche come film, Owen Gleiberman di “Variety”: “La prima metà del film ti prende subito, ma dopo un po’ inizia a sembrare come la versione cinematografica di una voce di Wikipedia”. Ecco. Anche Deborah Young di “The Hollywood Reporter” si mostra parecchio delusa. “Il risultato è stranamente carente di cuore e anima, come se un armatura di rigida disciplina militare lo tenesse sotto controllo”. Esaltati, invece, i critici francesi. “Qualunque cosa si pensi dello stato giuridico attuale di Roman Polanski, il suo ventiduesimo film si rende indispensabile per rigore e bellezza.”, scrive “Le Monde”.
Polanski divide il Lido in nome del #MeToo. La presidente di giuria Martel contesta il regista. Ma dopo le accuse dei produttori fa retromarcia. Luigi Mascheroni, Giovedì 29/08/2019 su Il Giornale. Venezia resiste a tutto, da sempre: alle pellicole scandalose, alle proteste, ai film politici, alla passerella dei politici stessi...Film belli, film brutti, polemiche, provocazioni, tutto passa persino il 68, che qui al Lido durò dieci anni - ma il festival resta. Però, questa cosa del neofemminismo di ritorno, le quote rosa cinematografiche, il #MeToo a proiezione continua, rischia di inceppare il perfetto meccanismo della Mostra del cinema, che peraltro quest'anno presenta un'edizione monstre, per quantità e qualità delle opere, con mezza Hollywood per dieci giorni in trasferta venexiana. Comunque, già lo scorso anno le paladine rosa americane la rivista Hollywood Reporter in testa, che ci ha riprovato anche stavolta - avevano attaccato il direttore della Mostra Alberto Barbera, rinfacciandogli di aver invitato in concorso troppe poche registe, rispetto ai colleghi maschi. Barbera rispose che se volevano qualcuno che scegliesse un regista solo perché donna, e non un regista quale sia il sesso perché bravo, chiamassero un altro al suo posto. E la faccenda, digerito qualche mugugno delle femministe più engagé, finì lì. Questa volta, però, c'è stato un upgrade. Pronti via, ieri - giornata di inaugurazione la presidente della giuria «Venezia76», la regista argentina Lucrecia Martel, ha confessato un certo diciamo così «imbarazzo» per la presenza in concorso del film J'Accuse di Roman Polanski perché su di lui pende un mandato di cattura americano dopo la condanna per aver avuto nel 1977 un rapporto sessuale con una tredicenne con l'aiuto di sostanze stupefacenti (il regista al Lido ovviamente non verrà, perché gli Stati Uniti potrebbero chiederne l'estradizione). E poi ha tirato la molotov: «Non ci sarò alla proiezione ufficiale per il suo film per non dovermi alzare e applaudire» (e il fatto che la Martel autrice di quattro film, nessuno finora entrato nella storia del cinema dica «Non applaudirò Polanski», ha fatto notare qualcuno, suona un po' come se Eros Ramazzotti dicesse «Non applaudirò Bob Dylan»). Insomma, Lucrecia Martel concede una chance all'opera di Polanski, ma non accetta di distinguere l'opera dall'uomo (insomma, vedrà il film, ma non lo festeggerà). C'è da chiedersi a questo punto quante probabilità abbia J'Accuse di essere preso in considerazione artisticamente per un premio (ben poche, appunto). In più, in molti iniziano a dubitare della necessaria obiettività di giudizio della Martel: ieri pomeriggio sui social e al Lido giravano già richieste di dimissioni. A complicare le cose, in serata, Luca Barbareschi, coproduttore di J'Accuse, ha dichiarato che si sta valutando se ritirare il film dal concorso, «a meno che non arrivino scuse ufficiali», perché «preoccupati che il film non venga giudicato serenamente». Poco dopo, la velata marcia indietro della regista: «Nessun pregiudizio sul film, le mie parole sono state fraintese». Chiamato direttamente in causa, Alberto Barbera ha risposto da signore, ma con fermezza maschile, alle rimostranze maschie della regista donna: «Sono fermamente convinto che bisogna fare distinzione tra uomo e artista. La storia dell'arte è piena di artisti che hanno commesso crimini. E di cui ancora ammiriamo le opere d'arte. Io ho visto il film di Polanski e mi è piaciuto, quindi ho invitato il film in concorso», ha spiegato pacato ma inflessibile. «L'unico modo per giudicare un film è la qualità del film stesso. Io non sono un giudice, non posso stabilire se un uomo debba andare in galera oppure no. Sono un critico e posso giudicare se un film merita di stare nella selezione veneziana. Il mio lavoro finisce qui». E speriamo, a questo punto, che inizi il festival. Sempre che le percentuali femminili coinvolte lo permettano. La regista argentina è tornata anche a parlare della scarsa presenza di donne nel cartellone veneziano. «Il discorso delle quote rosa non è mai soddisfacente ma in una fase di transizione da un modello ad un altro non mi sembra ci siano altre strade. Senza registe, così come senza persone non bianche, il cinema non può riuscire a riflettere la complessità della realtà», ha detto. Tutto vero. Ma, per completezza, va aggiunto che: 1) se in programma a Venezia ci sono molti film di registi e pochi di registe, nelle giurie ci sono più donne che uomini, a partire dalla stessa Martel che è persino presidente; 2) tantissimi film scelti per il festival affrontano la condizione femminile nelle diverse società, anche se girati da maschi; 3) il comitato di selezione dei film è composto per metà da donne; 4) qualche film girato da una donna forse è a Venezia proprio perché donna (qualche critico qui al Lido fa il nome di Nevia di Nunzia De Stefano, l'ex moglie di Matteo Garrone). Per il resto, buon Leone, e leonesse, a tutti.
Marco Giusti per Dagospia il 30 agosto 2019. “Spero che il fatto di essere ebreo non influisca sul suo giudizio su di me”, chiede all’inizio del film il capitano Alfred Dreyfus al suo superiore e maestro Georges Picquart. “No, starò attento a separare i sentimenti dai fatti”, risponde Picquart, lasciando così modo a Dreyfus di fargli presente che il suo giudizio è già in qualche modo compromesso. In modo non tanto diverso ci si pone un po’ tutti noi rispetto a questo J’accuse di Roman Polanski, sceneggiato assieme al Robert Harris di The Ghostwriter e prodotto da Alain Goldman con Luca Barbareschi, Paolo Del Brocco e Roman Abramovich. Anche noi stiamo “attenti” rispetto al film proprio perché è di Polanski in un momento particolare della sua vita. Quando cioè i vecchi processi americani per violenza carnale e le polemiche legate al MeToo e alla presenza di questo film a Venezia ne compromettono in ogni modo uno sguardo neutrale. Sia che lo si ritenga un fresco capolavoro o un buon polpettone un filo polveroso girato da un grande maestro a 86 anni, non riusciamo davvero mai a distinguere l’opera dall’autore. Anche perché, e mai come in questo caso, l’opera è l’autore. E’ Polanski a farci sapere da subito che lui si sente da tutta la vita massacrato e additato come il capitano Alfred Dreyfus, un ufficiale francese innocente degradato e punito come traditore dalla destra reazionaria e fintopatriottica francese solo perché ebreo. E per questo finirà rinchiuso per anni in una cella coi ceppi ai piedi in quel dell’Isola del Diavolo, prima che il colonnello Picquart, interpretato qui da un grande Jean Dujardin, e Emile Zola sulla prima pagina di “L’Aurore” salvino il suo corpo e soprattutto il suo onore di militare e di francese. Ma c’è di più. Perché, proiettandosi nella storia di Dreyfus, Polanski affronta una serie di situazioni pur di fine ’800 che oggi ci appaiono estremamente attuali. Come se poco o niente fosse cambiato nella vecchia Europa. Il sovranismo, l’odio per l’Internazionale Ebraica della propaganda fascista, il gioco al massacro delle fake news. Se ci fu un vero e proprio Affare Dreyfus, prototipo di tanti se non tutti i casi giudiziari-politici del 900, seguito da centinaia di articoli sui giornali e con uno strascico che portò alla realizzazione di film celebri, come The Life of Emile Zola di William Dieterle con Paul Muni come Zola e Joseph Schlidkraut come Dreyfus, c’è anche un vero e proprio Affare Polanski, con martirio dello stesso regista, centinaia di articoli e polemiche su polemiche. Ripeto. E’ Polanski, nel bene e nel male, con un po’ di grandeur poco polanskiana (lui che è se,pre stato così ironico), a vedere il proprio caso riflesso nella storia di Dreyfus, condannato ingiustamente dalle forze fasciste e razziste francesi a un martirio infinito. Come fu ingiustamente condannato, dall’opinione pubblica mondiale, addirittura a causa demoniaca della tragedia della moglie Sharon Tate. Condannato perché non americano, regista di un film come Rosemary’s Baby, perché star della Swinging London piena di eccessi, orge e droga. E così, in questo caso, non è semplice, per lo spettatore cresciuto con i capolavori del regista, ma che dagli anni di John Ford e di Pablo Picasso, sa distinguere tra opera e autore, staccarli. Certo. Come film, questo J’accuse è un perfetto esempio di grande scrittura e messa in scena. Fotografia meravigliosa di Pawel Edelman, lo stesso de Il pianista e di tutti gli ultimi film di Polanski. Scenografie ricchissime di Jean Rabonne. Bellissimo cast, con Louis Garrel cone Dreyfus, Mathieu Amalric come grafologo, Emmanuele Seigneur come amante di Picquart, una serie di nomi eccelsi della Comédie. Non è un film moderno, diciamo. E Polanski è più vicino agli anni di Dreyfus che a quelli del Jocker. E non è per nulla un film alla Polanski, con svelamenti di identità. Anzi. Con questo è una macchina narrativa costruita alla perfezione. Per vecchi signori, ovvio. Ma, ripeto, il problema del nostro sguardo sul film è quasi insormontabile. E anche i grandi applausi, che partono dall’industria cinematografica europea che rivendica la propria indipendenza da Hollywood, ricevuti a tutte le proiezioni tradiscono un po’ questo problema. Chissà se la festa per il film l’hanno fatta all’Isola del Diavolo?
MA È UNA MOSTRA DEL CINEMA O UN TRIBUNALE SPECIALE? Lettera a Il Fatto Quotidiano il 30 agosto 2019. Gentile redazione, ogni volta mi stupisco di come Polanski venga trattato dai colleghi, ultima la presidente di giuria a Venezia, che si rifiuta di andare alla proiezione di gala del suo film per le accuse di molestie su una minorenne. Sono accuse orribili, per cui il regista è stato anche condannato, ma cosa c' entrano con l' arte? Ma è una Mostra o un tribunale? Io sto con il direttore Barbera: non siamo giudici, ma critici di cinema. Eliana Parenti
LA RISPOSTA DE "IL FATTO". Gentile Eliana, la ringrazio per le sue riflessioni, che considero una giusta reazione rispetto a un comportamento reiterato. Anzitutto mi permetto di darle alcune novità sulla questione, tuttora in corso di dibattito nell' ambito della Mostra veneziana iniziata da pochi giorni. Roman Polanski non sarà presente alla première del suo film, "J' accuse". La sua scelta, di cui non sappiamo le ragioni, è stata comunicata prima che la polemica prendesse corpo, è dunque precedente alle dichiarazioni della presidente di giuria di Venezia 76, Lucrecia Martel. Poi se oggi al Lido vedremo comparire il grande cineasta polacco saremo felici della sorpresa, naturalmente. Chiaramente la questione è delicatissima e come purtroppo spesso accade, viene cavalcata dai media (soprattutto "social") con quel "tanto al kilo" da svilirla e anzi fraintenderla proprio. Martel ha sbagliato il tiro: se questa era ed è la sua posizione, doveva dimettersi dal ruolo di presidente di giuria non appena è stata comunicata la selezione del concorso veneziano, vale a dire a metà luglio. Questo suo comportamento non solo è discutibile, ma anche goffo. E, ancor più grave, rischia di minare la bontà di qualsivoglia verdetto sortirà la Mostra. Ma non solo. Seppur la sua posizione sia legittima, farne oggetto di dibattito e polemica in pasto alla folla ha portato allo svilimento - se non addirittura a un vero e proprio depotenziamento concettuale - della battaglia di molte donne contro violenze e molestie. L' effetto è un clamoroso boomerang: tutti (e quasi tutte le donne) si sono schierati a favore di Polanski - che ricordiamo vittima egli stesso per la sua vita intera di ogni genere di sopruso a partire dall' Olocausto in poi -, il quale ha scontato e tuttora sta pagando cara la molestia sulla ragazza avvenuta decenni fa. La stessa sua vittima rilasciò a suo tempo delle dichiarazioni ed è noto che Polanski le abbia chiesto scusa per i suoi atti, certamente da condannare ma non tali da costargli una crocifissione praticamente reiterata a ogni festival che ospiti una sua opera. Anna Maria Pasetti
CHIUSO IL CASO POLANSKI: CON LE SCUSE DI LUCRECIA MARTEL, PRODUTTORI SODDISFATTI. Da la stampa.it il 30 agosto 2019. Il caso Polanski che ieri, con le dichiarazioni della presidente di giuria, l'argentina Lucrecia Martel, ha dominato l'apertura della Mostra del cinema di Venezia, può ritenersi chiuso, almeno per quanto riguarda la produzione che pure aveva ipotizzato il ritiro del film.
«A nome di tutta la compagine produttiva accettiamo - fanno sapere ufficialmente oggi - le scuse della Presidente della Giuria Lucrezia Martel. Nella certezza che rimarrà la serenità di giudizio nei confronti del film, J'accuse di Roman Polanski resta in concorso alla 76/ma Mostra del Cinema di Venezia».
MALATI DI METOO. Simonetta Sciandivasci per ''La Verità'' il 30 agosto 2019. C' è una bellissima canzone di Franco Battiato che parla di una puttana, «la più grassa puttana che mai avessi visto», alla quale uno scemo disse che era una schifosa montagna di grasso, mentre invece tutti gli altri sapevano, avendolo sperimentato, che a letto lei diventava più bella di Marylin Monroe. «Vedete come va il mondo? Ecco com' è che va il mondo», così fa il ritornello. Significa che la mole non schiaccia ma eleva e che spesso, nella vita, a essere spacciati, o almeno condannati all' insipienza, non sono quelli impacciati dai propri difetti, bensì quelli che non ne hanno neanche uno, e sono dritti, e retti, e magari anche magri. Significa anche che il mondo è molto strano, va per conto suo, e in momenti in cui viene investito da epidemia di demenza come da un po' di anni a questa parte, può capitare che un grande scrittore come Franzen dica che siccome Caravaggio è stato un maluomo, allora non vuole vedere i suoi quadri. E che la presidente della giuria del Festival di Venezia, Lucrecia Martel, si rifiuti di presenziare alla cena di gala in onore del regista Roman Polanski e dica che non applaudirà il suo film e che se fosse stato per lei non lo avrebbe mai invitato e che quando ha scoperto che ci sarebbe stato anche lui era troppo tardi per tirarsi indietro e abbandonare il ruolo gentilmente concessole. La ragione è sempre la stessa: Polanski sarebbe uno stupratore seriale pedofilo e non avrebbe saldato il suo debito con la giustizia (e pensare che sono anni che la ragazzina che violentò, ormai signora, Samantha Geimer, implora di lasciarlo in pace). Ora, vedete come va il mondo. Lucrecia Martel vanta «diversi riconoscimenti internazionali» (quando nelle bio non specificano quali, insospettirsi sempre, come per i giornalisti che scrivono di scrivere «per diverse testate») e nessuno di voi ha visto un suo film. Roman Polanski è quello di Rosemary' s baby, un capolavoro che hanno visto anche quelli che non l' hanno visto, tanto ha fatto la storia. Ed ecco com' è che va il mondo: non è lui a non applaudire lei, ma lei a non applaudire lui e, inelegante e scema com' è, ci tiene anche a sottolinearlo, perché non sa che la maleficenza, come la beneficenza, si fa di nascosto.
"PERCHÉ NON REAGISCO? SAREBBE COME COMBATTERE CONTRO I MULINI A VENTO". GIANNI SANTORO per repubblica.it il 30 agosto 2019. "Perché non reagisco? Perché sarebbe come combattere contro i mulini a vento". Parola di Roman Polanski. Il regista parla per la prima volta del suo film in gara alla Mostra di Venezia, J'accuse, che i produttori hanno minacciato di ritirare dal concorso dopo le critiche da parte della presidente di giuria Lucrecia Martel ("Non separo l'uomo dall'opera: non lo applaudirò"). Da anni ricercato dalla polizia statunitense e perseguitato dalle polemiche per la condanna per "rapporto sessuale con minorenne" del 1977, il regista si paragona al protagonista della storia, Alfred Dreyfus, il capitano dello stato maggiore francese ebreo condannato per alto tradimento, accusa poi rivelatasi falsa. La rara intervista a Polanski è parte del materiale stampa del film e ne è venuto in possesso il sito americano Deadline, che ne riporta le frasi salienti. Intervistato dallo scrittore francese Pascal Bruckner, spiega perché ha deciso di raccontare il caso Dreyfus: "Da grandi storie spesso nascono grandi film. La storia di un uomo accusato ingiustamente è sempre affascinante e attuale, visti i rigurgiti di antisemitismo. (...) Un caso simile potrebbe ripetersi. Ci sono tutte le circostanze: accuse false, superficialità giudiziarie, magistrati corrotti e soprattutto i social media che ti condannano senza un giusto processo né il diritto di appello". Bruckner poi chiede a Polanski se "da ebreo perseguitato in tempo di guerra e regista perseguitato in patria, sarà in grado di sopravvivere al maccartismo neo-femminista". "Un film come questo mi aiuta molto", risponde il regista, "ho ritrovato esperienze personali, la stessa determinazione a negare i fatti e a condannarmi per reati che non ho commesso. La maggior parte delle persone che mi molestano non mi conoscono e non sanno niente del caso". E ricorda poi come gli attacchi siano iniziati nel 1969 con l'uccisione di sua moglie Sharon Tate: "Stavo già attraversando un periodo tremendo, la stampa si impadronì della tragedia e la gestì nel modo più deplorevole possibile, sottintendendo che ero uno dei responsabili del suo omicidio, in un contesto di satanismo. Per loro, il mio film Rosemary's baby era la prova che fossi in combutta con il diavolo. Durò per mesi, finché la polizia non trovò i veri assassini, Charles Manson e la sua "family". Tutto questo ancora mi perseguita. È come una valanga, si aggiunge sempre uno strato. Storie assurde di donne che non ho mai visto che mi accusano di cose che sarebbero accadute più di mezzo secolo fa". "Non vuole reagire?", chiede l'intervistatore. "A che serve? Sarebbe come combattere contro i mulini a vento".
Venezia: il J'Accuse di Roman Polanski parla molto di sé e della sua "persecuzione". Film storico, rigoroso ma poco vibrante, ricostruisce lo scandalo Dreyfus della Francia di fine Novecento. Una vicenda che per il regista assomiglia molto alla sua vicenda giudiziaria. Simona Santoni il 30 agosto 2019 su Panorama. Al Lido di Venezia è il giorno di J'accuse (L'ufficiale e la spia) di Roman Polanski, che arriva in scia alle polemiche che hanno aperto la 76^ edizione della Mostra del cinema. In corsa per il Leone d'oro, è un film dall'impianto classico, di stile rigoroso, che sembra il J'accuse del regista stesso contro il sistema giudiziario e l'opinione pubblica che l'hanno messo sulla griglia. Racconta l'affaire Dreyfuss, con toni più solenni che vibranti. Ma andiamo per gradi.
La polemica Polanski a Venezia. Il dilemma atavico è sempre quello: è giusto dare onore e spazio - e in questo caso la platea internazionale del concorso di Venezia 76 - a un ricercato dalla legge? Il regista polacco di origini ebraiche, a cui la Francia ha dato cittadinanza negandone l'estradizione, è accusato di violenza sessuale compiuta ai danni di una minorenne negli anni '70 negli Stati Uniti, da cui da allora si è tenuto sempre alla larga. Nella conferenza stampa di apertura della Mostra del cinema, a tale dubbio il direttore artistico Alberto Barbera ha risposto da cinefilo qual è: l'opera d'arte deve essere distinta dall'uomo che la realizza. E quindi, ben venuto a J'accuse di Polanski. La presidente di giuria Lucrecia Martel, dal canto suo, è stata più severa. Ha ammesso che non avrebbe partecipato al galà del film per evitare di dover applaudire il suo autore. Questa affermazione, estrapolata da una dichiarazione più ampia, è stata poi rilanciata da testate giornalistiche e social a suon di polemiche, con qualcuno che ha anche messo in dubbio il suo ruolo di presidente di giuria e la sua obiettività di giudizio. A noi non sembra che l'osservazione della regista argentina intacchi la sua capacità di valutazione. Eccola: "Non voglio partecipare al gala perché rappresento donne nel mio Paese che sono vittime di questo tipo di abusi, per cui non mi sento di alzarmi e applaudire ma il film c'è. Su questo tema c'è un dibattito e quale miglior luogo che questo, il festival, per il confronto? Non intendo essere il giudice di una persona, occorre affrontare il tema attraverso il dialogo". Insomma: il film è il film. L'uomo è l'uomo. Si può applaudire il film, si può non applaudire l'uomo. Polemica chiusa. E ora si parli del film.
Rivive il caso Dreyfus. J'accuse (L'ufficiale e la spia) è stato applaudito alla prima proiezione per la stampa in Sala Darsena. Con una ricostruzione solida che lascia però pochi picchi emotivi, racconta l'affaire Dreyfus, uno dei fatti più controversi della storia francese del Novecento. Un episodio che ha proiettato un'ombra lunga su quello che sarebbe successo da lì a breve, con la vergogna dell'Olocausto. Il 5 gennaio 1895 il capitano ebreo Alfred Dreyfus, promettente ufficiale dell'esercito francese, dopo essere accusato di essere un informatore dei tedeschi, viene degradato e condannato alla deportazione a vita nell'Isola del Diavolo nell'oceano Atlantico, al largo delle coste della Guyana francese. Lo incarna un Louis Garrel irriconoscibile, stempiato, ben diverso dal sex symbol noto. Umiliato e circondato da un crescente clima di antisemitismo, Dreyfus continua a sostenere la sua innocenza. Il colonnello Georges Picquart (interpratato da Jean Dujardin), che era stato suo maestro senza averlo particolarmente in simpatia, assiste alla sua umiliazione. Quando Picquart viene promosso a capo dell’unità di controspionaggio che ha accusato Dreyfus, scopre però che l'informatore dei tedeschi è ancora in circolazione e che le prove e le indagini contro Dreyfus sono state superficiali e farraginose: Dreyfus è davvero innocente. Da allora Picquart si batte contro tutti i suoi superiori e collaboratori per far emergere la verità, che però l'Esercito francese vuole seppellire per non ammettere i propri errori. A sostenerlo, nella sua battaglia per la verità contro l'Esercito e contro l'opinione pubblica, c'è lo scrittore Émile Zola che pubblicha sul giornale L'Aurore il suo celebre "J'accuse", una lettera indirizzata al presidente della Repubblica in cui accusa diversi alti ufficiali di falsità, corruzione e bugie.
L'affaire Dreyfus secondo Polanski. Nello scandalo Dreyfus si intrecciano l'errore giudiziario, il fallimento della giustizia e l'antisemitismo. Il caso Dreyfus divise la Francia per dodici anni: Polanski oggi lo rievoca, come simbolo delle iniquità di cui sono capaci le autorità politiche, ergendo lo scudo degli interessi nazionali. È impossibile non leggerci anche qualcosa a lui molto vicino. Nel materiale stampa diffuso a Venezia, in un'intervista fattagli dallo scrittore francese Pascal Bruckner, Polanski (assente al Lido) ammette: "In questa storia trovo momenti che ho vissuto anche io: la stessa determinazione nel negare i fatti e nel condannarmi per cose che non ho fatto. La maggior parte delle persone che mi tormenta non mi conosce e non sa nulla del caso". Polanski tratta la vicenda con occhio attento e mano sicura, senza orpelli, sulla musica severa di Alexandre Desplat. C'è sostanza, tanta, ma la tensione emotiva è all'osso. Al Lido Emmanuelle Seigner, che interpreta l'amante di Picquart, ha definito J'Accuse un "thriller politico e non un film storico". La sensazione, invece, è quella di trovarsi di fronte a un film storico, senza la suspense richiesta ai thriller. Da Garrel, anche lui presente a Venezia insieme a Dujardin e al produttore Luca Barbareschi, trapela un anedotto interessante e triste: durante le riprese del film, sul set si è presentata una delle figlie di Dreyfus. Purtroppo anche lei ha subìto la persecuzione: i figli più giovani di Dreyfus sono stati deportati durante l'Olocausto. Garrel dice con desolazione: "Anche la discendenza ha vissuto l'inferno".
Polanski: «Io come Dreyfus» Applausi al suo film «J’accuse». Pubblicato venerdì, 30 agosto 2019 da Stefania Ulivi su Corriere.it. Al Lido, come era risaputo, non c’è. Ma la presenza più significativa di questa Venezia 76 è certo quella di Roman Polanski, 86 anni, uno degli ultimi grandi maestri del cinema del Novecento che evoca, a distanza, un parallelo diretto tra l’affaire Dreyfus e il suo. Il film con cui torna in concorso, «J’accuse», dedicato al celebre caso giudiziario («L’evento più importante della storia francese contemporanea», secondo Louis Garrel che presta il volto al capitano degradato e condannato all’ergastolo per un tradimento mai compiuto) ha ricevuto un’accoglienza molto calda: applausi alle proiezioni e alla conferenza stampa dove tutti, a cominciare dai produttori, considerano superate le polemiche seguite alle dichiarazioni della presidente di giuria Lucrecia Martel (che, anziché alla proiezione ufficiale, lo ha visto la mattina mescolata ai giornalisti). «Questo non è un tribunale morale ma una mostra del cinema. Il film deve parlare, la giuria giudicare, il pubblico se vuole applaudirà», dice a nome di tutti (il francese Alain Goldman e RaiCinema) Luca Barbareschi. Ma se il caso «J’accuse» è chiuso, la questione Polanski resta aperta. Ci pensa la moglie, l’attrice Emmanuelle Seigner, a evocarla: «È difficile mettermi nei panni di Roman. Oggi festeggiamo 30 anni di matrimonio. Nei suoi film c’è sempre il tema della persecuzione? Mi sembra comprensibile se si guarda alla sua vita». Più esplicito il regista 86enne. Che ha fatto sentire la sua voce, forte e potente, attraverso le parole della dettagliata intervista pubblicata sul pressbook del film (in cui fa capolino, mescolato al pubblico di un concerto di pianoforte), affidata all’amico Pascal Bruckner, saggista e scrittore, critico del movimento #MeToo, autore di «Venere in pelliccia» che Polanski portò sullo schermo. Un altro caso Dreyfus è possibile, gli chiede? «Sì, visto il risorgere di tendenze antisemite. Ci sono tutti gli ingredienti perché accada: accuse false, procedimenti legali discutibili, giudici corrotti, e soprattutto i social media che incolpano e condannano senza un processo regolare». Ogni riferimento alla sua vicenda processuale è, ovviamente, tutt’altro che casuale. I fatti risalgono al 1977, la violenza sessuale ai danni della 13enne Samantha Geimer. Reo confesso, fu condannato: passò 42 giorni in carcere, poi fuggì dagli Usa. Il caso riesplose nel 2009 quando fu arrestato in Svizzera su mandato Usa, e passò dieci mesi agli arresti domiciliari. La giustizia americana ha rifiutato le richieste dei suoi legali di chiudere il caso senza recarsi negli Stati Uniti dove rischia il carcere, mentre la stessa Geimer ha (senza successo) chiesto alla Corte superiore di Los Angeles di chiudere il caso, e l’Academy Award lo ha espulso dalle sue fila. Un vero accanimento, suggerisce Bruckner. «In quanto ebreo perseguitato durante la guerra e come cineasta perseguitato dagli stalinisti in Polonia, sopravviverai al maccartismo neo-femminista?». Mi ha aiutato il lavoro, risponde Polanski. «Nella storia ho trovato momenti che io stesso ho vissuto, posso riconoscere la determinazione a negare i fatti e condannarmi per cose che non ho fatto. Molti atti dell’apparato persecutorio mostrati nel film mi sono familiari e mi hanno ispirato». Tutto parte da lontanissimo, sostiene, con l’assassinio di Sharon Tate, sua moglie. «Il modo in cui sono visto ha avuto inizio lì. Sebbene stessi vivendo un momento terribile, la stampa trattò la storia nel modo peggiore, lasciando sottintendere che io fossi uno dei responsabili della sua morte, ci misero mesi a arrestare Manson. “Rosemary’s Baby” era la prova che ero in combutta con il diavolo». Cita «le storie assurde di donne che non ho mai visto in vita mia e mi accusano di cose che sarebbero successe più di 50 anni fa». Ha ancora voglia di combattere, gli chiede lo scrittore? «E per cosa? È una lotta contro i mulini a vento». Ma non sembra affatto arreso.
Polanski: «Io perseguitato fin dal caso Sharon Tate». Pubblicato venerdì, 30 agosto 2019 da Corriere.it. Al Lido non è arrivato, come previsto, giacché l’Italia è uno dei paesi in cui rischia l’estradizione negli Usa, ma la presenza di Roman Polanski, in concorso oggi con J’accuse dedicato all’affaire Dreyfus, si fa sentire, attraverso l’intervista che accompagna il pressbook del film interpretato da Louis Garrel e Jean Dujardin (in cui lo stesso regista polacco, 86 anni, fa capolino, mescolato al pubblico di un concerto di pianoforte). Si è fatto intervistare da un amico, lo scrittore Pascal Bruckner (l’autore di Luna di fiele, da ci ha tratto un film): «La storia di un uomo accusato ingiustamente è sempre affasciante ma è anche molto attuale, visto il risorgere di tendenze antisemite. Un altro caso è possibile. Ci sono tutti gli ingredienti perché accada: accuse false, pessimi procedimenti legali, giudizi corrotti, e soprattutto i social medi che accusano e condannano senza un processo regolare». Ogni riferimento alla sua vicenda è, ovviamente, tutt’altro che casuale. Bruckner gli domanda: In quanto ebreo perseguitato durante la guerra e come cineasta perseguitato dagli stalinisti in Polonia, come ha potuto sopravvivere al maccartismo neofemminista che cerca di bloccare le proiezioni dei suoi film e altre ingiustizie come il fatto di essere stato espulso dall’Academy Award?. «Mi ha aiutato il lavoro — risponde Polanski. — Nel film ho riconosciuto momenti che io stesso ho vissuto, posso trovare la stessa determinazione a negare i fatti e condannarmi per cose che non ho fatto. Devo ammettere che molti atti dell’apparato persecutorio mostrati nel film mi sono familiari e mi hanno ispirato». Tutto è cominciato, sostiene, con l’assassino di Sharon Tate, sua moglie. «Il modo in cui sono visto ha avuto inizio lì. Quando successe, sebbene io stessi vivendo un momento terribile, la stampa trattò la storia nel modo peggiore, lasciando sottintendere che io fossi uno dei responsabili della diffusione del satanismo, grazie a Rosemary’s Baby. Ci vollero mesi perchè fossero arrestati i colpevoli, Charles Manson e la sua family». E ora, dice «le storie assurde di donne che non ho mai visto in vita mia e mi accusano di cose che sarebbero successe più di mezzo secolo fa». Ancora voglia di combattere, gli chiede lo scrittore? «E per cosa? È come battersi contro i mulini a vento». Anche se l’intervista stessa è un segno che la voglia di combattere c’è. Intanto il film alla proiezione stampa del mattino - dove tra il pubblico c’era, molto discreta, anche la presidente della giuria Lucrecia Martel - è stato molto applaudito.
La Mostra del Cinema di Venezia tra scandali e controversie, dai film censurati agli insulti in sala. Le polemiche nella storia del festival da «Extase», la pellicola di Gustav Machatý che aprirà la 76ma edizione. Arianna Ascione il 27 agosto 2019 su Il Corriere della Sera.
«Extase». Sarà, per così dire, un ritorno sul luogo del misfatto: la serata di pre-apertura della 76ma edizione della Mostra del Cinema di Venezia (di scena al Lido dal 28 agosto al 7 settembre) vedrà come protagonista quella che fu la prima pellicola-scandalo della rassegna. Parliamo di «Extase» (1933) del regista ceco Gustav Machatý: il film, che fu presentato durante la seconda edizione del festival, fece scalpore per il primo nudo integrale della storia del cinema, quello dell'allora 19enne Hedwig Eva Maria Kiesler - in seguito nota come Hedy Lamarr - che all'epoca sostenne di essere quasi stata obbligata a girare la scena in cui appariva senza veli per non dover pagare una sostanziosa penale (pare anche avesse firmato il contratto senza leggerlo e che il regista le avesse promesso soltanto inquadrature a campo lungo e nessun dettaglio visibile). Inoltre il personaggio femminile da lei interpretato, Eva, non veniva punito per aver abbandonato il marito, cosa inconcepibile per la morale del tempo. L'eco dello scandalo fu tale che il marito dell'attrice, l'imprenditore Fritz Mandl, provò ad acquistare tutte le copie del lungometraggio esistenti al mondo per distruggerle. Ovviamente senza successo.
Lo scandaloso Pasolini. «Extase» non è stato l'unico film a dare scandalo alla Mostra del Cinema: nel 1968 Pier Paolo Pasolini presentò «Teorema» (tratto da un suo romanzo), chiedendo agli spettatori di non guardarlo perché in concorso contro la sua volontà. La pellicola, già vietata ai minori di 18 anni, in ogni caso rimase pochissimi giorni nelle sale: la Procura di Roma a distanza di pochi giorni dalla presentazione ne predispose il sequestro «per oscenità e per le diverse scene di amplessi carnali, alcune delle quali particolarmente lascive e libidinose, e per i rapporti omosessuali tra un ospite e un membro della famiglia che lo ospitava». Il regista e il produttore Donato Leoni finirono a processo - rischiavano fino a sei mesi di carcere - ma entrambi furono assolti dal Tribunale di Venezia.
L'occupazione della sala Volpi. Nello stesso anno l'evento fu scosso dalle contestazioni, ma - a differenza di quanto accaduto a Cannes (lì il festival del cinema fu bloccato) - i manifestanti ebbero come risultato soltanto uno slittamento della partenza. Il 26 agosto Pasolini fu protagonista (insieme a Cesare Zavattini, Lionello Massobrio, Marco Ferreri, Alfredo Angeli, Francesco Maselli e Filippo De Luigi) dell'occupazione della sala Volpi contro la direzione del festival allora guidato da Luigi Chiarini - che si dimise a fine Mostra -, ma in seguito all'intervento della polizia, che fece irruzione alle 2 di notte, il giorno successivo la kermesse fu ufficialmente inaugurata.
Fischi in sala. Nonostante l'indubbio valore delle loro produzioni i registi italiani, dai neorealisti ai grandi cineasti del dopoguerra come Federico Fellini e Michelangelo Antonioni, hanno faticato non poco per riuscire ad ottenere gli ambiti riconoscimenti del Lido. Luchino Visconti ad esempio ha sfiorato due volte il Leone d'oro, con «Senso» (1954) e «Rocco e i suoi fratelli» (1960): quando quest'ultimo fu sconfitto da «Le passage du Rhin» di André Cayatte i fischi in sala dei viscontiani sommersero il Palazzo del Cinema.
Kubrick tra «Lolita» ed «Eyes Wide Shut». Come Pasolini anche Stanley Kubrick ha sempre smosso i benpensanti ogni volta che ha messo piede al Lido. A partire dal 1962, quando portò in concorso «Lolita»: alla proiezione ufficiale in Sala Grande il regista non c'era. Era presente soltanto l'attrice principale, l'allora 14enne Sue Lyon. Dieci anni dopo fu «Arancia Meccanica» ad essere accolto da feroci critiche: il regista ricevette il Premio Pasinetti ma la pellicola finì sotto la scure della censura (vietato ai minori di 18 anni fin dal 1971 è riuscito ad approdare in televisione soltanto a 36 anni di distanza dalla sua uscita nelle sale). Pochi mesi dopo la sua scomparsa Kubrick è stato omaggiato a Venezia con una premiere postuma in occasione dell'uscita di «Eyes Wide Shut»: quella del 1999 fu un'edizione particolarmente seguita grazie alla presenza dei protagonisti - Nicole Kidman e Tom Cruise -.
Cinema e religione. Martin Scorsese scatenò un vero putiferio quando uscì il suo tormentato film basato sui Vangeli apocrifi, «L'ultima tentazione di Cristo», presentato fuori concorso durante la 45ma edizione (1988). La pellicola fu proiettata regolarmente in un clima molto teso nonostante le numerose critiche provenienti dagli ambienti religiosi. «Sanguinolento, provocatorio…Quante ne dissero. Eppure, come spiegò Martin, è un film religioso sulla sofferenza e sullo sforzo di trovare Dio» ricordava al Corriere il protagonista Willem Dafoe, vincitore della Coppa Volpi nel 2018 per «At Eternity's Gate di Julian Schnabel». Una cosa è certa: quando il cinema incontra la religione sotto i riflettori di Venezia la polemica è assicurata. Ultima in ordine di tempo quella sollevata nel 2012 da una scena controversa di «Paradise: Faith» del regista austriaco Ulrich Seidl in cui la protagonista utilizza un crocefisso come oggetto sessuale.
Il premio a Michelle Bonev. L'istituzione nel 2010 del riconoscimento Action for Women durante la 67ma edizione del festival (era già esistente ma fino a quel momento era destinato a cortometraggi a sfondo sociale) destò molto scalpore, per la presenza di alcuni esponenti del governo come la ministra per le Pari opportunità Mara Carfagna e il ministro per le Politiche agricole ed ex governatore del Veneto Giancarlo Galan alla cerimonia di premiazione ma anche per il film premiato, «Goodbye Mama» di Michelle Bonev, attrice e regista bulgara considerata vicina al primo ministro della Bulgaria e all'allora premier Silvio Berlusconi. Nel mirino finirono anche le spese per la partecipazione alla Mostra del Cinema: si parlò di fondi pubblici, ma sia il governo italiano sia quello bulgaro smentirono ogni addebito (in seguito Bonev raccontò di aver sostenuto ogni costo personalmente attraverso la sua società di produzione).
La maglietta pro Weinstein e gli insulti sessisti a Jennifer Kent. Quella del 2018 è stata la prima edizione della Mostra del Cinema di Venezia post #MeToo, ma alcuni episodi hanno dimostrato quanto ancora ci sia da lavorare per ottenere la parità di genere nel cinema come in molti altri settori professionali. Escludendo la provocazione del regista Luciano Silighini Garagnani, che sul red carpet della premiere di «Suspiria» di Luca Guadagnino ha esibito una t-shirt recante la scritta «Weinstein è innocente» (in riferimento al produttore di Hollywood accusato di violenza sessuale da decine di donne), l'edizione dello scorso anno ha visto solo uno dei 21 film in concorso diretto da una regista. Come se non bastasse Jennifer Kent è stata anche insultata da un giovane giornalista al termine della proiezione stampa del suo «The Nightingale» - vincitore del Premio speciale della giuria - che ha urlato in sala una serie di improperi sessisti (scusandosi qualche ora dopo con un messaggio pubblicato sulla sua pagina Facebook).
Venezia, settant’anni di scandali in Mostra, a cura di Fabio Fusco. CentroStusiPierPaoloPasoliniCasarsa.it il 5 settembre 2013. Dal nudo di Hedy Lamarr alle "vergogne" di Fassbender, dai diavoli di Ken Russell al "fantasma" di Joao Pedro Rodriguez, ripercorriamo i film che hanno segnato la Mostra del cinema di Venezia tra polemiche, scandali (veri o mancati) o fenomeni di costume. Non c’è Festival – o kermesse, evento, manifestazione – che si possa definire pienamente riuscita senza uno scandalo, anche piccolo, che faccia discutere i media, spesso a vantaggio del festival stesso e che metta in luce le ipocrisie e i tabù della società in un determinato periodo storico. Se poi il festival in questione si svolge in Italia, un paese nel quale ci si scandalizza spesso per cose di poco conto, senza però indignarsi davvero per questioni gravi, allora il gioco è fatto: a volte basta un nome a suscitare scalpore – ad esempio quello di Alberto Moravia, come vedremo – oppure una sequenza suggestiva, o semplicemente le chiacchiere messe in giro dai press-agent per sollevare un polverone. Nei settant’anni di vita della Mostra del Cinema di Venezia gli scandali non sono affatto mancati, e ad eccezione di un paio di decenni, si tratta di episodi che "raccontano" in maniera efficace il periodo in cui sono avvenuti, svelandone gli aspetti più oscuri o i limiti del livello di apertura mentale generale.
Gli anni Trenta: estasi e orchidee nere. Hedy Lamarr nuda in una celebre scena di Estasi (1933). Appena un anno di vita, e la Mostra si infiamma con un nudo femminile diventato poi leggendario, quello di Hedy Lamarr in Estasi di Gustav Machatý, la storia di una donna che sentendosi trascurata dal marito inizia una relazione con un giovane incontrato nei pressi di un lago. Ed è proprio la sequenza in cui la bellissima attrice fa il bagno nuda, oltre a quella in cui si concede al suo amante a far discutere. Siamo in pieno regime fascista, e nella questione interviene persino Mussolini, che esige una visione privata del film, ma alla fine resta colpito dalle grazie della diva di origine austriaca, che sarà ricordata soprattutto per questo film e le scene di nudo, ma non per il suo importante contributo alla scienza.
Neanche la presenza della star delle revue parigine Josephine Baker, nel 1935, riuscirà a fare tanto scalpore e per un nuovo scandalo – di entità minore, stavolta – dovranno passare altri tre anni con la presentazione di Sentinelle di bronzo, nel quale Doris Duranti appare spogliata e nel ruolo esotico di Dahabo, una donna di colore. Il film – che mette in luce l’eroismo degli italiani in Abissinia – ottiene un premio, e la Duranti ha modo di farsi notare per la sua avvenenza e di imporsi, successivamente, come diva di regime (grazie anche alle sue amicizie importanti) oltre a conquistare l’appellativo di orchidea nera sulle pagine dei giornali.
Gli anni Cinquanta: un decennio “perbene”. Negli anni Quaranta la Mostra torna ad essere una manifestazione completa – e non di facciata – solo a partire dall’immediato dopoguerra, e arriva agli anni Cinquanta senza troppi clamori, ma con la voglia di ricominciare a vivere e sognare, grazie anche alle prime grandi star americane che approdano in Laguna. In questi anni a movimentare un po’ le edizioni della kermesse ci sono Ingmar Bergman con il suo Donne in attesa – che nel ’53 scandalizzò alcune signore del pubblico, forse perché descriveva in maniera schietta e senza falsi pudori l’universo femminile – e Louis Malle che invece fece parlare di sé per Les Amants, che nell’edizione del ’58 ottenne anche un premio. Nel ’54 però, furono Gina Lollobrigida e Alberto Moravia a scaldare l’attesa per La Romana di Luigi Zampa, e solo perché il film era tratto da un romanzo dell’autore de Gli indifferenti. Il ruolo della Lollo, quello della prostituta Adriana, fu definito scabroso e si parlò di possibili interventi da parte della censura. Persino coloro che furono invitati alla prima del film – tra cui Giulio Andreotti – si chiedevano se il film sarebbe stato audace, come si riteneva, ma alla fine tutto si concluse senza troppo rumore. Il clima rovente che precedette la presentazione del film, in ogni caso, contribuì a riempire le tasche dei bagarini, che vendettero i biglietti a prezzi salatissimi.
Gli anni Sessanta: oscenità e furore. In netto contrasto con il decennio precedente, gli anni Sessanta sono quelli delle contestazioni studentesche, che rischiarono di compromettere lo svolgimento del Festival nel 1968. Lo stesso anno in cui Pier Paolo Pasolini presentò il suo Teorema, che fu contestato sia dalla critica di sinistra che di destra, ma soprattutto dalle gerarchie ecclesiastiche, che puntarono l’indice sul sottotesto religioso. Il film fu sequestrato per oscenità, e sia Pasolini che i produttori furono denunciati e successivamente assolti. Ad oggi risultano incomprensibili le accuse di oscenità nei confronti di un film del quale ricordiamo sicuramente una certa tensione erotica che pervade tutta la pellicola, ma soprattutto gli intensi e magnetici primi piani di Laura Betti – che infatti fu premiata con la Coppa Volpi – ma Teorema non è l’unico film di Pasolini, tra quelli presentati a Venezia nell’arco di questo decennio, che andò incontro a problemi simili. Nel 1961 infatti, era già toccato a Mamma Roma beccarsi una denuncia per oscenità (poi archiviata), e pochi anni dopo anche Il Vangelo secondo Matteosuscitò un dibattito piuttosto aspro, considerato che il regista solo pochi mesi prima era stato condannato per vilipendio alla religione di stato per un altro film. Tra una provocazione pasoliniana e l’altra, a far gridare preventivamente allo scandalo, nel 1962, ci si mette anche Stanley Kubrick che porta a Venezia la sua Lolita. Le cronache dell’epoca riferiscono di una grande agitazione e fermento tra associazioni cattoliche e di genitori, ma dopo la proiezione del film – che si rivelò meno scabroso rispetto al romanzo di Vladimir Nabokov – le polemiche si ridimensionarono (anche se il film, in ogni caso, andò incontro a diverse censure prima dell’uscita in sala). Qualche anno dopo, nel 1967, fu un’altra iconica figura femminile cinematografica ad agitare le acque della Laguna: la Bella di giorno di Luis Buñuel, l’algida Severine interpretata da Catherine Deneuve, che conquistò anche un Leone d’Oro.
Gli anni Settanta: Salomè e i diavoli. Dopo che aveva già suscitato un certo clamore con Nostra Signora dei turchi, nel caldissimo ’68, Carmelo Bene torna a Venezia con la sua Salomè, nel 1972 e la reazione di pubblico e critica è, se possibile, ancora più selvaggia. L’adattamento pop della Salomè firmato da Bene – coloratissimo, trasgressivo, sicuramente molto personale e quanto di più vicino ai videoclip si fosse visto fino ad allora – smuove un’indignazione generale così accesa, che si fu costretti a chiedere l’intervento delle forze dell’ordine. Qualche tempo dopo, Bene ricordò che alla prima del film si era ritrovato “al Palazzo del Cinema, stipato di più di tremila bestiacce” e che riuscì ad evitare il linciaggio grazie alla polizia, ma non gli furono risparmiati gli insulti e “gli sputi dei veneziani in frac”.
Ma il Cristo che si trasforma in vampiro portato in scena da Bene – insieme all’esotica Salomè nera Donyale Luna – non è l’unica provocazione religiosa di questo decennio, visto che l’anno prima Ken Russell aveva incendiato la mostra con I Diavoli, accusato di blasfemia e successivamente sequestrato al momento dell’uscita nelle sale. Viene chiesto il licenziamento di Gian Luigi Rondi, e fanno discutere le sequenze più calde del film, tra cui quella del sogno di Suor Jeanne (Vanessa Redgrave) che bacia la ferita sul costato di Urbano Grandier (un massiccio Oliver Reed, già interprete per Russell di Donne in Amore). Nello stesso periodo fanno discutere Domenica maledetta domenica di John Schlesinger – incentrato su due coniugi che condividono lo stesso amante, il giovane Bob – il nuovo film di Fassbinder, Attenzione alla puttana santa!, ma soprattutto Arancia Meccanica di Stanley Kubrick, che fu accolto con entusiasmo ma indignò le istituzioni per la rappresentazione esplicita della violenza ed è rimasto vietato ai minori di 18 anni fino al 2007, anno della sua prima messa in onda televisiva. Dopo un inizio così discusso, gli anni Settanta della Mostra si chiudono con un’edizione dai contenuti forti: c’è La Luna di Bertolucci, ad esempio, che parla di droga e incesto – con sequenze molto forti – ma anche altre storie che hanno per protagonisti i giovani, tra cui Vereda Tropical, di Joaquim Pedro de Andrade, incentrato su un ragazzo il cui oggetto del desiderio è una succosa anguria (molti anni prima de Il gusto dell’anguria, che vivacizzò più di un festival con il suo colorato cocktail di sesso, canzoni e cocomeri).
Gli anni Ottanta e Novanta: querelle, tentazioni e scandali mancati. Gli scandalosi protagonisti di questo periodo, saturo di provocazioni costruite a tavolino, più che di vere pellicole in grado di lasciare un segno (nell’arte come nell’immaginario collettivo) sono due: Fassbinder e Scorsese. Il regista tedesco è scomparso da appena due mesi, eppure il suo Querelle de Brest, presentato in concorso nel 1982, solleva un tale polverone mediatico – ancor prima della presentazione alla Mostra – che il direttore della kermesse si vide costretto a rilasciare un comunicato per calmare le acque, e difendere la scelta di includere il film in cartellone. Anche il presidente della giuria di quell’anno, Marcel Carné, difese il film – che nelle sale italiane uscirà con un taglio di circa due minuti su una sequenza di sesso gay – non essendo riuscito a fargli avere un premio. Ma l’approdo del marinaio Georges Querelle in Laguna non susciterà lo stesso clamore riservato al Gesù di Martin Scorsese, sei anni dopo. Se per l’ultimo film di Fassbinder si era mossa la censura, per L’ultima tentazione di Cristo arrivano anatemi dalla Chiesa Cattolica, ma anche da rappresentanti del mondo del cinema e interventi “preventivi” dei magistrati. Zeffirelli attribuisce il film a “quella feccia culturale ebraica di Los Angeles, sempre in agguato per dare una botta al mondo cristiano”, e le associazioni cattoliche promuovono il boicottaggio della pellicola che racconta un Gesù più umano, rispetto alle precedenti rappresentazioni. Per il film di Scorsese è tutta pubblicità, e la sua presentazione alla Mostra è il chiaro segnale che ormai, a far scandalo non è tanto il sesso, ma un approccio controverso (o alternativo) a tematiche religiose. Una tendenza che poi sarà confermata negli anni a venire. Per il resto, nell’arco di questi vent’anni alla Mostra, il comune senso del pudore non subisce grandi scossoni. All’inizio degli anni Ottanta fa discutere Ferreri con il suo Storie di ordinaria follia, ma ad un certo punto – con l’esclusione di Velluto blu dal cartellone – qualcuno, come la Aspesi, chiede ironicamente a gran voce “pietà, dateci uno scandalo”, rivolgendosi evidentemente a Gian Luigi Rondi, che non aveva accettato il film di Lynch in cartellone semplicemente perché gli dava fastidio vedere la figlia di Ingrid Bergman senza veli. Per tutti gli anni Novanta si tenta di conquistare la laguna con l’eros spinto, estremo – quello della serie “lo famo strano?” – si parla tanto di Boxing Helena con Sherilyn Fenn affettata come un cotechino da Julian Sands, di Bambola, con Valeria Marini seduta su una mortadella, e dell’altro film di Bigas Luna presentato alla Mostra, Prosciutto prosciutto, così come delle attrici nude di Tinto Brass che arrivano in gondola per fare un po’ di chiasso insieme al loro pigmalione. Ma si tratta di chiacchiere (e sesso da salumeria, come abbiamo visto) che sfumano nel nulla, e che vengono riservate anche ad altri film in odore di scandalo come Guardami – pretestuosamente ricalcato sulla storia di Moana Pozzi – o Una relazione privata di Frederic Fonteyne. Neanche l’attempato gelataio dai gusti particolari di João César Monteiro ne La commedia di Dio riesce a scandalizzare seriamente qualcuno, e a questo punto non c’è da stupirsi se qualcuno paragona la mostra di quegli anni a eventi popolari, ma meno prestigiosi come Miss Italia o Sanremo. Le uniche discussioni più seriose riguardano Assassini Nati e soprattutto l’ultimo film di Stanley Kubrick, Eyes Wide Shut che viene presentato furbescamente come una pellicola scandalosa, addirittura “un film a luci rosse d’autore”, ma non desta scalpore e lascia la critica con l’amaro in bocca.
Dagli anni Zero ad oggi: Il fantasma e il sessodipendente. I primi anni Zero della Mostra si aprono con un film sessualmente esplicito e cupo, che fa discutere moltissimo e non piace a tutti. La storia di Sèrgio, netturbino gay interpretato da Ricardo Meneses, è l’unica che scuote davvero il Festival in questi anni, anche se non mancheranno certo le pellicole controverse. Il fantasma di João Pedro Rodrigues mostra il protagonista impegnato in una serie di scene che non lasciano nulla all’immaginazione, tanto sono esplicite – sesso orale in bagni pubblici, masturbazioni con ipossia, costumi in latex nero: ce n’è abbastanza per far arrossire il povero Fassbinder di Querelle – e lo stesso Meneses, a Venezia, appare un po’ frastornato, sorridente, ma certamente non abituato a gestire tanta attenzione e curiosità sulle sue performance, e d’altronde O Fantasma sarà la sua unica prova interpretativa, oltre che l’unico film capace di scuotere il Festival nella “vecchia maniera” in cui si intendeva fino a qualche anno fa. Venezia cambia – e cambiano anche i critici che la vivono, oltre che gli addetti ai lavori – quindi se è vero che alcuni film si prestano a qualche chiacchiera – parliamo dei due film di Larry Clark presentati a inizio anni Zero, Bully e Ken Park, ma anche del piccante Y tu mamá también, che porterà fortuna ai due simpatici protagonisti Gael Garcia Bernal e Diego Luna – la maggior parte delle pellicole presentate negli ultimi anni si prestano a far discutere più per i temi affrontati che per le sequenze calde o per scene d’amore omosessuali. Ad esempio I segreti di Brokeback Mountain, così come A Single Man, non saranno accolti con lo stesso sconcerto riservato al film di Rodrigues, ma se ne parlerà soprattutto per le qualità artistiche. Più che sollevare polemiche, i film degli ultimi anni hanno contribuito a rilanciare dei dibattiti molto interessanti, anche se accesi: si è parlato di eutanasia in occasione della presentazione di Mare dentro e più recentemente della Bella addormentata di Bellocchio (che tra l’altro era ricalcato sulla vicenda di Eluana Englaro, quindi un argomento ancora caldissimo sui media), si è parlato di controversie legate alla religione con i transessuali islamici di Tedium, ma soprattutto con Magdalene, del 2002 – in cui si denunciavano gli abusi subiti dalle giovani “peccatrici” ospiti dei conventi della Maddalena, in Irlanda – e più recentemente con Paradise: Faith, soprattutto per una sequenza di masturbazione con un crocefisso. E se Bertolucci, trent’anni prima, parlava di droga, negli ultimi anni la Mostra si aggiorna affrontando il tema delle dipendenze (generiche, ma non meno insidiose) con Shame, per il quale si spende qualche battuta colorita sulle “misure” di Michael Fassbender, ma soprattutto fa parlare per l’intensità del tema e delle sequenze che vedono protagonista il bravo e affascinante attore tedesco. Anche il nostro Stefano Accorsi aveva smosso un po’ le acque a Venezia con il suo celebre nudo integrale in Ovunque sei, ma i temi affrontati dal film di Placido non avevano certamente lo stesso impatto di quelli del film di Steve McQueen. Shame: Michael Fassbender a letto con il suo computer in una scena del film. A fare scandalo – e sul serio – in questi ultimi anni, sono alcune presenze legate al clima politico. Non è tanto l’approdo di una starlette come Noemi Letizia a suscitare sdegno – d’altronde la ragazza, dopo le vicissitudini con Papi, era in cerca di visibilità – ma il fatto che per la bulgara Michelle Bonev, vicina all’ex-premier, sia stato istituito un premio speciale, nel 2010, e siano state spese cifre ingiustificate. Insomma, nessuna scena hot, nessun tema caldo riesce a mettere in ombra certe bassezze. E quest’anno? The Canyons promette sicuramente di fomentare un po’ di discussioni – soprattutto sul fronte del gossip – ma tra i film presentati alla 70esima Mostra del Cinema, quello che ha un buon potenziale di lanciare un vero dibattito è Gerontophilia, per il quale il provocatorio Bruce La Bruce mette in scena il rapporto tra un ragazzo di diciotto anni e l’anziano ospite di una casa di riposo, che ne ha ottantadue. Staremo a vedere cosa ci aspetta.
· Cannes delle femministe.
Delon, vittima di una cultura del linciaggio. Pubblicato mercoledì, 15 maggio 2019 da Pierluigi Battista su Corriere.it. Siamo a Cannes e sembra una parodia comica di un film catalogato come «serio», come la trasposizione da Parigi a Zagarolo che Franchi e Ingrassia proposero del famoso tango di Bertolucci. Ma la damnatio di Alain Delon decretata da un manipolo fanatico non è comico, non è la parodia grottesca di cose molto serie come il «sessismo» e il «razzismo». No, è tragicamente vero. È vero che il premio alla carriera che Cannes assegnerà a un’icona storica del cinema viene contestato. È vero che il nome di Alain Delon viene ostracizzato. È vero che di Alain Delon si chiede la messa al bando non per quello che ha fatto, ma per quello che ha detto, ritenuto sconveniente dalle vestali del pensiero censurato. Fosse una manifestazione di solitaria intolleranza, la bizzarria di menti eccitate, davvero non varrebbe nemmeno la pena di parlarne. Ma invece l’ostracismo contro Alain Delon è solo l’ultimo anello di una catena di intolleranze, di intimidazioni, di linciaggi di immagine che sta sconvolgendo da anni il mondo della cultura, dell’arte, dello spettacolo. Chiudono mostre d’arte, bandiscono i classici della letteratura dalle università, impediscono l’uscita del film di Woody Allen. Ora si gettano su Delon, senza timore del ridicolo perché sanno che ormai il messaggio intimidatorio è arrivato: chiunque può essere messo al rogo (simbolico, ancora, e per fortuna), la caccia alle streghe può partire in ogni momento, anche approfittando di un festival internazionale. Ma bisogna insistere, pensare che premiare Delon per la sua carriera è cosa giusta e sacrosanta e che nessuno strepito potrà occultare questa semplice verità. Bisogna avere anche un po’ pena per le menti sovreccitate dei nuovi paladini della censura e del silenzio intimorito. E neanche questa è una parodia.
Delon, un caso a Cannes «Non merita la Palma è maschilista e omofobo». Pubblicato martedì, 14 maggio 2019 da Corriere.it. Sessista, razzista, misogino… Il caso Delon cresce, monta. E azzanna gli zombie di Jarmusch, oscurando l’inaugurazione. Le femministe contestano Alain Delon per le sue idee e per come le esprime. L’icona del cinema francese riceverà la Palma d’oro alla carriera e la polvere delle polemiche ricopre il tappeto rosso. Non è bastata la difesa d’ufficio del delegato del Festival Thierry Frémaux: «Non gli diamo il Nobel per la pace ma un premio alla carriera». Ha aggiunto che Alain Delon, 83 anni, in sostanza va capito, appartiene a un’altra epoca, che non è quella del dopo Weinstein e del politically correct. L’attore ieri ha rilasciato un’intervista al quotidiano Nice Matin, eludendo la querelle, smorzando i toni, ma rievocando il suo tumultuoso rapporto con Cannes, che mai lo ha premiato. Ventidue anni fa non fu invitato all’anniversario dei 25 anni del Festival, e insieme col suo amico Jean- Paul Belmondo lo boicottò. Si adontò perché nel 1984 non fu selezionato il suo film Notre Histoire, girato da Bertrand Blier (vinse il César come migliore attore). Questa la considera una riconciliazione, ma fonti a lui vicine, al di là delle dichiarazioni dovute («la prima volta al Festival fu nel 1961 con Che gioia vivere di René Clement un grande onore») dicono che ha a lungo esitato se ricevere o meno il riconoscimento. Tutto è cominciato con la presa di posizione dell’associazione femminista americana Women and Hollywood, per bocca della presidente Melissa Silverstein che ha chiesto al Festival di ritirare la Palma a Delon, raccogliendo 15 mila firme in una petizione, in costante aumento. Colui che nell’intervista al quotidiano della Costa Azzurra è «Il mostro sacro del cinema», per il movimento femminista sembra solo un mostro, dai «valori aberranti». Da «faccia d’angelo», come veniva chiamato per la sua bellezza insolente, a faccia di bronzo (stando alle accuse): «Cannes manda un segnale negativo alle donne e alle vittime di violenza; siamo deluse». All’attore rimproverano di essersi espresso contro le adozioni da parte delle coppie omosessuali, e di essere un simpatizzante della destra politica. In effetti l’attore è amico di Jean-Marie Le Pen, che conobbe al tempo del servizio militare durante la guerra d’Indocina. Ma non si può dire altrettanto che abbia in simpatia la figlia Marine, che non votò al recente ballottaggio. A Nice Matin Delon ha detto: «Ho avuto una carriera impensabile, in un’altra epoca, altri tempi… Ho lavorato con Clément, Visconti, Losey». Memorie: «Oggi siamo rimasti in tre della cosiddetta banda dei cinque: Trintignant, Belmondo e il sottoscritto. Cassel e Brialy se ne sono andati. Il cinema mi ha indicato una strada e salvato dalla morte». I travagli familiari, la famiglia adottiva, il collegio, la gioventù ribelle…Ha sempre sbandierato il suo amore per le donne: «Non ho chiesto nulla e mi è capitato tutto. Esisto solo per loro, e a loro devo tutto», ha detto in tv ospite di Fabio Fazio. Aggiungendo con ironia che da giovane fu molestato da tante ragazze. Le femministe gli rinfacciano i toni machisti, come uno di quei boxeur che ha interpretato. Scoperto in Italia negli Anni 60 da Luchino Visconti, a tratti parla in terza persona. Si è chiuso nella nostalgia e nell’orgoglio: «Ho fatto quello che volevo, quando volevo, con chi volevo. Sono rivolto più al passato perché ne ho avuto uno straordinario. Sono un vincente. Ho interpretato i ruoli che mi hanno proposto e non sono stato male. Alla fine nella maggior parte dei miei film muoio, e il mio pubblico si sorprende. Ma per essere un eroe devi morire».
Alessandra Magliaro e Francesco Gallo per l'ANSA il 14 maggio 2019. Non sono gli zombie di Jim Jarmusch a turbare la vigilia del festival di Cannes che comincia domani sera con I morti non muoiono, l'horror comedy con Bill Murray, Adam Driver (assente), Selena Gomez, Cloe Sevigny ma le femministe che hanno addirittura lanciato una petizione per boicottare la Palma d'oro onoraria al mito del cinema francese Alain Delon guidata da avvocatesse in prima fila per i diritti delle donne come Melissa Silverstein, fondatrice di Women and Hollywood. "Le contestazioni a Delon? Lo premiamo con la Palma d'oro alla carriera non con il Nobel per la pace" ha detto con convinzione il delegato generale del festival di Cannes Thierry Fremaux incontrando la stampa internazionale per dare il via alla 72/ma edizione. Il riconoscimento a Delon è stato contestato perchè il controverso attore ha ammesso di aver avuto atteggiamenti violenti con le donne. Ma non solo, perché si è anche espresso contro l'adozione da genitori dello stesso sesso ed è notoriamente vicino alla destra, alle posizioni del Fronte Nazionale di Le Pen. "Nessuno è perfetto - ha commentato sconsolato Fremaux - ma le contraddizioni sono nella storia di ciascuno. Posso non essere d'accordo con quello che ha detto in passato, ma dobbiamo anche contestualizzarlo: Delon appartiene ad un'altra generazione e a ben dire il Fronte di Le Pen rappresenta il 20 per cento dei francesi. Noi qui premiamo l'attore, l'artista che ha incantato Visconti e ci ha fatto sognare al cinema con Il Gattopardo". Insomma, anche se ben mascherata, una certa preoccupazione c'è. Del resto Cannes è sotto la lente d'ingrandimento anche per il gender gap: lo scorso anno la disuguaglianza negli alti incarichi dell'organizzazione del festival e nella selezione è stata presa di mira con clamore dal gruppo 50/50 2020 che auspica la parità entro il 2020. Fremaux ha ricordato "l'impegno firmato un anno fa" e la strada senza ritorno imboccata per avere più donne nei centri di potere del festival. Con appena quattro film in competizione? "Sono 15 anzi 20 se contiamo i cortometraggi. Del resto la sottorappresentazione delle donne registe della industria cinematografica è un problema più ampio che non dovrebbe essere discusso solo una volta all'anno durante il festival. Siamo in cammino, non siamo arrivati ma nonostante ciò posso dire che stiamo migliorando anzi stiamo provando ad essere perfetti: è un inizio di cambiamento, siamo lo specchio di quanto accade nella società". L'anima politica del festival è forte, ha ricordato Fremaux, citando i nuovi film di Loach, Dardenne, Les Miserable di Ladj Ly, Bacurau di Mendoncha figlio e Juliano Dornelles, per citarne alcuni "ma questo in equilibrio con l'anima romantica della selezione". Se lo scorso anno ha regnato la polemica Netflix, quest'anno, ancora tenendo duro con una selezione che non li ha compresi, il tema sembra essere, almeno alla vigilia meno appetibile, superato dai malumori per gli incastri punitivi delle proiezioni per la stampa tutte embargate in contemporanea con quelle ufficiali. Cannes ribadisce di voler essere al centro del cinema dal 14 al 25 maggio esaltando le première con il cast e l'eco attrattiva del tappeto rosso, la stampa si adegui. Per la sicurezza esagera: con la polizia a cavallo di Seine-et-Marne ed è anche un onore, una missione prestigiosa sottolinea il brigadiere capo Jean Emanuel Cotelle, capo dell'Unità equestre dipartimentale della polizia nazionale che con il suo assistente hanno raggiunto la cittadina con i loro cavalli Aldo e Titan per partecipare alla messa in sicurezza del Festival di Cannes. Per dodici giorni, dal 14 al 25 maggio, per questa 72esima edizione, la popolazione della città passerà da 75.000 a più di 200.000 persone. Garantire la sicurezza è diventata una priorità. Quasi 700 agenti di polizia sono mobilitati poi attorno all'evento e 639 telecamere puntate sulla città. Nelle vicinanze del palazzo, le guardie di sicurezza filtreranno i passaggi ai portici. Enormi fioriere in cemento antisfondamento , infine, già come l'anno scorso circoscrivono la Croisette. Stessa protezione anche dalla parte del mare: nessuna barca può avvicinarsi al palazzo.
· L’Oscar LGBTI.
Oscar 2019, vince il politicamente corretto, scrive il 25 febbraio 2019 Roberto Vivaldelli su Gli Occhi della Guerra de Il Giornale. Se l’anno scorso era il turno del #MeToo, quest’anno a stravincere sul palco degli Oscar 2019 di Los Angeles è il politicamente corretto. Nella serata in cui Green Book ha vinto l’Oscar per il miglior film mentre Alfonso Cuarón ha ricevuto gli Oscar alla regia e alla fotografia per Roma, a dominare incontrastata è la propaganda politically correct che tanto va in voga a Hollywood e dintorni. Dalle parole di Rami Malek, premiato come attore protagonista per la performance in Bohemian Rhapdsody, nei panni di Freddie Mercury, al discorso contro i muri e le frontiere dell’attore Javier Bardem, la cerimonia degli Oscar 2019 dimostra quanto il mondo dell’intrattenimento viva in una sua bolla tutta patinata, sempre più lontana dalla vita quotidiana, tra stoccate contro il presidente Donald Trump e la sua lotta all’immigrazione clandestina all’esaltazione dell’omosessualità e del “gender fluid”. Una serata zuccherosa all’insegna dei buoni sentimenti con pochi momenti di vivacità, fatta eccezione per la performance dei Queen.
“Abbiamo fatto un film su un omosessuale e un immigrato”. Le parole di Rami Malek, attore protagonista di Bohemian Rhapsody, sono tutto un programma: “Abbiamo fatto un film su un omosessuale, immigrato, che ha vissuto impudentemente, e il fatto che questa sera stiamo festeggiando lui e la sua vita è la prova che abbiamo bisogno di storie come questa”. Non contento, Malek ha ricordato che lui, così come il cantante dei Queen, è figlio di immigrati: “Mio padre era egiziano. Sono un americano di prima generazione e parte della mia storia la sto scrivendo ora”, ha sottolineato guadagnandosi gli applausi delle star di Hollywood. Non meno tonfo di retorica il discorso dell’attore Javier Bardem. Salito sul palco per premiare il miglior film straniero degli Oscar 2019 – Roma, di Alfonso Cuaròn – l’attore spagnolo ha espresso un chiaro riferimento politico parlando di muri e confini e lanciando una frecciatina al presidente degli Stati Uniti Donald Trump: “Non ci sono confini o muri che possano frenare l’ingegno e il talento” ha sottolineato. “In qualsiasi regione di qualsiasi Paese di qualsiasi continente ci sono sempre grandi storie che ci commuovono”, ha detto Bardem sul palco insieme all’attrice Angela Bassett. “E stasera celebriamo l’eccellenza e l’importanza delle culture e delle lingue dei diversi Paesi”. A vincere però la statuetta come miglior film è Green Book, film di Peter Farrelly basato sulla storia vera di Shirley, un virtuoso della musica classica, e del suo autista temporaneo in tour negli Stati del Sud, dall’Iowa al Mississipi: una pellicola contro il pregiudizio razziale ma paradossalmente non abbastanza politicamente corretta per gli attivisti più liberal, che accusano Farrelly di essere un sostenitore del presidente Trump.
L’abito di Billy Porter che “supera i generi” agli Oscar 2019. L’opinione pubblica progressista ha esaltato l’attore Billy Porter, apparso sul red carpet con un eccentrico abito “gender fluid”, uno smoking con gonna di velluto firmato Christian Siriano. “Quando arriverà la fine del genere sul tappeto rosso” si chiede il New York Times. “Con Billy Porter, Elsie Fisher e alcuni altri Oscar, il tappe rosso sta iniziando a scoprire un favolo terzo modo di essere”. Né uomo né donna, quindi, ma “gender fluid”. Ennesima fissazione dell’ideologia politicamente corretta dove essere uomo e bianco diventa una colpa.
E l'Oscar va... al cinema corretto, premi a "Green Book" e "Roma". Hollywood punta su una commedia sull'integrazione e sul film di Cuarón. Miglior attore Malek-Mercury, scrive Pedro Armocida, Martedì 26/02/2019, su Il Giornale. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. E così la 91esima cerimonia degli Oscar è rimasta coerentemente senza conduttore dopo la rinuncia dell'attore Kevin Hart per le polemiche seguite ad alcune suoi tweet omofobi di ben nove anni fa. Perché Hollywood non dimentica, mai, di essere la capitale, oltre che del cinema, del politicamente corretto. Dunque la maggior parte dei premi può essere letta in quest'ottica, vagamente politica, anche se parliamo comunque di film di grande qualità. Come Green Book di Peter Farrelly che si è portato a casa la statuetta del miglior film scompaginando le aspettative del grande favorito, Roma, di Alfonso Cuarón comunque vincitore (Netflix pare abbia investito 25 milioni di dollari nella campagna degli Oscar) con il triplete di peso: miglior regia (è la quinta volta in sei anni che vince un messicano), miglior fotografia (sempre dello stesso regista), migliore film straniero. Due titoli emblematici perché parlano di integrazione nei loro paesi, Stati Uniti e Messico da tempo divisi sulla questione immigrati: «Ma facciamo tutti parte dello stesso oceano» ha detto Cuarón. Anche se ad alzare muri contro Green Book è uno come Spike Lee, mentre Steven Spielberg ha detto che è il suo «buddy movie preferito dai tempi di Butch Cassidy», forse perché a dirigere una storia su un afroamericano di successo che si fa scorrazzare per l'America da un autista bianco c'è un regista non nero. «Ogni volta che qualcuno fa l'autista per qualcun altro, perdo» ha scherzato, ma non troppo, Spike Lee riferendosi all'anno in cui vinse A spasso con Daisy e il suo Fa' la cosa giusta non venne nemmeno candidato. Ora Green Book, a parti invertite, racconta di come a volte bisogna sedersi al posto di dietro per andare avanti: «Questo è un film sull'amore che supera le differenze», ha detto il regista che finalmente viene premiato (Oscar anche alla migliore sceneggiatura originale) con una commedia dopo aver diretto, insieme al fratello Bobby, l'esilarante Tutti pazzi per Mary. Come tutti black sono i premi che seguono. «Dedico questo premio a mia nonna, la mia eroina che mi ha incoraggiato a fare tutto quello che volevo», ha detto l'afroamericano Mahersala Ali, miglior attore non protagonista due anni dopo Moonlight di Barry Jenkins che ora, con Se la strada potesse parlare, ha portato l'Oscar a Regina King come miglior attrice non protagonista. Grazie al cinecomic Marvel Black Panther vince come miglior costumista per la prima volta un'afroamericana, Ruth E. Carter, che ha ringraziato Spike Lee con cui aveva esordito in Malcolm X: «Spero che questo premio ti renda orgoglioso!». Il regista di BlacKkKlansman che ha vinto ora il suo primo Oscar competitivo per la migliore sceneggiatura non originale, pensando di stare a un comizio, invece, ha detto: «Le elezioni del 2020 sono dietro l'angolo, ricordiamocelo, possiamo fare la cosa giusta», ogni riferimento all'uomo nero Donald Trump è... voluto. Di immigrazione s'è parlato anche con il premio al miglior attore andato a Rami Malek che interpreta il leader dei Queen in Bohemian Rhapsody: «Sono figlio di immigrati egiziani, americano di prima generazione, non ero la scelta più ovvia ma a quanto pare ha funzionato. Anche Freddie Mercury era un immigrato». A questo proposito possiamo allora essere contenti perché c'è un pezzetto d'Italia nell'Oscar al miglior film di animazione andato a Spiderman: un nuovo universo in cui l'uomo ragno, anche qui di colore, è stato disegnato dall'artista marchigiana Sara Pichelli. Alla fine grazie a Olivia Colman, migliore attrice per il ruolo della regina Anna in La Favorita di Yorgos Lanthimos (il vero sconfitto della serata), sul palco è arrivata un po' di ironia: «Ricordo di quando ero un'addetta alle pulizie, amavo quel lavoro ma ho sempre sognato questo momento». Standing ovation del pubblico. Lady Gaga, nominata anche come migliore attrice, s'è dovuta invece accontentare dell'Oscar per la migliore canzone, Shallow, uno dei brani di A Star Is Born di Bradley Cooper che ha cantato insieme al regista e attore sul palco a cui ha fatto gli occhi più che dolci. Dopo la premiazione - a Los Angeles sono le otto di sera quando finisce - cena al Governor's Ball di Hollywood dove, ad attendere i 1500 ospiti, c'era Wolfgang Puck, lo chef più in degli States, che è arrivato a proporre pure i bocconcini di quaglia fritti. In puro «Nashville style», of course. Sovranisti almeno a tavola.
Gianni Poglio per "Panorama - articolo 18 ottobre 2011. «Negli anni Ottanta Freddie se l'intendeva con un certo Bill Reid, un tipo ben piazzato e flemmatico del New Jersey, che aveva conosciuto in un bar di New York. Fu una relazione turbolenta, a volte con punte di violenza da brivido. Un giorno Reid morse la mano di Freddie fra il pollice e l'indice. Freddie sentiva un dolore fortissimo e perdeva sangue dalla ferita, ma rifiutò qualunque tipo di soccorso. E salì sul palco». Ha visto questo e molto di più, Peter Freestone, l'uomo che al cantante dei Queen ha dedicato 12 anni di vita e un libro, Freddie Mercury, una biografia intima. «Ero il suo assistente personale, la sua ombra, la prima persona a cui si rivolgeva per qualsiasi esigenza. Sono stato al suo fianco nei gay club di tutto il mondo, in vacanza, a casa di Michael Jackson. L'ho preso in braccio nelle stanze della sua villa di Londra: l'aids gli aveva scarnificato un piede e, per Freddie, camminare era diventato un calvario dolorosissimo. Ero lì anche quando ha chiuso gli occhi per sempre, la sera del 24 novembre 1991. Non puoi capire che cos'è l'hiv finché non vedi da vicino come consuma gli uomini» racconta commosso a Panorama. «Ho vissuto al suo fianco l'era della luce e quella del buio. Dopo la diagnosi, è scesa la notte. Ho visto la più straordinaria delle vite glamour trasformarsi in una mesta fuga dal mondo» ricorda Freestone. «Negli anni felici, quando non era impegnato a scrivere musica memorabile, Freddie si buttava sul sesso. Per lui era un'attività spensierata da praticare senza grandi investimenti emotivi. L'amore di cui cantava apparteneva a un'altra dimensione e non so se l'abbia mai sperimentato di persona». Quel che di sicuro amava assaporare erano i piaceri proibiti della vita notturna. «Freddie adorava il Saint, un vecchio teatro nel Lower East Side di New York trasformato in uno spettacolare nightclub per omosessuali. Riuscii a ottenere la tessera di socio onorario in modo che il suo nome non comparisse fra quello degli avventori. Il difficile fu conquistare l'armadietto. Non se ne poteva fare a meno perché, dopo avere indossato gli indumenti fetish e il necessario da mettersi sopra durante le danze, vi si riponevano i vestiti normali e la droga. Il venerdì pomeriggio andavo a casa del nostro "amichevole" spacciatore di fiducia nel Lower West Side. Su un tavolo c'erano due cestini da lavoro di metallo con dentro un vasto assortimento di pastiglie e polverine, tutti etichettati con nome e prezzo. Mancava solo il carrello...» racconta Freestone, ribadendo quel che ha scritto nel suo libro verità. Scampoli di una vita sopra le righe, bruscamente interrotta dalle analisi su un brandello di tessuto prelevato dalla spalla nel 1987: «Io ho l'aids, lo dicono i migliori medici sulla piazza, se vuoi lasciarmi non farò niente per impedirtelo, capirò»: con queste parole e un abbraccio interminabile Freddie Mercury annunciò al boyfriend Jim Hutton (morto di tumore nel 2010) che il suo tempo stava per scadere. Hutton non se ne andò restandogli accanto fino all'ultimo respiro. Senza interferire con la drastica decisione del fidanzato di sospendere tutte le cure, fatta eccezione per gli antidolorifici a base di morfina. «Due settimane prima di spegnersi, Freddie mi disse: "Basta con le medicine"» ricorda Freestone. «Era appena rientrato da Montreux, era debolissimo e aveva la vista appannata. Sapeva che la sua ora stava per scoccare. Entrò in casa e con un filo di voce disse: "Sappiamo tutti che da questa porta non uscirò mai più in piedi". Scese il gelo, fu come una coltellata a freddo nel petto. Mi rifugiai nella sala palestra e, per la prima volta, compresi che Freddie non aveva mai utilizzato uno di quegli attrezzi, che non aveva mai fatto un minuto di sport in tutta la vita. Iniziai a fotografare con lo sguardo ogni angolo della villa, consapevole che da lì a poco sarei uscito di lì per non rientrarci mai più». La stessa consapevolezza che aveva Brian May, il chitarrista dei Queen: «Ci convocò a casa per darci la notizia. Ricordo solo minuti interminabili di sofferenza e silenzio. Disse che avrebbe continuato a incidere canzoni fino alla fine, ma a una condizione: che nessuno di noi lo trattasse da malato. Rispettammo la sua volontà, però vederlo cantare senza energie fu uno strazio infinito. La gente lo amava davvero, non mi stupiscono i continui tributi alla sua arte, anche vent'anni dopo (il 9 novembre esce «Freddie Mercury, pensieri e parole», a cura di Greg Brooks e Simon Lupton, edito da Mondadori, ndr)». «Quando ripenso a Freddie, cosa che capita tutti i giorni» racconta Freestone «lo rivedo nel giardino di Jackson mentre, schifato e con i pantaloni bianchi sporchi di fango, viene costretto a visitare una sorta di minizoo privato. Era terrorizzato dai lama, temeva i loro sputi come la peste. Finito il tour nel mondo animale, si chiusero in sala d'incisione: solo loro due, impegnati l'uno a misurare lo sterminato talento dell'altro. Mi chiesero anche di battere per 5 minuti con il pugno sullo stipite della porta: "Scusa, ci siamo dimenticati di convocare il batterista"». Frammenti di vita reale di un genio della musica, di una star senza confini che da un giorno all'altro ha visto il suo mondo rimpicciolirsi drammaticamente. «Dalle arene stipate ai muri di una stanza popolata solo dai suoi gatti» sospira Freestone. Che aggiunge: «L'ultimo atto fu scrivere un comunicato in cui annunciava al mondo la sua malattia. Il giorno dopo non volle nemmeno vedere i giornali. Il dado era tratto e lui non aveva più niente da difendere» racconta Freestone a voce e nel suo libro. «I secondi erano diventati ore, i minuti giorni. Nella villa, il Garden Lodge, nessuno aveva più il senso del tempo e dello spazio. Solo silenzio. Fino allo squillo del telefono che tutti temevamo: era Joe, uno dei suoi amici più cari, che mi chiedeva di salire nella stanza. Freddie era entrato in coma dopo un attacco di brividi. Era rigido, con la testa in posizione innaturale. Provammo a scuoterlo delicatamente, a parlargli. Ma fu tutto inutile».
9-1-1 una serie tv americana, scrive cinemagay.it. Lo scrittore, regista e produttore gay Ryan Murphy (Nip/Tuck, Glee, American Horror Story, Scream Queens, American Crime Story, Feud) continua a meravigliarci per la sua fervente attività di creatore di serie tv, finora quasi tutte di successo, che sforna una dopo l’altra senza interruzioni. Questa frenetica attività lo porta però spesso ad abbandonare le sue creature nelle mani di altri, trovandosi lui presto impegnato in nuove produzioni. Questa probabilmente è anche la causa che determina un andamento qualitativo decrescente delle sue serie dopo ottime partenze. Questa volta però, sebbene la serie abbia alle spalle la 20th Century Fox, non ci sembra che la partenza di questo “9-1-1” sia folgorante, per cui vorremmo sperare che proseguendo (è già stata messa in produzione una seconda stagione di 13 episodi), si possa assistere ad un’inversione di tendenza e vedere la serie migliorare col tempo. Sarebbe lodevole anche per dare maggiori soddisfazioni all’ottimo cast selezionato, a partire da Angela Bassett (American Horror Story, What’s Love Got to Do with It), Peter Krause (The Catch, Six Feet Under), Connie Britton (Nashville, Friday Night Lights, American Horror Story), Oliver Stark (Into The Badlands), Aisha Hinds (Shots Fired, Underground), Kenneth Choi (The People v. OJ Simpson: American Crime Story), and Rockmond Dunbar (Prison Break, The Path). Quest’ultimo, Rockmond Dunbar, interpreta Michael Grant, il marito della protagonista Athena Grant (Angela Bassett), che scopriamo subito essere omosessuale, dichiaratosi con la moglie dopo molti anni di matrimonio e due figli (in seguito la moglie dirà di averlo sempre saputo), che ora deve decidere come comportarsi, soprattutto pensando a quello che è meglio per i figli. Il tema non è nuovissimo ma sembra che venga affrontato con inattese soluzioni. Naturalmente, come in tutte le sere create da Murphy, i personaggi LGBT che compaiono sono anche altri, come la lesbica Henrietta (Aisha Hinds), sposata con una donna con la quale sta crescendo un figlio. La serie segue le vicende di un gruppo di vigili del fuoco, coadiuvati da poliziotti e paramedici, che intervengono (più volte durante ogni episodio) in seguito alle chiamate di emergenza pervenute al 911. Queste emergenze (le più varie e bizzarre, incredibile quella del neonato finito nelle tubature di scarico del cesso) ci offrono momenti da brivido, ma vengono abbandonate subito dopo il primo intervento. Vengono invece sempre più approfondite le vicende personali dei vari operatori, dal giovane pompiere sesso-dipendente Evan Buck Buckley (l’affascinante Oliver Stark), all’operatrice telefonica del 911, Abby Clark (Connie Britton), che deve affrontare la malattia della madre, alla lesbica Henrietta (Aisha Hinds), vigile del fuoco con moglie e figlio, alla poliziotta Athena Grant (Angela Bassett) con marito che si rivela omosessuale, ecc. Come dicevamo, speriamo che la serie acquisti spessore col passare degli episodi, staccandosi dalla banalità e monotonia delle tante serie procedurali americane, fatte per soddisfare le esigenze di un pubblico casalingo.
Protagonisti e amori gay nelle serie tv. Da House of Cards a le regole del delitto perfetto, da Grey's Anatomy a Empire, da American Horror Story a Flash: non c'è serial senza protagonisti gay, lesbo, bisex e transgender. Perché l'uguaglianza dei diritti passa anche per la tv, scrive Eugenio Spagnuolo il 28 giugno 2015 su Panorama. A che le chiedeva se introducendo amori gay nei suoi serial, da Grey's Anatomy a Scandal, fino a Le regole del delitto perfetto, volesse gayzzare la tv, Shonda Rhimes, la donna più potente della tv americana, ha risposto che in realtà lei voleva "normalizzarla". Perché gli amori tra persone dello stesso sesso nel 2015 non possono essere più considerati "eccezionali". Nella sua battaglia Rhimes non è sola. La maggioranza dei produttori tv americani ha sposato da tempo la causa dei diritti civili, scegliendo di raccontare il composito universo LGBTQ (acronimo di gay, lesbo, bisex, transgender e queer) come possibilità della vita, senza i sensi di colpa della vecchia Hollywood (ben descritti nel documentario Lo Schermo Velato, di Robert Epstein e Jeffrey Friedman). Personaggi e amori omo, come mostriamo in questa fotogallery, appaiono in tutte le serie tv di maggior successo degli ultimi anni. Finanche in House of Cards, dove è lo stesso Presidente Underwood (Kevin Spacey) a condurre un terzetto bisex con la moglie e la guardia del corpo. O in Kingdom, serial sui tostissimi fighter del MMA, dove Nick Jonas è un gladiatore metropolitano gay, che sul ring non fa sconti a nessuno. E se Looking e Cucumber si concentrano sulla vita di due comunità gay (rispettivamente San Francisco e Manchester), tutte le altre serie preferiscono le storie più inclusive, dove c'è spazio per tutti, etero ed omo. Nel segno di quell'uguaglianza tanto cara al presidente Obama, che dopo la storica sentenza della corte suprema americana a favore dei matrimoni gay, ha twittato: "L'amore vince". Quello di "oggi è un grande passo nella nostra marcia verso l'uguaglianza". E chissà che la tv anche stavolta non abbia fatto la sua parte...
Tra i segreti della Casa Bianca, al tempo di House of Cards, c'è anche la bisessualità del presidente Frank Underwood (Kevin Spacey) che in una puntata memorabile conduce un terzetto di letto con la moglie e la guardia del corpo.
In Empire, il coming out di Jamal (Jussie Smollett), figlio del potente discografico Lucious Lyon, crea lo scandalo: il demi-monde dei rapper afroamericani è decisamente omofobo. Ma la musica aiuterà l'amore a vincere anche sui duri di Harlem.
Anche in Scandal, Shonda Rhimes ha voluto raccontare la nascita di un amore gay all'ombra della Casa Bianca. Ma il presidente stavolta non c'entra. Sono scintille e fiori d'arancio tra il capo dello staff presidenziale, Cyrus (Jeff Perry), e il giornalista James (Dan Bucatinsky).
La coppia più bella di Grey's Anatomy? Secondo molti è quella formata da Arizona (Jessica Capshaw) e Callie (Sara Ramirez).
Tyrant ha il pregio di offrire uno scenario inedito: la vita di una famiglia americana alla corte di un moderno dittatore mediorientale. Tra le pieghe della storia, che ha gli stessi autori di Homeland, si inserisce anche il flirt tra Sammy (Noah Silver) e Abdul (Mehdi Dehbi, già apprezzato protagonista del film Il figlio dell'altra).
Transparent (Sky). Il titolo è una sciarada, perfetta: Trans + parent, perché nei 10 episodi scopriremo cosa succede dopo che Mort (Jeffrey Tambor) rivela a moglie e figli di essersi sempre identificato come donna e di aver deciso di affrontare la sua transizione verso Moira.
Le regole del delitto perfetto è stata definita una delle serie tv thriller più appassionanti di sempre. Lo sarebbe lo stesso senza lo scaltro Connor (Jack Falahee) e Oliver (Conrad Ricamora), l'hacker che lo aiuta nelle sue ricerche e col quale intrattiene una relazione?
Orange is the new black è la serie di culto di Netflix. Ambientata tra le mura di un carcere federale e ispirata a una storia vera, gira attorno all'amore bello (e un po' dannato) tra Piper (Taylor Schilling) e Alex (Laura Prepon).
In Game of Thrones, le scene di sesso gay e bisex non mancano. E vedono coinvolti valorosi guerrieri sul campo di battaglia. Nell'ultima stagione, gli amori omo sono diventati anche il pretesto per descrivere il clima oscurantista seguito alla (ri)nascita di una potente setta religiosa, che ha messo in ginocchio persino la Regina Cersei.
Kingdom racconta in 10 episodi cosa si agita nel dietro le quinte del MMA, il campionato di arti marziali miste dove si sfidano i moderni gladiatori, tra cui si fa strada Nate. Interpretato dalla popstar Nick Jonas (Jonas Brothers), Nate è gay, ma questo non gli impedisce di mostrare tutta la sua fierezza sul ring. Eh sì che quello delle arti marziali miste è un posto da veri duri.
Drew (Brendan Fehr), uno degli "eroi" di The night shift, il nuovo medical drama della NBC (in onda in Italia su Italia1 dal 26 giugno), ha una relazione con un uomo.
Cucumber (inedita in Italia). Channel 4, la più creativa e iconoclasta delle tv inglesi ha affidato a Russell T Davies (tra gli autori del Doctor Who) un telefilm per raccontare l'omosessualità "come mai farebbe una tv americana". Cucumber, in 8 puntate, segue le turbolenze sentimentali del giovane Freddie (Freddie Fox) e di Henry (Vincent Franklin) e Lance (Cyril Nri), una coppia scoppiata di uomini gay di mezza età.
In The Flash sono gay due dei protagonisti: il buono (il capitano della polizia David Singh, interpretato da Patrick Sabongui) e il cattivo (il pifferaio, interpretato da Andy Mientus). La Par Condicio è salva.
Con Looking la HBO ha voluto raccontare la comunità gay di San Francisco, nella sua emozionante normalità. Su Sky è da poco partita la seconda stagione.
Nel circo della quarta stagione di American Horror Story, ambientata nei cupi anni 50, l'omosessualità è il segreto di Dell (Michael Chiklis), "l'uomo più forte del mondo", e del cattivissimo Stanley (Denis O'Hare).
Tra i segreti della Casa Bianca, al tempo di House of Cards, c'è anche la bisessualità del presidente Frank Underwood (Kevin Spacey) che in una puntata memorabile conduce un terzetto di letto con la moglie e la guardia del corpo.
GENDER WATCH, scrive l'08-12-2018 lanuovabq.it La Nuova Bussola Quotidiana. Sono infinite le serie TV che hanno visto personaggi omosessuali. Ma il sito Hall of Series, un sito specializzato nell’analisi e recensione delle serie TV, ha indicato quelli che potrebbero essere i serial che maggiormente hanno inciso nella coscienza collettiva per sdoganare l’omosessualità.
Ellen. Fu la prima serie TV in cui il personaggio principale faceva coming out. Avvenne il 30 aprile 1997 davanti ad un pubblico di 40 milioni di americani.
Will & Grace. In onda dal 1998 al 2006, la serie è stata riproposta anche di recente. Will è dichiaratamente omosessuale ed anche il suo amico Jack. La critica sostiene che la serie è piena di stereotipi sugli omosessuali.
Dawson’s Creek. Trasmesso dal 1998 al 2003 è stato un teen drama di culto che narra le vicende di un gruppo di adolescenti. Negli episodi 14 e 15 uno dei protagonisti fa coming out. Dato che il pubblico che seguiva le puntate era composto da adolescenti la scelta degli sceneggiatori acquisisce una sua particolare valenza, ovviamente di carattere negativo.
Buffy l’ammazzavampiri. Alla fine degli anni 90 una dei personaggi principali, la strega Willow, si scopre essere bisessuale. Anche questa serie Tv fu seguitissima e fece tendenza.
Queer as Folk. Uscita in una versione inglese ed in una americana, è la prima serie dedicata esclusivamente al mondo gay maschile. Narra infatti le vicende di un gruppo di omosessuali a Liberty Avenue, nel quartiere gay di Pittsburgh. La crudezza del linguaggio e soprattutto delle immagini rasenta il pornografico. La serie rappresenta però in modo realistico il vero spirito dell’ideologia gay. Ad esempio in una puntata un personaggio omosessuale, Brian, ammette: “Io non credo a queste idiozie dell’amore, io credo nelle scopate: sono oneste ed efficienti, ne entri e ne esci con il massimo del piacere e il minimo di stronzate. L’amore è una cosa per gli etero”.
The L Word. E’ la traduzione al femminile di Queer as Folk. The L Word narra la vicende di un gruppo di donne lesbiche a Los Angeles. E’ assai difficile trovare anche nei comprimari personaggi etero.
Glee. E’ una serie TV che racconta la storia di alcuni adolescenti a scuola. Oltre a diversi personaggi gay c’è da segnalare il ruolo di Unique Adams, personaggio transgender.
Modern Family. In Modern Family vengono presentate diversi tipi di relazioni, nessuna normale nel senso usuale della parola, tra cui una coppia di lesbiche con figlia. Questa serie ha vinto il premio come “Miglior Serie TV” ai Diversity Media Awards.
Orange is the New Black. E’ una serie ambientata in un carcere femminile dove quasi tutte le detenute sono lesbiche. Il sito Hall of Series scrive: “Lauren Morelli si è scoperta lesbica scrivendo la sceneggiatura della serie, ha lasciato il marito ed è convolata a nozze con una delle attrici della serie, Samira Wiley (che interpreta Poussey)”. Tra i registi anche Jodie Foster, lesbica dichiarata.
Sense8. E’ una serie prodotta dai fratelli Wachowski, gli ideatori della saga di Matrix. Entrambi i fratelli hanno cambiato sesso. La serie racconta di 8 sconosciuti sparsi per il mondo che possono connettersi tra loro. La connessione psichica avviene anche con persone omosessuali: una metafora per dire che possiamo essere sulla lunghezza d’onda giusta con chiunque. Il carattere blasfemo e sovversivo della serie è ben espresso da queste battute, recitate dal transessuale Nomi, uno dei personaggi principali il quale vuole partecipare ad un Gay Pride (marcia per l’orgoglio gay): “mia madre è una fan di San Tommaso D’Aquino. Lei considera l’orgoglio un brutto vizio e di tutti i vizi che può avere l’essere umano, per San Tommaso l’orgoglio era il re dei sette vizi capitali. Lo considerava il sommo vizio che in un batter d’ali poteva trasformare chiunque in un peccatore. Ma l’odio non è presente su quella lista, e nemmeno la vergogna. Avevo paura di questa parata perché desideravo davvero tanto poterne far parte. Così oggi marcerò per quella parte di me che aveva troppa paura per marciare e per quelli che non possono farlo, per le persone che vivono come ho vissuto io. Oggi marcerò per ricordare che non sono un io e basta, ma che sono anche un “noi”. E noi marciamo con orgoglio! Vai affanculo San Tommaso!”.
Questa è solo una selezione delle innumerevoli serie TV in cui l’omosessualità e la transessualità vengono sdoganate in televisione. E poi c’è ancora chi asserisce che il mondo gay non ha spazio nei media. Inoltre è noto che 5 minuti di televisione sono più efficaci, nel trasmettere un messaggio, che mille libri.
PERCHÉ I GAY NELLA TV ITALIANA POSSONO ESSERE SOLO MACCHIETTE? Scrive Jonathan Bazzi il 5 aprile 2018 su thevision.com. La televisione italiana continua a rappresentare l’omosessualità – maschile, perché quella femminile è perlopiù non pervenuta – ricorrendo a macchiette e caricature. È una tradizione ben consolidata, già fiorente nel cinema popolare degli anni ’70 e ’80. Dalle commedie sexy ai polizieschi, passando per gialli e sceneggiate napoletane: l’omosessuale nel cinema di genere di quegli anni era una presenza costante, ma doveva manifestare una serie di stereotipi codificati. Spesso, in realtà, non compariva per più di qualche secondo, ma ci doveva essere: faceva colore e il pubblico gradiva, a patto però che si portasse dietro la sua aura da pagliaccio ridicolo su cui tutti potevano infierire in libertà, con i peggiori epiteti – ma anche, all’occasione, fisicamente. I film di quegli anni erano popolati da una serie di figure – maschere, al pari di quelle della commedia dell’arte – che si sovrapponevano agli omosessuali reali seduti davanti allo schermo, occultandoli. Se oggi il cinema è decisamente più libero, la televisione sembra ancora affascinata da quel tipo di presenze. Soprattutto all’interno della rappresentazione generalista, non ci si è spostati poi molto da Il Vizietto, il film del 1978 con Ugo Tognazzi e Michel Serrault, culmine di tutto un repertorio cinematografico fatto di personaggi di maniera e bidimensionali. L’omosessualità nel cinema di genere dell’epoca era imbrigliata da una serie di qualità precise: effemminati in maniera vistosa, senza forza e senza carattere, questi personaggi-comparse avevano un aspetto fisico sgradevole, mai avvenenti, di mezza età, appesantiti o più spesso secchi, minuti e nevrotici. Fragili, deboli, ma animati da un atteggiamento predatorio (spesso rivolto verso gli etero), il più delle volte destinato a fallire: i gay macchietta erano quasi sempre single che vivevano in funzione di adescamenti e amplessi. Nei polizieschi venivano legati inevitabilmente al mondo della prostituzione e della droga: travestiti e marchettari, menati da tutti, criminali e polizia, e senza grandi remore, perché tanto, vabbè, son froci. Ridicoli e superficiali, senza fascino, né intelligenza e dalle vocazioni sempre uguali – camerieri, ballerini, coreografi, battoni o drag queen – incarnavano quello che la società dell’epoca, cattolica e democristiana, si aspettava; erano cliché prevedibili che non turbavano lo spettatore medio, e, anzi, erano perfetti per esorcizzare la paura dell’omosessualità. Più si calcava la mano, più si scongiurava il timore di riconoscere in se stessi qualcosa di simile al gay sullo schermo. Questi personaggi evitavano che lo spettatore facesse i conti col fatto che l’omosessualità in realtà è ovunque, e può essere anche grigia, mediocre, prosaica. Un progetto recente ha provato a esplorare i prodromi di tutto questo immaginario: si tratta del documentario “Ne avete di finocchi in casa?”, realizzato da Andrea Meroni di GayStatale e presentato all’ultimo Lovers Film Festival di Torino, che offre un’ampia casistica, tratta del cinema popolare degli anni ‘70, di queste figure perennemente sopra le righe, barzellette viventi, figurine da avanspettacolo. E proprio dall’avanspettacolo, infatti, arrivava questo repertorio umoristico: molti registi aveva iniziato scrivendo i testi per il teatro di rivista, mentre Castellacci e Pingitore già dagli anni ’60 avevano creato la compagnia del Bagaglino. L’interesse per la realtà era inesistente: molte volte venivano infatti usati attori eterosessuali che “facevano i gay”, nella convinzione (diffusa, come viene ben chiarito nel documentario di Meroni) che gli etero fossero più efficaci. Il che non stupisce, perché quello che si ricercava era la riproduzione di una serie di luoghi comuni. Il caso più celebre è forse quello di Lino Banfi, che ha usato proprio la parte dell’omosessuale per sfondare al cinema. Da Io non scappo… fuggo del 1970 in poi, nei suoi primi film ha spesso interpretato la parte dell’omosessuale-macchietta; un ruolo che gli è rimasto addosso nel tempo, visto che nel 1982 Steno – Stefano Vanzina – gli affidò la parte del salumiere gay nel fortunato Dio prima li fa poi li accoppia. Nel cinema di genere di quegli anni erano diventati molto richiesti una serie caratteristi – omosessuali anche nella vita, fino al cambio di sesso per alcuni – voluti dai registi solo ed esclusivamente per qualche scena in cui inserire la macchietta gay. Giò Stajano, Marcello (poi Marcella) Di Folco, Paolo Baroni, Vinicio Diamanti e soprattutto Franco Caracciolo, celebre per i suoi film con Fellini ma anche per la sua partecipazione ai film su Pierino con Alvaro Vitali. Caracciolo finì addirittura nel corpo di ballo delle Ragazze Coccodè del mitico Indietro tutta! di Renzo Arbore e in uno dei primi cinepanettoni, Vacanze di Natale ’91, già con Boldi e De Sica. Da un certo momento in poi, più o meno dagli anni ’80, si è aggiunto un altro modo di trattare l’omosessualità. Il cinema d’autore ha preso a rappresentare i gay come degli infelici, o al massimo dei redenti. I personaggi gay sono diventati le vittime per antonomasia: malati di AIDS, depressi, capri espiatori, in ogni caso gente destina a soffrire. E di tutto ciò si arriva a trovar traccia ancora nei film di Özpetek, che ha spesso riservato ai personaggi gay delle sue storie piene di tavolate e fag hag una fine tragica. Tutto questo accadeva quaranta, cinquant’anni fa, ma lo stereotipo della macchietta gay non è affatto tramontato, soprattutto in televisione. L’omosessuale nella tv generalista italiana infatti è spesso ancora molto vicino alle figure di repertorio: lo si vede benissimo nel mondo dei reality, in cui il partecipante gay è scelto come tonico dell’umore del cast e per questo deve conservare le caratteristiche da commedia anni ‘70. Sempre personaggi e mai persone, i gay in tv sono ancora dei giovani euforici e super effemminati oppure delle vecchie zie petulanti, fasciati in costumi (più che vestiti) dai colori sgargianti. Un figura di raccordo tra il cinema di genere dei decenni passati e la tv di oggi è stato il personaggio dello stilista Franco Tamburino, cavallo di battaglia di Giorgio Faletti, che urlava in continuazione il nome della sua governante, Adalpina. Il registro che praticano e subiscono i gay in tv è quello dell’allusione perenne e del doppio senso. L’omosessualità è ben tollerata come presenza buffa, eccentrica, sempre e comunque da legare a cose come la cura look e il pettegolezzo. Al massimo, ultimamente, nei reality ci si è aperti a qualche parentesi sull’omofobia tra i concorrenti – vera o creata ad arte – perché si aggancia bene all’attualità, fa parlare e permette di cavalcare il registro della drammatizzazione. L’identità dei personaggi gay viene modellata da autori e conduttori: se ci vuoi essere, questa è la parte da interpretare. Non che nella realtà non esistano gay effemminati o che sia sbagliato rappresentare il lato camp della comunità. Si può fare tutto, soprattutto per intrattenere; il problema è quando quella diventa l’unica strada possibile. Blindare il registro è un modo per negare spazio e dignità alla presenza delle tante, disparate identità LGBT. Ciò che non rispetta la norma deve far ridere così da non turbare nessuno. Finché l’omosessualità è manifestata da figure affettate e inconsistenti non c’è bisogno di prenderla troppo sul serio: il sistema tradizionale, eterosessuale e binario, è salvo. Un saltimbanco retrò piumato sui toni del rosa non scandalizza nessuno, lascia tutto com’è. Se è vero che alla figura della macchietta va riconosciuto perlomeno il merito di aver iniziato a conquistare un po’ di spazio per la comunità LGBT nella comunicazione di massa, non si può non vedere che lo ha fatto restringendo il campo espressivo a pochissime varianti, e quindi diffondendo nuovi stereotipi. Il cinema e la tv degli anni ’70 non hanno semplicemente assecondato i pregiudizi della società, ma contribuito a rinforzarli. La loro eredità è ancora visibile. Cosa può essere mostrato degli omosessuali reali oggi nei programmi mainstream? La decisione di Maria De Filippi di inaugurare una versione gay del trono di Uomini e Donne all’inizio era stata accolta, anche da parte della comunità gay, quasi come una rivoluzione: ma in realtà ci si è accorti in fretta che il mondo di tronisti e corteggiatori, fatto di scandali e storie finte, con la sua fragilissima credibilità al massimo può rappresentare una nuova declinazione dello stereotipo, data anche l’uniformità estetica dei partecipanti. Le cose stanno ancora così, al punto tale che chi prova a essere semplicemente se stesso – Tiziano Ferro, tanto per fare uno dei pochi nomi a disposizione – diventa una specie di eroe. Un' “eroe” che giustamente dosa bene la parole, visto che ogni dettaglio non può che ricevere uno sguardo morboso ed esplodere in gossip. Un episodio televisivo recente la dice lunga sul punto in cui ancora ci troviamo. In una delle ultime puntate dell’Isola dei Famosi, Jonathan Kashanian, vincitore della quinta edizione del Grande Fratello, noto per i suoi urletti e i suoi look leziosi, sollecitato dalla conduttrice, ha parlato del suo desiderio di paternità. Mara Venier, opinionista del programma, ha dato per scontato quello che tutti in effetti danno per scontato: “Spero tu possa trovare un compagno”, “Non so se hai un compagno.”È calato il gelo. Jonathan, che non ha mai fatto coming out, ha glissato sul suo orientamento, rivendicano quella nebulosa finta neutralità che oggi va tanto di moda: “Se sarà un uomo, una donna, un cammello e sarò felice e appagato, sarete i primi a saperlo.” Insomma: in televisione si può essere gay – vistosamente gay, pacchianamente gay – finché esserlo significa appartenere solo a tutto quel repertorio estetico che ormai è un canone. Ovvero finché ci si limita a mettere in scena un gioco rumoroso ma senza conseguenze.
Quei poliziotti gay che non vedrete mai in tv. Un vicequestore che fa coming out solo dopo la promozione. Il suo compagno che si nasconde per non perdere il ruolo di investigatore in un serial. Gli autori del giallo "Nuvole Barocche" raccontano la faccia violenta e quella ipocrita dell'omofobia, scrive Angiola Codacci-Pisanelli il 19 febbraio 2019 su L'Espresso. Tra i mille investigatori protagonisti dei gialli italiani è difficile incontrarne uno come lui. Perchè Raffaele Nigra è gay e non lo nasconde. Ma il coming out lo ha fatto solo dopo aver fatto carriera. Nelle pagine di "Nuvole Barocche" (Piemme), il vicequestore si trova ad affrontare un omicidio che ha insanguinato le strade di Genova. La vittima è un bel giovane con un cappotto rosa shocking, che si era fatto notare nel corso di una festa per appoggiare la legge per le unioni civili. Un omicidio che sembra il frutto di un'aggressione omofoba e che mette alla prova la serenità con cui, almeno apparentemente, Nigra vive la propria omosessualità in un ambiente che ci si aspetterebbe ostile, quello della polizia. Come raccontano in questa intervista i due autori del giallo, Antonio Paolacci e Paola Ronco.
L'idea dell'investigatore gay è nata come forma di denuncia dell'omofobia nelle forze dell'ordine?
RONCO: «Quando ci è venuta l'idea di avere come protagonista un poliziotto che fosse omosessuale prima di tutto ci siamo chiesti quanto fosse credibile: non sapevamo se fosse plausibile un vicequestore dichiaratamente gay. Lo abbiamo chiesto a un paio di amici poliziotti, e loro ci hanno parlato di Polis Aperta, un'associazione che non è molto grande perché ancora c'è una certa resistenza a fare coming out tra le forze dell'ìordine, però è molto aguerrita. Abbiamo parlato con loro e con Michela Pascali, che è appena stata eletta ai vertici del sindacato Silp Cgil ed è la prima poliziotta dichiaratamente lesbica a coprire questo incarico».
Però il vostro commissario fa coming out quando ha già fatto carriera..
PAOLACCI: «Sì, ci è sembrato più plausibile dopo che ci eravamo documentati. Abbiamo parlato con diversi poliziotti omosessuali che ci hanno parlato di atteggiamenti che non si discostano da quelli che possono verificarsi in altri posti di lavoro. Però va detto he il romanzo noi lo abbiamo scritto nel 2017, e la situazione in Italia era più tranquilla rispetto ad oggi, rispetto al momento di omofobia palese che ha raccontato l'inchiesta dell'Espresso».
Anche la situazione all'interno della polizia è peggiorata?
PAOLACCI: «Non possiamo dirlo perché non abbiamo elementi recenti. Però prima di scrivere eravamo rimasti sorpresi positivamente, abbiamo parlato con poliziotti che raccontavano di una buona integrazione, a parte alcuni episodi spiacevoli. Ci hanno detto che anche dopo qualche episodio spiacevole a forza di conoscersi e di lavorare insieme la diffidenza si superava. Oggi il clima nel paese è sicuramente peggiorato, e potrebbe esserlo anche dentro la polizia: però l'elezione di Michela Pascali, una poliziotta che ha fatto della battaglia politica per i dirittti di Lgbt il suo cavallo di battaglia, è un buon segnale».
Però nel romanzo raccontate di battute, allusioni, frasi offensive sentite per sbaglio... Prima di affidare l'indagine a Nigra, il magistrato gli chiede se è sicuro di non sentirsi coinvolto visto che è stato ucciso un gay: una cosa che certo non succede ai poliziotti eterosessuali.
RONCO: «In qualunque ambiente di lavoro possono capitare battute, allusioni, e la polizia non fa eccezione. Quando abbiamo preso contatti con Polis Aperta e abbiamo chiesto di episodi di omofobia, un poliziotto ci ha risposto che sì, in effetti una volta mi hanno scritto sull'armadietto "frocio", ma lo ha raccontato come se non fosse una cosa così grave come invece sembrava a noi».
Sembra di sentirvi parlare di un personaggio del vostro romanzo, il giovane testimone che dice di aver imparato a non far caso a frasi, a farsi scivolare addosso allusioni, sguardi offensivi. Forse anche i poliziotti fanno così?
PAOLACCI: «Nel nostro romanzo, presentando il protagonista, abbiamo cercato di contestualizzare l'omofobia all'interno di una cultura, quella italiana, che rende facile che la discriminazione sia considerata una cosa normale anche da chi ne è vittima. Quella delle forze dell'ordine è una realtà che fa da specchio alla società intera. E ci ha colpito soprattutto la sorpresa di alcuni lettori davanti a una situazione di cui evidentemente si parla troppo poco: come se non potessero esistere poliziotti omosessuali. Per questo noi scrivendo abbiamo sentito ancora di più che era giusto raccontare il nostro investigatore: perché i romanzi gialli italiani sono pieni di investigatori, ma non sono mai omosessuali».
Colpisce il contrasto con il compagno di Nigra, che fa l'attore e recita in un serial la parte di un investigatore.
PAOLACCI: «Ci siamo divertiti a ribaltare un luogo comune. La coppia è composta da un poliziotto che vive serenamente la sua omosessualità mentre l'attore, in un ambiente che ci si aspetterebbe più aperto di quello della polizia, ha paura di essere scoperto. Si sente obbligato a tenere nascosta la sua vita privata perchè in televisione un poliziotto gay non sarebbe accettabile da parte del pubblico. E in effetti un personaggio così non si è mai visto. Finora».
In Italia 5-10% poliziotti e militari gay, ma coming out fa ancora paura, scrive adnkronos.com l'11 ottobre 2016. Rivelare l'amore omosessuale tra colleghi poliziotti o militari incontra ancora resistenze: il pressing di una cultura che detta i suoi diktat stereotipati sottraendo libertà alla propria diversità, fa in più di qualche caso optare per il silenzio. Qualcosa però sta cambiando, anche se "c'è ancora molta strada da fare sulla via dei diritti", sottolinea all'Adnkronos Simonetta Moro, presidente di Polis Aperta, associazione Lgbt delle forze dell'ordine. I gay e le lesbiche in uniforme che vivono apertamente la propria omosessualità "sono tra il 5 e 10% in Italia. Un dato che rispecchia la media generale delle persone Lgbt nella nostra società", dice Moro precisando che, ad ogni modo, "si tratta di una stima approssimativa visto che la maggior parte degli uomini e le donne in divisa nasconde ancora il proprio orientamento sessuale sul luogo di lavoro". "Molti poliziotti e militari hanno paura di fare coming out. Hanno paura che rivelare il proprio orientamento sessuale possa bloccare la carriera. D'altronde, nei loro ambienti è ancora forte la cultura machista: in taluni casi si passa dalle discriminazioni nei confronti delle donne a quelle nei confronti delle persone Lgbt", afferma Moro. Anche se, a suo avviso, "il più grande tabù oggi resta quello delle persone transessuali che non possono accedere né in Polizia, né nelle Forze armate. La transessualità è considerata una patologia, quindi una causa di congedo dal servizio o di esclusione rispetto ai requisiti di assunzione". Durante la conferenza "Forze di Polizia contro omofobia e transfobia", organizzata dall’associazione a Milano, "c’è stata una testimonianza, tra le altre, molto significativa. Stefania Pecchini, sovrintendente della polizia locale nell’hinterland milanese - spiega la presidente di Polis Aperta - ha raccontato la sua storia: il cammino di transizione da uomo a donna all’interno del corpo cui appartiene. Lei ci teneva a mantenere la divisa e ruolo e, in questo caso, ha ricevuto supporto dai colleghi. Stefania oggi continua a svolgere il suo ruolo operativo come sempre ma in modo più efficiente di prima perché ha raggiunto un equilibrio. Ecco, lei è la prova vivente che non dovrebbero esistere preclusioni in Polizia, nei Carabinieri, nelle Forze armate così come avviene in tutti quei paesi aperti alle diversità. Come in Usa o Israele dove i trans possono liberamente arruolarsi nell’esercito senza più discriminazioni”. "Il problema è che se i vertici del nostro Paese non prendono posizione contro l’omofobia, la cultura purtroppo resta quella del pregiudizio. Apprezzo certamente l’intervento della ministra Pinotti sulla strada del cambiamento: ritengo che le sue recenti dichiarazioni, in occasione del matrimonio da lei stessa celebrato tra due ragazze a Genova, siano storiche e che segnino una tappa importantissima, legata all'introduzione delle unioni civili, di apertura alla diversità finalmente anche nelle Forze armate", sostiene Moro. Che tra l’altro, a proposito di unioni civili di militari, rivela "che ve ne sono diverse in programma, anche se magari non entrambi i futuri sposi appartengono alle Forze armate". Seguendo l'esempio della Pinotti verso l'inclusione delle diversità "bisognerebbe dunque rompere il silenzio. Fare, inoltre, tanta formazione su questi temi. Come fa la polizia con l'Oscad, l'Ossevatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori, voluto dall'ex capo della polizia Manganelli", afferma infine la presidente di Polis Aperta, convinta che un passo concreto e decisivo sulla strada del cambiamento sia innanzitutto "dotare il nostro Paese di una legge contro omofobia e transfobia. Facciamolo".
· Hollywood Sadomaso.
HOLLYWOOD SADOMASO. Andrea Indiano per "it.insideover.com" il 6 luglio 2019. Marchi a fuoco sulla pelle, schiave sessuali e minacce ripetute: quella che avrebbe dovuto essere una scuola di specializzazione per imprenditori si è rivelata una setta con metodi da culto religioso che ha sconvolto l’opinione pubblica americana. Si tratta di Nxivm (da leggersi come “necsium”), la società fondata dal businessman Keith Raniere, processato da un tribunale di New York e in attesa di una condanna che potrebbe essere a vita. Ma la storia di Nxivm nasconde molti altri aspetti sordidi che hanno coinvolto ex star di Hollywood e ricche ereditiere: dettagli che accomunano questa notizia ad altre storie recenti provenienti dagli Usa, dove sembra sia in atto un revival delle sette religiose più particolari. È proprio grazie al processo da poco concluso che sono venute alla luce le orribili azioni compiute da Raniere fra gli allievi, e soprattutto con le seguaci, del gruppo definito dai media americani “sex cult“, ovvero setta del sesso. Il leader è stato giudicato colpevole di traffico sessuale e di aver costretto al lavoro forzato alcuni iscritti. Come se questo non fosse abbastanza, su di lui pende anche una condanna per aver imposto ad alcune adepte di abortire dopo averle messe incinta. I giudici hanno riconosciuto che Nxivm era uno schema piramidale illegale, utilizzato da Raniere per reclutare donne e costringerle a fare sesso con lui. Tutto ha inizio nel 1992 quando l’ex genio della matematica fonda una società di marketing in grado di guadagnare un milione di dollari in poco tempo. Il modello di affari? Niente di diverso dalla truffa nota come schema di Ponzi adattato alle vendite telefoniche. I primi soldi il giovane americano li investe per fondare una scuola di formazione a New York, che diventerà poi Nxivm. Sul nome del futuro culto ci sono varie tesi: per alcuni è un acronimo segreto, per altri deriva dalla parola latina “nexum” che sta a significare l’impegno del debitore a diventare schiavo in caso di mancato pagamento della cifra stabilita. Questa opzione, stranamente poco considerata dai media americani, sembrerebbe la più coerente con le future caratteristiche della setta. Il successo della scuola, i cui corsi settimanali o giornalieri avevano titoli come “Programmi di successo esecutivo”, “Leader nella tua vita” e “Fai crescere la tua azienda” è stato immediato grazie alle capacità di Raniere e della sua socia Lauren Saltzman, anch’essa arrestata e in attesa di giudizio in carcere, di convincere ricchi personaggi a iscriversi. La fama dell’istituto crebbe così tanto che verso gli inizi dei Duemila alle lezioni partecipavano vari personaggi noti, tra cui attrici come Allison Mack e perfino la figlia del presidente del Messico Vicente Fox. Non si trattava di una scuola come tutte le altre però: Raniere e Salzman pretendevano di essere chiamati rispettivamente Vanguard (avanguardista, innovatore) e Prefect (prefetto), come se si fosse in un villaggio del Medioevo. Inoltre le testimonianze hanno rivelato che il compito della Salzman era quello di reclutare giovani donne indifese da regalare al suo capo: coloro che erano scelte per questa funzione appartenevano, senza esserne a conoscenza, al sottogruppo Dos (“Dominus Obsequious Sororium”, il padrone delle sorelle ubbidienti) ed erano costrette a farsi marchiare a fuoco il simbolo di una R, come Raniere, sulla pancia o sulle natiche. Sulla maggior parte degli iscritti alla scuola il leader aveva un controllo totale, costringendo i più facoltosi a fare donazioni ingenti alla sua società. Per tutti questi reati, il 25 settembre 2019 Raniere verrà condannato. Gli atti del processo Nxivm e le numerose testimonianze hanno riportato sotto i riflettori il problema dei culti, particolarmente sentito negli Usa: oltre questa setta del sesso, negli ultimi tempi sono aumentate le notizie di società private, come quella chiamata Congregation for the Light, colpevoli di aver inflitto a chi si era interessato danni morali e fisici. Nella nazione dove hanno prosperato Charles Manson e altri leader di culti, il problema delle sette religiose e del fanatismo potrebbe rappresentare un’ulteriore complicazione per l’unità del paese.
Da La Stampa il 9 aprile 2019. Allison Mack, attrice americana resa famosa dalla serie tv Smallville, si è dichiarata colpevole di associazione a delinquere e traffico sessuale per il ruolo svolto nella setta Nxivm. La 36enne di origine tedesca era stata arrestata a inizio 2018 insieme al capo della setta Keith Raniere, per il quale era accusata di aver reclutato donne minacciandone due perché accettassero di avere rapporti sessuali con lui. Raniere è in carcere senza possibilità di cauzione. Il processo alla Mack inizierà nelle prossime settimane. Nxivm è una sorta di culto sessuale fondato nel 1998 che stava prendendo piede tra le celebrità di Hollywood: al vertice c’era Raniere che si circondava di una piccola cerchia di persone di fiducia tra cui la Mack e Nancy Salzman, che ne era la presidente. La Salzman ha già ammesso le sue responsabilità e l’accusa ha chiesto per lei fra i 33 e i 41 mesi di carcere. Le donne che partecipavano venivano umiliate in riti pubblici, marchiate a fuoco, costrette a digiunare per soddisfare gli ideali di magrezza di Raniere e ad avere rapporti sessuali con lui. Raniere è ancora in carcere senza possibilità di cauzione. Il processo di Mack inizierà nelle prossime settimane. «Sono arrivata alla conclusione che mi devo assumere la responsabilità della mia condotta ed è per questo che oggi mi dichiaro colpevole», ha detto l’attrice citata dal giornale Hollywoodlife. Mack ha anche chiesto perdono alla sua famiglia e a tutte quelle persone che hanno sofferto per la sua «errata adesione all’insegnamento di Keith Reniere».
Da “www.agi.it” il 9 aprile 2019. Con l’ammissione di colpa dell’ex attrice di Smallville, Allison Mack, si riaccendono i riflettori su Nxivm, la società statunitense di auto-aiuto che si è rivelata una setta di schiave sessuali reclutate anche dalla star della serie tv. Ma di cosa si tratta esattamente? Nxivm – si pronuncia “Nixium” – è una società stata fondata nel 1998 da Keith Raniere, che organizzava corsi e seminari di auto-aiuto. Nata con il nome di “Executive Success Programs”, cioè “Programmi per il successo dirigenziale”, nel 2003 si è trasformata in Nxivm, mentre Executive Success Programs ha continuato a essere il nome di un seminario che “fornisce il fondamento filosofico e pratico necessario ad acquisire e costruire le capacità per arrivare al successo”. Il costo era alto: si andava dai 3 mila dollari per un programma intensivo di 5 giorni ai 7.500 dollari per 16 giorni di formazione. La società - scrive il Post - con sede ad Albany, nello stato di New York, negli anni ha trovato clienti e adepti in tutto il resto degli Stati Uniti, in Messico e in Canada. Circa 16 mila persone hanno partecipato ai seminari di Nxivm. Secondo i resoconti su Nxivm fatti negli anni dai giornali partendo dalle testimonianze di ex membri, la società era basata su una struttura simile a quella del marketing piramidale, cioè in cui non si trae profitto vendendo i corsi ma arruolando nuove persone a frequentarli grazie al passaparola. Un’altra parte delle sue risorse finanziarie derivavano dalle donazioni spontanee dei seguaci o di persone che comunque credevano nel lavoro di Raniere, tra cui ci sono persone molto ricche, come Sara e Clare Bronfman, due eredi del patrimonio Seagram, una grande società di liquori poi venduta a varie altre aziende.
La setta. La società ha mantenuto la sua immagine ufficiale fino al 2017 quando il New York Times pubblica il racconto di Sarah Edmondson, un’attrice canadese che vive a Vancouver e ha fatto parte di Nxivm per circa dieci anni. È a questo punto che Nxivm ha mostrato l’altra faccia: un gruppo segreto di nome DOS (Dominos Obsequious Sororium, ovvero Signori delle donne schiave) che faceva capo alla società e a Raniere. La Edmondson, che era stata invitata a far parte del gruppo dalla sua amica Nancy Salzman, cofondatrice di Nxivm, ha rivelato particolari sconvolgenti. A iniziare dall’iniziazione per la quale veniva chiesto come garanzia un documento su cui erano scritti vari segreti oppure foto senza vestiti. E, a seguire, una dolorosa marchiatura a fuoco delle iniziali di Raniere sull’anca, abbastanza vicino all’inguine. Salzman aveva spiegato così a Edmondson lo scopo del gruppo: una sorellanza fondata per essere una forza del bene, che avrebbe potuto arrivare a influenzare eventi come le elezioni. Perché la cosa funzionasse le donne del gruppo avrebbero dovuto superare quelle debolezze che secondo Raniere sono comuni nelle donne: un’eccessiva emotività, l’incapacità di mantenere le promesse e la tendenza a riconoscersi come vittime. Per ottenere questo risultato le donne del gruppo dovevano sottoporsi a rituali di sottomissione e obbedienza. La setta funzionava come un sistema gerarchico diviso in diversi sottogruppi, ognuno dei quali aveva una sorta di capo e così via, fino ad arrivare alla struttura gerarchica che portava a Raniere come capo assoluto. Ognuno di questi gruppi più piccoli erano formati da una “padrona” e sei “schiave”, che col tempo sarebbero diventate a loro volta “padrone” di altre “schiave”, facendo crescere il gruppo. Secondo il New York Times chi non obbediva agli ordini della “padrona”, o in qualche modo faceva degli errori, subiva punizioni fisiche o era obbligata a digiunare. Tra le missioni delle schiave del gruppo c'era l'obbligo di fare sesso con Keith Raniere quando veniva loro chiesto. Non solo. Erano anche costrette a digiunare per soddisfare gli ideali di magrezza del guru. Cosa fine fanno Raniere e socie? Catturato in Messico nel 2018 e subito estradato, Raniere è in carcere senza possibilità di cauzione. La Salzman ha già ammesso le sue responsabilità e l’accusa ha chiesto per lei fra i 33 e i 41 mesi di carcere. Il processo alla Mack inizierà nelle prossime settimane.
DAGONEWS 25 luglio 2018. Altre quattro persone sono state arrestate in relazione alla setta sessuale NXIVM: Clare Bronfman, 39 anni, Kathy Russell, 60, Lauren Salzman, 42, e Nancy Salzman, 64, sono finite dietro le sbarre per aver lavorato al piano perverso del guru Keith Raniere. Bronfman e figlia del defunto miliardario filantropo ed ex presidente della "Seagram", Edgar Bronfman Sr.: secondo l'accusa l'ereditiera, che possiede un'isola alle Fiji, avrebbe finanziato la fuga di Raniere se fosse stato rilasciato. Inoltre la donna, in qualita di membro del consiglio direttivo della setta, era la "dominatrice" di una dozzina di schiave tra New York e Toronto. Accusata di gestire uno schema piramidale per arricchire Keith Raniere, avrebbe pagato gli avvocati per il guru, incluso il legale messicano da cui sono partite le lettere minatorie destinate ad alcune affiliate alla setta. Sarebbero state proprio Clare e la sorella Sara ad aver "corteggiato" Allison Mack quando questa prese in considerazione l'idea di unirsi a Nxixm. La donna si e dichiarata non colpevole per le accuse di culto sessuale di Nxivm: e stata rilasciata dietro il pagamento di 100 milioni di dollari. Ora e agli arresti domiciliari e viene costantemente monitorata grazie a un dispositivo su una caviglia. Un giudice federale ha negato il mese scorso la liberta su cauzione per Raniere: i pubblici ministeri continuano ad accusarlo di aver fondato una societa segreta che minacciava, inducendole a pratiche sessuali sotto ricatto.
Rina Zamarra per Mondo Fox il 25 luglio 2018. Nuovi documenti gettano una luce sempre piu sinistra su Allison Mack, Keith Raniere e la loro setta NXIVM. Secondo le informazioni pubblicate da Daily Beast, diventa piu serio anche il coinvolgimento dell'ereditiera Clare Bronfman, membro del consiglio direttivo della setta e dominatrice di una dozzina di schiave tra New York e Toronto. L'ereditiera avrebbe pagato gli avvocati di Raniere, incluso il legale messicano da cui sono partire le lettere minatorie destinate ad alcune affiliate alla setta. Sempre lei avrebbe tentato persino di ottenere delle incriminazioni contro le ex schiave che hanno raccontato la loro esperienza agli organi di stampa, tra cui Sarah Edmondson. In realta dopo gli arresti, molte schiave sarebbero state vittime di tentativi di intimidazione: Dopo che l'indagine e finita sulla stampa, dei membri di alto profilo del DOS di Allison Mack si sono attivati per minare i potenziali testimoni. Hanno registrato infatti dei domini a nome dei testimoni con l'intenzione di pubblicare informazioni compromettenti su di loro.
I metodi di coercizione della setta. I tentativi di minacciare le schiave hanno avuto facile presa sulle vittime a causa di un meccanismo perverso, che le ha indotte a fornire sempre nuovi materiali compromettenti. Secondo le ricostruzioni legali, le schiave si rovinavano con le loro stesse mani per paura che le prime rivelazioni concesse fossero considerate poca cosa e venissero divulgate. Questa minaccia ha prodotto una vera e propria escalation di: "...fotografie sessualmente esplicite, video in cui i futuri schiavi raccontavano storie compromettenti (vere o false) su se stessi e sui propri amici e familiari, lettere con accuse (vere o false) contro amici e familiari". L'ex membro Jane Doe ha raccontato di aver assistito personalmente alla raccolta di questo materiale da parte di Allison Mack. Secondo il racconto della testimone, Allison imponeva regolarmente foto di nudi e le inviava a Raniere, che richiedeva persino delle modifiche quando il risultato non era di suo gradimento. La donna ha riferito di una occasione in cui vide la risposta soddisfatta del guru, con tanto di emoticon con il diavolo. Sembra che il guru avesse gradito molto una foto con tutte le schiave nude inviatagli dal cellulare della Mack.
L'induzione alle pratiche sessuali. In una sezione del documento intitolata Il traffico sessuale nel DOS si fa riferimento all'induzione al sesso praticata sulle schiave. Raniere aveva a sua disposizione dalle 20 alle 25 donne, obbligate a fare sesso solo con lui e a non farne parola con nessuno. L'ex membro Jane Doe fu costretta da Allison Mack a 6 mesi di astinenza dal sesso, trascorsi i quali venne offerta al guru in una sorta di rito di iniziazione notturno. L'uomo la bendo, la fece spogliare nuda e la porto in auto in una sede della setta, dove la lego a un tavolo e la costrinse a subire un rapporto sessuale con una persona sconosciuta mentre lui commentava la scena. L'uomo le corrispose anche dei soldi per i viaggi da Brooklyn alla loro sede, pretendendone la restituzione dopo la fuoriuscita della donna da NXIVM. Il tribunale sta indagando proprio sulle case utilizzate per gli abusi. Il procuratore Richard P. Donoghue ha dichiarato che due proprieta di Halfmoon (New York) potrebbero essere confiscate perche ritenute le sedi del traffico sessuale delle schiave. Ormai, questa triste storia non smette di riservare sorprese sempre piu inquietanti...
DAGONEWS 25 aprile 2018. Alcune feste e riunioni del culto Nxivm, di cui faceva parte la star di Smallville Allison Mack, si tenevano nell’isola privata di Richard Branson. Secondo quanto riportano Daily Mail e Sun, in almeno due occasioni la setta sadomaso si è riunita nell’isola di Necker, ufficialmente per dei seminari, nel 2007 e nel 2010. L’obiettivo era quello di reclutare il miliardario fondatore della Virgin all’interno del culto. Una delle due “gite” ai Caraibi sarebbe stata finanziata da Sara Bronfman, ricchissima ereditiera e seguace del culto Nxivm insieme alla sorella Clare. Clare, dopo l’arresto di Allison Mack e del leader Keith Raniere, è la persona più alta in grado della setta. Secondo il Sun, Raniere non avrebbe partecipato agli incontri sull’isola di Branson, in compenso ci sono alcune foto che mostrano il fondatore della Virgin insieme a Sara Bronfman e Allison Mack. I seminari erano tenuti da Nancy Salzman, co fondatrice della setta. Secondo l’ex addetto stampa di Nxivm, Frank Parlato, la donna era irrequieta e iniziò a “organizzare feste”, presumibilmente a sfondo sessuale. Da par suo Branson sostiene di non essere a conoscenza di alcun seminario che si sarebbe tenuto nella sua isola: “non ho mai sentito parlare di Raniere e non l’ho mai incontrato” – ha detto. Concetto ribadito dal portavoce della Virgin, secondo cui non possono essere fatte associazioni tra il miliardario e la setta sadomaso. Nel frattempo Raniere - che è stato arrestato in Messico – rimane in carcere e le accuse contro di lui e Allison Mack sono solide: si basano sulla testimonianza di due ragazze che erano state coinvolte dall’attrice e avevano fatto il loro ingresso nel gruppo per poi essere costrette a diventare schiave del sesso. L’associazione era organizzata sul culto della personalità dell’uomo, le donne dovevano essere sempre disponibili ed erano prigioniere di fatto dell’organizzazione.
Anna Lombardi per “la Repubblica” 22 aprile 2018. Cinquanta sfumature di Hollywood. Dove da vent'anni almeno Nxivm, organizzazione ramificata in tutta l'America, attirava giovani donne nelle fila di una setta a luci rosse, d'ispirazione sadomaso. E pazienza se secondo il sito web Nxivm era solo un gruppo specializzato in tecniche di auto aiuto: adatte, guarda un po', solo a un pubblico femminile. C'è voluto l'arresto, venerdì scorso, dell'attrice trentacinquenne Allison Mack, protagonista in passato della serie televisiva Smallville, per svelare come attrici, aspiranti starlette, celebrity varie e perfino ereditiere fossero invece finite a ingrossare le fila di una setta incentrata sul culto della personalità (e del piacere) del carismatico fondatore, il guru cinquantasettenne Keith Raniere. Ad arruolare molte di loro sarebbe stata proprio Mack, braccio destro del capo: oggi accusata di traffico di esseri umani a scopi sessuali. Roba da far impallidire perfino Harvey Weinstein e i suoi provini in accappatoio, insomma. E che già indigna le donne del #metoo. Sconvolte dallo scoprire che l' altra faccia di Hollywood è un'attrice che per anni ha attirato donne giovani e fragili all'interno di un' organizzazione che avrebbe dovuto aiutarle a superare le loro paure, mentre di fatto le precipitava in uno schema a piramide dove più si reclutavano altre donne possibilmente belle e danarose, più si passava da uno stato di schiavitù sessuale - con obbligo di disponibilità 24 ore su 24, punizioni corporali e perfino le iniziali del fondatore marchiate sulla pelle - a quella di maîtresse dominatrici. Un percorso, diceva lui, che alla fine dell'ordalia avrebbe permesso loro di trovare "una nuova sicurezza nello stare al mondo". Ma che sembra tanto una via di mezzo fra le promesse della Chiesa di Scientology fondata da Ron Hubbard e il culto cieco della "Family", la setta assassina nata intorno alla figura sinistra di Charles Manson. Solo, ispirata ad un immaginario erotico che sembra uscito dalle pagine di Histoire d' O, lo scandaloso romanzo anni '50 considerato il libro di culto dell'erotismo sadomaso. Così la casa newyorchese di Raniere si trasforma in una versione a stelle e strisce di quel castello di Roissy dove la scrittrice Dominique Aury immaginò che un club di ricconi rinchiudeva O e le altre schiave sessuali, signore sottomesse sì: ma per scelta. La differenza con le signore di Nxivm è che queste pagavano anche migliaia di dollari per partecipare ai seminari del capo che idolatravano chiamandolo "Vanguard", avanguardia e accoglievano letteralmente in ginocchio. E che lui gratificava facendo indossare loro colori corrispondenti al loro status e trasformandole da dominate in dominatrici. Ma secondo le lunghe indagini condotte dall' Fbi, lo schema non era basato sulla scelta di donne adulte consenzienti: ma su ricatti basati su immagini umilianti. Per questo dopo una caccia all'uomo durata un mese Raniere è stato arrestato in Messico, domenica scorsa. E ora insieme a Mack rischia almeno 15 anni di carcere. Era stato proprio quest'uomo nato nel 1960 a Brooklyn e denunciato per molestie a minori già nel 1984 e nel 1996, ad aver fondata nel 1997 un "gruppo di auto aiuto" con l' aiuto della compagna di allora, Nancy Salzman, infermiera che sbarcava il lunario praticando l' ipnosi. Un centro chiamato Executive Success Program con sede ad Albany che in cinque anni conquista l'America: attirando personaggi ricchissimi, che vanno dall' imprenditore Richard Branson a Emiliano Salinas, figlio dell'ex presidente messicano Carlos Salinas de Gortari. La svolta sadomaso arriva nel 2002: l'organizzazione cambia nome, diventando Nxivm e le adepte cominciano a convivere col capo. Fra loro ci sono anche Clare e Sara, figlie del re dei liquori Edgar Bronfman proprietario di Seagram, il colosso degli alcolici che in quegli anni aveva appena acquistato Universal Music. Le due donne portano nelle casse di Nxivm almeno 100 milioni di dollari: rendendola così ricca e famosa da permettersi, nel 2009, d' invitare perfino il Dalai Lama. Conferenza cancellata all' ultimo minuto per certe voci di soprusi. Le prime indagini partono soltanto nel 2010: quando Bronfman deposita una formale denuncia per interdire le figlie definendo per la prima volta l'organizzazione "una setta". Intanto al suo interno nel 2015 si forma un braccio segreto, "The Vow", il voto: quando le allieve predilette che vivono col guru nella brownstone di Brooklyn, vengono incitate a reclutare "schiave". Ricatto, lavaggio del cervello, o privata perversione: starà ora ai giudici stabilirlo.
(ANSA 21 aprile 2018) - Allison Mack, la star della popolare serie televisiva americana legata alle avventure di Superman 'Smallville', è stata incriminata con l'accusa di traffico sessuale: lo ha annunciato ieri il Dipartimento di Giustizia Usa in un comunicato. Secondo quanto riporta la Cnn, l'attrice farebbe parte di un'organizzazione - la Nxivm - che si dedicava, tra le altre attività, anche allo sfruttamento sessuale di giovani donne. Allo stesso tempo, è stato incriminato anche il fondatore di Nxivm, Keith Raniere. Un portavoce dell'attrice non ha per il momento commentato la notizia.
Angelica Vianello per Foxlife.it il 30 marzo 2018. Anni fa Allison Mack ha raggiunto la fama nel ruolo di Chloe Sullivan, l’amica di Clark Kent/Superman, e dopo aver continuato a recitare in qualche serie TV, lo scorso autunno si è scoperto che la donna, ora 35enne, è da tempo coinvolta in una setta guidata da Keith Raniere e implicata nel traffico di schiave sessuali. Un giorno fa, è emerso un video del momento in cui Raniere è stato prelevato dalla polizia nel resort a Puerto Vallarta in Messico, e Mack si è lanciata in macchina all’inseguimento dei poliziotti. Il 57enne Raniere si era rifugiato in Messico quattro mesi fa, dopo l’avvio di un’indagine federale nei suoi confronti. Nelle immagini pubblicate anche dal Daily Mail si vede l’attrice sbalordita, insieme ad altre donne, mentre il leader della setta viene arrestato. Le donne cominciano a dire di dover saltare in macchina per seguire la polizia e, stando a quanto riportato dal sito del Daily Mail, le autorità locali hanno riferito che poi si sono lanciate in un inseguimento in auto ad alta velocità. Un ex appartenente alla setta ha affermato che nel gruppo c’erano anche l’attrice Nicki Clyne (Battlestar Galactica) e figure note quali Lauren Salzman e Loreta Garza. La setta in questione si chiama NXIVM, e persone che ne hanno fatto parte lo descrivono come setta sessuale che si presenta come organizzazione di auto-aiuto con centri operativi negli Stati Uniti, Messico, Canada e Sud America. Raniere ha lasciato però gli USA l’anno scorso dopo che il New York Times aveva pubblicato un report nel quale affermava che alcune donne, all’ingresso nel gruppo, erano state marchiate con un simbolo che includeva le iniziali dell’uomo. Queste donne avevano rivelato agli investigatori di essere state costrette a comportarsi come schiave, punite fisicamente nel caso in cui avessero disobbedito ai comandi del padrone. Il procuratore Richard P.Donoghue ha dichiarato che Keith Raniere è stato accusato di aver creato una società segreta di donne con cui aveva rapporti sessuali e che venivano marchiate con le sue iniziali, costringendole anche a condividere con lui informazioni strettamente personali e a cedergli il proprio patrimonio. Gli atti divulgano poi che la setta è stata creata 20 anni fa, ed in tutto questo tempo ha permesso a Raniere di intrattenere relazioni multiple con i suoi membri. NXIVM ha tenuto seminari e corsi che arrivavano a costare anche diverse migliaia di dollari, ed incoraggiava i membri a reclutare altri partecipanti promettendo di ottenere in cambio posizioni sempre più importanti nella gerarchia interna del culto. Nel 2015 Raniere ha creato una sezione interna della setta, chiamata DOS o The Vow, in cui vari gruppi di donne erano tenute schiave da diversi padroni, e reclutate dai membri stessi di NXIVM, che contestualmente richiedevano beni da dare in garanzia, tra cui le informazioni personali anche riguardo familiari ed amici, fotografie di nudo e deleghe per impossessarsi dei loro beni. Nell’accusa si afferma che le schiave di DOS avevano paura che tutto ciò venisse reso di dominio pubblico qualora avessero lasciato il gruppo. Allison Mack era considerata un membro eminente di quest setta, tanto da esserne a capo con Raniere. L’attrice lo aveva raggiunto in Messico circa un mese fa. Se tutte le accuse nei confronti dell’uomo verranno confermate, Raniere potrebbe ottenere l’ergastolo. Il vice-direttore dell’FBI William F. Sweeney ha dichiarato: “Keith Raniere ha manifestato un disgustoso abuso di potere nel denigrare e manipolare le donne che considerava le sue schiave sessuali. Apparentemente, ha preso parte ad orrende cerimonie in cui le marchiava e le bruciava, con la collaborazione di altre donne che operavano nel suo sistema piramidale”. Ed ha aggiunto: Questi gravi crimini contro l’umanità non sono solo impressionanti, ma a dir poco sconvolgenti, e porremo fine a questa tortura oggi stesso. Ovviamente, le indagini sono estese a tutti i collaboratori di Raniere, per cui si ritiene che la notizia dell'arresto di Allison Mack sia prossima.
Da globalist il 28 marzo 2018. La cronache giornalistiche americane sono piene di storie che raccontano di santoni e guru che, giocando sulla fragilità dell'animo umano, fanno le loro fortune. Ma anche, come nel caso di Keith Reniere, le loro sfortune. Il signore in questione è stato arrestato domenica in Messico ed estradato, con una procedura-lampo, negli Stati Uniti, dove l'attende un processo con l'accusa di avere ridotto a schiave sessuali le sue seguaci che, per essere segnate come sue creature, venovano marchiate a fuoco. Raniere, che ha 57 anni, nel 1998 ha fondato l'Executive Success Program (ESP), che ha organizzato una serie di workshop il cui obiettivo ufficiale era "realizzare il potenziale umano" dei partecipanti. Nel 2003, ha creato una seconda società - Nxivm - che ha gestito ESP, secondo quanto afferma la denuncia presentata contro di lui dalla pubblica accusa davanti ad un tribunale federale di New York. Secondo questo documento, i partecipanti alle sessioni di formazione erano disposti a pagare fino a 5.000 dollari per cinque giorni di workshop e si sono trovati, il più delle volte, indebitati fino al punto di dover lavorare per Nxivm per pagare le loro quote. Con sede ad Albany, capitale dello Stato di New York, l'organizzazione ha aperto centri in diverse città degli Stati Uniti, Canada, Messico e America Centrale. Raniere è sospettato, fin dall'inizio dell'attività di ESP, di aver mantenuto una cerchia di 15-20 donne sotto la sua influenza, con le quali ha fatto sesso. Nel 2015, avrebbe creato un'organizzazione a piramide parallela, chiamata "DOS", che includeva "schiavi" e "maestri", tutte donne. Tra le missioni delle schieva c'era l'obbligo di fare sesso con Keith Raniere quando veniva loro chiesto. Prima di essere accettate, le donne dovevano fornire una "garanzia" - vale a dire elementi compromettenti per se stessi, come foto, lettere e documenti - che l'organizzazione si riservava di rendere pubblica se avessero deciso di lasciare il DOS. Hanno inoltre dovuto sottoporsi ad una cerimonia di iniziazione che consisteva nell'incisione, sulla loro persona, delle iniziali del guru, con uno strumento usato per cauterizzare le ferite. Questa fase era filmata e ciascuna neofita era trattenuta da altre donne mentre veniva marchiata a fuoco. Dopo la defezione di diversi membri della setta e la pubblicazione di un lungo articolo sul New York Times in ottobre, il guru è fuggito in Messico, dove è stato arrestato domenica, in una lussuosa villa nella località di Puerto Vallarta. È perseguito per traffico sessuale, cospirazione criminale e minacce. Se condannato, Keith Raniere rischia da un minimo di 15 anni di carcere fino all'ergastolo. Secondo l'articolo del New York Times, dal 1998 circa 16.000 persone sono state ''formate'' da ESP o Nxivm.
· Revenge Porn. Dagli al Maschio.
Video hard con il portiere della Reggiana Voltolini: individuati e denunciati due giovani. Sarebbero due giovani, uno di Reggio Emilia l'altro di Ferrara (ma residente nel Reggiano) ad aver realizzato e diffuso il video in cui si vedeva il portiere della Reggiana, Matteo Voltolini, fare sesso con la fidanzata nel bagno di una discoteca. Raffaello Binelli, Venerdì 06/12/2019, su Il Giornale. Ricordate la storia del portiere della Reggiana (Serie C), Matteo Voltolini, filmato mentre faceva sesso con la fidanzata nel bagno di una discoteca? I due erano stati ripresi di nascosto e il video, trasmesso via WhatsApp, era subito diventato virale. Nella marea delle condivisioni una copia era arrivata persino sullo smartphone del giocatore. Ora si apprende che due persone sono state individuate e denunciate dalla polizia. Ora sono indagati in base alla nuova legge sul "revenge porn", che punisce la condivisione pubblica di contenuti a sfondo sessuale senza il consenso di chi è ritratto nel video. Il reato, in base all'art. 612 ter del Codice penale, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 5mila a 15mila euro. I due che avrebbero ripreso la coppia di nascosto, con un telefonino, diffondendo poi il filmato, sono coetanei del giocatore. Uno risiede in provincia di Reggio Emilia, l'altro invece è di Ferrara ma è domiciliato nel Reggiano. Sulla loro identità la polizia non ha fornito altri dettagli. Anche Voltolini non rilascia alcuna dichiarazione. Fa sapere soltanto che quei due ragazzi non sono suoi amici o conoscenti. Il giocatore della Reggiana e la sua ragazza erano stati filmati a loro insaputa, sfruttando il fatto che il bagno in cui si erano appartati era comunicante con un altro, senza parete divisoria. Sia Voltolini che la sua fidanzata avevano sporto denuncio. Le indagini sono state condotte sia attraverso le testimonianze raccolte, ascoltando diverse persone presenti quella sera nel locale, sia grazie alla collaborazione delle società che gestiscono i social network interessati. Aveva fatto discutere, tra l'altro, la decisione della Reggiana di sospendere il giocatore per una settimana, motivata con l'esigenza di permettere al giocatore di risolvere la situazione, ritrovando un minimo di serenità, ma anche con la volontà di dare un segnale. Dettaglio, questo, che alcuni hanno considerato una punizione ma che il club ha spiegato in questo modo: "Nonostante si tratti di vita privata, si è sempre, in ogni momento e in ogni luogo, rappresentanti della Reggiana".
Da ilmessaggero.it il 5 dicembre 2019. Si tratta di Sergi Enrich, 29enne attaccante dell'Eibar, e di Antonio Luna, 28enne difensore del Rayo Vallecano. Nel 2016 entrambi militavano nell'Eibar ed erano balzati agli onori delle cronache dopo la diffusione di un filmato a luci rosse in cui facevano sesso con una donna. Dopo la pubblicazione del video, la donna aveva presentato una querela per violazione della privacy, non avendo mai dato il consenso alla diffusione di quelle immagini, che per qualche giorno fecero il giro del mondo. Antonio Luna, una "meteora" in Italia dopo aver vestito le maglie di Verona e Spezia, e l'ex compagno di squadra Sergi Enrich rischiano ora fino a cinque anni di carcere. Tra gli accusati c'è anche un altro ex compagno di squadra all'Eibar, Eddy Silvestre, ora all'Albacete: i due calciatori lo avevano accusato di essere l'autore materiale della diffusione del video hard. «Quel fottuto negro ci ha messo nei guai», aveva affermato tempo fa Sergi Enrich nelle accuse pubbliche a Silvestre. Sergi Enrich e Antonio Luna sono accusati di delitti contro la privacy e l'intimità della donna, per aver registrato e inviato quel video a Eddy Silvestre, mentre quest'ultimo è accusato solamente della diffusione del filmato. Lo riporta 20minutos.es. In quel video si vedeva chiaramente la donna che, una volta accortasi di essere filmata, chiedeva invano di interrompere la registrazione. Dopo la richiesta del pm di Guipuzcoa, sarà ora il Tribunale di San Sebastian a decidere se rinviare o no a giudizio i tre calciatori.
Da itasportpress.it il 5 dicembre 2019. Scandalo in casa Eibar. Sia Sergi Enrich che Antonio Luna Rodríguez, infatti, sono stati i protagonisti di un video a luci rosse, circolato sul web, in cui fanno sesso con una donna. Successivamente alla diffusione delle immagini, i diretti interessati, tramite il profilo ufficiale di Twitter del centrocampista classe ’90, hanno chiesto scusa: “La registrazione è un atto intimo e privato, effettuata tra adulti con pieno consenso di tutti e nel campo della libertà tutti godiamo. La divulgazione del video potrebbe danneggiare sia nostra immagine che, soprattutto, quella del club che rappresentiamo. Siamo coscienti del fatto che essendo calciatori professionisti dobbiamo dare l’esempio, soprattutto ai giovani. Per questo motivo chiediamo scusa se questo nostro gesto ha potuto ferire qualcuno”.
Clemente Pistilli per “la Repubblica - Edizione Roma” il 7 novembre 2019. Da accusatrice ad accusata, da vittima di revenge porn ad autrice di pornovendette. Il caso di Ilaria Di Roberto, una 29enne di Cori, piccolo centro in provincia di Latina, passata negli ultimi due mesi da sconosciuta aspirante scrittrice a simbolo nazionale del cyberbullismo, da ieri si è complicato enormemente. Dopo che la ragazza ha denunciato a più riprese di subire da tempo attacchi pesantissimi tramite internet e soprattutto tramite i social network, con tanto di fotomontaggi in cui viene mostrata in pose oscene, oltre a raggiri da parte di quella che lei definisce una cybersetta, ora è lei accusata di aver fatto tormentare due giovani, inserendo i numeri di telefono di quest' ultimi su un sito porno per omosessuali. Una vicenda per cui ieri mattina la polizia postale di Latina ha perquisito la casa della 29enne, che è stata denunciata e su cui sta compiendo approfondimenti il sostituto procuratore di Latina, Valentina Giammaria. Ilaria Di Roberto occupa da settimane con le sue denunce le pagine dei quotidiani, partecipa a trasmissioni radio e tv, dal salotto Rai de " I fatti vostri" a quello di " Pomeriggio Cinque", fino a " Storie Italiane". Ha denunciato la realizzazione di falsi profili social a sfondo sessuale, che l' hanno fatta diventare vittima di revenge porn, e di essere stata truffata da una cybersetta, che l' avrebbe anche costretta a tatuarsi il loro simbolo e a firmare una cambiale dopo una seduti di ipnosi telefonica. Un inferno. Ha auspicato che dopo la sua denuncia venisse fatta giustizia, specificando di temere per la sua vita. Una vittima ritenuta attendibile dalle stesse istituzioni. Tanto che domani è previsto un intervento della giovane a un seminario sul bullismo e il cyberbullismo organizzato dalla Curia vescovile e dalla Provincia di Latina, a cui interverranno politici ed esperti. Un appuntamento per il quale a Di Roberto sono state affidate le conclusioni come autrice del libro Anima, « tratto dalla sua storia vera, vittima di bullismo, cyberbullismo e cyberstalking». Alla stessa polizia postale sono però arrivate le denunce di due giovani, che dopo aver avuto dei rapporti con Di Roberto si sarebbero trovati il loro nome e il loro numero di telefono su un sito porno, venendo tempestati di telefonate di uomini che chiedevano loro prestazioni. Aperta un' indagine, sarebbe già emerso che al sito pornografico, con sede all' estero, i numeri di quei giovani sarebbero stati dati proprio dalla 29enne tramite il suo telefonino. E ieri mattina per quella che era la vittima per eccellenza del revenge porn sono arrivate perquisizione e denuncia su una pornovendetta ancora tutta da chiarire.
Pirateria e revenge porn: ecco come bloccarli. Le Iene il 27 novembre 2019. La onlus La Caramella Buona, con lo studio legale Bernardini De Pace, ha attivato un numero verde per far partire il cosiddetto “metodo M”, che consente di bloccare e rimuovere i contenuti illegali di pirateria online, revenge porn e pedo-pornografia. Un metodo di cui vi abbiamo già parlato con la rimozione dei video hot di Tiziana Cantone, di cui ci ha parlato Roberta Rei. Siete vittime di revenge porn, pirateria e pedo-pornografia? Da oggi potete chiamare il numero verde 800.830.860, per chiedere che al vostro caso sia applicato il cosiddetto “Metodo M”. Ve ne abbiamo già parlato a proposito dell’opera instancabile della onlus “La Caramella Buona” contro pornografia minorile, revenge porn e contenuti pirata. Il "Metodo M" si basa sul sistema previsto dalla legge federale statunitense in difesa delle opere d'ingegno, che permette di individuare in rete le violazioni. Dopo questo passaggio sarà possibile ottenere dagli Stati Uniti la prova dell’illecito, individuare i responsabili e infine chiedere alla Corte federale il risarcimento dei danni. Un risarcimento possibile, ed è forse la vera rivoluzione, anche nei confronti delle compagnie che hanno permesso la diffusione illecita delle opere, fornendo servizi o affittando i loro server ai siti illegali. Un metodo scelto in queste ore da numerosi artisti, a partire dal celebre paroliere Mogol, che ha fatto bloccare oltre 4000 violazioni dei suoi brani, di cui il 70% riguardanti le canzoni scritte con Lucio Battisti. "Finalmente una soluzione che permette a tutti gli autori, produttori e vittime del web, di difendersi, raccogliendo le prove necessarie affinché i colpevoli rispondano dei danni e non continuino a danneggiare le opere musicali, letterarie, televisive e cinematografiche", ha spiegato Mogol. Un metodo che allunga i suoi “tentacoli” anche in Italia, perché una volta avviata la pratica di segnalazione il team inoltra una copia anche alla Polizia Postale del nostro Paese, in modo che possano individuare i responsabili sul suolo italiano. Un sistema già utilizzato, come vi abbiamo raccontato, anche per bloccare i video di revenge porn che hanno portato alla morte della giovane Tiziana Cantone, di cui Roberta Rei vi ha raccontato la tragica vicenda intervistando la mamma (nel servizio che potete rivedere sopra).
"Video hot in Rete di Tiziana Cantone: gli Usa indagano, l'Italia no". Le Iene il 16 settembre 2019. Negli Stati Uniti coinvolte 103 persone per la diffusione senza consenso di quei video, che hanno portato Tiziana Cantone al suicidio nel 2016. Tra chi caricò quei video anche due utenti di Milano. Roberta Rei ci aveva raccontato la sua tragica storia intervistando la madre. Tiziana Cantone era italiana ma a muoversi in suo difesa, per il momento, sembra solo la giustizia Usa. Sono oltre 100 le persone coinvolte nella diffusione senza autorizzazione nel web dei video hot per i quali la giovane napoletana Tiziana Cantone è stata portata al suicidio. "Finalmente qualcosa si è mosso a livello internazionale grazie alle leggi che ci sono negli Usa", racconta la mamma di Tiziana, Maria Teresa Giglio, ad Adnkronos. Vi abbiamo raccontato questa storia tragica con il servizio di Roberta Rei (che potete rivedere sopra), che ha intervistato la stessa madre di Tiziana: “Mia figlia si è suicidata il 13 settembre 2016 a causa della diffusione in rete di alcuni video intimi senza la sua autorizzazione e senza il suo consenso. Tiziana era la mia unica figlia ed era molto bella, dolce, estremamente buona, empatica e saggia. Da quando mi ha lasciato in quel modo così sanguinoso e inaspettato, non ho mai smesso di lottare per ridarle la dignità, l'onore che le hanno strappato e quell'identità sporca, infangata in tutti i modi senza pietà, senza umanità”. L’indagine, aperta adesso negli Usa, è partita dal lavoro di investigazione fatto dal cosiddetto “Team Emme”, un gruppo di specialisti legali e informatici del quale vi abbiamo parlato per primi in esclusiva, un team legato alla Onlus “La Caramella Buona”, attiva da oltre 23 anni nel contrasto alla pedopornografia. E proprio Roberto Mirabile, presidente di quella Onlus, spiega: “Questa negli Usa è un’operazione a tutela delle donne in generale e della stessa Tiziana, in sua memoria. Tanti video di questa ragazza sono stati cancellati, quelli presenti sui server Usa, ma purtroppo ce ne sono ancora ospitati da server che non devono rispondere alla giurisdizione americana. Ed è proprio qui che incontriamo le difficoltà, se non proprio l’impossibilità di agire in modo tempestivo e concreto”. Se a muoversi sono al momento solo gli Usa, come dicevamo, l’Italia resta ferma nonostante, come ha sostenuto la stessa mamma di Tiziana, alcuni video della figlia girano ancora indisturbati per il web, appoggiati su indirizzi Ip riconducibili a due utenti di Milano. Abbiamo conosciuto gli uomini e le donne del team Emme raccontandovi di come fossero riusciti a far chiudere un infame sito pedo-pornografico, che permetteva ai pedofili di tutto il mondo, anche italiani, di spiare le ragazzine on line. A raccontarci in esclusiva questo orrore è stato sempre Roberto Mirabile: “Con un abbonamento di 10 dollari era possibile diventare un utente premium ed accedere all'intero database dei filmati registrati, ovvero le dirette chat e web dei minorenni di tutto il mondo, chat fatte attraverso piattaforme come Facebook, Twitter, Youtube, Younow, ecc. La ragazzina si collegava in video chat pensando di essere da sola con il proprio fidanzato o con le amiche, magari anche facendo vedere parti del proprio corpo. Dall’altra parte dello schermo, segretamente e in tempo reale, migliaia di sconosciuti vedevano quello che accadeva, e potevano anche registrarlo e poi rimetterlo in circuito sui siti di pedopornografia. Ma la cosa ancora più sconvolgente era che l’applicazione consentiva ai pedofili addirittura di geolocalizzare le ragazzine, cioè di conoscere esattamente il loro indirizzo di casa”. Un’operazione, quella della “Caramella Buona” e del team Emme, che ha portato appunto a rimuovere dai server Usa i video hot di Tiziana Cantone. Ne rimangono al momento altri, ospitati da server russi. “Dopo ben tre anni, i video di Tiziana sono finalmente offline e ora il team sta lavorando per l'identificazione di tutti i responsabili, grazie alla tracciabilità degli indirizzi Ip dei loro computer”, spiega Roberto Mirabile. “Copia delle prove sono state inviate al Dipartimento di giustizia statunitense. La giustizia italiana cosa aspetta?"
In rete video hot di Voltolini, caccia a chi lo ha diffuso. Sospeso dal club. Pubblicato sabato, 23 novembre 2019 da Corriere.it. Oltre al danno le beffe, direbbe il proverbio. Che si attaglia perfettamente a quanto successo a Matteo Voltolini, 23 anni, secondo portiere della Reggiana, squadra di serie C. Il ragazzo è stato infatti ripreso mentre faceva sesso chiuso nel bagno di una discoteca di Reggio Emilia insieme alla sua fidanzata. Il video, postato in rete, ed è stato visionato dalla sua società che ha sospeso l’estremo difensore per una settimana. Nessun provvedimento finora nei confronti di chi ha messo il video in rete, che è ricercato dalla polizia, dato che — vale sempre la pena ricordarlo — la diffusione illecita di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito è un fatto che costituisce reato, punibile con una pena variabile da 1 a 6 anni di reclusione, oltre ad una multa da 5 a 15mila euro. Le indagini, secondo quanto sostiene «Il Resto del Carlino» si starebbero però concentrando su un giovane giocatore di basket della zona, che si sarebbe sporto sopra la paratia per riprendere le effusioni dei due ragazzi. Voltolini, che ha accettato la punizione della società, ha dichiarato: «Io credo di non aver fatto niente di male ma li capisco, è una cosa che fa clamore e abbiamo un regolamento interno da rispettare, allo stesso tempo però sono sereno perché avrò modo di spiegare tutto. Non sapevo che ci fosse qualcuno che mi stava riprendendo, ho denunciato il fatto».
Da corrieredellosport.it il 23 novembre 2019. Ha dato mandato al suo avvocato di denunciare chi ha girato e diffuso il video di 15 secondi nel quale c’è lui, Matteo Voltolini secondo portiere della Reggiana, ripreso dall’alto probabilmente con un cellulare in un rapporto sessuale con tanto di audio nel bagno di una discoteca della zona. Avrebbe sporto denuncia contro ignoti anche la ragazza che stava con il giocatore. Una scena che ha fatto il giro su whatsapp. Tanto è bastato per scatenare il finimondo, con il club granata che in un caso più unico che raro è corso ai ripari decidendo di sospenderlo una settimana sia per farlo riprendere dal trambusto generale con l’iter giudiziario da avviare che per mandare un segnale a tutta la squadra affinché nella vita privata venga adottata ogni precauzione per evitare certe situazioni non semplici da gestire. La tutela nei confronti di Voltolini serve anche per consentirgli di metabolizzare l’accaduto in modo da tornare concentrato in campo, e c’è contestualmente il monito perché chi indossa la maglia granata la rappresenta sempre ed è responsabile dell’immagine della società. Voltolini si sente tradito nella sua privacy, e ora si appella alla legge che punisce chi - dopo aver realizzato o sottratto - invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate (le pene prevedono la reclusione da 1 a 6 anni e la multa da 5mila a 15mila euro). Dicono che il giocatore è amareggiato e soprattutto arrabbiato per l’accaduto e le conseguenze. Non si sa se l’iniziativa sia stata presa da una sola persona o più. Il video sembra prendere il via con qualcuno che entra nel bagno accanto e, approfittando dell’apertura sulla sommità del pannello divisorio, avrebbe ripreso i due ragazzi in atteggiamenti intimi. I due giovani a quanto si dice non si sarebbero accorti di nulla. Il peggio arriva dopo, quando quel breve filmato diviene virale.
Porno, la dipendenza sempre più giovane. Le ricerche di video porno sul web aumenta a livelli impressionanti ed i consumatori sono sempre più giovani, scrive il 5 aprile 2019 Panorama. Qualche anno fa a lanciare l’allarme era stato Philip Zimbardo, uno psicologo di fama mondiale. Professore emerito a Stanford, già docente a Yale, alla Columbia University e alla New York University, Zimbardo ha pubblicato un libro piuttosto corposo, Maschi in difficoltà. Perché il digitale crea sempre più problemi alla nuova generazione e come aiutarla, firmato assieme a Nikita D. Coulombe ed edito in Italia da Franco Angeli. Lo studioso ha esaminato la situazione dei giovani maschi occidentali, quelli che hanno tra i 15 e i 25 anni, e quello che ha scoperto è inquietante. Tantissimi di questi ragazzi hanno problemi di relazione con l’altro sesso e, in generale, tendono a isolarsi. E per trovare consolazione si rifugiano nella dipendenza e nella compulsione, in particolare affidandosi al porno online. Quando si sente parlare di «dipendenza da porno» spesso si sorride o si pensa che il fenomeno sia amplificato dai giornali. Eppure i dati parlano chiaro: il consumo di pornografia è in costante aumento. Pornhub, uno dei principali siti hard della rete, nel corso del 2018 ha avuto 33,5 miliardi di visite, ovvero 5 miliardi in più rispetto al 2017. Fanno circa 962 ricerche di video porno al secondo. Nel nostro Paese, l’incremento di ricerche su Pornhub è stato del 15 per cento. Secondo uno studio realizzato dai ricercatori americani Ingrid Solano, Nicholas R. Eaton e K. Daniel O’Leary, oltre il 90 per cento dei maschi occidentali frequenta siti porno. E alcuni di loro - sempre più numerosi - ne diventano dipendenti. A spiegare che cosa sia la pornodipendenza è Antonio Morra, napoletano, studioso di teologia e autore di vari libri sull’argomento. Il più celebre si intitola Porno tossina (si può acquistare online sul sito pornotossina.it). Morra ha fondato un vero movimento, organizza conferenze in Italia, scrive articoli e continua da anni la sua attività di denuncia. «Ho iniziato a interessarmi alla questione della pornografia circa sei anni fa» spiega. «Dopo dieci anni di “pornodipendenza” ho sentito la necessità di condividere la mia storia per aiutare chi, come me, subiva questa condizione. Uscito dal tunnel, ho scoperto che a lottare contro questo moloch sono in tantissimi. La mia storia unisce scienza e fede. Ricordo sempre quel giorno in cui sentii la vocazione per utilizzare la mia esperienza per sostenere altri». Morra è stato dunque un pornodipendente, ma è riuscito a lasciarsi alle spalle la compulsione con l’aiuto della fede. «Questa dimensione» spiega «è la ricerca del piacere sessuale che si raggiunge attraverso l’autoerotismo e la visione di materiale pornografico. La dipendenza è collegata ai nuovi mezzi di comunicazione, in particolare Internet. La persona non riesce più a controllare e ad avere coscienza del tempo, isolandosi dalla realtà, da esigenze e impegni quotidiani. Non solo. La pornodipendenza inquina il livello psichico, produce calo dell’autostima e della fiducia in sé stessi, modifica i ritmi sonno/veglia, causa ansia, alterabilità dell’umore, aumento del senso di colpa e di vergogna, tensione, rabbia e stress. A livello fisiologico, invece, può esserci un calo del desiderio sessuale verso il partner, disfunzione erettile e/o problemi di eiaculazione». Di questi problemi si occupa Peter Kleponis, psicoterapeuta e direttore di una clinica di consulenza a Conshohocken, Stati Uniti. L’editore D’Ettoris ha appena pubblicato in Italia il suo libro Uscire dal tunnel. Dalla dipendenza da pornografia all’integrità, con prefazione del cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Cei. Secondo Kleponis, «la maggior parte delle persone non è cosciente del tragico impatto che la pornografia sta avendo sulla nostra cultura. Per esempio: la pornografia gioca un ruolo significativo nel 56 per cento dei divorzi. Sul Web la fascia più numerosa di utenti di pornografia è quella formata dagli adolescenti tra 12 e i 17 anni; è documentato che il 20 per cento degli uomini ammette di avere accesso a materiale pornografico sul luogo di lavoro, e che per questo motivo molti lo perdono; la maggior parte dei molestatori sessuali ha iniziato con la pornodipendenza. E il fenomeno non è un’esclusiva dei maschi, ma si sta diffondendo anche tra le donne». Addirittura, prosegue Kleponis, la pornodipendenza assume aspetti di epidemia. «Ogni mese i siti porno ottengono più visualizzazioni di Netflix, Amazon e Twitter messi insieme e il 30 per cento di tutti i dati trasferiti su internet riguardano la pornografia. Il fatto è che non esiste alcun modo per misurare con precisione tale epidemia. Sappiamo però che di epidemia si tratta a causa del numero di vite rovinate dalla pornografia». Per quanto riguarda gli adolescenti (maschi, ma anche femmine in misura crescente) l’impatto della dipendenza da porno è ancor più grave. Non solo - nei casi più estremi - fornisce una spinta ulteriore verso l’isolamento sociale, ma può avere effetti collaterali pesanti. Lo spiega bene la studiosa Elena Buday, nel libro a cura di Matteo Lancini Il ritiro sociale negli adolescenti, appena uscito da Raffaello Cortina. Il consumo diffuso di pornografia online, in sostanza, spinge i ragazzi a dissociarsi dalla realtà, in particolare quelli che non hanno ancora avuto esperienze erotiche. Questi giovani applicano alla pornografia, scrive la Buday, «la chiave di lettura che riservano generalmente ai tutorial, filmati in rete che ti insegnano a fare cose che non sai». In pratica, «anche la sessualità rischia di improntarsi a un tentativo di imitazione meccanica, scissa dalle componenti emotive profonde e personali che fondano l’incontro tra il Sé e l’altro. Il rischio è cioè quello che anche la sessualità, così come il corpo, venga vissuta in quanto immagine, ovvero in quanto oggetto di sguardo». Il pericolo è che crescano generazioni di giovani la cui educazione sentimentale e sessuale è avvenuta per lo più grazie al porno online. Il video hard diventa così il modello da riprodurre nella realtà, e le conseguenze le abbiamo già sotto gli occhi. Una di queste è la diffusione del sexting, lo scambio di immagini intime attraverso le chat e i social. «Il sexting è una pratica molto in uso tra gli adolescenti, come confermato da un’indagine di Telefono azzurro e Doxakids (2014), da cui emerge che il 35,9 per cento dei ragazzi conosce qualcuno che ha fatto sexting» scrivono le ricercatrici Loredana Cirillo e Tania Scodeggio. Lo scambio di immagini o, peggio, video sulla rete può rivelarsi però un azzardo. Quando gli scatti privati diventano pubblici accade il disastro. Succede ai più giovani, ma anche agli adulti. Lo dimostra la tragica vicenda di Tiziana Cantone, giovane donna napoletana che si è suicidata nel 2016, a 33 anni. Aveva girato alcuni video quasi per gioco, ma poi le immagini sono finite online e Tiziana, con un clic «di condivisione», è precipitata all’inferno. La sua storia viene ricostruita da Luca Ribustini e Romina Farace in Uccisa dal web (Jouvence), basato sul racconto di Maria Teresa Giglio, la madre di Tiziana. Avere a che fare con la pornografia, insomma, richiede una bella dose di consapevolezza. Cosa che, purtroppo, nei giovanissimi non è diffusa.
Revenge Porn cosa prevede la norma. 6 anni di carcere e multe fino a 15 mila euro per chi diffonde immagini sessualmente esplicite, scrive il 4 aprile 2019 Panorama. Il Parlamento ha approvato all'unanimità la norma sul cosiddetto "revenge Porn" cioè il reato sulla diffusione di immagini private e personali dal contenuto sussualmente esplicito senza l'autorizzazione del diretto interessato.
Un reato legato a recenti fatti di cronaca (il più famoso legato alla giovane Tiziana Cantone che arrivò a suicidarsi per la vergogna dopo che venne diffuso un video) che hanno visto donne e ragazze minacciate, umiliate, ricattate o rovinate attraverso la diffusione di foto o video privati in cui le protagoniste erano ritratte in momenti dall'alto contenuto erotico. La norma prevede che «Chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e la multa da 5mila a 15mila euro»
ANCHE GLI UOMINI SI AMMAZZANO PER IL REVENGE PORN (O QUASI). Francesco De Sio per ''Il Mattino'' il 4 aprile 2019. «Addio sangiorgesi, questa sera mi ammazzo». Lo scioccante messaggio compare poco le 22 di martedì su un gruppo social cittadino e mette da subito in allarme decine di utenti. L' autore è Ferdinando (nome di fantasia), 40enne molto conosciuto a San Giorgio. Vive da solo in un piccolo appartamento nei pressi del municipio, e tanto basta a chi lo conosce per prendere d' assalto i centralini delle forze dell' ordine con chiamate di emergenza per segnalare la situazione. Non mancano i commenti solidali al post, ma l' uomo rincara la dose: «Non scherzo, mi tolgo la vita sul serio». Sul posto i più rapidi ad arrivare sono i poliziotti del commissariato locale. Gli agenti tranquillizzano Ferdinando, in evidente stato di agitazione ma per fortuna senza segni di ferite. Poco dopo interviene in prima persona anche il sindaco Giorgio Zinno, chiamato in causa dagli stessi cittadini. Ma quello che inizialmente era sembrato un annuncio estremo dettato dalla solitudine, qualche ora dopo assume contorni ben più inquietanti: a spaventare il 40enne sarebbe stato infatti un caso di «revenge porn», un ricatto sancito come reato da un emendamento approvato - ironia della sorte - proprio martedì alla Camera. Ferdinando si è recato ieri mattina in questura per denunciare l' accaduto. L' uomo è stato infatti adescato in rete da una sedicente 25enne che l' aveva convinto in pochi giorni a portare le conversazioni su argomenti sempre più osé, con tanto di filmati in web cam e chiacchierate divenute decisamente «bollenti». Quella che sembrava una chat privata si è trasformata però in un boomerang per Ferdinando, quando martedì la ragazza ha avanzato una richiesta ben più audace. «Voglio 1.500 euro», scrive di punto in bianco, «o i tuoi messaggi finiranno su tutti i gruppi». Dopo l' iniziale diniego dell' uomo, la replica di Serena - questo il nome del profilo dietro cui gli investigatori ritengono celarsi un' intera gang specializzata in questo tipo di truffe - passa direttamente ai fatti: «So dove abiti, se non paghi manderò qualcuno da te stasera stesso». La vergogna per la reputazione compromessa, il mondo che gli crolla addosso in un istante. È a questo punto che la frustrazione di Ferdinando sfocia nella minaccia affidata ai social, fortunatamente esorcizzata dall' intervento di concittadini e poliziotti. «I due agenti intervenuti per salvarmi sono come angeli custodi», ha affermato ancora commosso il 40enne, che ha deciso ieri pomeriggio di sdebitarsi nei confronti delle forze dell' ordine, facendo recapitare di persona al commissariato di via Rosa una lettera di ringraziamento. Ora la palla passa però agli investigatori. Nei prossimi giorni la polizia proverà a far luce su quanto accaduto e scoprire la reale identità degli estorsori. Secondo quanto trapela, quello di Ferdinando non sarebbe l' unico caso di ricatto legato al mondo delle «vendette a luci rosse» denunciato nel Vesuviano nelle ultime settimane. Non è quindi escluso che a entrare in azione possa essere stata un' unica comune matrice. La polizia postale ha già sequestrato pc e cellulare dell' uomo, con la speranza di trovare anche nel numero di telefono di Serena indizi utili per smascherare i malviventi.
L'Accademia della Crusca boccia il termine "revenge porn". Si dice "pornovendetta". L'isituzione fiorentina ha analizzato dal punto di vista lessicale il disegno di legge approvato dalla Camera all'unanimità che introduce il reato di "diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti", scrive il 4 aprile 2019 La Repubblica. Diffondere immagini sessualmente esplicite è una "pornovendetta". L'Accademia della Crusca, la secolare istituzione fiorentina incaricata di custodire la purezza della lingua italiana, boccia l'uso del termine inglese "revenge porn", invitando ad evitare l'uso di "forestierismi opachi". I linguisti dell'Accademia, presieduta dal professore Claudio Marazzini, hanno esaminato dal punto di vista lessicale il disegno di legge approvato dalla Camera all'unanimità che introduce il reato di "diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti" e al termine dello studio si sono complimentati - riferisce una nota - "con il legislatore che, nella stesura della norma, ha utilizzato parole italiane, organizzate in un testo chiaro e trasparente". "Non possiamo allo stesso modo complimentarci con una parte dei commentatori - sottolineano gli accademici della Crusca nel parere diffuso - i quali perseverano, presentando i contenuti della nuova legge, nell'usare forestierismi opachi, senz'altro meno chiari della normativa ufficiale: anche nella discussione parlamentare in aula molti degli oratori e delle oratrici, per illustrare l'opportunità della norma, hanno fatto sfoggio dei termini "sexting", "revenge porn", "slut shaming". Per fortuna, la stesura materiale dell'emendamento non si avvale di questi forestierismi". I linguisti lamentano come molti commentatori abbiano invece creato "non poca confusione" presentando "talora l'esito legislativo come la norma sul "revenge porn", anche se l'espressione non ricorre affatto nella legge". Spesso "revenge porn" viene affiancato all'equivalente italiano, che esiste, ed è "pornovendetta". "Pornovendetta" ha già largo corso sui giornali e nella rete, e l'Accademia della Crusca suggerisce pertanto di "adottare la forma univerbata, più specifica rispetto alla grafia 'porno vendetta'. Il gruppo Incipit presso l'Accademia della Crusca "appoggia questa naturale soluzione, adottata spontaneamente da molti operatori della comunicazione". Il gruppo Incipit della Crusca si occupa di esaminare e valutare neologismi e forestierismi 'incipienti', scelti tra quelli impiegati nel campo della vita civile e sociale, nella fase in cui si affacciano alla lingua italiana, al fine di proporre eventuali sostituenti italiani. Incipit è costituito da Michele Cortelazzo, Paolo D'Achille, Valeria Della Valle, Jean-Luc Egger, Claudio Giovanardi, Claudio Marazzini, Alessio Petralli, Luca Serianni, Annamaria Testa.
Revenge porn, no all’emendamento La rivolta delle deputate di Pd e Fi. Pubblicato giovedì, 28 marzo 2019 su Corriere.it. Rinvio alla settimana prossima per il cosiddetto «Codice rosso». Il disegno di legge sulla violenza di genere slitta a causa dell’acuirsi delle tensioni nel governo in vista delle elezioni europee. La Lega, infatti, attraverso questa normativa ha tentato di portare avanti uno dei suoi cavalli di battaglia: la castrazione chimica per i colpevoli di stupro, ma i Cinque Stelle sono contrari. Questo, il vero motivo del rinvio della legge. Già, pur di non rompere platealmente in aula i grillini e il Carroccio hanno preferito prendersi una pausa e trovare un compromesso, come è già accaduto con tanti altri provvedimenti. Ma nell’emiciclo di Montecitorio, al momento dell’esame del «Codice rosso», va in scena un altro grande scontro. Mentre dietro le quinte Lega e Movimento 5 Stelle sono impegnati in un braccio di ferro sulla castrazione e in una contesa sulla paternità di questa legge, in aula tutte le opposizioni — dal Pd a Forza Italia, passando per Leu e Fratelli d’Italia — chiedono con forza di introdurre nel ddl un emendamento sul revenge porn, cioè la diffusione per vendetta di immagini intime. In prima fila in questa battaglia le donne: Maria Elena Boschi, Alessia Morani, Alessia Rotta, Patrizia Prestipino, Laura Boldrini, Stefania Prestigiacomo, Mara Carfagna, Micaela Biancofiore, Iole Santelli, tanto per fare solo alcuni nomi. Ma i grillini sbarrano il passo a questa richiesta. I Cinque Stelle hanno una loro proposta di legge in materia al Senato e vogliono procedere con quella. Tanto che fanno intervenire su Facebook, dopo giorni e giorni di silenzio, Giulia Sarti, le cui foto e filmati hard sono stati diffusi sul web. La deputata si esprime contro l’emendamento: «Non basta». E il governo per bloccare la discussione decide per lo stralcio. Ma in serata, dopo le polemiche, Luigi Di Maio corregge il tiro: «Martedì si deve votare l’emendamento». Durissime le opposizioni. Boschi è scatenata: «I Cinque Stelle sono contrari all’emendamento perché vogliono intestarsi la legge del Senato, mai visto tanto cinismo giocato sulla pelle delle vittime». Alessia Morani propone di inserire pari pari il testo della legge grillina del Senato in un emendamento. Vuole scoprire «il gioco» dei Cinque Stelle. Che rifiutano anche questa ipotesi. Giulia Bongiorno, che l’altro ieri in un’intervista al Messaggero aveva alzato il vessillo della castrazione chimica, non è in aula. Le donne dell’opposizione lo notano. «Che fine ha fatto? Ha o no a cuore il problema della violenza sulle donne?», si chiedono Boschi e Prestigiacomo. In aula l’atmosfera si fa incandescente. Prestigiacomo, seguita da altre deputate di Forza Italia, tenta l’assalto ai banchi del governo ma viene fermata dai commessi. Però ormai ha acceso la miccia: le sue colleghe di partito, prima, le parlamentari del Pd, poi, e infine quelle delle altre opposizioni, si schierano davanti ai banchi del governo. Fico non riesce più a gestire l’aula e preferisce sospendere la seduta e convocare d’urgenza la riunione che certificherà lo slittamento della legge. Su un campo dove i partiti si scontrano con la mente alle Europee, resta lo sconforto di Maria Teresa Giglio, madre di Tiziana Cantone, la ragazza napoletana che si è suicidata dopo la diffusione di alcuni suoi video sul web: «Mia figlia — dice — vuole quella verità e quella giustizia che le sono state negate in vita». La politica sarà in grado di soddisfare la sua richiesta?
Da repubblica.it il 29 marzo 2019. Le forze parlamentari non trovano un accordo per una legge che punisca il revenge porn, ossia la diffusione per vendetta di immagini sessuali private. Litigano in Parlamento, e alla fine Luigi Di Maio da New York interviene sconfessando la linea seguita per tutta la giornata dalla maggioranza: "L'emendamento al revenge porn si può votare. Noi lo votiamo, la Lega non so". In mattinata alla Camera un emendamento di Laura Boldrini (Leu) sul tema era stato bocciato dalla maggioranza gialloverde per 14 voti. Le parlamentari di Forza Italia e Pd avevano occupato nel pomeriggio l'aula di Montecitorio dove si discutevano le norme del decreto Codice rosso contro la violenza di genere e domestica: a quel provvedimento l'opposizione aveva proposto gli emendamenti sul revenge porn. La seduta stata era sospesa: l'esame del provvedimento riprenderà martedì. "Per me quell'emendamento è un primo passo - dice Di Maio in serata - martedì quando torneremo in aula si può benissimo votare. Poi c'è da approvare un disegno di legge organico". Il riferimento del vicepremier è alla proposta di legge che i 5 Stelle hanno presentato in mattinata, alla presenza della madre di Tiziana - la ragazza di Napoli morta suicida per i video intimi diffusi in Rete - che supporta l'iniziativa. Resoconto di una giornata difficile. Prima era stato bocciato l'emendamento Boldrini - nonostante la richiesta unitaria dell'opposizione di approvarlo - che puntava a inserire nel ddl Codice rosso una nuova tipologia di reato legata al revenge porn: i sì erano arrivati a 218, i no 232. Poi nel pomeriggio l'intervento durissimo di Stefania Prestigiacomo di Forza Italia: "Oggi stiamo scrivendo una bruttissima pagina di storia parlamentare, abbiamo vissuto in passato momenti esaltanti in quest'aula quando, grazie all'operosità e all'intelligenza innanzitutto delle donne di tutti gli schieramenti ma anche con il supporto dei colleghi, abbiamo saputo rinunciare a primogeniture in nome dell'approvazione di valori che sono oggi pilastri nel nostro ordinamento giuridico. Ricordo il giorno in cui abbiamo approvato la legge che modificava il reato di violenza sessuale da reato contro il costume a reato contro la persona. Tutte le donne parlamentari firmarono quel progetto di legge indipendentemente dai partiti: la prima firma era Finocchiaro, la relatrice della legge, con il consenso di tutti, era Alessandra Mussolini. Oggi invece in nome dell'egoismo e in nome di una ostinazione incomprensibile noi stiamo rinunciando alla possibilità di dare seguito ad atti votati da quest'aula perchè ricordo che nel mese di novembre abbiamo approvato una mozione a prima firma Carfagna che invocava un intervento della maggioranza e del governo su un tema come questo. In questo momento stiamo disattendendo ad un impegno assunto da quest'aula all'unanimità". Poco dopo le parlamentari d'opposizione hanno occupato i banchi del governo e la seduta è stata sospesa. Ma nella giornata tante donne che siedono in Parlamento avevano commentato in modi differenti il tema della giornata. E su Twitter anche Maria Elena Boschi del Pd interviene: "Alla Camera Lega e M5S stanno bocciando tutti gli emendamenti che introducono il revenge porn. Dove è la ministra Bongiorno? Se ha a cuore davvero le donne vittime di violenza, faccia cambiare idea al suo governo". Alla fine la conferenza dei capigruppo della Camera ha deciso: il ddl Codice Rosso slitta a martedì 2 aprile. Su Facebook aveva parlato anche Giulia Sarti, la deputata Cinque stelle a sua volta vittima della diffusione di foto intime: "Ringrazio tutti coloro che in questi giorni hanno espresso reale e sincera vicinanza nei miei riguardi. A tal proposito, in virtù di quel che ho passato, io così come molte altre donne purtroppo, ci tengo a sottolineare che il caso in questione, cosiddetto 'Revenge porn', discusso in queste ore nell'ambito del Codice Rosso, non può certo risolversi attraverso l'approvazione di un mero emendamento. Al contrario, la materia è talmente delicata da richiedere un ampio dibattito non solo parlamentare, bensì giuridico-sociale, volto dapprima a coinvolgere esperti, vittime, famiglie, analisti, giuristi e tutte le varie articolazioni dello Stato competenti come la Polizia postale e delle comunicazioni. È un tema importantissimo, una sua seria regolamentazione non può rischiare di nascere monca". Intanto al Senato i 5S presentavano la loro proposta sul revenge porn: scritto da Elvira Evangelista, prevede da 6 mesi a 3 anni di carcere per chi pubblica foto o video privati sessualmente espliciti senza l'espresso consenso delle persone rappresentate "al fine di provocare nelle persone offese gravi stati di ansia, timore o isolamento" e la possibilità di inoltrare al gestore del sito web o social media un'istanza per l'oscuramento, la rimozione o il blocco dei contenuti. La pena diventa da 1 a 4 anni se a farlo è il partner o l'ex partner della persona offesa; e da un 5 a 10 anni se la persona offesa si toglie la vita e sono previste inoltre linee guida per la formazione degli studenti e del personale scolastico.
Stasera Italia, Giorgio Mulé attacca duramente Nicola Porro dopo la bocciatura del revenge porn, scrive il 29 Marzo 2019. Dopo il caos scoppiato alla Camera dei deputati, anche durante la puntata di Stasera Italia di ieri 28 marzo il clima non è stato dei migliori. Giorgio Mulé e Nicola Porro hanno discusso animatamente in seguito alla bocciatura dell'emendamento sul revenge porn, presentato dall'ex presidente della Camera Laura Boldrini. Mulé, rimarcando quanto detto nell'Aula di Montecitorio, ha ripreso duramente Porro. Quest'ultimo ha asserito come la questione si sia sviluppata solamente dopo le vicende dell'ex deputata Giulia Sarti. Ma l'azzurro ha trovato questa dichiarazione inammissibile. Ecco perché ha ribadito che è inaccettabile che chi diffonde foto e video sessualmente espliciti senza consenso non venga punito. Così come è paradossale, a suo dire, suicidarsi a 16 anni per l'impossibilità di sopportare una simile umiliazione. "Disgustoso verificare che la maggioranza e il governo non vogliono inserire questa fondamentale riforma per mettere immediatamente un freno a una barbarie".
Revenge porn, ne siamo tutti potenziali vittime, scrive Maria Laura Amendola il 24 Febbraio 2019 per Eroica Fenice. Revenge porn, la nostra disamina su una terribile piaga sociale. “Uscite le minorenni” – dice Francesco. “W le minorenni maiale!” – esulta Torel. “Mi fa salire il pedofilo” – si “rammarica” un terzo utente. Sono i commenti, continui, disgustosi, senza freni, di uomini nascosti dietro pseudonimo, alla condivisione convulsa di foto private su un gruppo Telegram, chiamato “Canile 2.0”, con 2.300 iscritti e attivo dal 2016. Ci si può accedere soltanto su invito e i messaggi sono crittografati. Qui centinaia di fotografie, video e dati personali di donne assolutamente ignare vengono dati in pasto a quella che è una vera e propria violenza di gruppo. Dalla condivisione di foto intime tra gruppi di amici su Whatsapp fino ai gruppi Telegram che raggiungono migliaia di persone, il fenomeno del “revenge porn” si moltiplica a dismisura. Per revenge porn si intende, in particolare, la vendetta da parte di un ex con la pubblicazione di foto e video della fidanzata all’inizio, durante e/o soprattutto alla fine della relazione. Più in generale, però, si riferisce alla condivisione on-line non consensuale di materiale intimo e/o pornografico, sia a scopo vendicativo che non. E’ un fenomeno umiliante e lesivo della dignità della persona, può condizionare la vita delle vittime anche nella ricerca di un impiego e nei rapporti sociali. Le vittime, infatti, sono donne di ogni età, di tutte le provenienze geografiche e di qualsiasi estrazione sociale. Il canale più utilizzato è l’app di messaggistica istantanea Telegram, perchè permette di mantenere l’anonimato e di decidere a quale “chat tematica” partecipare.
Le “categorie” sono essenzialmente quattro:
I gruppi dove circola materiale di revenge porn esplicito, in cui ex fidanzati condividono foto, video e numeri di telefono delle ex o in cui vengono pubblicate foto di minorenni accompagnate da un linguaggio degradante e dallo “shitstorming”, ovvero gli insulti di massa: Un iscritto anonimo condivide un selfie della ex, seguito da numero di telefono e città in cui vive. “Quella stronza deve pagare il torto che mi ha fatto”.
I gruppi in cui viene utilizzata la “modalità spy”, quindi la condivisione di materiale realizzato con videocamere e microfoni occulti, ma anche filmati rubati a donne in intimità senza il loro permesso, ragazze immortalate sui mezzi pubblici o per strada senza che se ne accorgano;
I gruppi in cui passano foto prese dai social network, ma anche foto di amiche, parenti, vecchie compagne di studi (per cui spesso nascono delle chat apposite come “Le cagnette”, in cui si viene invitati a spedire “foto hot delle tue amiche”);
I gruppi in cui viene presa di mira una singola ragazza (ad es. “Laura è puttana”), con la condivisione di foto, video e contatti della persona in questione.
Come se non bastasse, si discute di “droga dello stupro” e i riferimenti alle violenze sessuali sono all’ordine del giorno. “Quanto è facile reperire del ghb da usare come droga dello stupro?” – chiede un utente. “Poche gocce bastano per fare quello che devi fare”, la risposta. Un altro asserisce che “le femmine sono soltanto carne da fottere e stuprare, da sbattere in rete punto e basta”. L’amministratore del gruppo incalza: “stupriamole tutte ‘ste troie!”.
Nei vari gruppi, circola ancora il video che ha portato al suicidio la giovane napoletana Tiziana Cantone, mentre altri cercano quello di Carolina Picchio, la 14enne morta suicida dopo la diffusione del filmato in cui era vittima di molestie da parte di cinque ragazzi. Nel momento in cui Telegram decide di cancellare un gruppo, gli utenti applicano il “piano b”, aprendo un canale broadcast in cui l’amministratore fornisce a tutti gli iscritti della chat chiusa il nuovo link. Le vittime sono al 90% di sesso femminile, mentre tra gli uomini capita spesso che i soggetti colpiti siano omosessuali. In un campione di ragazzi tra i 12 e i 18 anni, sono sempre i maschi a fare pressioni sulle fidanzate per farsi mandare delle foto. Se le richieste non vengono esaudite, si tramutano in abusi, insulti, ricatti e violenza psicologica. Secondo Amnesty International, in Italia una donna su cinque ha subìto molestie o minacce online. Ma quante sono, oggi, le donne non a conoscenza del fatto che la propria immagine sia o sia stata oggetto di diffusione non consenziente? Insomma, quante sono le donne vittime di revenge porn?
La cifra non è quantificabile, anche a causa di un vero e proprio vuoto legislativo. Potenzialmente, potremmo tutte essere vittime di revenge porn. A differenza di altri Paesi (come la Germania, il Regno Unito, L’Australia, il Canada e molti Stati degli USA), in Italia il revenge porn non è un reato. Senza una legge ad hoc contro il revenge porn, chi subisce un tale abuso può fare appello soltanto alla legge sulla privacy, alla diffamazione e alla condivisione di riprese fraudolenti o, a seconda dei casi, all’accusa di stalking e di detenzione e diffusione di materiale pedo-pornografico (gli stupri virtuali di minori online tra il 2016 e il 2018 sono passati da 104 a 202 casi all’anno). Per la Legge Italiana, ad esempio, la diffusione di un autoscatto non costituisce reato perchè si presuppone la consensualità del soggetto. Nel frattempo, i tempi per la rimozione da parte della Polizia Postale non impediscono al materiale di diventare immediatamente virale. In prima linea su questo fronte, l’Associazione “Insieme in Rete” (che promuove l’esercizio consapevole della cittadinanza digitale) e la sua campagna #intimitàviolatache ha condotto alla scrittura di una “Legge contro la condivisione non consensuale di materiale intimo”. La Legge sarà pronta nei prossimi mesi e mira a una vera e propria educazione digitale, alla prevenzione della violenza di genere, ad abbreviare i termini per le denunce, alla responsabilizzazione dei gestori delle piattaforme e delle applicazioni e al riconoscimento del consenso, basandosi sull’assunto che la colpa sia di chi condivide e non di chi scatta la foto. Alla base di un fenomeno così terribile, c’è una visione maschilista delle relazioni, del sesso e dell’affettività. Il giudizio di fronte alla foto di una donna nuda è sempre negativo, a differenza del giudizio di fronte alla foto di un uomo nudo, che sarà sicuramente positivo. Il revenge porn è colpa di chi tradisce la fiducia del partner e mai di chi decide di scambiare materiale intimo in coppia. Se una donna vive liberamente la propria sessualità, decidendo anche di scambiare materiale intimo con il proprio partner, nessuno (tantomeno quel partner) ha il diritto di umiliarla in rete. Dire “te la sei cercata” a una vittima di revenge porn equivale a colpevolizzare una vittima di stupro. Maria Laura Amendola per Eroica Fenice
Si fa un selfie nuda ma la foto fa il giro del paese. Il dramma del padre, scrive l'11 Dicembre 2016 Libero Quotidiano. Un selfie senza veli per il fidanzatino che lui, però, non tiene per sé ma rilancia, via whatsapp, agli amici. Nel giro di poco tempo la foto rimbalza sui telefonini di tutto il paese. Tanto che il padre della ragazzina, minorenne, arriva a lanciare un appello a mezzo stampa per fermare la gogna. Siamo in una cittadina del salernitano, in quello che la Polizia postale ha denunciato come un nuovo caso Cantone, la ragazza di Mugnano (Napoli) che si è tolta la vita lo scorso 13 settembre dopo la diffusione di alcuni suoi video hard sul web. "Dopo il caso Tiziana Cantone un altro episodio simile ha travolto in queste ore" una cittadina nella provincia di Salerno, si legge in un post della pagina Facebook Una vita da social: "Stando al racconto dei genitori, la loro figlia, ancora minorenne, si è scattata un selfie nuda in camera da letto e lo ha inviato al suo fidanzatino. Questa immagine, però, non si è fermata al cellulare del presunto innamorato della ragazzina ma tramite Whatsapp è stata rigirata su vari gruppi (...) fino a terminare sul telefono di un collega del padre della minorenne che avendola riconosciuta ha fatto presente la terribile cosa". "Affranto il genitore - si legge ancora nel post - si è rivolto alle pagine web del Giornale del Cilento dove ha lanciato un appello accorato a coloro che sono in possesso di quest’immagine di non divulgarla per non incidere ancor più negativamente su una vicenda delicata per la loro dignità di genitori e per la loro figlia consapevole della leggerezza effettuata".
Con i selfie regaliamo la nostra intimità per avere un like. Siamo malati senza saperlo. Dai vip agli aspiranti tali, fino alle persone comuni. Tutte mettono in mostra la propria vita. Con grandi rischi, scrive Roberto Zarriello il 12 marzo 2017 notizie.tiscali.it. Chi è senza peccato, scagli la prima pietra. E alzi la mano chi, per “necessità voyeuristica” o per semplice curiosità, non abbia mai cliccato su una foto o su un profilo di Emily Ratajkowski & company. La colpa è sicuramente del bombardamento via web e social di giornali online e relative fanpage. Un po' quello che accade con la pubblicità in TV. Si chiama “effetto esposizione” e avviene quando la semplice esibizione continua di un prodotto induce a renderlo piacevole. Così ci abituiamo ai continui post con video e immagini sempre più espliciti sulla bella vita e i flirt di vip e modelle. Da sottolineare che l'effetto esposizione produce l'effetto opposto quando è fin troppo ripetuto. Ma è certo che le news di “gossip” non sono inserite a caso su home e fanpage di magazine e giornali online. L’offerta arriva, però, perché esiste la domanda. Una domanda che sempre più spesso parte dal “basso”, quando a diventare protagonisti di gossip e scandali sono perfetti sconosciuti. La vicenda di Tiziana Cantone ha sollevato sdegno verso l'uso criminale della diffusione online di video personali che possono danneggiare l'immagine e la reputazione di chi è coinvolto. Tiziana Cantone si è tolta la vita, per questo, e quattro persone risultano indagate per diffamazione. Intanto il Garante per la Privacy ha avviato una istruttoria sul caso per chiedere ai principali motori di ricerca (Google e Yahoo) di giustificare le ragioni per le quali sugli stessi risultino ancora indicizzate pagine sulle quali sono pubblicate immagini e/o video pornografici associati al nome della ragazza. Un altro episodio simile è accaduto a Elisabetta Sterni, pr in discoteca, 30 anni, originaria di Brescia. Anche in questo caso, un video intimo girato con un ragazzo è finito in rete e ed è stato diffuso tramite whatsapp su centinaia di smartphone. Elisabetta ha annunciato pubblicamente una denuncia contro chi ha voluto diffondere quel video approfittando della sua ingenuità e del suo coinvolgimento emotivo. La ragazza lo ha fatto via Facebook (ma poi il video è stato rimosso) e facendosi intervistare da vari giornali. I social si sono divisi tra chi ha difeso il coraggio della pr di Brescia e chi l’ha accusata di aver usato questo episodio per ottenere visibilità.
Scandali vip e ritorno d’immagine. Per Belen, quando venne diffuso in rete il “famoso” video hard, il nome della show girl era tra i più ricercati del web. Stessa cosa dicasi per Diletta Leotta, recentemente apparsa sul palco di Sanremo anche in funzione dello spiacevole episodio di furto di foto e filmati osé sottratti dal suo cellulare. Ancora oggi, spuntano articoli e interviste in cui si citano questi episodi e siamo sicuri che se ne parlerà ancora per molto tempo. Sul web e sui social basta una frase o un riferimento a questi video che si riaccende la curiosità e l’istinto da voyeur degli utenti.
La giustizia si fa sui social. “Se licenziate i due ragazzi io e la mia famiglia non metteremo più piede nella vostra catena. Italia agli italiani! Bravi i due ragazzi!”. Sono centinaia i commenti a difesa di due dipendenti del LIDL di Follonica che hanno rinchiuso due donne rom in una gabbia per la raccolta rifiuti, mentre provavano a rovistare tra la spazzatura, e poi hanno girato e caricato un video su facebook. L’azienda ha preso, invece, le distanze. A fronte di pochissimi commenti di chi fa notare che “nessuno deve sostituirsi allo Stato”, la maggior parte chiede promozioni e aumenti di stipendio per gli autori del gesto.
Il boss divo dei social. Ma nel delirio dei social si finisce anche per accreditare personaggi come Vincenzo Torcasio, 30 anni di carcere con rito abbreviato per associazione mafiosa e omicidio. Attualmente irreperibile. E’ gestore della pagina facebook “Onore è dignità”, seguita da 19 mila utenti. Il suo clan ha insanguinato Lamezia Terme, ma lui tranquillamente posta su Facebook. L’ultimo contributo porta la data dello scorso 22 febbraio e recita: “Pace, amore e serenità a tutti”. Qualcuno nei commenti gli ricorda l’operazione compiuta lo stesso giorno dalla forze dell’ordine a Lamezia contro la ‘Ndrangheta e i relativi arresti (a cui lui si è sottratto). La pagina è ancora regolarmente al suo posto, nonostante Torcasio sia latitante.
La cura disintossicante dai social. Una settimana lontano dai social network. Ci hanno provato gli studenti delle classi del triennio dell’indirizzo multimediale del Liceo Artistico Munari di Crema. L’obiettivo è riflettere su che cosa spinga le persone al desiderio irrefrenabile di comunicare qualunque cosa: dalla vita privata, ai selfie. Ma alla fine della prova sono arrivati solo tre studenti su quarantasei. Interessanti sono anche i termini prodotti dai ragazzi nel loro diario di esperienza: “bisogno”, “senso di vuoto”, “isolamento”, “abbandono”. Dai dati raccolti e analizzati si potrà tirar fuori una sorta di percorso per aiutare le nuove generazioni ad affrontare il mondo della rete e dei social. Per far comprendere loro che il mondo virtuale è sempre più connesso a quello reale e che ogni nostra azione comporta necessariamente una conseguenza, anche se compiuta dietro lo schermo di un pc, di un tablet o di uno smartphone.
Dopo il caso della ragazza che si è suicidata perché alcuni suoi video hot erano finiti in rete e lei era stata sottoposta alla gogna, abbiamo sentito Giovanni Boccia Artieri: «Il colpevole non è il mezzo, la responsabilità è di un unico e complesso ecosistema», scrive Andrea Scutellà il 15 settembre 2016 su “Gazzetta di Reggio”. I suoi video hard finiscono in rete, giovane si suicida per la vergogna. Aveva anche cambiato identità. Lei stessa avrebbe inviato per gioco quelle immagini ad alcuni amici, uno dei quali l'avrebbe tradita trasmettendo il video che a catena è diventato virale. Messa alla gogna aveva provato a cambiare identità, poi non ha resistito. Aveva anche vinto una causa con Facebook per far rimuovere i contenuti nei quali veniva presa in giro. «Qui c’è la responsabilità di un unico e complesso ecosistema». La tragedia della ragazza campana che si è uccisa in seguito al video hard virale che le ha rovinato la vita, porta sul banco degli imputati non solo i new media, ma un cortocircuito dell’informazione per cui il sociologo Giovanni Boccia Artieri vede un’unica soluzione: gli utenti. «Il diritto all’oblio - spiega - è una falsa illusione, gli unici anticorpi che ci sono in rete siamo noi».
Cosa ci insegna questo evento tragico sui new media?
«Questi mezzi amplificano i comportamenti sociali, un fenomeno come quello che è accaduto ha diversi livelli di responsabilità. Vanno dal singolo che produce il contenuto fino a chi partecipa condividendolo, a chi mette il “mi piace”, a chi ricercando su google lo rende ancora più visibile perché aiuta un algoritmo a portare notorietà al fatto».
Dal punto di vista morale, la semplicità del gesto della condivisione, il clic, non rischia di farci sentire meno responsabili di quello che pubblichiamo sulle nostre bacheche?
«Sì, è chiaro. Chi condivide un contenuto, spesso lo fa senza neanche aprire o approfondire, ma non è questo il caso. La logica di condivisione dei social si inserisce nella volontà dei singoli di stare dentro le conversazioni del momento: quello di cui parlano tutti, di cui parlano i tuoi amici, è un modo di “partecipare a”. Il fatto che questo abbia delle conseguenze è poco trasparente. Noi siamo abituati a commentare ogni cosa anche con toni accesi nella comunicazione interpersonale, spesso viene detto “è una chiacchiera da bar”. Ma lì non c’è una visibilità di massa e aggregata della nostra opinione, mentre nei social media sì».
Quindi la cattiva informazione diventa la cassa di risonanza del rumore di fondo dei social network?
«Un caso come questo, che era noto nei flussi dei social network locali, per diventare una notizia da quotidiano nazionale deve avere almeno la visibilità che gli è data da uno locale. In questo video ci sono tutti gli elementi di piattaforme che lavorano su un certo tipo di ironia e che propongono video di nicchia a un pubblico di massa. C’è una donna vittima di un atteggiamento maschilista, c’è un modo dire scherzoso, quel “bravoh” che è diventato un hashtag, un tormentone. Qui c’è la responsabilità di un intero sistema che è complesso».
C’è una confusione tra la dimensione pubblica e quella privata all’interno dei social media?
«Il digitale ci libera dal contesto. In realtà non esiste veramente un privato in spazi che sono pubblici o semi-pubblici. Se io litigo con lei in un commento sulla mia pagina Facebook, chiunque può vederlo e riportarlo. Le contromisure con l’uso, anche biografico, stanno venendo fuori. Mi vengono in mente gli adolescenti che costruiscono con Instagram profili chiusi. Snapchat rende deperibile un video e avverte se qualcuno fa screenshot. Gli unici anticorpi che ci sono in rete siamo noi».
La ragazza si era appellata al “diritto all’oblio”, aveva chiesto e ottenuto in tribunale di essere dimenticata. Ma è possibile nell’era dei social e dei motori di ricerca?
«Anche qui viviamo una specie di falsa illusione. Il diritto all’oblio non ha a che fare con il cancellare cose che ci riguardano dalla rete, può essere applicato quando qualcuno cerca un’informazione su di noi per evitare che venga agganciata a un contenuto esistente, ma il contenuto continua ad esistere. Se io non cerco il nome e cognome della ragazza ma un’altra parola chiave, il video esiste e si può prendere e condividere. Per come funzionano i social le informazioni che ci sono su ognuno di noi si annidano nelle conversazioni di chiunque: è impossibile cancellarle definitivamente».
TIZIANA CANTONE ED IL PREZZO DELLA NOTORIETA'. DELLA SERIE: CHI E' CAUSA DEL SUO MAL PIANGA SE STESSO. Il caso di Tiziana Cantone: è come sembra? Boom social scaturito da una violazione della privacy, o mossa autopromozionale? Scrive GAC il 25/06/2015 su it.blastingnews.com. Stai cercando qualche video? Bravo! Purtroppo, caro/a utente (eh sì, anche le donne sono interessate al caso), qui non ne troverai. Questione di pubblica decenza impediscono di mostrarvi il "corpo" del reato, se di reato si tratta. Tuttavia il corpo, o meglio i corpi, ci sono. Si tratta di 5 brevissimi video, realizzati con cellulare o piccola telecamera nelle zone partenopee, diffusisi inizialmente tramite "WhatsApp" ed inevitabilmente convogliati su piattaforme di videosharing e siti a luci rosse, tutti ritraenti colei che è stata identificata col nome di Tiziana Cantone, nell'intento di praticare differenti atti sessuali, per lo più rapporti orali (ma non solo). E fin qui, potrebbero chiedersi i più, perché tanto interesse? La rete è in fondo piena di pornografia, perché ostinarsi a cercare video di pessima qualità, che causano un danno all'immagine di una persona, e rappresentano forse un'evidenza di reato? Se li state cercando, ma non sapete nemmeno voi il perché, allora eccovi la spiegazione: I video, pur essendo "pornografici" presentano (almeno quelli più noti che hanno contribuito a creare il caso mediatico) una certa vis comica. Nel primo video, mentre Tiziana offre piacere all'uomo, intrattiene un dialogo con l'amante, in cui entrambi danno del "cornuto" all'ipotetico fidanzato della suddetta, che si complimenta per l'idea di realizzare un filmato (<<stai facendo un video?! Bravo!>>), usano un linguaggio alquanto scurrile ed epiteti verso di lei non certo affettuosi (si sa, talvolta parlare sporco alimenta la carica erotica) , ed infine sembra vengano scoperti da qualcuno, tanto da essere costretti ad interrompere e rivolgere delle scuse al passante che li ha richiamati; si, un passante, perché il primo video sembra apparentemente ripreso dietro una macchina, dal lato del cofano. Questo è sostanzialmente il clou del caso mediatico. Eccetto che per le eventuali esigenze di giustizia, il dato che più dovrebbe interessare è che un evento circoscritto territorialmente e di nessun interesse pubblico, sia riuscito da solo a guadagnarsi una visibilità a livello nazionale (la notizia viene riportata sui social persino da un giornale come "Il fatto quotidiano"), alimentato da una certa fetta del voyerismo degli internauti, curiosi di assistere alla presunta gogna mediatica messa in atto e ingolositi dai contenuti piccanti su cui è basata. L'impero del Trash colpisce ancora!
Le Iene Show, diretta 24 febbraio 2019, scrive Irene Verrocchio, Domenica, 24 Febbraio 2019 su maridacaterini.it. E’ andata in onda, alle 21.25 su Italia1, una nuova puntata de Le Iene Show con la conduzione di Nadia Toffa, Giulio Golia, Filippo Roma e Matteo Viviani. Le iene si occupano della storia di Tiziana Cantone, trentenne morta suicida. Si è tolta la vita per ladiffusione virale di video a luci rosse pubblicati sul web. La ragazza è stata ripresa in momenti di intimità privata. La madre dopo due anni cerca ancora giustizia. Ancora non si sa chi sia stato a caricare i video in rete. Anche se la Cantone avrebbe fatto il nome 5 persone, non si è trovato un colpevole si è deciso di archiviare il caso. Secondo la madre si occupa di femminicidio virtuale. La ragazza dopo il video non usciva più di casa per la vergogna. Ha dovuto anche pagare 20.000 euro per le spese legali. La ragazza era già una persona fragile e lo scandalo dei filmati le ha dato il colpo di grazia. Aveva perfino spesso di mangiare. La madre ha visionato i filmati e spiega che la donna era manipolata e plagiata dal fidanzato. Viene intervistato a microfoni spenti l’ex fidanzato di Tiziana Cantone. L’uomo, tremante e piangente, racconta di essere innocente. Il video era semplicemente un gioco intimo condiviso tra i due. Non sa chi abbia caricato i video nel web.
Tiziana Cantone, parla la madre: “Il calvario continua anche dopo la sua morte”. Maria Teresa Giglio accusa: "I video sono ancora online, infangata la memoria di mia figlia", scrive il 22 febbraio 2019 Voce di Napoli. La madre di Tiziana Cantone, la giovane napoletana morta suicida in seguito alla vicenda di alcuni video privati, parla a distanza di due anni e mezzo e chiede la verità su quanto accaduto alla figlia. Maria Teresa Giglio, mamma di Tiziana, continua ad accusare l’ex compagno della figlia per la diffusione dei video e al programma Storie Italiane, condotto da Eleonora Daniele su Rai2, dice: “Stiamo aspettando di sapere chi abbia divulgato questo video sul web e crediamo che la risposta deve darla chi deve tutelare i nostri diritti. La risposta l’attendeva anche Tiziana e non credo ci volesse molto. Sarebbe bastato andare a fondo e vedere da quale indirizzo IP erano stati divulgati i video per capire quale era la fonte”. La donna poi lancia la sua accusa: “Perché la Procura e tutti coloro che avevano l’obbligo di andare a fondo e individuare le persone colpevoli di questo reato così grave non hanno fatto il proprio dovere e hanno fatto morire una figlia così come se fosse un giocattolo?”. Infine la Giglio dice di avere tanta rabbia: “Non è bastato che Tiziana si sia tolta la vita per ottenere quell’oblio che nessuno le ha dato, si continua ad offendere ancora la memoria di mia figlia visto che i video sono ancora rintracciabili online”.
Tiziana Cantone, la mamma a Storie Italiane: «Uccisa dal web». Video porno ancora online, scrive Il Mattino Giovedì 21 Febbraio 2019. Maria Teresa, mamma di Tiziana Cantone, parla in diretta a Storie Italiane, su Rai2. Il suo è un grido di dolore e una richiesta di giustizia per la figlia che si è tolta la vita dopo la pubblicazione online e la diffusione in chat di video porno che la vedevano protagonista. «Stupro virtuale», così viene definito quanto subito da Tiziana Cantone. Un calvario che continua anche dopo la sua morte, dato che i video sarebbero ancora rintracciabili online, su siti porno.
Caso Cantone, la verità di Tiziana nel libro scritto dalla madre: “Uccisa dal web”, scrive Angela Marino il 21 febbraio 2019 su napoli.fanpage.it. La scoperta di una scheda di memoria nascosta tra collane e orecchini in un portagioie, a un anno dalla morte di Tiziana Cantone, ha dato vita al libro inchiesta del giornalista ‘Uccisa dal web’, scritto dalla mamma della 31enne, Maria Teresa Giglio. Il libro esce in concomitanza dell’inizio del processo a Sergio Di Palo, all’epoca fidanzato di Tiziana. La scoperta di una scheda di memoria nascosta tra collane e orecchini in un portagioie, a un anno dalla morte di Tiziana Cantone, ha dato vita al libro inchiesta del giornalista, Luca Ribustini e dell'avvocato, Romina Farace, ‘Uccisa dal web: La vera storia di un femminicidio social', da oggi in libreria. Il libro, scritto a sei mani con la mamma di Tiziana, Maria Teresa Giglio, parte proprio da quei 27mila messaggi contenuti nel dispositivo e ritrovati dopo 12 mesi dal tragico suicidio di Tiziana nella villetta di Mugnano, tragico epilogo di mesi di gogna virtuale. Una morte, quella della ragazza dei ‘video hot‘, di cui, secondo la tesi del libro, portano il peso migliaia di persone. Quelli che non ha rimosso i contenuti, quelli che hanno continuato a diffonderli anche quando ne era stata chiarita la natura privata, quelli che hanno fatto di Tiziana un brand per merchandising, un tema di barzellette e sfottò, mettendo a segno quello che viene definito "un femminicidio virtuale". Una verità altra da quella conosciuta, e contenuta in questi 27mila messaggi, è il tema del libro, ma anche il ricordo del tracciato di vita personale di Tiziana raccontato da sua madre, Maria Teresa Giglio, che dopo la tragedia ha raccolto la battaglia che doveva essere di Tiziana: difendere il diritto alla privacy delle persone. In questi giorni è iniziato anche il processo a carico di Sergio Di Palo, l'ex fidanzato di Tiziana oggi imputato dei reati di calunnia, falso e accesso abusivo a dati informatici. Proprio lui era al fianco di Tiziana quando sono stati diffusi i video privati, salvo poi uscire di scena una volta finita la loro storia. Per il caso Cantone si indaga inizialmente per l'ipotesi di reato di istigazione al suicidio a carico di ignoti, fascicolo che è stato alla fine archiviato per mancanza di elementi.
La fiera delle vanità. In tema di visibilità sui fatti più noti di cronaca, poi, non poteva mancare lei.
Processo Tiziana Cantone, Roberta Bruzzone ora consulente del caso. Roberta Bruzzone consulente del caso Tiziana Cantone. La nota criminologa si è unita al team dei difensori di Maria Teresa Giglio, la mamma della ragazza morta suicida nel 2016 e parte civile al processo a carico di Sergio di Palo, ex della ragazza. Alla vigilia della seconda udienza del processo, che si terrà domani al Tribunale di Napoli, una petizione cerca di fermare la diffusione, sul sito Pornhub, dei video che hanno portato Tiziana al suicidio, scrive Angela Marino il 21 febbraio 2019 su napoli.fanpage.it. Seconda udienza del processo Tiziana Cantone. Domani, 12 febbraio 2019, al tribunale di Napoli verranno ascoltati quattro testimoni del drammatico caso della ragazza suicida per dei video privati. Al banco dei testimoni nella prima vera udienza dopo quella di apertura, ci saranno Giuseppe Giglio, lo zio della ragazza e la sua compagna, Maria Ieluzzo, colei che nel 2016 rinvenne il corpo senza vita di Tiziana nella cantinetta della villa di famiglia a Mugnano. Al banco degli imputati, invece, siederà l'allora fidanzato della ragazza, l'imprenditore afragolese Sergio di Palo, che sarà chiamato a rispondere dei reati di accesso abusivo al sistema informatico, simulazione di reato e calunnia, quest'ultima, in concorso con Tiziana. La vera novità del caso, tuttavia è la collaborazione di Roberta Bruzzone. La nota criminologa è stata nominata consulente da Maria Teresa Giglio, la madre di Tiziana Cantone, parte civile per alcuni reati al processo a carico del Di Palo. New entry anche l'avvocato Serena Gasperini, alla quale ha passato il testimone il precedente avvocato, Salvatore Frattallone. E mentre in rete ancora resistono, irriducibili, i video privati che hanno spinto Tiziana a togliersi la vita, sua madre Teresa ha avviato una raccolta fondi per fermare la divulgazione di quelle immagini che hanno segnato il destino di Tiziana. La petizione, presente online su Change Org, riguarda la diffusione dei video sul sito "Pornhub". "Non è stata lei a diffonderli, Tiziana non lo avrebbe mai voluto – dice mamma Teresa – aiutatemi a sensibilizzare l'opinione pubblica affinché nessun'altra giovane donna debba subire quello che ha subito mia figlia". Tiziana si è impiccata nella casa di famiglia dopo 17 mesi di gogna virtuale. Dopo la diffusione di alcuni video privati che la ritraevano in compagnia maschile, la ragazza era finita nel calderone della cronaca quando i giornali avevano pubblicato il suo nome, associato alla falsa notizia di un'operazione pubblicitaria per il suo lancio come pornostar. L'esposizione mediatica, unita alle offese e allo scherno seguiti, hanno sprofondato Tiziana nella condizione di depressione che l'ha portata al suicidio.
Tiziana Cantone/ Video hard, nessun colpevole per il suicidio: "non è stata istigata ad uccidersi". Tiziana Cantone, ultime notizie: il Gip di Napoli ha deciso di disporre l'archiviazione dell'inchiesta per istigazione al suicidio nell'ambito della morte della 31enne di Mugnano, scrive il 14 dicembre 2017 Emanuela Longo su "Il Sussidiario". Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli ha disposto oggi l'archiviazione dell'inchiesta per istigazione al suicidio relativa alla morte di Tiziana Cantone, la giovane 31enne di Mugnano di Napoli suicidatasi il 13 settembre di un anno fa. Tiziana decise di togliersi la vita in modo drammatico dopo non essere riuscita a sopportare l'umiliazione che per troppo tempo l'aveva travolta in seguito alla diffusione online di alcuni video hard che la immortalavano in suoi momenti di intimità. L'inchiesta avrebbe dovuto accertare se realmente ci fosse stato qualcuno ad istigare la 31enne a togliersi la vita ma nonostante le indagini in corso sul delicatissimo caso, nessuna persona era stata iscritta nel registro degli indagati. Da qui, la decisione del Gip di procedere all'archiviazione dell'inchiesta. La richiesta di archiviazione, come riporta Il Giorno, era stata avanzata dalla Procura in seguito ai risultati degli accertamenti eseguiti nei file audio risalenti alle ore precedenti alla morte di Tiziana. Dal loro contenuto si credeva (e sperava) di poter risalire alla verità sul gesto della giovane donna, ma invece non emerse nulla di utile ai fini delle indagini. Come riporta la trasmissione Chi l'ha visto in un suo servizio odierno, con la decisione del giudice di Napoli restano fuori dall'inchiesta i cinque ragazzi che la stessa Tiziana Cantone aveva indicato come i responsabili della diffusione di quei video su internet, dopo essere stati inizialmente ricevuti via Whatsapp. Proprio quei filmati avevano contribuito a trasformare la 31enne napoletana in una sorta di "celebrità" sul web, eppure per la stessa Tiziana erano apparsi così tanto infamanti da averla spinta a togliersi la vita. I cinque ragazzi indicati dalla stessa Tiziana come colpevoli - insieme ad una sesta persona - non sono più indagati per diffamazione. Per il giudice, dunque, non sono stati loro a mandare in rete quei video hot della ragazza. Si chiude così la vicenda giudiziaria iniziata proprio con la denuncia che Tiziana presentò nel maggio 2015, quando al magistrato avanzò cinque nomi (due dei quali sono fratelli). Secondo il giudice però, la Cantone aveva torto e la diffusione di quei video online non sarebbe da addebitare a loro. Se non sono stati i cinque soggetti indicati dalla ragazza morta suicida, allora che ha messo online i filmati che avrebbero poi rappresentato la condanna a morte di Tiziana?
Non c'è nessuno dietro il suicidio di Tiziana Cantone (sostengono i giudici). Ma noi non vogliamo dimenticarla, scrive Fulvio Bufi il 14 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Tiziana Cantone maturò senza alcuna pressione la decisione di uccidersi dopo la diffusione in Rete di alcuni video in cui si era lasciata riprendere durante scene di sesso, e dopo aver sostanzialmente perso la battaglia legale per essere risarcita dai social network, dove fu esposta a una vera gogna mediatica, e dai motori di ricerca che indicizzarono le pagine web con i suoi video. Questo ha stabilito il gip del Tribunale di Napoli Nord disponendo l’archiviazione dell’inchiesta per induzione al suicidio aperta dal procuratore Francesco Greco all’indomani del 13 settembre 2016, quando la trentunenne napoletana fu trovata impiccata nella tavernetta della casa in cui abitava a Mugnano con la madre e altri parenti. È l’epilogo giudiziario che ci si aspettava: l’inchiesta era rimasta sempre contro ignoti, e la stessa Procura ne aveva chiesto l’archiviazione. Come del resto è stato per l’altro procedimento aperto a Napoli sulla base della denuncia che Tiziana Cantone fece quando scoprì che i suoi video erano finiti online. Fornì ai magistrati i nomi di cinque uomini – conosciuti attraverso i social - ai quali lei stessa aveva inviato i file contenenti le immagini, indicandoli come i possibili responsabili della diffusione in Rete di scene che sarebbero dovute invece rimanere private. Sono stati tutti prosciolti e se Tiziana Cantone fosse viva, oggi sarebbe indagata per calunnia nei confronti dei suoi cinque amici virtuali, come è indagato il suo fidanzato, che l’accompagnò a fare la denuncia e secondo i pm le suggerì di fare quei nomi. Se di tutta questa vicenda contassero solo i risvolti giudiziari, la storia sarebbe finita qui. Nessun responsabile per la diffusione dei video e nessuno anche per la tragica scelta finale di Tiziana. Del resto l’induzione al suicidio è un reato complicatissimo da portare in giudizio, e tracciare i percorsi di ciò che finisce in Rete è ancora più complicato, in un caso come questo forse tecnicamente impossibile. Ma quella di Tiziana Cantone, in realtà, non è una storia di cronaca giudiziaria, come non lo è quella di Michela Deriu, la ventiduenne di Porto Torres che si è suicidata il mese scorso, anche lei dopo la diffusione di alcuni video che invece dovevano rimanere privati. In quest’ultimo caso ci sono degli indagati, sono emersi ricatti, una rapina: tutti elementi che potrebbero portare l’inchiesta verso un esito diverso rispetto a quella di Napoli. Ma il punto resta comunque un altro, perché c’è una cosa che non è perseguibile per legge: l’assenza di rispetto. Che si sia trattato di incoscienza, superficialità, esibizionismo, voglia di trasgressione, qualunque sia stato il motivo che ha spinto quelle ragazze a lasciarsi riprendere, l’unico prezzo che avrebbero dovuto pagare, peraltro consapevolmente, era l’esposizione della propria intimità. Loro invece hanno pagato con ciò che non ha prezzo. E se la verità processuale stabilisce che non ci sia stato qualcuno a indurre Tiziana Cantone a uccidersi, la realtà è che la ragazza si è ammazzata perché non è riuscita a reggere il peso della sua vita per come era cambiata dopo quei video. E quei video appena tre mesi fa erano ancora online sui siti porno, e probabilmente lo sono ancora.
Vengono i brividi a pensare che qualcuno possa eccitarsi guardando le immagini di una ragazza che oggi non c’è più, ma evidentemente accade. E l’unico modo per impedirlo è rimuovere quei video dal web. Sarebbe quell’atto di rispetto di cui Tiziana Cantone ha diritto. Almeno di quello.
Tiziana Cantone. Borrelli contro Maria Teresa Giglio: “Capiamo il gesto ma non deve commettere errori spinta dalla rabbia”, scrive il 9 agosto 2018-08-09 Francesca Perrone su velvetgossip.it. La Signora Maria Teresa Giglio, madre della giovane Tiziana Cantone, morta suicida nel 2016, è stata accusata di aver aperto una pagina Facebook per mettere alla gogna, l’ex fidanzato della figlia, Sergio di Palo. Il legale di Di Palo, ha chiesto la rimozione della pagina, sul caso è intervenuto anche Francesco Emilio Borelli, che ha invitato la Signora Giglio a non passare dalla parte del torto. Ma la madre della Cantone, replica alle accuse, con un lungo sfogo sul suo profilo Facebook. La Signora Maria Teresa Giglio, madre della giovane trentunenne, Tiziana Cantone, morta suicida nel 2016. E’ stata accusata di aver aperto una pagina Facebook, lo scorso 25 luglio, per mettere alla gogna l’ex fidanzato dalla figlia: Sergio Di Palo. La giovane si era tolta la vita, in seguito alla diffusione di immagini hot che la riguardavano; pare non abbia sopportato la vergogna e per questo ha deciso di compiere il tragico gesto. Ma la madre non ritiene che sia stata fatta chiarezza sul caso e, come ha dichiarato in una recente intervista esclusiva a VelvetMag, chiede giustizia e racconta la verità, secondo il suo punto di vista. Il 25 luglio scorso, la donna ha pubblicato un post sulla pagina Facebook Tiziana Cantone per le altre, nel quale in un messaggio con foto annesse dichiarava “Questo è Sergio Di Palo, prenditi la tua visibilità, volevi restare nell’ombra, gestivi Tiziana in modo che dovesse comparire solo lei. C’era un disegno criminale ai soli danni di mia figlia e non un gioco di coppia”. Il post ha generato un flusso di accuse nei confronti di Di Palo, alcune anche molto violente. Questo evento ha portato alla reazione del legale dell’ex fidanzato di Tiziana Cantone, l’avvocato Bruno La Rosa che, oltre ad aver inoltrato a Facebook la richiesta di rimozione della pagina Tiziana Cantone per le altre, sta valutando se denunciare la signora Maria Teresa Giglio per diffamazione. Nel frattempo, sull’accaduto è intervenuto anche il consigliere regionale dei Verdi, Francesco Emilio Borelli, il quale avrebbe invitato la signora Giglio a non farsi giustizia da sola e soprattutto a non assumere atteggiamenti diffamatori. Il componete delle Commissioni politiche sociali, afferma: ” il compagno di Tiziana Cantone, ha diritto ad un processo e ci auguriamo che sia il più veloce possibile”, ma nell’attesa rivolge un avvertimento alla signora Maria Teresa Giglio, “Capiamo e condividiamo il dolore della madre di Tiziana cantone alla quale abbiamo più volte mostrato il nostro sostegno, ma l’invitiamo a non commettere errori, spinta dalla rabbia per la morte della figlia che potrebbero portarla nelle aule di Tribunale come accusata e non come parte offesa qual è”. Ma la signora Maria Teresa Giglio, replica alle accuse con un lungo post sul suo profilo personale di Facebook, nel quale racconta la sua versione dei fatti. Ecco il testo integrale dello sfogo della madre di Tiziana Cantone: “Sig. Borrelli, ho letto la sua omelia, e voglio sventrare una grande ipocrisia, da premettere che non ho mai ricevuto alcun sostegno nè da lei né dalla sig.ra Marciani, che ho sempre cercato di contattare senza alcun esito, lei conosce bene come sono andate le cose, penso che non sia il caso che stia qui a spiegargliele. Sarebbe imbarazzante per lei. Vede…Politica non è un mestiere, è un servizio. Ma nel senso di servire, non di servirsi di….per farsi pubblicità… Invece di preoccuparsi di fare sempre “il prezzemolo in ogni minestra” si informi bene prima di dare i suoi inutili consigli. Io non ho commesso alcun reato nè tantomeno per rabbia avrei aperto una pagina “in onore” del SERGIO DI PALO solo per fargli provare, in minima parte, cosa significhi la vera lapidazione virtuale. Troppo onore per un soggetto simile, la famosa pagina è stata aperta un’anno fa per l’Associazione Tiziana Cantone per le altre! Il pubblico ludibrio l’ha subito Tiziana non lui e trovo che non c’è nulla di male a mostrare anche la sua faccia! Lei con le sue dichiarazioni dimostra di voler tutelare i diritti del maschio, carnefice per giunta, e non della donna, vittima! Sembra l’ennesima dimostrazione che la società è di sesso maschile! Lei fa politica e questa attenzione solo verso il DI PALO la reputo inopportuna e fuori luogo,forse li conosce…. perché non ha preso una posizione concreta, però, anche per Tiziana? Una mamma quando perde un figlio non teme più nulla, se lo ricordi, figuriamoci una denuncia…e da chi poi e per cosa? Il diritto alla privacy e a tutto il resto, ce l’aveva anche Tiziana!!! E nessuno ha mosso un dito! NESSUNO L’HA TUTELATA E AIUTATA! Vi fate vedere solo a funerali! Dovreste imparare a vergognarvi!”
La vergogna di Tiziana: «Ero fragile e depressa, i video sono 6». La denuncia della 31enne a maggio 2015: «Era un gioco». È lei stessa a fare i nomi delle quattro persone a cui aveva inviato i filmati hard: ora sono indagate per diffamazione. Il ruolo dell’ex fidanzato, scrivono Fulvio Bufi e Fiorenza Sarzanini su "Il Corriere della Sera" il 16 settembre 2016. Tiziana Cantone è morta per una cosa che era cominciata come un gioco. Era un gioco fare sesso cambiando partner, era un gioco lasciarsi riprendere, era un gioco inviare poi i video ad altri uomini. Lei ha giocato senza rendersi conto di quanto fosse pericoloso. Non ha capito che mandare in giro quelle immagini significava mettere la sua intimità nelle mani di gente che avrebbe potuto farne qualsiasi cosa. Se ne è resa conto quando ha scoperto di essere finita sui siti porno. E ha provato, inutilmente, a fermare quel mondo incontrollabile che è il web. Quello che Tiziana oggi non può più raccontare — le sue libere scelte sessuali, la condivisione dei video e ritrovarseli online, e poi la vergogna e gli insulti e le battutacce, e la solitudine, la depressione, le lacrime, la voglia di farla finita — lo raccontano le carte giudiziarie dei procedimenti nati dalle sue denunce e dai suoi tentativi di far sparire dalla Rete quei filmati. È il maggio del 2015, quando Tiziana si presenta in Procura per fare una denuncia. Racconta di aver girato quei video e di averli poi inviati a persone con le quali, spiega al magistrato, aveva intrecciato «relazioni virtuali» sui social network. Era un periodo di «fragilità e depressione», fa mettere a verbale, e ancora peggio sta ora che ha scoperto che quei video sono su molti siti porno. Fa i nomi dei quattro a cui ha inviato le immagini, e tutti vengono indagati per diffamazione: sono due fratelli emiliani, Antonio ed Enrico Iacuzio, un brindisino che si chiama Christian Rollo, un altro che si chiama Antonio Villano. Di uno viene indicato anche il nickname che usa su Facebook: Luca Luke. La donna non parla di altri, nessun riferimento a Sergio Di Palo, che era il suo fidanzato quando ha girato i video. Sono giorni in cui Tiziana fa di continuo scoperte che la avviliscono. Le racconta, una dietro l’altra, nella memoria che il 13 luglio 2015 presenta al giudice civile di Aversa per chiedere la rimozione dei video da siti e motori di ricerca. Anche qui premette di essersi fatta riprendere «volontariamente e in piena coscienza», e specifica che le registrazioni sono sei. Conferma anche i nomi contenuti nella denuncia di maggio come destinatari delle sue condivisioni. E racconta quello che le succede a partire dal 25 aprile, quindi pochissimo tempo dopo aver girato i video. Quel giorno la chiama un amico e le dice di averla vista in un filmato su un sito porno. Lei riconosce le immagini e ricorda pure a chi dei quattro amici virtuali le aveva mandate. Due giorni più tardi una nuova scoperta su altri due siti porno, e dopo meno di una settimana un’altra ancora. Tiziana comincia a passare il suo tempo a fare ricerche mirate. Scopre un forum per adulti in cui si parla di lei come della protagonista di video pubblicati da un sito di scambisti, e alcuni gruppi su Facebook dedicati a lei, ma soprattutto numerosi profili fasulli con il suo nome e le sue foto tratte dai frame di quei filmati, seppure parzialmente coperte per non incorrere nella censura del social network. Poi le arriva la telefonata di un altro amico che le racconta di aver ricevuto su WhatsApp una sua foto, sempre di quelle tratte dai video. Che ormai stanno girando all’impazzata. Tiziana torna in Procura, fa una integrazione alla denuncia di maggio e i pm aggiungono il reato di violazione della privacy, ma stavolta non iscrivono nessuno nel registro degli indagati. Intanto lei smette di uscire da casa perché le è capitato di essere «riconosciuta e derisa», scrive nella denuncia. Non va più al supermercato, né in palestra, al cinema o al ristorante. Gli amici spariscono, nessuno la chiama più, nessuno la invita a uscire. Lei comincia a stare male, ha attacchi di panico, piange, pensa al suicidio. Ci prova anche ma la fermano in tempo. L’unico che le è accanto e che la sostiene anche nelle spese per l’avvocato è l’ex fidanzato. Se per affetto o per altro non è chiaro. E anche questo, così come un suo eventuale ruolo in tutta la vicenda dei video, cercheranno di capire i pm della Procura di Napoli Nord che martedì hanno aperto un’inchiesta per induzione al suicidio. Per adesso senza nessun indagato.
Tiziana Cantone ai pm: “Totale devastazione, mi avvicina a istinti suicidi”. "Questa gogna mediatica alla quale, ora per ora, sono sottoposta mi sta avvicinando al suicidio". Queste le parole della 31enne napoletana, trovata senza vita il 13 settembre, ai pubblici ministeri, scrive il Fatto Quotidiano il 17 Settembre 2016. Tiziana Cantone aveva denunciato che i video di cui era protagonista, pubblicati in Rete senza il suo consenso, le stavano rovinando la vita. Ma aveva anche detto ai pubblici ministeri, da cui si era presentata tre volte che pensava a togliersi la vita: “Questagogna mediatica alla quale, ora per ora, sono sottoposta mi sta avvicinando al suicidio”. Le parole della 31enne napoletana, trovata senza vita il 13 settembre, sono state riportate da Repubblica che ha ricostruito la via crucis della donna per tentare di far sparire le immagini che ormai comparivano in siti porno a pagamento. Dalla diffusione di quei video la sua vita era diventata un inferno come ha ammesso l’ex fidanzato: “La riconoscevano in tutta Italia”. All’uomo, che non è indagato, sono stati sequestrati telefono e pc per capire se l’uomo possa aver avuto un ruolo nella diffusione delle immagini, che stando alle cronaca di questi giorni le chiedeva di farsi filmare. “Quello che sta accadendo assume i connotati di una totale devastazione nei confronti della mia persona, che già di per sé ha profili di psicolabilità” aveva fatto mettere nero su bianco Tiziana. Che in un primo momento aveva denunciato di aver smarrito il telefono. Certo è che la donna si era resa perfettamente conto di essere stata ingenua a inviare le immagini a quattro uomini con cui aveva instaurato “un gioco virtuale a sfondo sessuale”. “È vero che sono stata una sprovveduta a fare giochetti stupidi con persone a me sconosciute, ma è anche vero che quanto sta adesso accadendo mi avvicina in maniera veloce a istinti di suicidio. Questa gogna provoca danni incalcolabili in me, pregiudica in maniera assoluta e irreparabile il mio futuro di ragazza di 30 anni”. Precisa di avere girato e diffuso quei sei filmati “volontariamente e in piena coscienza” ma specifica di non avere mai dato il consenso per la loro diffusione. “Voglio giustizia – dice in Procura a ottobre – chiedo il sequestro di quei siti che mi stanno rovinando la vita”. Ma per i pm il sequestro è inutile perché ormai i video sono stati scaricati e diffusi da centinaia di utenti. Arrestarne la circolazione, in sostanza, è impossibile. I pm ipotizzano il reato di violazione della privacy, ma nessuno risulta indagato. Aumentano angoscia e vergogna, arrivano i tentativi di suicidio. Anche perché anche il giudice civile che pur ordinando la rimozione delle immagini la condanna a rimborsare alcuni colossi del web.
Tiziana Cantone, la morte della pietà e la cretinosfera, scrive Andrea Scanzi su Il fatto Quotidiano il 14 Settembre 2016. Stamattina ho letto questa definizione dei social network: “Sono una cretinosfera, un ospedale psichiatrico a cielo aperto”. Tenendo conto di quel che leggo in queste ore su Tiziana Cantone, temo che sia una definizione sin troppo benevola. Qua non siamo più al concetto di webete: qua non è più il solito mix di ignoranza & frustrazione, bagagli come noto di anonimi segaioli e mortidifiga. Qua siamo alla mancanza totale di morale, di decenza: di umanità. Sarà che io, a meno che la cosa non riguardi Hitler, di fronte a chi si toglie la vita provo solo pietà e smarrimento. Sarà che forse ho ascoltato troppo Preghiera in gennaio e magari è un limite mio, ma la rumenta che sta circolando – non solo – su Facebook e Twitter è quanto di più abominevole si possa immaginare. Difficile ipotizzare un’umanità più belluina e deficiente come questa. Leggo, nel 2016, gente che arriva perfino a porsi domande sulla liceità di un orgasmo: non oso pensare alla mesta vita che fanno le loro compagne e compagni, sempre ammesso beninteso che una compagna ce l’abbiano. Mi imbatto in dotte riflessioni secondo cui Tiziana Cantone se l’è cercata, perché “chi si fa filmare mentre fa sesso è per forza una poco di buono”, e penso che neanche ai tempi dell’Inquisizione capitava di imbattersi in punti di vista così bigotti e abietti, formulati peraltro da uomini – e donne – che nella loro vita hanno fatto ben di peggio. Ma è soprattutto questa voglia perversa di dare un giudizio su tutto – questo eterno “espertismo” che tocca persino la morte di un ragazza – che mi terrorizza. E che mi fa paura. Chi fa battute, che la butta sul ridere, chi indossa la maglietta con la frase che Tiziana ha reso suo malgrado celebre. Viviamo nell’era del perenne cicaleccio morboso, e per colpa dei social network ci tocca pure leggerlo. Non è più il solito disastrato mentale che sproloquia nel bar di provincia: oggi a quel disastrato mentale han detto che esiste il wifi, e da allora è stata una slavina, perché quel disastrato mentale si è convinto che il suo punto di vista sia importante. Che interessi addirittura a qualcuno. E allora scrive, scrive, scrive. Condivide video, asseconda la grande onda del virale e sostituisce al reale il virtuale. E sparge veleno. A getto continuo. E’ un effetto pavloviano: muore una persona, uccisa spesso da quello stesso veleno e colpevole di niente a meno che godimento e goliardata siano da ritenere “colpe”, ma non fai in tempo a commuoverti che subito parte la legge del branco. Scatta la gara a chi fa più lo stronzo, il cinico, il “fenomeno”. Un’escalation continua e purulenta. Pietà e perdono non sono contemplati. Senz’altro i social sono sempre più cretinosfere e ospedali psichiatrici a cielo aperto, ma temo non facciano altro che amplificare la natura umana. Che è, sempre più spesso, una natura di merda.
PERCHÉ, IN FONDO, TIZIANA SE L’È CERCATA, scrive il 15 Settembre 2016 Sofia Righetti. L’altra sera ero al Dynamo, a Bologna, a intervistare Michela Zanardini, intervista che si è subito trasformata in una fantastica chiacchierata tra amiche. Abbiamo riso, bevuto, e riso ancora tanto. Michela è bionda, con i capelli corti alla Charlize Theron, occhi chiari da gatta ed è un’attrice porno. Come dicevo, ci siamo trovate subito in sintonia, abbiamo riso e ci siamo raccontate aneddoti divertenti, altri imbarazzanti ridendo fino alle lacrime, a telecamere spente, tanto più che pure la nostra troupe sghignazzava alle nostre battute non riuscendo a farci stare composte. Abbiamo chiamato Michela per raccontarci dei tabù riguardo il sesso che esistono ancora nel nostro paese, perché si fa così fatica a parlare di sesso in Italia, perché il sesso, invece che come la cosa più normale e naturale esistente al mondo, è ancora percepito come qualcosa di scabroso, vietato, da tenere nascosto. A entrambe pareva una cosa assurda, senza senso che nel 2016 ci fosse ancora così tanto bigottismo, così tanto pudore e così poca informazione nei confronti di un’atto che tutti gli esseri viventi compiono fin dall’inizio dalla comparsa della vita, che tutti cercano, e che fa star bene, fisiologicamente e biologicamente. Umani e non umani, tutti. Quella sera, mentre io e Michela scherzavamo insieme sul sesso e al contempo ne parlavamo in modo molto serio, una ragazza si è suicidata. Una ragazza, Tiziana, che due anni fa ha fatto (e le hanno fatto) un video col cellulare dove faceva una fellatio a un altro ragazzo, il suo amante a quanto pare, e subito si è diffuso in rete a macchia d’olio, su internet, su whatsapp, su qualsiasi canale social. Il video di questa ragazza ha fatto il giro d’Italia, con il suo nome e cognome, provocando una reazione morbosa che ha aizzato in poco tempo una pioggia devastante di insulti a Tiziana, insulti denigratori che la definivano “troia, puttana, schifosa, devi morire e così tutte quelle come te”. La gogna mediatica si è diffusa sempre di più, il suo viso e le parole che diceva, sono state fatte oggetto non solo di gruppi su Facebook in cui Tiziana veniva umiliata e insultata a livelli estremi, ma ne sono state fatte parodie, canzoni, addirittura magliette. Tiziana ha perso il lavoro, ha cercato di andare via dal suo paese, ha provato a sporgere denuncia e a cambiare identità, ma non ha retto al linciaggio e alla vergogna di cui è stata vittima per aver fatto del sesso orale a un ragazzo, e si è suicidata. Si è suicidata la sera stessa in cui io con Michela parlavamo di come fosse ancora così radicato il tabù del sesso in Italia. Ora, a me non me ne frega niente se Tiziana stesse tradendo il fidanzato, se fosse poi stata lei a passare il video in via privata a tre suoi amici per farlo ingelosire. C’è pieno di coppie che si filmano durante momenti hard, come è pieno di coppie che si tradiscono, di ragazze che tradiscono i ragazzi e di ragazzi che tradiscono le loro fidanzate scopando in discoteca o in qualsiasi altro posto con altre in modi molto più squallidi e vigliacchi. Non è questo il punto. Il fatto è che quel video su internet non doveva finirci, e se qualche coglione l’ha messo in rete non doveva avere una diffusione così ampia. Il fatto è che nessuno doveva ridere morbosamente vedendo una ragazza con nome e cognome fare un pompino, come se non ne avessero mai visto uno, come se non fosse la cosa più naturale del mondo. Nessuno doveva passarlo ad altri e farci le parodie. Il fatto è che Tiziana è stata vittima di stalkeraggio pesante in cui centinaia di utenti la minacciavano di morte, è stata coperta di insulti da tutta Italia perché stava facendo del semplice sesso orale a un ragazzo. Mi chiedo, e purtroppo conosco già la risposta, se fosse stato un ragazzo a fare del sesso orale alla sua amante, dando della cornuta alla sua fidanzata, sarebbe successa la stessa cosa, la stessa gogna mediatica, avrebbero diffuso il video su internet o i suoi amici si sarebbero limitati a dargli una pacca sulle spalle e congratularsi con lui? Purtroppo questo episodio schifoso e dalla conclusione orribilmente tragica ha messo in luce come il maschilismo, e qui lo dico e lo ripeto, MASCHILISMO, è ancora vivo e vegeto in una società in cui una donna che vive liberamente la propria sessualità è etichettata come troia, puttana, schifosa, messa sul patibolo da una schiera infinita di ipocriti che si divertono a sbeffeggiare una ragazza che fa una fellatio. E con maschilismo intendo che può essere messo in atto da maschi e femmine, in quanto a dispetto di qualsiasi solidarietà femminile ci sono state centinaia di donne che le hanno dato della puttana. Al pari dei giudizi isterici e rabbiosi dei maschi. Come se le vostre madri non facessero sesso orale, come se non lo facessero le vostre sorelle, le vostre fidanzate o le vostre figlie. La morbosità che ha assunto questa vicenda è agghiacciante, e denota per l’ennesima volta come ancora non si riesca a sconfiggere quel sessismo maschilista imperante che denigra la ragazza e la sua sessualità; mentre l’uomo che lo fa, e lo fa liberamente con il suo corpo e il suo essere, è considerato un figo. La chiave che funziona bene se apre tutte le serrature e la serratura che è scadente e da buttare se “si fa aprire” da tutte le chiavi, avete presente no? Tiziana è stata vittima di una violenza e di un linciaggio maschilista, esercitato sia da donne che da uomini, che non si è fermata neppure dopo la sua morte, che ha continuato con frasi come “ in fondo se l’è cercata” “poteva fare a meno di farsi filmare” “ che troia che ha tradito il suo ragazzo” “le sta bene” “ in gran parte è stata colpa sua” “ è la fine che si è scelta”. Si è cercata cosa, di doversi vergognare di fronte all’Italia intera per aver fatto un pompino? Per aver tradito il suo ragazzo, cosa che, purtroppo, la stragrande parte delle persone fa, solo che lei ha avuto la sfiga di essere stata messa sul web da qualche suo conoscente? Peccato che non ho mai sentito nessun uomo etero fare la stessa fine ed essere svergognato pubblicamente per aver fatto sesso con una donna, nemmeno se la stesse tradendo. Peccato che tutti gli ultimi episodi di cyber-bullismo a tema sessuale abbiano avuto come protagoniste ragazze, tra le quali la ragazzina calabrese violentata ripetutamente cui il paese ha girato le spalle e la sedicenne filmata dalle sue amiche mentre veniva violentata in una discoteca. Tanto siamo sempre lì, se sei femmina te la sei cercata, in fondo è colpa tua che ti permetti di bere a una festa e poi vieni violentata, è tua che ti permetti di mettere quella gonna un po’ corta, è tua che ti permetti di fare un pompino in una discoteca a un ragazzo che ti piace e che hai incontrato la sera stessa semplicemente perché ne hai voglia. E il povero maschio di turno è costretto a subire, ovviamente. Tiziana è morta vittima di un bigottismo ipocrita e malato le cui vittime sono le donne, e che ancora adesso striscia forte e imperante, e si alimenta ancora di più quando qualcuno fa notare che sì, il maschilismo esiste ancora, e diventa palese in casi come questo, ma viene ottusamente negato da uomini che hanno una fottuta paura anche solo ad ammetterne l’esistenza. “Bitch is Right”, cantava un gruppo riot italiano, ora come non mai c’è la necessita di rivendicare il diritto al sesso, a vivere liberamente il sesso, il proprio corpo e la propria sessualità, senza distinzione di genere, spazzando via le risatine e gli indici puntati contro la puttana, la strega, la femmina da mandare al rogo. E di ridere rilassate, e di poterne parlare e viverlo apertamente e senza tabù, come abbiamo fatto io e Michela l’altra sera. Femmine e maschi, senza alcuna distinzione. Se da qualche parte mi puoi sentire, Tiziana, sappi che oltre a essere mortificata ho anche tanta, tanta, rabbia per quello che è successo. E tanta pena e schifo per tutti quelli che hanno contribuito a farti vergognare di una cosa di cui non c’è nulla da vergognarsi, e che fanno tutti. Che la terra ti sia lieve, ragazza.
Verità, bugie e video: chi era e cosa ha fatto davvero Tiziana Cantone. E poi, giù il sipario. Su Tiziana Cantone si sono spesi fiumi di inchiostro e dette migliaia di bugie nelle ultime ore. Facciamo chiarezza. E poi, per favore, giù il sipario. Ma senza dimenticare, scrive Francesco Guarino il 15/09/2016 su wakeupnews.eu. Una morte figlia dei nostri tempi. Una morte che ha occupato le prime pagine di tutte le testate, scalzando politica, scienza e sport e dividendo l’Italia in due. Partendo da una frase, pronunciata in un video hard divenuto virale nel giro di pochi giorni ad aprile 2015, che è stato l’inizio della fine di Tiziana Cantone, 31enne napoletana. “Stai facendo un video? Bravo!”: poche parole che Tiziana si lascia scappare nella concitazione, impegnata in un rapporto orale con un uomo e perfettamente riconoscibile in un video hard che doveva rimanere privato. Ma privato non è rimasto. Innescando una reazione a catena incredibile, in cui il web e il giornalismo hanno sì le loro colpe, ma con adeguati distinguo. Il dramma della morte di una ragazza, giovane e bella, divenuta suo malgrado uno dei volti più conosciuti del web, merita che ora le luci su di esso si spengano. E che la parola passi definitivamente ai tribunali, per accertare le possibili responsabilità della sua discesa negli inferi. Ma che Tiziana Cantone finisca nell’aldilà accompagnata da una marea di bugie, figlie del tam tam della rete e dell’incapacità dell’utenza di verificare correttamente una fonte, è indegno e ingiusto. Wakeupnews ha scritto due articoli sulla vicenda di Tiziana Cantone a suo tempo: uno quando il video iniziò a far notizia, un altro per palesare alcune anomalie nelle successive apparizioni a catena di nuovi video con Tiziana Cantone protagonista. In entrambi i casi è stata deontologicamente rispettata la privacy della diretta interessata, non mostrandola mai in volto anche quando le foto sono state prese da altri portali (che invece le avevano mostrate a volto scoperto).
CRONISTORIA WEB E LEGALE DI TIZIANA CANTONE.
Fine Aprile 2015: un video in cui una ragazza bella ed appariscente pratica sesso orale al partner, inizia ad apparire su diversi siti hard. Si vociferava da giorni nel napoletano di un video che stava passando di telefono in telefono tramite WhatsApp: quando il video arriva sui portali hard più noti, in alcuni casi reca nella descrizione la definizione generica di “coppia napoletana”, ma in quasi tutti i tag appare il nome di Tiziana Cantone. Quando il video viene scaricato da altri utenti (procedura basilare che può essere effettuata da chiunque con appositi programmi) e ricaricato su altri siti web, o sullo stesso sito del primo upload, il nome di Tiziana inizia ad apparire anche nella descrizione del video. Rendendola immediatamente riconoscibile. A rendere virale il video hard, oltre alla perfetta identificazione della ragazza e alla sua bellezza appariscente, c’è il fatto che Tiziana insulti il suo compagno, facendo capire che lo sta tradendo. Sul finire del video si aggiunge una componente comica, quando un abitante della zona – i due si sono appartati accanto alla macchina all’aperto – si accorge della loro presenza e li rimprovera. Il video gira senza tagli e diventa un piccolo cult, come forse in Italia era successo solo più di un decennio fa con “Forza Chiara”, video circolato anch’esso clandestinamente che ritraeva una coppia impegnata in un rapporto sessuale. Con l’aggravante che la lei fosse minorenne.
Inizio maggio 2015: il video e gli screen di Tiziana diventano oggetto di meme, sfottò ed entrano in pochi giorni a far parte dell’immaginario comune della rete. La bellezza della ragazza e il fatto che il video hard abbia forti componenti tragicomiche (l’apparente tradimento di un fidanzato e il momento in cui la coppia viene scoperta da un abitante della zona, il tutto immortalato in video senza tagli) rendono il filmato ancora più famoso e visualizzato.
Prima settimana maggio 2015: iniziano ad apparire nuovi video di Tiziana Cantone. In tutti i filmati Tiziana è sempre l’unica riconoscibile, ma stavolta la si vede impegnata in atti sessuali con più uomini. Diverse clip di pochi secondi, tra camere da letto e cucine. Trapelano foto personali dai suoi account Facebook e Instagram (chiusi nel giro di pochi giorni). Stampa e siti di gossip iniziano a parlare di Tiziana Cantone come una futura pornostar in cerca di visibilità o di un contratto. Nessuna casa di produzione confermerà mai di aver ricevuto proposte o video da Tiziana, né di averla mai contattata.
Seconda settimana maggio 2015: come segnalato a Wakeupnews (e confermato dalla foto nell’articolo), risulta un avvio di registrazione alla Camera di Commercio di un “marchio di abbigliamento donna di tendenza sexy” a nome Tiziana Cantone (N.B.: era il nome della linea di abbigliamento, non il nome della persona che l’aveva registrata). Su un portale lavorativo per agenti di commercio viene pubblicato l’annuncio per la ricerca di rappresentanti per la linea di abbigliamento. Seguendo la linea logica della pubblicazione dei video, tutto fa propendere verso un evento “commercialmente organizzato” e l’interesse giornalistico nella vicenda scema in attesa di nuovi sviluppi.
Estate 2015: di Tiziana Cantone non si hanno notizie. Prime voci iniziano a far trapelare il fatto che si sia trasferita in Toscana per allontanarsi dal clamore mediatico diffuso alla circolazione dei video, che sono uno dei tormentoni virali dell’estate. Sulla stampa nulla trapela, ma tramite il suo legale Roberta Fogli Manzillo è già partita una causa nei confronti dei siti hard che hanno pubblicato il video integrale, e ai danni dei siti e dei social che ne hanno pubblicato estratti non censurati, in cui Tiziana Cantone è riconoscibile. La legale sceglie di non parlarne con la stampa. Tra i vari siti, come riferito da Filippo Facci in un’ottima ricostruzione de il Post, ci sono Facebook Ireland, Yahoo Italia, Google, Youtube, Citynews, Appideas, Alaimo, Ambrosino. Il giudice negherà successivamente il sequestro dei siti: al netto delle visualizzazioni, il filmato era stato scaricato già oltre 200 mila volte. Ossia oltre 200 mila persone ne avevano una copia su un proprio dispositivo, senza che potesse esserne tracciato il percorso. Col passare dell’estate, il “fenomeno” Tiziana Cantone si attenua. Ma Tiziana per tutti è la “troia” e la “zoccola” che ha cornificato il suo compagno.
Dicembre 2015: Tiziana Cantone prova il suicidio ingerendo una dose massiccia di medicinali. (La madre lo riferirà agli inquirenti dopo la morte della ragazza).
5 Settembre 2016: un anno dopo arriva la sentenza ufficiale sulla causa intentata per diffamazione nei confronti dei soli siti internet. La sentenza, sempre riprendendo quanto scritto da il Post, è stata scritta il 10 agosto, ma appare ufficialmente dal 5 settembre: il tribunale di Napoli Nord dà teoricamente ragione a Tiziana Cantone e contesta a cinque social o siti informativi di non aver rimosso il contenuto al momento opportuno. Ma nei confronti di 5 dei 10 social citati, Tiziana perde la causa, sembra per un errore degli avvocati nel citare le società di appartenenza fatte oggetto della causa. Tiziana, secondo il principio di soccombenza, dovrà pagare 3.645 euro più iva per 5 dei 10 siti citati in giudizio: 18.225 euro più iva. In assenza di una legge sul revenge porn – e non avendo comunque proceduto contro un individuo, ma contro le società e i social che hanno pubblicato – è stato negato anche il diritto all’oblio dal giudice, seppur in maniera a dir poco opinabile: «Presupposto fondamentale perché l’interessato possa opporsi al trattamento dei dati personali, adducendo il diritto all’oblio», si legge sempre dal Post, «è che tali dati siano relativi a vicende risalenti nel tempo», e nel caso «non si ritiene che sia decorso quel notevole lasso di tempo che fa venir meno l’interesse della collettività». Dopo un anno, secondo il giudice, c’è ancora interesse verso dei video hard che la diretta interessata ha richiesto di far rimuovere un anno fa. Quando al web bastano poche ore per distruggere l’immagine di una persona, per la giustizia un anno non è un periodo di gogna sufficiente.
13 settembre 2016: Tiziana Cantone si toglie la vita impiccandosi nello scantinato della casa di Casalnuovo di Napoli, in cui era tornata a vivere da alcune settimane assieme alla mamma, Maria Teresa Giglio. Il padre, con cui Tiziana aveva smesso di avere rapporti da anni, non appare neanche tra i parenti che ne danno la notizia nel manifesto funebre.
15 settembre 2016: risultano indagati per diffamazione ai danni di Tiziana Cantone quattro uomini, quelli con cui la vittima ha intrattenuto rapporti sessuali in alcuni dei video circolati in rete. Tra questi non c’è il suo ex compagno.
Dopo la notizia della morte di Tiziana Cantone, i pareri in rete si sono divisi tra coloro che chiedono giustizia per una donna la cui unica colpa era avere una vita sessuale dissoluta, finita in pasto al web, e chi invece sostiene che se la sia cercata. Ancor di più tradendo il suo compagno e vantandosene nei diversi video ripresi. Con i dati giornalisticamente e legalmente in nostro possesso, facciamo chiarezza.
TIZIANA CANTONE ERA CONSAPEVOLE DI ESSERE FILMATA MENTRE FACEVA SESSO CON DIVERSI PARTNER? Sì, ne era consapevole. Lo testimonia il tipo di interazione che ha con gli uomini (soprattutto nel primo video), la presenza di telecamere e telefonini ben visibili e non nascosti, ed il fatto che si rivolga di frequente al suo compagno, dileggiandolo e dandogli del “cornuto”.
TIZIANA CANTONE HA TRADITO IL PROPRIO COMPAGNO IN QUEI VIDEO? No: con S. D. P. (queste le iniziali fatte trapelare da alcuni siti), 40enne napoletano, Tiziana Cantone ha avuto una relazione durata almeno fino a settembre 2015. Secondo quanto fatto filtrare dalla deposizione della madre di Tiziana ai carabinieri, “S. il compagno di Tiziana per un anno e mezzo [...] aveva indotto Tiziana a girare i video con cinque o sei uomini, S. provava piacere nel sapere e nel vedere che lei si prestava a quegli incontri”. Alcuni degli incontri sarebbero stati organizzati addirittura in Emilia-Romagna dallo stesso S., che ha mandato Tiziana a casa di alcuni suoi amici per farla filmare mentre faceva sesso con loro. Una confessione pesante, che difficilmente una madre si sarebbe potuta inventare ex novo. Il compagno di Tiziana aveva impostato il rapporto con lei da cuckold: un cuckold, nel gergo sessuale, è un uomo che prova piacere nel vedere la propria partner avere rapporti sessuali con altri uomini. Sia in sua presenza che in sua assenza. E farsi mandare video in cui la partner lo tradisce sessualmente e lo deride, è una pratica comunemente diffusa – ed ampiamente documentata nel web – dai cuckold. È una informazione troppo specifica per poter essere campata in aria, e la dinamica dei video sembra corrispondere perfettamente a questa pratica. Tiziana Cantone è probabilmente stata vittima, ancor prima che del giudizio feroce del web e della gente, di un gioco sessuale che è degenerato.
TIZIANA CANTONE HA PUBBLICATO SPONTANEAMENTE QUEI VIDEO? No: i video sono inizialmente circolati all’interno di una cerchia di quattro o cinque persone (Tiziana, l’ex compagno e i diretti interessati presenti nei video). Anche questa è una pratica molto comune nel mondo delle “coppie aperte” o dei cuckold. Un conto è l’essere consapevoli di essere ripresi, un altro paio di maniche è diffondere pubblicamente su un sito web o di telefonino in telefonino un video in cui non c’è nessuno strumento a tutela dell’anonimità dei partecipanti. Il tutto si regge sulla fiducia reciproca, affinché i video non vengano diffusi all’esterno del “cerchio magico”. Qualcuno ha rotto il cerchio con il primo video tramite WhatsApp, che è circolato nel napoletano di telefonino in telefonino. Quando è finito sul web, probabilmente per mano di una persona completamente estranea ai fatti, ormai il danno era fatto. E sono saltati fuori tutti gli altri video, come se Tiziana a quel punto fosse la poco di buono da esporre al pubblico ludibrio. Tiziana Cantone ha cancellato nel giro di pochi giorni i suoi account Facebook ed Instagram. Tutto ciò che è apparso su Facebook con pagine che recavano il suo nome, è stato pubblicato da altre persone che erano entrate in possesso dei video.
QUAL È STATA LA POSIZIONE (LEGALE E NON) DELL’EX COMPAGNO DI TIZIANA CANTONE NELLA VICENDA? Oltre all’aspetto meramente sessuale, la madre di Tiziana chiama in ballo S.D.P. sempre nella deposizione dei carabinieri riportata da la Repubblica: “Secondo me i video furono pubblicati dal suo compagno per costringerla a rimanere con lui. Ma lei per la vergogna temporeggiò, rinviò questo ritorno a casa nostra. Le chiesi spiegazioni… Mi disse che ci voleva tempo, che non era facile nemmeno per lei. Si separarono, ma non pacificamente. Lei a volte tornava con lividi”. Sempre stando a quanto riferito dalla madre di Tiziana, S. le aveva procurato l’avvocato e aveva partecipato alle spese processuali della battaglia giudiziaria contro la diffusione di quei filmati. Compensazione per un senso di colpa diretto (ipotesi nel caso fosse stato lui a far circolare il video) o indiretto (lo hanno fatto circolare altri e se ne è sentito ugualmente responsabile)? Fatto sta che, al momento, l’uomo non è neanche indagato.
QUALI SONO LE COLPE DELLA STAMPA? Il giornalismo in Italia è attualmente un meccanismo perverso e spesso di qualità bassa. Soprattutto sul web, per guadagnare introiti pubblicitari e nuovi inserzionisti, conta fare visite. Un articolo su un avvenimento dai risvolti a luci rosse, magari correlato da video anche non sfacciatamente sessuale, può portare migliaia di visualizzazioni. Sarebbe da ipocriti non ammettere che tutti hanno voluto fare visite su quel video. Ma un conto è tutelare deontologicamente la privacy dei protagonisti – e Wakeupnews lo ha fatto – ed un altro paio di maniche è gettare in pasto subito volti, nomi e cognomi senza che nessun reato sia stato commesso. Vale per qualsiasi tipo di reato, figurarsi per una vicenda sessuale.
QUALI SONO LE COLPE DEL WEB? In un mio post su Facebook molti mi hanno accusato di aver “assolto” il web. Nulla di più sbagliato. Io assolvo il meccanismo naturale del web, quello attraverso il quale una notizia virale, una foto, un filmato, una volta messi in circolo sono pressoché impossibili da far sparire. Che tutto ciò sia giusto o sbagliato merita una approfondita riflessione ed una legislazione moderna e specifica, che non debba passare dal reato di diffamazione e magari non debba impiegare un anno per obbligare un sito o meno a rimuovere immagini o video caricati senza autorizzazione. Non assolvo invece il senso di deresponsabilizzazione che la rete ha inculcato in molte, troppe persone. Basta leggere una notizia (spesso solo il titolo) per giudicare e farsi un’idea. Nulla di più sbagliato. Tiziana, nel mio post, è stata dipinta nel peggiore dei modi da uomini e donne, perché colpevole di aver tradito il proprio partner e di averlo denigrato. Oggi che abbiamo la pressoché totale certezza che fosse stato esplicitamente S. a chiedere a Tiziana di tradirlo, deriderlo ed umiliarlo, qualcuno ha ancora davvero il coraggio di darle della poco di buono? Ingenua, forse. Superficiale nel fidarsi di sconosciuti, sicuramente. Ma provate a digitare “cuckold Italia” su Google. Troverete 427.000 risultati.
QUATTROCENTOVENTISETTEMILA. Tiziana Cantone ed il suo compagno erano un puntino in mezzo ad una galassia. Una galassia perversa, sottile, in cui basta che salti il dente di un ingranaggio per rompere il meccanismo perfetto. Siete liberi di non prenderne parte e di guardare con distacco chi sceglie di vivere così il sesso, certo. Ma no, non siete tenuti a dare della troia a chi ha deciso di entrare nel gioco. Ancor più – e qui fior di psicologi potrebbero dire la loro – in una ragazza che ha vissuto l’assenza totale di una figura paterna di riferimento.
CHIESA E MORALE – Nel mio post su Facebook ho anche chiamato in ballo la Chiesa, colpevole – a mio parere – di essere l’unica che parla di sesso in Italia. E quindi lo fa a modo suo. Un’affermazione che sfido chiunque a contestare, dato che nelle scuole non si fa educazione sessuale, e non si insegna al rispetto del proprio corpo e di quello altrui. Soprattutto in tempi in cui un video su un telefonino, come nel caso di Tiziana, può essere il confine sottile tra la vita e la morte. Un post su Facebook va inteso come tale, e nel mio caso specifico come un forte sfogo di pancia. Rabbioso e sicuramente incompleto, per una morte che sento troppo vicina ai miei tempi e al mio lavoro. So bene che non è la Chiesa la causa prima e unica di tutti i mali, ma è un dato di fatto che, in un paese di cultura fortemente cattolica come l’Italia, lo scandalo suscitato dal video hard privato di un uomo e di una donna, a parità di esposizione, ricade sempre di più sulla donna. Si insulta la donna troia, non l’uomo puttano.
Questo è quanto c’è da sapere su Tiziana Cantone. Una volta per tutte, verità per verità e bugia per bugia. I suoi funerali si sono tenuti oggi alle 15. E fino a quando le cose non cambieranno, continuerò sempre a sostenere che Tiziana è morta perché, in Italia, il piacere è ancora singolare maschile, e le tentazioni sono sempre plurale femminile. Francesco Guarino
La ragazza avrebbe dovuto pagare 20mila euro di spese legali perché il tribunale le ha dato torto ed è questo uno dei motivi che ha spinto la ragazza al suicidio? Ma non è andata esattamente così, scrive "Next Quotidiano" giovedì 15 settembre 2016. Tiziana Cantone avrebbe dovuto pagare 20mila euro di spese legali perché il tribunale le ha dato torto ed è questo uno dei motivi che ha spinto la ragazza al suicidio? La storia dei 20mila euro che Tiziana Cantone doveva pagare. Lo si legge nel dispositivo dell’ordinanza dal giudice del Tribunale Napoli Nord Monica Marrazzo. Il giudice infatti ha condannato Facebook, Sem srl, Ernesto Alaimo, Pasquale Ambrosino e Rg Produzioni (responsabili di testate giornalistiche online) alle spese in favore della ricorrente liquidate “in euro 320, per esborsi, e euro 3.645 per compenso professionale, oltre al rimborso delle spese generali nella misura del 15 per cento sul compenso”. Il giudice ha altresì condannato la ricorrente al rimborso in favore della Citynews, YouTube LLC, Yahoo Italia, Google Ideas delle spese “che liquida (per ciascuno di essi) in 3645 euro per compenso professionale, oltre al rimborso spese generali nella misura del 15 per cento sul compenso”. In pratica spiega Conchita Sannino oggi su Repubblica: Il giudice ha poi esaminato caso per caso i profili relativi alle testate giornalistiche on line, due delle quali condannate a rimuovere tutte le pagine riguardanti la vicenda. Nel dispositivo, il giudice condanna Facebook, Sem srl, Ernesto Alaimo, Pasquale Ambrosino e Rg Produzioni (responsabili di testate giornalistiche online) anche alle spese in favore di Tiziana liquidate «in euro 320, per esborsi, e euro 3.645 per compenso professionale, oltre al rimborso delle spese generali nella misura del 15 per cento sul compenso». Ma al tempo stesso impone alla ricorrente il rimborso in favore della Citynews, YouTube LLC, Yahoo Italia, Google Ideas delle spese «che liquida (per ciascuno di essi) in 3645 euro per compenso professionale, oltre al rimborso spese generali nella misura del 15 per cento sul compenso». Il giudice ha anche stabilito che per Tiziana non ci fosse alcun diritto all’oblio, perché la vicenda che la riguarda è troppo recente, risalendo soltanto alla prima metà del 2015. Su questo punto il passaggio della sentenza non lascia dubbi: «Non si ritiene che rispetto al fatto pubblicato sia decorso quel notevole lasso di tempo che fa venir meno l’interesse della collettività alla conoscenza della vicenda». Decisamente respinta, infine, anche la richiesta di risarcimento danni che il giudice definisce «evidentemente inammissibile in sede cautelare», rimandando la questione al «successivo eventuale giudizio di merito». L’indagine su Tiziana Cantone. Nel fascicolo dell’inchiesta che la Procura di Napoli nord ha avviato sulla morte di Tiziana Cantone saranno acquisiti anche gli atti della causa civile che la 31enne aveva intentato appellandosi al diritto all’oblio e chiedendo a vari social e motori di ricerca di rimuovere i video hard diventati virali. L’inchiesta, coordinata dal procuratore Francesco Greco e dal sostituto procuratore Rossana Esposito, segue per il momento l’ipotesi dell’istigazione al suicidio, ma non si esclude la possibilità di valutare altri reati come lo stalking. Due mesi fa, a luglio, la 31enne aveva ottenuto l’autorizzazione a cambiare il proprio cognome acquisendo quello della madre. Era stata la stessa Tiziana ad avviare la pratica per quel cambio di identità, lo aveva deciso a novembre 2015, cinque mesi dopo la diffusione sul web del video hot che la ritraeva in momenti di intimità con un uomo. Intanto la madre oggi a Repubblica lancia pesanti accuse nei confronti del fidanzato: «Secondo me, lui la plagiava. Andarono a vivere insieme, e durante la sua convivenza io la vedevo cambiata. Tra me e lei c’era un particolare legame eppure lei aveva deciso di allontanarsi e lui mi dava sempre una brutta impressione… anche se mia figlia non mi ha mai raccontato qualcosa in particolare. Solo una volta, prima del Natale del 2015, la vidi sconvolta». Il motivo? «Tiziana — continua sua madre — mi raccontò di alcuni giochetti fatti con quell’uomo. Una sera ritornò di notte, forse era il novembre 2015, riferì che aveva litigato con lui. Era ubriaca. Si rifugiò in casa mia per quella sera. Venni a sapere che avevano fatto un video che aveva avuto una diffusione virale. Voi mi chiedete dei video che poi uscirono… Io posso precisare che gli stessi video furono girati nel periodo della sua convivenza». La donna aggiunge alcuni nomi di uomini, dice che proprio S. la mandò in Emilia a casa di alcuni suoi amici. «Tiziana mi riferì che sempre il suo compagno l’aveva indotta a girare alcuni video per far piacere a lui, con altri uomini. Considerata questa costrizione, lei aveva deciso di avere rapporti sessuali, ripresi con una telecamera, quantomeno con persone che lei gradiva. Il suo compagno, in realtà, non era presente a quei rapporti sessuali, ma provava piacere a sapere che lei andava con altri e nel vedere i filmati. E anche nel filmato più diffuso, in cui si parla di tradire il fidanzato, posso dire che quell’uomo, per me, ne era a conoscenza. In un filmato, quello girato nella cucina della loro abitazione, si sente la voce dell’uomo e compare una sagoma riconducibile a mio avviso a questo suo compagno». Non solo. La madre riprende dopo un altro crollo. «Tra l’altro il compagno di mia figlia cercò di rassicurarmi, nel corso di un nostro dialogo, che nei video diffusi in rete non era presente Tiziana ma c’era un fotomontaggio e che avrebbero provveduto a difenderla». Poi lei lancia l’accusa più pesante. Ma tutta da provare. «Secondo me, i video furono pubblicati dal suo compagno per costringerla a rimanere con lui. Ma lei per la vergogna temporeggiò, rinviò questo ritorno a casa nostra. Le chiesi spiegazioni… Mi disse che ci voleva tempo, che non era facile nemmeno per lei». Si separarono, ma non pacificamente. Lei a volte tornava con lividi. La mamma sostiene che forse lui voleva lucrare. Quattro indagati per diffamazione. Ci sono intanto quattro persone indagate per diffamazione nei confronti di Tiziana Cantone, la 31enne morta suicida protagonista di un video hot diventato virale un anno fa sul web. E anche questa iscrizione nel registro degli indagati, a quanto si è appreso, risale ad un anno fa, quando cioè Tiziana presentò una querela contro le quattro persone alle quali aveva mandato via whattapp le immagini hard che poi hanno fatto il giro del web, con milioni di click, senza il suo consenso; l’origine della fragilità che poi portato la ragazza a impiccarsi con un foulard due giorni fa in uno scantinato. A indagare il procuratore di Napoli Fausto Zuccarelli e dal pm Alessandro Milita. La Procura di Napoli Nord invece, competente per territorio rispetto quel decesso, ha aperto un fascicolo per istigazione al suicidio.
EDIT: In una precedente versione dell’articolo avevamo calcolato male il rimborso dovuto alla Cantone. L’edit con la citazione di Repubblica Napoli spiega invece come sono andate le cose.
EDIT 2 (16 settembre 2016): Elisabetta Garzo del tribunale di Napoli spiega oggi a Repubblica perché la sentenza condannava la Cantone al risarcimento delle spese: Quando si è rivolta a voi? «Il ricorso è stato presentato circa un anno fa. Le parti in gioco erano tantissime. Una volta costituite ci sono state un paio di udienze, non di più. L’8 luglio il giudice Marrazzo le ha invitate alla discussione. Ha depositato il provvedimento ad agosto. È stato pubblicato il 5 settembre. L’iter è stato velocissimo». La ragazza è stata anche condannata a pagare alcune spese legali. Non è assurdo? «Nei confronti di alcuni siti internet è stata ritenuta soccombente perché in sede civile la domanda non può essere proposta in maniera non precisa. Ad esempio, per quanto riguarda Yahoo, è stata rivolta nei confronti di Yahoo Italia che non è responsabile del controllo e quindi non è stata accolta. Nel momento in cui il ricorrente è soccombente, viene condannato alle spese».
Tiziana Cantone, parla Luca: «Io, indagato ma ci scambiavo solo foto osé», scrivono Marco Di Caterino e Gigi Di Fiore il 16 Settembre 2016 su “Il Messaggero”. Sono partiti in cinque. Tutti uomini, tutte persone che, utilizzando la chat di Messenger, hanno dialogato con Tiziana dal dicembre del 2014 al gennaio del 2015. A loro, Tiziana inviava foto «in gran parte in costume da bagno e altre a seno nudo» come si legge nell'esposto denuncia presentato alla Procura di Napoli nella primavera del 2015. Cinque, due sono fratelli e di Salerno. Altri di differenti località. Dopo una prima scrematura, il pm Alessandro Milita decise di iscrivere nel registro degli indagati quattro dei nomi indicati nella denuncia. Uno dei fratelli salernitani, giovane imprenditore trentenne, si schermisce: «Non devo spiegare proprio nulla, la storia sta per essere archiviata e io non c'entro nulla con quello che si legge in queste ore». Poi il rinvio, per qualsiasi questione tecnico-giuridica, al difensore, l'avvocato salernitano Marco Martello che dice: «Contiamo di poter comunque arrivare all'archiviazione, dimostrando che, con il video, i miei assistiti non c'entrano». Gli avvisi di garanzia partono un anno fa. Da allora, la Procura non è riuscita ancora ad individuare con certezza chi tra i nomi segnalati nell'esposto sia andato oltre lo scambio di foto in chat e abbia diffuso il video che Tiziana aveva acconsentito a girare, ma senza aver mai avuto intenzione di diffonderlo in pubblico. La prima copia del video compare su un sito a luci rosse il 25 aprile del 2015. Tre giorni dopo, c'è già la moltiplicazione su altre pagine di Internet. I social network, come Facebook, vietano la pubblicazione in chiaro di video con immagini esplicite di sesso. La divulgazione segue altre strade, compresa l'applicazione WhatsApp degli smartphone. Insomma, una valanga inarrestabile, dove è diventato difficile scoprire chi è stato il primo a «postare» le immagini. C'è, però, la denuncia di Tiziana che fa in modo esplicito cinque nomi, come le persone che ricorda destinatari del video che aveva girato. Esclude, nell'elenco dei sospettabili, i presenti alle riprese del video. Uno dei cinque interlocutori di Tiziana in chat era Luca. Nell'esposto, viene indicato con il nickname scelto per aprire il suo profilo Facebook: Luca Luke. Con quel nome, hanno un profilo oltre una ventina di uomini. Luca è sereno, convinto di non avere nulla da nascondere. Non vuole rivelare la sua attività, né fornire dettagli sulla sua vita. Ma sulla vicenda in cui è indagato, invece, spiega: «Ricordo che all'epoca ci fu uno scambio di foto. E alla fine nella denuncia, che conosco bene perchè ho ricevuto un avviso di garanzia, vengono indicate una serie di persone cui sono state inviate proprio delle foto. E, per quanto mi riguarda, le cose stanno proprio in questo modo e cioè io ho ricevuto via chat delle foto, ma video assolutamente no».
Le colpe della Procura della Repubblica di Napoli. Tiziana, il pm attese un anno. I video hot rimasero in rete, scrive Gigi Di Fiore Venerdì 16 Settembre 2016 su "Il Mattino". L'inchiesta è stata aperta un anno fa. Subito dopo la presentazione della denuncia querela, che Tiziana affidò al suo avvocato penalista Fabio Foglia Manzillo. È un fascicolo sull'ipotesi di diffamazione per la diffusione del famoso video girato dalla ragazza con il suo consenso. Già un anno fa, il pm Alessandro Milita con il procuratore aggiunto Fausto Zuccarelli decise di inviare un avviso di garanzia a quattro dei cinque giovani segnalati nell'esposto. Nell'atto si parlava di «gioco virtuale a sfondo sessuale con i predetti signori». Che poi era essenzialmente lo scambio di foto, in prevalenza attraverso la chat di Facebook. Foto, si leggeva nell'esposto, «in gran parte in costume da bagno o a seno nudo». Poi, l'invio anche del video girato con il consenso di Tiziana. Cinque nomi, appunto, di sospettati della diffusione senza consenso, qualcuno indicato con il nick scelto per il profilo su Facebook. Due sono fratelli, giovani imprenditori salernitani. Dice il loro avvocato Marco Martello: «Gli avvisi, come atto dovuto, risalgono a diversi mesi fa. Eravamo convinti si andasse verso una richiesta di archiviazione. Presto, ci presenteremo in Procura chiedendo di essere di nuovo sentiti. Il mio assistito non c'entra con la diffusione via Internet di quel video». Il filmato, in un file su pennetta Usb, venne depositato in Procura. Inizialmente, l'avvocato Foglia Manzillo ne chiedeva l'oscuramento su Facebook. Spiega il procuratore aggiunto Fausto Zuccarelli: «Il collega Milita, oberato di fascicoli di rilievo come quello sulla ex Resit e sul processo Cosentino, si occupò anche di questa vicenda. Con una motivazione scritta, spiegò che non era possibile sequestrare le pagine del social network per un video che aveva subito moltiplicazioni successive in diversi siti Internet». Di fatto, dopo l'iscrizione nel registro degli indagati, il procedimento per diffamazione a carico dei quattro giovani è rimasto in sospeso. Poi, la drammatica evoluzione della vicenda, con il suicidio di Tiziana che, nell'esposto, indicava come suo domicilio effettivo la residenza del compagno Sergio Di Palo. In un'occasione, proprio Di Palo, imprenditore nel settore edile, aveva accompagnato Tiziana nello studio napoletano dei suoi avvocati. È ora probabile che, nei prossimi giorni, il fascicolo napoletano venga chiuso. Lunedì prossimo, ci sarà un incontro tra il procuratore capo di Napoli nord, Francesco Greco, e il procuratore aggiunto di Napoli, Fausto Zuccarelli. C'è da verificare l'ipotesi di una unione dei due fascicoli penali aperti nei differenti uffici. Quello della Procura Napoli nord ha appena due giorni. È scaturito dalla morte di Tiziana, è a carico di ignoti sull'ipotesi dell'istigazione al suicidio. Dopo dichiarazioni a verbale della mamma di Tiziana, che ha parlato di «plagio» dell'ex compagno sulla figlia, facendo quasi capire che sulla registrazione dei video fosse stata costretta proprio da lui, sicuramente Sergio Di Palo verrà sentito nei prossimi giorni come teste dal pm Rosanna Esposito della Procura di Napoli nord. Di lui gli inquirenti parlano come di un teste «figura essenziale» per la ricostruzione dell'accaduto.
Il mistero delle accise ritrattate. La ragazza non ha consegnato in procura un solo esposto, ma ben tre. Non solo: nell’ultima fase, nell’ottobre 2015, aveva ritrattato proprio il racconto, dettagliatissimo, in cui faceva i nomi dei cinque uomini ai quali aveva inviato, inizialmente, il materiale hot, perché intratteneva con loro «un gioco virtuale a sfondo sessuale», scrive Next Quotidiano sabato 17 settembre. C’è ancora un mistero nella storia di Tiziana Cantone. Ieri sono i nomi degli indagati nel procedimento per diffamazione – che sono due fratelli emiliani, Antonio ed Enrico Iacuzio, un brindisino che si chiama Christian Rollo, un altro che si chiama Antonio Villano; la donna non parla di altri, nessun riferimento a Sergio Di Palo, che era il suo fidanzato quando ha girato i video – ma oggi, come spiega Conchita Sannino su Repubblica, si comprende che tutto probabilmente finirà in un’archiviazione, visto che la Cantone ha ritrattato le accuse. Ecco cosa scrive Tiziana nella querela presentata in Procura il 20 maggio 2015. «Quello che sta accadendo assume i connotati di una totale devastazione nei confronti della mia persona, che già di per sé ha profili di psicolabilità». E aggiunge: «È vero che sono stata una stolta sprovveduta a fare giochetti stupidi con persone a me sconosciute, ma è anche vero, che quanto adesso sta accadendo mi avvicina in maniera veloce a istinti di suicidio». Non solo: «Questa gogna provoca danni incalcolabili in me, pregiudica in maniera assoluta e irreparabile il mio futuro di ragazza di 30 anni». Parole che, a rileggerle il giorno dopo i suoi funerali, consegnano l’immagine di una inesorabile solitudine. Quelle pagine stanno ora per essere acquisite dalla Procura di Napoli nord-Aversa, dopo che il procuratore capo Francesco Greco ha avuto contatti con l’aggiunto Fausto Zuccarelli e il pm Alessandro Milita (il magistrato dell’antimafia, che fu già nel mirino dei killer di Gomorra) che procedono, a Napoli, con l’accusa di diffamazione. Ma la ragazza non ha consegnato in procura un solo esposto, ma ben tre. Non solo: nell’ultima fase, nell’ottobre 2015, aveva ritrattato proprio il racconto, dettagliatissimo, in cui faceva i nomi dei cinque uomini ai quali aveva inviato, inizialmente, il materiale hot, perché intratteneva con loro «un gioco virtuale a sfondo sessuale». Tre tappe. Tiziana chiede aiuto la prima volta il 29 aprile 2015. Si nasconde dietro una piccola bugia. «Ho smarrito il mio iPhone, e purtroppo stanno circolando delle scene intime, dei video e delle foto», è la denuncia. Passa un mese e il 20 maggio la storia cambia. Tiziana consegna 8 pagine durissime in cui punta il dito contro cinque uomini, ai quali ha inviato il materiale. Sono loro, per Tiziana, ad aver diffuso in Rete, presso altri utenti o siti quelle foto e scene di sesso. Lei fa i nomi di: Christian, Antonio, Enrico, Luca, e un altro Antonio. Ribadisce che loro le chiesero successivamente di incontrarla «per passare dal gioco virtuale all’incontro reale» e lei si rifiutò. Il sospetto è che, per sfregio e per punirla, li abbiano poi fatti circolare. Tiziana accusa: «Poiché questo video è stato inviato da me solo ai signori Christian, Antonio, Enrico, Luca e Antonio, i predetti lo hanno diffuso in Internet senza la mia autorizzazione. Tutto questo mi devasta, la gente mi riconosce, non ho più futuro». Quattro di loro sono ora indagati per diffamazione. È verosimile, tuttavia, che tutto finisca con un’archiviazione. Il motivo? Da ieri è noto. Passano quattro mesi e il 23 ottobre 2015 Tiziana va in Procura, viene sentita e ritratta il senso delle accuse. «Non era mia intenzione addita re le responsabilità delle diffusione su quegli uomini, loro possono solo essere a conoscenza e offrire elementi». Perché Tiziana Cantone ha ritrattato?
Tiziana, i verbali shock: "Gogna mediatica, mi stanno spingendo al suicidio". La denuncia, nel maggio 2015, della donna che si è tolta la vita per i video hard sul web: "Sono devastata, per strada mi aggrediscono", scrive Conchita Sannino il 17 settembre 2016 su "La Repubblica". Tre racconti, tre versioni diverse affidate alla Procura di Napoli. Ma in comune, tra i tre atti, c'era la disperata ricerca di aiuto da parte di Tiziana. E quelle parole firmate da lei che ora mettono i brividi: "Questa gogna mediatica cui sono sottoposta di ora in ora mi sta portando al suicidio". "Repubblica" è in grado di ricostruire qualcosa che assomiglia, complici anche le (incolpevoli) leggerezze di una bella e libera trentenne, a un calvario giudiziario: civile e penale. "La mia vita è devastata. Sono anche oggetto di episodi di aggressività perché mi riconoscono per strada", ecco cosa scriveva Tiziana nel suo appello-testamento. Parole che raggelano. Tutto comincia con una denuncia di aprile, in cui Tiziana racconta semplicemente di aver smarrito il suo Iphone. Racconta che aveva del materiale incandescente su quel cellulare, che ora sta girando. Ma ovviamente non è la verità. Si arriva al 20 maggio 2015: in questa data consegna la querela circostanziata. Otto pagine. Tiziana puntava con decisione il dito contro cinque uomini ai quali aveva inviato quei video hot - senza averli mai incontrati - e dei quali si dice sicura che sono stati loro a divulgarli su Internet. Forse per ripicca dopo i "no" che lei aveva offerto alle loro richieste di "incontrarsi dal vero". Poi accade un fatto strano. Dopo quattro mesi, ad ottobre 2015, per motivi che sono - sarebbero - tutti da spiegare, lei stessa si ripresenta in Procura, si fa sentire dalla Guardia di Finanza e ritratta quasi tutto. Dice che non voleva accusare quegli uomini. Dice che forse si è spiegata male. Racconta che i nomi di quegli uomini sono veri, che davvero "essi sono stati gli unici" destinatari dei suoi video e foto hot: ma che lei ne ha fatto il nome non per accusarli, ma perché ipotizza che, a loro volta, quelle persone "potevano essere a conoscenza di elementi utili a ricostruire" l'identità dei veri responsabili della divulgazione. In pratica, consegna ai pm qualcosa che assomiglia a una remissione di querela. Ora resta il dubbio di difficile soluzione, anche negli inquirenti: qualcuno ha indotto Tiziana a rimangiarsi le accuse? Qualcosa, o qualcuno, l'aveva spaventata? Ecco il racconto (quasi) integrale di Tiziana, datato maggio 2015. "Voglio premettere che io ho intrattenuto un gioco virtuale a sfondo sessuale con i predetti signori: Antonio ed Enrico; Luca e Antonio. Il gioco consisteva nell'inviare via internet agli stessi mie fotografie provocanti, poiché gran parte sono in costume da bagno ed altre a seno nudo. Inoltre, io ho fornito loro video pornografici nei quali chiaramente compio qualche atto sessuale. Questo gioco virtuale è durato un paio di mesi, precisamente da dicembre 2014 a gennaio 2015. Nel febbraio ho interrotto i rapporti con costoro, perché essi mi chiesero di incontrarci e di trasformare il nostro rapporto virtuale in qualcosa di reale. Ma io mi negai, poiché non era mia intenzione trasformare il gioco da virtuale in reale e conseguentemente furono interrotti i rapporti in via telematica". Passa poco tempo, rispetto al rifiuto di Tiziana, e cominciano a girare i video e le foto su siti porno, profili personali. Sta cominciando la tempesta. È quella che la porterà alla tomba. Aggiunge Tiziana: "Devo precisare che i rapporti tra di noi erano esclusivamente via telefonica, o meglio attraverso l'app Whatsapp e con lo scambio di messaggi con foto e filmati allegati e con l'intento che questi rimanessero esclusivi tra di noi e non venissero divulgati in rete o con altri mezzi di comunicazione". Invece non andrà così. E lei li accusa: "Poiché questo video è stato da me inviato solo ai signori Christian, Antonio ed Enrico, Luca e Antonio, con la mia esplicita intenzione che tale video rimanesse in esclusività tra di noi, i predetti Christian, Antonio ed Enrico, Luca Luke e Antonio lo hanno diffuso in internet senza la mia autorizzazione. Questa vicenda mi sta ammazzando la vita". Aggiunge ancora Tiziana: "È vero che sono stata una stolta, sprovveduta a fare giochetti stupidi, di invio - scrive - con persone che neanche avevo incontrato, a me sconosciute. Però la mia vita ora ne è devastata". Ottobre 2015. Tiziana torna in Procura, e stavolta alleggerisce di molto il peso delle accuse contro quegli uomini. Racconta: "Non intendo accusare quelle persone della divulgazione. A rileggere ora la querela del maggio scorso, mi accorgo di averli additati come responsabili, ma ribadisco che coloro che ho citato potevano solo essere a conoscenza" di come fossero andate le cose". E ancora: "Anche se ho agito su un impeto, non è mai stata mia intenzione di indicarli come responsabili". Sedici mesi dopo, l'unica certezza è che Tiziana è morta. Suicida. Condannata dalla solitudine in cui è finita. E che i suoi amanti virtuali incasseranno, verosimilmente, un'archiviazione.
Parla Sergio Di Palo. Vincenzo Iurillo per “il Fatto quotidiano” il 29 luglio 2018. In che cosa consisteva il "gioco"? Quel gioco che, purtroppo, è finito in tragedia. I pm di Napoli lo chiedono a Sergio Di Palo, l'ex fidanzato di Tiziana Cantone, la 31enne che il 13 settembre 2016 si è suicidata in un sottoscala, abbattuta dalla gogna scatenata da sei video hot che dovevano rimanere in un circuito di poche persone e finirono in pasto ai siti porno e ai social network che ne rilanciavano i link in un delirio di insulti e di irrisioni. È la domanda chiave del verbale di un interrogatorio iniziato nel primo pomeriggio del 15 novembre 2016 e durato dieci ore. Di Palo quel giorno è senza avvocato, non è ancora indagato. Soffre, e il suo ragionamento avanza a strappi: "Io trovo un certo imbarazzo a parlare dei rapporti personali con Tiziana". Lo farà solo quella volta. Non parlerà più. Si negherà ai magistrati, ai giornalisti, agli inviati delle tv che per mesi lo hanno braccato come un animale raro per registrarne una battuta o un sospiro, solo le Iene riusciranno a carpirne qualche parola con la telecamera nascosta. Di Palo oggi ha 44 anni e non fa vita sociale dal 2015, dall'anno prima del suicidio di Tiziana. Da quando quei maledetti video iniziarono a circolare e divennero virali. Non era in aula qualche giorno fa, quando il Gip di Napoli Egle Pilla lo ha rinviato a giudizio per calunnia e accesso abusivo a sistema informatico, era presente solo il suo difensore, l'avvocato Bruno Larosa. Vive chiuso in casa, senza fare niente. Con un appannaggio di 5.500 euro al mese che la famiglia gli passa come amministratore delle loro società, come spiega nel verbale. Di Palo è imputato di aver finto lo smarrimento di un telefonino che conservava in memoria i file a luci rosse ("Tiziana aveva paura della reazione della madre alla conoscenza della diffusione dei video") e di aver accusato falsamente cinque persone della messa in Rete dei video hard. In uno dei video, quello dove lei indossa gli occhiali, il protagonista è Sergio. Di alcune di queste accuse avrebbe dovuto rispondere anche Tiziana se fosse ancora viva. I cinque presunti calunniati sono i conoscenti di chat ai quali la donna di Casalnuovo avrebbe inviato spontaneamente i filmati. Sergio e la sua fidanzata concordarono insieme molte cose, prima e dopo. La mamma di Tiziana, la signora Maria Teresa Giglio, si è costituita parte civile attraverso l'avvocato Marco Campora. Di Palo parla molto di lei durante l'interrogatorio. Ricorda gli ostacoli che interpose alla loro relazione, alla decisione della figlia di andare a convivere con lui a Pozzuoli, gli andirivieni di Tiziana tra le due case, le liti tra le due donne. Ricorda la telefonata in cui gli disse "di averle rubato la figlia". Ricorda la notte in cui la signora aprì il cellulare di Tiziana, di nascosto, scoprì le tracce e le chat del "gioco", e lo contattò scrivendogli "te la farò pagare". Avvenne nell' ottobre 2015 e Di Palo dice che subito dopo dovette lasciarsi con Tiziana "per forza maggiore". Qual era questo "gioco"? Di Palo pare liberarsi di un peso, sa che per il mondo lui è l'uomo che ha traviato la ragazza ma le cose non sarebbero andate esattamente così, entrambi erano consapevoli e complici. "Tiziana mi raccontava delle sue relazioni", le piaceva "provocare le altre persone per eccitare il partner". Fa i nomi degli altri uomini che incontrava. Ed entra nei dettagli del "gioco". "Il suo modo di provocare mi piaceva e iniziammo il nostro gioco, ci iscrivemmo sul sito lamoglieofferta.com. Il nostro nickname era coupleladywant, quello di Tiziana 'Carla', il mio 'Massimo'". È un sito per scambisti. Basta un contatto whatsapp per fissare un incontro. "Le persone che si presentavano all' appuntamento riferivano un nome di fantasia". Tiziana stava con l'uomo. Sergio guardava. E quasi sempre filmava. Gli incontri avvengono tra il 2014 e il 2015. Con Sr. John, con il Conte Max, con un suo vecchio ex fidanzato e suo fratello. Incontri in parcheggi, nei bagni dei centri commerciali, persino a casa loro. Con perfetti sconosciuti. I file video viaggiano da un telefonino all' altro. "Dopo qualche tempo Tiziana non si accontentava di conoscere persone mediante contatti recuperati dal sito di scambisti ma voleva agganciare persone in modo diretto". Di Palo sostiene che la ragazza inviò i sei video porno che la vedono protagonista e che finiranno in Rete a due fratelli di Salerno abbordati su Instagram, che non incontrerà mai. "Tiziana mi informava? Sì, ero a conoscenza di tutti gli incontri che avvenivano". I video venivano girati con un iPhone 4 nero e lì conservati. Su questo telefono "sono stati registrati circa 70-80 video. Dieci fatti nel periodo del nostro gioco, altri 60-70 nel periodo prima che la conoscessi". Che fine ha fatto quell' apparecchio? "Lo abbiamo distrutto il 30 luglio 2016, a casa sua, col martello. Decise lei, non voleva avere più quei vecchi ricordi. Quella documentazione apparteneva al nostro passato e non voleva sapere nulla delle schifezze che erano successe. Io volevo essere presente al momento della distruzione". Purtroppo non è possibile eliminare un video una volta finito in Internet. Il web è un pozzo nero senza fondo: se ci butti una cosa dentro, non la recupererai più. Dopo la distruzione del cellulare, Tiziana e Sergio non si rivedranno né sentiranno più sino al 7 settembre. È il giorno dell'ordinanza del Tribunale di Napoli Nord che ha trattato le cause avviate dalla ragazza contro i social network e i siti che hanno pubblicato i video, e che la condanna a pagare 20 mila euro di spese a fronte di appena 3.600 euro di risarcimento. Tiziana è agitata. Sergio è ricco e vuole aiutarla. "Mi ero reso disponibile di pagare". L' ultima loro conversazione avviene alle 12.30 del 13 settembre, poche ore prima del suicidio. Dura 22 minuti. "Si è parlato del parere che dovevo chiedere per il reclamo. L' appuntamento con l'avvocato era stato rimandato. Tiziana non voleva fare più nulla in merito al reclamo, era d'accordo che andassi dall' avvocato il giorno successivo. È stata una conversazione tranquilla, pacata. Non ho usato toni forti, né lei mi ha urlato". Il dolore di Tiziana riesploderà all' improvviso poco dopo.
Filippo Facci su “Libero Quotidiano il 15 settembre 2016: valanga virtuale e cattiveria umana hanno travolto la vita di Tiziana. Tiziana Cantone, allora 29enne, nel tardo aprile 2015 vive a Casalnuovo di Napoli, nell' hinterland napoletano. È di buona famiglia - l'espressione ha ancora un senso, lì - e ha la postura "aggressive" di moltissime ragazze come lei: alta, magra ma non troppo, occhi intensi e cerchiati di trucco, sopracciglia ridisegnate, nasino forse rimodellato, labbra fillerate, rossetti lucidi, look scuro o zebrato o maculato, un po' pantera ma non volgare, una donna che vuole piacere agli uomini e non ha problemi a riuscirci. Ha una specie di fidanzato, ma - non è chiaro se sia per qualche ripicca - sta di fatto che decide di fare sesso con altri, anche con due alla volta; e non si oppone a che il fidanzato, nel mentre, venga sfottuto con tanto di corna immortalate in sei diversi video. È lei a definirlo per prima «cornuto» e a dire «stai facendo un video? Bravo», cioè la frase tormentone che la ucciderà. Poi non è chiaro entro quali limiti lei abbia agito «volontariamente e in piena coscienza» (l'espressione è dei giudici) anche nella diffusione dei video, uno dei quali, peraltro, è ambientato per strada. Ma pare che a diffonderli sia stata anche lei, benché a non più di cinque persone. A riceverli sono dapprima due fratelli che vivono in Romagna, poi un utente di Facebook di cui è noto solo il "nickname" e, ancora, un terzo soggetto maschile. Pochi giorni dopo c' è il salto di qualità: è il 25 aprile 2015 quando un primo video finisce su un portale hard, in attesa degli altri. Il 30 aprile il video è già popolarissimo soprattutto nel napoletano, ma è solo l'inizio. La diffusione diventa capillare, dapprima, tramite whatsapp (altri social network non consentono la diffusione di roba porno) e a contribuire al successo c' è che lei è riconoscibile con nome e cognome, spesso compare nel titolo, si vede bene in volto: ma a spopolare è in particolare quello che in gergo si chiama "meme", ossia la frase di lei «stai facendo un video? Bravo». Che sta succedendo? Qualcuno parla di "revenge porn", categoria dei video hard messi in rete come vendetta contro un ex partner; altri, vista l'apparente disinvoltura e lo straordinario successo di tutta l'operazione, ipotizzano l'efficace piano di marketing di una futura pornostar. In realtà, per capire che sta succedendo, più che un processo alla rete servirebbe un processo alla natura umana, alle dinamiche di massa, alla mostrificazione di cui milioni di internauti si rendono capaci soprattutto quando scagliare il sasso è facilissimo e la mano è ben nascosta dietro una tastiera. Niente di molto diverso, forse, dal sangue invocato nelle arene, dalle pietre scagliate durante una lapidazione, da un compiaciuto linciaggio del Far West: un meccanismo che peraltro è anche ipocrita descrivere o denunciare, ora, perché neutralizzarlo a dovere implicherebbe non scrivere questo articolo, non fare nomi, non dettagliare le vicende, dunque non entrare - come questo scritto farà, nel suo piccolo - nel centrifugatore di Google o di Facebook, nell' automatismo per cui anche i più seriosi quotidiani scaraventano in rete video voyeuristici sulla base dei "click" che probabilmente faranno. Tiziana Cantone, per una dolosa ingenuità d' origine, entrò così in un inferno senza ritorno e che neppure la morte in queste ore potrà fermare. Nel maggio successivo, sempre 2015, la sua vita pubblica e privata diventa un videogioco al pari delle sue amicizie, del suo passato, dei dettagli più intimi, cose vere o false, non importa. Diventa l'icona di pagine Facebook, vignette, parodie, canzoni, fotomontaggi, addirittura vendita di magliette, tazze, gadget: qualche cronista si scatena alla ricerca del fidanzato cornuto, il "meme" tra Tiziana e il suo amante compare nel video della canzoncina "Fuori c' è il sole" di Lorenzo Fragola (20 milioni di visualizzazioni) e la presenza dei video di Tiziana non è neppure più necessaria. In ogni caso i video puoi trovarli direttamente su qualche sito porno. Anche i quotidiani online danno conto del fenomeno esploso intorno al suo nome. Che sta succedendo? Niente, tutto: è qui che il confine tra fenomeno di costume e cronaca giudiziaria si fa impalpabile, è qui che, per ritrovarlo, serve al minimo un'impiccagione, un suicidio. I tempi precisi di tutta la storia, da quel maggio in poi, hanno scarsa importanza. Il punto è che Tiziana non può letteralmente più uscire di casa, e, quando lo farà, sarà per scappare. Non può lavorare neppure nel locale di cui i genitori sono titolari. Lascia il napoletano e passa qualche mese in Toscana lontano perlomeno da conoscenti e amici, gente in grado di associarla immediatamente a quel video. Va in depressione e dintorni, ovvio. Qualche crisi di panico. Ottiene di poter cambiare il cognome. La prima denuncia dei suoi legali parla anche di un primo tentativo di suicidio: non è chiaro se prima o dopo la decisione di tornare a vivere nel napoletano in un'altra cittadina, Mugnano, da una zia, neanche lontano da dove stava prima. Va detto che, dal punto di vista giudiziario, ha fatto quello che ha potuto. Ormai devastata, si mette nelle mani della civilista Roberta Foglia Manzillo e chiede una serie di provvedimenti "d' urgenza", i quali, ovviamente, cozzano contro i tempi della giustizia italiana. La denuncia è rivolta sia ai primi diffusori materiali dei video - quelli che hanno oltrepassato un passaggio one-to-one, e che, cioè, li hanno messi sui social network - e sia, in un secondo momento, contro gli stessi social network che ospitavano i video o li avevano ospitati. I soggetti sono infiniti: tra questi Facebook Ireland, Yahoo Italia, Google, Youtube, Citynews, Appideas. Comunque il tribunale di Napoli Nord le dà ragione - un sacco di tempo dopo - e, con un provvedimento "ex articolo 700", riconosce la lesione del diritto alla privacy e contesta ai social di non aver rimosso il contenuto al momento opportuno. Ma a complicare le cose - e qui si capisce perché internet è un inferno - c' è che molti social network, per esempio Facebook, non contenevano i video: contenevano solo il loro cascame, il prodotto ormai deformato che avevano originato. A ogni modo, le pagine vengono eliminate, e così i post, i commenti, tutto. I social network pagheranno le spese legali - si legge - ma Tiziana dovrà pagare 3.645 euro a carico di quei social network che le varie pagine, intanto, le avevano già rimosse. Senza farla lunga: i dare e gli avere alla fine si sono equivalsi. Ma non è finita. Il diritto all' oblio le è stato negato: «Presupposto fondamentale perché l'interessato possa opporsi al trattamento dei dati personali, adducendo il diritto all' oblio - si legge ancora, - è che tali dati siano relativi a vicende risalenti nel tempo». Siamo al paradosso definitivo. Abbiamo i tempi di internet, che in 24 ore possono distruggere una persona. Abbiamo i tempi della giustizia italiana, che per metterci un'inutile pezza impiegano un anno e mezzo. E abbiamo, in aggiunta, i tempi del diritto all' oblio, secondo i quali un anno e mezzo non basta per non figurare come una zoccola sul web. Perché c' è ancora l'attualità della "notizia". Non è finita ancora. Mentre i più seriosi quotidiani non hanno riportato la sentenza - neanche quelli che contribuirono allo sputtanamento - il paradosso è che in rete qualcosa è ricircolato, e la storia ha ripreso vigore. Non sapremo mai se il suicidio, di poco successivo, sia collegato a questo. Ma, a proposito di tempi, è dopo di questo che Tiziana è scesa nello scantinato e si è impiccata con un foulard. Ci consoleremo con un fondamentale fascicolo della Procura di Napoli per istigazione al suicidio: imputata, presumiamo, tutta la cattiveria umana. Filippo Facci
Storia di Tiziana Cantone. Filippo Facci ha ricostruito e messo in ordine quello che è successo alla donna che si è uccisa martedì, al suo fidanzato e al processo, scrive Filippo Facci il 15 settembre 2016 su Il Post. Tiziana Cantone, allora 29enne, nel tardo aprile 2015 vive a Casalnuovo di Napoli, nell’hinterland napoletano. Benché abbandonata dal padre una settimana dopo la nascita, è di buona famiglia – l’espressione ha ancora un senso, lì – e ha la postura «aggressive» di moltissime ragazze come lei: alta, magra ma non troppo, occhi intensi e cerchiati di trucco, sopracciglia ridisegnate, nasino forse rimodellato, labbra fillerate, rossetti lucidi, look scuro o zebrato o maculato, un po’ pantera ma non volgare, palestrata, esagerava col bere – per smettere andava da uno psicologo – e in sostanza era una donna che vuole piacere agli uomini e che non ha problemi a riuscirci. Diploma di liceo classico, studi interrotti di giurisprudenza. Ha una specie di fidanzato quarantenne, Sergio Di Palo, che sta a Licola con il suo cane: ci ha pure convissuto dall’estate 2015 al settembre 2015, e, secondo la madre – Maria Teresa Giglio, 58 anni – è stato lui a spingerla ad avere rapporti con altri e a filmarli. A loro piaceva così, ed era già successo nel novembre precedente. A dimostrarlo c’è il fatto che i video furono girati e diffusi mentre i due ancora convivevano. Così, in quell’aprile, Tiziana accetta di fare sesso con altri (anche con due alla volta: la condizione è che a sceglierli sia lei) e non si oppone a che il fidanzato, nel mentre, venga sfottuto con tanto di corna immortalate in sei diversi video. E’ lei a definirlo per prima «cornuto» e a dire «stai facendo un video? Bravo», cioè la frase tormentone che la ucciderà. Poi non è chiaro entro quali limiti lei abbia agito «volontariamente e in piena coscienza» (l’espressione è dei giudici) anche nella diffusione dei video, uno dei quali, peraltro, è ambientato per strada. La madre, impiegata comunale, sospetta che a diffonderli sia stato il fidanzato, ma sicuramente è stata anche lei, anzi, è lei ad averli spediti al fidanzato. In una clip, ambientata in una cucina, secondo la madre s’intravede la sagoma di lui. A ricevere i video, sempre in quell’aprile, sono in seguito due fratelli che vivono in Emilia Romagna (amici del fidanzato, che lei aveva conosciuto) poi un utente di Facebook di cui è noto solo il «nickname» e, ancora, un terzo soggetto maschile. Pochi giorni dopo c’è il salto di qualità: è il 25 aprile 2015 quando un primo video finisce su un portale hard, in attesa degli altri. Il 30 aprile il video è già popolarissimo soprattutto nel napoletano, ma è solo l’inizio. La diffusione diventa capillare, dapprima, tramite whatsapp (altri social network non consentono la diffusione di roba porno) e a contribuire al successo c’è che lei è riconoscibile con nome e cognome, spesso compare nel titolo, si vede bene in volto: ma a spopolare è in particolare quello che in gergo si chiama «meme», ossia la frase di lei «stai facendo un video? Bravo». Che sta succedendo? Qualcuno parla di «revenge porn», categoria dei video hard messi in rete come vendetta contro un ex partner; altri, vista l’apparente disinvoltura e lo straordinario successo di tutta l’operazione, ipotizzano l’efficace piano di marketing di una futura pornostar. In realtà, per capire che sta succedendo, più che un processo alla rete servirebbe un processo alla natura umana, alle dinamiche di massa, alla mostrificazione di cui milioni di internauti si rendono capaci soprattutto quando scagliare il sasso è facilissimo e la mano è ben nascosta dietro una tastiera. Niente di molto diverso, forse, dal sangue invocato nelle arene, dalle pietre scagliate durante una lapidazione, da un compiaciuto linciaggio del Far West: un meccanismo che peraltro è anche ipocrita descrivere o denunciare, ora, perché neutralizzarlo a dovere implicherebbe non scrivere questo articolo, non fare nomi, non dettagliare le vicende, dunque non entrare – come questo scritto farà, nel suo piccolo – nel centrifugatore di Google o di Facebook, nell’automatismo per cui anche i più seriosi quotidiani scaraventano in rete video voyeuristici sulla base dei «click» che probabilmente faranno. Tiziana Cantone, per una dolosa ingenuità d’origine, entrò così in un inferno senza ritorno e che neppure la morte in queste ore potrà fermare. Nel maggio successivo, sempre 2015, la sua vita pubblica e privata diventa un videogioco al pari delle sue amicizie, del suo passato, dei dettagli più intimi, cose vere o false, non importa. Diventa l’icona di pagine Facebook, vignette, parodie, canzoni, fotomontaggi, addirittura vendita di magliette, tazze, gadget: qualche cronista si scatena alla ricerca del fidanzato cornuto, il «meme» tra Tiziana e il suo amante compare nel video della canzoncina «Fuori c’è il sole» di Lorenzo Fragola (20 milioni di visualizzazioni) e la presenza dei video di Tiziana non è neppure più necessaria. In ogni caso i video sono reperibili su qualche sito porno. Anche i quotidiani online danno conto del fenomeno esploso intorno al suo nome, mentre vip e calciatori vengono intervistati a proposito della famosa frase. Che sta succedendo? Niente, tutto: è qui che il confine tra fenomeno di costume e cronaca giudiziaria si fa impalpabile, è qui che, per ritrovarlo, serve al minimo un’impiccagione, un suicidio. I tempi precisi di tutta la storia, da quel maggio in poi, hanno scarsa importanza. Il punto è che Tiziana non può letteralmente più uscire di casa, e, quando lo farà, sarà per scappare. Non può più lavorare neppure nei locali di cui gli zii sono titolari: un bar in zona porto e un negozio. Lascia il napoletano e passa qualche mese in Emilia Romagna da amici del fidanzato, poi da parenti in Toscana, lontana perlomeno da concittadini in grado di associarla immediatamente al video. Va in depressione e dintorni, ovvio. Qualche crisi di panico. Ottiene di poter cambiare il cognome. La prima denuncia dei suoi legali parla anche di un primo tentativo di suicidio. Due, secondo la madre: nel dicembre 2015 avrebbe ingerito barbiturici e fu salvata in extremis, chiamando il 118, poi tentò di lanciarsi da un balcone a casa del fidanzato. Il quale passa per cornuto d’Italia perché la faccenda è sfuggita di mano anche a lui: prima di cancellare il proprio profilo Facebook – come Tiziana – in un ultimo post rivolge minacce un po’ a tutti: «Vi veng a mangià o cor a piett… attenti». È di pochi mesi dopo la decisione di Tiziana di tornare a vivere nel napoletano in un’altra cittadina, Mugnano, da una zia, non lontano da dove stava prima. C’è anche la mamma. Una villetta a schiera con giardino e con la palestrina nel seminterrato. Va detto che, dal punto di vista giudiziario, ha fatto quello che ha potuto. Ormai devastata, si mette nelle mani della civilista Roberta Foglia Manzillo – segnalata, anche qui, dal fidanzato – e nell’aprile scorso chiede una serie di provvedimenti «d’urgenza», i quali, ovviamente, cozzano contro i tempi della giustizia italiana. La denuncia ammette che lei dapprima fu consenziante alla diffusione, ma poi si rivolge sia ai primi diffusori materiali dei video – quelli che hanno oltrepassato un passaggio one-to-one, e che, cioè, li hanno messi sui social network – e sia, in un secondo momento, contro gli stessi social network che ospitavano i video o li avevano ospitati. I soggetti sono infiniti: tra questi Facebook Ireland, Yahoo Italia, Google, Youtube, Citynews, Appideas, Alaimo, Ambrosino. A giugno c’è una prima udienza. Prosegue l’8 luglio. La sentenza, scritta il 10 agosto, è ufficialmente del 5 settembre: il tribunale di Napoli Nord (di Aversa, cioè) le dà teoricamente ragione un sacco di tempo dopo: e, con un provvedimento «ex articolo 700», si rifa a un po’ di giurisprudenza (legge 70 del 2003, Privacy, limiti del diritto di cronaca) e in sintesi contesta a cinque social o siti informativi di non aver rimosso il contenuto al momento opportuno. Ma a complicare le cose – e qui si capisce perché internet è un inferno – c’è che alcuni dei social network non contenevano i video: contenevano solo il loro cascame, il prodotto ormai deformato che avevano originato, cioè titoli tipo «il famoso video che sta facendo parlare l’Italia». A ogni modo, le pagine vengono eliminate, e così i post, i commenti, tutto. I social network pagheranno le spese legali – si legge – ma paradossalmente Tiziana apprende la notizia per vie traverse: l’avvocatessa non l’ha neppure avvisata e ha postato la notizia direttamente su – sì – Facebook. Tiziana, secondo il principio di soccombenza, dovrà pagare 3.645 euro più iva a carico di 5 (su 10) dei social network citati. Google e Yahoo! vengono prosciolte per degli errori degli avvocati nell’indicare le società di appartenenza. Senza farla lunga: Tiziana – dice la sentenza – dovrà pagare 18.225 euro. Più Iva. La richiesta di un risarcimento è giudicata «inammissibile in sede cautelare», posticipando la questione ad altro momento: questo, del resto, prevede l’articolo 700 del codice di procedura civile. Non è finita. Il diritto all’oblio le è stato negato: «Presupposto fondamentale perché l’interessato possa opporsi al trattamento dei dati personali, adducendo il diritto all’oblio», si legge, «è che tali dati siano relativi a vicende risalenti nel tempo», e nel caso «non si ritiene che sia decorso quel notevole lasso di tempo che fa venir meno l’interesse della collettività». L’interesse. Della collettività. Siamo al paradosso definitivo. Abbiamo i tempi di internet, che in 24 ore possono distruggere una persona. Abbiamo i tempi della giustizia italiana, inadeguati anche con «provvedimento d’urgenza». E abbiamo, in aggiunta, i tempi del diritto all’oblio, secondo i quali un anno e mezzo non basta per non figurare come una zoccola sul web. Perché c’è ancora l’attualità della «notizia». Non è finita ancora. Mentre i più seriosi quotidiani non hanno riportato la sentenza – neanche quelli che contribuirono allo sputtanamento – il paradosso è che in rete qualcosa è ricircolato, e tutta la storia ha ripreso vigore. Non sapremo mai se il suicidio, di poco successivo, sia collegato a questo. Sicuramente lei era affranta dalla sentenza. E comunque, a proposito di tempi, è a margine di tutto questo che Tiziana è andata giù nello scantinato e si è impiccata con un foulard azzurro appeso a un tubo. Oggi alle 15 c’è il funerale. Ci consoleremo con un fondamentale fascicolo della Procura di Napoli per istigazione al suicidio: imputata, presumiamo, tutta la cattiveria umana.
Vittorio Feltri: "Tiziana Cantone si è uccisa per la vergogna", scrive il 21 Febbraio 2017 Libero Quotidiano. I lettori ricorderanno la storia di Tiziana Cantone, la ragazza che morì suicida dopo la diffusione su Whatsapp di alcuni filmati che la ritraevano mentre faceva l’amore con un giovanotto. Ella, dopo che quelle scene non proprio castigate erano poi girate in rete, si risentì e cadde in depressione. Quando poi divennero virali e praticamente visibili al grande pubblico, Tiziana, sconvolta e forse vergognandosi di essere diventata oggetto di vasta pubblicità, si lasciò andare allo sconforto e decise di togliersi la vita. Seguirono non solo una indagine della Procura, tesa a scoprire chi fosse il responsabile della divulgazione di tali immagini, ma anche una polemica sull’uso di Whatsapp e di internet a fini scandalistici. Personalmente anche in tivù, durante il programma “Porta a porta” condotto da Bruno Vespa, ebbi a dire che la signorina avesse sbagliato a inviare a quattro amici il documento fotografico dei suoi svaghi erotici, sottovalutando il fatto che poi, inevitabilmente, sarebbero stati gettati in pasto a migliaia di persone. Le mie dichiarazioni suscitarono un vespaio, neanche avessi bestemmiato in chiesa durante il Santus. E invece l’inchiesta della magistratura non mi ha dato torto, come si evince dalla circostanza che i quattro amici della giovane donna non saranno perseguiti, essendo stata chiesta l’archiviazione del procedimento nei loro confronti. Il che significa che Tiziana avesse inviato loro spontaneamente le immagini malandrine, sottovalutando l’impatto che esse avrebbero avuto sui navigatori abituali della rete. Senza entrare nei dettagli delle relazioni avute dalla signorina col fidanzato o altri soggetti, c’è solo da aggiungere che tutta la vicenda si sarebbe sviluppata, sino alla tragica conclusione, con il consenso di tutti i partecipanti alla medesima. Nulla sarebbe avvenuto in modo truffaldino. Di sicuro Tiziana, allorché si trovò implicata in una sorta di scandalo nazionale, fu sconvolta; si trovò in una situazione di tale imbarazzo da non riuscire a superarla. Si sentì trascinata in una brutta storia che da privata si era brevemente trasformata in oscena esibizione di elasticità morale. Il che la spinse addirittura a uccidersi. In pratica il suicidio non è stato provocato da altri se non dalla fragilità della ragazza stessa, dalla sua incapacità a reggere le conseguenze della propria carnale debolezza. Un decesso avvenuto per motivi tanto assurdi addolora, ma addolora ancora di più sapere che i cosiddetti social siano artefici e causa di tragedie evitabili solo non ricorrendo ad essi per essere protagonisti tra la gente comune. Vittorio Feltri
Vittorio Feltri sul caso di Tiziana Cantone: "Sto con Facebook, non con lei. Che cosa si aspettava?", scrive il 6 Novembre 2016 Libero Quotidiano. Ci risiamo con la storia della ragazza napoletana, Tiziana Cantone, morta suicida per un filmato da lei stessa immesso in rete. È di venerdì la notizia che Facebook è stato condannato dal tribunale per aver amplificato quel video indubbiamente hard. Immagino che il lettore non abbia capito niente in quanto disinformato dai giornalisti. La questione è molto più semplice di come è stata sommariamente narrata. Ve la racconto io senza tanti ghirigori. La fanciulla - che Dio l’abbia in gloria - una sera si lascia un po’ andare con il suo fidanzato col quale fa l’amore sotto un cielo stellato. A chi non è capitato nella vita di fare la stessa cosa? Per quel che mi riguarda ammetto di aver sempre preferito un motel alla camporella o alla strada, ma questo non muta il discorso che mi accingo a fare. Tiziana non si accontenta di congiungersi con l’uomo che al momento desidera. Nossignori. È talmente contenta di abbracciarsi a lui che sente l’esigenza di registrare con la telecamera del cellulare il momento culminante del suo piacere. Su questo punto vale la pena di soffermarsi. Suppongo che anche al lettore piaccia o sia piaciuto scopare con una bella ragazza, così come a una ragazza sia piaciuto scopare con un bel giovanotto. Non c’è niente di strano. Fin qui siamo nella norma e non c’è da discutere. Ciò che invece sorprende è che Tiziana non si sia limitata a fare quello che fanno tutti se ne hanno l’opportunità, ma abbia pensato di filmare il proprio intimo rapporto col fidanzato. A chi di voi sarebbe passato per la mente di compiere simile operazione mentre si accingeva a raggiungere l’orgasmo? A nessuno, suppongo. Solo una povera guagliona fuori di testa, invece di godersi in santa pace i frutti mica tanto proibiti della propria relazione, poteva avere l’idea di immortalare in un filmino la descritta situazione erotica. Non solo. Ella, a esercizio ultimato, si è presa la briga di divulgare il pornovideo, inviandolo non a un amico, ma a otto amici otto. Da quando in qua una signorina che l’ha data al moroso documenta la performance e ne rende partecipe un gruppo cospicuo di conoscenti? Mi sembra quantomeno inusuale. Allorché Tiziana si è resa conto che, una volta gettata in rete, la sua scopata è diventata virale su Facebook, si è disperata e ha deciso di morire. Ma benedetta donna, cosa ti aspettavi dal tuo imprudente gesto? Che ti assegnassero il Nobel? Ovvio che almeno uno degli otto individui a cui avevi inoltrato il film ne facesse uso gettandolo in rete e sputtanandoti alla grande. Non c’è niente di più riservato di un contatto sessuale, ma se tu stessa lo rendi pubblico, poi non hai il diritto di lagnartene. Chi è causa del proprio male pianga se stesso, ma eviti di uccidersi tentando di trasformarsi in vittima. È solamente uno sprovveduto che fa pena non perché ha scopato, bensì perché ha fatto di tutto per dirlo a tutti. E ci è riuscito. Che colpa ne ha Facebook che è un registro su cui ciascuno annota quel che gli garba? Vittorio Feltri
Pace all’anima di Tiziana, ma non fatene una bandiera contro il maschilismo, scrive Adriano Scianca il 14 Settembre 2016 su ilprimatonazionale.it. Primo, non giudicare. Non giudicare i motivi per cui una ragazza finisca a compiere atti sessuali di fronte a un telefonino per almeno sei volte, non giudicare l’uso che poi di tali filmati essa stessa per prima ha fatto, non giudicare i tormenti, le ansie e le sofferenze da lei patite quando quella vendetta privata è diventata tormentone pubblico, fino a spingere l’interessata a togliersi la vita. Non giudicare, d’accordo, a patto che la sospensione del giudizio valga anche per la sociologia d’accatto che sulla triste storia di Tiziana Cantone sta serpeggiando in queste ore. Neanche a dirlo, si ricomincia con il processo al maschilismo, al sessismo e chi più ne ha più ne metta. E allora no, perché se di dramma privato si tratta, allora si recitino le preghiere e la si chiuda qui. Se invece se ne vogliono trarre conclusioni sociali o persino politiche (quanto tempo passerà prima che qualcuno dica “Voi che vi scandalizzavate per i fatti di Colonia avete ucciso Tiziana”?), allora, purtroppo, si è costretti a vederci più chiaro, in questa storia squallida e tragica. Ricapitoliamo: secondo il pronunciamento del giudice che ha ordinato la rimozione da Facebook dei contenuti che la riguardavano, la storia di Tiziana si è svolta così: tempo fa la giovane ha “effettuato volontariamente” video che la ritraevano durante “il compimento di atti sessuali” e in seguito ha inviato quelle clip, in totale sei, “a cinque persone con cui intratteneva una corrispondenza telematica”, quindi su social network e Whatsapp. Nei video in questione, oltre agli atti sessuali, si svolgono anche surreali dialoghi in cui viene preso di mira il fidanzato di lei, definito “cornuto” e umiliato in ogni modo. Si è trattato, insomma, di un revenge porn al contrario. Poi, però, qualcuno di quella ristretta cerchia di “amici” (un bell’infame, comunque) mette il video on line, che diventa virale e ora umilia lei. Il sogno impossibile di una viralità controllata e limitata viene infranto da una diffusione globale e senza limiti. La vendetta privata diventa un boomerang e si abbatte, con forza mille volte più potente, contro l’artefice della bravata. Dopodiché possiamo solo immaginare cosa abbia vissuto Tiziana: non solo nome e volto sbattuto in migliaia di articoli, pagine facebook, servizi televisivi, ma chissà quanti spiritosi che la sono andata a cercare a casa, al lavoro, chissà quante battute per strada. Un inferno. Nel quale, però, Tiziana ha sfortunatamente fatto molto per finire da sola. Il che non vuol dire che “se l’è meritato”, anche perché la conclusione terribile della vicenda azzera ogni ragionamento simile, tanto è sproporzionata. Non si tratta si emettere giudizi morali, ma di inquadrare la vicenda per quello che è: la storia triste e un po’ squallida di una persona che ha giocato con il suo corpo, con i sentimenti altrui e con le dinamiche della comunicazione postmoderna e ne è rimasta schiacciata. Pace all’anima sua e paghi chi deve pagare. Ma non provate a mettere un’intera società sul banco degli imputati. Non c’entra niente e fate pure una figuraccia. Adriano Scianca
IL MEA CULPA DEI MEDIA.
Tiziana Cantone: il caso sul web, il suicidio e le nostre negligenze, scrive Peter Gomez il 14 settembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Ilfattoquotidiano.it, al pari di molte altre testate e siti online, si è comportato in maniera gravemente negligente sul caso di Tiziana Cantone, la ragazza di Napoli che si è suicidata dopo la diffusione sui social network di una serie di suoi video hard. Nella primavera del 2015, quando Tiziana era già diventata suo malgrado una star del web, anche il web-giornale che dirigo ha pubblicato un pezzo sul suo caso. Un articolo che dava conto del fenomeno esploso intorno al suo nome. Nel pezzo si raccontava come venissero vendute magliette che riportavano una frase da lei pronunciata, si parlava dei gruppi Facebook a lei dedicati, delle parodie e dei tanti video satirici che spopolavano su YouTube. Sbagliando avevamo trattato la cosa come una sorta di fenomeno di costume e avevamo come altri ipotizzato che la vicenda potesse essere un’operazione di marketing in vista del lancio di una nuova attrice. L’errore commesso è evidente e innegabile. Non eravamo davanti a un caso di costume, ma un caso di cronaca che come tale andava trattato e approfondito per poi avere in mano elementi sufficienti per decidere se pubblicare o meno. Detto in altre parole non ci saremmo dovuti accontentare del fatto che la povera Tiziana fosse introvabile, ma avremmo dovuto chiedere ai nostri collaboratori di cercare i suoi amici e familiari per capire cosa era realmente accaduto. E credo che se avessimo fatto fino in fondo il nostro mestiere quel pezzo del 2015 non sarebbe mai finito in pagina. La scorsa settimana un giudice, su richiesta dei legali della ragazza, ha ordinato di rimuovere i contenuti su Tiziana a Facebook, Google, Yahoo e YouTube e a due giornali online che avevano anche ripreso i suoi video. In seguito alla notizia della sentenza – che a noi era francamente sfuggita – nei giorni successivi centinaia tra siti e testate online hanno cancellato quello che in quella primavera avevano scritto. Ieri notte poi, dopo la morte della giovane donna, da internet sono sparite altre centinaia di migliaia di pagine. Alcuni quotidiani hanno oggi ipotizzato che il suicidio sia stato deciso dalla ragazza per lo sconforto di vedere nuovamente la sua storia riprendere vigore in Rete in seguito alla notizia della sentenza. Non sappiamo come siano andate le cose. E davanti alla tragedia non crediamo che sia nemmeno importante capirlo. È giusto e doloroso dire però che anche noi abbiamo avuto una parte, sia pur piccola, in questo misfatto compiuto dal web. Poco importa che senza il nostro pezzo del 2015 le cose non sarebbero cambiate di una virgola. Quanto accaduto non può e non deve essere risolto con la semplice cancellazione di ciò che era stato scritto. Impone una riflessione, già iniziata, su quello che possiamo fare qui a ilfattoquotidiano.it. Anche davanti a storie e vicende già pubblicate da altri o già conosciute tramite i social da milioni di persone, il nostro giornale online deve riflettere dieci minuti di più prima di commentare o raccontare. Non per dare lezioni a nessuno (che evidentemente mai come in questo caso non siamo in grado di dare), ma per poter dire a noi stessi che abbiamo fatto fino in fondo, con correttezza, il nostro dovere. Ogni giorno pubblichiamo più di 120 contenuti. A ciascuno di essi dobbiamo dare la medesima cura. E se non siamo in grado di farlo, a causa del super-lavoro, dobbiamo non pubblicare. Il dibattito, che come sempre in questi casi, si è aperto sulla forza distruttrice dei social è senza dubbio importante. Così come sono importanti tutte le raccomandazioni ripetute agli utenti sugli enormi rischi legati alla diffusione di filmati e immagini potenzialmente imbarazzanti. Ma oggi è il caso che qui si parli di noi, delle nostre responsabilità e delle nostre manchevolezze. Questo solo mi sento di dire a chi ci legge, convinto che ogni altra parola sia di troppo.
Tiziana Cantone: quando gli sciacalli si riscoprono moralisti, scrive Stefano Casagrande il 15 settembre 2016. All’indomani del suicidio di Tiziana Cantone sul banco degli imputati ci sono due categorie. Gli uomini (tanto per non generalizzare, ne abbiamo già parlato qui) e i social media. O più generalmente “il popolo del web”, termine che personalmente ritengo un abominio ma è tanto caro ai giornalisti mainstream. Qualcuno s’è addirittura spinto indicando quali sono le pagine Facebook che avrebbero spinto Tiziana all’insano gesto, indicando nomi e cognomi degli admin. Ora, intendiamoci: esistono pagine Facebook che hanno la potenzialità di creare veri e propri tormentoni giovanili (Escile, Andiamo a comandare, Ti ammazzo ucciso e amenità varie) ed esistono collegati a queste pagine gruppi più o meno nascosti dove i fan si ritrovano per discutere e lanciare le nuove mode. Ma il loro ruolo (che esiste, sia ben chiaro) è minoritario nella gestione e nell’esplosione di fenomeni di costume. Lo stesso “Andiamo a comandare” ne è un esempio: nato in una di queste pagine Facebook come “tormentone” allegato a qualche immagine è arrivato al successo nazionale solo tramite una canzone prodotta da Fedez, cantante “nazionalpopolare” e giudice di X Factor. Non propriamente un fenomeno underground. La stessa cosa per il video di Tiziana Cantone. La sua viralità è cominciata con l’arrivo del video in una di queste pagine stile Mad Magazine (o come direbbe qualcuno meno attempato: 4Chan)? Sì, probabile. Ma la sua esplosione non è stata causata dal “popolo del web” ma dai media ufficiali. Quelli bravi e responsabili. Elisa D’Ospina, giornalista de Il Fatto Quotidiano, aveva scritto un articolo dove il video veniva indicato come possibile azione di “marketing di una futura pornostar”. Ora la stessa twitta addolorata “La storia di #TizianaCantone è l’esempio di quanto in fondo siamo schiavi del giudizio altrui e mai realmente liberi”. Radio Deejay, terza radio più ascoltata a livello nazionale, aveva fatto diventare parte del video un jingle per “Deejay Chiama Italia”. E se la cava con un post di scuse talmente generiche da non dire assolutamente niente. FanPage, il cui direttore da 24 ore non riesce a twittare altro che accuse verso la metà del genere umano di cui fa parte, aveva dedicato più articoli al fenomeno con descrizioni morbose del video, video pixellati e titoli inquietanti come “Napoli, dopo il video hard su Whatsapp è “caccia” ai due amanti focosi”. In un momento dove l’informazione “tradizionale” rincorre i fenomeni web e concede loro una vetrina nazionale per non bucare nessuna news e recuperare ogni singolo click dove inizia la colpa del “popolo del web” e dove quella dei media ufficiali? Stefano Casagrande
Tiziana, suicida per video hard. Oliviero Toscani: «Colpa sua, è po' fessacchiotta», scrive Giovedì 15 Settembre 2016 Il Mattino. Ancora un parere discutibile riguardo il suicidio di Tiziana Cantone. «Non voglio insultarla, ma è un pò fessa, una fessacchiotta. Fai una roba così importante tanto che poi ti sei uccisa, e lo fai in modo così superficiale?». È il commento choc del fotografo Oliviero Toscani sul caso della ragazza suicida per i suoi video hot diffusi in rete. «È colpa sua, solamente sua», è l'affondo di Toscani. «Fai un video e lo mandi in giro. Lo fai per farlo vedere. L'ha mandato agli amici, ma quando va in giro va in giro. Diventa pubblico. Certo, aveva degli amici del cazzo». «I cretini - ha detto ancora Toscani - sono in ordine alfabetico su Facebook, ma quella ragazza sapeva quello che faceva. Viviamo di comunicazione. Non puoi fare qualcosa del genere e poi stupirti, e ammazzarti. Le parodie le devi saper accettare». «Devi sapere che può accadere - ha aggiunto - non puoi deprimerti. Altrimenti sei un fesso. Se fai un video e lo dai a un amico fai una cosa pubblica. Ha fatto sesso e poi l'ha mandato in giro. Le andava bene che qualcuno vedesse. Se hai fatto un video è già una cosa pubblica, non rimane solo in tuo possesso». Il fotografo non è nuovo a prese di posizioni provocatorie, che in alcuni casi gli sono costate anche delle querele, come quando definì i veneti «un popolo di ubriaconi, alcolizzati atavici» (il processo è finito con un'archiviazione). Ma sono state soprattutto le sue foto, usate per le campagne pubblicitarie o come manifesti di film (per 'Amen' di Costa Gavras trasformò una croce cattolica nella svastica nazista), a fare «scandalo». I casi sono numerosissimi. Basti citare il fotomontaggio (per una campagna Benetton) che ritraeva il bacio tra Benedetto XVI e l'imam di Al-Azhar, e quello tra Obama e il presidente cinese Hu Jintao: un caso che fece infuriare tutti, dalla Sante Sede alla Casa Bianca.
TIZIANA, SUICIDA PER VIDEO HARD: TOSCANI SHOCK, "È UN PO' FESSACCHIOTTA". Scrive Giovedì 15 Settembre 2016 “Leggo”. Ancora un parere discutibile riguardo il suicidio di Tiziana Cantone. «Non voglio insultarla, ma è un pò fessa, una fessacchiotta. Fai una roba così importante tanto che poi ti sei uccisa, e lo fai in modo così superficiale?». È il commento choc del fotografo Oliviero Toscani sul caso della ragazza suicida per i suoi video hot diffusi in rete. «È colpa sua, solamente sua», è l'affondo di Toscani. «Fai un video e lo mandi in giro. Lo fai per farlo vedere. L'ha mandato agli amici, ma quando va in giro va in giro. Diventa pubblico. Certo, aveva degli amici del cazzo». «I cretini - ha detto ancora Toscani - sono in ordine alfabetico su Facebook, ma quella ragazza sapeva quello che faceva. Viviamo di comunicazione. Non puoi fare qualcosa del genere e poi stupirti, e ammazzarti. Le parodie le devi saper accettare». «Devi sapere che può accadere - ha aggiunto - non puoi deprimerti. Altrimenti sei un fesso. Se fai un video e lo dai a un amico fai una cosa pubblica. Ha fatto sesso e poi l'ha mandato in giro. Le andava bene che qualcuno vedesse. Se hai fatto un video è già una cosa pubblica, non rimane solo in tuo possesso». Il fotografo non è nuovo a prese di posizioni provocatorie, che in alcuni casi gli sono costate anche delle querele, come quando definì i veneti «un popolo di ubriaconi, alcolizzati atavici» (il processo è finito con un'archiviazione). Ma sono state soprattutto le sue foto, usate per le campagne pubblicitarie o come manifesti di film (per Amen di Costa Gavras trasformò una croce cattolica nella svastica nazista), a fare «scandalo». I casi sono numerosissimi. Basti citare il fotomontaggio (per una campagna Benetton) che ritraeva il bacio tra Benedetto XVI e l'imam di Al-Azhar, e quello tra Obama e il presidente cinese Hu Jintao: un caso che fece infuriare tutti, dalla Sante Sede alla Casa Bianca.
Consigliere PD attacca Tiziana Cantone: “Cercava notorietà, non era una santa”. Walter Caputo, consigliere del PD a Torino, ha scritto su Facebook: "Lei era consapevole del tutto. Forse si aspettava altri riscontri come una certa notorietà. Dispiace per la sua morte, ma non era di certo una santa", scrive "FanPage" il 15 settembre 2016. Sta facendo discutere l'affermazione fatta da Walter Caputo, consigliere per il Pd alla circoscrizione 4 di Torino, che ha deciso di dire la sua sulla vicenda sul suicidio di Tiziana Cantone, la ragazza che si è tolta la vita dopo che filmati in atteggiamenti intimi che la immortalavano sono stati diffusi sul web. Secondo il democratico "lei era consapevole del tutto. Forse si aspettava altri riscontri come una certa notorietà. Dispiace per la sua morte, ma non era di certo una santa".
Tiziana Cantone, anche i vip scherzarono sul video hard, scrive Veronica Cursi il 14 Settembre 2016 “Il Gazzettino”. «Stai facendo un video? Bravo»: quel tormentone che era passato di social in social, che aveva macinato migliaia di click e che si è trasformato in una trappola mortale per Tiziana Cantone, la ragazza di 31 anni che si è suicidata ieri per la vergogna di un suo video hard circolato in rete, aveva contagiato anche qualche vip. Su Youtube tra decine di parodie, fotomontaggi, spuntano infatti ben due video postati circa 8 mesi fa: protagonisti sono due calciatori Paolo Cannavaro e Floro Flores. Nel primo filmato parodia si vede l'attaccante del Chievo dentro un supermercato mentre si domanda: «Ma dove sta che non riesco a trovarlo?». Poi il telefonino riprende Cannavaro accovacciato vicino ad alcuni succhi di frutta: «Paolo ma dov'eri?», domanda Flores e lui risponde: «Ma stai facendo un video? Bravo», mostrando il contenitore del succo di frutta, la cui marca si chiama appunto "Bravo". Nel secondo filmato invece la coppia Cannavaro-Flores è stesa su due letti. Cannavaro guarda in camera sotto le lenzuola e dice: «Stai facendo un video? Bravo». Risate, imitazioni, prese in giro. Come tante, troppe, finite sul web. Video che ancora oggi, dopo la sua morte, circolano liberamente in rete. Tiziana era diventata un "fenomeno" a sua insaputa. Era diventata famosa. Lei che in realtà aveva cambiato nome, città, lavoro, lei che avrebbe fatto di tutto pur di scomparire per sempre. E alla fine, purtroppo, ci è riuscita.
"L'ha rimosso subito il vigliacco": Lucarelli contro chi insulta Tiziana. Selvaggia Lucarelli non ci sta e dalla sua pagina facebook smaschera un musicista dell'orchestra sinfonica di Salerno: "Spero che la famiglia di Tiziana lo denunci", scrive Marta Proietti, Mercoledì 14/09/2016, su "Il Giornale". Gli insulti nei confronti di Tiziana, la 31enne campana che si è suicidata ieri sera dopo essere diventata famosa sui social per un video hot, non si placano neanche dopo la sua morte. Selvaggia Lucarelli non ci sta e pubblica sulla sua pagina facebook il commento di un musicista membro dell'orchestra sinfonica di Salerno: "Ti è piaciuto zocciliare e farti guardare?!?Adesso non ti resta che da un foulard penzolare...stai facendo il video?!? Brava...ahahahahah Spero che da domani tutte quelle come lei facciano la stessa fine!!! Tutte da un foulard a penzolare!!!". Immediata la risposta di Selvaggia: "Caro Antonio Leaf Foglia, visto che godi del suicidio di una ragazza (anzi, di una troia come la definisci più volte nei commenti) e visto che sei anche un musicista presso l'orchestra sinfonica a Salerno e non solo per cui immagino che un po' di popolarità non ti dispiaccia, eccoti servito! Ti regalo un giorno da "Tiziana Cantone". Sperimenta sulla tua pelle come ci si sente ad essere lo zimbello o la merda del giorno suo web. Stai facendo il video? Bravo! Ps: spero che la famiglia di Tiziana lo denunci". L'uomo ha subito cancellato il post ma, si sa, sul web è inutile. Qualcuno l'ha già letto e fotografato. E così la Lucarelli affonda il coltello: "L'ha rimosso in 10 minuti il vigliacco. Troppo tardi Antó. E chiudi la bacheca la prossima volta se non vuoi condivisioni ai tuoi status. Intanto sperimenterai due cose: a) sul web tutto resta. Specie quando si tengono le bacheche aperte come la tua B) quello che scrivi qui ha delle conseguenze. Le ha avute per Tiziana. Spero che l'orchestra sinfonica di Salerno si vergogni, come dovrebbe essere in memoria di Tiziana e per rispetto di tutte le donne, di averti tra i suoi musicisti, così una piccola conseguenza tocca pure a te. Spero che si vergogni la curva del Salerno calcio ad ospitarti allo stadio. E che anziché suonare in un tributo a Vasco da ora in poi, al massimo, ti facciano suonare in un tributo a Tiziana".
TIZIANA CANTONE NON L’ABBIAMO AMMAZZATA NOI, scrive Flavia Piccinni il 14 settembre 2016. Questa mattina non avevo idea di chi fosse Tiziana Cantone, e ancora adesso non l’ho ben capito. Tiziana Cantone come ce la raccontano oggi i giornali è una ragazza campana di 31 anni protagonista di quattro video pornografici amatoriali, che dopo la loro diffusione ha ricevuto migliaia di offese, è stata investita da parodie, ha lasciato il suo paese di provincia e il ristorante dei genitori dove lavorava per cercare una nuova vita e una nuova identità in Toscana. Di Tiziana Cantone non sappiamo niente altro. Non abbiamo idea di chi fosse. Non abbiamo idea nemmeno di quella lunga sfilza di idiozie che costruiscono l’empatia: non conosciamo quale fosse il suo piatto preferito, cosa amasse guardare in televisione, se le piacesse il cinema o la musica. Sappiamo che ha fatto del sesso (e chi non lo fa?) e che è stata ripresa, sbattuta online senza il suo consenso, trattata come merce di scambio e come oggetto di irrisione. Bullismo. Vittima. Diritto all’oblio. Privacy online. Mancanza di privacy online. Italia bigotta. Italia assassina. I killer siamo noi. No, i killer sono quegli uomini bastardi: quelli che hanno messo il video online, quelli che l’hanno guardato, quelli che l’hanno condiviso, quelli che l’hanno parodiato. Facciamo tutti sesso e video fino a quando non perdano significato. Se lo meritava. Non se lo meritava. Regaliamo più foulard alle troie. Un fiume di parole ci ha sommerso. Abbiamo tutti cercato il video, alcuni l’hanno trovato, altri non l’hanno comunque guardato. Abbiamo tutti pensato che una cosa del genere non ci potrà mai accadere, perché noi siamo troppo per bene. E abbiamo pensato che non è giusto giudicare, giudicando. Tiziana Cantone si è ammazzata per essere lasciata in pace. Si è ammazzata per mettere la parola fine a quel “Stai facendo un video? Bravoh!” che invece continuerà a rappresentarla per sempre. Insieme ai frame che la immortalano con gli occhi bassi, le labbra umide, l’aria eccitata. Tiziana Cantone distesa su un divano. Tiziana Cantone immortalata nella sua vita privata, che diventa pubblica per un sinistro e perverso gioco moderno. Almeno, facciamole un favore: evitiamo di scandalizzarci, smettiamo di essere ridicolmente puritani. Ipocriti. Tiziana Cantone ha rinunciato a lottare, stremata, quando è stata ritenuta consenziente (dobbiamo ancora capire di cosa) e condannata a pagare 20mila euro per le spese processuali ai motori di ricerca che aveva portato in tribunale. Adesso tocca a noi prendere il testimone. Fare in modo che il diritto a fare sesso con chi vogliamo, a essere protagoniste di video pornografici, a venire dimenticate e ancora a vestirci come vogliamo, a praticare fellatio a chi crediamo, a tradire e ad amare diventino una realtà anche nel nostro bigotto Paese. Dentro questa storia c’è tutta la nostra insicurezza di persone. La nostra necessità di sentirci meglio degli altri. Il nostro bisogno di giudicare. Eppure, fino a quando non capiremo che tipo di persone vogliamo essere, che tipo di Paese vogliamo costruire, non potremo dire che Tiziana Cantone siamo noi. Fino a quando giudicheremo un video rubato, le fotografie della nostra vicina di casa in biancheria intima, una coppia che fa sesso, due uomini che si baciano, due donne che si baciano saremo soltanto la fotografia in bianco e nero di quello che l’Italia nel 2016 dovrebbe essere: un Paese libero, non giudicante, aperto all’amore e alle forme di espressione sessuale di ognuno. Il sociologo del web: «Gli unici anticorpi della rete siamo noi».
Il legale giuridico di Di Maio sul copyright è lo stesso che ha difeso Facebook nel caso Tiziana Cantone, scrive Enzo Boldi il 24/02/2019 su giornalettismo.com. Nel team scelto da Luigi Di Maio compare anche il nome dell'avvocato Marco Bellezza. Si tratta di un legale che ha curato le difese di Facebook in due processi delicati, tra cui quello sulla morte di Tiziana Cantone. A lui è stata affidata la cura del dossier che ha spinto l'Italia a votare contro la riforma del copyright. Come può un avvocato che ha difeso Facebook in molte occasioni diventare un consigliere per le comunicazioni e l’innovazione digitale e gestire per l’Italia il dossier sulla riforma del copyright – che penalizzerebbe moltissimo il social network diMark Zuckerberg – senza pensare che ci sia un conflitto d’interessi? La domanda legittima è stata posta dal giornalista Luciano Capone in un suo articolo per Il Foglio, nel quale approfondisce il ruolo dell’avvocato Marco Bellezza all’interno della squadra di governo. Come si legge anche dal suo profilo Linkedin, il legale italiano ricopre il ruolo di Consigliere giuridico del Vice Presidente del Consiglio dei Ministri Luigi Di Maio. Un incarico ricevuto lo scorso luglio e che porta avanti da otto mesi, con uno stipendio di 100mila euro all’anno. A fare rumore, però, non è la sua scelta – legittima -, ma il suo ruolo all’interno di una questione molto delicata che coinvolge tutta Europa: la riforma del regolamento sul copyright per i giganti del web e i social network. Come riporta Luciano Capone – con Il Foglio che già in passato aveva curato alcuni approfondimenti sulla figura di Marco Bellezza -, l’avvocato in molte occasioni è stato il rappresentante legale di Facebook in alcune cause abbastanza delicate. La più emblematica è quella sul famoso caso di revenge porn che ha colpito la giovane Tiziana Cantone, morta suicida dopo la pubblicazione di alcuni suoi filmati a sfondo sessuale e la loro condivisione attraverso i social. Ma non c’è solo questo caso. L’avvocato Bellezza ha, infatti, preso le parti dell’azienda di Zuckerberg (era nel collegio difensivo) nella causa mossa contro di lui dalla start-up italiana Business Competence che accusava il social di essersi appropriato di un’app inventata da loro. In entrambi i causi è arrivata una condanna. Due casi emblematici nei quali Marco Bellezza è stato in prima linea per difendere gli interessi di Facebook. Cosa che sembrerebbe continuare a fare anche ora che si trova nella squadra del ministro e vicepremier Luigi Di Maio, dato che a lui è stato affidato il dossier sulla legge sul Copyright. Una vicenda che si è chiusa – momentaneamente – con il parere negativo del governo italiano sulla riforma comunitaria che ha come obiettivo quello di dare responsabilità ai giganti del web (Facebook ovviamente compreso) per le condivisioni avvenute sulle loro piattaforme. L’Italia ha deciso di schierarsi a fianco che Big. Forse, ora, sappiamo il perché.
· Gli Uomini vanno rieducati…
Chimamanda Ngozi Adichie «Maschi liberatevi dall’ego». Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 da Luca Mastrantonio su Corriere.it. Sul magazine l’incontro con la scrittrice nigeriana. Un ‘intervista a Sandro Veronesi e il racconto della serie tv sullo stupro. Il femminismo senza gli uomini è una rivoluzione a metà: “Se non cambiano anche loro, nulla cambierà davvero”. Parola di Chimamanda Ngozi Adichie, autrice nigeriana di best-seller come Americanah e saggi quali Dovremmo essere tutti femministi, che ha lasciato il segno anche nel mondo del pop e della moda, da Beyoncé a Dior. La scrittrice sarà a Milano il 16 novembre per il premio speciale Afriche, in occasione di BookCity, mentre e a inizio 2020 uscirà da Einaudi, editore italiano delle sue opere, il saggio I pericolo di una singola storia. Conversando con 7 l’autrice, che vive tra gli Usa e la Nigeria, mette a nudo le emozioni più personali, le lacrime di rabbia, di gioia, la felicità di fare la terapeuta al telefono per le amiche (serve silenzio, molto ascolto e una massimo due domande semplici). «Molte cose di cui le donne si lamentano – sostiene Chimamanda –, gli uomini le fanno perché hanno paura di provare vergogna davanti ad altri uomini. Dobbiamo dare agli uomini gli strumenti per esprimere le emozioni, per liberarsi dall’ego, dalla performance pensata per altri uomini, e diventare più fedeli a se stessi emotivamente». «Perdonare un tradimento? È una scelta femminista – continua l’autrice – a patto di farsi una domanda: a parti invertite, cioè se a tradire fosse lei, lui la perdonerebbe? Se la risposta è sì, restare assieme è femminista». La violenza sulle donne? «Gli uomini non possono essere ridotti a quelli violenti, né il femminismo alle estremiste che odiano gli uomini». Nel romanzo Americanah i personaggi discutono sulla possibilità di usare o meno la parola “negro”: «Non andrebbe usata da chi non è nero – sostiene la scrittrice – ma dire di toglierla dai libri perché può traumatizzare un lettore è sbagliato, perché così si infantilizzano le persone». «L’ultima volta che ho pianto? Di rabbia, qualche giorno fa. E di gioia – confessa Chimamanda –quando ho visto una foto dei miei genitori, che dopo tanti anni stanno ancora assieme. Mi ha riempito di gratitudine ma anche resa consapevole della mortalità». Del lutto per la morte dei genitori e del ruolo salvifico delle donne, protagoniste del nuovo romanzo Il Colibrì (La nave di Teseo), parla Sandro Veronesi intervistato da Teresa Ciabatti: «Dopo la morte di mia madre mi sono comprato una Alfa Romeo con tutti gli optional». La moglie? «Mi ha tirato fuori dalla pozzanghera, trascinandomi in un viaggio in America». A spizzarlo, è la figlia: «Non mi dà il tempo di abbracciarla, mi anticipa. Il suo è un accudimento attivo, diverso da quelli dei maschi». Nella sezione esteri, Irene Soave racconta il segreto dei bimbi perduti degli Iinuit, costretti dalle autorità canadesi a un percorso scolastico individualista che snatura l’identità collettiva del popolo. Elena Tebano, invece, racconta Unbelievable, serie Netflix che mette a nudo la “vittimizzazione secondaria”, per cui i meccanismi giudiziari invece di difendere la donna che ha subito violenza, amplificano la violenza stessa.
La scrittrice Adichie: «Il femminismo? Senza uomini è una rivoluzione a metà». Pubblicato giovedì, 31 ottobre 2019 su Corriere.it da Luca Mastrantonio. L’autrice nigeriana che ha ispirato Beyoncé. La scrittrice Chimamanda Ngozi Adichie. Vive tra la Nigeria e gli Stati Uniti. Tra i suoi libri più noti, «Americanah». Uno dei punti di forza degli stereotipi è che sono meno falsi di quanto sostengono i loro critici. Il vero problema è che sono incompleti, e ci offrono una visione parziale, falsata, della realtà. Sono un pericolo. La scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie lo chiama «il pericolo di un’unica storia», cioè del pensiero quando diventa unico. Un esempio? «A Guadalajara, in Messico, osservavo la gente andare a lavoro, fumare, ridere, e mi sono sorpresa, poi vergognata, di vederli solo come immigrati», ha raccontato la scrittrice che vive tra gli Usa e la Nigeria. Lo stereotipo funziona così: trasforma un pezzo di verità, «gran parte degli immigrati sono messicani», nell’unica verità, «tutti i messicani sono immigrati». Come il potere usa gli stereotipi è il tema di una sua TED Conference vista online da 20 milioni di persone. Racconta gli errori, gli sforzi e la bellezza di scoprire altre voci, tra cui la propria. Il pericolo di un’unica storia a inizio 2020 uscirà in volume, per Einaudi, che ha già pubblicato i romanzi, bestseller pluripremiati, tra cui Americanah, e i saggi, tra cui Dovremmo essere tutti femministi, le cui parole sono finite sulle magliette Dior e in una canzone di Beyoncé, Flawless. A Milano per BookCity Chimamanda riceverà il premio «Afriche». Ha parlato con 7 al telefono, da Lagos, in Nigeria.
Qual è oggi l’orizzonte prioritario del femminismo?
«Intendi per gli uomini? O per le donne? Il punto centrale del femminismo è che uomini e donne sono diversi e queste differenze sono state la base per l’oppressione. Uno dei maggiori problemi riguarda la comunicazione tra uomini e donne: in generale le donne hanno molta più familiarità con gli uomini rispetto agli uomini con le donne. Vale anche in letteratura: le donne hanno bisogno degli uomini, ma in generale gli uomini non hanno bisogno delle donne. Così gli uomini ascoltano gli uomini, meno le donne».
Ragioniamo per stereotipi. Che sono veri, ma incompleti. Come completiamo questa storia?
«Bisogna dare a voi uomini gli strumenti per esprimere le emozioni. Molto lavoro deve essere fatto dagli uomini, tra gli uomini, con gli uomini. Molte cose di cui le donne si lamentano, gli uomini le fanno perché hanno paura di provare vergogna davanti ad altri uomini. Molta mascolinità è performance per altri uomini, non per le donne. Il femminismo deve occuparsi di ragazze e donne, perché soffrono di più per l’oppressione. Ma dobbiamo parlare anche di ragazzi e uomini, perché possiamo cambiare le donne quanto vogliamo, ma se gli uomini non cambiano, nulla cambia. Per questo dobbiamo essere tutti femministi. Un mondo senza questa oppressione, è una vittoria per tutti, a prescindere che tu sia uomo o donna».
Strumento prelinguistico per esprimere emozioni è il pianto. Lei dice che bisogna educare noi uomini al pianto. Penso a Julio Cortázar che in «Storie di cronopios e di famas» ha scritto «Istruzioni per piangere».
«Funziona? Ti è servito?».
Ho pianto meglio, suggerisce pure come soffiare il naso.
«Quando hai pianto?»
Guardando «Love story ». Il film è strappalacrime e l’attore è Ryan O’Neal: cioè, per me, è il Barry Lyndon del film di Kubrick. Ricorda l’ultima volta che ha pianto?
«Per una buona ragione o cattiva? Sono nota per piangere quando sono arrabbiata. Giorni fa mi sono infuriata, e poi ritrovata in lacrime».
Spesso la rabbia rischia di diventare odio. Il femminismo a volte sembra odio verso i maschi.
«Il problema è che quando le donne mostrano rabbia, gli uomini la leggono come odio verso di loro. C’è un livello di rabbia giustificata, che le donne sentono che dovrebbe essere permesso loro di provare. Guardiamo le statistiche della violenza sessuale: ho incontrato donne che lavorano nei rifugi per stupro, e le ho viste piene di rabbia, e lo capisco. Alcune femministe ritengono non sia loro responsabilità far sentire meglio gli uomini in un sistema oppressivo verso le donne. Parlare della rabbia delle donne non dovrebbe essere letto come odiare gli uomini, perché ovviamente non tutti gli uomini sono violenti ma certo sono gli uomini a fare violenza. E perché se parli agli uomini di femminismo, subito diventano molto difensivi? Gli uomini non possono essere ridotti a quelli che fanno violenza sulle donne né il femminismo alle estremiste che odiano gli uomini».
Ho visto su Instagram che è stata alla Whitechapel di Londra per la mostra di Anna Maria Maiolino, «Making Love Revolutionary». L’amore tornerà rivoluzionario?
«Cos’è l’amore rivoluzionario?»
Forse un sentimento che cambia le cose, lo status quo? L’odio è violento ma non sempre rivoluzionario, spesso è reazionario. L’amore invece è rivoluzione.
«Il discorso politico è focalizzato sul risentimento, l’antipatia, perché è più facile pensare ciò che non siamo rispetto a ciò che siamo. Mi spezza il cuore vedere come il mondo sta andando a destra, puntando a escludere altre persone».
La parola “amore” cosa le suscita, cosa le fa venire in mente?
«Famiglia, amici, tolleranza, pazienza. Spesso dico che le persone hanno bisogno dell’amore tanto quanto del cibo. L’amore è come il cibo. Secondo me non è un’opzione con cui convivere, è necessario».
Tornando ai pianti, felici questa volta: un suo pianto di gioia?
«Per una foto dei miei genitori; mio fratello era andato a trovarli nella nostra città, e ci ha inviato una foto dove mio padre ride. Era in piedi, nel salotto di casa nostra, e mia madre sedeva ridendo con lui. Come ho guardato quella foto ho iniziato a piangere. Mi ha fatto pensare che sono fortunata, i miei genitori ci sono ancora, sono insieme, li adoro, adoro vederli ridere, la loro risata era incredibile e la fotocamera l’ha catturata bene. Mi ha riempito di gratitudine! Ma mi ha anche reso consapevole della mortalità. Le emozioni contrastanti fanno piangere».
Lei ha vinto premi letterari, fatto breccia nel mondo della moda, è citata nei Simpson ... Di cosa va più orgogliosa?
La copertina del romanzo «Metà di un sole giallo»«Professionalmente? Scrivere e finire Metà di un sole giallo è stato un processo profondamente emotivo, fatico ancora a crederci. Personalmente, sono orgogliosa dei legami con la mia famiglia e gli amici. Per scherzo, diciamo che sono la terapeuta di famiglia. Ho una amica che vive a Lagos e quando sta vivendo un momento difficile sono la prima persona che chiama. Una volta ero al telefono con lei da ore, per aiutarla a gestire una situazione, che a volte significa solo pazienza e ascolto, poi le ho fatto una domanda, molto semplice: “Pensi di poter definire ciò che senti?” “È rabbia, è dolore, è tristezza, ne sai il motivo?” Mi disse — e mi ha ricordato lei che le ho fatto quella domanda — che così l’avevo aiutata davvero a chiarire i suoi sentimenti. Mi sono sentita felice».
In «Cara Ijeawele», lettera ispirata da una sua amica su come crescere una bambina femminista, lei sostiene che se una donna viene tradita deve sentirsi libera di perdonare il marito, anche se per molte femministe l’unica opzione è lasciarlo. Anche perdonare, è femminista, a una condizione però: la donna deve chiedersi se a parti invertite sarebbe successo lo stesso: lui, tradito, perdonerebbe? Il ragionamento fila. Ma non è troppo speculativo?
«Certo, non si può mai essere sicuri. Le persone sono diverse e penso che tu non possa mai veramente conoscere qualcuno perfettamente. Ma se hai un certo tipo di relazione e sei con qualcuno che conosci bene, sai in cosa credere e in cosa no. Non puoi assicurarti, ma se la relazione è paritaria, lo percepisci. Se una ha una relazione e non prova risentimento, è alla pari. Non significa essere perfettamente felice, che tutto va bene, ma che non si prova risentimento, che non c’è l’impressione di dare di più emotivamente, o che l’altra persona stia compromettendo la relazione, o che si aspetta che tu perdoni lei ma tu non ti perdoni...».
Quindi il femminismo, anche per i maschi, è uno stato mentale?
«Assolutamente sì, è un modo in cui guardare il mondo. Quando il mondo sarà realmente femminista non ci sarà bisogno del femminismo. Ma non ci siamo ancora, no?».
Il problema di noi maschi, in caso di tradimento, è che ci sentiamo feriti nell’orgoglio.
«Sì. Credo sia connesso alla mascolinità. Già da ragazzi, è difficile per gli uomini essere fedeli a se stessi emotivamente. Riguarda l’ego. Questo è l’orgoglio, per i maschi è proteggere l’ego, e purtroppo proteggere l’ego diventa più importante dell’essere veri nelle emozioni, veri esseri emotivi. Così trovi uomini che prendono decisioni in base al loro ego. Devono liberarsi dall’ego».
Un buon modello di mascolinità?
«Barack Obama».
Non ne ha uno più recente?
«Ce ne sono pochi, non è colpa mia. Vediamo. Ecco. Lo scrittore Michael Ondaatje, è straordinario come scrive di donne in un modo molto così credibile, ed è anche divertente, ama bere e pensa alle donne come a un uguale essere umano. Mi piace».
Esempi negativi non mancano. Come Donald Trump...
«Non c’è bisogno di parlare di Trump. In negativo gli esempi abbondano. Penso ai nuovi leader in Brasile, in Ungheria... In sempre più Paesi c’è chi considera parlare dei problemi delle donne come fosse una moda. E lo trovo molto preoccupante. Come mi preoccupa che ci sia una specie di movimento politico per cui le donne devono essere mogli e madri che devono lasciare il lavoro per occuparsi solo dei figli».
In «Cara Ijeawele» invita le donne a non vedere il matrimonio come un traguardo, e se vogliono sposarsi, dice, non devono aspettare la proposta dell’uomo. Ha chiesto lei a suo marito la mano?
«Mio marito è un uomo adorabile, gentile, meraviglioso. Ma in realtà non voglio parlare di lui».
Altro consiglio che dà per crescere una figlia femminista è non chiamarla “principessa”, altrimenti passerà la vita a cercare il principe azzurro. Lei come chiama sua figlia?
«Non parlo della vita personale».
In «Americanah» un’amica, kenyana, della protagonista Ifemelu, sostiene che «la parola negro esiste. La gente la usa. Fa parte dell’America. Ha provocato moltissimo dolore alla gente e penso che censurarla sia un insulto». Oggi viene censurata in alcuni classici della letteratura.
«Conta il contesto. Da un lato non penso che le persone che non sono nere dovrebbero mai usare quella parola, specialmente in America, perché è da lì che proviene e ha la sua storia, è una parola che ferisce i neri. Ma dall’altro lato, dire di toglierla perché può traumatizzare un lettore è infantilizzare le persone. Non va tolta dai libri storici, non possiamo imbiancare la storia, dobbiamo fare i conti con ciò che è successo».
Passando a temi più leggeri. Tra gli stereotipi che lei combatte c’è lo scetticismo vetero-femminista verso la moda. Cosa le piace del mondo del fashion?
«Per me è un innamorarsi. So che amo qualcosa, non so dire il perché. Mi piacciono le cose innovative e insolite, i colpi di scena. Mi attira l’idea di essere leggermente non convenzionale. Non troppo anticonvenzionale, ma con un twist, una svolta. Amo le scarpe con delle scritte sopra e con i colori molto audaci. Nei vestiti mi piacciono molto le trame, adoro i vestiti che mescolano trame».
C’è qualche connessione particolare tra la scrittura e la moda?
«Come ci si veste dice qualcosa sulla persona che indossa il vestito, ma non vorrei fare troppa psicologia, non voglio essere il mio terapeuta, non voglio analizzare le mie scelte o quelle degli altri. C’è anche della finzione in come ci vestiamo».
Lei pesca a piene mani nel vissuto reale per i suoi romanzi. Cosa deve avere una storia per conquistarla?
«Mi piacciono le storie che attingono alla vita reale, al vissuto e poi si aggiunge qualcosa di immaginario. Amo le storie con una bella trama, ma senza eccessi di azione, l’importante è che succeda qualcosa, soprattutto dentro il personaggio. Amo l’introspezione, la profondità, le storie che entrano nell’anima, nei pensieri e amo le complessità del personaggio quando non vengono troppo risolte, troppo spiegate. Non amo il fantasy, la fantascienza, i libri di giornalismo, la saggistica. Mi piace la letteratura vittoriana».
La vita — Chimamanda Ngozi Adichie (1977) è nata ad Abba, in Nigeria, ed è cresciuta nella città universitaria di Nsukka. Là ha completato il primo ciclo di studi, poi proseguiti negli Stati Uniti. Sposata, ha una figlia.
I suoi libri — È autrice di bestseller pluripremiati. Il primo romanzo è L’ibisco viola . Poi Metà di un sole gialloe Americanah . Suoi racconti sono raccolti in Quella cosa intorno al collo.I saggi sono Dovremmo essere tutti femministie Cara Ijeawele. In Italia è pubblicata da Einaudi.
Il premio — Sabato 16 novembre a Milano, alla Triennale, l’autrice riceverà il Premio Speciale Afriche, a testimonianza della riconoscenza e della stima che BookCity nutre per la sua opera.
Costanza Tosi per ilgiornale.it il 27 ottobre 2019. Si chiamava James, ma adesso è Luna, e se non ti sta bene non sarai più suo padre. Sembra l’inizio di una commedia americana e invece stiamo parlando di una storia vera: quella di Jeffrey Younger e di suo figlio James. Il bambino ha soli 7 anni, ma - come riportato da La Verità - in un tribunale di Dallas, in Texas, pochi giorni fa è stato decretato che, se il padre non accetterà la trasformazione sessuale del suo bambino, per ben 11 giurati su 12, gli sarà tolto l’affidamento dei suoi figli e il papà avrà l’obbligo di non interferire nell' iter di riassegnazione sessuale del figlio. Papà Jeffrey è contrario al fatto che uno dei suoi figli inizi, in età ancora infantile, la lunga lista degli invasivi trattamenti ormonali legati al cambio di sesso per poi finire con la castrazione chimica. E invece, come stabilito in aula di tribunale, se vorrà continuare a vedere suo figlio non solo dovrà accettare di vederlo affrontare questo percorso, ma dovrà persino dimenticarsi del suo nome di battesimo e iniziare a trattarlo come se già fosse una bambina. Luna, appunto. Una sentenza arrivata come un pugno nello stomaco, dopo mesi e mesi di lotte in cui il papà ha cercato di spiegare le sue ragioni raccontando persino come suo figlio, quando è con il fratellino, si diverta a fare giochi maschili, tipici dei ragazzini della sua età come la lotta con le spade di plastica e i combattimenti. Ma, se questo può sembrare un dato di poco conto, a sostenere la posizione del signor Younger sono stati anche moltissimi esperti, che hanno cercato di spiegare, anche in aula di tribunale, come un radicale cambiamento di genere vada sempre e comunque valutato attentamente per capire se ci siano i presupposti per affrontare un percorso difficile come quello, tanto di più se ad affrontare tutto deve essere un minore. A sottolineare i rischi di una mancata premura nella decisione di un cambiamento di sesso anche la Mayo Clinic, un'organizzazione no profit per la ricerca medica presente in diverse aree degli Stati Uniti, che ha sottolineato come gli effetti collaterali della femminilizzazione tramite terapia ormonale siano moltissimi e vadano dall'aumento di peso all' infertilità, dall'ipertensione al diabete, dai calcoli biliari all' accresciuto rischio di malattie cardiovascolari. Problematiche fisiche da non sottovalutare, alle quali vanno aggiunti i traumi psicologici. Ma il papà di James, a quanto pare, non potrà risparmiare a suo figlio tutto questo. Una storia che ha generato indignazione anche nel mondo lgbt. Brad Palumbo, un rappresentante delle coppie arcobaleno considerato tra i più conservatori, in un suo intervento sul Washington Examiner, ha ribadito l’assurdità del provvedimento specificando che, “un bambino di soli 7 anni non può essere transgender. Non esiste la certezza necessaria per giustificare step verso cambiamenti fisici che possono alterare la vita di una persona come la terapia ormonale o il blocco della pubertà”. Non solo. Vistà l’età, secondo quando spiega Palumbo, ci sono alte probabilità che James possa persino cambiare del tutto le sue inclinazioni, decidendo, magari tra anni, di non voler più essere Luna. “Numerosi studi dimostrano come una maggioranza sostanziale di bambini con problemi di confusione di genere - una maggioranza che va dal 65 al 94% - alla fine ha smesso di identificarsi come transgender”. A qualcuno però, questo non importa. La giustizia ha deciso per il piccolo ancor prima di lasciare proprio a lui la libertà di scegliere chi vuole essere, forzando un percorso che potrebbe cambiargli la vita e sottoponendolo a dei rischi inutili per la sua età. Un controsenso in nome di un’ideologia che rischia di danneggiare decine e decine di bambini e che, purtroppo, non manca di esistere anche in altre zone del mondo. Anche in Canada, alcuni mesi fa, Francesca Marzari giudice della Suprema corte della British Columbia, si è trovata ad affrontare un caso affine a quello di James e il risultato è stato, se possibile, ancora più scioccante. Il padre in questione è stato condannato per “violenza familiare”, perchè aveva osato chiamare sua figlia di 14 anni con il suo nome di battesimo mentre la ragazzina si sta sottoponendo alle cure a base di testosterone per diventare un ragazzo. Un modus operandi che stà, a poco a poco, approdando anche in Italia. Lo si è visto nel recente caso dell’uomo transgender a cui sono stati riconosciuti dal Tribunale di Savona 150.000 euro come risarcimento danni per tutti gli interventi di cambio di sesso non andati a buon fine. Tutto in nome del diritto all' identità sessuale secondo cui nessuno può opporsi alle scelte di genere di un individuo, neanche se questo ha ancora 7 anni e un genitore voglia mettere avanti la sua salute fisica prima di concedere a suo figlio di cambiare la sua vita per sempre.
Otto e Mezzo, Lilli Gruber passa all'insulto contro Salvini: "Maleducato, sessista, troppo testosterone". Libero Quotidiano il 26 Ottobre 2019. Lady Otto e Mezzo, ossia Lilli Gruber, si confessa e si racconta in una lunga intervista concessa a Io Donna. Colloquio in cui la conduttrice de La7 presenta il suo ultimo libro Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone (Solferino), una sorta di pamphlet femminista. "Da tempo covavo l'idea di scrivere qualcosa a tema donne, anche se non mi sarei mai definita femminista, anzi sono stata molto critica nei confronti delle quote rosa", premette Lilli Gruber. E nel corso dell'intervista, chiedono alla Gruber se ha subito episodi sgradevoli nel corso della carriera. Risposta affermativa: "Sì, da giovane, e passavo per acida o aggressiva, mentre se fossi stata un maschio avrebbero detto determinata". Lilli Gruber, dunque, passa in rassegna gli episodi: "L’alto manager di una multinazionale che quando entro per un’intervista mi chiede Signora o signorina? e io gli rispondo E lei, signore o signorino?. L’incontro con il direttore Rai che esordisce con Complimenti per l’ottimo profumo. E io ribatto: Grazie, e lei che profumo usa?. Niente di grave, ma se sei un uomo di potere, e io ancora una giovane precaria, la prima cosa che mi chiedi è il mio profumo? C’è qualcosa che non va. I complimenti si fanno alla moglie o alla fidanzata". L'intervista si trasforma, ovviamente, in un'occasione per attaccare Matteo Salvini: "Per questo mi impressionano i politici maleducati e sessisti che come Salvini fanno campagna elettorale in mutande o come Trump dicono cose come le donne le prendi per la f…. Come si può pensare di affidare il Paese a un uomo che ha detto una cosa simile?". Per inciso, Lilli la rossa aggiunge anche che l'idea di scrivere simile libro le è arrivata proprio dal... leader della Lega. "Mi ha ispirata Salvini - rivela -: basta con tutto questo testosterone, mi sono detta. Ho capito che era il momento giusto per scrivere".
BROMURO, PLEASE! Liberoquotidiano.it l'8 maggio 2019. "Non ho mica voglia ma domani devo andare dalla Lilli Gruber, simpatia portami via". Matteo Salvini attacca la conduttrice di Otto e mezzo, su La7, dove è stato invitato. "Domani (stasera 8 maggio, ndr) mi tocca, che già domenica dovevo andare da Fazio e non sono andato. Mi hanno detto che c'è rimasto male e che non ho risposto. Non è vero che non ho risposto, gli ho detto che andavo se si dimezzava lo stipendio", rincara il vicepremier leghista. E la risposta della Gruber non si è fatta attendere: "Leggo che il ministro Salvini non ha voglia di venire a Otto e mezzo e che ne fa una questione di simpatia. Visto che si è proposto lui e visto che chi viene da noi lo fa volentieri, se ha un problema il senatore Salvini può restare a casa o preferibilmente al ministero".
Otto e Mezzo, Lilli Gruber vs Matteo Salvini: "Maleducato", "Sa perché mi pagano?". Tensione brutale. Libero Quotidiano 9 Maggio 2019. Dopo le tensioni della vigilia, il faccia a faccia. A Otto e Mezzo di Lilli Gruber, su La7, mercoledì 8 maggio, ecco Matteo Salvini. Lo stesso Salvini che il giorno prima aveva detto "dovrò andare dalla Gruber anche se non ne ho voglia, simpatia portami via". Frase che aveva scatenato la conduttrice, la quale aveva replicato con un "se ne stia pure a casa, o al ministero". Ma, come detto, il ministro dell'Interno si è materializzato negli studi di Otto e Mezzo. E il confronto si è subito acceso. La Gruber, dopo aver ricordato come Salvini "ne ha fatto anche una questione di simpatia", ha aggiunto: "Mi aspettavo un mazzo di fiori di scuse". E Salvini le replica, vien da dire con evidente intento ironico: "Io le voglio un sacco di bene anche se non ho molto tempo di guardarla a casa alla televisione. Le voglio un sacco di bene e ritengo che questa trasmissione sia assolutamente equilibrata". Frase che fa ridere la Gruber. E il leghista: "Perché ride?". Lilli: "Perché allora dice sciocchezze in un comizio? Non è stato molto educato". Salvini: "Mi pagano per fare il ministro dell'Interno, non per essere educato". Gruber: "No, la pagano anche per essere educato". "E allora le manderò una piantagione di rose e margherite", conclude Salvini. Già, la tensione si taglia con il coltello...
Otto e Mezzo, Lilli Gruber impazzisce perché Matteo Salvini non risponde come vuole lei sul 25 Aprile. Libero Quotidiano 9 Maggio 2019. L'ultima puntata di Otto e mezzo con Matteo Salvini ha toccato momenti di tensione al limite del nervosismo, soprattutto da parte della padrona di casa Lilli Gruber, già inviperita per la battuta del leghista alla vigilia della puntata. Il vicepremier durante un comizio aveva annunciato che sarebbe stato ospite della Gruber: "Mi tocca andare da lei, simpatia portami via", e giù risate dei presenti. La Gruber ha quindi accolto Salvini con l'arco pieno di frecce avvelenate, imponendo un clima in studio da terzo grado. La giornalista ha sottoposto Salvini a un fuoco di fila di domande serrate, andando a toccare anche il trito e ritrito tema del 25 aprile. Salvini voleva spiegare i motivi che lo avevano spinto a stare a Corleone, anziché in uno dei tanti cortei dei partigiani. La reazione della Gruber è stata sbrigativa: "Sì vabbè... vabbè...". A quel punto Salvini ha cercato di riportare la calma: "Signora, se lei non vuol fare una trasmissione in cui si fa una domanda e si fa una risposta, io sto guardo e guardo il soffitto". Da Rita Dalla Chiesa è partita una durissima critica contro Lilli Gruber e l'atteggiamento tenuto con Matteo Salvini durante l'ultima puntata di Otto e Mezzo, mercoledì 8 maggio su La7. La conduttrice non ha gradito il modo di condurre l'intervista al vicepremier, tesa sin dalle prime battute: "Puoi essere d'accordo con lui o no - ha scritto su Twitter - puoi pensarla in modo diametralmente opposto, ma questa è l'intervista più irritante e meno super partes nella storia di Otto e Mezzo". Il commento della conduttrice ha scatenato decine di reazioni sul social, in tanti le chiedono di spiegarsi meglio. La Dalla Chiesa va giù pesante: "È il modo, la spocchia. Una giornalista deve fare domande e ascoltare riposte. Non bacchettare come una maestrina i propri ospiti. O lo fa con tutti o con nessuno". Puoi essere d’accordo con lui o no, puoi pensarla in modo diametralmente opposto, ma questa è’ l’intervista più’ irritante e meno super partes nella storia.
Otto e Mezzo, Marcello Veneziani massacra Lilli Gruber: "Faziosità isterica da vomito con Salvini". Libero Quotidiano 9 Maggio 2019. Mercoledì 8 maggio, su La7, è andato in scena l'attesissimo faccia a faccia tra Lilli Gruber e Matteo Salvini, a Otto e Mezzo. Attesissimo dopo le tensioni della vigilia, che si sono ripresentate in studio già ai primissimi secondi della trasmissione. Il punto è che alla Gruber, Salvini e la Lega proprio non piacciono e non ha mai fatto nulla per nasconderlo (ovvio, dunque, che il vicepremier del Carroccio alla vigilia avesse manifestato la sua "poca voglia" di andare negli studi di La7). E l'ostilità della Gruber nei confronti di Salvini, per chi ha seguito la puntata, è emersa senza indugi, direttissima, chiara, lampante. La sua ostilità e quella dell'altro ospite in studio, Alessandro De Angelis dell'Huffington Post. E tra chi ha protestato per quanto visto in tv, ecco Marcello Veneziani, che affida il suo sintetico pensiero a Twitter: "Fa vomitare la faziosità isterica della Gruber e della sua spalla nei confronti di Salvini - cinguetta -. Riesce a rendere simpatico Salvini anche a chi non ne aveva per lui", conclude. Parole pesantissime.
Otto e Mezzo, Nicola Porro dileggia Lilli Gruber: "Clamoroso scoop, al mare si va in costume". Libero Quotidiano il 3 Ottobre 2019. Non smette di far discutere la "performance" di Lilli Gruber contro Matteo Salvini, nella puntata di Otto e Mezzo di martedì 1 ottobre, in onda su La7. Scatenata come non mai, ha chiuso anche la puntata con quello che potrebbe essere definito un insulto sessista: rimproverando il leader della Lega per il fatto di andare in costume in spiaggia (sic), gli ha dato del ciccione. "Magari senza pancia", ha chiosato la Gruber riferendosi alla prossima volta in cui si mostrerà in costume da ministro. E ora, contro Lilli la rossa, piove l'affondo anche di Nicola Porro, che le dedica un passaggio della sua consueta "Zuppa di Porro", la rubrica in cui commenta i fatti di attualità. Lo sfottò di Porro è palese sin dal rilancio su Twitter della rubrica: "Il clamoroso scoop di Lilli Gruber a Otto e Mezzo: al mare si va in costume!". Touchè.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 3 ottobre 2019. Ho stima di Lilli Gruber, capace di dirigere un programma brutto con grande abilità. Otto e mezzo ha molto successo meritato perché di obiettivo non ha neanche la sigla, che per altro fa schifo. Se lo segui e non sei di sinistra spinta ti vengono le convulsioni poiché la signora che conduce riceve quattro ospiti, tre progressisti e uno sfigato di destra o di centrodestra, per esempio un leghista che lei odia senza requie. Il dibattito consiste nel fatto che il suddetto sfigato non appena apre bocca per dire le sue bischerate, viene sommerso dagli insulti degli "avversari" e dagli sfottò di colei che mena il torrone della chiacchierata, la quale pertanto prosegue a senso unico, quello da costei prediletto. Risultato, trionfano immancabilmente gli ex comunisti e derivati, mentre i padani e similari rimediano sovente una gigantesca figura di merda. Ciononostante la Gruber ottiene buoni ascolti e Cairo, il padrone de La 7, gongola. Giusto. Ovvio, i talkshow sgangherati da sempre vanno bene giacché alimentano l' odio politico, che è il sale della televisione. Il problema è un altro. La faziosità funziona, ma senza esagerare. Lilli un paio di sere fa ha affrontato Salvini come fosse un suo avversario personale, e gli ha perfino contestato di indossare il costume in spiaggia, quando è noto che qualunque bagnante si tuffa in mare in mutande. Così fan tutti, donne e uomini. Dov' è il problema? Per la Gruber Matteo è un marziano che non ha il diritto di mettere a mollo le chiappe tra le onde, è solo un burino indegno di esibirsi sulla battigia. Addirittura lo ha rimproverato di avere un pancione da non esibirsi in pubblico, come se tutti i suoi colleghi fossero viceversa sdutti e fisicamente ammirabili. E sorvoliamo sui rimproveri politici rivolti dalla giornalista al leader della Lega. Qualcosa di disgustoso e fuori dalle elementari regole del giornalismo. La trasmissione non è stata una seduta dedicata al confronto delle idee, è sembrata piuttosto una specie di lotta senza esclusione di colpi. Insomma Otto e mezzo si è trasformato in un ring dove non vince il più forte bensì il più cafone. E i cafoni sono parecchi.
Salvini bullizzato per la pancia. Domenico Ferrara il 2 ottobre 2019 su Il Giornale. Non c’è più il sessismo di una volta. E anche Lilli Gruber non è più la stessa. Lei, regina di eleganza, osannata per il suo stile, per la raffinatezza con la quale intervista i suoi interlocutori, alla fine è caduta sulla pancia. Per di più quella di Matteo Salvini. Sarà stata la stanchezza o forse l’impotenza dinnanzi alle ribattute del leghista, fatto sta che ai titoli di coda la conduttrice di Otto e mezzo ha deciso di puntare sul fisico dello “sporco, brutto e cattivo, fascista”. “È contento di non girare più per le spiagge italiane da ministro dell’Interno in mutande con la pancia di fuori come ha fatto quest’estate? (…) Un ministro dell’Interno con lo slippino non l’avevamo ancora visto”, domanda la rossa giornalista. “E io ho questo difetto. E quando tornerò a fare in ministro dell’Interno tornerò in spiaggia in costume da bagno”, ribatte l’ex vicepremier. “Sì ma magari senza la pancia”, rilancia la Gruber. Ma come? Se qualcuno osa criticare la mise della Boldrini, il costume della Boschi, il vestito blu elettrico della Bellanova viene investito da un vagone di critiche, se invece a farlo è una donna nei confronti di un politico tutti tacciono. Nessuno grida alla gogna. Nessuno osa puntare il dito contro la conduttrice. Però, a mio avviso, questa volta la Gruber dovrebbe chiedere scusa, non tanto a Salvini, bensì a quelle donne che lottano da anni contro il sessismo, che cercano di conquistare giorno per giorno il rispetto che meritano e di cui hanno diritto. Perché o il sessismo vale in qualunque caso (senza differenze di genere o di status sociale) oppure non vale in nessun caso. È semplicemente una questione di coerenza.
Rita Dalla Chiesa punge la Gruber: "Battuta a Salvini? E se l'avesse fatta a una donna?" Rita Dalla Chiesa non usa giri di parole e così sui social mette nel mirino la Gruber per una battuta "sessista" a Salvini. Angelo Scarano, Venerdì 04/10/2019, su Il Giornale. Rita Dalla Chiesa mette nel mirino Lilli Gruber. Dopo il battibecco in diretta tra la conduttrice di Otto e Mezzo e l'ex ministro degli Interni, Matteo Salvini, arriva la presa di posizione dell'ex conduttrice di Forum. Lo sfogo della Dalla Chiesa arriva su Twitter con un cinguettio al vetriolo contro la Gruber. A scatenare l'ira della Dalla Chiesa è stato qualche commento di troppo da parte della Gruber per la "panza" di Salvini. Le parole della Gruber hanno scatenato parecchie polemiche soprattutto per il "trattamento" riservato all'ex titolare del Viminale. E così la Dalla Chiesa senza usare giri di parole ha attaccato la Gruber: "E se la battuta della Gruber a Salvini l’avesse fatta un giornalista uomo ad una politica donna?". Parole queste che hanno fatto scattare in poco tempo la reazione dei social che hanno condiviso le parole dell'ex conduttrice. Non è certo la prima volta che la Dalla Chiesa prende posizione contro la Gruber. Infatti a maggio scorso l'ex conduttrice di Forum aveva puntato il dito contro la padrona di casa di Otto e Mezzo sempre per un'intervista a Salvini. La Dalla Chiesa in quell'occasione non aveva usato perifrasi per definire le parole della Gruber e l'atteggiamento durante l'intervista: "Irritante, non super partes, rivelatrice di una spocchia da maestrina". Sono passati alcuni mesi ma la musica non è cambiata e così la Dalla Chiesa è tornata a pungere la Gruber. Una mossa che è stata accompagnata da una valanga di "like" sui social da parte dei follower della Dalla Chiesa. L'intervista della Gruber a Salvini infatti è stata aspramente criticata sul web e la frase sul ministro in costume ("in mutande" per citare la giornalista) ha scatenato una raffica di critiche. La crociata della Gruber contro i commenti sessisti a quanto pare vale solo a senso unico...
Francesco Bonazzi per “La Verità” il 6 ottobre 2019. Brutalizza gli uomini, ma ormai non si tiene più neppure con le donne. Basta che siano di destra e osino discutere il sacro eurodogma ed ecco che Lilli Gruber scatta in diretta tv come se stesse giocando Partizan-Stella rossa, il derby di Belgrado che di solito richiede i caschi blu dell' Onu. E lei, la Stella rossa dell' informazione di La7, giovedì sera, a Otto e mezzo, è entrata di nuovo sugli stinchi del proprio ospite. La telegiornalista con il cuore a sinistra e il cervello al gruppo Bilderberg aveva tra le grinfie Giorgia Meloni, accusata di «dire sciocchezze» e degradata al rango di persona con la quale «non vale la pena di litigare», semplicemente perché non la pensa come lei sulla profonda bontà dell'Unione europea e sulla grande magnanimità di Francia e Germania. Due sere prima, sempre all' insegna di un bizzarro concetto di ospitalità, aveva accusato Matteo Salvini di aver trascorso l' estate a girare per le spiagge «in mutande» da ministro dell' Interno. «Ma lei ci va in smoking, in spiaggia?», le aveva risposto divertito il capo del Carroccio, senza sapere che Lilly Botox, come la chiama Dagospia, negli stabilimenti balneari non ci va proprio, perché ha una splendida villa in Sardegna dalle parti di Villa Simius. Il problema è che non ha più pazienza, Lilli Gruber, 62 anni dei quali 35 passati sul piccolo schermo con il piglio volitivo di sempre e una sola interruzione forzata, quando fece il deputato europeo per l' Ulivo tra il 2004 e il 2008. Ed è quando si parla male dell' Europa, che l' ex allieva modello delle Marcelline di Bolzano, figlia di un grosso industriale della zona, perde il suo gelido contegno. «Lei sta dicendo una sciocchezza», sbotta la mezzobusta quando la leader di Fratelli d' Italia osa dire che la Francia «deve smettere le sue politiche colonialiste» e che insieme alla Germania spadroneggia sul resto dell' Unione, «imponendo i propri interessi». La Meloni, ovviamente, non si fa mettere i piedi in testa e dopo che Frau Gruber le impartisce una seconda lezioncina («Lei sa benissimo che la macchina europea è un po' più complicata»), risponde secca: «Non si permetta, sono stufa di sentirmi dire che non capisco niente». Un' infanzia difficile o ha sottovalutato la sovraesposizione all' amianto dei salotti radical chic? Che un tempo, almeno, erano chic, ma ora sono rimasti solo radical. In collegamento, in rappresentanza del sesso forte, c' era anche un pallido Beppe Severgnini, che ha rischiato grosso anche lui in principio di trasmissione, quando sostanzialmente ha avallato la ricostruzione della Meloni, per la quale i dazi di Donald Trump sono una risposta agli aiuti Ue al consorzio franco-tedesco Airbus, mentre Euro-Lilli addebitava anche questa guerra commerciale al grande cancro dei «sovranismi«. Si vede che alle riunioni del gruppo Bildeberg, alle quali partecipa assiduamente insieme al suo grande amico Franco Bernabè, nelle ultime edizioni erano assenti i manager dell' aerospazio. Ma giovedì sera la Gruber, con il suo sorriso talmente tirato con l' elastico da sembrare l' unica teleconduttrice che va in onda indossando la propria maschera, ha infierito su quel che resta di Silvio Berlusconi, dicendo che nel 2011 «fece un grande deficit« e portò l' Italia «sull' orlo del precipizio». «E infatti l' hanno mandato a casa con una manovra voluta», le ha risposto la Meloni. Che poi è passata al contrattacco, sapendo quanto La7 amò Matteo Renzi: «È vero o non è vero che, quando c' era il governo Renzi, la Ue ha autorizzato una manovra col 2,5% di deficit e, quando è arrivato il governo Conte uno, ha preteso che il deficit fosse all' 1,4%? E oggi Conte avrà una manovra che parte da un deficit del 2,2% perché è amico della Ue. Questo a casa sua come lo legge? È vero o non è vero?». La Gruber, in difficoltà sui numeri, se l' è cavata con un «Ma erano diversi tutti i parametri», ricordando solo che con il governo Renzi la crescita «era al +1,7%». Poi, tanto per gradire, un po' di sana puzza al naso da gauche caviar: «Senta, io non mi metto mica qui a litigare con lei». Il suo problema è tutto in quel «qui», inteso non come uno spazio di confronto a beneficio dei telespettatori, dove magari il giornalista fa le domande e incalza chi svicola, ma come il tinello di casa propria dove o si mangia la minestra o si salta dalla finestra. Ne sa qualcosa anche Matteo Salvini, obiettivamente il grande sconfitto dell' estate 2019 per come la crisi di governo gli è un attimo scappata di mano. La Gruber, naturalmente, ha inferito con il suo tacco nero. Alla fine della trasmissione, lo ha morsicato alla giugulare: «È contento che non deve girare più da ministro dell' Interno in mutande per le spiagge italiane come ha fatto questa estate?». Poi, ha insistito sul fatto che «un ministro dell' Interno con lo slippino non l' avevamo ancora visto» e lo ha preso in giro per i chili di troppo. Che se l' avesse fatto un uomo a una donna, sarebbe stato «allarme sessismo». Però, il momento migliore della trasmissione con la Meloni è stato quando la Gruber, dovendo ricordare che quel giorno era stato rinviato a giudizio Luca Lotti del Pd, ha parlato con fastidio di una certa «vicenda Consip e tutto eh», senza curarsi di spiegare che roba fosse. Del resto riuscì a bucare anche gli arresti dei genitori di Renzi, sempre perché questa misteriosa vicenda Consip ancora non deve aver avuto il tempo di approfondirla un minimo.
''GLI UOMINI VANNO RIEDUCATI''. Danda Santini per ''Io Donna - Corriere della Sera'' il 27 ottobre 2019. Dimenticate per un momento la Lilli Gruber di Otto e mezzo, la giornalista più rispettata (e temuta) d’Italia, sempre equilibrata, indifferente ai potenti di turno, polso fermo quando serve, conduttrice sicura che conosce bene la responsabilità di entrare nelle case di più di due milioni di italiani tutte le sere. Il suo stile giornalistico ha fatto scuola: giacca ben tagliata, posa di tre quarti e i fatti prima di tutto. Oggi, jeans e scarpe basse, c’è lo stesso rigore e la stessa serietà di vent’anni di servizio pubblico in Rai, ma in più c’è la veemenza di Lilli che va alla guerra. Perché il suo ultimo libro, Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone (Solferino) è un pamphlet ricco di fatti, numeri, nomi, scritto per scuotere l’opinione pubblica.
Da dove nasce questa vena femminista?
«Da tempo covavo l’idea di scrivere qualcosa a tema donne, anche se non mi sarei mai definita “femminista”, anzi sono stata molto critica nei confronti delle quote rosa. Se sei più brava, sceglieranno te, pensavo. Mi ha ispirata Salvini: basta con tutto questo testosterone, mi sono detta. Ho capito che era il momento giusto per scrivere. Non è più tollerabile che così tanti Paesi importanti nel mondo, dagli Usa al Brasile, siano in mano a un’internazionale di bifolchi misogini che fanno danni non solo alle donne, ma a tutti. Per me era anche urgente che le donne capissero che dobbiamo svegliarci, perché sia sul fronte degli equilibri di genere che ambientale, mancano cinque minuti a mezzanotte, come dicono i tedeschi. I maschi al potere stanno lasciando un mondo a pezzi: debito pubblico, tasse, disoccupazione, fuga dei talenti, mancanza di servizi, disuguaglianze, scuole e ponti che crollano, il territorio che si disgrega. La battaglia per il potere alle donne va di pari passo con la battaglia per la sopravvivenza del pianeta».
“Se non ora, quando”, come il nome del movimento femminista del 2011?
«Sì, il momento di cambiare è ora, il pianeta ci interpella, anche se molte donne danno per scontati i diritti acquisiti, che invece non sono mai acquisiti per sempre. Il World Economic Forum spiega che ci vorranno 106 anni per ottenere la parità di genere in qualche Paese del mondo. Serve un altro passo. Le tre “v” maschili, volgarità, violenza, visibilità, risultato di una virilità impotente e aggressiva, devono essere sostituite da empatia, diplomazia, pazienza. Gli uomini devono essere rieducati. Abbiamo letto tanti libri sulle donne che amano troppo o lavorano troppo. Ecco, è ora che anche gli uomini, che amano troppo poco o lavorano troppo poco, riprendano a studiare. Che imparino a essere più femminili».
Qualcosa sta cambiando nelle nuove generazioni?
«Sì, lo vedo anche nella mia redazione, dove è normale che un giovane padre si occupi dei figli quando la mamma lavora. Noi sessantenni siamo più arrabbiate, perché dopo tante chiacchiere vogliamo i fatti, rispetto alle ventenni che hanno un atteggiamento più “friendly”, più diplomatico nei confronti dei loro coetanei. Ma devono aprire gli occhi: se lui è il tuo superiore, e ha più potere di te, non deve permettersi di fare nessuna stupida osservazione. La tolleranza deve essere zero. E le ragazze devono sapere che la vita professionale non è un gioco di seduzione. Mi vestirei sexy se avessi un capo donna?»
Ha subito episodi sgradevoli nella sua carriera?
«Sì, da giovane, e passavo per acida o aggressiva, mentre se fossi stata un maschio avrebbero detto determinata. L’alto manager di una multinazionale che quando entro per un’intervista mi chiede “Signora o signorina?” e io gli rispondo “E lei, signore o signorino?”. L’incontro con il direttore Rai che esordisce con “Complimenti per l’ottimo profumo”. E io ribatto: “Grazie, e lei che profumo usa?”. Niente di grave, ma se sei un uomo di potere, e io ancora una giovane precaria, la prima cosa che mi chiedi è il mio profumo? C’è qualcosa che non va. I complimenti si fanno alla moglie o alla fidanzata. È come se Christine Lagarde o Ursula von der Leyen davanti a un collega giovane e caruccio facessero complimenti alla sua prestanza. Non lo farebbero mai perché rispettano i ruoli, le responsabilità e lo stile. La forma è sempre anche sostanza. Per questo mi impressionano i politici maleducati e sessisti che come Salvini fanno campagna elettorale in mutande o come Trump dicono cose come “le donne le prendi per la f…”. Come si può pensare di affidare il Paese a un uomo che ha detto una cosa simile? Come minimo, maltratterà le donne e i cittadini. L’incontinenza in generale, verbale o sessuale, non può non portare a mala gestione del potere e di tutto il resto».
Usa un’espressione colorita per definire questa incontinenza.
«Il copyright è di mio marito Jacques, femminista convinto, che a proposito degli eccessi sessuali del potente di turno ha commentato: «Dovrebbero imparare a tenere il muscolo centrale nei pantaloni»».
Si definisce solidale con le donne in ansia quando devono avanzare le loro richieste. In che senso?
«Anch’io ho passato una vita in preda a quell’insicurezza insopportabile che ci infliggiamo noi donne: interrompo? intervengo? faccio questa domanda o è una sciocchezza? Ricordo ancora una conferenza stampa ad Amman con re Hussein durante la prima guerra del Golfo. Volevo chiedere al re perché si fosse fatto crescere la barba, ma avevo paura che fosse una richiesta stupida e non ho alzato la mano. Quella domanda l’ha fatta poco dopo un collega e il re sorridendo ha risposto che era per mascherare un’irritazione dovuta allo stress della guerra. Mi sono vergognata del mio autosabotaggio».
C‘è speranza nell’Europa delle donne?
«Sono stata europarlamentare per quattro anni e mezzo e, se non avessimo avuto l’Europa, chissà dove saremmo finiti. Noi donne dobbiamo volere bene all’Europa perché è il primo e per ora l’unico esempio riuscito di pacifica convivenza di nazioni per costruire un progetto di benessere e difesa di valori fondamentali come i diritti sociali e delle donne. Quando Ursula von der Leyen, bella e forte, professionale, sette figli, pluriministro in Germania, oggi prima presidente della commissione europea, ha detto «Voglio che la metà della mia Commissione sia composta da donne», è stato un segnale fortissimo. Il Parlamento europeo vede per la prima volta le donne al 40,4 per cento dei seggi».
Anche in televisione stanno crescendo le opinioniste.
«Per noi a Otto e mezzo è un obiettivo quotidiano: non voglio mai essere sola con tre uomini, e siamo tutti convinti che non è una semplice questione ideologica o televisiva per aumentare l’ascolto (io sono sempre incuriosita quando parla una donna). Fa bene a tutti vedere che ci sono donne in ruoli di potere e responsabilità e con capacità di decidere. Vogliamo il potere proprio per questo: poter decidere, far rispettare i diritti e cambiare le cose».
Per ora in Italia solo Renzi con Italia Viva ha proposto il modello 50:50. Che ne pensa?
«Do atto che è stato un politico contemporaneo. Penso sia un buon inizio e una mossa necessaria, anche se gli ho fatto notare che il 50:50 va rispettato nella sostanza: sia quando stili le liste sia quando dai gli incarichi ministeriali o di partito. Poi sta alle donne votare le donne».
Esiste una leadership al femminile?
«Sì, non perché siamo sante o ci immoliamo, ma perché le donne sono abituate a condurre una vita con responsabilità multiple. Io non ho figli, ma chi li ha lavora, gestisce casa, genitori anziani e bambini piccoli con una organizzazione del tempo incredibile. Da loro dobbiamo imparare, cambiando gli orari della giornata lavorativa. La vita migliora per tutti se si adottano modalità femminili nella gestione del tempo e del potere. Non credo nelle teorie della differenza, ma nell’abitudine concreta alla organizzazione e gestione sì. Se poi si pensa alle guerre, le donne sono le prime vittime ma anche le prime a trovare soluzioni per gestire le conseguenze dei conflitti, la mancanza di cibo, acqua, elettricità e le prime a ricostruire e rimettere insieme i cocci. In fondo anche Nancy Pelosi ha aspettato fino all’ultimo prima di lanciare il suo attacco a Trump, che invece ogni giorno apre un fronte personale».
Perché nel nostro Paese, da Boldrini a Greta, l’attacco alle donne crea così tanto consenso?
«La democratica Alexandria Ocasio-Cortez, americana, dice: «La forza con cui ci combattono indica le dimensioni del potere che stiamo scardinando». In Italia, in più, c’è un senso di impunità: se sei uomo e per di più di potere, sei intoccabile. Le donne non hanno il coraggio di denunciare, o spesso sono più severe con le altre donne, e gli uomini sono perlopiù complici. Abbiamo sperperato decenni in inutili dibattiti, come quello sulle quote. Devi partire dai fatti e dai numeri: laddove le donne sono state inserite, c’è stato un riequilibrio e le aziende sono migliorate. Spesso poi entra in gioco l’autolesionismo di chi non vuole essere giudicata come categoria panda. Ma che tu voglia o no, siamo giudicate e trattate diversamente dai maschi. Ancora una volta, parlano i dati: quelli della violenza sulle donne, sull’accesso al potere o sulla disparità di stipendi. Eppure sono sicura che ancora molti e molte pensano sia meglio, in un momento di disoccupazione, tutelare l’occupazione del maschio che mantiene la famiglia. È difficile rompere le consuetudini di una cultura plurisecolare».
I social non stanno aiutando: su questo lei ha una proposta.
«Io sono attaccata ogni giorno sui social con un sessismo e una volgarità intollerabili. Anche perché il degrado del linguaggio diventa abbrutimento fisico e violenza reale. È grave che non ci sia una sanzione: la violenza verbale – anche quella anonima, ancora più vile – deve essere sanzionata subito, e abbiamo tutti gli strumenti per farlo».
Nel libro usa un termine nuovo: glass cliff. Che cosa significa?
«Precipizio di vetro: quando la situazione è disperata, si chiama al comando una donna. C’è un’altissima probabilità di fallire e vieni subito giudicata e condannata, ma se ce la fai parte il coro: ah be’, non era così difficile allora. È successo alla Lagarde, donna tostissima e affascinante, quando è stata chiamata al Fondo Monetario Internazionale nel 2011, nel momento più cupo della crisi. Anche per Ursula von der Leyen oggi non è facile. Durante le audizioni al Parlamento europeo i candidati vengono messi sul grill, giudicati su fatti, numeri, sottoposti a mille domande. Ursula non era partita bene quando era stata designata, poi ha studiato i dossier dove temeva di essere più debole, si è presentata, ha fatto l’esame ed è passata».
Infatti il suo invito è semplice: fatevi avanti!
«Le donne devono avere più coraggio e assumersi qualche rischio: non puoi stare seduta ad aspettare che qualcuno ti regali il potere. Il mondo là fuori è competitivo, niente è gratis. Non è da tutti essere in prima linea, ma chi ha la forza, l’ambizione, la voglia, deve lanciarsi. E a chi ancora domanda «Una donna può fare il Presidente?», io dico ribaltando la questione: «Una donna può fare altrettanti danni?». L’incompetenza degli uomini di potere sta facendo troppi sfaceli, non dobbiamo più senza chiedere scusa perché esistiamo, siamo più brave e più competenti e chiediamo il potere. La parola fa paura, ma il potere in sé non è una cosa sporca, non è buono né cattivo: dipende da come lo usi. Avere potere significa avere potere di decidere e quindi di poter cambiare. Ci assumiamo già tante responsabilità, perché dovremmo avere paura di prenderci il potere? E una volta che ce lo siamo preso, sia chiaro, vogliamo anche le rose!»
Francesco Borgonovo per ''la Verità'' il 27 ottobre 2019. Mi capita, talvolta, di essere invitato come ospite a Otto e mezzo, il programma condotto da Lilli Gruber su La7. E devo riconoscere che, rispetto ad altri colleghi schierati a sinistra, la Gruber mi tratta sempre con un certo rispetto: se non altro mi concede di parlare, cosa che non è sempre scontata in alcune trasmissioni. Dunque sono rimasto abbastanza sorpreso nell' apprendere che Lilli mi vuole rieducare. Non scherzo: dice proprio così. La giornalista ha appena dato alle stampe per l' editore Solferino un pamphlet intitolato Basta! Il potere delle donne contro la politica del testosterone. Trattasi di un attacco parecchio feroce agli uomini, sia quelli che fanno politica sia i comuni cittadini. La Gruber ha presentato il volume concedendo una lunga intervista a Io Donna, rivista del Corriere della Sera che questa settimana le ha dedicato la copertina. Nel corso della conversazione, si leggono affermazioni un po' inquietanti. «I maschi al potere stanno lasciando un mondo a pezzi», spiega Lilli. «Debito pubblico, tasse, disoccupazione, fuga dei talenti, mancanza di servizi, disuguaglianza, scuole e ponti che crollano, il territorio che si disgrega. La battaglia per il potere delle donne va di pari passo con la battaglia per la sopravvivenza del pianeta». Ecco, diciamo che incolpare gli uomini persino del riscaldamento globale e del crollo dei ponti appare vagamente esagerato. Soprattutto, non si capisce per quale motivo un mondo governato da sole donne dovrebbe essere più pacifico e radioso. Se al posto di Donald Trump ci fosse, per esempio, Hillary Clinton, probabilmente gli Stati Uniti sarebbero più bellicosi che mai. Quanto al nostro Paese, non è che i ministri donna ci abbiano risparmiato - nel recente passato - lacrime, sangue e perdita di posti di lavoro, anche se hanno finto di essere solidali con i poveracci finiti sul lastrico. Ma l' idea della Gruber è granitica: «Le tre "v" maschili», dice, «volgarità, violenza, visibilità, risultato di una virilità impotente e aggressiva, devono essere sostituite da empatia, diplomazia, pazienza». Ed ecco la frase di fuoco: «Gli uomini devono essere rieducati. Abbiamo letto tanti libri sulle donne che amano troppo o lavorano troppo. Ecco, è ora che anche gli uomini, che amano troppo poco o lavorano troppo poco, riprendano a studiare. Che imparino a essere più femminili». In realtà, il vero pericolo per il nostro Paese è che nel prossimo futuro a non lavorare più siano tanto gli uomini quanto le donne. Come spiega Luca Ricolfi nel bel saggio La società signorile di massa (La Nave di Teseo), oggi in Italia «il numero di cittadini che non lavorano ha superato il numero di cittadini che lavorano». Semmai, il problema è creare più posti di lavoro per tutti, maschi e femmine, e le battaglie sui diritti che contrappongono i sessi non fanno altro che distrarci dal reale obiettivo (anche per questo vengono tanto alimentate).
Quanto alla violenza «intrinseca» del maschio, beh, si tratta di un altro pregiudizio. Vediamo di fornire qualche dato. Marzio Barbagli (uno dei più autorevoli studiosi italiani) e Alessandra Minello, nel 2018, hanno pubblicato un articolo su Lavoce.info intitolato «Quando a uccidere sono le donne». «Per molto tempo», spiegano i due esperti, «uccidere era un atto confinato all' interno della popolazione maschile. Dal 2000, però, gli omicidi tra uomini sono calati drasticamente, mentre le uccisioni di donne da parte di altre donne sono rimaste stabili o leggermente cresciute». Non solo negli ultimi 40 anni, nei Paesi occidentali «vi è stata una (moderata) tendenza alla convergenza fra la criminalità femminile e quella maschile». Ma negli ultimi 25 anni, in Italia «anche il divario di genere fra gli autori di omicidio è diminuito». Ed ecco il dato sconcertante: «La quota delle donne sul totale delle persone arrestate o denunciate per questo delitto è più che raddoppiata, passando dal 3,9% nel 1992 al 9,1% nel 2016, superando però anche l' 11% nel 2014». Insomma. La violenza in aumento è - in verità- quella delle donne. Certo, non esistono soltanto gli omicidi. C' è, per esempio, pure la violenza verbale. La Gruber invoca sanzioni pesanti per gli odiatori del Web. «Sono attaccata ogni giorno sui social con un sessismo e una volgarità intollerabili», dice. Non stentiamo a crederlo. Ma il problema riguarda il mezzo, cioè Internet: chiunque abbia un minimo di notorietà viene sommerso di insulti, anche scritti e pronunciati da donne. Laura Boldrini sostiene di essere la politica più insultata della storia repubblicana. Ieri Repubblica spiegava che Liliana Segre riceve ogni giorno 200 insulti online. E i maschi? Sarebbe interessante contare gli insulti vomitevoli che riceve Matteo Salvini. La stessa Lilli, durante una puntata di Otto e mezzo, si è permessa una brutta battuta sulla pancia del leader leghista. Se un conduttore maschio avesse detto una cosa analoga a una donna, probabilmente lo avrebbero linciato. E allora forse è il momento di superare i luoghi comuni sui maschi cattivi che maltrattano tutti, no? Tra l' altro, tocca sempre notare una strana disparità di trattamento. Gli uomini prepotenti e feroci, guarda caso, sono sempre «sovranisti», «populisti» o «di destra». Francesco Merlo, un paio di giorni fa, ha firmato su Repubblica un ritratto di Giorgia Meloni pieno di insulti gratuiti. Va rieducato anche lui? Lo spediamo in un Laogai femminista? Quanti attacchi riceve la leader di Fdi senza che nessuno - presunte femministe in primis - si scandalizzi? Curioso davvero: Repubblica che ieri lanciava l' allarme per gli insulti subiti dalla Segre è lo stesso giornale che può sbertucciare la Meloni per il suo modo di parlare. Il fatto è che il fronte progressista, così sensibile riguardo a odio e violenza, è sempre il primo a invocare (e spesso a mettere in pratica) la mordacchia per chiunque osi esprimere un pensiero diverso. Forse, allora, il problema non è «di genere», ma politico. La rieducazione del maschio è una idea sbagliata e pericolosa, perché nasconde una tentazione ancora più terribile: quella di rieducare - definendolo odiatore, razzista, fascista, maschilista, omofobo - chi non si allinea al politicamente corretto imperante. Uomo o donna che sia.
· Ipocrisia ideologica: Chi a favore di chi? I Comunisti contro i LGBT e viceversa.
Maneskin, Damiano: "Le mamme mi vogliono toccare il culo". Damiano David, leader dei Maneskin, ha raccontato di aver ricevuto delle richieste "particolari" dalle mamme di alcuni fan: dai semplici baci alle palpate al fondoschiena, scrive Luana Rosato, Venerdì 22/02/2019, su Il Giornale. Vincitori di X Factor 11, i Maneskin rappresentano uno dei gruppi più amati degli ultimi tempi, dai ragazzini e, a detta di Damiano – frontman della band – anche dalle mamme. Ed è proprio Damiano, leader dei Maneskin, ad aver raccontato come si sia spesso trovato a respingere le avances da parte delle signore. Intervistato da Cosmopolitan, ha svelato alcuni aneddoti su quanto successo in occasione dei firmacopie in cui i ragazzini vengono accompagnati dalle madri. Confermando il suo successo con le donne, “è figo, ma dopo dieci minuti la sensazione è già passata”, Damiano e i Maneskin si trovano spesso a vivere situazioni molto simili a ciò che accadeva ai tempi dell’esordio di Vasco Rossi nel mondo della musica. “Ci lanciano i reggiseni, una roba alla Vasco Rossi” – ha spiegato il giovane romano –. Poi al firmacopie arrivano madri con figli magari anche piccoli, ed è capitato che mentre Vic si prende cura dei ragazzini, le madri mi dicano: 'Ti posso dare un bacetto, ti posso toccare il culo?”. Casi esagerati a parte, tuttavia, Damiano David non è uno a cui piace lo stile di vita solo “sesso e rock and roll”: “Essere un artista è la cosa bella. Creare l’arte, scrivere i pezzi… Vedere come ci guardano le persone quando siamo sul palco”. Proprio lui che inganna apparentemente per un fare arrogante, che si definisce narciso e che crede fortemente in se stesso, ha un mantra che non dimentica mai: “Sul palco va bene spaccare tutto. È nella vita normale che bisogna essere umili: con le persone che lavorano con te, per esempio, e con la musica”.
Condannato Gian Luca Rana, figlio di Giovanni Rana: dava del "finocchio" a un manager del pastificio. La difesa dell'amministratore delegato del noto pastificio: "Erano solo appellativi scherzosi". La Cassazione respinge il ricorso e conferma i due gradi di giudizio, scrive Giampaolo Visetti il 21 febbraio 2019 su La Repubblica. Dare del "finocchio" a un dipendente non è solo un insulto all'intelligenza e un anacronistico omaggio all'ignoranza: è un reato. Lo ha stabilito la Cassazione, che ha confermato la sentenza con cui la Corte d'Appello di Venezia, ribadendo la condanna del tribunale di Verona, ha respinto il ricorso del noto "Pastificio Rana", chiamato in causa per "condotta vessatoria". Il caso investe l'amministratore delegato Gian Luca Rana, figlio del presidente e fondatore Giovanni, re di tortellini e pasta fresca. I giudici hanno accertato che per anni Gian Luca chiamava pubblicamente "finocchio" un suo manager, che una volta risolto il rapporto di lavoro lo ha denunciato. Secondo la Cassazione "dare ripetutamente e pubblicamente del "finocchio" a un dipendente arreca concreto e grave pregiudizio alla dignità del lavoratore nel luogo di lavoro, al suo onore e alla sua reputazione". L'industriale si era difeso sostenendo che si trattava "solo dell'espressione di un clima scherzoso nell'ambiente di lavoro". I legali di Gian Luca Rana affermano poi che "il carattere scherzoso degli epiteti con cui il legale rappresentante dell'azienda era solito apostrofare il dipendente, in presenza di altri colleghi e in un clima cameratesco, sarebbe stato giustificato "dalla mancata reazione del manager" alle ingiurie". Di qui, secondo il Pastificio Rana, "l'irrilevanza e l'inoffensività della condotta datoriale". Ragioni giudicate infondate per la Cassazione. I giudici hanno stabilito che sebbene il dipendente offeso avesse una carica dirigenziale, ogni volta taceva perché "era in una condizione di inferiorità gerarchica", ossia perché temeva conseguenze per la propria carriera, o per lo stesso posto di lavoro. I fatti si riferiscono al periodo 2001-2007 e i processi hanno provato che Gian Luca Rana era solito "pronunciare ripetute offese sulla presunta omosessualità del dirigente", il quale veniva "sistematicamente apostrofato con il termine "finocchio", come testimoniato dai colleghi. Dopo la fine del rapporto di lavoro il manager aveva fatto causa all'azienda veronese famosa in tutto il mondo, lamentando "stato d'ansia e di stress, pregiudizio alla vita di relazione, alla dignità e alla professionalità". In primo e secondo grado i giudici hanno disposto un risarcimento pari a sei mensilità di stipendio. A questa cifra si aggiungono ora 5 mila euro per le spese di giudizio.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” del 22 febbraio 2019. La notizia è che Gianluca Rana, figlio del presidente Giovanni (quello del pastificio) non è stato assolutamente condannato per aver detto «finocchio» a nessuno, anzi, non è mai stato personalmente imputato per questo o per altro, anzi, non c' è mai stata una causa penale contro di lui (nessuno ha querelato o denunciato, c'è stata solo una causa civile contro il Pastificio risoltasi nel 2010) e non c'è stata neppure una fresca sentenza della Cassazione come hanno scritto ieri i siti web, ma soltanto un'ordinanza (che è un'altra cosa) la quale conferma una sentenza d'Appello che a sua volta conferma un primo grado del 2010: una sentenza civile, ossia, che il Pastificio Rana, attenzione, vinse. Sembra incredibile, ma è esattamente il contrario di quanto scrivevano tutti (ma tutti) i siti online ieri pomeriggio, e, si teme, quanto avranno confermato molti giornali di oggi. Il contrario della verità, ossia titoli che mediamente erano: «Per anni chiama finocchio un suo dirigente: condannato il figlio di Giovanni Rana» che è falso, come lo è che c'entri qualcosa l'omofobia (lo chiarisce la sentenza di primo grado: il genere non c'entra niente, l'espressione «finocchio», pronunciata non si sa neppure da chi, era associata alla spiccata sensibilità di un manager peraltro eterosessuale con famiglia) e compresa, tra le cose false, che questo manager «dovrà essere risarcito»: costui prese già le sue 6 mensilità nel 2010 (30mila euro, come da sentenza) dopo averne chiesto la bellezza di 400mila per accuse che, attenzione, il giudice respinse interamente: presunto mobbing, danni alla salute, un'ernia che gli avrebbe impedito di lavorare, mancati pagamenti di bonus e di tfr, roba appunto giudicata inesistente al punto che il manager, per queste cose, non ha mai fatto neanche appello. A dirla tutta, davanti al giudice, il manager mise agli atti questa frase: «Professionalmente devo molto alla famiglia Rana». Traduzione: con loro ho fatto carriera. E il «finocchio»? Che c'entra allora il «finocchio»? Ecco svelato l'arcano, che è poca cosa. Il giudice civile, nel respingere praticamente tutte le richieste del manager e assolvere il pastificio, concesse al manager solo un generico risarcimento di 6 mensilità (come detto) basato sulla testimonianza di - attenzione anche qui - altri due ex manager pure loro in causa col pastificio. E che cosa testimoniarono questi due ex manager? Solo che, in generale, c' era talvolta un clima di sfottò verso quel dirigente: e qui salta fuori il termine «finocchio» senza che sia attribuito personalmente ad alcuno. E allora che cosa c' entra Gian Luca Rana? Niente, appunto: nella causa civile, che era contro il pastificio, lui era il legale rappresentante del pastificio, perciò è stato coinvolto per cosiddetta responsabilità oggettiva, ex articolo 2087 del codice Civile. Il ricorso in appello, tra l'altro, l'ha fatto il pastificio: visto che non risultava un volto o un nome dell'azienda che avesse mai detto «finocchio» al manager, rivolevano indietro anche le residue 6 mensilità. Fine, basta, stop, non c'è altro, anzi, non c'è mai stato: se non nel 2010 e in una forma genericamente riconosciuta con un modesto danno e un modesto risarcimento. Nessun «condannato», tantomeno Gian Luca Rana. Se poi nel pastificio Rana qualcuno ha chiamato «finocchio» il manager in questione, la difesa (e forse la comune immaginazione) ha prefigurato tonalità scherzose e cameratesche, mentre i giudici l'hanno pensata diversamente. Dunque si legge di «concreto e grave pregiudizio alla dignità del lavoratore nel luogo di lavoro, al suo onore e alla sua reputazione». Avrebbe subito, insomma, una condotta giudicata «vessatoria» perché qualcuno lo ha «sistematicamente apostrofato col termine finocchio». Chi? Mistero. Ma così hanno detto due ex manager (in causa) su 3200 dipendenti del pastificio. C'è una morale per tutto questo? Solo che la notizia non c'è, e forse, anzi, è un'altra. La vera notizia non è neppure che un fatto di cronaca è inesistente: la vera notizia è un momento storico - questo - in cui un fatto inesistente può tranquillamente esistere senza che nessuno faccia uno straccio di telefonata di verifica. Da oggi, in teoria, qualcuno potrà dare dell'omofobo a Gianluca Rana prefigurandolo come un pargoletto sulle ginocchia del padre che grida «finocchio» a quelli che passano, dopo averli presi di mira con la cerbottana. Pazienza se negli stessi anni del presunto reato era presidente di Confindustria Verona (1500 aziende, il più giovane dal dopoguerra a ottenere quella posizione) e collezionava una quantità di cariche anche internazionali da rendere noioso elencarle tutte. Era nel cda di «Fontainbleau Insead», giudicata prima scuola di business al mondo dal Financial Times. Gian Luca Rana, che non conosciamo, è un cinquantenne che ha cominciato a lavorare col padre nel 1986 quando l'attuale «Giovanni Rana Company» era una piccola impresa artigianale con 35 dipendenti, mentre oggi, con il figlio cresciuto sino ad assumere il vertice, ha raggiunto un fatturato di 586 milioni in 52 paesi e dà lavoro a 3200 persone. È un classico buon manager italiano che si è sempre tenuto nell' ombra, lontano dagli spifferi. Ora è arrivato un tornado, e siamo noi, noi giornalisti.
La crociata polacca contro “l’ideologia Lgbt”. Alessandra Briganti su it.insideover.com il 20 ottobre 2019. Sul sagrato della chiesa della conversione di San Paolo a Lublino, Malgorzata stringe tra le mani il suo rosario. Tutto si sarebbe aspettato fuorché di vedere ancora sotto attacco il suo Paese. “Non me ne starò con le mani in mano a vedere questi sodomiti distruggere i nostri valori, attacca Malgorzata, 86 anni. Ho visto la Polonia finire sotto il dominio nazista e sovietico, non succederà ancora”. Per questo è qui insieme ad altre decine di persone a rispondere alla “chiamata evangelica” voluta da Padre Miroslaw Matuszny. Un incontro di preghiera per la conversione dei “nemici di Cristo” e per le famiglie perché “i bambini e i giovani possano crescere in una patria libera da ideologie totalitarie, ostili al cristianesimo” scandisce il sacerdote. Il riferimento è a quella che Diritto e Giustizia (PiS), la creatura sovranista di Jaroslaw Kaczynski, chiama “ideologia Lgbt”. Un pensiero totalitario promosso dalla comunità gay, lesbica, bisessuale e transessuale per annientare la nazione nella sua essenza più profonda: la famiglia tradizionale e i valori cristiani su cui si fonda. Sulla crociata contro le comunità Lgbt il PiS ha impostato la campagna elettorale per le europee di maggio e quella per il rinnovo dell’Assemblea polacca del 13 ottobre. Una linea rivelatasi vincente: al Sejm, la Camera bassa, il PiS ha raccolto il 43.59% dei voti. Percentuale che arriva al 55.39% nella regione di Lublino, il cuore della cosiddetta Polonia B, l’area più povera e conservatrice del Paese. Qui negli ultimi mesi gli incontri di preghiera come quello organizzato da padre Miroslaw sono diventati sempre più frequenti. “Ai fedeli vengono mostrate foto dei gay pride o immagini oscene che nulla hanno a che fare con gli Lgbt. I preti spiegano loro che gli Lgbt vogliono sessualizzare i bambini, abusarne, sottrarli alle loro famiglie e così cercano di spaventarli” racconta Alina Pospischil, giornalista della Gazeta Wyborcza di Lublino. Un’opera di proselitismo condannato anche da una parte della Chiesa. A Lublino ha fatto molto discutere il lungo J’accuse del prete domenicano Ludwik Wisniewski pubblicato sul prestigioso settimanale cattolico Tygodnik Powszechny. Padre Ludwik si è scagliato contro tutti quei sacerdoti che tollerano o sostengono apertamente la politica di Kaczynski. Sono loro, secondo il sacerdote domenicano, ad uccidere il Cristianesimo in Polonia. A cominciare da Padre Tadeusz Rydzyk, prete polacco della congregazione dei redentoristi che con la sua Radio Maryja, una delle emittenti più diffuse in Polonia, sostiene la crociata anti Lgbt. Un cartellone svetta tra i palazzoni comunisti di Swidnik. In primo piano due uomini seminudi, di spalle, in uno scatto che sembra esser stato preso durante un gay pride. E poi una domanda: “Czy to jest milosc?”, “È questo l’amore?”. Il 26 marzo Swidnik, periferia sud-est di Lublino, è stato il primo powiat a dichiararsi “libero dall’ideologia Lgbt”, macabra espressione che riporta alla mente il termine Judenfrei, “libero dagli ebrei” usato dai nazisti durante l’esecuzione della Shoah. Con una maggioranza schiacciante di 15 voti favorevoli su 18 il Consiglio del powiat ha approvato una dichiarazione presentata da Radoslaw Brzozka, consigliere eletto tra le fila del PiS contro “i radicali che mirano a instaurare una rivoluzione culturale in Polonia e che attaccano la libertà d’espressione, l’innocenza dei bambini, l’autorità della famiglia e della scuola, così come la libertà d’impresa”, riferimento quest’ultimo alla vicenda di un tipografo di Lodz condannato per essersi rifiutato di stampare dei manifesti per un gruppo Lgbt. In un batter di ciglia le aree “libere dall’ideologia Lgbt” si sono moltiplicate in tutta la Polonia: coinvolti più di cinquanta tra comuni, villaggi e assemblee regionali. Come tanti a Swidnik Maciej, padre di due bambini, difende la scelta di dichiarare il powiat “libero dall’ideologia Lgbt”. “Non dovrebbero proprio esistere, nemmeno uno, di quelli. Non sono normali, sono contro-natura. Ora si sono messi in testa di voler insegnare ai bambini a masturbarsi. E non è giusto: siamo io e mia moglie a decidere quale sia il modo migliore di educare i nostri figli». È una delle tante versioni distorte che girano da quando è montata questa storia. Il 18 febbraio il sindaco liberal di Varsavia, Rafal Trzaskowski, ha sottoscritto una dichiarazione congiunta con alcune associazioni Lgbt contro ogni discriminazione omofoba. Tra i dodici punti della dichiarazione uno in particolare ha scatenato la reazione dei sovranisti, quello in cui si prevede l’introduzione di un programma di educazione sessuale nelle scuole basato sulle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Salute (Oms). Nella dichiarazione approvata dal powiat di Swidnik si legge infatti che “le autorità faranno tutto il possibile per impedire l’ingresso nelle scuole del politicamente corretto e dei depravati interessati alla sessualizzazione precoce dei bambini polacchi secondo i cosiddetti standard dell’Oms”. Pur non avendo alcun valore legale la risoluzione ha dato veste istituzionale alle accuse rivolte agli Lgbt. Ora le comunità vivono nel terrore che un giorno i “pedofili”, “sodomiti”, “deviati” possano strappar loro figli e nipoti. Ed è per questo che nelle marce dell’uguaglianza per la parità dei diritti Lgbt spesso ad aggredire verbalmente e fisicamente i manifestanti non sono solo gli hooligans, ma anche gente comune. “Prima è stato il turno dei migranti, ora il nemico siamo noi. E tutto per qualche voto in più alle elezioni. Pensavo che dopo la morte di Pawel Adamowicz (sindaco progressista di Danzica, accoltellato durante un evento pubblico nel gennaio di quest’anno, ndr) le cose sarebbero cambiate. Il PiS invece ha alzato il livello di scontro, non si fermeranno davanti a nulla”. Si lascia andare ad un lungo sfogo Bart Staszewski, attivista gay dell’associazione Love does Not Exclude. Bart è uno dei volti più conosciuti del mondo arcobaleno in Polonia. Originario di Lublino, è stata sua l’idea di organizzare le prime due marce dell’uguaglianza nella sua città. Una sfida a una società conservatrice non solo per chiedere più diritti, ma anche per ribadire che quel Paese, la Polonia, appartiene anche a loro, agli Lgbt. Eppure Bart sta pagando un prezzo altissimo per il suo attivismo. Non passa giorno senza che i suoi canali social non siano inondati di insulti e minacce. L’ultima gli è arrivata per mail, a qualche giorno dalla marcia dello scorso 29 settembre: “Non organizzare quel corteo o sei un uomo morto”. E in effetti la marcia arcobaleno avrebbe davvero potuto tingersi di rosso. Pochi giorni dopo il gay pride si è venuto a sapere che tra gli arrestati c’era anche una coppia, un uomo e una donna, fermati poco prima dell’inizio della marcia. La polizia aveva rinvenuto un ordigno rudimentale nello zaino della donna. Ora i due dovranno rispondere dell’accusa di strage. “Va avanti così da mesi, racconta Bart, ormai vivo costantemente nella paranoia. La paranoia di essere attaccato per strada, intercettato al telefono, spiato su Facebook, controllato dalla polizia. Basta niente per finire nella macchina della propaganda, è qualcosa di spaventoso”. Dall’inizio della crociata del PiS sono anche aumentati i casi di suicidio tra i ragazzi appartenenti alle minoranze sessuali. Come quello di Milo Mazurkiewicz, 23 anni, transgender, che ha posto fine alla sua vita gettandosi da un ponte a Varsavia. “Sono storie frequenti, prosegue ancora Bart, un ragazzo di 15 anni che abita in un paese vicino Lublino mi ha telefonato in lacrime. È omosessuale, ma ha paura di dirlo a qualcuno e ha spesso pensieri suicidi. Ecco, questo vuol dire essere gay oggi in Polonia”. Un’atmosfera da pogrom, come lo definisce Bart, impossibile da immaginare fino a poco tempo, soprattutto in questo angolo della Polonia, qui dove l’intera comunità ebraica, circa un terzo della popolazione di Lublino, venne sterminata durante la Seconda guerra mondiale. Sembra ancora di sentire l’eco di quel passato provenire dal campo di concentramento di Majdanek, sulle colline che circondano la città. Il timore è che quell’eco rimanga inascoltata.
Ipocrisia ideologica: Chi a favore di chi? I Comunisti contro i LGBT e viceversa.
Venezuela, parla Giulietto Chiesa: «Diritti Lgbt priorità degli USA in America Latina». Venezuela, parla Giulietto Chiesa: «Diritti Lgbt priorità degli USA in America Latina», scrive Luca Marcolivio su notizieprovita.it il 15/02/2019. Il Venezuela di Juan Guaidò diventerà la nuova punta di diamante per l’ideologia Lgbt, da cui, poi, puntare alla conquista dell’intera America Latina. In questo Paese, infatti, convergono gli interessi dell’amministrazione Trump, di stampo squisitamente petrolifero, e quelli delle lobbies arcobaleno, capitanate dai grandi giornali progressisti. A farne le spese saranno tanto la sicurezza dei lavoratori venezuelani, quanto, soprattutto, la pace in quest’area latino-americana dall’importanza strategica incalcolabile. A colloquio con Pro Vita, il giornalista e scrittore Giulietto Chiesa ha tracciato un’analisi dello scenario venezuelano, rimanendo fermo in una convinzione: siamo solo agli inizi di una guerra, le cui conseguenze potrebbero essere più gravi del previsto.
Chiesa, cosa sta succedendo in Venezuela?
«Non è una questione geopolitica, è una questione di carattere locale. La geopolitica c’entra solo perché il Venezuela è presumibilmente il più grande detentore di risorse petrolifere. Gli Stati Uniti vogliono impadronirsi delle risorse energetiche del Venezuela e lo stanno facendo alla loro solita maniera: imbastendo un colpo di Stato per abbattere i governi che eventualmente non sono d’accordo con le loro pretese. Con la salita al potere di Guaidò, gli americani contano di mettere mano sul 50% del gettito petrolifero americano. Già in passato gli Stati Uniti avevano tentato sei colpi di Stato in Venezuela, tutti falliti perché è accaduto qualcosa che evidentemente non avevano previsto: i popoli locali cominciano a scegliersi i loro leader. Pertanto, è iniziato un accerchiamento, con l’insorgere di Stati-satelliti degli Usa, come la Colombia e, più di recente, il Brasile, per fare in modo che la vita interna del Venezuela sia fortemente violata e condizionata. Poi gli si bloccano i conti esteri e si porta via l’oro. Infine si grida a gran voce che Maduro è un dittatore e affama il suo popolo. Vorrei vedere se facessero la stessa cosa all’Italia, come potremmo difenderci in questa situazione».
Quindi Guaidò è completamente asservito agli americani?
«Proprio oggi [14 febbraio, ndr], su Pandora TV abbiamo pubblicato un servizio in cui si ricorda che, nel 2005, Guaidò era studente a Belgrado, in uno dei centri della sovversione americana nel mondo. Con i soldi americani ha quindi creato un partito che rappresenta solo una piccola parte di tutta l’opposizione venezuelana. Dietro di lui, però, c’è l’amministrazione americana che lo foraggia. È evidente che in Venezuela si stanno preparando le truppe americane. L’esercito sta ancora dalla parte di Maduro, quindi l’America si sta preparando a intervenire. L’unica incognita per Washington è che i generali brasiliani non sono d’accordo nell’attaccare il Venezuela».
Nella sua ascesa al potere, già come leader di uno dei partiti d’opposizione, Guaidò, ha fatto eleggere i primi parlamentari venezuelani di orientamento Lgbt. A che gioco sta giocando l’America?
«Gli Lgbt sono diventati la nuova Bibbia della sinistra americana e Guaidò, che è al servizio di tutta l’élite americana, li mette in cima alle priorità del suo partito. Non sono importanti le condizioni di vita dei lavoratori venezuelani, non è importante il loro livello d’istruzione, non è importante la costruzione di ospedali che funzionino per tutti e non solo per i ricchi. È importante che siano rispettati i diritti degli Lgbt, che diventano priorità anche in Venezuela. Se un domani si decidesse che il Togo è diventato interessante per le iniziative americane, i diritti Lgbt verrebbero introdotti anche lì, così i togolesi si dimenticherebbero di essere dei miserabili, con un reddito di qualche dollaro al mese… È evidente che questa è la nuova ideologia del progressismo americano. Il “progresso” è Lgbt, quindi tutti devono adeguarsi a questi parametri. Si comincia dal Venezuela, cercando poi di introdurlo nel resto dell’America Latina. L’Africa è ancora un po’ indietro, allora, dopo aver conquistato l’Europa, si punta all’America Latina: questi sono i criteri della democrazia americana. Ragionando da lettore di Orwell, mi viene da dire che è una vera comica orwelliana».
Eppure sia Trump che Bolsonaro, nei rispettivi Paesi, stanno apertamente contrastando l’ideologia Lgbt…
«È vero ma negli Stati Uniti la confusione e i contrasti politici interni sono così grandi che le carte in tavola si mescolano. L’amministrazione Trump è funzionale ai petrolieri e alla penetrazione economica ma poi ci sono il New York Times e il Washington Post che sono invece gli alfieri degli Lgbt, quindi chiedono anche loro di avere una presenza nella “rivoluzione” venezuelana. Attenzione però: non stiamo discutendo solamente di preferenze sessuali, il problema è che in Venezuela si combatterà, scorrerà il sangue e vi saranno gravi complicazioni anche in termini di spesa umanitaria. Quindi vediamo come andrà a finire. Io sono convinto che ci sarà la guerra e sarà una guerra molto difficile per gli Stati Uniti. Questa è la crudezza dei fatti, il resto sono chiacchiere ideologiche di secondo piano». Luca Marcolivio
Il sito Sputnik critica l'Italia su Venezuela e sanzioni. Il "silenzio mediatico" dell'ambasciatore russo Sergey Razov, scrive Giuseppe Vatinno su Affari Italiani Sabato, 16 febbraio 2019. Sputnik è un sito informativo russo molto vicino al Presidente Vladimir Putin. È presente in molte edizioni nazionali in tutto il mondo, tra cui anche quella italiana ed ovviamente sostiene in maniera del tutto esplicita le posizioni russe nel nostro Paese, inizialmente con buona sintonia governativa. Da qualche tempo, però, si notano critiche esplicite al governo giallo-verde. Tra gli autori noti, vi è Giulietto Chiesa, daprima filosovietico (è stato il corrispondente da Mosca de l’Unità) e poi filorusso. Nel suo articolo pubblicato il giorno di San Valentino ha espresso critiche contro la posizione del Ministro degli Esteri Moavero Milanesi per “essersi associato alla posizione europea sulla crisi venezuelana”. In realtà Chiesa critica principalmente la Lega che con Salvini si era schierata inizialmente con Guaido per poi rivedere questa decisione al Parlamento europeo, mentre i Cinque Stelle, soprattutto con Alessandro Di Battista, hanno sostenuto le ragioni di Maduro, poi esplicitate nel noto voto di astensione a Strasburgo. Ma Sputnik, e quindi Vladimir Putin, è anche critico nei confronti delle azioni che il governo italiano dovrebbe condurre per togliere (o quantomeno a mitigare) le sanzioni alla Russia. Infatti, in altri articoli, si scrive che su questa vicenda “c’è molto fumo e poco arrosto” intendendo con ciò che il governo giallo - verde fa grandi proclami che poi però non si traducono in adeguate azioni concrete. L’Italia ha una posizione amichevole verso la Russia ed è uno dei pochi Paesi che ha avuto il coraggio di farlo, ma Mosca deve anche comprendere che Roma deve in primis tutelare i suoi interessi nazionali sia a Caracas che a Strasburgo. Tuttavia ci sono anche problemi comunicativi. Mosca esercita una costante pressione mediatica sul Web -cosa del tutto legittima-per tutelare i propri interessi, al che però non c’è un adeguato riscontro pratico nell’azione del suo ambasciatore in Italia, Sergey Razov, che vive isolato mediaticamente e che non rilascia mai interviste ai giornalisti italiani, neppure a quelli che potrebbero condividere le sue idee, alimentando così i malintesi.
I fedelissimi di Maduro, scrive su OGGIGIORNO di Oggi Aldo Grasso il 4 febbraio 2019. Ancora una volta il Venezuela precipita nel caos: Juan Guaidó, capo dell’Assemblea Nazionale di Caracas, il Parlamento dominato dall’opposizione, si è autoproclamato presidente ad interim “detronizzando” Nicolas Maduro e ottenendo il benestare del presidente americano Trump. Una mossa che è arrivata a pochi giorni dal giuramento di Maduro che il 10 gennaio scorso si è insediato, avviando il suo secondo mandato presidenziale. Mandato che l’opposizione però non ha mai riconosciuto. Così come i 13 Paesi del “gruppo di Lima” (Argentina, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Costa Rica, Guatemala, Guyana, Honduras, Panama, Paraguay, Perù e Saint Lucia) secondo i quali le elezioni dello scorso maggio «mancavano di legittimità perché non vi hanno potuto partecipare tutti i partiti politici, non vi erano osservatori internazionali e mancavano le garanzie per un voto equo, libero e trasparente». «Dissidenti in carcere – ha scritto Vito D’Angelo sul Corriere della Sera – il potere nelle mani di uno solo. È questo il Venezuela di Nicolás Maduro, ex autista di bus ed erede di Hugo Chávez, che nel nome di Simón Bolívar doveva redistribuire la ricchezza di un Paese baciato dalla fortuna per i suoi pozzi di petrolio». Anche in Italia Maduro può contare su alcuni fedelissimi, da Gianni Minà a Fausto Bertinotti, da Nichi Vendola a Gianni Vattimo, al Manifesto. Il primo atto della Cgil targata Maurizio Landini è stato una “mozione urgente” a favore del regime socialcomunista venezuelano: «Il congresso Cgil, visto quanto accade in Venezuela, secondo i propri principi di libertà, democrazia e solidarietà, approva una mozione di condanna verso l’autoproclamazione di Juan Guaidó a presidente e le ingerenze straniere verso la presidenza democraticamente eletta di Maduro». Sopprimere il Parlamento, arrestare e torturare i dissidenti, chiudere i media è democrazia? A dar voce alla linea del M5S è stato Alessandro Di Battista, che ha ripreso temi cari al movimento come l’anti-imperialismo, la vicinanza al chavismo e alla Russia di Putin, schieratasi a difesa del presidente Maduro. È intervenuto anche l’onorevole Pino Cabras, coautore di diversi saggi con Giulietto Chiesa: «Si sta ponendo grande enfasi sui diritti umani per usarli come un grimaldello contro il governo del Venezuela». Dal governo italiano, infine, solo frasi di circostanza, per non fare litigare M5S pro-Maduro e Lega pro-Trump. Possiamo permettercelo con 140 mila italiani in Venezuela?
Altro che “neutralità”, Di Battista organizzava convegni a favore di Maduro. “L’alba di una nuova Europa”, l'evento del 13 marzo 2015 in favore del chavismo in cui Dibba e Di Stefano si spellavano le mani per applaudire al regime, scrive Luciano Capone il 12 Febbraio 2019 su Il Foglio. Dice adesso Alessandro Di Battista che sul Venezuela il Movimento 5 stelle è neutrale. “Maduro ha una parte di popolazione che lo avversa e contrasta, ma c’è un’altra parte di popolazione che lo sostiene, l’esercito sostiene Maduro”, ha detto a “In mezz’ora” intervistato da Lucia Annunziata. “Avere una posizione neutrale è una posizione di buon senso, che non significa stare con Maduro, non l’ho mai detto in vita mia, sono fake news raccontate dai giornali”. E’ la posizione ufficiale del M5s, la stessa espressa dal sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano, che ha costretto l’Italia in un isolamento europeo e internazionale rispetto alla stragrande maggioranza di democrazie occidentali e americane che hanno riconosciuto Juan Guaidò, il presidente dell’Assemblea nazionale, come presidente ad interim del Venezuela in modo da indire nuove elezioni democratiche. Ma questa neutralità sottintende, come tutti hanno notato, una forte vicinanza al regime di Nicolás Maduro. "Siamo neutrali, mai stati con Maduro", dice Di Battista. E invece organizzava convegni del M5S per proporre il modello Venezuela come alternativa all'Euro "nazista". Ecco quando con Manlio Di Stefano si spellava le mani in applausi al regime di Maduro. Per capire quanto questa vicinanza politica e ideologica sia profonda bisogna ritornare indietro di qualche anno, quando Di Battista e Di Stefano si spellavano le mani durante un applauso in solidarietà del dittatore venezuelano: “L’Alba subisce attacchi violentissimi dal capitalismo e dell’impero. Voglio fare un grande applauso al governo Maduro, al popolo bolivariano, ai compagni venezuelani che stanno subendo un attacco senza precedenti di guerra militare, terroristica. Siamo tutti Chávez, dobbiamo esserlo tutti i giorni”. E giù applausi degli esponenti del M5s. L’invito a battere le mani è di Luciano Vasapollo, docente alla Sapienza, comunista con molti legami a Cuba e voce de “L’Antidiplomatico”, il sito di estrema sinistra filo putiniano e filo chavista fondato da Alessandro Bianchi, già collaboratore di Di Battista e del M5s. E’ il 13 marzo 2015, il contesto è quello di un convegno alla Camera dei deputati organizzato dal M5s e “fortemente voluto” da Di Battista, dal titolo “L’alba di una nuova Europa”. Dove “Alba” sta per “Alleanza bolivariana per le Americhe” l’organizzazione fondata nel 2004 da Hugo Chávez e Fidel Castro, su cui si è fondata l’egemonia del Venezuela in America latina. Gli invitati al convegno sono intellettuali e rappresentanti istituzionali del fronte politico-ideologico che appoggiava il regime di Maduro e che ancora oggi lo sostiene. I relatori sono Gianni Minà (amico dei dittatori comunisti latinoamericani); Vasapollo (che ancora adesso lancia appelli “desde Catanzaro” in favore del “presidente Maduro y la heroica resistencia del pueblo venezolano contra el nuevo golpe de Estado estadounidense”); Bernardo Álvarez, segretario dell’Alba (uomo fidato di Chávez e confermato da Maduro); Veronica Rojas Berrios, viceministra degli Esteri del Nicaragua (governata dal dittatore Daniel Ortega, alleato del regime venezuelano); Roger López Garcia dell’ambasciata di Cuba; Luis Arce Catacora dell’ambasciata della Bolivia (governata da Evo Morales, ultimo alleato di Maduro nel Cono Sur). Tra i presenti in sala ci sono l’ambasciatore venezuelano Isaías Rodríguez (con cui il M5s si è incontrato ripetutamente) e i “maduristi hard” Giulietto Chiesa e Fabio Marcelli, di cui Di Battista invita a leggere i blog sul Fatto quotidiano. Il giorno prima del convegno, Di Battista aveva detto al manifesto che il regime di Maduro era un “governo democraticamente eletto” contro cui era in corso “un tentativo di colpo di stato” per “fermare il cambiamento”. Dibba apprezzava talmente il Venezuela chavista da ritenere l’Alba un modello a cui ispirarsi, da contrapporre all’euro “nazista” dominato dalla Germania, da cui era necessario uscire per stampare una “moneta sovrana”. Altro che neutralità, durante il convegno gli unici attacchi di Dibba sono rivolti all’Europa e a Obama, che aveva osato criticare il governo venezuelano. In sala era presente anche Luigi Di Maio, che nel 2017, due anni dopo, ha proposto una conferenza di pace sulla Libia in cui affidare il ruolo di mediatore tra le varie tribù proprio all’Alba degli autocrati Maduro e Castro.
Nausica Dalla Valle, come tappano la bocca alla giornalista Mediaset: "Perché non sono più lesbica", scrive il 21 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. “Perché non sono più lesbica”. Questo il titolo dell'incontro molto discusso. Lo organizzava l'associazione Cristiani uniti per salvare Biella, era previsto per il 2 marzo nell’auditorium della Città Studi, cioè del campus universitario. Protagonista la giornalista Mediaset Nausica Della Valle, ex volto di Quinta Colonna di Del Debbio. Voleva raccontare come è "guarita" dall'omosessualità, ma tutto è saltato dopo le polemiche dell'Arcigay Rainbow Vercelli Valsesia. Il convegno è “in contrasto con i principi educativi che Città Studi tenta di diffondere e sostenere, tra cui quelli di tolleranza e accettazione dell’altro”, spiega l’Università di Biella. E l’Arcigay, in un post su Facebook, ha condiviso la lettera inviata all’ateneo. “Dall’omosessualità non si può guarire perché l’omosessualità non è una malattia. Come afferma l’Organizzazione Mondiale della Sanità l’omosessualità è una variante naturale del comportamento umano”. Non è detto però che l'evento salti. Tre le chiese biellesi, oltre al gruppo Cristiani uniti, promotrici della serata c’è quella di Cristo Re, la chiesa di Sion e la parrocchia delle Grazie di Biella. E proprio secondo uno dei rappresentanti delle comunità religiose sarebbe già in corso la ricerca di una nuova sala.
Francesco Borgonovo per “la Verità” del 22 febbraio 2019. Fra pochi giorni arriverà nelle sale cinematografiche italiane un film intitolato Croce e delizia, regia di Simone Godano. I protagonisti sono Alessandro Gassmann (nei panni di Carlo) e Fabrizio Bentivoglio (che interpreta Tony). La trama non è originalissima: i due signori in questione, padri di famiglia, si sono innamorati e decidono di sposarsi, cosa che ovviamente manda un po' in confusione i rispettivi figli ormai grandicelli. Per farla breve: i nostri eroi hanno scoperto di essere gay e hanno fatto in modo di uscire allo scoperto. Ne abbiamo viste parecchie di storie del genere, negli ultimi anni. Sono presentate più o meno tutte nello stesso modo, ovvero come vicende edificanti, utili per invitare gli omosessuali a non nascondersi e a uscire dall' ombra. Tale componente «sociale» sembra essere presente anche in Croce e delizia, e infatti la pellicola è stata prodotta con il gentile contributo pubblico del ministero dei Beni culturali. Insomma, il discorso è chiaro: se il film (o il libro o la serie tv) racconta di eterosessuali che si scoprono gay viene apprezzato, sostenuto, pubblicizzato e pure presentato come importante per il Paese. Ma che cosa succede quando avviene il contrario? Che cosa accade se si racconta di un omosessuale che decide di diventare o ridiventare etero? La risposta è facile: scoppia il putiferio. A dimostrarlo è il caso di Nausica Della Valle, nota giornalista Mediaset. È stata per diverso tempo inviata della trasmissione Quinta Colonna, ora lavora a Mattino Cinque. Da qualche anno, però, la sua vita ha preso una direzione diversa. Dopo oltre 40 anni passati ad avere rapporti sentimentali e sessuali con donne, la cronista ha fatto sapere al pubblico di non essere più lesbica. Ha trovato Dio, si è convertita, e spiega di non essere più omosessuale. Non solo. Da mesi Nausica sta girando l'Italia, viene invitata - per lo più nelle chiese evangeliche, ma anche in qualche parrocchia cattolica - per raccontare la sua esperienza di incontro con il Signore. «Ho date fino al prossimo dicembre», dice la giornalista alla Verità. Una delle sue conferenze era programmata per il 2 marzo, all' auditorium Città studi di Biella. La Della Valle è stata contattata da tre chiese locali: quella di Cristo Re, la chiesa di Sion e la parrocchia delle Grazie di Biella. I «Cristiani uniti per servire Biella» hanno - ovviamente - diffuso un manifesto per pubblicizzare l'evento. Ma hanno fatto un errore: sul cartellone, accanto alla foto della giornalista, hanno scritto: «Perché non sono più lesbica». Ed ecco che è esplosa la bomba. Siti d' informazione e attivisti arcobaleno hanno iniziato a strepitare, la conferenza si è trasformata immediatamente in un caso di omofobia da sanzionare. Risultato: Pier Ettore Pellerey, direttore del campus universitario biellese, ha negato la sala. «È un evento», ha detto alla Stampa, «in contrasto con i principi educativi che Città studi tenta di diffondere e sostenere tra cui quelli di tolleranza e accettazione dell'altro». Beh, è curioso che in nome della tolleranza e dell'accettazione si impedisca a qualcuno di parlare, ma ormai siamo abituati a questo genere di controsensi. Resta il fatto che lo spazio a Città studi non è più disponibile. Nel frattempo, Nausica continua a ricevere attacchi e insulti via social network. La accusano di ogni nefandezza, eppure, quando le abbiamo parlato al telefono, è stata chiara: «Io vado nelle chiese per invitarle ad accogliere gli omosessuali, ad amarli e a prendersi cura di loro senza giudicarli». Non sembra, a ben guardare, un messaggio di odio e intolleranza. «Questo incontro è stato male interpretato, non volevamo offendere nessuno. Siamo abituati a organizzare dibattiti con personaggi conosciuti del mondo culturale e dello spettacolo. Ora valuteremo come difendere i nostri diritti», ha detto alla Stampa Daniele Cocco della chiesa di Cristo Re. «Intanto cercheremo un altro luogo che ci ospiti». A quanto pare, dunque, la conferenza in qualche modo si farà lo stesso. Da questa storia, però, emerge evidente una contraddizione. È lecito non apprezzare le posizioni di Nausica Della Valle, ciascuno è libero di pensare di lei e della sua conversione ciò che desidera. Tuttavia, la giornalista ha fatto una scelta libera: nessuno l'ha forzata a diventare credente e ad abbandonare l'omosessualità. Non ha subito «terapie riparative», non è stata rinchiusa in qualche centro di rieducazione sul modello americano. Non sta invitando il pubblico a linciare i gay e le lesbiche, anzi. E allora perché devono zittirla e insultarla? Se un marito e padre o una moglie e madre dichiarano di essere felici di aver abbandonato l'eterosessualità per dedicarsi alle gioie dello stesso sesso, tutti battono le mani. Se avviene il contrario, tuoni e fulmini precipitano dal cielo. «L' omosessualità non è una malattia da cui guarire», gridano gli attivisti arcobaleno. Bene, ma lo stesso vale per l'eterosessualità, o no? Sentiamo costantemente parlare di «fluidità sessuale», di generi che vengono «costruiti socialmente». Si vede che la fluidità va bene solo quando scorre in un senso ben preciso.
Il «gene dei gay»? Non esiste. Conferma da mezzo milione di Dna. Pubblicato giovedì, 29 agosto 2019 da Adriana Bazzi su Corriere.it. Il «gene dei gay» non esiste. Qualcuno ci aveva provato in passato a formulare questa ipotesi, ma ora un gigantesco studio genetico taglia la testa al toro: non ci sono «segni particolari» nel Dna che possano predire un’eventuale omosessualità. Lo studio ha analizzato il patrimonio genetico di oltre 470 mila persone alla ricerca di specifiche alterazioni che potessero prevedere l’ attitudine a instaurare rapporti sessuali con persone dello stesso sesso. Ma non ne ha trovate. Il che significa, precisano i ricercatori, che l’attrazione per persone dello stesso sesso ha a che fare più che con un singolo gene, con un mix di fattori genetici (sì, perché esistono migliaia di varianti genetiche, ma non significative, secondo quanto ci dice questo studio) e ambientali, così come accade per decine di altri comportamenti umani. I ricercatori, guidati da Andrea Ganna che lavora al Center for Genomic Medicine del Massachusetts General Hospital di Boston e al Broad Institute del Mit (Massachusetts Institute of Technology) sempre a Boston, hanno voluto rispondere a una serie di quesiti finora non risolti. Intanto una premessa. Nelle diverse società e in entrambi i sessi, dal 2 al 10 per cento degli individui dichiara di avere rapporti sessuali con persone dello stesso sesso o esclusivamente o in alternativa con partner di sesso diverso. I fattori biologici che contribuiscono alle preferenze sessuali sono pressoché sconosciuti, ma è stata ipotizzata un’influenza genetica dal momento che certi comportamenti omosessuali si ripresentano nei membri di una stessa famiglia e anche fra fratelli gemelli sia omozigoti che eterozigoti. Da queste osservazioni preliminari sono emerse alcune domande. La prima: quali geni sarebbero coinvolti e quali processi biologici influenzerebbero? In passato sono stati condotti alcuni studi alla ricerca di varianti genetiche legate all’orientamento sessuale, ma erano molto piccoli e non guidati dagli attuali criteri di analisi genetica. L’idea era quella di trovare anomalie ormonali correlate a questi comportamenti. Seconda domanda: eventuali modificazioni genetiche come potrebbero agire diversamente su persone di sesso maschile e di sesso femminile? E su cosa influirebbero: sul comportamento, sull’attrattività, sull’identità? E che ruolo avrebbero, invece, per eterosessuali ed eventualmente bisessuali? A queste domande, dunque, ha voluto rispondere lo studio pubblicato su Science (condotto con la collaborazione di numerosi gruppi americani, europei e australiani) che ha sfruttato l’approccio «genome-wide association» (in pratica si tratta di un’analisi di tutti, o quasi tutti, i geni di diversi individui di una particolare specie per determinare le variazioni genetiche tra gli individui in esame) su omosessuali. I ricercatori hanno sfruttato i dati genetici raccolti nella Uk Biobank del Regno Unito e quelli dei partecipanti al progetto 23andMe americano, per un totale, appunto di 470 mila persone. Delle conclusioni generali abbiamo già detto. Più nel dettaglio. I ricercatori avrebbero identificato cinque varianti «significativamente» associate all’omosessualità e altre migliaia con una qualche influenza, ma prese singolarmente non hanno nessun valore nel predire i comportamenti. E fanno notare che alcune hanno a che fare con l’assetto ormonale e altre addirittura con l’olfatto. Ma sottolinea Ganna: «Le nostre osservazioni gettano una qualche luce sui comportamenti biologici legati all’omosessualità. È necessario però astenersi da facili conclusioni perché i comportamenti umani sono complessi. E soprattutto dallo sfruttare questi risultati, ancora rudimentali, per facili propagande politiche».
Il ricercatore del «gene dei gay»: «Ne esiste più di uno». Pubblicato venerdì, 30 agosto 2019 da Elvira Serra su Corriere.it. Non è pericoloso dire che non esiste un «gene gay»? Apre la porta a quanti sostengono che solo l’ambiente condiziona l’orientamento sessuale. Con quel che ne consegue, per esempio, per le tantissime e felici famiglie arcobaleno. «Ma infatti non è corretto dire che non esiste un gene gay. Semmai, il titolo esatto è: “Non esiste un solo gene gay”. Ci sono moltissime varianti, e noi ne abbiamo isolate cinque, ma sono migliaia! Il contributo genetico, nella definizione dell’omosessualità, è pari a un terzo o un quarto». Andrea Ganna, 33 anni, originario di Varese, ha coordinato la ricerca monstre appena pubblicata su Science, che ha messo in relazione le varianti del Dna con l’omosessualità. Laurea in Statistica all’università di Milano Bicocca, Phd al Karolinska Institutet di Stoccolma, postdoc al Massachusetts General Hospital e, adesso, group leader nel Laboratorio europeo di Biologia molecolare dell’Istituto di medicina molecolare finlandese, ha al suo attivi già quaranta pubblicazioni e otto premi e menzioni d’onore.
A chi è venuta l’idea di lavorare a questa ricerca?
«A me e ad altri gruppi di colleghi, uno in Inghilterra, uno in Olanda e uno in Australia. Io in quel momento lavoravo nel Broad Institute di Mit e Harvard, negli Stati Uniti: adesso mi sono appena trasferito ad Helsinki. Anziché competere, abbiamo deciso di creare un consorzio internazionale in cui potessimo affrontare insieme questo progetto».
Con un materiale monumentale: i 470 mila Dna della banca dati britannica «Uk Biobank» e della statunitense «23andMe».
«In realtà quei dati sono accessibili a tutti ricercatori qualificati, facendo una domanda scientifica appropriata, in ogni parte del mondo si trovino. Noi abbiamo deciso di sfruttarli per il nostro lavoro».
Non è scientificamente «deludente» il fatto che non esista un «gene gay»?
«Al contrario, è un bene: se ci fosse, qualcuno proverebbe a modificarlo, come dimostra il caso di He Jiankui, il ricercatore cinese che ha annunciato di aver alterato il Dna degli embrioni di sette coppie durante i trattamenti di fertilità. Abbiamo invece dimostrato la presenza di una componente genetica molto complessa: così complessa che esclude qualunque possibilità di modifica».
Che cosa l’ha appassionata di più nel coordinare questa ricerca?
«Oltre a lavorare in gruppo su un materiale così ampio? È stato interessante il fatto che ci siamo preoccupati di come comunicare i risultati nel modo adeguato, prima della pubblicazione. Abbiamo coinvolto gruppi Lgbt dai quali abbiamo ricevuto molti input utili e abbiamo creato un sito dove sono state raccolte tutte le informazioni sulla ricerca».
Torniamo a lei: si sente un cervello in fuga?
«No».Pensa di ritornare in Italia?
«Al momento no, conto di stare in Finlandia almeno per qualche anno. Poi si vedrà».
Germania, entro il 2019 saranno illegali le «cure riparative» per gli omosessuali. Pubblicato mercoledì, 12 giugno 2019 su Corriere.it. Le cosiddette «terapie riparative» per l’omosessualità saranno illegali in Germania entro la fine del 2019. Lo ha promesso in una conferenza stampa Jens Spahn, ministro della Salute del governo conservatore dei cristiano-democratici: «L’omosessualità non essendo una malattia, non è necessario curarla», ha detto, aggiungendo anche che «le terapie riparative spesso fanno ammalare e non sono sane». Già da settimane il ministro Spahn — che a sua volta vive con un uomo da diversi anni — ha convocato una commissione di esperti per redigere al più presto un disegno di legge plausibile. Gli esperti sono psichiatri, medici e legali guidati dalla fondazione Magnus Hirschfeld, il primo istituto di ricerca sessuologica in Germania. E pur avendo iniziato da poco i lavori confermano che è possibile, sia dal punto di vista medico sia da quello costituzionale, rendere illegali questo genere di «terapie». Entro fine agosto stileranno un documento che dovrebbe fare testo anche per altri Paesi che intendessero prendere provvedimenti simili.
Le «terapie riparative» o di conversione sono infatti legali, pur non avendo alcun effetto positivo riconosciuto, in moltissimi Paesi in Europa e nel mondo. Dall’esorcismo alla psicoterapia, dalla terapia famigliare al life-coaching, sono molti gli «esperti» che promettono di poter far diventare eterosessuale un omosessuale, e solo in Germania raccolgono qualche migliaio di pazienti l’anno. Anche in Italia, del resto, periodicamente, qualche personaggio più o meno noto garantisce di essersi «curato» dall’omosessualità con una psicoterapia o con la preghiera: dal cantautore Povia, che ha addirittura scritto una canzone dedicata a tale Luca che «era gay, adesso sta con lei», alla conduttrice tv Nausica Della Valle che ha dichiarato da poco «ero lesbica, ma era un inganno di Satana». In realtà le uniche prove scientifiche di effetti delle «terapie riparative» sui pazienti sono negative: depressione, peggioramento del senso di inadeguatezza, ideazione suicidaria. E anche quando il comportamento omosessuale viene evitato, è molto difficile che si muti l’orientamento sessuale che è alla base. In Italia l’Ordine degli Psicologi si è schierato contro queste pratiche, dichiarandole inutili; ma non sono illegali, come in molti altri Paesi europei. Tra quelli che le proibiscono, invece, ci sono: Argentina, Brasile, Svizzera, Regno Unito e vari Stati americani. La legge tedesca e il documento scientifico che la supporterà mirano a fare scuola in questo senso.
Monica Ricci Sargentini per il “Corriere della Sera” del 22 febbraio 2019. «Le recenti affermazioni di Martina Navratilova sugli atleti transgender sono transfobe, basate su una comprensione sbagliata della scienza e dei dati, e perpetuano miti pericolosi che portano a ghettizzare i trans con leggi discriminatorie e stereotipi odiosi». Così Athlete Ally, l'organizzazione americana che si batte contro l'esclusione di gay, lesbiche, bisessuali e trans dalle competizioni sportive, destituisce la campionessa, che ha vinto 9 Wimbledon e 59 Grande Slam, dal ruolo di ambasciatrice e consigliera. Una decisione incredibile dato che Navratilova si batte per i diritti della comunità Lgbt dal 1981 quando fece un coraggioso e molto ostacolato coming out dichiarando al mondo di essere lesbica. Lo stesso coraggio che c' è voluto ora per definire «folle» e un «imbroglio» che le donne debbano competere «contro persone che, biologicamente, sono ancora uomini». «Devono esserci dei criteri - aveva spiegato in un articolo uscito il 17 febbraio sul Sunday Times -. Ridurre i livelli di ormoni, la via che la maggior parte delle Federazioni sportive ha adottato, non risolve il problema. Un uomo ha una densità ossea e una muscolatura che si sviluppano sin dall' infanzia». La polemica nasce dal fatto che dal 2016 il Cio (Comitato Olimpico Internazionale) ha deciso che agli atleti trans non sia più richiesto l'intervento chirurgico né i due anni di terapia ormonale di conversione. Chi passa da uomo a donna dovrà soltanto dimostrare di avere i livelli di testosterone contenuti entro i 10 nanogrammi per litro. Una norma che, secondo alcuni, darebbe un vantaggio innegabile alle atlete trans. Il problema si porrà già il prossimo anno alle Olimpiadi di Tokyo quando scenderanno in campo diverse atlete nate uomini tra cui la pallavolista brasiliana Tiffany Abreu che, prima della transizione, aveva vinto diversi trofei nella categoria maschile. «Questa è una truffa - ha dichiarato Navratilova -. Centinaia di atleti, che hanno cambiato genere semplicemente dichiarandolo e limitandosi a un trattamento ormonale, hanno vinto nelle categorie femminili quello che non avrebbero mai potuto ottenere in quelle maschili specialmente negli sport in cui è richiesta potenza». Nella polemica interviene l'americana Billie Jean King, la prima tennista di cui nel 1981 è diventata nota l'omosessualità, che su twitter la invita a stare ai fatti: «Martina è stata a lungo una campionessa degli Lgbtq. Lo so che ha a cuore la comunità trans. Però, invece di lasciarsi prendere dalle congetture, basiamoci su cosa dice la scienza». Ma i dati scientifici non sono univoci. Lo ammette anche Athlete Ally: «Non c' è alcuna prova - scrive - che le donne trans siano più grandi, più forti o più veloci della donna cisgender (che si identifica con il proprio genere ndr) ma è vero che spesso quando le atlete abbassano il livello di testosterone le loro performance diminuiscono». Un problema, dunque, evidentemente, c' è. E dovrebbe essere lecito discuterne. «Critico la tendenza degli attivisti trans a bollare come transfobo chiunque abbia qualcosa da dire - spiega Navratilova -. È una forma di tirannia. Io sono una persona forte ma ho paura che altri possano essere ridotti al silenzio». La verità è che le federazioni sportive hanno paura delle cause. Ne è un esempio il caso che si sta discutendo in questi giorni davanti al Tribunale di Arbitrato Sportivo di Losanna (Tas) dove la mezzofondista sudafricana Caster Semenya, 28 anni, due volte campionessa olimpica e tre volte mondiale degli 800 metri, chiede alla Iaaf, l' associazione internazionale delle federazioni di atletica, di annullare la regola che impedisce alle donne di gareggiare nelle prove superiori ai 400 metri quando abbiano livelli di testosterone nel sangue superiori a 5 nanomoli per litro. Semenya, che è nata donna ma è iperandrogina, vuole correre senza abbassare il suo livello di testosterone. E vincere.
Il tribunale delle trans alla lesbica Navratilova: "Non sei più dei nostri". Cacciata dal gruppo pro-Lgbtq per aver detto "Ingiusto competere con chi è ancora uomo", scrive Gaia Cesare, Giovedì 21/02/2019, su Il Giornale. Sono diventati un grattacapo legale, un caso giuridico, politico e sportivo. E la «vittima» più recente, sacrificata sull'altare delle pari opportunità, è in parte una di loro, nel senso è stata finora un simbolo della comunità Lgbtq.
Loro chi? Parliamo dei transgender, cioè coloro che sono passati da un genere all'altro senza essersi sottoposti a un intervento chirurgico (a differenza dei transessuali). Ma ecco i fatti: Martina Navratilova, 62 anni, tennista con 59 Grande Slam vinti alle spalle, lesbica (come si definisce lei stessa dal 1981) non sarà più ambasciatrice e consigliera della Athlete Ally, organizzazione che si batte contro l'esclusione di lesbiche, gay, bisex, trans e queer (Lgbtq) dallo sport. E la ragione per cui ha dovuto abbandonare il suo ruolo sono le considerazioni polemiche sulla partecipazione delle trans alle gare sportive che la campionessa ha affidato prima a Twitter e poi a un intervento scritto di suo pugno, sul Sunday Times, appena qualche giorno fa. «Non basta definirsi donna per competere con le donne. Devono esserci dei criteri. E avere un pene e competere come donna non può essere uno di questi», ha scritto e ribadito Navatrilova, che ha parlato di «imbroglio». Considerazioni sgradite. E ieri è arrivato il verdetto dell'associazione pro-gay, che ha bollato l'analisi della sportiva come «omofobica», anzi peggio «transfobica» e annunciato la sua destituzione. A rincarare la dose è tornata anche Rachel McKinnon, che a ottobre è diventata la prima trans campionessa del mondo nel ciclismo ai Mondiali Master di Los Angeles fra le polemiche, visto che la sua medaglia è stata contestata dalla numero tre Jen Wagner-Assali, che ha bollato come «ingiusta» la sua vittoria. «Sono frasi inquietanti, sconvolgenti e profondamente omofobiche», ha commentato la canadese a proposito delle considerazioni di Navratilova.
Qual è il nodo della questione? Dal 2016 il Cio (Comitato olimpico internazione) ha fissato nuove regole. Per poter competere nella categoria del genere a cui si è approdati, agli atleti trans non è più richiesta l'obbligatorietà dell'intervento chirurgico (né i due anni di terapia ormonale di conversione). Ma ecco le differenze. I transgender che sono passati dal genere femminile a quello maschile possono gareggiare fra gli uomini senza prescrizioni, mentre le transgender, chi ha fatto cioè il passaggio da uomo a donna, devono dimostrare di avere un livello di testosterone inferiore a una soglia di 10 nanogrammi per litro. Basterà? La Navratilova non ne è convinta. Come non ne sono convinte molte attiviste laburiste nel Regno Unito. Perché la stessa questione, nei mesi scorsi, l'hanno posta proprio loro nei confronti del partito che ha aperto la strada alle transgender che non ha cambiato sesso per via chirurgica, ammettendole nelle liste solo donne. Una circostanza che ha mandato su tutte le furie le progressiste che si battono perché alle donne venga data maggiore rappresentanza. E proprio in questi giorni i tribunali britannici devono affrontare il caso della donna inglese che sui documenti si fa identificare come uomo ma ha messo al mondo una figlia con la fecondazione assistita e chiede però di essere riconosciuta come padre. Un bel grattacapo. Come quello che spetta ora risolvere, in sede sportiva, sul caso di Caster Semenya, 28 anni, sudafricana, due volte Campionessa Olimpica degli 800 metri che ha presentato un nuovo ricorso al Tribunale arbitrale dello Sport contro la Federazione atletica mondiale. Semenya è iperandrogina (produce, in maniera naturale, ormoni maschili in eccesso) e da quando sono state fissate le nuove regole, cioè i livelli di testosterone pari a 10 nanogrammi al litro, ha nettamente peggiorato le proprie performance.
· Lo Sport e le femmine.
Marco Bonarrigo per il Corriere della Sera l'11 ottobre 2019. Maila Andreotti ha vestito la maglia azzurra nel ciclismo su pista prima di smettere improvvisamente l' attività. È la prima atleta a rompere il muro del silenzio sui casi delle presunte molestie nell' ambito della pluripremiata nazionale femminile che da oltre un mese stanno squassando l' ambiente. Camilla Beltramini, avvocato: «Maila è stata convocata dalla Procura federale perché il suo nome era in un articolo di giornale. Non cerca vendette, non ha denunciato violenze sessuali nei suoi confronti. Auspichiamo ci si occupi anche del risvolto psicologico delle vicenda». Il #MeToo irrompe nel ciclismo ad agosto: una decina di atlete denunciano molestie e atti di bullismo da parte di team manager belgi e olandesi. Il fronte italiano viene aperto dall' olimpionico ed ex coordinatore azzurro Silvio Martinello che ricorda di aver segnalato in un dossier episodi analoghi alla Federciclismo senza che venissero presi provvedimenti verso i responsabili della nazionale, tuttora in carica. Martinello è sentito dalla Procura con l' ex tecnico Chiappa: entrambi citano il c.t. azzurro Dino Salvoldi. Fonti interne parlano di testimonianza dell' Andreotti resa in un' atmosfera tesissima. La Procura - presieduta dall' avvocato Capozzoli e formalmente indipendente dalla Federazione - deve valutare i comportamenti di un tecnico di successo ed eventuali «coperture» politiche. Nel corso delle audizioni sono stati fatti i nomi di altre ragazze, testimoni dirette o vittime di presunti comportamenti sconvenienti: alcune sono attive nei gruppi sportivi militari. La Procura generale del Coni, preoccupatissima per la vicenda, è pronta ad avocare a sé l' inchiesta in caso di archiviazione frettolosa o se non venissero sentiti tutti i testimoni necessari. In ballo c' è la reputazione di uno sport che ha molte carte da giocare alle Olimpiadi di Tokyo 2020.
Giuseppe Guastella per il Corriere della Sera l'11 ottobre 2019. Ha conquistato 20 titoli italiani su pista, ma a un passo dalle Olimpiadi di Tokyo Maila Andreotti, 25 anni, abbandona il Keirin per ritirarsi dopo 17 anni di attività (ha cominciato a 6). Fatica e sacrificio hanno temprato il carattere di questa ragazza friulana che è stata sentita dalla Procura della Federazione che indaga su episodi sconvenienti nel mondo del ciclismo.
Lei è la numero uno in Italia.
«Lo ero, anche se non bastava essere la più forte».
Perché?
«Vorrei saperlo anche io».
Cosa è successo?
«Maggio 2012, avevo 16 anni. Ai pre campionati europei juniores e under 23 in Portogallo c' erano nuovi tecnici e massaggiatori. Ebbi la sensazione che Dino Salvoldi (il commissario tecnico della nazionale, ndr ) trattasse le ragazze in modo diverso. Con me era professionale, con qualcuna molto più aperto».
E allora?
«Il marcio l' ho visto la prima volta che ho incontrato un certo massaggiatore. Mi faceva domande strane, faceva battute un po' spinte, entrava nella mia camera senza bussare e mi diceva "spogliati" prima dei massaggi».
E lei si è spogliata?
«Sono rimasta in maglia e slip».
Con i massaggiatori non si fa così?
«No. E comunque, proprio perché lui era un uomo e io una ragazzina, avrebbe dovuto avere più tatto. Un massaggiatore normalmente entra, ti mette un asciugamano addosso e ti massaggia. Lui stava a guardarmi mentre mi spogliavo. Mi sono sentita a disagio».
Può essere solo scarsa professionalità.
«No, e l' ho capito quando mi ha massaggiato solo il sedere. Mi sono lamentata con il mio allenatore dicendo che volevo l' altro massaggiatore».
Non c' era una massaggiatrice?
«No, nonostante alcune ragazze l' abbiano chiesto. Finita la trasferta in Portogallo, mi è stato fatto sapere che avrei dovuto farmi andare bene anche le cose che non andavano. Sono stata lasciata a casa dalla nazionale per due anni».
Cosa le fa pensare che non l' abbia fatto perché i suoi risultati non erano buoni?
«I risultati li avevo. Era l' unico a non voler investire sulla mia specialità e su di me».
Salvoldi ha avuto atteggiamenti sconvenienti?
«Diceva: "Lascia la porta della camera aperta". E lui entrava in qualsiasi momento, che tu fossi vestita o no».
Anche altre atlete si sono lamentate per lo stesso motivo?
«Tra di noi, più e più volte.
Ma nessuna ha voluto dirlo all' esterno».
Sarà sconveniente, ma non sono vere e proprie molestie.
«Io fisicamente da Salvoldi non sono mai stata molestata.Le ragazze che hanno avuto rapporti con lui erano tutte consenzienti. Io sollevo la questione psicologica, non fisica. Certe cose non vanno bene a priori».
Cosa sa di altro?
«Quello che era alla luce del giorno, e cioè che ha avuto relazioni con alcune atlete».
Normali rapporti sentimentali, dunque.
«Chiunque può innamorarsi, non è questo il problema. Lo diventa quando cominci a favorire chi è legata a te. Nel caso di una di loro, che non mi riguardava perché facevamo specialità diverse, ricordo ragazze che piangevano perché venivano lasciate da parte per una che non era la più forte. Tante hanno smesso per questo».
C' erano anche altre atlete?
«Sì, scappatelle. Non ho visto con i miei occhi, erano chiacchiere tra noi ragazze».
Sa di costrizioni?
«Non si tratta di costrizioni. Sono molestie psicologiche, ti metteva in condizione di annullare te stessa».
Non poteva essere una strategia tecnica?
«Non così. Puoi spronarmi, puoi correggere i miei errori anche in maniera severa, e io voglio un allenatore che mi dica quando sbaglio e perché.
Però certe offese, tipo "sei una cicciona, devi dimagrire", "non vali niente", non possono essere ammesse. Ha fatto di tutto per portarmi alla decisione di lasciare il ciclismo.
L' avevo presa prima che scoppiasse questo putiferio».
Eppure Salvoldi è il tecnico italiano più medagliato.
«Non nella mia specialità.Se lui in tutti questi anni ha tenuto un comportamento che non è consono per un tecnico della nazionale è perché nessuno gli ha mai detto che era sbagliato».
Il presidente della Fci, Renato Di Rocco, ha detto che c' è una email per denunciare in modo anonimo...
«Ne ho sentito parlare solo in questi giorni. Nessuno ci ha mai invitato a denunciare».
Ha detto queste cose in Federazione?
«No. Non ho avuto modo di farlo. Tutto si è svolto molto sbrigativamente e in un clima che non ho percepito a me favorevole. Avrei voluto parlare di bullismo e di violenza psicologica».
Che cosa farà ora?
«A causa del ciclismo non mi sono diplomata. Ora faccio l' ultimo anno del liceo. Devo riorganizzare la mia vita».
Un sogno?
«Le olimpiadi di Tokyo 2020. Resterà tale».
Potrebbe ripensarci?
«Con una federazione che mi rema contro, che ha usato le qualificazioni internazionali che ho ottenuto con la mia società per iscrivere altre atlete non ci penso proprio».
Dopo il diploma?
«Vorrei entrare in Polizia.
Avrei potuto farlo con i risultati sportivi, vorrà dire che farò il concorso».
SIAMO A CAVALLO: IL #METOO ARRIVA NELL’EQUITAZIONE. Daniela Cotto per “la Stampa” il 21 settembre 2019. Il #Me Too dello sport alza il velo sull' equitazione, il mondo dorato dove si intrecciano soldi, cavalli, passioni e giovanissime atlete in cerca di medaglie. Ambiente difficile per le aspiranti amazzoni che troppo spesso devono sopportare, oltre agli sfiancanti allenamenti di uno sport che ha un' importante tradizione olimpica, le attenzioni di allenatori-orchi che identificano le prede anche in base al censo. L'obiettivo, oltre al deviato piacere personale che spesso coincide con le molestie, è il cavallo con il ricco assegno di mamma o papà. Il quadro che ne esce dalle denunce del «Cavallo Rosa», gruppo di donne in prima linea contro gli abusi nell' equitazione italiana, è inquietante. Dieci giorni fa l' ultimo caso. Il tribunale federale della Federazione sport equestri ha radiato l' istruttore Alessandro Mazzi, 42 anni, accusato «di abusi su un' allieva minorenne e maltrattamenti ai cavalli». Mentre il tecnico veniva giudicato in sede sportiva, la giustizia ordinaria ha fatto il suo corso: l' accusato ha patteggiato la pena di due anni con il risarcimento alla persona offesa. La relazione malata con la sua allieva si consumava nei luoghi per lui sicuri, il maneggio in provincia di Verona e nella caserma dei carabinieri dove svolgeva l' attività di appuntato. Indossava sempre la divisa, Mazzi. A cavallo e non, usando il suo ruolo per catturare l' attenzione delle ragazzine. È stato il «Cavallo Rosa» a presentare l' esposto nei suoi confronti, così è nato il primo caso di radiazione su segnalazione di una associazione. Un lunghissimo lavoro di ascolto, di pazienza e di forza che ha raccolto le confessioni delle ragazze violate. Alice (nome di fantasia) oggi ha 20 anni e la sua testimonianza è stata determinante nel processo sportivo. Lei, in un incontro dedicato alla tutela delle donne nello sport, ha raccontato la sua storia: «Avevo 15 anni quando ho incontrato un mostro che si è servito del suo ruolo seminando dolore, manipolando famiglie e allontanando le ragazzine dal loro mondo innocente. Ma da queste esperienze si esce a testa alta, riprendendo le redini della propria vita pulita e onesta». E ancora: «È quello che ho fatto io. Ma attente, il loro identikit è comune, le tappe del disegno criminale sono sempre le stesse. Si muovono come lupi e il web è il loro terreno. Chiedono video e foto per manipolare le giovani e mettere una distanza tra la preda e i genitori, imponendo la consegna del silenzio». Ma le bambine non rimangono tali per sempre. Crescono e diventano donne coraggiose che poi ti presentano il conto. Come ha fatto Alice che, dopo essersi liberata dell' ombra nera, ha ripreso a studiare con ottimo profitto tornando anche a cavallo, la sua passione. E ora la sua vita scorre su binari normali, circondata da affetti e amici. «Facciamo rete, la verità deve venire a galla». Lei ha trovato pace anche grazie alla solidarietà dei volontari del «Cavallo Rosa», tra cui tre legali che lavorano per la causa, riferendosi ad esempi illustri come quello di Anne Kursinski, l' amazzone testimonial del #MeToo dello sport Usa. La stella americana, due argenti olimpici nel salto ostacoli ed un palmares di livello internazionale, è stata abusata all' età di 11 anni e ora è in prima linea nella battaglia che trova l' appoggio del governo degli Stati Uniti. La Kursinski testimonial In Italia il caso di Mazzi non è l' unico, i radiati per ora sono quattro (incluso lui). In Piemonte è finito sul banco degli imputati Daniele Bernardi (salto a ostacoli), accusato di violenza sessuale su minore e condannato in tutti e tre i gradi di giudizio. In Trentino Alto Adige ha fatto scalpore la vicenda di Karl Wechselberger, ex atleta di coppa del mondo di salto a ostacoli, condannato in primo grado e in Appello per violenza su minori. Nel Lazio Stefano Mauro (dressage) è in attesa di giudizio per abusi sessuali su minori. Ma il triste elenco degli istruttori-mostri a cui i genitori affidano figlie e figli è tristemente lungo. Sono undici i procedimenti penali in corso che presto riporteranno a galla il problema. Il presidente della Federazione Marco Di Paola ha stilato un codice etico: «Abbiamo reagito in maniera severa ad una pagina triste per lo sport. Sono pochissime le mele marce e vanno allontanate».
Daniela Cotto per “la Stampa” il 21 settembre 2019. Alice (nome di fantasia) ce l'ha fatta. Dopo aver subito abusi all' età di 15 anni da parte del suo istruttore di equitazione ha rotto il muro di omertà, come dimostrano le carte federali nelle quali si legge della relazione abusante istruttore-allieva, della vita nel centro ippico, degli allenamenti e dei concorsi. Una vita totalizzante e manipolata da Alessandro Mazzi, 42 anni. «Il Sig. Mazzi ha compiuto atti sessuali sull'allieva minorenne abusando del ruolo; in specie le trasmetteva gif pornografiche, la baciava sulla bocca, le toccava il seno e le parti intime e aveva con la stessa rapporti completi. Nel 2017 ci sono stati episodi di violenza da parte del Mazzi nei suoi riguardi, soprattutto l' atto reiterato di scaraventarle oggetti con l' intento di colpirla. Nel 2018 si è rivolta a uno psicologo in seguito allo choc subito per aver scoperto i trascorsi di Mazzi con altre allieve minori». Il percorso di Alice è stato doloroso: «Ci frequentavamo soprattutto in trasferta, ai concorsi. Mi ero invaghita di lui. Prima non avevo mai avuto relazioni. Il mio primo rapporto sessuale si è verificato circa un anno e mezzo dal nostro primo incontro. Lo frequentavo perché lui sosteneva che il rapporto con la moglie era in crisi. Mi confidai con mia madre che gli intimò di limitarsi a fare l' istruttore ma lui continuava imperterrito e io non riuscivo a respingerlo. Il rapporto divenne più intimo, poi scoprii che, oltre a me, attenzionava contemporaneamente altre ragazze». Tra le testimonianze rese c'è anche quella dell'ex moglie del Mazzi che lavorava con lui in maneggio. «Ho visto crescere le nostre allieve. Non avrei mai immaginato che potessero diventare vittime di quello con cui dividevo tutto». Alice ha trovato la forza di liberarsi dall' istruttore-orco grazie all' ascolto del «Cavallo Rosa», l' associazione nata per contrastare gli abusi sessuali nello sport che si avvale della collaborazione di avvocati e di psicologi. Una missione, energia e fatica emotiva al servizio della causa. Daniela Simonetti, giornalista, presidentessa del «Cavallo Rosa» ha le idee chiare. «Da un lato presentiamo gli esposti nelle Procure Federali, offrendo assistenza alle vittime e gratuito patrocinio nel processo sportivo. Dall' altro lato abbiamo proposto alcune modifiche al Codice di giustizia sportiva e sottoposto al Coni una norma per portare la prescrizione da quattro a dieci anni per gli illeciti riconducibili alla violenza sessuale». La strada è lunga ma il sogno è creare un polo tra le federazioni per tutelare donne e bambini.
Daniela Cotto per la Stampa il 14 Ottobre 2019. «Scusi, ma quando ne parlo mi torna la rabbia. Non è facile sapere che tua figlia è stata abusata, aveva 14 anni quando quel mostro l'ha plagiata. Il suo giochino è andato avanti due anni, fino a quando non l' ho scoperto leggendo i messaggi su Instagram». Paola, 42 anni insegnante nelle Marche, singhiozza. È difficile la strada di questa mamma che ha scelto di infrangere il muro del silenzio denunciando sia alla giustizia ordinaria che a quella sportiva, con l' aiuto del «Cavallo Rosa». Lui, l' istruttore federale di terzo livello, ha avuto una sentenza di condanna a due anni e quattro mesi (pena sospesa) per atti sessuali con una minore. La ragazzina all' epoca dei fatti aveva 14 anni, lui 39. Nelle carte della giustizia ordinaria si legge: «...cedeva all' invito dell' imputato di recarsi in camera sua verso le ore 0:30. In quell'occasione veniva consumato un rapporto completo. A seguito di ciò l' imputato diveniva più dolce nei confronti di ...». È un altro caso del #MeToo dell' equitazione, lo scandalo che ha investito la federazione italiana sport equestri dopo la vicenda che ha portato alla radiazione di due istruttori (Blasi e Mazzi) e all' arresto di un proprietario di maneggio a Caserta e di una ex stella dell' ambiente in Alto Adige (Karl Wechselberger).
Paola, racconti.
«Aurora (nome di fantasia) ha iniziato ad andare a cavallo all' età di 7 anni. Per seguire lei anche il mio ex marito ed io frequentavamo il maneggio e il proprietario, che è anche istruttore. Mai avrei immaginato di vivere un simile incubo. Noi con quel signore abbiamo festeggiato compleanni, trascorso weekend... Una situazione devastante».
Quando ha scoperto che sua figlia si portava dentro questo segreto?
«Tardi e me ne faccio una colpa. Io avevo affidato la mia piccola ad un istruttore, non a un "orco". E di questo non riesco a darmi pace. Avevo fiducia in lui, ero contenta perché faceva sport all' aria aperta e l' equitazione è la sua passione. Una sera ho trovato un biglietto sul cruscotto dell' auto e dà lì mi si è accesa la classica lampadina. Poi ho scoperto tutto».
La sua reazione di madre?
«Ero una furia, ho portato via mia figlia e il cavallo. Poi ho affrontato la moglie di quell' uomo. Mi sembrava incredibile che potesse non sapere. La vita di Aurora si è sciolta in un giorno. Ha perso la persona di cui pensava di essere innamorata e il suo sport. Anche gli amici le hanno voltato le spalle. Sono stati anni difficili. Quell'uomo l' ha allontanata da tutti noi. Le aveva impedito di parlare, di uscire con i compagni di scuola, di andare alle feste, di fare una vita normale. Grazie al sostegno della mia famiglia ho portato avanti la battaglia. L' abbiamo affrontata con il mio ex marito e il mio compagno. Insieme abbiamo deciso di denunciare. Questi personaggi devono essere radiati».
Una strada tortuosa.
«Sì, anche dolorosa. All' inizio lei non collaborava, subiva l' influenza dell' istruttore. Le aveva detto di tacere. Il sogno era un futuro di vita insieme in un maneggio. E le aveva promesso di non presentarsi neanche in udienza per non metterla in difficoltà. Invece, una mattina è venuto in aula rompendo il tacito accordo. Lei è scoppiata in lacrime, aveva realizzato che il sogno era finito. Da lì Aurora ha iniziato a raccontare».
E cosa ne è uscito?
«Ricatti su ricatti. All' inizio, quando si avvicinava, Aurora aveva paura. Poi lui ha iniziato a manipolarla, facendole capire che se non si concedeva ci sarebbero state conseguenze sulla sua attività sportiva. Dalle carte emerge tutto».
E poi?
«Il destino è strano. Pensi che durante la vicenda ho avuto in classe la figlia dell' istruttore. Io insegno ai piccoli, e lei mi ha parlato di Aurora. "C' era una ragazzina simpatica che veniva al maneggio, era mia amica ma adesso non viene più", mi ha detto una volta. Io con la bimba dell' uomo che ha molestato mia figlia ho rispettato il ruolo, quello che avrebbe dovuto fare lui ».
Ha chiesto aiuto?
«Nessuno si è fatto avanti per vie ufficiali. Mi sono sentita molto sola».
Nell' ambiente ha trovato solidarietà?
«Zero. E fa male da morire. Persino gli ex compagni di equitazione di Aurora l' hanno tagliata fuori, nessuno le ha espresso solidarietà, anzi. Sui social postano messaggi in cui appoggiano l' istruttore. L' omertà però va combattuta. Io voglio giustizia. Per mia figlia, per la nostra famiglia e per uno sport migliore».
#MeToo nel ciclismo Malagò scende in campo: "Pronti a un'indagine". Il presidente del Coni: "Di fronte a denunce circostanziate, andremo fino in fondo..." Marcello Di Dio e Pier Augusto Stagi, Mercoledì 28/08/2019 su Il Giornale. È sul pezzo, su questo non c'erano dubbi. Il presidente del Coni Giovanni Malagò non si fa trovare impreparato sulla questione #metoo azzurro sollevato dal nostro giornale. Lo incontriamo al palazzo della Regione Lombardia dopo il vertice con le istituzioni per Milano-Cortina 2026, e il numero uno dello sport italiano non si sottrae alle nostre domande. «Fermo restando che ho appreso tutto da Il Giornale che ha evidenziato in questi giorni questa situazione, posso solo confermare che siamo attentissimi alla questione. È chiaro che al momento le mie conoscenze si limitano a quello che ho letto, la nuova puntata de Il Giornale e un dialogo con il Presidente Federale Renato Di Rocco. Al momento a livello ufficiale, parlo di Procura Generale del Coni, perché io non sono né un arbitro né un giudice, non c'è nulla. Ovviamente faremo in modo urgentemente di capire se ci sono questo tipo di denunce, se sono circostanziate, se ci sono di mezzo dei tesserati. Sapete benissimo che sotto la mia presidenza nulla è mai stato - per così dire - nascosto o insabbiato. Per cui è giusto che, laddove qualcuno si assume la responsabilità di dichiarare e denunciare fatti gravissimi, ovviamente con grande urgenza e vista anche la delicatezza dell'argomento, noi prenderemo in mano la questione con la massima serietà e attenzione». E ancora. «Ho apprezzato che lo stesso Giornale, che lo ripeto, con questa inchiesta sta facendo un grandissimo lavoro, ha sottolineato quello che il Coni sta facendo nell'universo femminile. Una vicepresidente donna (la Sensini, ndr) che, pochi giorni fa a Patrasso, è andata firmare con la mia delega - prima volta nella storia del comitato olimpico e dello sport italiano - l'aggiudicazione dei Giochi del Mediterraneo non è una cosa secondaria. Diana Bianchedi era ed è la coordinatrice della candidatura olimpica. Sapete benissimo quello che oggi il Cio impone in termini di equiparazione di quote anche e soprattutto nei consigli federali, ma adesso integrati dalle norme sugli atleti e tecnici, per cui se c'è qualcuno che ha un'attenzione e il massimo rispetto su fatti così gravi, ammesso che esistano, quello sono io». Per un attimo si spoglia dall'abito di presidente del Coni e resta solo con quelli di padre. Padre di due figlie. Se si fosse trovato in una situazione simile, come reagirebbe? «Se tutto quello che ho letto in questi giorni fosse vero, non ci sarebbero parole». È chiaro che ognuno a questo punto debba fare la propria parte. Dopo anni di mugugni e malumori, è necessario uscire allo scoperto e denunciare. Sono tante le ragazze e i genitori che hanno vissuto situazioni imbarazzanti, ma come dice lo stesso presidente del Coni è il momento di parlare. Roberto Chiappa, classe 1973, bergamasco di adozione, 18 titoli italiani della velocità (almeno a livello numerico meglio di Antonio Maspes), campione del mondo tandem a Hamar nel 1993 e bronzo a Palermo nel 1994, è disposto a collaborare. «Ho letto tutto in questi giorni, e credetemi, non vedevo l'ora che arrivasse questo momento - ci ha spiegato -. Ho passato la mia vita nei velodromi, sono stato anche per quattro anni nel giro azzurro come tecnico della pista. Ho visto tante cose, e ne ho anche parlato con i dirigenti. Niente da fare, dopo quattro anni sono dovuto andare via io. Una cosa però la dico: nelle dovute sedi io la mia parte la faccio».
Pier Augusto Stagi per il Giornale il 27 agosto 2019. «Se hai vinto diversi titoli italiani proprio brocca non sei, eppure se fai tanto di alzare la voce e mettere i puntini sulle i, ti tappano la bocca e ti tarpano le ali dicendoti: ti lagni sempre perché tua figlia vale poco». Parla chiaro D.P., le iniziali sono di fantasia, non vuole apparire per il momento. La situazione è assolutamente grave, ma a suo vedere non ci sono ancora le condizioni per uscire allo scoperto «anche se sono assolutamente felice del fatto che Il Giornale abbia aperto questo vaso di Pandora». Si morde la lingua, vorrebbe aprire il dossier che sta compilando da anni, ma «devo fare il bravo ancora un po', perché se sbaglio i tempi danneggio anche mia figlia e il lavoro che si sta facendo», ci dice. «Dicono che la situazione è migliorata? Certo, rispetto a prima non c' è neanche paragone, ma quello che vi ha raccontato Silvio Martinello è solo la minima parte di un sistema azzurro che vedeva impegnati certi massaggiatori che testavano il terreno con ragazzine anche minorenni. Se questo massaggiatore che si vantava di essere medico senza esserlo c' è ancora? No, fortunatamente almeno questo l' hanno cacciato». È un padre che non vuole ancora esporre la sua famiglia allo scandalo «perché vediamo perfettamente quello che è successo per i casi Weinstein: chi ha denunciato è finito nel tritacarne e qui in Italia le cose sono anche peggiori, perché si parla tanto di morale e etica, ma solo per riempirsi la bocca e farsi belli. Poi quando c' è da fare e affrontare delle criticità non si fa assolutamente nulla. Sono padre e vi garantisco che assecondare la passione di una figlia per le due ruote mi costa tantissimo: sia dal punto di vista psicologico che economico. Dal giro azzurro ci è in pratica uscita qualche anno fa, e in questo periodo corre le qualificazioni di Coppa del Mondo e olimpica in pratica da indipendente. Abbiamo iscritto la nostra piccola società come Uci-Track e ci paghiamo tutto di tasca nostra. In azzurro è stata un mese e mezzo fa ai Giochi Europei in Bielorussia. Le dico solo una cosa: l'hanno fatta partire al giovedì per farla correre il giorno dopo. È chiaro che altre ragazze hanno avuto un trattamento diverso». D.P. cerca di tenere la barra dritta, anche se sua moglie avrebbe già gettato volentieri la spugna da un po'.«È schifata, non ne vuole più sapere di sport e bicicletta ed è tre anni che invita a piantarla lì, perché quell'ambiente non è sano. È pieno di pregiudizi e discriminazioni agonistiche a sfondo sessuale. Sono bravi a correre sul filo del rasoio, sempre al limite. Due sono i problemi che ci si trova sempre a dover affrontare: subdole avance sessuali e manipolazioni psicologiche. Lo ripeto: in questi anni qualcosa è cambiato, ma ancora molto c' è da fare. Alcuni non hanno assolutamente capito la gravità del problema. Tutti cattivi? Tutti da mettere dietro ad una lavagna? Assolutamente no. Un tecnico bravo che merita tutta la considerazione del caso c' è e si chiama Pierangelo Cristini, che segue le ragazzine juniores: è davvero bravissimo». Molti si chiederanno, ma perché solo adesso? Perché è adesso che si è messo in moto qualcosa di importante a livello mondiale. Hanno deciso di dare forza alla campagna #metoocycling. Team di livello mondiale che stanno investendo sempre di più sull' altra metà del cielo, ma lo vogliono fare garantendo loro pari opportunità, come la Sunweb o la Trek Segafredo. «Scoppierà la bomba a livello di giustizia ordinaria solo quando sarà ora... Come un mantra si dice: le ragazze devono parlare. Ma non è così semplice. Molte di loro, per poter vivere e svolgere con tutte le garanzie del caso la loro attività, sono state assunte in corpi dello Stato: credete davvero che siano in una posizione dominante per poter parlare con tranquillità? E poi mi consenta di essere io a fare una domanda: ma come è possibile che nel giro della nazionale non ci sia posto per una donna.Tecnico, massaggiatore, accompagnatore: quel che volete voi. È solo una domanda».
Marco Bonarrigo per corriere.it il 25 agosto 2019. «Lo stipendio era basso: la Health Mate-Cyclelive faticava a trovare sponsor. Così il manager ci propose di vivere da lui a Ekeren, in Belgio. Sei cicliste di sei Nazioni diverse nell’ultimo piano di una casa molto grande e la soluzione sembrava ok. Il problema è che lui, da subito, si mostrò troppo espansivo: cercava di abbracciarci o baciarci, girava in mutande, faceva commenti sul nostro corpo e quando ci ritiravamo infastidite lasciava intendere che non ci avrebbe selezionate per le gare. Per evitarlo sono arrivata a chiudermi in camera tutto il giorno. Alla fine sono scoppiata».
La denuncia. Esther Meisels, 24 anni, israeliana, è una delle quattro cicliste professioniste (tra loro Tara Gins e Chloë Turblin) che hanno denunciato (in prima battuta al sito cyclingnews.com) Patrick Van Gamsen, patron di Health Mate, sostenute da altre dieci colleghe che hanno chiesto l’anonimato. Da aprile, dopo essersi ritirata alla Liegi-Bastogne-Liegi, Ester Meisels e le sue colleghe sono senza lavoro. Altre dieci pedalano ancora agli ordini di un manager in carica in attesa di una decisione della Commissione etica federale con una procedura discutibile (articolo 21) che «non concede al denunciante di costituirsi nel procedimento o di essere informato sul suo andamento e ne prevede la convocazione a discrezione dei consiglieri».
Abusi e molestie. In un ciclismo femminile in crescita quanto a qualità e pubblico, il problema di abusi e molestie è sempre più sentito. Allo scandalo della belga Health Mate si aggiunge quello, datato 2017 ma ancora non chiarito, della Cervelo-Bigla, dove milita la star Annemieke van Vleuten: quattro atlete (Iris Slappendel, Carmen Small, Vera Koedooder e Doris Schweizer) hanno accusato il manager Thomas Campana di intimidazioni, atti di bullismo e discriminazioni legate alle loro oscillazioni di peso, tema ricorrente nelle denunce. Una ciclista americana di alto livello (la cui testimonianza al gruppo di inchiesta «The Outer Line» è stata resa anonima) dopo essere scoppiata in lacrime per non aver raggiunto il peso forma prescritto è stata «premiata» dal manager, durante una riunione con le compagne, con un pacco regalo contenente un pene di plastica. La denuncia più celebre in questo senso viene dalla pistard inglese Jessica Varnish, «bullizzata» dal coach-guru Shane Sutton: lui è stato allontanato (tornando però ad allenare in Australia), la federazione non ha pagato per averne sostenuto i metodi.
Il decalogo. Per questo lunedì scorso i tedeschi del Team Sunweb (uno dei più ricchi, lo stesso del vincitore del Giro 2017 Tom Dumoulin) ha annunciato un decalogo contro gli abusi destinato a proteggere le ragazze al motto di «#MeToo cycling». Il protocollo prevede una commissione interna di garanti, interventi immediati, il divieto di accesso a determinati spazi da parte del personale maschile (del tutto prevalente nei ruoli dirigenziali e tecnici), una «consulente» scelta da ogni atleta presente durante massaggi, medicazioni e riunioni, licenziamento in tronco per chi trasgredisce alle direttive.
«Solo chi se lo può permettere». Marta Bastianelli, 32 anni, ex iridata, è campionessa europea e italiana in carica: «È una decisione bellissima – spiega — ma attuabile solo con i budget milionari di Sunweb. Noi continueremo a non avere bus dove svestirci o fare la doccia, molte ragazze continueranno a cambiarsi in auto o a fare pipì in un angolo protette dalle compagne. Sappiamo bene che il ciclismo ha un inevitabile versante animalesco e quando pedaliamo non siamo principesse ma combattenti. Ma se ci fossero più investimenti ci sarebbero più dignità e meccanismi di protezione dagli abusi. Magari tante ragazze si avvicinerebbero più volentieri e in sicurezza a questo sport».
#MeToo, furia Di Rocco: "Non sono smemorato. Quel problema c'era". Il presidente: "Dicono che non ricordo? Non è vero". Intanto, il ct delle donne Salvoldi adesso si difende. Pier Augusto Stagi, Venerdì 13/09/2019 su Il Giornale. Renato Di Rocco non è certo più un giovincello, ma i suoi 72 anni li porta con assoluta disinvoltura, anche se non ha nessunissima intenzione di passare per quello che non è: uno smemorato, «o peggio, per un vecchio rinco», ci dice cercando di dissimulare il momento delicato, con una mezza battuta. È così: il numero uno del ciclismo italiano non vuole assolutamente passare per quello che non ricorda o si rimangia quanto ha raccontato qualche settimana fa proprio a noi de Il Giornale, quando abbiamo portato a galla il caso #metooazzurro. In quell'occasione parlò di un caso isolato e di un rapporto consenziente tra un tecnico azzurro e un'atleta, problema che fu immediatamente affrontato con un richiamo formale. Al Corriere della Sera, ieri, sulla vicenda è stato tutto un «non ricordo bene i fatti, ma la denuncia di Martinello era molto vaga e non presentava prove. Forse indagammo. Ma di certo non diffidammo il tecnico: non era nei nostri poteri». Ma Di Rocco da noi nuovamente contattato, conferma tutto: «Quello che ho detto lo confermo». E sempre sul Giornale del 26 agosto scorso, Di Rocco parla di aver dotato la Federazione di una mail gestita da un organo terzo, messo a disposizione delle ragazze per denunciare ogni abuso o disagio psicologico. Il Corriere, invece, sostiene che il presidente Federale non si ricordi nemmeno l'indirizzo mail. «Ricordo però molto bene di averne parlato in pubblico a Castelnuovo Vomano lo scorso 27 luglio, in occasione di un incontro di formazione obbligatorio per tutte le ragazze juniores (17/18 anni) e, a parte, con le ragazze élite, incontro aperto anche ai loro tecnici e genitori ci spiega il presidente -. Eravamo alla vigilia della sfida tricolore e diedi l'indirizzo di posta gestito da terzi che garantisce l'anonimato a tutte le ragazze, davanti ad una platea di almeno 90 persone. Con me, tra le altre, c'era anche Alessandra Cappellotto, ex campionessa del mondo da sempre molto attenta e impegnata in campo femminile. Insomma, l'indirizzo è stato dato molto prima che scoppiasse il caso #MeToo». E se gli si chiede l'indirizzo, Di Rocco non tentenna. «Anche perché è molto facile: odv231@federciclismo.it. E Odv sta per Organo di vigilanza. È vero, sul sito Federale non c'era nulla, ma dall'altra sera c'è». Sull'inchiesta, invece, Di Rocco preferisce non parlare: «Non per altro, ma per rispetto di chi sta portando avanti questa importante e delicata inchiesta», dice. Edoardo Dino Salvoldi, invece, il ct azzurro delle ragazze, che per il ruolo ricoperto è al centro dell'indagine federale, è uscito ora allo scoperto per difendersi sulle colonne della Gazzetta dello Sport. «Sono molto stanco, questa vicenda mi ha consumato», dice dopo aver parlato per più di un'ora davanti all'avvocato Nicola Capozzoli della Procura Federale. «Sono stato chiamato solo perché sono il responsabile della struttura chiamata in causa», ha spiegato alla rosea. E alla domanda: esiste il #MeToo nel ciclismo? Salvoldi ha risposto: «Non lo so. Di storie e leggende è pieno il ciclismo, ne ho sentite tante anch'io, ma qual è la verità o il limite?». Proprio così: qual è la verità o il limite? Alla Procura il compito di scoprirlo.
Abusi, sentito il c.t. delle cicliste: «Incontri in stanza? È lavoro». Pubblicato giovedì, 12 settembre 2019 da Corriere.it. «Sono stanchissimo, frastornato, deluso e non vedo l’ora che l’incubo finisca». Dino Salvoldi, 48 anni, milanese, commissario tecnico della nazionale femminile di ciclismo è in lacrime. Il settore più decorato di tutto lo sport italiano (220 tra medaglie olimpiche, mondiali ed europee negli ultimi 18 anni) è nella bufera. Contro i suoi tecnici accuse (da provare, ovviamente) di comportamenti sconvenienti nei confronti delle atlete emerse il mese scorso quando decine di cicliste olandesi, belghe, inglesi e tedesche hanno denunciato (al grido di #metoocycling ) situazioni insopportabili in una disciplina dove dirigenti e tecnici sono al 95% maschi. Ieri sera, negli uffici dello Stadio Olimpico, la Procura federale (il fascicolo è stato aperto contro ignoti dal procuratore Capozzoli) ha sentito a lungo Salvoldi che dal 2001 decide le convocazioni, include le atlete nei piani federali, le segnala ai gruppi sportivi militari il cui eventuale ingaggio rappresenta per molte di loro l’unica fonte di sostentamento. Il tecnico era al centro di una denuncia presentata nel 2007 dall’ex olimpionico ed ex direttore delle nazionali Silvio Martinello (sentito martedì) che chiese alla federazione di richiamarlo a comportamenti più consoni al ruolo riferendo le testimonianze di alcune atlete che si erano rivolte a lui in lacrime. «Ebbi - spiega Martinello - un confronto duro con l’ufficio di presidenza al completo e con il tecnico stesso che promise un rapido cambio di atteggiamento. Si parlava di violenza psicologica, di episodi di bullismo, di un cameratismo che va ben oltre la ragionevolezza, del potere di un “cerchio magico” che giudicai inaccettabile». Renato di Rocco, allora come oggi presidente della federciclismo italiana: «Non ricordo bene i fatti, ma la denuncia di Martinello era molto vaga e non presentava prove. Forse indagammo. Ma di certo non diffidammo il tecnico: non era nei nostri poteri». Di Rocco ha ammesso che il c.t. avrebbe intrattenuto «relazioni sentimentali consensuali» con atlete ma che queste rientravano in una sfera di comportamenti privati. Ora precisa: «Se ricordo bene, a me ne risulta una sola. All’epoca gli chiesi chiarimenti per accertarmi che la sua partner non godesse di favoritismi, ma si trattava un’atleta di livello modesto e il problema non si pose». Salvoldi: «Di innamorarsi capita a tutti. Si tratta della mia vita privata, non intendo parlarne». Sentiti dal Corriere , alcuni testimoni parlano di prassi discutibili tuttora in vigore durante i ritiri di allenamento e competizioni: di riunioni atleta/tecnico convocate in camera d’hotel, dell’«ordine di servizio» di lasciare le stanze sempre aperte, con la chiave all’esterno. Si può accettare che un tecnico convochi un’atleta nella sua stanza? Di Rocco: «Ammesso che sia vero, nelle stanze di albergo del ciclismo ciò accade abitualmente: questo tipo di promiscuità diventa sincronismo di relazione. Ma se rappresenta un problema lo vieteremo». Salvoldi:«Con le ragazze cerco sempre di fare incontri in luoghi pubblici, non nego che qualche volta sia capitato in stanza: collaboro con la nazionale dal 1994 e non è mai successo nulla di male. Dopo l’apertura dell’inchiesta ho ricevuto decine di messaggi e telefonate di solidarietà dalle mie atlete». La Procura Federale ha previsto audizioni la prossima settimana: sui nomi c’è assoluto riserbo. Qualche testimonianza comincia ad emergere. E se i fatti denunciati da Martinello sono già prescritti dal codice sportivo (si parla di violazione dell’Articolo 1, ovvero dell’obbligo di lealtà e probità) vanno approfonditi alcuni episodi accaduti durante le trasferte di Coppa del Mondo della pista delle ultime due stagioni. Federciclismo fa sapere di aver da tempo istituito un’«email gestita da organi terzi a disposizione delle ragazze per denunciare ogni abuso» ma sul sito web federale non ve n’è traccia e né Di Rocco né il segretario Gabriotti ricordano l’indirizzo. Meglio recuperarlo in fretta per evitare «sincronismi di relazione» imbarazzanti.
Supercoppa europea, la Frappart fa la storia: prima donna ad arbitrare una finale, promossa a pieni voti. Libero Quotidiano il 15 Agosto 2019. A Istanbul si fa la storia. Per il Liverpool di Klopp, che vince la sua quarta Supercoppa Europea (record inglese) battendo il Chelsea di Lampard ai rigori. E per Stéphanie Frappart, il primo arbitro donna a fischiare una finale maschile Uefa. Alla Vodafone Arena sold out, il fischietto francese (con esperienza anche in Ligue 1) si fa rispettare, arbitra con personalità e tempismo, coadiuvata dall' ottimo lavoro delle due assistenti (donne). Dopo un avvio vivace del Liverpool, è monologo Chelsea nel primo tempo: Pedro colpisce una traversa alla mezz' ora, poco prima che Giroud raccolga l' assist al bacio di Pulisic battendo Adriàn di sinistro per l' 1-0. Ancora Pulisic protagonista 4' più tardi, quando segna ma parte in fuorigioco. In 30" la squadra arbitrale annulla, col supporto del Var.
Nella ripresa Klopp inserisce Firmino, che dopo 3' regala a Mane il pallone dell' 1-1. I Reds crescono e al 74' serve un doppio miracolo di Kepa (su Salah e Van Dijk). Segna Mount, ma il gol viene annullato ancora per offside. Ai supplementari colpisce ancora Mane, ma la gioia dura poco. Adriàn stende in area Abraham, è rigore (dubbio, il pallone stava uscendo sul fondo, ma il Var convalida) per il Chelsea: Jorginho gol. I rigori premiano i Reds e li riportano sul tetto d' Europa in una città storica (in cui si giocherà la prossima finale di Champions, la stessa Istanbul di Milan-Liverpool del 2005), in una notta storica.
Stéphanie Frappart promossa: precisa, autoritaria e un po' strafottente. Pubblicato giovedì, 15 agosto 2019 da Corriere.it. Una grande personalità: il giudizio sull'operato dell'arbitro Stéphanie Frappart durante la finale di Supercoppa Europea tra Liverpool e Chelsea non può che essere positivo. Dieci giorni nell'occhio del ciclone, la giovane età (ha solo 35 anni) e l'importanza della partita avrebbero potuto schiacciarla, ma non ha mai perso la calma. Sicura delle proprie decisioni, sempre precisa, non ha mai dato modo ai calciatori di esagerare con le proteste e non si è persa in inutili discussioni. I giocatori, infatti, hanno subito capito: nessun atto di scortesia, nessun gesto maleducato, si è visto immediatamente il rispetto delle due squadre nei suoi confronti. La sua bravura si è notata soprattutto nel primo tempo, quando la partita è stata tecnicamente e tatticamente di alto livello. Ma la sua prestazione è stata all'altezza anche nell'episodio più dubbio quando, all'inizio della partita, ha deciso di non fischiare un calcio di rigore per un fallo di mano in area del Chelsea. Ha scelto bene, dimostrando la sua autorità e andando anche in controtendenza rispetto a quelle che sono le disposizioni attuali. Ha fischiato pochi falli, agevolata da due squadre molto corrette e dall'aiuto meticoloso delle guardalinee. In campo la sua presenza non si è notata, ed è il migliore complimento che le si possa fare. La più grande qualità che un arbitro deve avere è quella di esserci, ma di non essere visto. Stéphanie Frappart non ha mai lasciato il gioco da solo, posizionandosi in maniera perfetta per osservare lo sviluppo dell'azione senza intralciarla. Ha dimostrato sul campo di aver studiato, di aver osservato anche quelli che sono gli stili di gioco delle squadre che è andata ad arbitrare. Non si è mai trovata incastrata, prevedendo anche quelle che potevano essere le mosse successive dei giocatori. Tecnicamente ha utilizzato tutti gli accorgimenti per arbitrare al meglio una partita di questo livello. Ha sempre corso all'indietro, avendo un occhio costantemente focalizzato sull'azione. I suoi spostamenti, veloci e accurati, le hanno permesso di controllare in maniera efficace lo sviluppo del gioco. Una sorpresa.
Alessandra Bocci per la Gazzetta dello Sport il 19 giugno 2019. La strada si allunga e il numero dei partecipanti al corteo cresce. L' Italia delle ragazze non ha strumenti magici da suonare e meno che mai vendette da compiere, anzi trasmette emozioni positive che martedì per la partita con il Brasile hanno tenuto davanti alle tv 7 milioni e 323mila persone (Rai 1 più Sky), con il 32.9 per cento di share. Merito della Rai, che ha approfittato dell' orario (ore 21) e del fascino della squadra avversaria per organizzare il trasloco del calcio donne sul canale più seguito. Un upgrade che ha funzionato, ma funzionano anche gli investimenti di Sky. E Aldo Grasso, critico severo, applaude la tv di stato per aver abbattuto «un tabù di epoca fascista, quando si stabiliva che le donne non dovevano giocare a pallone». Ma applaude anche il canale a pagamento che, a suo parere, ha fatto tanto per liberare il calcio femminile dall' immagine che si portava dietro. «Trovo certi discorsi senza senso. Chi ha stabilito che in Italia il calcio è maschio? Magari è stato così finora, ma le cose cambiano. Le donne in tanti sport hanno dato lezione agli uomini in alcuni periodi».
Il calcio femminile in tv è un vero successo?
«Lo dicono i numeri. I motivi? Più di uno: è caduto un tabù e c' è la curiosità di vedere come giocano queste ragazze. Ho seguito partite della Primavera, ma anche di B o A, più noiose delle loro».
Le ragazze della Bertolini sono telegeniche?
«Il calcio femminile lo è sempre stato, da quando abbiamo visto le prime squadre americane. Ricordo l' immagine della giocatrice (era Brandi Chastain, ndr) che si toglie la maglia per esultare e resta in reggiseno: un gesto iconico. Le italiane sono carine, non sono esagerate nelle proteste, magari potremmo smettere tutti di lamentarci per un arbitro scarso, ma questo è un altro passo avanti da fare. Non trovo niente di goffo nei loro gesti e credo possano soltanto migliorare».
Questa sovraespozione momentanea lascerà traccia nel futuro del movimento?
«Credo di sì, perché quando un evento va in tv scatta l' emulazione, pensi al curling. A maggior ragione può succedere con uno sport come il calcio, soprattutto se questa Italia andrà avanti. La tv è una forma di legittimazione: magari i genitori ancora incerti sull' opportunità di far giocare a calcio le loro bambine, o l' oratorio che non sa se fare anche una squadra femminile... ecco, questa potrebbe essere una spinta decisiva».
E anche un modo per migliorare la cultura sportiva?
«Lo spero, perché ce ne sarebbe bisogno. E confido molto nelle donne telecroniste: per Italia-Brasile c' erano due giornaliste e Patrizia Panico alla Rai e un telecronista e Carolina Morace a Sky. Non se ne può più di certi telecronisti che spiegano ogni cosa, non resta spazio all' immaginazione. Le telecroniste lasciano che siano protagoniste le giocatrici, non loro stesse. Penso che un po' di silenzio nelle telecronache sarà sempre più apprezzato e le donne, pare strano dirlo, parlano meno degli uomini».
E questo è l' unico momento di scherzosa misoginia della chiacchierata.
Francesco Velluzzi per gazzetta.it il 19 ottobre 2019. Un altro coming out. Stavolta arriva dal calcio femminile. Che in questi mesi ha ribaltato le gerarchie dello sport italiano conoscendo un boom spaventoso, derivato dai successi sul campo, dalla partecipazione della nostra Nazionale al Mondiale di Francia in giugno, dal matrimonio con i top club della serie A che hanno accolto le donne al loro interno, dall' esposizione televisiva e mediatica che negli ultimi mesi è stata enorme. Il calcio donne insidia a livello di popolarità (il numero delle tesserate è ancora nettamente a favore della pallavolo) il volley da dove era arrivato il coming out più recente. Quello di Paola Egonu, nell' autunno dello scorso anno: «Sì, ho una fidanzata». La dichiarazione rimbalzò rapidamente. Le relazioni omosessuali nello sport femminile sono presenti ma, è la stessa Linari a ricordarlo, quanto in ogni campo e realtà sociale. Elena Linari, difensore della Nazionale e dell' Atletico Madrid, si è raccontata a Sara Meini per Dribbling , il rotocalco di Rai 2 che punta quest' anno tantissimo sulle storie di sport e in particolare su quelle dello sport femminile. Per la Linari parlarne dalla Spagna forse è stato più facile: «Qui a Madrid non ho nessun problema,anzi...In Italia sono io la prima ad aver paura di affrontare l'argomento perché non so la gente come potrebbe reagire. Ho paura del giudizio della gente». Il difensore azzurro, dal suo osservatorio spagnolo, non si tira indietro e il confronto è diretto: «Per attirare l' attenzione sul calcio femminile bisogna parlare della sua omosessualità? È un paradosso...bisogna dire che una ragazza sta con un' altra ragazza per attirare l'attenzione della gente? Abbiamo davvero sbagliato tutto». Poi la confessione a ruota libera in cui è entrato anche il legame con la nonna alla quale ha raccontato dei propri sentimenti: «Quando si ha un figlio la cosa più importante è che sia felice. Se è felice con una relazione omosessuale non vedo il problema. È ovvio, ci potranno essere delle difficoltà , ma nella vita in generale le difficoltà ci sono. È stato toccante quello che mi ha detto mia nonna quando lo ha saputo. Era contenta ma piangendo mi ha detto "ho tanta paura per te perché non siete tutelate" io ho pianto, ma di gioia perché a pronunciare queste parole è stata una nonna, una persona di 80 anni». «Io nella mia vita privata faccio quello che voglio. Ci sono tanti calciatori che si coprono con un' altra relazione, così come qualsiasi altro sportivo per evitare i famosi pregiudizi. Tante volte si evita di mettere un post per evitare di coinvolgere altre persone ma ancora in Italia non siamo pronti. Ma poi non è che nel calcio femminile fioccano le omosessuali, no proprio no, omosessuali ci sono nel calcio maschile, negli altri sport e nella vita quotidiana». Sfogo totale quello della Linari. Che, però, è una picconata ai pregiudizi per aprire una breccia grazie alla quale certe dichiarazioni non facciano più notizia. Anche perché spesso nelle interviste gli sportivi parlano della loro vita in famiglia, di un amore che è nato o è finito. La Linari ha chiuso così: «I veri problemi della vita sono altri. C' è gente che soffre, e noi ci lamentiamo perché un figlio è omosessuale? Abbiamo sbagliato tutto. Quello che ha fatto qualche giorno fa la nazionale di calcio (maschile) andando all' Ospedale Bambin Gesù e un' immagine potentissima e mi auguro che anche alla nostra squadra venga data questa possibilità».
Dagospia il 23 novembre 2019. Estratto da “Non pettinavamo mica le bambole”, di Alessandro Alciato (Baldini+Castoldi), pubblicato da “la Repubblica”. Capitolo dedicato a Elena Linari, che gioca nell’Atletico Madrid e di recente ha fatto outing. A Madrid ha vinto subito il campionato. Soprattutto, si è accorta che la gente vive meglio, grazie a una mentalità più aperta: «Sono omosessuale. Lì non serve dirlo. La gente la considera già di suo una situazione normale. Purtroppo in Italia siamo parecchio indietro». () «Credo che per un uomo sia più difficile accettarlo in generale, perché anche di fronte alla propria famiglia deve difendere lo stereotipo della persona forte. Sì, per un uomo è un tema molto difficile da affrontare, come se dichiarando di essere gay facesse automaticamente abbassare il livello della propria dignità. Noi donne viviamo tutto più serenamente, il grande problema è semmai la società. Non ci sono protezioni, garanzie e sicurezze per gli omosessuali». () «L' Italia non è pronta a tutto questo, non solo a causa del livello scadente della politica, ma proprio per la mentalità. Sono una persona riservata quindi sì, all' inizio ho vissuto tutto come un problema. In Spagna ad esempio capita di vedere pubblicità in cui due uomini o due donne si baciano. La gente lo considera normale, quindi neanche lo nota. In Italia purtroppo una situazione del genere non può ancora accadere. Direbbero tutti: oh, hai visto quelli? Noi non dobbiamo ostentare la nostra omosessualità, però non dobbiamo, possiamo né vogliamo nasconderci. Se mi va di andare in giro mano nella mano con la mia compagna, ad esempio a Firenze per citare la città a cui sono maggiormente legata, voglio poterlo fare senza essere guardata come se stessi facendo qualcosa di sbagliato. A 19 anni l' ho detto a mamma e babbo, io e loro da quel momento in avanti siamo cresciuti insieme. È stata una crescita complessiva. Per un genitore non è facile trovarsi di fronte a una figlia gay, è normale per una madre diventare triste, perché magari aveva sempre sognato di avere delle nipoti, anche se neppure questo è impossibile ai giorni nostri. Semplicemente, mamma mi ha detto: se sei felice tu, siamo felici noi. Che poi è la frase più bella del mondo. La cosa certa è che un genitore non deve pensare che lo sport praticato dal proprio figlio o dalla propria figlia ne cambi le tendenze. Lo sport può semmai aiutare a trovare la propria realtà. Per essere ancora più chiari: non è che se una bimba gioca a calcio, poi da grande diventa omosessuale». La grande bellezza di questo discorso risiede nella naturalezza attraverso la quale sgorga. Una fonte pulita, pura.
Calcio e omosessualità, la c.t. Bertolini: «Linari brava e coraggiosa a fare coming out». Pubblicato lunedì, 21 ottobre 2019 da Corriere.it. «Credo che Elena sia stata brava, coraggiosa, perché comunque lei adesso è un personaggio, è un punto di riferimento per le giovani e questo aiuta magari altri ragazzi e altre ragazze che stanno vivendo questa situazione e che magari hanno paura di esprimersi». Queste le parole del commissario tecnico della Nazionale femminile, Milena Bertolini, sul coming out di Elena Linari che ha dichiarato apertamente ai microfoni di Dribbling la propria omosessualità, rivelando peraltro di aver più paura in Italia che in Spagna, dove gioca attualmente. «In Italia, purtroppo, sul discorso dell’omosessualità e sul discorso di poter vivere liberamente il proprio amore, abbiamo ancora una mentalità arretrata - ha proseguito Bertolini a margine della conferenza stampa, a Roma, nella quale è stato annunciato il rinnovo dell’accordo tra la Rai e la Figc sino ai Mondiali del 2022 - È chiaro che l’abbinamento omosessualità e calcio femminile esiste dalla notte dei tempi, ormai siamo nel 2020 e se vogliamo essere una società moderna e aperta dobbiamo allargare lo sguardo: l’omosessualità è un aspetto della società a prescindere dallo sport». La rivelazione di Linari può e deve essere d’esempio anche per i ragazzi: «Le donne sono sempre un po’ più avanti perché hanno molto coraggio, poi è chiaro è anche più semplice per una ragazza poterlo dire perché nel calcio femminile ci sono meno pressioni - ha ammesso la c.t. - Dirlo nel calcio maschile è molto più complicato, ma se qualche ragazzo se ne uscisse allo scoperto avrebbe un impatto fondamentale, sarebbe importantissimo anche perché troverebbe la solidarietà di tantissimi compagni di squadra, perché i giovani di adesso hanno uno sguardo diverso e una mentalità più aperta».
Manovra, svolta storica: le atlete diventano sportive professioniste. Pubblicato mercoledì, 11 dicembre 2019 da Corriere.it. La commissione Bilancio del Senato ha approvato un emendamento alla manovra che equipara le donne ai colleghi maschi, estendendo le tutele previste dalla legge sulle prestazioni di lavoro sportivo, e per promuovere il professionismo nello sport femminile introduce un esonero contributivo al 100% per tre anni per le società sportive femminili che stipulano con le atlete contratti di lavoro sportivo. È un gol importante per le calciatrici, naturalmente, ma anche per tutte le altre atlete italiane, cui la vetusta legge 91/1981 fino a oggi non ha concesso lo status di professioniste. Entrando nella legge di Stabilità, l’emendamento fa fare un passo avanti decisivo alla battaglia delle ragazze e spoglia degli alibi le società, che ottengono uno scivolo di tre anni per il pagamento dei contributi: opporsi ancora al professionismo, da questo momento, diventa un atteggiamento davvero impopolare. Ma un passo ulteriore dovranno farlo le singole Federazioni sportive, deliberando in consiglio per le loro tesserate lo status giuridico. Sono passaggi tecnici e formali determinanti perché la legge, una volta che verrà approvata dal governo, non resti lettera morta. L’emendamento con cui Palazzo Chigi ha aperto al professionismo femminile riguarda i quattro grandi sport di squadra: calcio, basket, volley e rugby. Venti milioni stanziati per i prossimi tre anni (4 per il 2020, 8 per il 2021 e 2022), contributi a carico dello Stato fino a un massimo di 8 mila euro a stagione (pari a un lordo di 30 mila, il tetto massimo degli stipendi in Italia). «Un passo storico e rivoluzionario — sottolinea Katia Serra, responsabile per il calcio donne dell’Assocalciatori —, che risolverebbe il problema della sostenibilità nei grandi sport di squadra. Ora tocca alle singole federazioni a deliberare il professionismo. Faccio fatica a immaginare, se l’emendamento dovesse passare, a quale altro alibi i presidenti dei club potrebbero appigliarsi».
Mondiali femminili, ora le giocatrici vogliono più soldi e più rispetto. Pubblicato lunedì, 17 giugno 2019 da Gaia Piccardi, inviata a Valenciennes, su Corriere.it. Nessuna delle 552 calciatrici impegnate al Mondiale è venuta in Francia solo per giocare a calcio. Ogni traversone è una raccomandata con ricevuta di ritorno: vogliamo essere trattate come i calciatori, chiediamo più soldi, esigiamo rispetto. Gli Usa di Alex Morgan 95 giorni prima del torneo hanno fatto causa per discriminazione di genere alla Federazione statunitense, le argentine combattono per vedersi riconosciuta una diaria decente (8,50 dollari attualmente), la stella norvegese Ada Hegerberg è rimasta a casa per protesta e la compagnia delle celestine, nel suo piccolo, lotta per il premio più grande: uscire dal ghetto del dilettantismo e approdare allo status di professioniste dello sport.Ogni conquista ha un prezzo, però. E quello che le ragazze del Mondiale devono pagare è l’eterno dibattito su un calcio non all’altezza (all’altezza di chi?), rilanciato sulle pagine del Times da una donna, Emma Hayes, manager della squadra femminile del Chelsea: «Le cestiste usano una palla di dimensioni inferiori, proporzionata alle loro mani, le ostacoliste saltano ostacoli più bassi, le pallavoliste utilizzano una rete meno alta di quella degli uomini, le tenniste giocano due set su tre anziché tre su cinque. Perché mai dovrebbe essere sessista chiedere per le calciatrici un campo più piccolo e porte ridotte?». Potrebbe forse essere d’accordo il portiere della Thailandia, Sukanya Chor Charoenying, 31 anni e 165 cm d’altezza sprofondati nell’immensità di due pali lontani tra loro 7,32 m, un pulcino sotto una traversa alta 2,24 da terra. Diciotto gol incassati in 180 minuti (13 dagli Usa e 5 ieri dalla Svezia) depongono a favore di un’urgente revisione delle regole, ma anche di una più equa distribuzione dei fondi ai Paesi emergenti se la Fifa vuole mantenere un Mondiale a 24 squadre (eccome, se lo vuole). Però Laura Giuliani, numero uno dell’Italia e titolare del ruolo più esposto a critiche nel calcio femminile, è assolutamente contraria a campi e porte mignon («Abbiamo imparato a giocare così, sarebbe sbagliatissimo cambiare: il calcio, uomini o donne, è uguale per tutti») e 552 giocatrici al Mondiale meno una (Sukanya Chor Charoenying) sono pronte a schierarsi al suo fianco.
«Mi domando se su un campo più piccolo potremmo vedere un maggior possesso palla, match più veloci e intensi, più tiri da fuori area (come il gran gol di Aurora Galli alla Giamaica, ndr). Lo spettacolo ne guadagnerebbe. Uno sport deve proteggere la sua integrità, certo, ma anche il suo appeal verso il pubblico», rilancia Hayes. A cui, dalle pagine del Guardian, risponde Karen Bardsley, portiere del Manchester City e dell’Inghilterra che vorrebbe sfatare il tabù di un titolo vinto una volta sola dai maschi (1966): «Normalizzare l’idea di una donna che gioca a calcio è la nostra missione. Io vedo in giro cattivi portieri, uomini e donne. Non è una questione di sesso, ma di capacità». Come sottolinea la c.t. azzurra Milena Bertolini, ci sono anche ragioni pratiche di cui tener conto: «Se vogliamo ambire ai grandi stadi, magari durante le soste della Nazionale, come è successo a Torino con Juve-Fiorentina davanti a 39 mila spettatori, al campo regolamentare non si può rinunciare. E poi io dico: diamo alle bambine le stesse possibilità dei maschi». In un piccolo mondo nemmeno troppo antico (il primo Mondiale donne è del 1991) ma di solide ideologie, cresciuto con un congenito complesso di inferiorità rispetto all’invadenza e al gigantismo del calcio maschile, l’impressione è che si tratti (anche) di una questione di principio. Cambiare sarebbe vissuta come una diminutio: l’evoluzione cui ambiscono le ragazze in Francia non è un campo più piccolo ma un mondo più largo, visibile a tutti.
Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera”l'8 luglio 2019. Non è stato un Mondiale. È stato un tazebao itinerante portato in giro per la Francia da 552 donne scatenate di 24 nazioni e appeso con le puntine sotto gli occhi del pianeta per fare richieste precise: il professionismo nel calcio femminile (Italia), la parità salariale con i colleghi uomini (l' Olanda killer delle azzurre, ieri finalista: la Federazione oranje l' ha promessa entro il 2023), identiche condizioni di viaggio e allenamenti (Norvegia senza la stella Ada Hegerberg, che ha sbagliato a chiamarsi fuori: le battaglie si combattono in campo, non negli studi tv refrigerati), la decuplicazione del montepremi mondiale (Australia: i 30 milioni di dollari di Francia 2019 contro i 400 di Russia 2018, il 7,5%, sono giustamente considerati «indecenti»), l' uguaglianza di genere (Usa campione per la quarta volta in 8 edizioni: le 28 giocatrici che prima del torneo hanno fatto causa alla Federcalcio americana hanno acconsentito alla mediazione). La battaglia sindacale e il titolo l' hanno vinto le signore che hanno saputo gridare il loro disagio a voce più alta: gli Usa del c.t. Jill Ellis (secondo trionfo di fila come Vittorio Pozzo nel '34 e '38), trascinati dalle superstar Nike Megan Rapinoe (6 gol, premi come miglior giocatrice e scarpa d' oro) e Alex Morgan (6 gol), imbattuti da 17 partite (14 vittorie, 3 pareggi), cioè dal Mondiale 2011 quando persero in finale ai rigori dal Giappone, travolgenti tra le polemiche con la Thailandia (13-0), irresistibili con Cile, Svezia e Spagna negli ottavi, capaci di infilare le massime potenze Europee (Francia, Inghilterra, Olanda) nella cavalcata verso un trionfo annunciato che ha scatenato i peana social di mezzo mondo. Dall' attrice Jessica Chastain alla più giovane parlamentare del Congresso Usa Alexandria Ocasio-Cortez («Le ragazze non dovrebbero chiedere pari guadagni ma il doppio degli uomini che non hanno mai vinto il Mondiale»), dall' icona gay Ellen DeGeneres («Queste donne sono il meglio dell' America: vi aspetto nel mio show») a Serena Williams, è un endorsement trasversale e incondizionato, cui si sono uniti i 58 mila spettatori di Lione, che alla fine di Usa-Olanda 2-0 hanno cantato in coro «equal pay!». Asciutto il grande nemico Donald Trump («Congratulations»), il presidente più odiato dalle donne con cui Rapinoe, difesa da un lungo e appassionato articolo su The Players Tribune dalla fidanzata cestista Sue Bird, si era accapigliata in corso d' opera. «Se vinciamo io alla fottutissima Casa Bianca non vado» l' anatema della Pink Lady, cui Trump aveva risposto piccato: «Pensi a giocare a pallone, invece di parlare». Piange Carli Lloyd, 37 anni, una tripletta nella finale 2015, la veterana che con la Nazionale a stelle e strisce chiude qui, sotto una pioggia di coriandoli dorati, ennesima bandiera di un movimento forte di milioni di tesserate (metà delle liceali americane gioca a calcio: la Germania con 209.713 è leader in Europa dove l' Italia è 13esima con 23.903 calciatrici, con status di dilettanti) che dal primo Mondiale (nel 1991, 61 anni dopo la Coppa Rimet) è capace di sfornare fuoriclasse a raffica: Michelle Akers, capocannoniera con 10 gol ventotto anni fa, Mia Hamm, due ori mondiali e due bronzi in 17 anni di Nazionale, Brandi Chastain, rimasta in reggiseno per festeggiare la rete su rigore che decise la finale '99 con la Cina davanti a 90.185 spettatori, record insuperato e insuperabile. Parata a New York mercoledì, 200 mila dollari l' una di premio, fama eterna. Gli Usa stravincono il Mondiale sotto ogni punto di vista. E la minuscola Italia uscita nei quarti a testa alta, dal confronto, esce ancora più grande.
Carlo Piano per “la Verità”l'8 luglio 2019. Sara Gama, Barbara Bonansea, Cristiana Girelli. Fino a qualche settimana fa i loro nomi erano familiari soltanto agli addetti ai lavori e ai pochi appassionati di calcio femminile del nostro Paese. Oggi, dopo il buon percorso della nazionale italiana ai Mondiali appena conclusi in Francia, sono le atlete del momento. Forse perché siamo diventati un popolo senza più eroi e che ha bisogno di eroine, forse per la retorica, talvolta sicuramente eccessiva, che ha celebrato le loro imprese. Comunque le azzurre sono riuscite non solo a centrare la qualificazione al torneo iridato dopo 20 anni dall' ultima partecipazione, ma anche a raggiungere i quarti di finale. Le loro partite, trasmesse in diretta da Rai 1, sono state seguite da una media di 3 milioni di spettatori. Con il boom, registrato in occasione della terza partita del girone, contro la nazionale del Brasile: ben 7,3 milioni di italiani incollati davanti alla televisione. Neanche gli uomini di Roberto Mancini sono riusciti ad arrivare a tanto. Abbiamo chiesto cosa ne pensa a un mito del nostro calcio, da tutti conosciuto come Spillo. All' anagrafe Alessandro Altobelli, campione del mondo nel 1982 e mai dimenticata bandiera dell' Inter: «È innegabile che le donne stiano crescendo moltissimo. Forse il calcio femminile non arriverà mai ai livelli tecnici di quello maschile, ma potrà diventare davvero molto interessante».
Nelle ultime settimane la nazionale femminile è stata applaudita da milioni di italiani. Se lo meritano?
«Questo di sicuro, lo dice un attento osservatore e tifoso di calcio, sia maschile sia femminile. È da un po' che seguo le donne, abito a Brescia e ho potuto ammirare la squadra locale, che è stata una delle prime a vincere campionati e Champions, fornendo anche tanti talenti alla nazionale. Nel nostro Paese questo sport non ha ancora raggiunto la vetta, ma siamo sulla buona strada per creare un campionato professionistico, come ha anche detto il presidente della Federazione, Gabriele Gravina».
Intanto le squadre di club stanno già aumentando...
«Sa di chi è il merito? Della gestione dell' ex presidente della Ficg, Carlo Tavecchio. Sotto il suo mandato tutti i club di serie A si sono dotati di una squadra femminile e questo oggi permette a tante ragazze di cimentarsi con il calcio. Ecco perché il successo in questi Mondiali è il frutto di un lavoro che viene da lontano».
Quali sono le squadre che in Francia l' hanno sorpresa di più?
«Ero all' inaugurazione e sono stato ben impressionato dalle padrone di casa della Francia. Successivamente ho assistito a molte partite e ho visto molto bene gli Stati Uniti, che fanno calcio femminile da sempre. Ma mi sono piaciute anche l' Olanda, che ha vinto ai quarti contro l' Italia, e pure la Svezia».
Come le è sembrata la nostra nazionale?
«Secondo me una bellissima sorpresa. Ho parlato con moltissima gente in queste settimane, e tutti sono soddisfatti del lavoro fatto. Sia dall' allenatore sia dalla Federazione. Questo percorso in Francia può rappresentare il trampolino di lancio per diventare ancora più competitivi».
Quale giocatrice fra le italiane le è piaciuta di più?
«È sempre brutto fare nomi, credo che al di là delle individualità abbia sorpreso l' ottimo gioco di squadra espresso dalla nazionale. Ma se proprio devo scegliere direi che mi è piaciuta moltissimo la numero 11, Barbara Bonansea. Così come il capitano, Sara Gama. Secondo me entrambe giocano un ottimo calcio».
C' è invece qualche squadra che in questo mondiale l' ha delusa?
«Personalmente mi aspettavo di più dal Brasile, perché ha sempre avuto ottime individualità. E anche dalla Nigeria, perché sulla carta era molto forte.
In generale pensavo che avrebbero fatto meglio le nazionali che, nei loro Paesi, hanno la possibilità di lavorare di più con le donne».
Secondo lei, dopo questo exploit, il calcio femminile in Italia è pronto per raggiungere quello maschile?
«Possiamo sicuramente arrivare a ottimi livelli, anche se ritengo difficile raggiungere gli uomini. Quello che è certo, è che adesso tante ragazze cominceranno a giocare a calcio, perché questo sport non è più un tabù per le donne».
Quindi secondo lei non esistono più pregiudizi?
«Direi di no. Anche i genitori sono più tranquilli, perché si sono resi conto che l' ambiente è sano, che ci sono organizzazione e grande rispetto».
Ma lo spettacolo che danno gli uomini è superiore.
«Ho seguito diverse squadre femminili, sia in serie A sia in B. Il loro calcio non può essere paragonato a quello degli uomini perché la fisicità è diversa. Le squadre maschili sono più spettacolari perché più fisiche, gli atleti sono chiaramente più forti. Ma il livello delle ragazze sta crescendo di continuo e i miglioramenti sono sotto gli occhi di tutti».
Dal punto di vista mediatico, invece, il calcio femminile è esploso.
«I Mondiali di Francia sono stati trasmessi in diretta dalle tv nazionali, per la prima volta nella storia anche dalla Rai. Questo è già un traguardo incredibile. Sono sicuro che il prossimo anno ci sarà molto più interesse ad aggiudicarsi i diritti di coppe e campionati. E il merito è anche del percorso delle azzurre».
Perché finora le calciatrici erano rimaste nell' ombra? Perché per emergere sono stati necessari questi Mondiali?
«Il problema è che per sfondare, nel calcio, occorrono persone interessate a investire denaro e mettere a disposizione gli impianti. Questo, fino a questo momento, è stato il limite maggiore che non ha permesso al calcio femminile di emergere. Oggi, dopo questa avventura, l' attenzione è cresciuta moltissimo. Tutti sono interessati a dare una mano. Bisogna anche ammettere che, fino a qualche anno fa, non eravamo pronti per questo boom. Oggi lo siamo».
Cosa manca, ancora, al calcio femminile per diventare grande?
«Sicuramente la base. Il successo di uno sport dipende moltissimo da quante persone lo praticano. In Italia gli uomini che giocano a calcio sono milioni, le donne circa 500.000. Ma proprio grazie a questo Mondiale i numeri sono destinati a crescere. Le squadre femminili sono diventate più credibili e quindi attirano l' interesse di potenziali atlete».
Le cose stanno già andando in questa direzione?
«Assolutamente sì. L' esempio di queste atlete sta spingendo tantissime donne verso il calcio. Basti pensare che le scuole calcio stanno registrando un aumento del 40% di iscrizioni proprio da parte di bambine e ragazzine. Si può dire che il tabù sia definitivamente crollato. Non è un caso che lo scorso marzo la squadra femminile della Juventus abbia sfidato la Fiorentina nello stadio del club, l' Allianz Stadium, di fronte a 39.0000 spettatori. Un primato che dice molto».
Si può quindi ipotizzare una serie A femminile uguale a quella maschile?
«Il calcio femminile di serie A non potrà mai raggiungere i livelli di quello maschile. Ma questo non vuol dire che non possa diventare interessante e non possa continuare a crescere. In Francia, durante i Mondiali, gli stadi sono stati sempre pieni e questo rappresenta un segnale importante».
Cosa succede, invece, all' estero? Le donne sono più valorizzate?
«Fuori dall' Italia ci sono realtà nelle quali il calcio maschile e quello femminile sono alla pari. Per esempio gli Stati Uniti, la Svezia e il Brasile. Lì quando si guarda una partita non si pensa al sesso degli atleti, ma allo spettacolo. Non esistono differenze, c' è solo la passione. E la passione non deve avere alcun limite».
Ha accennato all' importanza della base. Dopo questi Mondiali le cose cambieranno?
«Penso di sì, come dimostra il boom di iscrizioni alle scuole calcio da parte delle ragazze. Il movimento sta già crescendo e va ulteriormente incoraggiato. Perché il calcio è uno sport bello e salutare. Anche per le donne, per tutti».
Possono aumentare anche gli investimenti in questo settore?
«Me lo auguro. L' obiettivo più importante è arrivare il prima possibile al professionismo, perché adesso le donne giocano a livello dilettantistico. La differenza è abissale, anche sul piano dei compensi. Il passaggio al professionismo porterà a una crescita enorme. Ma adesso occorrono strutture, squadre, investimenti in favore della base, a partire dalla Federazione. Serve che i Comuni mettano i loro impianti a disposizione del calcio femminile, oltre che di quello maschile. E, naturalmente, ci vogliono istruttori qualificati in grado di far crescere queste atlete».
Nel frattempo però calciatrici e arbitri donne sono ancora bersaglio di commenti poco lusinghieri...
«Questo purtroppo accade anche nel calcio maschile, chi si mette in gioco può essere vittima di queste situazioni. Come si dice nella tradizione popolare, la mamma degli imbecilli è sempre incinta».
Caster Semenya lascia l’atletica e passa al calcio. Giocherà nella Serie A sudafricana. Pubblicato venerdì, 06 settembre 2019 da Corriere.it. Aveva detto che non si sarebbe arresa, che non avrebbe accettato il diktat («O prendi farmaci per abbassare il livello di testosterone nel tuo sangue o ti scordi di correre 800 metri») della federazione internazionale di atletica leggera. E così ha fatto, cambiando però sport e dando l’addio alle piste. Caster Semenya si da al calcio, lo sport praticato da bambina . La 28enne mezzofondista sudafricana, vincitrice in carriera di due ori olimpici e tre mondiali negli 800 metri, ha firmato per il JVW Soccer Club, una squadra del campionato di calcio femminile del suo paese. Il team ha sede a Bedfordview, nei sobborghi di Johannesburg, e gioca nella Sasol League, la serie A del campionato nazionale femminile. Un portavoce del team ha spiegato che Caster esordirà nel 2020, dopo il necessario periodo di allenamento e adattamento. «Non vedo l’ora di iniziare questo nuovo viaggio, apprezzo l’amore e il supporto che già ricevo dalla squadra» ha spiegato Semenya, reduce da una durissima battaglia legale contro la federazione internazionale di atletica leggera (Iaaf), che da dieci anni prova ad imporre alle atlete Dsd (con differenze dello sviluppo sessuale) massicce dosi di «anti-steroidi» per abbassare quelle che i federali considerano «inique differenze nei confronti delle altre atlete» nelle discipline comprese tra gli 800 metri e il miglio. L’ultima batosta per Semenya è stata la decisione della Suprema Corte Svizzera che ha dato il via libera alla norma della Iaaf, che era stata sospesa dal tribunale federale, lasciando intendere che dal punto di vista giuridico contestarla sarebbe stato quasi impossibile.
Atletica, Semenya: "Io usata come cavia". Iaaf: "E' biologicamente maschio". E' sempre più guerra aperta tra la mezzofondista sudafricana e la Federazione per le regole sugli atleti iperandrogenici: ''Hanno voluto sperimentare su di me come si abbassasse il livello di testosterone''. Iaaf rende noto il documento di 163 pagine del processo Tas: "Una di quelle atlete biologicamente uomini ma con tratti d'identità di genere femminile". La Repubblica il 18 giugno 2019. E' sempre più guerra aperta tra Caster Semenya e la IAAF. La 28enne sudafricana, due volte campionessa olimpica degli 800 metri, ha lanciato pesanti accuse alla Federazione Internazionale di Atletica Leggera, rea a suo dire di averla usata "come cavia da laboratorio nella faccenda riguardante il nuovo regolamento sugli atleti iperandrogenici", costringendola, per gareggiare, a sottoporsi a test del sesso e a cure ormonali. Non si è fatta attendere la replica della IAAF: "E' biologicamente un maschio", sostiene in una nota in cui spiega la tesi esposta davanti al Tribunale di Arbitrato dello Sport di Losanna, che le ha dato ragione nei confronti della mezzofondista sudafricana.
Diatriba sul regolamento. La querelle è parecchio datata: la Semenya, 10 anni fa, fu infatti obbligata dalla IAAF a sottoporsi a un test del sesso, i cui risultati non furono però mai pubblicati per rispetto della privacy. Tuttavia per lei fu una doppia umiliazione perché, oltre al controllo sul genere, fu anche sospesa dalle competizioni fino al luglio 2010 quando la mezzofondista ebbe il via libera per gareggiare, tant'è che poi fu portabandiera del Sudafrica a Londra 2012 dove vinse l'oro negli 800 metri, che bissò quattro anni dopo a Rio 2016. Nel frattempo però la IAAF nel 2011 introdusse nel proprio regolamento una condizione vincolante per poter competere, quella per cui tutte le donne affette da iperandrogenismo (termine che indica una eccessiva produzione di ormoni maschili, in particolare di testosterone) dovessero obbligatoriamente sottoporsi a una terapia ormonale per ridurre i propri livelli di testosterone. Un enorme freno per la Semenya.
"Non farò usare il mio corpo". Lo scorso primo maggio il Tas di Losanna ha respinto il ricorso presentato dalla sudafricana che quindi per continuare a gareggiare dovrebbe assumere farmaci per abbassare il livello di testosterone (deve essere sotto i 10 nmol/l almeno per un anno prima della competizione) e che come reazione aveva anche minacciato il ritiro. Tuttavia il Tas, oltre a respingere la richiesta di Casper, non ha convalidato a sua volta le regole della Iaaf. Allo stato attuale quindi, le nuove norme non si applicheranno fino a quando la Federazione non avrà corretto gli aspetti controversi. Dunque un via libera "temporaneo" per la Semenya che tuttavia domenica non ha preso parte all'appuntamento di Diamond League a Rabat (Marocco) in polemica con gli organizzatori che non avrebbero gradito la sua presenza. Successivamente il durissimo sfogo nei confronti della Iaaf: "Non permetterò alla IAAF di usare di nuovo me e il mio corpo".
Iaaf: "E' biologicamente uomo". Dopo aver perso la causa al Tas di Losanna, la Semenya ha poi vinto la sua battaglia al Tribunale Federale svizzero un mese fa, potendo così tornare a correre i "suoi" 800 (e tutte le distanze comprese tra il 400 e il miglio) senza doversi sottoporre ad alcun trattamento. Il Tribunale federale svizzero ha temporaneamente sospeso la norma introdotta l'8 maggio della Iaaf riguardante gli atleti intersex. Così oggi è stato reso noto un documento di 163 pagine del Tas in cui c'è la storia di questo processo sportivo, in cui è presente la tesi, in apparenza accolta, che Semenya è una di quelle atlete "biologicamente uomini ma con tratti d'identità di genere femminile". Parole alle quali, davanti al Tas, la sudafricana ha replicato dicendo che "mi sento ferita in un modo che le parole non riescono a spiegare". Intanto la norma della Iaaf è stata sospesa dal tribunale federale elvetico, ma da quel giorno Semenya non ha più gareggiato. E dunque la polemica continua.
Semenya, il processo e un sopruso al contrario, scrive Benny Casadei Lucchi, Mercoledì 20/02/2019, su Il Giornale. Per un atleta, uomo o donna che sia, la sconfitta senza colpa, la sconfitta pur essendo il più forte, la sconfitta subita impotente di fronte a una chiara ingiustizia rappresentano una violenza sul corpo e uno stupro dell'animo. Per questo la vicenda di Caster Semenya è un sopruso al contrario, una discriminazione all'inverso, dove chi si sente abusata e discriminata, invece abusa e discrimina. Forse inconsapevolmente, forse e, peggio, consapevolmente. Colpa di madre natura e colpa del dio Sport, colpa di un genere già definito nella vita vera ma ancora scivoloso nelle pratiche agonistiche. È uomo o donna Caster Semenya che stravince e umilia le rivali con i suoi muscoli, la sua forza, i suoi lineamenti da pugile? Madre natura dice donna, dio sport dice non proprio, dice che non si può andare avanti così. Per cui e di nuovo: chi abusa chi, chi discrimina chi? Da lunedì è in corso a Losanna, presso il Tribunale d'arbitrato sportivo, il faccia a faccia che dopodomani ci darà la risposta. Da una parte la discussa mezzofondista iperandrogina sudafricana due volte oro olimpico e tre volte mondiale negli 800 metri; dall'altra la Federatletica mondiale. In mezzo, questa dolorosa questione di diritti negati. A lei, di vincere da donna; alle sue rivali di lottare contro una donna. Per questo, i diritti violati sembrano soprattutto quelli di altre. La campionessa sudafricana ha infatti impugnato davanti al Tas la norma introdotta dalla Iaaf (e sospesa fino al 26 marzo) che vieta alle atlete di gareggiare su distanze superiori ai 400 metri quando nel sangue abbiano livelli di testosterone che vanno oltre i 5 nanomoli per litro (2,5 la media per le donne). Se intendono partecipare, prevede la Iaaf, devono assumere farmaci che abbassino il testosterone; altrimenti potranno iscriversi alle competizioni maschili o a quelle intersex già allo studio dalla Federazione. È stato calcolato che negli 800m i livelli troppo alti di testosterone garantiscono tempi più bassi anche di 7 secondi. Nel 2011, una regola simile era già stata introdotta e all'improvviso Caster Semenya si era trasformata in terrestre; nel 2015, il ricorso accolto al Tas di un'altra atleta l'aveva annullata. E l'anno dopo ecco quel podio imbarazzante degli 800 ai Giochi di Rio: Semenya, Nyonsaba e Wambui. La foto delle tre donne androgine fece il giro del mondo. Dopo domani la sentenza. Intanto, le organizzazioni per i diritti umani sono sul piede di guerra. Solo che hanno sbagliato assistito.
Semenya, ricorso respinto: per correre con le donne dovrà abbassare il testosterone. Pubblicato mercoledì, 1 maggio 2019 da Marco Bonarrigo su Corriere.it. Con una decisione che ha pochi precedenti e farà enormemente discutere, il Tribunale di Arbitrato Sportivo di Losanna ha dichiarato mercoledì la sua incompetenza e di conseguenza respinto l’appello della mezzofondista sudafricana Caster Semenya contro la regola 141 della federazione internazionale di atletica leggera (Iaaf) che obbliga le atlete con “diverso sviluppo sessuale” ad assumere dosi massicce di anticoncezionali per abbassare sotto una certa soglia (5 ng/L) i valori di testosterone nel sangue se vogliono gareggiare nella categoria femminile. Dopo un anno di istruttoria, e pur trovando la norma “di difficilissima applicazione” e “certamente discriminatoria” e non escludendo problemi per la salute delle atlete, il massimo organo di giustizia sportiva non ha trovato, nel ricorso dell’atleta e della federazione sudafricana, elementi giuridici per poter dichiarare non valida la determinazione federale. Il Tas ha invitato la Iaaf a studiare con urgenza una procedura più equa e certa, ma di fatto ha dato il via libera alla regola con effetto immediato spiegando che comunque una regolamentazione è necessaria per salvaguardare l’equità delle sfide agonistiche. Il Tas anche spiegato che mentre la regola Iaaf può avere senso scientifico sulle distanze id 400 e 800 metri, questo senso non è dimostrato nei 1500 metri e nel miglio, id fatto invitando la federazione a un modifica immediata ma non vincolante della regola. A questo punto la Semenya - e le almeno altre 10 altre atlete di alto livello con lo stesso problema - potranno scegliere se sottoporsi a cura, farsi monitorare dai medici federali e gareggiare tra le donne, rischiando la sospensione se superano i valori-soglia, gareggiare tra gli uomini (ipotesi surreale) o competere in gare su distanze inferiori ai 400 metri o superiori al miglio, dove un alto livello di testosterone non è considerato vantaggioso. Semenya ha vinto due titoli olimpici e tre mondiali negli 800 metri. Contro la regola 141 si sono espresse decine di associazioni per i diritti umani, il Consiglio dell’Onu e l’intero popolo sudafricano con in testa il presidente della repubblica Ramaphosa che ha parlato di decisione improntata alla peggior forma di razzismo, che umilia le donne nello sport per abbattere a un simbolo del nostro Paese».
Atletica, Tas respinge ricorso Semenya: sì al regolamento che impone limiti al testosterone. Il tribunale di Losanna convalida il regolamento della Iaaf che prevede la riduzione dei livelli di testosterone per le donne che ne producono troppo (le cosiddette atlete 'Dsd' o iperandrogene), al fine di assicurare una competizione equa con le altre concorrenti. La Repubblica 1 maggio 2019. La mezzofondista Caster Semenya, ha perso l'appello davanti al Tas (il tribunale arbitrale sportivo) sul nuovo regolamento della Federazione internazionale d'atletica che prevede la riduzione dei livelli di testosterone per le donne che ne producono troppo (le cosiddette atlete 'Dsd' o iperandrogene), al fine di assicurare una competizione equa con le altre concorrenti. L'atleta sudafricana, 28 anni, tre volte campionessa mondiale e due volte campionessa olimpica sugli 800 metri, si era opposta a questo regolamento con l'appoggio della propria Federazione. In base alla decisione del Tas, resa nota oggi, la Semenya dovrà quindi sottoporsi ad una terapia ormonale per poter gareggiare. "Per un decennio la Iaaf ha cercato di rallentarmi, ma questo invece mi ha reso più forte. La decisione del Tas non mi fermerà" ha fatto sapere Semenya in una dichiarazione rilasciata dal suo team legale. "Siamo grati al Tas che ha riconosciuto le giustezza delle nostre azioni: ora i nuovi regolamenti entreranno in vigore dall'8 maggio" ha spiegato la Iaaf. La sentenza ha espresso diverse preoccupazioni, la prima sulla reale applicabilità di questo nuovo regolamento, e la Iaaf ha fatto sapere di esser pronta a recepire i rilievi di Losanna, ma ha anche ricordato che per gli atleti che vogliono competere ai Mondiali di Doha, in programma dal prossimo 28 settembre, ci sono 7 giorni di tempo per ridurre i livelli di testosterone, e sono dunque "incoraggiati a iniziare subito il trattamento". Entro l'8, chi vuole partecipare ai Mondiali deve sottoporsi a un esame del sangue che attesti il raggiungimento dei livelli di testosterone consentiti dalle nuove norme. La Women Sport Foundation, guidata dalla pioniera del sindacato tenniste professioniste e promotrice di mille iniziative per la liberazione della donna, Billie Jean King, come decine di associazioni impegnate nella lotta per la parità di genere e il governo sudafricano hanno trasformato il caso da sportivo a politico. Un caso spinoso. La decisione di oggi, che farà giurisprudenza, tocca infatti un tema che ha molti risvolti: umani, scientifici e anche etici. Ha ragione Semenya che produce talmente tanto testosterone naturale da avvicinarsi ai valori dei colleghi maschi e non vuole intervenire biologicamente sul proprio status per rientrare nei canoni dettati dalla Iaaf per gareggiare con le donne? Oppure ha ragione il governo dell’atletica che vieta alle donne di gareggiare nelle prove superiori ai 400 metri quando abbiano livelli di testosterone nel sangue superiori a 5 nanomoli per litro, quando il limite di genere non supera valori oltre le 2.5 nanomoli? E’ più legittima l’eccezione di Semenya e di una decina di atlete come la keniota Wambui, la burundiana Niyonsaba e l’indiana Dutee Chand, o mantenere regole certe, comuni e impedire chiari squilibri nella lealtà agonistica? Quale delle due posizioni, in definitiva, è più discriminante? Quando entrano in scena gli avvocati, il discorso si allarga a dismisura, moltiplicando domande, istanze, perplessità e problematiche. E’ giusto e sano sottoporsi a cure farmacologiche che prevedono pesanti effetti collaterali per rientrare nel genere donna definito dalla Iaaf?
Una scelta dolorosa. Ma inevitabile. Per il Tas di Losanna non c'era altra strada. Aprire lo spazio al testosterone "libero" avrebbe significato sdoganare un principio di profonda diseguaglianza agonistica. Enrico Sisti 1 maggio 2019 su La Repubblica. L'obiettivo individuale andava colpito, l'obiettivo comune difeso. Non c'era altra strada. E' così che ha ragionato, non senza imbarazzo si presume, il Tas di Losanna mentre si vedeva costretto a respingere il ricorso di Caster Semenya, la donna scomoda: "Non reagisco", ha commentato la 28enne sudafricana, campionessa di tutto ma sempre con un punto interrogativo sulla testa: è sempre stata grande ma fuorilegge? Per l'atletica sì. Non le saranno tolti i record, né le medaglie perché non stiamo parlando di doping. Però adesso è più chiaro: non si può partecipare a una competizione femminile con valori di testosterone troppo elevati, non è giusto anche se non è colpa di nessuno. Era quasi inevitabile, dunque, questo finale. Doloroso ma inevitabile. Era un po' come scegliere fra scienza e umanità, fra regole e natura. Una volta si processava lo scienziato che metteva in crisi la fede, ora si processa chi ostacola l'equilibrio dello sport, che impone di gareggiare a parità di condizioni, altrimenti che gusto c'è? Caster e le altre possibili "iperandrogine", a cominciare dalla Nyonsaba, che ha ammesso il suo status, non possono esistere in un mondo diviso in due, ossia con due soli generi. Aprire lo spazio al testosterone "libero" avrebbe significato sdoganare un principio di profonda diseguaglianza agonistica. Per evitare ciò il Tas è stato costretto a intervenire sull'umana confezione del "prodotto Semenya" imponendo a chi è affetto da iperandroginismo di provvedere a una terapia per abbassare i valori del proprio testosterone. E così forse faranno Semenya e le altre. Oppure si ritireranno (ma non glielo consigliamo...). Lo sanno tutti, anche coloro che invocano la violazione dei diritti umani, come l'Onu, abbastanza a sproposito, o come la Women Sport Foundation capitanata da Billie Jean King, che lotta per la parità di genere (ma come regolarsi se compare un "terzo" genere?), che non funziona così, che non può funzionare se si parte gravati da un décalage ormonale. Lo sanno, lo sanno benissimo che con 12/15 nanomoli di testosterone per litro di sangue (per le donne è in media 2,5) è come mettersi ai nastri di partenza di un 800 femminile con un motorino nascosto nei polpacci. Ma poi si fa finta di niente. Quando una vicenda simile transita dallo sportivo al politico, dall'agonistico all'etico, è gioco forza che una delle due parti dimentichi la ragione del contendere: qui c'era in ballo la credibilità di un intero sistema. "E'discriminatorio", scrive il Tas, "ma necessario, ragionevole e proporzionato per raggiungere l'obiettivo della Iaaf di preservare l'integrità dell'atletica femminile". Non fa una piega. Il superpotere della Semenya, offerto in regalo dai geni di famiglia, andava sacrificato. Sicuramente sul Tas avrà pesato la lontana sentenza con cui accolsero il ricorso di Pistorius. Altra materia, ma concetto di base assai simile: qualcuno traeva illegale vantaggio. Solo che allora il Tas si pronunciò con una sentenza politica, riabilitò Pistorius senza mai confutare le valutazioni scientifiche, che andavano contro l'atleta (anche lui, guarda caso, sudafricano). Adesso no. La sentenza è una tutela (assai amara) dei principi fondanti dello sport: partiamo tutti allo stesso livello. Altrimenti, è triste dirlo, sarebbe tutto una babele.
Semenya e il giallo del ritiro: l’atleta combattuta tra andarsene o continuare a combattere in tribunale. Pubblicato giovedì, 2 maggio 2019 da Marco Letizia su Corriere.it. Il giorno dopo la sentenza che la condanna a ridurre il suo livello di testosterone se vuole continuare a gareggiare, l’ottocentista Caster Semenya ha fatto trasparire il suo scontento sui social. Anche se la decisione del Tas può essere impugnata dinanzi al Tribunale federale svizzero entro 30 giorni lo sconforto da parte della campionessa olimpica è grande. «A volte è meglio reagire senza una reazione», ha scritto su Twitter la 28enne ottocentista sudafricana. Che poi si è espressa con altri tre messaggi. Nel primo si riportava una frase di tipo proverbiale: «Sapere quando devi lasciare è saggezza. Essere capaci di farlo è coraggio. Andarsene via a testa alta è dignità» che faceva pensare ad una sua volontà di lasciare. Ma poi il secondo messaggio: «Io sono io e sarò sempre così» e soprattutto il terzo «Mi deridono perché io sono differente ma io rido di loro perché sono sempre uguali» fanno pensare ad una volontà di resistere almeno fino alla conclusione dell’iter giudiziario. La Semenya poi, tramite i suoi avvocati, ha fatto sapere che «la decisione del Tas non la fermerà. Per un decennio, la Iaaf ha cercato di ostacolarla, ma l’ha resa ancora più forte». Delusa dalla decisione, la mezzofondista si è detta anche «felice» che i tre giudici del Tas abbiano riconosciuto che le regole della Iaaf «discriminano alcune donne». Nonostante il nuovo regolamento per atleti iperandrogeni inizierà ad applicarsi a partire a partire dall’8 maggio, Semenya si è detta certa che «verrà cambiato» e che continuerà ad «ispirare giovani donne e atleti in Sud Africa e in tutto il mondo», senza però chiarire se si appellerà alla decisione. Dura la reazione dell’Asa, la federazione di atletica leggera sudafricana, che in una nota si è definita «profondamente delusa e scioccata», paragonando la decisione del Tas sul caso Semenya all’apartheid.
Semenya, la corsa e quegli sguardi: «Le voci su di me? Una prova di Dio». Pubblicato giovedì, 2 maggio 2019 da Gaia Piccardi su Corriere.it. La due volte campionessa olimpica e tre volte campionessa mondiale negli 800 m, la sudafricana Caster Semenya non potrà più gareggiare se prima non si sottoporrà ad una cura che riduca l’eccesso di testosterone. Lo ha stabilito una controversa sentenza del Tas di questi giorni. Ripubblichiamo una delle sue rare interviste, pubblicata sul «Corriere della Sera» il 24 agosto del 2010. Se l’ anima non ha sesso, e non ce l’ ha, se quella del talento più sfolgorante dell’ atletica mondiale (insieme a Usain Bolt) ha l’ unica colpa di essere indecisa, se la vera essenza non ha nulla a che vedere con i mocassini numero 46, con i pettorali che premono sotto una polo attillata in totale assenza di seno, con un’energia complessiva, postura-voce-gesti, oggettivamente da uomo, Caster Semenya è, senza ironia, una bella donna. Lo è, senza sapere di esserlo. Perché nel villaggio di case di fango nel quale è nata, Ga-Masehlong, vicino a Polokwane, Sudafrica, giocava a pallone con i maschi. Perché nella strada polverosa dove ha cominciato a correre, Fairlie, provincia sperduta del Limpopo, essere femmina non era certo un passaporto per la felicità. Perché i casi di ermafroditismo in Africa, per ragioni etniche e culturali, sono più diffusi che in Occidente: il quotidiano australiano Daily Telegraph ha scritto che Caster non ha ovaie, avrebbe testicoli interni e questo spiegherebbe gli impressionanti livelli di testosterone rilevati al Mondiale di Berlino 2009, dove vinse l’ oro negli 800 dando scandalo. Lei non ha mai confermato né smentito. Incontrarla è un’ esperienza. Un esercizio sottile di non-giudizio, apertura di mente e di sentimenti. Chi siamo, noi, per giudicarla? A fine giugno la Federatletica internazionale (Iaaf) le ha tolto il bando, 11 mesi trascorsi a capire se Caster sia uomo o donna. Psicologi, endocrinologi, ginecologi: donna, hanno deciso. È tornata a correre, sempre più veloce, risollevando lo sdegno delle rivali. Oggi è sorridente e felice: domenica, qui a Berlino, ha vinto un 800 a livello internazionale. Questa è la sua prima intervista.
Uomo. Donna. Ermafrodito. Chi è Caster Semenya?
«Sono un essere umano, una persona. Nient’ altro».
Cosa le hanno fatto, Caster, negli ultimi undici mesi?
«Questo lo deve chiedere alla Iaaf».
Lo chiedo a lei.
«Della Iaaf io non parlo. I miei genitori mi hanno insegnato ad abbassare la testa di fronte a chi è più grande di me».
Qui a Berlino le rivali si sono lamentate di nuovo: non è giusto che la Semenya corra con noi, hanno detto.
«Perché quando Bolt vince i 100 metri stracciando gli altri con quella superiorità nessuno protesta?».
Già, perché?
«Forse perché io ho le spalle più larghe, e posso reggere tutto... (ride)». Proprio tutto?
«Nessuno sa quanto duramente mi alleno, o i sacrifici che ho fatto per arrivare all’ oro mondiale. Nessuno sa, veramente, chi sono».
Proviamo a capirlo. Cosa la fa ridere?
«Gli scherzi. Ne faccio un sacco, soprattutto al mio coach, Michael Seme detto Sponge».
Ne racconti uno.
«Quando sono stanca, corro con il sedere in fuori e Sponge diventa matto. A volte lo faccio apposta per vedere che faccia fa!».
Cos’ è la corsa, per lei?
«Intrattenimento. Correre mi dà gioia e ne dà al pubblico. Le avversarie mi danno l’adrenalina della competizione. Ma io avrei voluto fare la calciatrice, da bambina ero brava».
Brava quanto?
«Correvo veloce, infatti quando il mio coach mi ha vista mi ha portata subito al campo di atletica».
In che ruolo giocava?
«Ho cominciato come attaccante, segnavo parecchio. Poi ho provato tutti i ruoli: per sei anni sono stata in difesa. Ho fatto anche il portiere, una partita sola però».
Il 9 settembre correrà all’ Arena, alla Notturna di Milano. Una buona occasione per andare a San Siro.
«I calciatori italiani non sono tra i miei favoriti. A me piacciono Leo Messi e Carlos Tevez, i miei modelli».
Crede a tutto ciò che le dice il coach?
«Sì. Mi spiega bene le cose e non ha fretta. A Lappeenranta ho corso in 2’ 04’ ‘ , a Lapinlahti in 2’ 02’ ‘ , qui a Berlino in 1’ 59’ ‘ . La progressione è continua: lui l’ ha deciso e io ho ubbidito. Sa in che direzione andare, ha un progetto per me: ecco perché mi fido ciecamente. Faccio tutto quello che mi dice. Sponge pensa che la mia forza sia la testa. Sponge è speciale. La prima volta che mi ha visto correre, pochi giorni prima del Mondiale juniores, mi ha detto: vieni con me e diventerai una campionessa del mondo. Aveva ragione».
Ha detto anche che batterà il record della Kratochvilova (1’ 53’ ‘ 28) che dura da 27 anni?
«Se lavoro duro, se continuiamo a fidarci l’ una dell’ altro, perché non dovrei riuscirci?».
Il mondo dell’ atletica lo considera solo una questione di tempo.
«Prima di fare il record devo vincere molte gare. Mi servono esperienza e forza».
Da bambina aveva idoli?
«Una calciatrice sudafricana».
E oggi?
«Maria Mutola, oro negli 800 a Sydney 2000. Ci siamo parlate una volta al telefono. È stata molto affettuosa». Ascolta musica? «Mi piace, ma molto dipende dai messaggi che vuole trasmettere».
Il cantante preferito?
«James Blunt».
L’ ultimo cd che ha comprato?
«Non dirò bugie: non compro la musica, la copio».
Un attore.
«Bruce Willis. Muscoli e azione, la combinazione giusta».
Legge?
«Ogni tanto. Romanzi o poesie».
Scrive?
«Per niente. Ma un giorno, a fine carriera, scriverò un libro in cui racconterò tutto».
Le piace fare shopping?
«Sì. Compro jeans e scarpe. So che Milano è un buon posto per gli acquisti».
Ha mai provato un paio di scarpe col tacco, così, per curiosità?
«Una volta sola. Erano altissimi».
Ha mai incontrato Nelson Mandela?
«Dopo l’ oro mondiale, l’ anno scorso. È stato emozionante conoscere Madiba, mi ha detto di non arrendermi, di essere forte, di continuare a correre. Mi ha dato ancor più motivazione per non farmi abbattere dalle polemiche, ecco».
Il nome di Jesse Owens significa qualcosa per lei?
«Chi?».
Giochi ‘ 36. Berlino. Afroamericano. Quattro ori davanti a Hitler.
«Mmmmmm, ne ho sentito parlare, sì. Doveva essere un tipo speciale, oppure speciale è l’ Olympiastadion perché anche a me, là dentro, sono successe cose pazzesche».
Le piace essere famosa?
«Non molto. Non mi piace quando mi fissano con curiosità, allora cerco di comportarmi normalmente, di fare cose banali. Però non posso fare nulla per evitarlo. Sono abituata a gente che mi scruta da quando ero piccola, ormai non mi fa più effetto».
È vero che gira con le bodyguard?
«No. Mai avute. E non le vorrei mai».
I prossimi obiettivi nell’ atletica?
«Vincere l’oro olimpico a Londra 2012. E fare il record del mondo».
Il suo sogno di felicità. «Avere una famiglia e vivere serena. Non m’ importa di sposarmi, non è questo il punto. Penso ai figli, penso a qualcuno che mi voglia bene per quello che sono, in semplicità». Crede nel destino o pensa che le cose succedano per caso?
«Niente succede per caso. C’ è sempre una ragione. Dio è vivo: io sono nata per correre ma è lui che mi fa andare sempre più veloce. Dentro di me abita lo spirito divino».
Come si spiega lo scandalo, il bando e ciò che le è successo dall’ agosto 2009 a oggi?
«Tutto succede per una ragione. Forse dovevo rendermi conto quanto sia difficile vivere di sport, forse avevo bisogno di una sfida ancora più grande degli 800 metri, forse non credevo in Dio abbastanza e lui ha voluto mettermi alla prova. Ho pregato. Ho creduto in lui ancora di più e, piano piano, le cose stanno tornando alla normalità». Questa è normalità? «Correre, per me, è lo stato naturale. E l’unica cosa che conta».
Atletica, Semenya pensa al ritiro: "Io sono e sarò sempre questa. Ho finito". Dopo la rabbia per la sentenza del Tas, che la obbliga a sottoporsi a una cura ormonale per poter partecipare ai Mondiali di Doha, la campionessa olimpica degli 800 metri si sfoga sui social: "Sapere quando andar via è saggio. Avere la capacità di farlo coraggioso. Farlo a testa alta dignitoso" La Repubblica 2 maggio 2019. Caster Semenya non vuole più lottare. A 24 ore di distanza dalla sentenza Tribunale Arbitrale dello Sport che ha respinto il ricorso dell'atleta e della federazione sudafricana (Asa) in merito al nuovo regolamento Iaaf sugli atleti iperandrogenici che producono naturalmente alti livelli di testosterone, la campionessa olimpica degli 800 metri si lascia andare allo sconforto.
Lo sconforto sui social. Dopo aver risposto con una dichiarazione di guerra alla sentenza Tas che la obbliga a sottoporsi a una cura ormonale per poter partecipare ai Mondiali di Doha, la Semenya si è sfogata su Twitter. "Sapere quando andar via è saggio. Avere la capacità di farlo coraggioso. Farlo a testa alta dignitoso". Messaggi che lasciano poco spazio all'interpretazione e fanno pensare alla voglia di ritirarsi. Ieri la due volte campionessa olimpica sudafricana aveva diffuso un comunicato nel quale aveva chiaramente espresso la sua volontà: "Non mi fermeranno". Era poi emerso che, secondo le indicazioni Iaaf, Semenya ha sette giorni per far calare i livelli di testosterone nel suo sangue. Così oggi sono arrivati messaggi ben più negativi. E ai sostenitori che dal suo profilo twitter le chiedevano di non mollare, l'olimpionica ha risposto: "Io sono e sarò sempre questa. Ho finito".
Iaaf applicherà regola testosterone anche nei 1500. La Iaaf ignorerà quando disposto dal Tas di Losanna in relazione al caso Semenya e applicherà la regola sul tasso di testosterone, che prevede la riduzione dei livelli per le donne che ne producono troppo, anche per la gara dei 1.500 donne. Lo ha detto il presidente della federazione internazionale di atletica, Sebastian Coe. Il Tribunale dello sport aveva regolato la vicenda dando ragione alla Iaaf sulla vicenda delle atlete iperandrogene ma stabilendo che con c'è "evidenza conclamata" che una tale condizione possa produrre dei vantaggi anche nella gara dei 1500. La Semenya, olimpionica e campionessa del mondo degli 800, avrebbe invece dovuto sottoporsi a cure ormonali per poter continuare a gareggiare nella prova 'regina' del mezzofondo. Ma la Iaaf ha deciso d'ignorare tale considerazione e applicherà la regola anche nei 1500, specialità di cui in passato Coe è stato il 're'.
Caster Semenya, schiaffo alla Iaaf. Domina gli 800 e si ribella: "Non faccio le cure ormonali". Mariachiara Rossi su Libero Quotidiano 4 Maggio 2019. Caster Semenya, mezzofondista sudafricana e campionessa mondiale, ha vinto la sua ultima gara con le vecchie regole, dominando gli 800 metri (1'54"98) nella Diamond League di Doha. Nei giorni scorsi aveva espresso tutta la sua rabbia: «Sapere quando andar via è saggio. Avere la capacità di farlo coraggioso. Farlo a testa alta dignitoso» per la sentenza del Tas che obbliga tutte le donne iperandrogeniche come lei - che producono naturalmente alti livelli di testosterone - a sottoporsi ad una cura ormonale per garantire una competizione equa. Per quanto la 28enne da anni lotti contro la Federazione internazionale di atletica, il nuovo regolamento entrerà in vigore l' 8 maggio negli 800 e nei 1500 metri. Tutti gli atleti che vogliono competere ai Mondiali di Doha (dal prossimo 28 settembre), dunque, devono adattarsi ma Semenya dopo la gara ha ribadito: « Se di fronte a me c' è un muro, lo salto. Niente cure ormonali, continuerò ad allenarmi e a correre».
Semenya, gli ormoni sballati e i diritti delle sue avversarie. Benny Casadei Lucchi, Venerdì 03/05/2019, su Il Giornale. È una triste vicenda di diritti negati. Un frontale dell'etica e dello sport. Uno scontro fra mondi diversi che non lascia superstiti. Perché da una parte c'è il sacrosanto bisogno di distinguere fra giusto e ingiusto per noi, per voi, per l'uomo, per la donna, per l'uomo che si sente donna, per la donna che si sente uomo, per chi non è l'uno e non è l'altro e chi è tutte e due. E perché dall'altra parte, nello sport, giustizia e ingiustizia vivono invece di regole diverse, ognuna figlia della prima e più importante: che la sfida sia a parità di condizioni. È una triste vicenda di diritti negati perché da una parte c'è una donna che non avrà più il diritto di gareggiare con le donne e dall'altra ci sono splendide atlete che per anni non hanno avuto il diritto di vincere; e anche se ora è stato ristabilito, chi darà loro indietro forza e giovinezza per riprovarci? Per cui, quale diritto è stato leso di più? Il loro di sfidarla e sfidarsi ad armi pari o quello di Caster Semenya che non potrà scendere in pista così com'è e correre con le colleghe ai prossimi mondiali, che per farlo sarà costretta ad assumere dei farmaci per ridurre il livello di testosterone, ma che in tutti questi anni ha vinto e si è arricchita sfruttando un corto circuito tra etica e sport? A Rio de Janeiro, tre anni fa, una biondina canadese, Melissa Bishop, aveva commosso lo stadio e il mondo. A metà del secondo giro degli 800 metri olimpici si sbracciava, si sforzava, le sue gambe lunghe e allenate la stavano facendo volare, intanto lei frullava velocità, sembrava un fuori giri fisico, come se non avesse più il controllo di sé e degli arti, non ne poteva più. Fu tutto inutile. Arrivò quarta. Fece persino il proprio personale, record del Canada. Medaglia di legno. Niente podio, niente gloria. L'oro andò a Caster Semenya, l'argento a un'atleta come lei, Francine Niyonsaba, del Burundi, il bronzo a un altra ottocentista iperandrogina, Margaret Wambui, del Kenya. Quel podio fu un diritto negato per Melissa. La decisione della Federatletica mondiale confermata ora dal tribunale sportivo è un modo sofferto e tardivo per fare chiarezza, ma sa di illusione, di abracadabra normativo pronto a svanire appena una di queste atlete la impugnerà. Le associazioni per i diritti sono già sul piede di guerra. Però non per i diritti di Melissa e le sue sorelle.
Semenya, dubbi e discriminazioni sulla strada del terzo genere. Pubblicato venerdì, 3 maggio 2019 da Marco Bonarrigo su Corriere.it. Curarsi assumendo farmaci che mortificano le prestazioni sportive per tornare a essere «donne normali». Accettare di gareggiare solo tra di loro, in un circolo chiuso dall’amaro sapore di ghetto. Cambiare specialità o, in alternativa, affrontare la sfida con gli uomini, sempre perdente, di sicuro umiliante. Queste sono le tre possibilità offerte alle mezzofondiste veloci «intersex» (o con «differenze dello sviluppo sessuale») dalla federazione internazionale di atletica leggera (Iaaf), ratificate dal Tribunale di Arbitrato Sportivo di Losanna che il 1° maggio scorso ha respinto il ricorso della più celebre di loro, la mezzofondista sudafricana Caster Semenya che stasera gareggerà negli 800 al meeting di Doha. Tra le tante sfaccettature di un caso clamoroso, manca un primo elemento importante. Nella sua regola 114, la Iaaf non spiega chi, come e sulla base di cosa debba individuare l’atleta «sospetta» (le specialità interessate sono quelle comprese tra i 400 metri e il miglio) e avviarla alla complessa, delicatissima trafila di esami medici (almeno sei) che la definiscano (o meno) come DSD. Il medico personale? Quello del club o della nazionale? La federazione accettando la segnalazione di chiunque ravvisi tratti o atteggiamenti «mascolini» nella ragazza? Nessuno sa o vuole spiegarlo. Poi c’è il problema dell’assoluta mancanza di evidenze scientifiche su alcune direttive federali. L’unica comprovata è che il range di testosterone nel sangue delle atlete di alto livello è compreso tra 0,5 e 1.7 nmol/L. Le atlete intersex sono molto oltre ma abbassare artificialmente a 5 nmol/L il testosterone (questo il limite stabilito dalla Iaaf) non porta ad un abbassamento proporzionale della prestazione perché il corpo umano non è una macchina in cui basta introdurre un limitatore di potenza per andare più piano. Quando Caster Semenya, nel 2010, si sottopose a cure in virtù del primo regolamento Iaaf, il suo motore s’imballò completamente e lei divenne goffa e lentissima. È probabile (ma non esistono studi in materia) che alterare il parametro porti a una serie di squilibri globali che, oltretutto, potrebbero presentare rischi per la salute. Un’altra possibilità concessa dalla federazione alle atlete Dsd che non vogliono assumere farmaci è quelle di cambiare distanza di gara. Difficile però pensare a una Semenya «maratoneta». Il Tas ha scritto che già nei 1500 metri non ci sarebbero vantaggi scientifici tali da giustificare la norma, il presidente federale Coe ha fatto sapere che andrà avanti per la sua strada. Ultima possibilità, a dire il vero più simile a un’arrogante provocazione: gareggiare tra gli uomini. Con i suoi eccellenti primati personali (49”96 sui 400, 1’54”25 sugli 800 e 3’59”92 sui 1500) Caster faticherebbe a passare il primo turno in una gara junior di livello nazionale nel suo Sudafrica. Se lo scopo della Iaaf era quello di evitare che certe gare femminili diventassero un circo, il vero circo sarebbe vedere Caster e le altre sfidare i maschi.
Quanti ormoni servono per correre da donna? Pubblicato mercoledì, 05 giugno 2019 da Marco Bonarrigo su Corriere.it. Per ora la sentenza è sospesa per decisione della Corte suprema svizzera. Caster Semenya, la mezzofondista sudafricana ventottenne, pluri-campionessa mondiale e olimpica sugli 800 metri, potrà tornare a gareggiare. Temporaneamente. Caster era stata “condannata” a non correre più dal Tribunale arbitrale internazionale dello sport di Losanna, il Tas, a meno che non avesse abbassato il loro livello di testosterone. Adesso si attende che la Federazione mondiale di atletica presenti motivazioni più valide a difesa delle sue regole. Discriminatorie, comunque le si guardi. E pur tenendo in conto le ragioni delle altre atlete che ritengono di dover gareggiare (e perdere) contro una non-donna. Quale sarebbe la “colpa” di Caster? Non essere del tutto donna, secondo la Federazione che, attribuisce agli ormoni il potere di stabilire chi sia donna e chi no. In questo senso è un sollievo: in passato non si era donne se non si facevano figli, se si voleva studiare la matematica, se si volevano pubblicare le proprie poesie, se non ci si sottometteva a un marito, se si voleva correre. Adesso correre si può. Basta che gli ormoni siano giusti. Ma non tutti, ovviamente. Le donne che prendono la pillola anticoncezionale (visto che la contraccezione continua a restare un “problema” femminile) possono correre. Un tempo si temeva la pillola perché rendeva pelose, poi si è capito che anche l’età rende meno glabre e così, mentre gli uomini si depilano sempre di più, la faccenda, per le donne, è passata in cavalleria. Capricci della moda si dirà. Qui, negli ormoni di Caster voglio dire, la faccenda è più seria. Così seria che nessun atleta ha mai subito indagini invasive come Semenya: nel 2009 si mise in dubbio che fosse donna e fu sottoposta a un incredibile “esame del sesso”. La rimandarono in campo nel 2010. Ma non era finita. Poiché Caster è una donna con iperandrogenismo: ovvero il suo corpo produce naturalmente una quantità di ormoni androgeni, come il testosterone, superiore alla media. E questo per la Iaaf, l’Associazione Internazionale delle Federazioni di Atletica Leggera, è un problema, tanto che nel 2011 ha creato una regola che obbliga le donne con iperandrogenismo a sottoporsi a una terapia ormonale per abbassare la produzione di ormoni androgeni. L’Associazione medica mondiale, Amm, ha subito invitato i medici a boicottare una norma del genere. In accordo con la Federazione sudafricana, Caster Semenya ha fatto ricorso al Tas. Ma il tribunale arbitrale internazionale dello sport di Losanna ha respinto il suo ricorso. Caster avrebbe dovuto smettere di correre, visto che non intendeva giustamente sottoporsi ad alcun trattamento. Adesso la sentenza è sospesa. Ma la partita è aperta. Perché in gioco ci sono questioni fondamentali e addirittura filosofiche: che cosa ci fa uomini o donne e come mai, visto che il confine si sposta nel tempo, ci ossessiona così tanto? Ma ci sono anche questioni più banali, sempre legate ai diritti: si può imporre a qualcuno una cura ormonale per “ridurlo” a una misura arbitraria, a una media che è soltanto un dato statistico e come tale si trova al centro di una linea continua?
Alan Turing, genio britannico della matematica e tra i padri del computer, fu costretto ad assumere ormoni femminili perché omosessuale: si uccise due anni dopo, nel 1954. Il genio della matematica e della computer science Alan Turing, costretto a una cura ormonale perché omosessuale, si suicidò nel 1954: fu il primo ad accorgersi dei danni gravissimi che la cura gli imponeva e della sua inutilità. Curiosamente però a nessun uomo è mai stata imposta una cura ormonale per poter praticare uno sport e questo nella singolare convinzione che si vince perché si è più “forti” e non più dotati o più intelligenti. Voglio dire: se si scoprisse che gli atleti con maggior spirito di squadra hanno una quantità superiore alla media di ormoni femminili (visto che insistono tanto sulla capacità empatica delle donne), sarebbero costretti ad assumere testosterone? Il punto è che, benché lo sport sia molto di più (e di meglio) di un’esibizione di muscoli, nella mente delle autorità sportive (le stesse che hanno escluso le donne da quasi tutte le competizioni per decenni perché “non adatte a loro” e , oggi, in Italia, negano loro il professionismo) è ancora una sublimazione delle battaglie. E le battaglie, si sa, sono cose da maschi. Abbiamo già commentato come sia difficile digerire l’idea che un eroe dell’indipendenza statunitense, Casimir Pulaski, possa essere stato una donna come dimostrano le sue ossa. Lo sport, appunto perché metafora della guerra, suscita reazioni isteriche negli uomini: le donne che giocano a calcio diventano così tutte lesbiche o aspiranti tali, quelle che corrono troppo veloci non sono vere donne, quelle che vorrebbero essere pagate visto che lo praticano a tempo pieno e con ottimi risultati sono fuorilegge.
Casimir Pulaski, eroe dell’Indipendenza statunitense: dal suo scheletro risulta che fosse donna. Caster Semenya ha poi una colpa in più: è nera. E forse non esagera Anna North, in un articolo pubblicato su Vox e ripreso su Internazionale del 17 maggio 2019, a sostenere che l’atleta ha subito tante vessazioni proprio perché donna e nera. Per molti versi è stato anche più umiliante ciò che Caster è stata indotta a fare: posare per riviste femminili in abiti “sexy”. A quale uomo verrebbe mai chiesto per provare la sua “virilità”? E quando mai un tacco a spillo fa “una donna”? A rigore sarebbe stato lo stesso imporle un velo: non è ancora oggi in molti Paesi (come lo fu da noi) il segno stesso di femminilità, in quanto simbolo di sottomissione?
Ma Semenya non si sottomette. Benché la tutela sia temporanea, ha commentato: «Spero ora di poter essere nuovamente libera di correre». E la frase coincide con quello che aveva affermato dopo la bocciatura del ricorso a Losanna: «Io sono e sarò sempre questa. Ho finito», dimostrando con coraggio che preferiva smettere di correre, ovvero di fare la cosa per cui è nata, piuttosto che fare violenza al suo corpo. Quella di Semenya è una grande lezione: non si cambia perché qualcun altro (che, per coincidenza è quasi sempre maschio e bianco) ti dice come devi essere.
Nel romanzo Mademoiselle de Maupin (1834), che si ispirava a un personaggio, reale, la spadaccina Julie d’Aubigny, nata nel 1670, l’autore, Théophile Gautier , fa dire alla sua protagonista, che si veste da uomo per soddisfare le sue aspirazioni: «Amo i cavalli, la scherma, tutti gli esercizi violenti, e mi piace arrampicarmi e correre qua e là come un ragazzo; mi annoio a starmene seduta, con i due piedi giunti e i gomiti incollati ai fianchi… non mi piace affatto obbedire, e la parola che dico più frequentemente è “Voglio!”». Oggi non susciterebbe alcuno stupore. Ma all’epoca la conclusione a cui giungeva nel romanzo era scandalosa: «La mia chimera sarebbe di possedere, volta per volta, i due sessi… uomo oggi, donna domani, riserverei agli amanti le tenerezze languide, le maniere sottomesse e devote, le più blande carezze, i sospiretti… tutto ciò che nel mio carattere ha del gatto e della donna; poi, con le mie amanti sarei intraprendente, ardito, appassionato, con modi trionfanti, il cappello sull’orecchio e un cipiglio da capitano e da avventuriero». Perché sentirsi uomo o donna è faccenda ben più complessa della quantità di ormoni. E perfino dell’aspetto fisico: gli esperti sostengono che il dimorfismo sessuale umano, ovvero la differenza di taglia dei due sessi, è come quello dei bonobo, ossia poco sviluppato. Certo è che basta guardare i giovani, in Europa, per accorgersi di quanto sia vero.
Atlete «intersex» invitate a operarsi: Annet Negesa accusa la Iaaf. Pubblicato martedì, 15 ottobre 2019 su Corriere.it da Marco Bonarrigo. L’ottocentista ugandese è stata sottoposta a un devastante intervento di asportazione delle gonadi per poter competere ancora tra le donne. «Ricordo la sala d’aspetto dell’ospedale di Nizza: tremavo di paura. Ricordo tra i medici il dottor Bermon. Ricordo che mi hanno fatta spogliare, esaminato petto e fianchi e, alla fine della visita, spiegato che la sola possibilità di gareggiare ancora tra le donne era operarmi. Sono uscita col nome di un ospedale della mia Uganda scritto su un foglio. L’incubo è iniziato». La vita di Annet Negesa, talento del mezzofondo africano, affonda prima dei Giochi di Londra dove lei, ottocentista minuta e tenace, puntava al podio. «Il mio manager — racconta — mi disse che non sarei andata alle Olimpiadi: in giro dovevo raccontare di essere infortunata. Un medico federale aggiunse: “È un problema con i tuoi ormoni, ma lo risolviamo”». Per sette anni Annet tiene l’incubo per sé, poi un’avvocata la convince ad aprirsi con la tv tedesca Ard. Il reportage, appena trasmesso, è un macigno sulla reputazione della Iaaf, pure sopravvissuta a pesanti scandali finanziari e legati al doping. Annet è un’atleta Dsd, con differenze dello sviluppo sessuale: come la più celebre Caster Semenya ha un livello naturalmente alto di testosterone che, secondo i federali, le darebbe ingiusti vantaggi rispetto alle atlete «normali». La federazione internazionale di atletica (Iaaf) ha individuato lei, Caster e altre facendo analizzare dai laboratori delle Università di Nizza e Montpellier migliaia di campioni di urine dei controlli antidoping senza chiedere alcun consenso. I risultati, pubblicati nel 2013 dalJournal of Clinical Endocrinology, mettono a nudo i più intimi dettagli (biologici e anatomici) delle atlete «iper androgeniche». Tra i ricercatori c’è, appunto, Stéphane Bermon, capo medico Iaaf e fedelissimo del presidente Sebastian Coe. «Questo screening — è scritto nello studio — identifica le atlete, protegge la loro privacy e garantisce equità delle gare». Poi una considerazione raggelante: «A chi vuole mantenere identità sessuale femminile, suggeriamo asportazione delle gonadi con vaginoplastica bilaterale e terapia estrogenica. Forse peggiorerà le prestazioni ma permetterà di continuare a gareggiare tra le donne». Un invito a effettuare un intervento delicato e rischioso, non ad assumere farmaci progestinici, soluzione proposta come «ufficiale» dalla Iaaf. Annett non viene indirizzata a una struttura europea ma (nella prescrizione di ingresso c’è il nome del dottor Bermon) al Women Fertility Center di Kempala, da cui lei esce incapace di reggersi in piedi e con una scatoletta di medicinali in mano, senza piani terapeutici di sorta. Ogni tentativo di contattare i medici federali per avere aiuto, spiega, è vano. Avrà disturbi gravi e non riprenderà più la sua carriera di atleta. Ard intervista anche un’altra atleta (che ha chiesto l’anonimato) sottoposta allo stesso trattamento. Al chirurgo è sfuggita la velocista indiana Dutee Chand, che ha avuto la forza di rifiutare l’intervento e di battersi sul piano legale contro la Iaaf per il suo diritto a gareggiare. La pubblicazione del reportage ha suscitato l’indignazione dell’Onu («L’operazione può provocare danni psicologici e fisici irreversibili»), convinto 25 atleti francesi a firmare una lettera aperta a Coe e la ministra dello Sport transalpino Maracineanu ad aprire un’inchiesta e chiedere spiegazioni alla federazione. E la Iaaf? Nega tutto. Nega di aver indirizzato l’atleta all’operazione e minaccia azioni legali contro lei e contro i giornalisti. Ma deve incassare le dimissioni di Steve Cornelius, che dirigeva il tribunale federale. «Non voglio — spiega — rendermi complice di atti criminali».
«Transgender»: la Iaaf elenca i farmaci per chi vuole restare donna-atleta. Pubblicato mercoledì, 16 ottobre 2019 su Corriere.it da Marco Bonarrigo. Consigliati alle intersex medicinali e dosaggi (con effetti collaterali gravi) e chirurgia anche estetica. Spese a carico delle sportive. Per replicare alle furibonde polemiche che la stanno investendo, la Iaaf, la Federazione internazionale di atletica leggera, mercoledì ha messo nero su bianco in 20 pagine le «regole di ingaggio» nelle gare internazionali per i soggetti «transgender» di sesso femminile. Atlete come Caster Semenya (foto Getty Images), sia che «dichiarino» la loro condizione, sia che vengano individuate dai medici federali, potranno gareggiare solo dopo aver mantenuto per 12 mesi il livello di testosterone in circolo sotto le 5 nmol/L. La Iaaf elenca i 10 farmaci consigliati (estrogeni o agenti bloccanti) e i loro dosaggi senza nascondere i (pesanti) effetti collaterali — tra cui cancro, trombosi, scomparsa della libido, osteoporosi — precisando che le spese per gli esami di autocontrollo (da effettuare tramite cromatografia liquida e spettrometria di massa, costose e inesistenti in molti Paesi in via di sviluppo) saranno a totale carico dell’atleta. Cosa succede a chi verrà trovato con i valori fuori norma in competizione? «Costui verrà privato — scrive la Iaaf — di titolo, medaglie ed eventuali record ma con procedura di assoluta discrezione». Come si possa strappare un oro olimpico o mondiale conquistato sul campo «con assoluta discrezione» la federazione non lo precisa. Al capitolo 1.22 del Regolamento, i federali si preoccupano di spiegare che ai farmaci le atlete possono affiancare «interventi chirurgici affermativi di genere» al viso, al seno e agli organi genitali che le renderanno più accettate.
Sara Simeoni: «Lasciate correre Caster Semenya con i suoi ormoni». Pubblicato domenica, 24 novembre 2019 su Corriere.it da Gian Paolo Ormezzano. Sara Simeoni sorride felice dopo il salto in alto alle Olimpiadi di Los Angeles 1984. L’atleta italiana aveva conquistato il primato del mondo nel 1978 saltando 2,01 metri per due volte. Caster Semenya durante una gara: l’atleta,m 28 anni, vincitrice di due titoli olimpici e tre mondiali sugli 800 metri, produce naturalmente l’ormone della forza maschile. La sudafricana Caster Semenya (28 anni), due ori olimpici negli 800 metri, per aver superato i limiti di testosterone non ha preso parte ai Mondiali 2018 di Doha Sara Simeoni in Azzaro (Rivoli Veronese, 1953), prima donna al mondo a saltare in alto più di due metri (2,01, e due volte, nell’ormai preistorico 1978) e massima atleta d’Italia da sempre e chissà per quanto tempo ancora, è convocata qui a parlare del nuovo che avanza (o no, o chissà) nello sport femminile. Ci sono stati i Mondiali di calcio delle donne, finalmente in lizza anche le nostre (leggete qui il servizio che 7 dedicò alle azzurre della nazionale), non vittoriose ma tele-eroine di repente e in massa. C’è una sudafricana di colore che si chiama Caster Semenya, ha 28 anni, ha vinto due titoli olimpici e tre mondiali sugli 800 metri, ha tratti maschili, ha subito e superato i più invasivi test sul sesso, si è sposata con una donna (massì), la bella Violet, manda avanti in più di un tribunale (tutto il Sudafrica con lei) le cause contro la Federazione Internazionale di Atletica che ha vietato le distanze del mezzofondo, dagli 800 ai 3.000 metri siepi, a quelle che, come lei, producono naturalmente — naturalmente, ecco il punto: niente pillole magiche, ma organi interni ad hoc — l’ormone maschile della forza, il testosterone, e in quantità sino a quindici volte superiore a quella media della donna. Forse per non apparire provocatoria non si è presentata ai Mondiali nel Qatar.
Sara, il 2019 passerà alla storia come l’anno della donna che si fa padrona o comunque coinquilina della massima scena sportiva. Niente da dire, da applaudire, da recriminare, da comunicare, da sospirare?
«Niente e tutto. Niente se sto al mio piccolo. Io penso di essere stata fortunata. Volevo semplicemente capire cosa potevo arrivare a fare, io alta 1,78, dunque non donna fenicottero, anzi. Mi sono chiarita bene tutto, soddisfatta di fronte a me stessa e non così presuntuosa da mettermi fra le portabandiera della mia metà del cielo. Sempre tenendo presente quel detto per cui i limiti sono più di chi te li elenca che di te stessa. Celebrando le recenti grandi performance della donna, maratoneta kenyota o ginnasta statunitense o tennista, oltre che calciatrice anche italiana, i media hanno rielencato i cosiddetti muri dello sport abbattuti. Un giornalista mi ha chiesto se non mi dispiace che si sia citata la tedesca dell’Est Rose-Marie Ackermann, una amicona, prima a saltare 2 metri nel 1977, e non Sara Simeoni italiana prima a quota 2,01 l’anno dopo. Non me ne importa, lo giuro».
Niente e tutto, hai detto: perché tutto?
«Tutto perché l’insieme dei progressi, donne ma anche uomini, mi attrae, anche se mi fa paura. Già avevo patito la storia pesante di Semenya, che dovrebbe ridursi la produzione di ormoni. Come se ad una saltatrice con le gambe naturalmente lunghe venisse imposto di segarsi le ossa per perdere qualche centimetro. La gente più balorda ha materia prima pessima ed abbondante per i suoi balordi ed anche grossolani giudizi. E ora avverto un senso di euforia e intanto di paura legato a due eventi recenti».
Quali?
«Uno, i Mondiali di atletica nel Qatar: un progresso generale enorme, più o meno in tutte le specialità, uomini e donne. Due, la storia mostruosa delle operazioni a cui atlete con problemi “alla Semenya” verrebbero costrette, o comunque convinte, per alterare la loro natura che si permette di fare cosacce maschili».
Ti riferisci al comunicato della Federazione Internazionale di Atletica, dopo ricerche di due università francesi, a firma di Stéphan Bermon medico ufficiale: «A chi vuole mantenere identità femminile suggeriamo l’asportazione chirurgica delle gonadi con vaginoplastica bilaterale e terapia estrogenica»?
«Sì. E c’è adesso una atleta ugandese, Annet Negesa, grande promessa degli 800, che non gareggia più: l’hanno operata e dimessa dall’ospedale con un flacone di pillole da prendere e tanti saluti. Distrutta. Quante a rischio come lei? E dove e quando ci si fermerà? Ogni tanto mi invade l’idea tremenda che tutto lo sport che ho praticato e che cerco di diffondere sia una cosa frivola, da vispa teresa».
Ormai si affaccia nello sport l’ipotesi dei riconoscimento di un terzo sesso, quello delle produttrici naturali dell’ormone. Pare siano tante. Altra cosa i transessuali. Siamo ad una svolta, forse ci vorrebbe un impegno scientifico comune, di una scienza non sensazionalistica, e invece c’è guerra legale. Un’ipotesi personale: il caso di Semenya, donna fuori — aspetto a parte — e uomo dentro che produce l’ormone, serve ai padroni dello sport per evitare o comunque ritardare il problema semplicemente cosmico della donna ancora nella serie B dello sport per guadagni e fama?
«Possibile. La donna è una sorta di comodo personaggio di una commedia scritta dall’uomo. Nello sport è utile, fa spettacolo, si comporta bene, ispira buoni sentimenti, e intanto dà poco disturbo, e ai posti di comando lei non c’è. Le calciatrici azzurre al Mondiale hanno fatto bene, sono state elogiate molto, chi dice persin troppo. Il nostro popolo sportivo, sul divano davanti alla televisione, si è innamorato a comando, a telecomando di loro, però la federazione di tutti maschi non è ancora arrivata ad un riconoscimento pieno, dunque anche professionistico, del loro impegno» (leggete qui cosa ne pensa la pasionaria dello sport femminile Billie Jean King, intervistata da 7).
Forse ci vorrebbe nel calcio una suffragetta importante e di peso mondiale, tipo Sara Simeoni.
«Io sono stata soltanto me stessa, in tempi diversi da questi. A tredici anni saltavo 1,35, come mai nessuna in Italia a quell’età. Ho progredito regolarmente. Sono stata anche bullizzata. O si dice meglio mobbizzata? In una trasferta importante due azzurre, compagne mie di stanza, due belle tipette che non voglio neanche nominare: dividevano con me la camera d’albergo e si comportavano come se io non esistessi, trapassandomi con lo sguardo quasi fossi di vetro».
Sei sempre stata perfettina. Famiglia forte, genitori agricoltori importanti, due sorelle, un fratello, da ragazzina danza e disegno, poi la scoperta del talento sportivo, la svolta della vita.
«E la mia scelta dell’allenatore: Erminio Azzaro aveva vinto il bronzo nell’alto ai campionati europei del 1969, poi si era infortunato. C’era feeling fra noi due, gli ho chiesto di smetterla di gareggiare per fare il mio coach. Poi è diventato anche il mio fidanzato, mio marito, il padre del nostro Roberto. Il record del mondo mi è saltato addosso a Brescia, il 4 agosto 1978. Eguagliato da me in settembre agli Europei di Praga e mio per quattro anni. Testimone a Brescia la cinepresa di un operatore dilettante. Trent’anni dopo, in una celebrazione di quella giornata, è venuto fuori un ottimo video girato allora da una tivù privata, per me un bel regalo».
Poi ci si aspettava Sara Simeoni alla guida dello sport femminile italiano, dopo 235 gare vinte sulle 307 disputate. E un oro e un argento olimpici, e 5 ori europei, e la commenda della Repubblica, e la croce di Grand’Ufficiale, e la scelta del Coni come nostra atleta del secolo.
«Magari lo aspettavo anch’io, ero pronta. Mi sentivo in debito, volevo darmi ancora di più allo sport, adesso mi sento quasi in credito con lo stesso sport a cui ho dato davvero me stessa. Si era parlato di un Club Italia per assegnarmi una sorta di leadership dell’atletica femminile, tutto finì presto. Anche la politica mi ha attirato, ma i maneggi di una superesperta mi hanno delusa e amen. Ho fatto il mio mestiere di insegnante di educazione fisica, ho pure tenuto a lungo corsi di scienze motorie all’Università di Chieti. Ora, arrivata alla pensione, giro le scuole del mio Veneto: si chiama Operazione Fair Play e salto, sì, da una all’altra, chiamando gente allo sport».
Questo calcio "sessista" e la saggezza della Morace. Tony Damascelli, Martedì 08/10/2019, su Il Giornale. Per fortuna ci ha pensato una donna. Al secolo Carolina Morace, che conosce il calcio, avendolo giocato, frequentato, studiato, capito, insegnato. Per fortuna ha detto poche ma intelligenti parole a chiudere una vicenda buffa immediatamente strumentalizzata e sventolata da chi non ha altro per la testa se non la propaganda del nulla. Riassunto, il direttore sportivo della Roma, Petrachi Gianluca, preso da furori, nel dopo partita tumultuoso contro il Cagliari, ha parlato e sparlato di tutto e ha osato dire che, a proposito di un fallo di gioco, «il calcio non è da signorine».
Non l'avesse mai pensato e poi pronunciato. La casta del metoo ha alzato il polverone, la frase è sessista, le parole offendono le donne, l'immagine è omofoba. Che palle! Petrachi ha detto altre cose, gravi e pesanti, insinuando complotti e affini, ritenendo, la sua squadra, perseguitata dagli arbitri. Ma l'accenno alle signorine appartiene a un linguaggio antico, normalissimo, banale ma effettivo ed efficace, come la stessa Morace ha chiarito, ribadendo che lei, come responsabile tecnico di alcune squadre femminili, ha rivolto alle sue calciatrici, molli nel gioco e nel comportamento, lo stesso rimprovero. Roba ordinaria, senza doppi sensi, senza offesa al genere, direi anche infantile. Ma ormai sono saltate le marcature, bisogna stare attenti a usare certi termini. La domanda sorge spontanea: come la mettiamo con il gioco maschio? Alle reduci dalla partita di domenica sera, a San Siro, segnalo una frase di Gianni Brera che così spiegava la differenza tra le due squadre, da sempre rivali: «L'Inter è una squadra femmina, quindi passionale, volubile, e pertanto all'opposto del pragmatismo che caratterizza la Juventus». In confronto, Petrachi è un dilettante.
Petrachi: «Calcio non per ballerine». Bertolini: «Parole dell’altro secolo». Morace: «Ma lo dico anche io». Pubblicato lunedì, 07 ottobre 2019 da Corriere.it. Il pareggio con il Cagliari e l’arbitraggio hanno portato a diverse reazioni stizzite in casa Roma. Tra queste, quella del ds Gianluca Petrachi, che ha parlato del calcio come di un «gioco maschio, non un gioco da ballerine. Altrimenti ci mettiamo lo chignon e le scarpine di danza classica e andiamo a fare quello». La sua frase ha portato a diverse reazioni., inclusa quella della c.t. della Nazionale femminile Milena Bertolini: «È una frase che risale al 1909 e l’ha pronunciata Guido Ara. Sono passati 110 anni e credo che dovremmo andare avanti. È un modo di pensare un po’ primitivo ma, nel frattempo, la società si è evoluta, anche se quello di Petrachi è il pensiero medio degli italiani verso le donne che fanno calcio». Sulla stessa lunghezza d’onda il difensore della Juventus e capitano della Nazionale Sara Gama: « Petrachi ha fatto un’uscita infelice in un tempo ampiamente sbagliato, glielo stanno facendo notare tutti. Il linguaggio plasma la realtà, questo linguaggio forse non corrisponde a quello che lui pensa. Il linguaggio è importante e dimostra che, per quanto cerchiamo di progredire, per il cambio culturale serve tempo». Non la pensa così, invece, l’ex c.t. ed ex allenatrice della Viterbese tra gli uomini e del Milan femminile Carolina Morace. In un’intervista all’Adnkronos spiega: «È una cosa che direi anche io se le mie calciatrici giocassero in punta di piedi, non la trovo una cosa offensiva, nella maniera più assoluta. Anche io alle mie giocatrici in alcune circostanze potrei dire che non siamo né signorine né ballerine».
Da gazzetta.it l'8 ottobre 2019. "Il calcio è un gioco maschio, non è uno sport per ballerine, non è la danza classica". Il d.s. romanista Gianluca Petrachi ha pronunciato queste parole al termine di Roma-Cagliari, protestando per la decisione dell'arbitro Massa di annullare il gol di Kalinic, che sarebbe valso il 2-1 (spinta dello stesso Kalinic su Pisacane, poi finito in ospedale per l'impatto col portiere Olsen in uscita). Il pensiero di Petrachi non è passato inosservato e ha scatenato una scia di polemiche. Oggi sulla questione prendono posizione anche Milena Bertolini e Sara Gama, rispettivamente c.t. e capitana della Nazionale femminile. "La frase ' il calcio non è uno sport per signorine' l'ha pronunciata Guido Ara. Sono passati 110 anni e credo che dovremmo andare avanti. È un modo di pensare un po' primitivo ma, nel frattempo, la società si è evoluta - commenta la Bertolini alla vigilia del quarto impegno delle azzurre nelle qualificazioni a Euro 2021 (domani ore 17.30 a Palermo, diretta Rai 2) -. Quello di Petrachi è il pensiero medio degli italiani verso le donne che fanno calcio". Il c.t. continua: "Bisogna capire cosa volesse dire con quella frase. Se intendeva che le donne sono più fragili, non sono determinate e non hanno forza, allora Petrachi non ha la conoscenza esatta di cosa significhi essere donna e fare calcio per una donna. Credo anzi che nel modo più assoluto il calcio sia uno sport per donne. Lo abbiamo dimostrato ai Mondiali, nei quali si sono visti grande aggressività, contrasti, temperamento e niente piagnistei. Quando si parla si deve stare attenti, le parole sono importanti e danno significato ai nostri pensieri. Se il pensiero di Petrachi è quello che sembra non lo condivido". Poi è la volta di Sara Gama: "Petrachi ha fatto un'uscita molto infelice, glielo stanno facendo notare tutti. Il linguaggio plasma la realtà, questo linguaggio forse non corrisponde a quello che lui pensa. Il linguaggio è importante e dimostra che, per quanto cerchiamo di progredire, per il cambio culturale serve tempo. Le parole di Petrachi dicono che non riusciamo a levarci queste cose di dosso e ogni retropensiero. È un'uscita ampiamente infelice in un tempo ampiamente sbagliato".
Chiara Zucchelli per gazzetta.it l'8 ottobre 2019. Nella tarda serata arriva la precisazione targata Gianluca Petrachi, finito nell’occhio del ciclone dopo la dichiarazione “Il calcio è un gioco maschio, non è uno sport per ballerine, non è la danza classica”. Il pensiero di Petrachi non è passato inosservato e ha scatenato una scia di polemiche. “Intendo scusarmi se qualcuno si è sentito offeso dalle parole che ho utilizzato - dice il direttore sportivo della Roma all’Ansa -. Non era affatto mia intenzione insinuare che il calcio sia uno sport solo per uomini e non adatto alle donne. Ero molto arrabbiato perché non era stato convalidato un gol che ritenevo assolutamente regolare e volevo sottolineare quanto il calcio sia - ed è sempre stato - uno sport fisico e di contatto. Il calcio è di tutti e alla Roma siamo molto orgogliosi della nostra squadra femminile e di promuovere il calcio femminile”.
Da gazzetta.it l'8 ottobre 2019. (…) Contro il Cagliari la Roma aveva fuori, oltre al capitano, anche Mkhitaryan, Perotti, Under, Cetin, Zappacosta e Pellegrini e di questi, forse, solo il turco e l’armeno rientreranno dopo la sosta. Diawara dovrà aspettare almeno un mese (“è andato tutto bene, ci vediamo presto”, ha scritto su Instagram), Dzeko potrebbe giocare con la maschera: “Fate qualcosa”, è il mantra della gente. C’è chi se la prende con il terreno di Trigoria: “E’ quello che non va bene, anche se rifate i campi”, chi tira in ballo la superstizione (“c’è una maledizione al Bernardini dove una volta sorgeva una chiesa mai sconsacrata”) e chi, invece, dà ragione a Fonseca: “Si gioca troppo, più si andrà avanti più sarà peggio”.
MA PERCHÉ ALLO STADIO SI PUÒ FERMARE UNA PARTITA PER UN CORO RAZZISTA, MA NON PER UNO SESSISTA? Claudia Mura per Milleunadonna.it il 7 ottobre 2019. Allo stadio esistono discriminazioni di serie A e altre di serie B. Quelle su base razziale appartengono alla massima serie calcistica, quelle in base al sesso sono invece da serie cadetta. Se qualcuno si azzarda a gridare un “buh buh” all’indirizzo di un giocatore di colore, scattano subito, e giustamente, le sanzioni previste per i cori razzisti. Ma se un’intera curva grida “fuori le tette” a una conduttrice televisiva o altri insulti irripetibili nei confronti di una procuratrice calcistica, non solo non si parla di sanzioni disciplinari ma neanche si intravvede un barlume di indignazione.
L’ultimo caso. Il confronto è presto fatto, basta pensare all’ultimo caso di razzismo da stadio: la partita di Serie A Atalanta-Fiorentina di una settimana fa, sospesa per tre minuti per i cori razzisti dei tifosi bergamaschi contro il viola Dalbert. Il terzino brasiliano ha chiesto all’arbitro di intervenire dopo essere stato vittima di insulti a sfondo razziale e ha ottenuto la sospensione della gara fino a che il comportamento ingiurioso non ha avuto fine. In questa occasione il presidente della Fifa Infantino ha commentato: "In Italia situazione grave" e la condanna del comportamento dei tifosi dell’Atalanta è stata pressoché unanime.
Sessismo “non pervenuto”. L’ultimo caso di sessismo da stadio è di domenica scorsa: Diletta Leotta ha fatto il suo ingresso a bordo campo del San Paolo all’inizio di Napoli-Brescia ed è stata accolta dal coro di un’intera curva che la invitava a mostrare il seno. Reazioni pervenute in favore della conduttrice di Dazn? Nessuna. Non solo a nessuno è venuto in mente di sospendere la gara, e sia: non esiste neppure un regolamento in tal senso, ma non si registra nemmeno la più pallida indignazione. Allora la domanda è: perché il razzismo sì e il sessismo no? Si tratta comunque di un coro discriminatorio e non è certo la prima volta che accade. C’è un “ottimo” precedente che si è verificato nel campo del Cagliari durante la gara con l’Inter del primo di settembre. Un incontro emblematico perché in una sola partita c’è stato razzismo, presunto, e sessismo invece conclamato.
Gli indecenti cori contro Wanda Nara. Mentre il giocatore nerazzurro ha chiesto l’intervento dell’arbitro per cori razzisti provenienti dalla tifoseria sarda, nessuno ha detto niente per i cori ingiuriosi rivolti dalla curva interista nei confronti della moglie e agente dell’ex nerazzurro Icardi. Contro Wanda Nara è stato detto di tutto, insulti tanto volgari e a sfondo sessuale che non possono essere qui ripetuti ma, ancora una volta, nessuna indignazione generale. La nostra è stata una delle poche testate a segnalare il pessimo episodio.
Il caso Lukaku. Per i cori contro Lukaku è stato aperto, giustamente, un procedimento di verifica che non ha poi dato esiti negativi per il Cagliari. Nel comunicato ufficiale pubblicato sul sito della Lega, il giudice sportivo ha scritto che i versi da scimmia rivolti a Lukaku, ripresi allo stadio e segnalati anche dalla Questura di Cagliari, «non sono stati intesi dal personale di servizio, né in vero dai collaboratori della Procura federale, come discriminatori». Per le urla contro Wanda Nara non si è fatto nulla semplicemente perché il comportamento non viene ritenuto sanzionabile né discutibile.
La reazione di Diletta Leotta. Lo dimostra la stessa reazione di Diletta Leotta rispetto ai cori napoletani: “fuori le tette”. La conduttrice ha fatto buon viso a cattivo gioco e non se l’è presa più di tanto, ha solo mostrato il pollice verso. Gesto interpretabile in più di un modo: da “non ve le faccio vedere”, a “brutti maiali fate schifo”. Quale delle due versioni appartenga alla diretta interessata non è dato saperlo, ciò che viene da pensare è che, se pure Leotta di fosse adirata e avesse gridato al sessismo, così come i giocatori di colore gridano - giustamente - al razzismo, non avrebbe avuto lo stesso supporto. E sono propensa a credere che se avesse reagito esprimendo indignazione, si sarebbe presa pure altri insulti, magari simili a quelli riservati a Wanda Nara.
La sottocultura maschilista da stadio. Perché uno degli effetti degli attacchi sessisti è questo: se sei la sola a indignarti ci fai pure la figura della stupida o, quantomeno, di quella che ha scarso senso dell’umorismo. Perché, in fondo, ridevano tutti mentre la curva gridava “Fuori le tette”, come se fosse una battuta spiritosa, mero folklore. Qualcosa che induce ogni tifoso a dare di gomito al proprio vicino di posto. A meno che il vicino di seggiola non sia sua moglie o sua figlia. E si ha un bel dire che gli stadi italiani debbano poter ospitare le famiglie: papà, mamma, figlie e figli.
Promozione, l'allenatore contro l'arbitro donna: ''In cucina o a fare le pulizie'', scrive il 2 aprile 2019 Repubblica Tv. Marcello Bazzurri, allenatore della Casa del Diavolo (campionato umbro di Promozione) si è espresso così contro l'arbitro Ilaria Possanzini, dopo che la sua squadra è stata sconfitta per 4-2 dalla San Marco Juventina. L'episodio è avvenuto a pochi giorni di distanza dagli insulti di Sergio Vessicchio, giornalista e telecronista per l'emittente CanaleCinqueTv, alla guardalinee Annalisa Moccia. ''Volevo scusarmi - ha spiegato poi l'allenatore Bazzurri - le cose che ho detto sono frutto di una reazione a caldo, non ho nulla contro il popolo femminile del calcio, seguo anche il calcio femminile, fanno le cose come devono essere fatte''. L'arbitro insultato ha invece commentato così l'accaduto: "Non saranno questi brutti episodi a escludere le donne dal calcio. Domenica riscendo in campo e basta".
"Vabbè, ma parliamo di calcio?". Quello femminile, per il conduttore tv Criscitiello, non lo è, scrive il 29 marzo 2019 Repubblica tv. Un estratto video che, nelle intenzioni della pagina Twitter dell'As Roma, voleva essere un plauso alla squadra femminile dell'Inter neopromossa in Serie A, si è trasformato in un caso. Nel video Michele Criscitiello, il Ceo di Sport Italia e conduttore del programma tv da cui provengono le immagini, introduce uno degli ospiti: Roberto Scarpini, giornalista di Inter Channel. Quest'ultimo ne approfitta per complimentarsi con la squadra femminile nerazzurra che ha vinto il campionato di Serie B e che, quindi, ha guadagnato il passaggio in A. Criscitiello sembra voler sminuire l'impresa, affermando: "Vabbè, ma parliamo di calcio?". Come a voler dire che quello femminile non meriti di essere definito tale. E' questa l'impressione che hanno avuto gli utenti di Twitter che hanno commentato il video. "E ride anche, dopo la battuta felice" scrive qualcuno. 'Vergognati' e 'scandaloso' vengono ripetuti più volte tra i commenti. Solo qualche giorno fa, un altro episodio di sessismo nel mondo del calcio in tv: Sergio Vessicchio, telecronista di una tv locale, ha insultato una guardalinee commentando così il suo operato in una partita di Eccellenza tra Agropoli e Sant'Angelo: "E' uno schifo vedere le donne venire a fare gli arbitri in un campionato in cui le società spendono centinaia di migliaia di euro".
"Uno schifo vedere le donne arbitro". Ed è bufera sul giornalista. Sta facendo il giro del web il video in cui un telecronista sportivo campano, Sergio Vessicchio, all'inizio di una partita di dilettanti dichiara: "È uno schifo, una cosa inguardabile vedere una donna su un campo di calcio". Ma alla fine chiede scusa, scrive Roberto Bordi, Lunedì 25/03/2019 su Il Giornale. Nel 2017, in Germania, un arbitro donna aveva fatto la sua comparsa per la prima volta in uno stadio di Bundesliga, il massimo campionato tedesco di calcio. Molto tempo prima, nel 2003, la nostra Cristina Cini aveva esordito come guardalinee in Serie A (Juventus-Chievo). Poi ci sono le altre decine di donne - tra arbitri e assistenti - che tutte le domeniche, in ogni parte del globo, scendono in campo permettendo che lo spettacolo del gioco più bello del mondo abbia inizio. Ma lo stereotipo della donna che deve stare lontana dal mondo del calcio resiste, vedi il recente scandalo provocato dall'ex giocatore Fulvio Collovati ("Le donne non parlino di tattica"). Ma quanto successo domenica pomeriggio sulle tribune di uno stadio di periferia della Campania non ha precedenti. Sergio Vessicchio, giornalista dell'emittente CanaleCinqueTv, all'inizio della telecronaca della partita tra Agropoli e Sant'Agnello si è lasciato scappare una serie di vergognosi insulti sessisti nei confronti della guardalinee, Annalisa Moccia della sezione di Nola. "Pregherei la regia di inquadrare l’assistente donna che è una cosa inguardabile. È uno schifo vedere le donne che vengono a fare gli arbitri in un campionato dove le società spendono centinaia di migliaia di euro, è una barzelletta della Federazione una cosa del genere", ha detto il giornalista ancora prima che la partita avesse inizio. Per poi continuare: "Eccola qui, la vedete: una cosa impresentabile". Parole inaccettabili che hanno suscitato l'indignazione di tutti: colleghi, giornalisti e appassionati. Tutti insieme nel chiedere la testa di Vessicchio. Travolto da decine di messaggi di protesta, l'Ordine dei Giornalisti della Campania ha comunicato: "Il giornalista di Agropoli che ha deriso in diretta durante una partita di calcio una donna assistente dell’arbitro è stato sospeso dall’Ordine dei giornalisti della Campania per precedenti atti grazie all’ottimo lavoro del nostro Consiglio di disciplina. Ora su mio impulso scatta un ulteriore procedimento disciplinare per recidiva", il comunicato del presidente dell'Odg Campania, Ottavio Lucarelli. Nonostante le critiche ricevute da tutta Italia, Vessicchio tira dritto e su Twitter scrive un post destinato a rinfocolare ulteriormente gli animi: "Ritengo personalmente che far #arbitrare le #donne nel #calcio sia sbagliato per molti motivi, quindi confermo il mio pensiero. Perchè tutti questi squallidi moralisti non fanno una battaglia per farle giocare insieme ai maschi? La vera discriminazione è questa". Ritengo personalmente che far #arbitrare le #donne nel #calcio sia sbagliato per molti motivi, quindi confermo il mio pensiero. Perchè tutti questi squallidi moralisti non fanno una battaglia per farle giocare insieme ai maschi? La vera discriminazione è questa. Poi, finalmente, le scuse. "Ho sbagliato e ho fatto una stupidaggine. Mi sono espresso male; non sono sessista e farei governare il mondo alle donne. Ero in diretta e non potevo subito riparare. Mi sono accorto subito di aver detto una cavolata e ne pagherò le conseguenze", ha detto a Radio Crc, aggiungendo che "Le donne arbitro sono statisticamente meglio degli uomini. Non volevo creare nessun pandemonio. Non sono razzista, sono per l'integrazione a 360 gradi. Ho attaccato il sistema e la Federazione, ho sbagliato i modi nell'esprimere il mio pensiero".
Striscia pizzica il telecronista Vessicchio: "Non sono sessista". Sergio Vessicchio, telecronista che aveva rivolto parole poco piacevoli nei confronti di un'assistente arbitrale donna, è stato intervistato a Striscia la notizia: "Ho sbagliato e chiesto scusa", scrive Luca Sablone, Mercoledì 27/03/2019, su Il Giornale. Rajae Bezzaz - inviata di Striscia la notizia - ha intercettato e intervistato Sergio Vessicchio, il telecronista che si è scagliato contro l’assistente arbitrale Annalisa Moccia durante il match di Eccellenza Campania tra Agropoli e Sant’Agnello: "Prego la regia di seguire l’assistente donna. È una cosa inguardabile! È uno schifo vedere le donne che vengono a fare gli arbitri in un campionato dove le società spendono centinaia di migliaia di euro...". Il giornalista dell’emittente locale CanaleCinqueTv ha ammesso: "Ho sbagliato e ho chiesto scusa alla donna". Ma tiene a ribadire la propria convinzione: "La mia idea è fissa e bloccata: le donne devono arbitrare le donne, gli uomini devono arbitrare gli uomini". E quando Rajae gli fa notare che il suo comportamento potrebbe assumere sfumature sessiste, Vessicchio replica: "Non mi accusi di sessismo perché non gliela faccio passare. Il sessista è Marcello Nicchi (presidente Aia, ndr) che non le fa arbitrare in Serie A. Vada da Nicchi". Il telecronista conclude: "Si deve dimettere il presidente. Le manda al macello e al massacro sui campi di periferia".
Il Vessicchio in me. Pubblicato da Massimo Gramellini martedì, 26 marzo 2019 su Corriere.it. Il telecronista di una tv locale Sergio Vessicchio ha gridato in diretta che una donna guardalinee è uno schifo, una barzelletta, una cosa inguardabile e impresentabile. Non gli si può neanche riconoscere l’attenuante assai in voga della «tempesta emotiva», perché quelle parole non gli sono uscite sull’onda di una decisione arbitrale contestata, ma prima che la partita avesse inizio, mentre l’assistente Annalisa Moccia stava ancora controllando che nelle reti delle porte non ci fossero buchi. I suoi erano insulti a prescindere. Insulti sulla fiducia. Sarebbe facile prendere le distanze da Vessicchio. Facile e autoassolutorio. Lui è il simbolo spudorato di qualcosa che riguarda anche me. Quel diavoletto reazionario sempre pronto a spuntare, appena una donna pretende di spiegare il fuorigioco, o un maschio si illumina parlando di pannolini. Ogni novità va a sbattere contro uno stereotipo che a torto viene chiamato buon senso, mentre spesso è solo senso comune. Chi lo pronuncia non pensa mai che lo stereotipo possa ferire un’anima e svalutare un sogno (chissà quanto avrà faticato la guardalinee per arrivare lì). I pregiudizi di genere sono pietre scagliate contro l’individuo e la sua libertà. Alla vigilia del congresso di Verona sulla famiglia, dove il telecronista campano sembrerebbe un cavernicolo, verrebbe da parafrasare Giorgio Gaber: non mi preoccupa Vessicchio in sé, ma Vessicchio in me.
Vessicchio: “Arbitro donna? L’ho resa famosa! Ha la protuberanza, non può stare in campo con 22 maschi”. Vessicchio ha rilasciato nuove dichiarazioni ai microfoni de La Zanzara, trasmissione di Radio 24, scrive il 27/03/19 la Redazione di IamNaples.it. Il giornalista Sergio Vessicchio, che tanto ha fatto parlare di sé in questi giorni per le frasi sugli arbitri donna, ha rilasciato nuove dichiarazioni ai microfoni de La Zanzara, trasmissione di Radio 24: “Una donna non può stare con 22 maschi in campo. Hanno travisato solamente una frase detta in quel modo. E quindi sono finito nel tritacarne. Le donne nel calcio maschile non le sopporto. Questo lo confermo. La signorina non l’ho offesa. Ho detto che è uno schifo che la Figc mandi sui campi di calcio uomini e donne, una promiscuità inaccettabile. Lo confermo questo”. Vessicchio ha aggiunto: “Impresentabile è il fatto che una donna non può entrare tra 22 maschi. Non può starci assolutamente. Se venite qui ti accorgi di che pericoli corre. Innanzitutto sono vessate, malmenate, insultate. Il capo degli arbitri Nicchi si dovrebbe dimettere. Se ne deve andare, perché voi non sapete cosa succede in Campania. Le donne non vanno ad arbitrare Juventus-Fiorentina, quella è la discriminazione. Le donne stanno con le donne e gli uomini con gli uomini. Per me è un principio basilare. E le donne sono anche migliori, sono superiori, arbitrano meglio. Mentre la classe arbitrale italiana è uno schifo. d Annalisa Moccia, comunque mando anche i fiori, chiedo scusa se si è offesa ma non ho mai detto che lei è uno schifo. Contro lei non ho nulla. Ma se l’avete vista con tutti quei maschi, era inguardabile, con le protuberanze femminee, la coda di cavallo, in un campo di calcio. Ma stiamo scherzando?! Non vestono scollate? Si, ma la protuberanza si vede. E poi in mezzo al campo non ha quello stile di maschio, non ha la forza, non ha la presenza. E’ fuori luogo, sono impresentabili sotto quest’aspetto. Quindi fiori alla Moccia, l’ho fatta diventare famosa, dai”.
IL MORSO DELL’ASPESI. Da “il Venerdì - la Repubblica” l'8 aprile 2019. Non ho mai visto una partita di calcio e neppure mio marito ne ha una grande passione: cioè non è un tifoso, non va allo stadio da anni per orrore degli striscioni e degli insulti e, proprio se restiamo in casa, guarda le partite: non ha una squadra del cuore, forse perché abitando noi a Siena abbiamo tutti e due nel cuore una contrada, ognuno la sua, immagini gli scontri in famiglia. Però siamo rimasti di sasso insieme leggendo di quel telecronista sportivo che si è ammattito per la presenza in campo di un' arbitra donna: io non so se sia una novità o no, ma esistono ancora persone che pensano che certi mestieri sono privilegio maschile, come un tempo il medico o il magistrato? Oggi le donne sono anche generali e primi ministri: soltanto il sacerdozio è ancora loro proibito, e su questo, avendone voglia, ci sarebbe da discutere.
Risposta di Natalia Aspesi. Forse lo stadio è rimasto l'ultimo tempio davvero maschile, dove il maschio esprime la sua primordialità, la sua violenza, la sua guerra. Ovvio che non mancano le tifose, come abbondano le calciatrici, le prime hanno il diritto a essere una costola dei maschi di casa, le seconde di giocare tra loro in un clima che forse gli uomini sentono come domestico, conventuale, non loro. Un'altra cosa insomma. Ma la villanata del povero telecronista offeso dall'invasore femmina è più che un insulto, è un grido di disperazione per aver perso anche l' ultimo spazio interdetto a un genere che nei secoli di spazi non ne aveva ed era un servizio come un altro, sesso, prole, lavoro domestico. Questo è un momento particolare, che ovviamente passerà. Ma nella frustrazione generale, le donne stanno tornando a essere un fastidio, una usurpazione di diritti. Si guardi attorno, la guerra contro le donne è ricominciata, e non solo negli stadi.
Costacurta: "Wanda? Se fosse stata mia moglie l'avrei cacciata di casa". Costacurta ha espresso il suo pensiero su Wanda Nara: "Se fosse mia moglie, le proibirei di dire quelle cose ai miei compagni, sennò la caccio fuori di casa". Sandro Piccinini lo bacchetta: "Queste parole sanno di sessismo e maschilismo", scrive Marco Gentile, Lunedì 18/02/2019, su Il Giornale. Domenica nera per due ex calciatori come Fulvio Collovati e Billy Costacurta che sono stati accusati di sessismo per alcune frasi, molto dure, durante le loro ospitate a "Quelli che il calcio" e a "Sky Calcio Club". Collovati ha avuto un'uscita infelice nei confronti di Sara Piccinini, moglie di Federico Peluso difensore del Sassuolo ed ex di Atalanta e Juventus. La consorte del difensore neroverde stava cercando di motivare la pesante sconfitta della squadra di De Zerbi sul campo dell'Empoli con l'ex di Inter e Milan che è uscito fuori con questa "battuta": "Le donne non possono parlare di tattica, ne capiscono solo gli uomini". Alessandro Costacurta, invece, di solito sempre educato e pacato ha espresso un suo giudizio sulla querelle legata a Wanda Nara e Mauro Icardi. L'ex giocatore del Milan, riferendosi a Wanda, ha sentenziato: "Se fosse mia moglie, le proibirei di dire quelle cose ai miei compagni, sennò la caccio fuori di casa". Ad accusarlo di sessismo e maschilismo l'ospite di serata, l'ex telecronista di Mediaset Sandro Piccinini che ha ripreso Billy per le sue parole espresse sulla signora Icardi. Queste parole sono state recepite anche da pubblico a casa e dagli utenti sui social che non hanno gradito le parole dell'ex icona del Milan.
La condizione della donna nel nostro calcio, scrive Nello Mascia su Il Napolista il 18 Febbraio 2019. La vicenda Wanda Nara, il primitivo Costacurta, l’imbarazzante Insigne, il cafone Collovati. Per fortuna, la madre di Zaniolo ha fatto un passo indietro. Nel deserto di noia di un campionato finito, via alle soubrette e all’avanspettacolo. Invade la scena questa signora che vuole tutto e tutto vuol fare.
Sempre alla disperata ricerca di riflettori e di primi piani, figuriamoci se la signora si perdeva l’occasione della scena madre con lacrime in diretta tv. L’importante è apparire. Al diavolo gli sconquassi che potrebbero minare la carriera dell’amato consorte, incapace, tra l’altro, a quanto pare, di arginarne gli impeti imprudenti di una vanità irrefrenabile. Molto interessanti i commenti a margine. Come quello del magnifico Billy in versione Uomo della Clava: “Io vado da mia moglie e le dico: tu non dici quelle cose dei miei compagni! Altrimenti ti caccio di casa”.
In questo Festival di cafonaggine fa sicuramente di meglio il prode Fulvio. Il quale riserva a Sara Piccinini, moglie del calciatore del Sassuolo, Federico Peluso la seguente elegante espressione: “Quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco”.
Mesti palcoscenici di mediocrità. Ai quali non si sottrae – purtroppo – il nostro Pibe di Fratta. Protagonista in settimana di un imbarazzantissimo scherzo organizzato dalla moglie per “giocare” – diciamo così – sulla proverbiale gelosia di lui. Se ne è molto parlato. E l’immagine che vien fuori del Pibe è – ancora purtroppo – non quella del ragazzo innamorato un po’ sempliciotto, ma piuttosto di un maschio dinosauro molto ottuso, molto reazionario e molto autoritario.
Da questo polverone che mischia il sessismo al calcio, l’odore puro dell’erba allo spettacolo per fortuna per ora si scansa la signora Francesca Costa madre giustamente ammirata del golden boy Nicolò Zaniolo. La quale – fra una caduta di stile e un’altra – pare abbia assicurato di non avere fra i suoi obbiettivi immediati una partecipazione all’Isola. Effetti collaterali della mancanza di calcio. Ma di campionato si dovrà pur sempre dire.
La partita più difficile si gioca a Bergamo. La spunta Ringhio che non sarà un genio, ma gli va riconosciuto il merito di aver saputo lavorare sulle teste dei suoi ragazzi. Soprattutto il turco. E poi il monumentale Bakayoko muro davanti alla difesa. Poi lì in mezzo impazza l’irrefrenabile Pistolero che di questi tempi come tocca il pallone fa goal. Nel campionatino per l’Europa sembrano proprio i rossoneri quelli più vivi e motivati. Tutto sommato vivi e motivati appaiono anche i cugini dell’altra sponda del Naviglio. Che dimostrano sul campo come si può vincere anche senza Maurito. Si può vincere se c’è un Perisic almeno decente, se c’è un Lautaro desideroso di esserci, e se c’è un Ninja decisivo come raramente si era visto da queste parti. Si può vincere soprattutto se torna il culo proverbiale del Parapet.
Collovati, Insigne, Costacurta e gli autogol della nazionale maschilista, scrive il 19 febbraio 2019 Claudio Paglieri su Il Secolo XIX. Il politically correct, diciamo la verità, aveva scocciato: anni e anni, anzi decenni, di lenta avanzata, come la goccia che scava la roccia, per spiegarci cosa si può e non si può dire; o addirittura cosa si può e non si può pensare. Ma il politically scorrect sembra riguadagnare posizioni con irrisoria facilità: in pochi mesi ha spazzato via le difese avversarie e segna gol a ripetizione. Prendiamo per esempio Fulvio Collovati, che domenica a Quelli che il calcio, su Rai 2, dopo un intervento della moglie di Peluso (calciatore del Sassuolo) ha detto seriamente la seguente cosa: «Quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco». La donna può parlare di calcio, leggere i risultati della giornata, magari anche fare un commento da tifosa; ma quando si entra in un discorso serio, quello tattico appunto, è meglio che stia zitta. Perché di tattica le donne non capiscono niente, come di fisica, matematica e parcheggi. Collovati è stato travolto dalle critiche: «Mentalità primitiva», ha detto la ct della Nazionale femminile Milena Bertolini. Ma intanto il gol lo aveva segnato. Perché in tanti lo hanno difeso, a partire da sua moglie Caterina: «Parlare di calcio certo, ma la tattica è altra cosa (…) saluti dalla moglie di un uomo che rispetta le donne più di molti altri». E in effetti, guardando gli altri e quello che hanno mostrato in tv nei giorni scorsi, c’è quasi da darle ragione. Vogliamo parlare di Lorenzo Insigne, attaccante del Napoli? Le Iene di Italia 1 coinvolgono la moglie in uno scherzo, facendo credere a lui che un regista la stia chiamando per un provino. E Insigne come reagisce? Fa scenate di gelosia, le controlla il cellulare, la fa dormire sul divano per punizione, arriva quasi ad aggredire l’attore che dovrebbe girare con lei. Poi lo scherzo viene svelato, sai le risate, un altro bel gol per la squadra maschile. Alla mente tornano chissà perché le pagine di Elena Ferrante e delle mogli napoletane maltrattate negli Anni Settanta. Per fortuna non siamo a quei livelli, ma tornare indietro è un attimo. Anche Billy Costacurta, come Collovati altro ex difensore rossonero, si è distinto su Sky con la sua specialità, il colpo di testa: a proposito di Wanda Nara, moglie e procuratrice di Icardi accusata di volere sempre più soldi e di avere spaccato la squadra, ha detto che «se fosse mia moglie, le proibirei di dire quelle cose ai miei compagni, la caccio fuori di casa» (video in cima alla pagina). Tre a zero, ma non è mica finita. I maschi hanno una tattica migliore, come ci ha appena spiegato Collovati, le femmine non si sanno difendere e quelli delle Iene poi ci hanno preso gusto. Così anche la “doppia intervista” al giovane romanista Zaniolo e alla mamma Francesca, colpevole di farsi troppi selfie, diventa occasione per domande piene di doppi sensi che fanno arrabbiare il figlio. Il mondo del calcio si scandalizza giustamente per l’umiliazione inflitta ai ragazzini del Pro Piacenza, mandati in campo in Serie C a subire 20 gol, ma anche il poker dei giorni scorsi non è stato uno spettacolo esemplare. Chi chiede a gran voce di stoppare i cori razzisti dovrebbe dare un minimo di buon esempio. Invece le donne nel calcio restano «quattro lesbiche» (copyright dell’ex presidente della Lega Nazionale Dilettanti, Belloli), delle oche che non capiscono il 4-4-2, delle Milf o delle cacciatrici di soldi. In serata, poi, è intervenuto il Var. Collovati deve essersi rivisto al ralenty e ha porto le sue scuse: «Frasi inopportune, non era mia intenzione offendere nessuno». Era un autogol. Ma ormai i maschi avevano i tre punti in tasca.
Il Corsera contro il maschilismo di Collovati e Costacurta, scrive il Napolista il 19 Febbraio 2019. Il quotidiano di via Solferino accusa i due opinionisti. La ct della Nazionale femminile: «Frasi che denotano una mentalità primitiva». “Wilma, dammi la clava”. Comincia così l’articolo che il Corriere della Sera dedica alla questione femminile nel calcio. E si sofferma sulle dichiarazioni in tv di Fulvio Collovati («Quando sento una donna parlare di tattica, mi si rivolta lo stomaco») e Billy Costacurta («Se mia moglie avesse detto quelle cose ai miei compagni, io le avrei detto: tu non lo dici, sennò ti caccio fuori di casa»). Stavolta il Corriere della Sera non fa apprezzamenti sull’Edipo irrisolto di Icardi, e si schiera senza ambiguità. Le donne possono parlare di gol, risultati, sostituzioni, forse persino di Var; ma non di tattica. E possono pilotare jet, osservare per prime una particella compatibile con il bosone di Higgs, volare su un razzo interplanetario sulla stazione internazionale orbitante; ma non fare le agenti del pallone (senza schierarsi eccessiva- mente con Wanda, che l’ha combinata grossa…). Viene poi riportata una dichiarazione della ct della Nazionale di calcio femminile che si è qualificata ai Mondiali, Milena Bertolini: «Un’uscita così – il riferimento è a Collovati – la associo a una mentalità primitiva, come nelle migrazioni barbariche quando le donne avevano come unico compito occuparsi delle vivande. Qualche anno però è passato: hanno inventato il frigorifero. Ma c’è chi è rimasto indietro».
I Moralizzatori, sempre con il ditino alzato. La Repubblica non è da meno.
Il machismo nel pallone, la carica degli ex calciatori contro Wanda Nara: ''Fuori dallo spogliatoio''. Costacurta, Marocchi, Collovati & C. Al centro della scena non ci sono Icardi e la scandalosa consorte quanto ormai la categoria dell'"ex calciatore maschio latino". Ex giocatori che adesso esercitano la professione di commentatore tv e si pavoneggiano a colpi di sessismo, scrive Fabrizio Bocca il 18 febbraio 2019 su La Repubblica. Alessandro Costacurta, Giancarlo Marocchi, Fulvio Collovati & C. Al centro della scena non ci sono più Mauro Icardi e la scandalosa consorte Wanda Nara quanto ormai la categoria dell' "ex calciatore maschio latino". Solitamente uno che fu campione - ma qualche volta anche normalissimi giocatori con bella presenza e parlata sciolta - che adesso esercitano la professione di commentatore tv, e si pavoneggiano con un po' di quel sano innato machismo del pallone, ricchissimo di concetti tipo: lo spogliatoio è sovrano, lo spogliatoio è sacro, lo spogliatoio comanda. E poi ancora le donne non capiscono nulla di pallone, le donne non si devono impicciare. Ci manca che stiano in cucina e siamo al completo. Insomma non vedeva l'ora la categoria dell'ex calciatore maschio latino ora commentatore tv di rovesciarsi sulla scandalosa Wanda Nara, la mangiatrice di calciatori, quella che si spoglia volentieri per un tweet, che va in tv a parlare di pallone, che osa esprimere giudizi. Parlare addirittura, che orrore, di tattica. Che si permette, la sfacciata, di fare l'agente di un grande calciatore come Maurito Icardi. Il binomio moglie+agente ha fatto boom, come se il calcio non fosse pieno di parenti maschi alfa che fanno l'interesse di figli, fratelli, nipoti, cugini nella maniera più intrusiva e insinuante possibile. Pure loro spaccano gli spogliatoi, anche se oggettivamente non possono permettersi di farsi fotografare in tanga. Tra parentesi la storia della coppia glamour e scandalosa, che esagera coi selfie chiappe all'aria, fa a pugni spesso anche una realtà quotidiana ben diversa. Mauro (26 anni domani) e Wanda (32) - pure 'sta storia di lei 6 anni più grande di lui mica va tanto bene, lo ha chiaramente plagiato... - gestiscono una famiglia con cinque bambini. Per cui la vita sfrenata della coppia ipertatuata e molto spogliata spesso è piena anche di feste di ragazzini, palloncini colorati, e prole da accompagnare magari alla scuola calcio. Con tanto di sassata alla macchina o pubblico ludibrio di fischi non appena a San Siro si rendono conto che i due reprobi sono in tribuna a vedere Inter-Samp. Insomma il mondo del calcio, come quello dello spettacolo, è fatto così, oggi anche ipersocial, senza più vita privata, tutto spudoratamente pubblico. Però poi ci vuole il maschio latino a tenerne le redini e dettare le regole, se no sai che casino, e tu femmina fermati sulla porta di questo benedetto invalicabile spogliatoio. Cioè precisiamo, se nello spogliatoio entra Mino Raiola - il più spudorato e intrusivo degli agenti di calcio - va bene, se Wanda Nara dice che a Mauro Icardi non gli arrivano più i palloni per fare gol apriti cielo. La Wandissima paga lo scotto e la gelosia anche di fare la commentatrice tv al pari e a fianco dei colleghi maschi: tutto fa show, anche se poi lei buca l'audience più di tutti, e a notte fonda della classica domenica del pallone stanno tutti alla tv a vedere Tiki Taka con Wanda in lacrime e Marotta al telefono in diretta che addirittura la consola e le tende la mano. L'Inter ormai è meglio dell'Isola dei Famosi. Guarda caso però il polpettone tv diventa velenoso quando la moglie di Maurito sta trattando il rinnovo del contratto del marito. Così mentre in questa ultima settimana si assisteva alla degradazione pubblica di Maurito Icardi e alla fustigazione della spudorata soubrette, l'ex calciatore maschio latino mostrava tutto il suo ego da gallo cedrone. Giancarlo Marocchi è stato chiarissimo e ha sentenziato da vero padrone e conoscitore del sacro recinto: "E' importante che la moglie esca dallo spogliatoio". Fulvio Collovati è stato quasi ingenuo e tenero nella sua affermazione, ferma alla società italiana anni 60: "Quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco, non ce la faccio. Mia moglie Caterina non si è mai permessa di parlare di tattica con me". Praticamente un dinosauro, un maschilista tutto d'un pezzo - lo ammette lui stesso - niente affatto convinto di queste donne che si impicciano di tutto. Ci mancava, chi porta i pantaloni in questa casa? Preoccupante, ma francamente anche da ridere. Il peggio però lo ha raggiunto forse Alessandro Costacurta, uno quasi sempre politically correct, volto pulito del giocatore evoluto, ma nel calcio convintamente maschilista e sessista. "In questi casi io vado da mia moglie e le dico: non devi parlare dei miei compagni così. Altrimenti ti caccio di casa". Ecco, siamo venuti al punto: ti caccio di casa... Forza Martina (Colombari), non c'è più tempo da perdere, fallo anche tu per la Wandissima: se proprio deve essere guerra dei sessi allora mano al mattarello.
COSTACURTA E LA GAFFE SU WANDA NARA. Video “Mi scuso. Mia moglie Martina Colombari...” Costacurta si scaglia contro Wanda Nara in diretta tv ma commette una gaffe: “Fosse stata mia moglie l’avrei cacciata di casa”. Poi chiede scusa, scrive il 19.02.2019 Davide Giancristofaro Alberti su Il Sussidiario. Alessandro Costacurta non si è riconosciuto in quella frase su Wanda Nara che ha pronunciato durante Sky Calcio Club. «Criticavo il procuratore, indipendentemente dal genere sessuale. Tutto ruota intorno a quello», ha dichiarato l’ex difensore del Milan al Corriere della Sera. Ma la sua frase riferita a una moglie è apparsa a dir poco sgradevole. «Sono d’accordo. Ho sbagliato e mi scuso. Una frase così non si dovrebbe mai sentire». Il 52enne ha avuto comunque la sfortuna di inciampare in una giornata in cui montavano le polemiche su Collovati. «Quando ho sentito Fulvio dire che se una donna spiega la tattica del calcio gli si rivolta lo stomaco, mi sono cadute le braccia. Però, poi, sono finito sulla stessa barca». Costacurta ha rivelato anche cosa le ha detto sua moglie Martina Colombari quando lo ha visto: «Mi sa che hai fatto una cavolata, Billy!». Anche perché in Federazione ha lottato per il riconoscimento del calcio femminile. «Io le donne nel calcio le voglio. Il mio lavoro commissariale in Federcalcio lo dimostra. La Panico all’Under 15 l’ho proposta io. Non pretendo di essere all’avanguardia, ma nel mio piccolo qualcosa ho fatto…». (agg. di Silvana Palazzo)
Attacco in diretta tv da parte dell’ex difensore del Milan e della nazionale italiana, Billy Costacurta, nei confronti della moglie e procuratrice di Mauro Icardi, Wanda Nara. All’ex rossonero, opinionista di Sky Sport, non sono piaciute le dichiarazioni della showgirl argentina durante la puntata recente di Tiki Taka (programma di Italia 1 condotto da Pierluigi Pardo), che in lacrime ha sottolineato la volontà del numero 9 nerazzurro di rimanere all’Inter, nonostante le diatribe sorte negli ultimi giorni, leggasi la fascia di capitano toltagli, poi assegnata a Samir Handanovic, e la mancata partenza per Vienna nonostante convocazione. Un’uscita, quella di Tiki Taka, che non è appunto piaciuta a Billy Costacurta, che ospite come di consueto presso gli studi della televisione satellitare ha affermato: «Se mia moglie avesse detto queste cose io le avrei detto: ‘Tu non lo dici, altrimenti vai via di casa’. Manca di rispetto ai compagni di squadra».
Peccato però che tali dichiarazioni abbiano provocato non poca polemica, a cominciare dalla replica di Sandro Piccinini, storico giornalista sportivo Mediaset anch’egli in studio, che ha appunto ribattuto così a Costacurta: «Questo discorso non mi piace, lo trovo sessista e maschilista». Ma quello di Costacurta non è stato l’unico discorso definito dalla rete e da molti giornalisti, un po’ troppo “sessista”. Nel mirino anche le dichiarazioni di Giancarlo Marocchi, altro ex calciatore nonché altro opinionista di Sky Sport, che commentando la vicenda Nara-Icardi ha spiegato «E’ importante che la moglie esca dallo spogliatoio». Della stessa linea di pensiero, l’ex campione del mondo 1982 Fulvio Collovati, che dagli studi Rai ha invece affermato: «Quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco, non ce la faccio. Mia moglie Caterina non si è mai permessa di parlare di tattica con me». Insomma, tutte dichiarazioni che a molti sono apparse un po’ troppo maschiliste e sessiste, un po’ come ha già spiegato da Piccinini del resto.
«Sì, ho tradito Billy». Martina Colombari si confessa nel suo libro "La vita è una", scrive l'08 aprile 2011 Stefania Leo su Lettera 43. La vita di Martina Colombari è una e ora è in un libro. Nella sua introduzione, l’autrice lo definisce «una pietra miliare della letteratura italiana», l’inizio di una prepotente escalation di sarcasmo messa su pagina con il placet del suo co-autore, il giornalista Luca Serafini. La Colombari ha un vantaggio rispetto alle colleghe showgirl e alle regine della passerella: un viso pulito e una natura semplicemente dirompente che piacciono a tutti. Le stesse cose che hanno convinto la giuria di Miss Italia a incoronarla regina di bellezza nel 1991.
L’ossessione per la linea e gli amici. La vita è una nasce dall’irresistibile esigenza di raccontare l’impegno di volontaria a Haiti, cosa di cui si parla non prima di pagina 107. L’introduzione all’argomento è però all’inizio del libro con questa frase: «Io sono l’unica italiana che quando va in missione umanitaria ingrassa».
UNA RAGAZZA NORMALE? L’ossessione per il suo aspetto fisico è un tema ricorrente e sviscerato a lungo in questa biografia. Questo basta a ricordare al lettore che non è sufficiente essere di origini romagnole, spigliate e casinare, sposate con lo stesso uomo da sempre per convincere chi legge di essere come tutti gli altri. Lei invece ci prova a raccontarsi come una ragazza normale, ci prova disperatamente. Racconta dei suoi amici in maniera molto dettagliata: è dura ricordare anche solo il primo dei nomi di tutti i suoi agenti a cui telefona quando è in crisi o quando ha qualcosa da raccontare o di cui gioire.
I dettagli più pruriginosi. Il libro si fa leggere come un settimanale patinato dal parrucchiere, se solo si ha la pazienza di saltare tutti i «non giudicatemi» e i «sono come tutti gli altri». Perché lei è Martina Colombari e il lettore è un uomo o una donna come tanti che ha bisogno di conoscere tutti i dettagli di una vita da favola e non di un’esistenza normale. Chi compra questo libro vuole farsi gli affari di Martina Colombari, avere la libertà di giudicarla e di scoprire i dettagli più pruriginosi della sua esistenza. Gli autori, ben consapevoli di questo, non lesinano episodi piccanti della vita della showgirl, passando in rassegna Alberto Tomba e Alessandro Costacurta, amanti compresi.
BILLY TRADITO. L’episodio chiave di questa biografia infarcita di allegre parolacce e aneddoti spesso inutili e lacrimevoli è proprio la confessione del flirt avuto con Valerio Morabito, figlio di un noto costruttore romano. Ed è qui che si vede il tocco di chi vive nel mondo dello spettacolo da due decadi: Martina confessa di aver tradito Billy. Lui lo apprende dal libro, s’infuria, poi perdona: la vita della Colombari passa dalla pagina mesta di un libro da 18 euro a migliaia di più chiassose pagine di giornale, tv e web. Perché ormai le star che fanno lodevole volontariato hanno riempito i tabloid, ma di tradimenti non ce n’è mai abbastanza.
La galanteria di Silvio Berlusconi. Nel suo libro la Colombari ha confessato di aver tradito il marito Costacurta con Valerio Morabito, figlio di un noto costruttore romano. Ma Billy l'ha perdonata. Non manca un interessante paragrafo su Berlusconi in cui Martina sposa l’opinione di tutti quelli che definiscono il premier un uomo sensibile al fascino femminile, ma soprattutto galante. Da moglie di un ex giocatore del Milan non c’è di che stupirsi. Sì, la vita è davvero una e visto che oggi tutti possono scrivere, perché mai una ragazza “come tante altre” che ha avuto tutto e anche di più dalla vita come Martina Colombari doveva privarsi del proprio personale ritratto biografico?
Martina Colombari: ho tradito Costacurta, scrive il 25 Febbraio 2011 Bergamo Sera. “Ho tradito Billy”. Parola di Martina Colombari a “Verissimo”, il programma tv di canale 5 condotto da Silvia Toffanin. La bellissima ex Miss Italia ha raccontato di aver tradito Billy Costacurta con Valerio Morabito durante il loro periodo di crisi, quando era fidanzata con il calciatore del Milan già da 7 anni. “Dopo sette anni di fidanzamento io e Billy abbiamo vissuto una crisi – ha confessato la Colombari nello studio tv di “Verissimo” -Ci siamo messi insieme che io avevo solo vent’anni e a 27 ero un po’ cambiata. Ci eravamo troppo abituati l’uno all’altra, troppo presi ognuno dal proprio lavoro e abbiamo perso il controllo della situazione. Io non sono stata tradita, ma ho tradito però sono stata perdonata. Anche se preferirei non sapere, se dovessi scoprirlo credo, comunque, che per amore lo supererei. La crisi ci è servita perché poi ci siamo addirittura sposati ed è nato, poco dopo, nostro figlio Achille”.
Fulvio Collovati, la moglie lo difende: “Il calcio sia commentato dai maschi, le donne restino un passo indietro”. Caterina ha voluto poi difendere il marito da chi lo ha accusato di sessismo con pesanti commenti sui social: "Questa gogna mediatica cui è stato sottoposto è di una cattiveria infinita", scrive Il Fatto Quotidiano il 19 Febbraio 2019. Dopo le polemiche nate dall’attacco rivolto a Wanda Naradel l’ex calciatore Fulvio Collovati a “Quelli che il calcio”, sulla vicenda è intervenuta la moglie Caterina che, in un’intervista ai microfoni di Rai Radio2, ha detto di condividere quanto detto dal marito e ha parlato anche del loro rapporto. “Di tattiche io e Fulvio non parliamo mai. Su questo io e Fulvio siamo d’accordo, le donne devono stare un passo indietro, lo dico ad alta voce – ha detto -. Lasciamo che il calcio resti commentato dai maschi, basta con questo politicamente corretto che ci distrugge”. “E anche i politici che si sono scagliati contro mio marito, si occupassero del perché le donne che vanno a denunciare un compagno violento o un marito violento vengono ammazzate dopo due minuti perché nessuno fa una legge in grado di mettere in galera subito gli uomini violenti”. Caterina ha voluto poi difendere il marito da chi lo ha accusato di sessismo con pesanti commenti sui social: “Fulvio Collovati, mio marito, è l’uomo più rispettoso che io abbia conosciuto al mondo, il rispetto gliel’ha insegnato sua madre quando era bambino, ha cresciuto due figlie, io gli sto accanto da 37 anni. E’ di una grande correttezza anche quando si pone in tv, questa gogna mediatica cui è stato sottoposto è di una cattiveria infinita”. Infine, una battuta anche sul caso Wanda Nara e Icardi da cui è partito tutto il dibattito: “La vicenda Wanda Nara è surreale, mi chiedo se lei voglia utilizzare il povero Icardi per arrivare chissà dove”.
Da I Lunatici Radio2 il 19 febbraio 2019. Caterina Collovati, moglie dell'ex calciatore Fulvio, è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. Caterina Collovati ha detto la sua sulle polemiche che hanno travolto il marito nelle ultime ore: "Di tattiche io e Fulvio non parliamo mai. Su questo io e Fulvio siamo d'accordo, le donne devono stare un passo indietro, lo dico ad alta voce. Io sono una che difende le donne, ne ho fatto la mia professione, tratto quasi ogni giorno dei diritti delle donne, ma lasciamo che il calcio resti commentato dai maschi, basta con questo politicamente corretto che ci distrugge. Il pensiero unico ci sta portando alla rovina, il pensiero del mondo unisex mi infastidisce. Vorrei che tutte queste femministe che si sono rivoltate contro mio marito si rivoltassero per ben altre motivazioni. E anche i politici che si sono scagliati contro mio marito, si occupassero del perché le donne che vanno a denunciare un compagno violento o un marito violento vengono ammazzate dopo due minuti perché nessuno fa una legge in grado di mettere in galera subito gli uomini violenti. Queste sono le cose che devono preoccupare noi donne, non una battuta pronunciata in un contesto goliardico e che sotto sotto profuma di verità. Fulvio Collovati, mio marito, è l'uomo più rispettoso che io abbia conosciuto al mondo, il rispetto gliel'ha insegnato sua madre quando era bambino, ha cresciuto due figlie, io gli sto accanto da 37 anni. E' di una grande correttezza anche quando si pone in tv, questa gogna mediatica cui è stato sottoposto è di una cattiveria infinita". Caterina Collovati è un fiume in piena: "Io trascinerò in tribunale quelli che mi hanno scritto sui social in privato delle cose inenarrabili, solo perché mi sono permessa di difendere mio marito. Questo è un Paese che attraverso queste sciocchezze perde di vista le problematiche importanti. C'è gente che mi sta dicendo le peggiori cose. Mio marito ha detto quello che pensano il novanta percento degli italiani, tutti abbiamo il diritto di parlare, di esprimerci, anche sul calcio, ma le femministe mi spieghino come mai non esistono allenatrici donne nel nostro Paese. Forse quella roba lì è un tantino complicata. Diciamolo. Io non ho paura di dire queste cose, ne parlo da donna vicino alle donne, dobbiamo continuare a lottare, ma per le cose serie. Non mi aspettavo tutto questo clamore, ritenevo gli italiani un po' più intelligenti sinceramente. Ognuno deve essere libero di esprimere un'opinione, o in questo Paese è diventato vietato parlare? Abbiamo ricevuto una valanga di insulti, ora le figlie, la famiglia di Collovati, come ci rimane? In quella trasmissione c'è un'atmosfera simpatica, forse l'espressione “mi ribalta lo stomaco” è stata un po' forte, ma è stata una cosa detta nell'ambito di scherzi che in quel programma si fanno per due ore e mezza. Noi donne se continuiamo a mettere l'accento su queste cose ci ghettizziamo". Su Wanda Nara: "Sarebbe da aprire un altro capitolo. Quanto le donne rovinano l'immagine del marito calciatore? La vicenda Wanda Nara è surreale, mi chiedo se lei voglia utilizzare il povero Icardi per arrivare chissà dove".
Simona Bertuzzi per “Libero quotidiano” 10 giugno 2019. Di cognome fa Cimmino ma si fa chiamare Collovati come il marito calciatore, e a qualcuno non è ancora andato giù. Un po' perché Caterina Cimmino, pardon Collovati, ha costruito la sua carriera su quell' uomo importante che nell' 82 vinse i mondiali di calcio. Un po' perché l' ex difensore e numero uno di squadre come Milan, Inter e Roma ha avuto l' ardire di dichiarare in tivù che le donne non capiscono un tubo di tattica. Insomma un ginepraio. In cui la nostra interlocutrice - tra parentesi giornalista, conduttrice, e opinionista tv - si è infilata con orgoglio e sregolatezza difendendo cognome e marito, e facendo incazzare metà del mondo femminile. Nello studio 4 di Telelombardia lei è la protagonista incontrastata. Tacco dodici, capello fluente, un volto bellissimo che ha preso in giro il tempo e si è salvato da qualunque ritocchino, «oddio l' idea di guardarmi un giorno allo specchio e non riconoscermi più mi terrorizza». Le sue mani seguono il flusso delle parole e si agitano e fremono alla maniera dei napoletani, la parlantina è tipica della laureata in legge aspirante avvocato che poi torna alle origini quando si incazza e sbotta d' un fiato «Gesù, Giuseppe, Maria». Con la sua trasmissione "Detto da voi" sveglia una buona parte di lombardi e passa con disinvoltura dai casi di stalking alle faccende pruriginose di tradimenti e letti senza scomporsi di un millimetro. Gli ascoltatori la inseguono ovunque vada e qualunque cosa faccia (oramai è una presenza fissa dalla D' Urso).
Chiariamo subito la faccenda del cognome.
«Un nome d' arte in verità. Nato dietro le quinte di una trasmissione tivù mentre attendevo che mio marito tornasse dall' allenamento e facesse l' ennesima intervista sportiva. Mi trovai a parlare col conduttore e lui apprezzò molto la mia parlantina spigliata. Disse "fai una trasmissione, ma fallo col tuo cognome da sposata"».
Qualcuno non l' ha mai perdonata però.
«Sui social ricevo ancora attacchi feroci, nonostante gli anni di esperienza e le trasmissioni fatte. Non è facile dimostrare di essere capaci di fare altro».
Ma lei la prende bene. Su instagram si presenta così: Caterina Collovati, moglie di, mamma, e giornalista con un pensiero forte e indipendente. Cosa le brucia di più, dica?
«Mi danno fastidio i commenti cattivi, le accuse buttate a casaccio solo per creare polemica o affondare l' interlocutore. Sono stufa di sentirmi dire che vado in tivù perché c' è mio marito».
Però l' ha aiutata. Dall' 82 è stata protagonista di molte trasmissioni sportive, Caccia al 13, il Processo del lunedì. Tornasse indietro rinuncerebbe al cognome di suo marito?
«Nemmeno per sogno, rappresenta più di metà della mia vita e ne vado fiera. E quando l' ho visto stampato sulla scheda elettorale alle ultime votazioni - ricorda la polemica che ne fece la sinistra? - beh ho provato un gran sollievo».
Ma ci capisce lei di calcio?
«Non sono una grande intenditrice».
Allora fa bene suo marito a dire che le donne di tattica non capiscono nulla.
«Un conto commentare una partita o intervistare qualcuno. Altra cosa parlare di tattica. O sei una calciatrice o rischi di toppare».
Quanto ci è rimasto male Collovati per il gran polverone sulla sua uscita in tv?
«Quella cosa l' ha distrutto. L' hanno attaccato in modo sgradevole e incomprensibile».
Più feroci le donne degli uomini?
«Le donne senza dubbio. La Parietti tremenda, la Gerini addirittura ha chiesto di introdurre un reato specifico per certe dichiarazioni».
Ma Sgarbi le ha dato 24 volte della capra.
«Eravamo in trasmissione e lui faceva i nomi di signore unite a uomini di spicco non per amore ma per interesse. Ho chiesto "com' è possibile che Sgarbi dica le peggiori cose sulle donne mentre se mio marito afferma che le signore capiscono poco di tattica calcistica ha il mondo contro?". Apriti cielo...».
Come è finita con Sgarbi?
«Mi ha scritto un sms di scuse a Pasqua: Cara Caterina non se la prenda, in tv siamo tutti fiction. Io gli ho risposto: sì, ma sempre con educazione. Buon capretto pasquale».
Ed è vero che siete tutti finzione in tv?
«Beh, ho fatto liti furibonde con Cecchi Paone e Cicciolina, e finita la trasmissione ci siamo salutati con gran cordialità».
Le chiederei chi è la donna più brava della tv ma mi sembra di intuire la risposta.
«La migliore è la D' Urso. Una professionista coi fiocchi capace di reggere 4 ore di diretta e fare ascolti record».
Come ha conosciuto suo marito?
«Abitavo a Gallarate e frequentavo il liceo classico. Lui giocava già nel Milan. Una sera organizzano una sfilata in un locale del paese, e Fulvio si presenta con Baresi per conoscere le modelle.Io ero lì come spettatrice ma lui mi notò subito.
Gli chiesi ingenuamente: "Di cosa ti occupi?" E lui: "Gioco a calcio". "Ah sìììììììì? Qui a Cassano?", tanto per dirle quanto ne capivo di calcio.
Fu amore subito, mi veniva a prendere a scuola col suo Bmw bianco e tutti i miei corteggiatori guardavano affranti la scena. Nell' 81 ci siamo sposati. La prima figlia è nata nell' 84. La seconda 10 anni dopo quando morì mio padre e mi accorsi da figlia unica quanto è importante un fratello con cui condividere il dolore».
Siete la coppia più longeva della tivù e la più felice. Collovati sui social le scrive frasi bellissime Ne leggo due: "appunti di felicità il vento, il mare e noi".
«Un grande amore, siamo affiatatissimi. Fulvio ha equilibrio, si fa scivolare addosso i problemi e condivide con me passioni e progetti».
E in casa suo marito com' è? Tifa Milan?
«È una domanda cui non ama rispondere. Diciamo che l' ho visto emozionato solo davanti al Genova quando rischiava la retrocessione in B».
Quanto è gelosa di lui?
«Oddio a 62 anni è ancora un bell'uomo e mi accorgo che le donne lo guardano con interesse. Ma adesso si danno per scontate tante cose».
Un tempo era diverso?
«Guai a chi si permetteva di guardarlo. Spiavo le lettere di tutte le ammiratrici. Ero forse l' unica moglie di calciatore che dava fastidio».
In che senso?
«Scordatevi Wanda Nara. Allora le mogli dei giocatori dovevano essere belle, svampite e in ombra. Io invece fomentavo le altre a seguire i mariti nelle trasferte».
Mi dica di Clementina e Celeste, le sue figlie. Hanno anche loro ambizioni televisive?
«Una è avvocato e l' altra è laureata in Bocconi. Non pensano alla tivù e mi seguono poco.Anzi quando alzo la voce in casa mi dicono: "Mamma, non sei in televisione!"».
Quando il salto sulle reti nazionali?
«Sulle reti nazionali vado da opinionista. Sto benissimo a Telelombardia e "Detto da voi" è un gioiellino tutto mio. Contatto gli ospiti, penso agli argomenti, affronto temi complessi, violenza sulle donne, bimbi maltrattati...».
Anche lei una paladina del metoo?
«Penso che fosse necessario un movimento in difesa della donne abusate e penso sia possibile denunciare dopo tanti anni, come ha fatto Asia Argento. Ma il Metoo ha senso per le donne normali. Le signore dello spettacolo hanno sempre una via di uscita e il modo di dire no».
Sarà capitato anche a lei di dire no.
«Una volta un grande direttore di giornale mi accompagnò a casa e mi propose un dopocena.Declinai imbarazzata la proposta e scesi dalla sua auto».
Dica la verità, la bellezza aiuta?
«Non nel mio caso. Non mi sono mai sentita bella. Forse sono solo migliorata invecchiando».
Giampiero Mughini per Dagospia il 10 giugno 2019. Caro Dago, eccomi che accorro in difesa dei miei amici Fulvio e Caterina Collovati. Partiamo dall’inizio. Quando lessi della battutaccia pronunziata in Tv da Fulvio, e cioè che “le donne non capiscono di calcio” (una battutaccia che io non avrei mai pronunziato, seppure ami le battutacce) pensai che Fulvio aveva colto il bersaglio. Beninteso nell’essere la sua una battutaccia, una semplificazione all’estremo, uno schiamazzo sarcastico, un voler pungere con il sorriso sulle labbra. Quando ho incontrato Caterina in un set televisivo, le ho detto di salutarmi e abbracciarmi Fulvio, il campione della più bella serata della mia giovinezza, l’estate del 1982. In che senso Fulvio aveva le sue ragioni nel pronunciare quella battutaccia? Non certo nel fatto che il cento per cento delle donne non sono in grado “di capire” il calcio, una tale porcata da non doversi neppure prendere in discussione. Neppure un istante. Ilaria D’Amico sa raccontare e spiegare i romanzi del football con eleganza. L’attrice romana Cristiana Capotondi, che è stata più volte una mia coinquilina nei set televisivi Mediaset, in fatto di calcio ne sa una più del diavolo. La mia vecchia amica Emanuela Audisio scrive di calcio e di qualsiasi altro sport (su “Repubblica”) con una grazia narrativa degna di Ernest Hemingway. Potremmo continuare a lungo. Dov’è allora la verità che sta dentro la battutaccia di Fulvio? Che in effetti, almeno storicamente parlando e per quel che è di tre o quattro generazioni femminili, tra il calcio e la sensibilità femminile diffusa c’è stato come un muro impenetrabile. La comprova ce l’ho in casa. Con Michela posso ragionare e vivisezionare un film, una mostra di fotografie, un libro di letteratura americana, una serie televisiva, una canzone di Giorgio Gaber, un oggetto di design che porta la firma di Gaetano Pesce o Ettore Sottsass, gli abiti dello stilista giapponese Yoshij Yamamoto, il menu di un ristorante che predilige la “nouvelle cuisine”, ma mai mai mai ho potuto ragionare di quel che era successo in una partita della Juve. Mai. Non che io in privato parli sovente di calcio - lo faccio solo in pubblico, quando mi pagano - ma qualche volta ci vuole eccome. Dopo il 3-0 inflitto dalla Juve all’Atletico Madrid, dopo quel rigore provocato da una vertiginosa discesa offensiva di Bernardeschi, di ragionarne un tantino ne avevo voglia. L’ho fatto. Gli occhi e il volto di Michela esprimevano il vuoto assoluto. Non le arrivava niente, lei non vuole che le arrivi qualcosa. Le traversie del football non la interessano, punto e basta. E così, assolutamente così, era ed è stato di amiche mie coltissime e intelligentissime. Solo che quella mischia tra uomini, quei tackle furibondi, quei comparti difensivi che si muovono armonici a opporsi alle manovre avversarie, le sterzate di Messi quando supera in dribbling tre o quattro avversari, la fulmineità di un contropiede, le mirabilie geometriche dei calci di punizione di Platini o Mihajlovic, l’essenza stessa della competizione agonistica dove sono il gioco e i muscoli e la testa e la volontà di vincere, tutto ciò sbatte contro la muraglia della fortezza femminile. E del resto ci sono lì mille indizi a confermarlo. Uno su tutti. Nei set televisivi di ciascun canale televisivo dove si sta parlando di calcio, e a partire dal momento in cui Alba Parietti mise in mostra il meglio di sé stessa, c’è sempre una ragazza. Novantanove volte su cento è una ragazza che si siede, sfodera le cosce, accavalla le gambe un paio di volte, mai una volta che dai suoi occhi traluca un’emozione relativamente alle gran cose del calcio di cui stiamo discutendo. Mai. Fossi una donna mi sentirei offesa dalle comparsate di quelle fanciulle. Beninteso non che loro rappresentino tutta intera la metà del cielo. Solo una parte. Molto consistente. Ciao, Fulvio
"L'ONESTA' INTELLETTUALE NON E' IL SUO FORTE..." Lettera di Alba Parietti a Dagospia il 10 giugno 2019. L’età prende a qualcuno alle gambe ad altri la testa. Il successo di una donna in un settore maschile è ancora oggi fonte di frustrazioni di chi si è sempre dovuto barcamenare tra ospitate di gossip e raffinate dissertazioni filosofiche. Io arrivai a un successo in un programma di calcio, dopo 14 anni di gavetta, senza raccomandazioni, anzi, in una piccola televisione Telemontecarlo, che grazie a me e a una redazione sportiva straordinaria ma che fino ad allora non era stata valorizzata dal successo, e grazie a me e alla capacità dei redattori, divenne un fenomeno. Un caso. Galagoal divenne un cult e lo rimane, che Mughini lo voglia o no. Galagoal fu un grande successo e cambiò le sorti del calcio parlato in tv, fino ad allora considerato una messa cantata. Quasi vietata alle donne nonostante ci fossero ottime giornaliste sportive anche allora. Dalla Sbardella alla Ferrari e altre. Il grandissimo Vianello stesso, Fazio, la Ventura, la Gialappa’s, la D’Amico proseguirono su quella fortunata strada. Per me fu la consacrazione e per Telemontecarlo la svolta. Che fruttò denaro e cambiò le sorti di tutti noi. D’altronde dopo aver sentito Mughini, il 25 aprile dire che la liberazione non è stata merito dei partigiani e dei civili antifascisti ma solo degli americani, giusto per il gusto di umiliarmi, ho capito che l’onestà intellettuale non è il suo forte. Trovo queste affermazioni, sulle donne nel calcio, volgari e dette da una persona che vive nel vezzo di sentirsi un intellettuale decisamente meschine. Sulla Collovati non esprimo opinioni, non ne vale la pena.
CATERINA CIMMINO, MOGLIE DI COLLOVATI, SCRIVE A DAGOSPIA. Dagospia l'11 giugno 2019. Riceviamo e pubblichiamo: Gentile Direttore, conoscendo la sua lealtà intellettuale, immagino voglia accogliere la mia replica nei confronti della signora Alba Parietti. Innanzitutto l’aggettivo “tremenda “da me usato per definire Alba Parietti, nell’intervista concessa al quotidiano Libero, si riferiva all’atteggiamento da lei mostrato in occasione della nota questione sul presunto sessismo di mio marito. In diretta tv, non ha esitato a definirmi isterica, dannosa per mio marito e noiosa. A mia domanda precisa, non ha mai spiegato quale tattica conoscesse all’epoca dei suoi programmi sul calcio. Oggi dice “non commento la Collovati, non ne vale la pena”, pensando di sminuire la mia figura? Fa benissimo tra me e lei c’è un abisso. L’unica cosa che ci accomuna è l’ignoranza sulla tattica calcistica. Cordialmente Caterina Collovati
Tiziana Lapelosa per Libero Quotidiano il 12 giugno 2019. Non ditelo a Fulvio Collovati. A meno che non lo abbia già saputo e si trovi già sdraiato a letto con le flebo. Se è vero, come lui stesso ha detto, che una «donna che parla di tattica» calcistica gli fa rivoltare lo stomaco, di sicuro, al campione del Mondo del 1982, gli si sarà rivoltato pure l' intestino nel vedere quattro donne commentare una partita di calcio. Nello specifico Inghilterra-Scozia, un "semi-derby" che si è giocato domenica scorsa, vinto dall' Inghilterra per 2 reti a 1. Due squadre che con Giappone e Argentina completano il Gruppo D del girone eliminatorio per aggiudicarsi gli ottavi di finale nel Mondiale di calcio femminile in corso in Francia. Quattro donne, dicevamo, e nessun uomo a parlare di fuorigioco, marcatura a "donna", difesa, tattiche e via così. Il gentil sesso che ha osato invadere in maniera così determinata un campo che gli uomini credono loro per diritto si è palesato sugli schermi della britannica tivù pubblica Bbc. Con sullo sfondo lo stadio di Nizza gremito di tifosi, Gabby Logan, ex ginnasta ritmica e un presente da giornalista sportiva a tutti gli effetti, è stata affiancata nella diretta per i suoi concittadini da tre ex calciatrici, l' inglese Alex Scott, la scozzese Gemma Fay e la statunitense Hope Solo. Quattro donne, dicevamo, a commentare i Mondiali di calcio femminile e nemmeno l' ombra di un uomo a far almeno da "velino" o messo lì a leggere i risultati come spesso capita alle figure femminili nelle trasmissioni sportive. Potevano mancare le proteste? Affatto, e forse per una volta gli uomini (almeno quelli interessati al pallone giocato al femminile) avranno capito cosa significa essere "fuori gioco". Le proteste, dicevamo. Diversi spettatori si sono lamentati per le "quote rosa", come ha riportato il quotidiano Sun. E fin qui ci sta. tutte contro tutte Ma a lamentarsi, e qua arriva il bello, è che lo schermo tutto rosa non è piaciuto nemmeno alla wag Rebekan Vardy, moglie dell' attaccante del Leicester Jamie Vardy, 366mila follower su Instagram e, da domenica scorsa, un' accusa di sessismo nemmeno tanto velata indirizzata alla Bbc. «Uhm... Che ne è stato della parità?», la sua osservazione affidata ad un tweet condiviso cinquemila volte e con 32mila commenti di approvazione e stupore. Ma come, proprio lei, donna, invece di applaudire si mette a criticare? si è chiesta la rete. Sarà «gelosa delle donne che lavorano», «che tweet ridicolo», si legge tra i commenti in cui c' è chi le fa notare che raccontare i Mondiali, in alcuni giorni, è toccato anche ai maschietti. Un po' irritata da tante accuse, la wag ha poi precisato di supportare le donne, ma che c' è molta ipocrisia, «gli uomini devono essere più coinvolti nel calcio femminile per portarlo dove deve e merita di stare».
Che noia che barba. Dove meriti di stare il calcio femminile non si sa e non ci riguarda. Soltanto non se ne può più di questa storia del sessismo: ci sono solo uomini ad occupare lo schermo e non va bene; ci sono solo donne e non va bene lo stesso. Anni e anni di lotta e di fatiche per dimostrare che anche il cervello femminile è in grado di parlare di calcio e, una volta che la vittoria si sintetizza sugli schermi, non di una tv qualunque ma della Bbc, ecco che c' è sempre qualcuno a rovinare la festa. Meglio due commentatori uomini e due commentatrici donne in nome della parità di genere? E perché non un commentatore trans, uno gay, uno(a) bisex o una lesbica? Il sessismo e il suo contrario hanno stancato. Anzi, spesso tutto si riduce ad una battaglia che si combatte soltanto a parole, come hanno dimostrato le ultime elezioni europee. Quelle stesse donne che parlano di parità, di femminismo e via così (ogni riferimento alla sinistra italiana è puramente "casuale") le donne non le hanno votate: 7 quelle elette nel Pd contro 12 uomini, 15 quelle elette nella Lega contro 14 uomini, 8 le donne del M5S contro 6 uomini eletti. Insomma, il top sarebbe che a parlare di calcio e di qualsiasi altro argomento in televisione e altrove siano delle persone competenti e nient' altro. Che siano maschi, femmine o quello che gli pare non fa differenza. La differenza la fa l' intelligenza e la competenza. Qualità che di sicuro hanno le "quattro" della Bbc.
Fulvio Collovati, stop di due turni a Quelli che il calcio: punito dalla Rai per le frasi sulle donne, scrive il 19 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Le scuse repentine di Fulvio Collovati dopo la frase contro le donne che parlano di tattica calcistica non bastano per salvare il posto del campione del mondo a Quelli che il calcio su Raidue. L'ad della Rai Fabrizio Salini avrebbe chiamato direttamente in vertici di Raidue, irritato per le parole di Collovati e le proteste che ne sono seguite. Al netto della telefonata, del fatto che ci sia stata oppure no, Viale Mazzini è passata all'azione: Collovati sospeso per due puntate di Quelli che il calcio. Punizione di stampo calcistico. Certo, le sue frasi sono stati infelici. Eppure pare un pizzico esagerato punire il commentatore per quanto detto in un contesto ben differente, per esempio, da quello di una tribuna politica: Quelli che il calcio è un delizioso regno del cazzeggio, al quale Collovati aveva preso parte con la leggerezza richiesta. Ma questo, i vertici Rai, sembrano non comprenderlo.
Collovati, Rai da cartellino rosso. Sospenderlo, fino al 9 marzo, come ha fatto la RAI, è il fascismo del politicamente corretto, scrive Massimiliano Parente, Mercoledì 20/02/2019, su Il Giornale. Diciamola tutta: che Fulvio Collovati pensi che le donne non possano parlare di calcio è un'idiozia. Anche perché io, per esempio, di calcio non ne so niente, mentre conosco moltissime donne che ne sanno più di me, e io non le frequento, perché mi sembrano uomini. Ci sono donne che guardano partite di calcio, e mi fanno orrore. Quindi se Collovati pensa che le donne non possano parlare di calcio è di certo una posizione ai miei occhi sessista (non facendo io differenza tra il sessismo maschilista e quello femminista), e tuttavia sospenderlo, fino al 9 marzo, come ha fatto la RAI, è il fascismo del politicamente corretto. Perché mai non potrebbe pensarlo? E soprattutto perché dovremmo metterlo in punizione? Voglio dire: non viviamo forse in un paese in cui ogni giorno non facciamo che ripetere che le opinioni vanno rispettate? Bene, quella di Collovati era una sua opinione. E non solo non la rispettiamo, ma lo sospendiamo. Cioè lo puniamo per quello che pensa. Come un bambino che ha fatto una marachella. È singolare quanto il politicamente corretto dia forma a simili distorsioni. Se per esempio Collovati avesse detto che io non posso parlare di calcio in quanto non ne capisco niente sarebbe stato normale (e avrebbe avuto ragione), e nessuno avrebbe avuto niente da ridire. Tuttavia se perfino avesse detto che un uomo, in generale, non può parlare di calcio (perché magari Collovati è più competente, di certo più di me), io non mi sarei risentito, perché non mi identifico in un genere sessuale, sono una persona, sono io, non mi offendo se parlano di uomini, mica sono un uomo. O meglio, sono un uomo ma rappresento me stesso, non tutti gli uomini, però se nomini una donna non sia mai, se parli di donne ogni donna è qualsiasi donna. Ma dirò di più: se chiunque, qualsiasi uomo, fosse accusato di non capirne di un tubo di qualcosa la cui pertinenza è generalmente attribuita al genere femminile, per esempio l'uncinetto, la biancheria intima, o la presidenza della Germania, nessuno si sarebbe scandalizzato. Io sì. Ma non in quanto uomo, perché per Collovati, se io parlassi di calcio, varrei quanto una donna. Tuttavia lasciategli dire quello pensa. Altrimenti lui sarà sessista, ma voi siete fascisti.
La stucchevole gogna mediatica su Collovati “sessista”, scrive Chiara Soldani il 19 Febbraio 2019 su Primato Nazionale. I guai (frivoli ma non troppo) del politicamente corretto. Da tempi immemori, al mondo del pallone vengono associate figure femminili tendenzialmente prive di competenza calcistica. Si tratta di un mutuo accordo, reciproco interesse: la trasmissione “esibisce” la bella ragazza di turno e la bella ragazza di turno diventa ben presto popolare. Senza meriti calcistici, bensì estetici: dura lex sed semper lex. Nella migliore delle ipotesi, la valletta del momento si fidanza pure col calciatore: un cliché intramontabile. Quindi, perché adirarsi tanto per le parole di Fulvio Collovati? Durante la trasmissione “Quelli che il calcio”, l’ex difensore ha avuto da ridire circa la telecronaca di due inviate poco avvezze alla materia calcistica: “Quando sento una donna, anche le mogli dei calciatori, parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco. Non ce la faccio! Se tu parli della partita, di come è andata e cose così, bene. Ma non puoi parlare di tattica perché la donna non capisce come un uomo, non c’è niente da fare”. Parole forti in tempi di sensibilità estrema, ridicola quanto a politically correct e misoginia più presunta che effettiva. Il commento di Collovati è stato senza dubbio sebbene semplicistico e omologante, ma il polverone scatenato dai censori moderni è stucchevole, per quanto prevedibile. L’Ad della Rai Fabrizio Salini, ha espresso totale disappunto riguardo le affermazioni dell’opinionista. Salini ha invitato a tenere sempre ben presente che “Rai è un servizio pubblico e che il contratto di servizio ricorda esplicitamente all’articolo 9 che la Rai si impegna a promuovere la formazione tra i propri dipendenti, operatori e collaboratori esterni affinché in tutte le trasmissioni siano utilizzati un linguaggio e delle immagini rispettosi, non discriminatori e non stereotipati nei confronti delle donne”. Per questo si sta valutando la sospensione di Collovati. Intanto, gogna mediatica per l’ex campione del mondo nel mondiale ’82: da Carolina Morace a Regina Baresi, “cinguettii” al vetriolo e conseguente dietrofront di Collovati. “Mi scuso – si legge nel suo Tweet – se le frasi pronunciate in chiusura di trasmissione a Quelli che il Calcio pure in un clima goliardico, abbiano urtato la sensibilità delle donne. Me ne dispiaccio ma non era mia intenzione offendere nessuno, chi mi conosce sa quanto io rispetti l’universo femminile”. Ora, c’è da chiedersi se il mea culpa sia stato un salvataggio provvidenziale in zona Cesarini. Al triplice fischio, l’ardua sentenza. Chiara Soldani
Paolo Ziliani per il Fatto Quotidiano il 22 febbraio 2019. Povera Eva. Cacciata dal Paradiso Terrestre non per aver rubato una mela, ma un pallone. E aver provato a giocarci, a parlarne. È quel che succede oggi nel Sacro Tempio di Eupalla (cit. Gianni Brera) di un paese chiamato Italia. Dove le donne sono ammesse a corte a patto di portare bellezza, sempre gradita all' utilizzatore finale, ma cacciate se la pretesa diventa altro: portare competenza, ad esempio. Nei giornali e in tv, ho lavorato nel mondo del calcio e dell'informazione calcistica per più di 40 anni. A Mediaset, negli anni di Controcampo condotto da Sandro Piccinini, scoprimmo un giorno la grande passione per il calcio di Natalia Estrada, l'ex moglie di Giorgio Mastrota, donna di spettacolo, spagnola. Era tifosa del Milan ma di calcio sapeva tutto; più di Vittorio Feltri e di Giampiero Mughini e non meno di Enrico Vanzina, i tre opinionisti della nostra prima stagione. Negli anni precedenti, quand' ero al Giorno ed ero sempre negli stadi, conobbi Licia Granello, giornalista di Repubblica, che sapeva di calcio (e non solo) più di molti inviati maschi che troneggiavano nelle tribune stampa. Scriveva benissimo, ma era una donna: un errore, per tutti. A Italia 1, per molti anni, a condurre gli studi post partita, con un piglio e una competenza che molti maschi si sognano, è stata Mikaela Calcagno: che se si fosse limitata a mostrarsi bella com' è, e a fare le boccucce alla Diletta Leotta, sarebbe ancora al suo posto. Invece Mikaela ha sempre voluto fare la giornalista. Una volta chiese a Mihajlovic perché aveva sostituito Bacca e non Honda (il Milan stava perdendo) e si sentì irridere: "Perché io sono allenatore e lei presentatrice"; una volta chiese ad Allegri che cosa non andasse nella Juve (che era 14ª) e si sentì dileggiare: "Secondo lei cosa manca? Basta vedere la classifica, mancano i punti", che è esattamente il motivo che rendeva pertinente la domanda. Poi arrivò Mancini. E poi Mikaela Calcagno praticamente sparì. "Cazzo guardi! Vai a cucinare!", si sentì dire in diretta da Ibrahimovic Vera Spadini, l'inviata di Sky che gli aveva chiesto di un suo presunto scontro con Allegri dopo il ko del Milan contro l'Arsenal. Oggi Vera Spadini lavora nel MotoGP. Titti Improta, giornalista della tv Canale 21 e figlia di Gianni Improta, mezzala del Napoli anni 70, un anno fa chiese a Maurizio Sarri: "Sono troppo dura se dico che questa sera lo scudetto è compromesso?". "Sei una donna, sei carina - le rispose Sarri - e non ti mando a fare in culo proprio per questi motivi". Il tutto in un boato di risate da caserma degno di un film di Pierino. "Quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco" (Fulvio Collovati, Rai). "Se mia moglie avesse detto le cose che ha detto Wanda Nara, l'avrei cacciata di casa" (Billy Costacurta, Sky). Per la cronaca, Costacurta è l'ex sub-commissario Figc che tentò di far eleggere presidente del calcio femminile la moglie Martina Colombari, che conosce il calcio come Costacurta la letteratura medievale; Collovati è sposato con Caterina Cimmino che da 30 anni bazzica in una miriade di talk calcistici: chissà quanto Maalox, povero Fulvio. Le donne non sanno di calcio, dice. Di certo Carolina Morace, ex calciatrice, non ha mai detto in tv, come l'ex calciatore Massimo Mauro, che Lemina è meglio di Modric e che guardare una partita dell'Inter è peggio della dialisi; Emanuela Audisio, prima firma di Repubblica, non ha mai scritto, come ha fatto Mario Sconcerti sul Corriere della Sera, che " CR7 nella Juve farebbe il tornante o la riserva" e che "Sturaro da terzino vale i grandi d' Europa". E Federica Lodi, che su Sky conduce Premier Show, non ha mai raccontato di un abbraccio fra Rashford e George Best, a differenza di Sandro Sabatini (Mediaset) che due anni fa, dopo Real-Bayern 4-2, descrisse un abbraccio tra CR7 e Alfredo Di Stefano, che era morto da tre anni. Ma così è, anche se non vi pare. Amen.
Le donne che parlano di calcio sono credibili? Scrive il 19 Febbraio 2019 Indiscreto. Dopo le frasi di Fulvio Collovati a Quelli che il calcio (“Quando sento le donne parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco”) uno dei luoghi comuni più amati dagli italiani è diventato un dibattito di attualità. Con interventi a sostegno di questa tesi, soprattutto di ex calciatori, da Costacurta a Marocchi, e contrari, soprattutto calciatrici e giornalisti. E le inevitabili scuse, per preservare una collaborazione si accetta qualsiasi umiliazione (basti pensare al caso Di Canio-Sky). Il luogo comune, che come tutti i luoghi comuni contiene indiscutibilmente una parte di verità (il 100%, nel caso degli uomini che guidano con il cappello), al di là delle battute da spogliatoio si basa su un assunto: tu donna non hai mai giocato a calcio, nemmeno in cortile, quindi potrai anche capire il fuorigioco ma non arriverai mai a cogliere le grandi finezze del calcio. A questo ragionamento ne aggiungeremmo un altro: tu donna che da piccola non sognavi di fare il calciatore non potrai mai essere emotivamente coinvolta nel calcio come me uomo. Questa ci sembra sia la materia del contendere. Si sta parlando chiaramente del calcio inteso come sport, non del tifo che spesso vede le donne più scatenate degli uomini. Il ‘Di qua o di là’ assume quindi un significato del tutto particolare, in un sito con il 99% di lettori di sesso maschile come Indiscreto, sia pure di target alto, mici e machi, provinciali e cosmopoliti, pirati e signori, eccetera. Questa non è la piattaforma Rousseau, qui si fa sul serio. E la domanda è seria e non generica. Tutti conosciamo donne che sanno di tattica calcistica (scusate, ci siamo gramellinizzati e abbiamo scritto una triste frase femminista, in realtà non ne conosciamo nessuna), o che perlomeno ne parlano, usciamo dalle eccezioni come possono essere le calciatrici o le giornaliste (no, le giornaliste magari no, per lo meno non più delle maestre d’asilo o delle commesse), la vera domanda è sulla loro credibilità: se anche incontrassimo una ragazza che ne sapesse più di Happel e Michels messi insieme la prenderemmo sul serio? Perché dovrebbe saperne di meno del collega o del tassista maschio che forte delle sue certezze da tivù locale spara quattro cazzate sui tagli di Gabbiadini e la garra charrua di Vecino? In estrema sintesi: al di là della competenza, che dipende dalle singole situazioni, le donne che parlano di calcio sono credibili?
Da Radio Cusano Campus il 19 febbraio 2019 su RadiocusanoCampus. Alba Parietti è intervenuta ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è Desta” condotta da Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, per commentare le parole dell’ex campione del Mondo Fulvio Collovati il quale ha dichiarato: “Quando sento una donna parlare di calcio mi si rivolta lo stomaco”. Sulla frase di Collovati. “Capisco che in un anno in cui la nazionale italiana femminile va ai mondiali di calcio e gli uomini no a qualcuno possono girare le scatole –ha affermato Alba Parietti-. Anche in questo abbiamo dimostrato di poter fare meglio degli uomini. A me dispiace per Collovati che conosco. Per dirla alla Fantozzi, ha detto una cagata pazzesca. Si è scusato dicendo che quelle frasi sono inopportune? Direi che è riduttivo. Con quelle affermazioni Collovati esclude una categoria, è come se avesse detto “tu stai zitta che non capisci un cazzo”. Capostipite delle donne nel calcio. “Io ho aperto alle donne le porte del calcio non perché fossi la più preparata sul tema ma perché ero la più brava a trattare con il mondo maschile, che è un mondo da bar sport. Gli uomini quando parlano di calcio perdono la testa, pensano che sia materia loro. Per parlare di una cosa non serve per forza averla praticata. È pieno di pippe che parlano in tv di calcio, con dei fisici assolutamente inadeguati”. Gli uomini soffrono le donne al comando. “Il problema è la cultura. Quando Collovati dice queste cose viene fuori un retaggio culturale che è proprio della maggior parte degli uomini italiani. Quello che ha detto Collovati lo pensa il 90% degli uomini italiani. Bisogna abituarsi a moderare le espressioni. Ad esempio, anche io penso che gli uomini valgono meno delle donne, però non lo dico. Gli uomini soffrono le donne al comando, non sopportano che abbiano tutte queste capacità”. Donne e calcio. “Carolina Morace era bravissima anche a rapportarsi con gli uomini di questo settore. Le donne sono brave a condurre, a fare le padrone di casa. Cito ad esempio Paola Ferrari, ha una preparazione incredibile così come Ilaria D’Amico. Ho un figlio che fa il commentatore sportivo, è molto bravo se non fosse che è psico - juventino, non vede oltre la Juventus. Pensate, volevo dargli il doppio cognome per proseguire la stirpe Parietti. Poi ho visto quello che fa in televisione con Crudeli, urlare come uno scalmanato, ed ho pensato che era meglio mantenesse solo il cognome Oppini. Anche il mio ex marito perde la testa durante la partita di calcio”. Galagoal e lo sgabello. “A Galagoal avevo ospite fissi Maradona, Pelè, Platini. Quando arrivai nella redazione non capivo nulla di calcio, nel giro di un mese mi istruì Paola Ferrari alla quale ricambiai il piacere facendole conoscere il suo futuro marito. La redazione di Telemontecarlo era super preparata. Non fu facile accettare il mio arrivo come simbolo di un programma che vinse la sfida contro la RAI, risollevando addirittura le sorti di Telemontecarlo stessa. In quegli anni arrivò la mia glorificazione. Vi dirò, ho voglia di tornare in tv nel mondo del calcio, voglio dare questa brutta notizia agli uomini”. “Lo sgabello lo inventò Riccardo Pereira. Lui mi disse: “Ti mettiamo su questo sgabello” e lui si inventò questa cosa, era geniale. A lui devo molto, ora sarà a Copacabana in spiaggia. Altri hanno provato a salire su quello sgabello, ma non ci sono riusciti”. Wanda Nara ed il peccato di vanità. “È innegabile che il fatto che lei è moglie e procuratrici di un calciatore crea un enorme conflitto di interessi. È moglie di un calciatore che ha, tra l’altro, una storia piuttosto chiacchierata. In più è la procuratrice e va in televisione a dire quelle cose con una certa leggerezza. A qualcosa dovrebbe rinunciare, in primis alla vanità. Per la vanità sono caduti in molti. I grandi imprenditori, cito ad esempio Briatore, ad un certo punto cadono su narcisismo e vanità. Esponendosi come fa lei mette in difficoltà il marito e la società”.
Estratto dell’articolo di Francesco Velluzzi per la Gazzetta dello Sport. Roberta Termali, ex compagna di Walter Zenga dal buen ritiro di Osimo da dove spera di tornare in tv, condivide l'opinione della Parietti: «La mia amica Paola Ferrari, Ilaria D' Amico, tante ragazze di Sky Sport sono preparate e sanno di calcio. Ho incontrato Fulvio e Caterina due settimane fa a Milano, non credo volesse intendere così. Non arriverei a parlare di sessismo». Ed eccola Paola Ferrari, la conduttrice Rai. «L'ho chiamato e l'ho sgridato. Ora mi deve un aperitivo. Fulvio lo vorrei sempre in studio con me. E io sono una donna che tende sempre a far parlare di tattica l'opinionista, l'esperto, ma così è troppo. Però gli voglio troppo bene e lo perdono».
Katia Serra, ex calciatrice, voce del calcio su Sky Sport: va giù duro «Ci si mette di mezzo il genere sbagliando. E' sessismo e superficialità. Chi esprime il pensiero in modo più profondo avrebbe esternato il concetto diversamente».
Chiude Rosella Sensi, ex presidente della Roma ed ex responsabile del dipartimento calcio femminile della Lega Dilettanti è critica: «Un' uscita infelice. Il ruolo che io ho ottenuto e che mi è stato attribuito da presidenti ed esperti mi conforta. Soprattutto, penso non si debba mai generalizzare». Ma ieri non è finita con Collovati.
L' ex difensore del Milan Billy Costacurta a Sky Sport, parlando di Wanda Nara, ha sentenziato: «Se mia moglie parla male dei miei compagni la caccio fuori di casa». C' è chi non ha gradito.
Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport il 20 febbraio 2019. Condivido Fulvio Collovati (“Quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco”), non mi piace come l’ha detto. Talmente sciatto e cavernicolo che passa dalla parte del torto. Il concetto è sacrosanto, ma solo se lasci intendere l’indiscutibile omaggio alla donna che c’è dietro. Non puoi azzardarti a dire cose così se non conosci il modo di dirle. Vado più estremo. Una donna, ma diciamola femmina, che parla di calcio, non mi rivolta lo stomaco, smette di esistere l’attimo stesso in cui lo fa. Ma non perché sia inadeguata e blateri sfondoni, come insinua maldestro Collovati. Smette di esistere, al contrario, quanto più è adeguata, quando ne parla in modo credibile e ti sorprendi a pensare “Toh, è più brava di Beppe Bergomi”. Lì mi diventa insopportabile. Arrivo a detestarla, per quanto si sottrae al dovere estetico ed etico della differenza, precipitando nell’aberrazione della citazione maschile. Smette di esistere, la presunta femmina, appena piazza un microfono sotto il becco di un calciatore, figuriamoci se gli fa una domanda che più congrua non si può sul ruolo o sulla prestazione. Non potrei mai fare sesso e meno che mai amor cortese con una femmina che il calcio parlato lo fa di mestiere. Non ce la farei mai a baciare una, anche bellissima, che ha appena chiesto a Gattuso se ha applicato la tattica del fuorigioco o a Chiellini se marca a uomo nei calci d’angolo. Petrarca o Dante, per non dire Catullo o Roger Vadim, avrebbero mai dedicato un solo verso o un’immagine a una bordocampista? “Becero maschilismo” diranno, direte. Sbagliando di grosso. E non importa se a dirlo siano centinaia, migliaia o milioni (l’imbecillità ha più probabilità d’essere tale se sostenuta da numeri di massa). Rigettare la donna che discetta verosimilmente di calcio equivale ad esaltare quella inattendibile quando lo fa. O lo fa, ma solo per dimostrare che non gliene frega niente di farlo. Che è lì per caso. Per altro. Un buon esempio è Melissa Satta a “Tiki Taka”. O Diletta Leotta ovunque. Parlano di calcio, ma potrebbe essere botanica, cosmetica o astrofisica. Senza averne la più pallida nozione o lozione, ma felici solo di sedurre il mondo intero. Troppo donne. Irriducibili. Inattendibili. Il pallone arretra, si arrende, non ce la fa proprio a mascolinizzarle. Sono loro, casomai, a femminilizzarlo. Prendi Ilaria D’Amico. Per quanto si sforzi di stare alla pari nella mischia del maschio, dov’è che eccelle? Quando si lascia (raramente) scappare l’insensato, la frase che non ha capo né coda, il lampo di vanità (spesso), quando scivola, cioè, nella differenza. Il caso più entusiasmante di questi tempi è la famigerata Wanda. Nel suo caso, la femminilità alla massima potenza diventa minaccia. Wanda non si accontenta di sedurre il pallone. Lo pervade, lo erotizza in ogni sua fibra. Wanda è la perversione diabolica del femminile che non scimmiotta il maschile, ma lo assume come trucco, maschera, travestimento, per averlo ancora meglio ai suoi, suppongo bellissimi, piedi. Tutti Cappuccetto Rosso ai piedi di Wanda, tranne Marotta, che ha l’anima minerale di un funzionario del Politburo. E comunque, l’ha scritto Bukowski meglio di chiunque altro: “Dio, quando creo te distesa a letto, sapeva cosa stava facendo, era ubriaco e su di giri. E creò le montagne, il mare e il fuoco allo stesso tempo. Ha fatto qualche errore, ma quando creò te distesa a letto, fece tutto il Suo Sacro universo”. Non creò la donna al fianco di Caressa, Pardo o Piccinini.
Donne e calcio, Gattuso (Milan): "Mia moglie mi fa la formazione", scrive il 21 febbraio 2019 Repubblica tv. "Se parlo di tattica con mia moglie? È lei che mi fa la formazione". Rino Gattuso commenta con una battuta a una domanda sulla polemica per le frasi di Fulvio Collovati a “Quelli che il Calcio” ("Quando sento una donna parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco"). "Tre volte a settimana parlo con un coach che è molto preparato come Carolina Morace", ha detto Gattuso facendo riferimento all'allenatrice del Milan femminile. "Nel mondo in cui viviamo ci sono tantissime donne che ne capiscono e quando parlo con Carolina è sempre un confronto aperto e interessante".
Gennaro Gattuso prima di Milan-Empoli: "La formazione? La fa mia moglie", scrive il 21 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Alla vigilia della partita di San Siro contro l'Empoli, in conferenza stampa dà spettacolo Gennaro Gattuso: "Da parte mia c'è grande preoccupazione, non sarà per nulla facile - ha spiegato l'allenatore del Milan - Siamo a un bivio, dobbiamo dare continuità a quello che stiamo facendo, è lo step che dobbiamo superare". Dunque gli ricordano che il periodo negativo pare ormai superato e il mister risponde: "Non voglio i complimenti, devo ringraziare la squadra". Dunque, incalzato sulle scelte relative all'undici titolare, scherza: "La formazione la fa mia moglie". Insomma, bocca cucita. Per certo, però, Mancherà Suso, al cui posto dovrebbe giocare Paquetà, più avanzato: "In qualche occasioni sta già facendo l'esterno d'attacco, si scambia con Calhanoglu. Può fare la mezz'ala, la mezza punta, a tratti sta facendo anche l'attaccante esterno", ha concluso Gattuso.
Ilaria D'Amico sdottora di tattica nel dopo-Champions della Juve: Fabio Capello la zittisce così, scrive il 21 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Donne che parlano di tattica calcistica? L'argomento è adir poco all'ordine del giorno, dopo le "scivolate" di Collovati e Costacurta. Ma sentite come ieri sera Fabio Capello ha zittito Ilaria D'Amico subito dopo la sfida di Champions League persa per 0-2 dalla Juventus con l'Atletico Madrid. La moglie di Buffon stava dottamente disquisendo sul fatto che "per la Juve al ritorno sarà ancora più dura perchè l'Atletico è una squadra alla quale non frega nulla di giocare male". Capello, però, la zittiva così: «Non è vero, l’Atletico non gioca male». La D'Amico, però, teneva il punto parlando di “squadra rognosa” che non fa “un calcio super brillante” e a quel punto Capello ha mollato ogni freno inibitore: “No, no, non sono d’accordo con quello che dici, tecnicamente sono bravi, non buttano mai via il pallone, nello stretto quando li vai a pressare vengono fuori, l’Atletico è una grande squadra. Non si ottengono i risultati che ha ottenuto Simeone se non hai grandi giocatori, carattere, forza…In 3 passaggi vanno in porta. O vuoi sempre quelli col tiki-taka?”. Sdeng. La faccia di Ilariona la diceva tutta.
Perché sto con Collovati, scrive Tony Damascelli, Martedì 19/02/2019, su Il Giornale. Fulvio Collovati non è stato un difensore falloso. Sapeva usare la tecnica, il tempo giusto di intervento e l'eleganza, per opporsi a qualunque attaccante. La qual cosa lo ha portato, tra mille risultati, a conquistare un campionato del mondo. Stavolta ha scelto di entrare deciso sull'avversario. Ha detto che quando una donna parla di tattica calcistica questo gli procura (...) (...) il voltastomaco. Le parole hanno provocato una sollevazione tra presentatori e astanti a Quelli che il Calcio trasformando un'arena goliardica nel solito salottino della buona coscienza; erano evidenti gli affanni dei conduttori e della conduttrice, mentre Massimo Mauro sghignazzava pensandola come il collega ma portandosi astutamente la mano alla bocca. La polemica è proseguita sui social, Collovati (che si è scusato, «non volevo offendere nessuno») è stato accusato di essere sessista, la moglie Caterina lo ha difeso come nemmeno Bergomi e Scirea seppero fare in Spagna '82. E la Rai lo vuole sospendere. Ci mancava il #metoo sulle vicende di football, ci mancava la fibrillazione delle anime candide che, stranamente, non si agitano quando osservano donne platealmente (s)vestite che fanno cornice ai programmi di calcio, selfie-woman che nulla aggiungono ma molto attraggono, chiamate all'esibizione del loro corpo più che delle loro idee.
Ormai abbiamo superato, con il telepass del politicamente corretto, la dogana dell'intelligenza. Posso aggiungere un altro esempio: è severamente vietato pensare, dire e scrivere che Wanda Nara, moglie di Mauro Icardi, non sia capace di fare la procuratrice. Ogni censura o rimprovero viene interpretata come discriminazione, come volgare sessismo, come uso e abuso del genere femminile. Però, si può benissimo sostenere che Mino Raiola, procuratore di molti illustri calciatori, sia un semplice pizzaiolo, lestofante, camorrista, delinquente, tanto è un maschio. Fulvio Collovati ha espresso una opinione, per me condivisibile, perché certe questioni appartengono a un mondo storicamente maschile, così come non accetto che un uomo possa sapere quello che una donna provi come sofferenza e dramma nell'aborto. Non è discriminazione ma la consapevolezza che esistono discipline nelle quali competenza ed esperienza possano prevalere in un genere e non in un altro. Questo non esclude che possano esistere calciatrici più brave di certi mediocri calciatori. Comunque lancio un appello: cerco una donna capace di spiegarmi il Var. Gli uomini non ce la fanno. Compreso Collovati.
«Le donne non capiscono». Ma per i maschi saccenti Ronaldo era una riserva. La valanga di insulti, più o meno social, sta ancora tracimando ben oltre i protagonisti, ora che la nazionale femminile dà buona prova al Mondiale, con consensi di critica e di pubblico. Claudio Rizza il 14 giugno 2019 su Il Dubbio. L’assunto beffardamente ostile, il fiat lux anzi il fiat tenebrae, fu quello di Collovati, ex stopper dell’Inter e del Milan che fu: «Quando sento una donna, poi la moglie di un calciatore, parlare di tattica mi si rivolta lo stomaco. Una donna non capisce come un uomo». La valanga di insulti, più o meno social, sta ancora tracimando ben oltre i protagonisti, ora che la nazionale femminile dà buona prova al Mondiale, con consensi di critica e di pubblico. Va detto che certo tifo maschilista è rimasto a Cartagine, e chi frequenta uno stadio lo sa: le tifose sanno anche non essere signore, più aggressive e sboccate dei maschi, certe doctoresse Jekill and Mrs Hide, che all’occorrenza menano come energumeni e, dunque, orgogliosamente in grado di analizzare un 4- 4- 2 e se Ranieri sia peggio di Di Francesco. Lo stereotipo della fidanzata/moglie che se ne frega dei 22 fessi che corrono dietro ad una palla è stato demolito da anni. Però gli haters maschilisti si scandalizzano e deprecano lo stop di tette al posto di quello di petto ( meccanicamente la cosa può essere facilmente contestata), sostengono che il calcio femminile sia di una noia mortale, e giù insulti. Che non siano alla bassezza si vede dal fatto che non sputino mai a terra né liberino il naso col turbo soffio. E poi è uno scandalo che, segnato il gol, nessuna si tolga la maglietta. Solo quei geni di Lercio sanno scherzarci: «Perché ti sei vestita come me? Partita di calcio femminile finisce il rissa». Non ci sono solo Collovati e Costacurta, innervositi dalle piroette della bonona Wanda Nara che usa il marito Icardi come un pupazzo. Anche Mughini non ha nascosto il suo razzismo intellettuale: «Non molte donne capiscono, io ne conosco due o tre, a parte la grandissima Emanuela Audisio, che di calcio se ne intendono davvero». La D’Amico è da anni che discetta su Sky, e casomai è meglio non divaghi: disse che Son, l’attaccante sudcoreano del Manchester United, «non viene da un regime democratico». Le ricordarono che la dittatura è in Corea del Nord, si attenesse alla tattica. I maschi intenditori sono maxi esperti anche in corbellerie sesquipedali. Non si salva nessuno. Mario Sconcerti, per esempio, è passato alla storia in vista della finale di Cardiff Real Madrid- Juve (4-1) quando sentenziò: «Alla Juve Ronaldo farebbe la riserva». Per non parlare delle previsioni di Caressa e dei suoi imitatori, procacciatori di superlativi assoluti nelle telecronache drogate, dove promuovono campioni che poi sbagliano gol da principianti. La coscia ormai corta della sinistra, Alba Parietti, nota: «Capisco che in un anno in cui la nazionale italiana femminile va ai mondiali di calcio e gli uomini no, a qualcuno possano girare le scatole». Tra i fenomeni maschilisti va assolutamente ricordato il presidente della Lega Nazionale Dilettanti, Belolli, che esclamò: «Basta dare soldi a queste quattro lesbiche». Negò di essere sessista. Tra il milione di twitterologi segnaliamo il seppur educato Davide: «Direi di smetterla con le battute sessiste su queste che non sanno neanche parcheggiare». Amen. Il boom di ascolti per la vittoria contro l’Australia ha inviperito la massa ipercritica degli uomini sapiens. Le donne se ne fregano. Ma c’è una Simona nel web, dal cuore nerazzurro, da segnalare: «Comunque le francesi in 36 minuti hanno fatto più cross decenti che tutti i terzini dell’Inter in questa stagione». Si vede che capisce poco, doveva aggiungere anche quelli del Milan.
Sessisti nel pallone. «Gridai al gol per un fallo laterale. Un uomo mi fulminò, era Andreotti». Antonella Rampino il 14 giugno 2019 su Il Dubbio. Ho sempre considerato lo sci quella cosa per cui ci si arrampica in cima a una montagna solo per poterne scendere, e il calcio quella cosa in cui ci sono 22 uomini che corrono appresso a una palla. Il calcio resta per me la più assurda delle passioni umane, ma confesso che ognintantonhomil dubbio che si tratti di una lacuna. Con la passione che ho per la politica mi sfuggono le metafore ardite, CR7 ha smesso di essere una sigla astrusa quando ho scoperto che si tratta del proprietario dei miei alberghi preferiti in Portogallo, e se non ho mai corso il rischio di Berlusconi al suo primo G7 ( no, l’Uruguay round non è un torneo calcistico sudamericano) son costretta a voltar pagina, cambiare bar e marciapiede o, peggio, ammutolire quando sento nominare cose e persone che riguardano quella roba lì. L’idea di Orwell che il calcio è una prosecuzione della guerra con altri mezzi – e dunque lo è anche della politica- mi affligge: che ci sia un pezzo di mondo che sfugge alla mia capacità e volontà di comprensione? Non è colpa mia. Ho avuto un trauma infantile: all’età di 12 anni venni portata da mio padre che non ne era frequentatore abituale allo stadio, per il semplice motivo che gli erano stati regalati due biglietti in Tribuna d’Onore all’Olimpico, addirittura per una partita della Roma. Io avevo con me un libro da leggere ( sorvolo sul titolo che è meglio: lettura inadatta a una dodicenne, infatti non capivo un accidenti). E a un certo punto, mentre sentivo che lo stadio si stava infervorando, persi la concentrazione, sollevai gli occhi dal libro, guardai lo sterminato campo verde, vidi una palla che veniva malmenata verso la porta e urlai con quanto fiato avevo in gola “goal!”. Non era un goal, ma il peggio fu che il signore anzianotto, bruttarello e con la gobba seduto giusto davanti a noi si voltò, mi guardò in tralice dagli occhiali a forma di schermo da televisore e sibilò “porta male!”. Era Giulio Andreotti, per fortuna: mio padre mi trascinò via, consenziente, nell’intervallo del primo tempo. E io decisi all’istante che di calcio non avrei più voluto saperne nulla. Una soglia di ignoranza consapevole deve essere consentita, a qualunque umano. Io ho sentito la mia vocazione prestissimo: avrei ignorato il calcio, e cercato strenuamente di conoscere tutto quel che potevo di tutto il resto dello scibile umano. Non sono sola. Quando c’è il derby, bellissime conversazioni con gli unici tre tassisti romani che si disinteressano del pallone come me ( e che sono dunque anche gli unici tre al lavoro). Selezione rapidissima al primo incontro, basta dire “non mi piace il calcio” ( una valida alternativa all’osservare se il convenuto ha i calzini lunghi o corti). Domeniche pomeriggio libere, anche da frastuoni, e così pure i mercoledì i lunedì etc. Quando ci sono i mondiali, andare negli Stati Uniti ( l’ho fatto), o farsi chessò un giro dell’Islanda in barca ( l’ho fatto). Tutto questo per dire che chi sostiene che “di calcio le donne non capiscono nulla” è delle donne che non ha mai capito un accidenti. E forse neanche di calcio: gente che crede ancora che si tratti di tattiche e strategie, e non di correre appresso a un pallone per tirar calci.
· Le sacerdotesse del MeToo vogliono uccidere il Tango.
LE RIBELLI DEL TANGO. UN BASTIONE DELLA TRADIZIONE NELL'ERA DEL MOVIMENTO «ME TOO». Alessandra Coppola per il “Corriere della sera” il 7 ottobre 2019. La donna avanza, l'uomo le blocca il piede; lui indica la direzione, lei gira; lei tenta un passo e lui la riporta indietro. A guardare i movimenti in milonga con occhi femministi, il tango diventa «un bastione del machismo argentino», così dice Liliana Furió: un brusco dominatore, un' accondiscendente dominata. Rinunciare a ballare, allora? «Piuttosto, ballarlo in modo diverso». Non è un' idea nuova, ma in questa vivace stagione di battaglie contro la violenza di genere e per la legalizzazione dell' aborto che sta scaldando l' Argentina, ha preso forza un movimento specifico: Movimiento feminista de tango. Un festival si è chiuso ieri, un laboratorio apre a Buenos Aires il prossimo fine settimana; un documentario della Bbc , una pagina del New York Times, un servizio di Al Jazeera. E ancora una volta è l'attivista Liliana Furió, tra le altre, a dare il ritmo. «È una storia lunga - racconta al telefono - legata alla lotta femminista argentina che celebra 34 anni, anche se trascorsi per lo più nell'invisibilità». Dalla fine degli anni Novanta, questa spinta si è intrecciata alle rivendicazioni del tango queer. «Se prima ci incontravamo di nascosto, in luoghi chiusi, donne che ballavano con donne, uomini con uomini, o anche coppie miste ma a ruoli invertiti, pian piano siamo venuti allo scoperto». Fino a conquistare sale da ballo tradizionali. Il protocollo anti molestie, che l'attivista ha stilato con le sue socie a giugno, è stato adottato da decine di milongas. Nasce da osservazioni raccolte in pista, uomini che stringono o fanno scivolare le mani, donne che si sentono a disagio e finiscono per abbandonare la ronda, «quando dovrebbero essere i molestatori a venire allontanati». A cominciare dal cabeceo - il cenno col capo che fa un ballerino per invitare la partner - le femministe hanno preso nota delle abitudini machiste consolidate attorno al tango, promuovendo performance dove ci si possa invitare a vicenda, non debba esserci un ballerino a condurre e il gioco delle parti diventi più sottile e armonico. Non si corre, però, così il rischio di snaturare il tango? Di trasformarlo in un' altra danza? «C'è un grosso dibattito in corso su questo punto - risponde Furió -. Ma nel nostro stile tecnicamente non cambia nulla, sono la stessa musica, gli stessi tempi, passi uguali. Semplicemente la connotazione di genere smette di essere così rigida. È un' evoluzione, secondo noi necessaria, del tango». È anche una trasformazione privata, la riscrittura di una storia familiare nera: documentarista, attivista Lgbt, Liliana Furió, 56 anni, è animatrice del gruppo dei «Figli disobbedienti» che hanno rinnegato i padri repressori dell' ultima dittatura. «Sono cresciuta in un ambiente militare opprimente, di un maschilismo quasi caricaturale». La tv accesa sui «Grandi Valori del Tango» come omaggio ottuso alla nazione. «Per molto tempo ho avuto un rifiuto, ma la tenerezza e il piacere per la nostra musica mi era rimasto, questa nostra melodia originariamente marginale, anche se imborghesita. È così che ho voluto riappropriarmene».
Gustavo Naveira: […] Perché una persona dovrebbe iniziare a ballare tango?
“Per risolvere i problemi della vita moderna…”
Quali?
“La solitudine, la mancanza di riconoscimento, la dimensione sociale opprimente che porta le persone a sentirsi solo un numero. E poi regala l’appartenenza a un gruppo, la riscoperta del ruolo nella coppia, il gioco tra uomo e donna, l’approfondimento e la qualità della percezione, la profondità nella comunicazione con il partner. Nel 1983 pensai: ‘il tango durerà altri due o tre anni e poi passerà di moda’. Mi sbagliavo, per fortuna. Più il mondo si digitalizza, maggiore è il bisogno di incontrarsi davvero, senza la mediazione dello smartphone. Il ballo avvicina le persone e le spinge a fare qualcosa che oggi è molto complicato: le obbliga ad ascoltarsi. A diventare una cosa sola”.
Una parte del movimento femminista vede nel tango una forma di espressione machista, con l’uomo chiamato a “guidare” la donna…
“E’ una visione vecchia…e forse anche il femminismo è ormai superato...Il tango è un gioco di ruoli…E se questa dinamica viene equivocata non è colpa del ballo…” […]
Riccardo Panzetta per Dagospia il 22 giugno 2019. Incontrare Gustavo Naveira significa trovarsi di fronte a una leggenda. Chi balla tango lo considera un padre fondatore, un principio primo, una sorgente creativa. E’ a lui che si deve il più importante sviluppo del ballo del novecento. Con il suo gruppo di studio, costituito all’inizio degli anni novanta con Fabian Salas e l’amico-allievo Mariano Frumboli, ha iniziato un’analisi delle forme, della struttura, dei movimenti che ha portato fuori il tango dalle “casas malas” e dalle milonghe di inizio secolo per consegnarlo alla modernità. Praticamente una genesi: il tango che si balla in tutto il mondo si deve a lui. “Il mio gruppo "de investigacion" - ricorda Naveira - voleva sperimentare, conoscere, andare oltre quello che esisteva. Il ballo aveva già una sua struttura: noi abbiamo portato una nuova organizzazione, trovando moltissime combinazioni mai immaginate prima”. Anni di abnegazione totale, di ricerca quasi spirituale. Una dedizione assoluta impensabile oggi, dove l’obbligo dell’immediatezza comprime i tempi, condannando a una velocità molto superficiale. “Iniziavamo a fare lezioni ai nostri studenti alle due del pomeriggio. Alle 18, tutti i giorni, ci prendevamo tre ore per provare, immaginare, costruire il nostro nuovo orizzonte di ballo. Poi iniziava la pratica per gli allievi. A mezzanotte si andava in milonga e si tornava a casa alle 7 del mattino. E alle due del giorno dopo si ricominciava. Così tutti i giorni, per anni…”. Gustavo Naveira e la sua compagna di vita e di ballo, Giselle Anne – in questi giorni a Roma per partecipare a un workshop organizzato da Alicia Vaccarini della scuola “Orango Tango” - si sono conosciuti nel 1995 in Spagna, durante uno show. “Ci furono degli imprevisti e l’organizzatore dell’evento mi disse che avrei dovuto ballare con questa donna che non avevo mai visto. E’ una cosa irrituale, di solito ci si esibisce con qualcuno con cui si ha un buon feeling. Prima di scendere in pista avemmo solo il tempo di presentarci. Era Giselle. Ci siamo offerti al pubblico la prima volta senza sapere nulla l’uno dell’altra ed era come se avessimo ballato insieme da sempre. Fu un colpo di fulmine”.
Gustavo, sfatiamo un mito: il tango è “un pensiero triste che si balla”?
(Ride) “Si trasmettono sentimenti diversi: l’abbraccio tra due ballerini è un canale di comunicazione aperto attraverso cui passano molte cose. A volte c’è passione, altre volte felicità, altre ancora furia, tristezza, malinconia. E’ tutto un “rango de sentimiento”, molto profondo”.
Cosa avresti fatto se non avessi dedicato la vita al tango?
“Avrei scelto l’arte. Forse sarei stato un musicista oppure mi sarei cimentato con la scultura”.
Cosa ha portato il tango nella tua vita?
“Non so se mi abbia ‘regalato’ qualcosa: semplicemente non conosco altro. E’ tutta la mia vita. Ascolto il tango da quando avevo due anni. Sono assolutamente identificato con esso. I miei quattro figli sono frutto di due relazioni nate grazie al tango…”
E cosa ti ha tolto?
“Il non saper fare altro. E questo mi fa arrabbiare. A volte penso “ehi, sarebbe bello fare questa cosa…”. Poi quando provo a lanciarmi in una nuova attività, capisco che non fa per me…”.
A 20 anni hai lasciato la facoltà di Economia per dedicarti al ballo. Ti è mancato non aver completato gli studi?
“Sì, molto. Se avessi continuato, lo avrei fatto ad alti livelli. Ma non avrei concluso il percorso in Economia: non era per me…Mi consolo pensando di aver approfondito lo studio del tango in un modo ugualmente importante…”
Come reagì la tua famiglia quando decidesti di interrompere gli studi per dedicarti al ballo?
“All’inizio male, poi hanno cambiato idea. Mia madre mi incoraggiava. Mio padre si infuriò quando gli dissi che volevo fare il ballerino. Soprattutto perché mi vedeva confuso, indeciso. Dopo aver iniziato con il tango, mi buttai sulle danze folkloristiche. Poi mi venne voglia di imparare danza classica, quando conobbi una insegnante che era stata prima ballerina a Belgrado…Un altro giorno dissi “papà, ho capito di voler studiare flamenco”. E lui, che fino a quel momento aveva taciuto, sbottò. Avemmo una lunga discussione ma poi capì che ero in una fase di ricerca e sperimentazione. Alla fine mi sostenne. Anni dopo, addirittura fece da assistente alle mie lezioni. Fu anche un modo per ritrovarci…”
Che ricordi hai della tua famiglia?
“Ho avuto genitori presenti e affettuosi. Mi piace ricordare che si sono conosciuti e innamorati ballando, grazie a un tango di Carlos Di Sarli”.
Sei nato il 12 agosto del 1960. Nel 1976 un colpo di stato depose Isabelita Peron e consegnò l’Argentina alla dittatura militare di Jorge Videla...
“Ho brutti ricordi di quel periodo… (sospira) Una volta ero con due amici in una stradina di Buenos Aires, stavamo chiacchierando tranquillamente. All’improvviso arrivò la polizia. Gli agenti, senza dire nulla, ci picchiarono e ci maltrattarono a lungo…”
Naveira si ferma, prende un lungo respiro come a voler trovare la forza di continuare: “Poi ci portarono in un deposito che capimmo essere una stanza delle torture…Ci tennero lì tre ore…e quando pensammo di essere arrivati alla fine, i nostri aguzzini si stancarono di noi e ci lasciarono andare. Avevamo solo 16 anni…Fu un periodo orribile, ho assistito a molte violenze…”
La politica ti interessa?
“Sì, certo”
E per chi hai votato?
(Ride) “In questo momento non riuscirei a votare per nessuno…”
Cosa pensi del presidente argentino Mauricio Macrì?
“E’ un politico che non mi dispiace…ma a quanto pare, non riesce a risolvere nulla. Il paese ha gli stessi problemi di sempre: al netto delle promesse, non ha cambiato il corso delle cose”.
Era meglio Cristina Kirchner?
“No, è una persona che mi infastidisce…”
Il dilemma di un argentino: Maradona o Messi?
“Diego è stato un genio ma io sono affascinato da Messi, è di un altro pianeta”.
River o Boca?
“River, senza dubbio. E’ l’eredità affettiva di mio padre”.
Hai quattro figli di cui due, Federico e Ariadna, ballerini professionisti. Che rapporto hai con loro?
“Non sono stato un buon padre. Io e i miei figli non abbiamo problemi ma…non riusciamo a condividere molto tempo insieme, viviamo in paesi diversi…Posso dire che li ammiro, tutti e quattro, hanno capacità incredibili. Uno di loro sta provando a diventare calciatore: è nelle giovanili dei Colorado Rapids, nella Major League americana”.
Perché una persona dovrebbe iniziare a ballare tango?
“Per risolvere i problemi della vita moderna…”
Quali?
“La solitudine, la mancanza di riconoscimento, la dimensione sociale opprimente che porta le persone a sentirsi solo un numero. E poi regala l’appartenenza a un gruppo, la riscoperta del ruolo nella coppia, il gioco tra uomo e donna, l’approfondimento e la qualità della percezione, la profondità nella comunicazione con il partner. Nel 1983 pensai: ‘il tango durerà altri due o tre anni e poi passerà di moda’. Mi sbagliavo, per fortuna. Più il mondo si digitalizza, maggiore è il bisogno di incontrarsi davvero, senza la mediazione dello smartphone. Il ballo avvicina le persone e le spinge a fare qualcosa che oggi è molto complicato: le obbliga ad ascoltarsi. A diventare una cosa sola”.
Una parte del movimento femminista vede nel tango una forma di espressione machista, con l’uomo chiamato a “guidare” la donna…
“E’ una visione vecchia…e forse anche il femminismo è ormai superato...Il tango è un gioco di ruoli…E se questa dinamica viene equivocata non è colpa del ballo…”
Qual è la cosa più strana che ti è capitato di vedere in una milonga (la sala in cui si balla, ndr)?
“Ero a Buenos Aires, nella milonga “la Bristol”, e c’era questa coppia stretta in un abbraccio buffo, quasi antianatomico. Avevano le mani ripiegate sulla testa, labbra su labbra, danzavano incuranti di quelli che li guardavano allibiti. Si muovevano con una strana sincronia, irreale…Mai più visto nessuno muoversi in quel modo…”
Empatia, ascolto, tecnica: cosa serve per essere un bravo ballerino?
“La qualità principale è la capacità di percepire l’altra persona. Il miglior ballo è quello in cui ci si preoccupa di avvicinarsi all’altro. Se c’è questo, c’è tutto”.
In quale paese europeo si balla meglio?
“In Turchia, e non chiedermi perché. Hanno una buona tradizione di scuole, si applicano molto”.
E in Italia?
“I ballerini italiani, ma succede anche a Parigi, sono un po’ "saputelli". (Ride) C’è così tanto orgoglio che a volte è difficile correggere gli errori. Quando spieghi a un allievo “dovresti fare così…”, magari ti risponde “ah sì, lo so già…”. Tra i posti al mondo in cui si balla meglio c’è il Giappone che è stato un paese fondamentale nella storia del tango. Quando ancora non esistevano i circuiti europei e nordamericani, quasi tutti i ballerini argentini andavano a esibirsi a Tokyo”.
Chi sono, oggi, i migliori ballerini del mondo?
“E’ molto difficile fare nomi. Ce ne sono molti…”
Tu sei tra questi?
“In alcuni aspetti, mi sento uno dei migliori. Il problema è che per un ballerino, oggi, è difficile stare dietro alle evoluzioni del ballo. Le nuove generazioni migliorano rapidamente e con esse il tango stesso: c’è un’accelerazione nella qualità complessiva. Ci sono giovani ballerini che ti lasciano senza fiato. L’età è una componente importante, ovviamente. Dopo una certa età si diventa più lenti…”
Mariano “Chicho” Frumboli?
“Un fenomeno, forse il migliore della storia”.
Nel 1996 hai partecipato al film “Lezioni di tango”. Nel cast c’erano altri importanti ballerini come Pablo Veron e Fabian Salas. La pellicola ha contribuito, soprattutto in Europa, a rendere più popolare il tango. Qual era il clima sul set? C’era competizione tra voi?
“Abbiamo lavorato armonia, ci conoscevamo bene. Quello che ci ha distrutto è stato l’impatto con i tempi di lavoro del cinema: per filmare 10 secondi abbiamo aspettato 20 ore. Abbiamo affrontato giornate sul set anche di 18 ore...”
L’ultimo libro che hai letto?
“Un saggio sulla vita del maestro d’orchestra Carlos Di Sarli”.
Il tuo peggior difetto?
“A parte la panza, sono un tipo molto nervoso…”
L’ultima volta che hai pianto?
“Tre o quattro giorni fa. Ma non ti dirò mai perché…Piango spesso perché mi emoziono facilmente”.
Quante volte ti sei innamorato?
“Una”. (E guarda la moglie Giselle Anne, che gli risponde con un largo sorriso)
Quante donne si sono innamorate di te?
“(Risata imbarazzata) Nessuna…Dovresti chiederlo alle donne, io non lo so…(la moglie lo fulmina con lo sguardo)
Cos’è per te il tradimento?
“E’ una parola che non mi piace. Mi fa venire in mente il rigore militare, non la associo né alle persone né alle relazioni. Nella vita si cambia, è logico che le amicizie o le storie d’amore finiscano…Non c’è “tradimento” in questa trasformazione”.
Hai rimpianti?
“Avrei potuto comportarmi meglio con i miei primi due figli…L’ho capito tardi…”
Sei religioso?
“No”.
Credi in Dio?
“(Sospira pensieroso) Neanche…ma stamattina stavo ascoltando l’ultimo discorso di Papa Francesco. E’ una persona di spessore, mi piace molto”.
E cosa c’è dopo la morte?
“Nulla. Vale la pena preoccuparsi di ciò che facciamo nel mondo, quando siamo vivi, perché è ciò che resterà di noi”.
Se potessi tornare indietro nel tempo, c’è qualcosa che cambieresti?
(Si tocca la pancia) “Farei più ginnastica e mi terrei più in forma…”
Cosa c’è per te nel futuro?
“Spero di terminare il lavoro di ricerca per il tango, stare con mia moglie e aiutare i miei figli a trovare il percorso di vita che li renda felici”.
· Il potere del Gay Pride.
I cinquant’anni del Pride: orgoglio e diritti per costruire una società più libera. Nel luglio del 1969 a New York ci fu il primo Pride, nato dopo gli scontri con la polizia. Angela Azzaro l'8 giugno 2019 su Il Dubbio. Da quando sono nati i Pride, tante conquiste sono state fatte, tanti passi avanti messi a segno. Ma la strada da fare è ancora molta. Per questo ogni anno il rito si ripete con pari intensità. Nel 2019, come accade da diversi anni, il Pride italiano si articola in diverse manifestazioni che attraversano tutto il Paese, da maggio fino a settembre. È l’idea giusta che non serve solo un grande appuntamento, ma una visibilità diffusa, ancora più necessaria in quelle parti del Paese dove ancora resistono i pregiudizi. Questo sabato si preannuncia particolarmente intenso: scenderanno in piazza Roma, Trieste, Pavia, Messina, Ancona. Una festa dei diritti, dell’orgoglio, contro le discriminazioni. Nel luglio del 1969 – esattamente cinquanta anni fa – a New York ci fu il primo Pride, nato dopo gli scontri con la polizia. Nel locale Stonewall, frequentato principalmente da trans, le forze dell’ordine avevano la cattiva abitudine di fare irruzione, picchiando le presenti e arrestandole. La colpa? Erano considerate un problema di ordine pubblico solo per il fatto di esistere, di essere quello che erano. Ma quel giorno di 50 anni fa, Sylvia Rivera disse basta: si levò una scarpa e la lanciò contro la polizia, dando inizio alla rivolta. Una rivolta che non si è ancora fermata. Il gesto di Sylvia, morta nel 2002, è paragonabile a quello di Rosa Park per i diritti degli afroamericani: un gesto che riscatta una intera comunità discriminata. Da allora, molte scarpe sono state lanciate, molte rivolte, personali e collettive, sono andate in scena. Roma per esempio festeggia i 25 anni del primo Pride. All’inizio erano pochi, oggi le strade della capitale si riempiono perché tanta strada è stata fatta, tanta ne resta da fare. Finché un solo ragazzino o una ragazzina vengono presi in giro perché non sono eterosessuali, non ci si può fermare. Un altro anniversario ci aiuta allora a ricostruire questo mosaico della Storia, fatta di contraddizioni, di passi avanti e di pericolosi rigurgiti. Il 5 giugno di tre anni fa furono approvate le unioni civili. Dopo vari colpi di scena e il timore di non farcela ancora una volta, il governo Renzi mise la fiducia e divennero legge dello Stato. Lo stesso coraggio non ha poi avuto il governo Gentiloni quando si trattava di mettere la fiducia per far approvare lo ius soli temperato. La battaglia, portata avanti dalla senatrice dem Monica Cirinnà, ha già permesso a diecimila persone di unirsi civilmente uscendo da una condizione di clandestinità. La normativa ha consentito l’accesso a diritti fondamentali, come la reversibilità della pensione o la possibilità di avere accanto in ospedale il proprio compagno se si è malati. Ma ha consentito anche di affermare nel senso comune la “normalità” dell’amore tra due uomini e tra due donne, ha costruito un simbolico diverso. Purtroppo non basta. Sono tanti gli episodi di omofobia, tante le affermazioni che tendono a riportare indietro le lancette dell’orologio. Si deve lottare ancora, non solo perché le coppie che decidono di unirsi possano accedere al matrimonio vero e proprio come le coppie etero, ma per cambiare profondamente la cultura e la società. Il Pride è tutto questo: orgoglio, diritti, costruzione di una società diversa, in cui tutti e tutte siano più liberi. È così che nasce la connessione, sempre più forte, con una parte del movimento femminista. Quando leggete la sigla di chi partecipa alle manifestazioni, Lgbtq, non spaventatevi. Stiamo parlando di questa apertura. “B” per esempio sta per bisexual, “q” sta per queer, un movimento che è anche una disciplina universitaria e che, indipendentemente dalla traduzione letterale, significa nuove identità, nuove soggettività, cioè la possibilità per tutti di essere se stessi fuori dalla norma imposta. Il Pride è per tutti e tutte, per la libertà di essere sempre se stessi. Una buona ragione per continuare a lanciare la scarpa contro il potere.
Paolo Di Paolo per “la Repubblica - Edizione Roma” il 9 giugno 2019. Dire che ha scaldato Roma forse è troppo, considerando che a ciò ha pensato questo giugno partito afoso. Ma di sicuro l' ha colorata, rallegrata, rianimata - a cominciare da piazza della Repubblica, ormai spenta da tempo immemore. E forse la parola giusta è questa Repubblica - se si tratta di ciò che sta in comune, se questo esagitato carnevale civile (o civilizzante) pone ancora una volta il tema delle libertà individuali e collettive. Il canto Bella ciao, più volte intonato in versione remix, i cartelli ironici su Matteo Salvini, la presenza sindacale, tutto questo ha proiettato il Roma Pride su un orizzonte più largo: di orgoglio LGBT, ma anche antisessista, antirazzista, antifascista. La partecipazione del vicesindaco Bergamo, che ha insistito sulla necessità di " progredire nel riconoscimento dei diritti delle persone senza discriminazioni" ha contribuito al curioso côté istituzionale della manifestazione, con i carri sponsorizzati da case farmaceutiche, compagnie aeree, servizi finanziari. Grottesco, esagerato, l' inno al corpo sciolto tra canti, balli, cotillon, bolle di sapone diventava più direttamente politico con le mani rosse alzate al cielo contro l' omofobia. O con il cartello che sfilava accanto a un passeggino: "Se non ti accettano i tuoi, tranquillo, ti accettiamo noi". Con le grida di protesta e rivendicazione da nuovi figli dei fiori, con tanto di ghirlande di ordinanza: "Né Stato né Dio sul corpo mio". O ancora: " La mia libertà protegge la tua", che forse è la radice di ogni questione intorno ai diritti civili. E in questa battaglia in forma di pacifica sfilata, di processione laica con punte anticlericali, si sono ritrovate sullo stesso fronte generazioni diverse. Il tratto distintivo del Pride: il ragazzo muscoloso che si dimena sul carro in microslip, la drag che manda baci alla folla, la militante agé con la t-shirt partigiana o con il logo Cgil, coppie baldanzose di ogni età, ragazze in reggiseno, e in generale una valanga di giovanissimi. Con le loro bandiere arcobaleno, con gli slogan scritti addosso, con cartelli come " Meglio erotico che nevrotico" o " Tranquilla mamma sono bisex". I bersagli polemici, dal Papa gesuita al ministro dell' Interno (" Il vero coming out? I 49 milioni della Lega"; " Matteo, hai paura che ti piaccia?") netti quanto i modelli e gli idoli: da Freddie Mercury alla Carrà, da Amy Winehouse a chiunque si voglia orgogliosamente non conforme. Perché la posta in gioco è sempre questa: la differenza. La difesa della differenza. E mentre i camioncini dell' Ama immediatamente seguono il corteo, recuperando bottiglie di birra e spazzando via coriandoli, vedi allontanarsi questa comunità in lotta allegra contro i pregiudizi, con la sua trascinante vitalità, con il suo buonumore, e pensi che la politica è anche questo. Ce ne dimentichiamo; non se ne dimentica la folla del Pride, che si vuole « orgogliosamente diversa dalla vecchia politica » , o sarebbe meglio dire da una politica stanca, disincantata, plumbea. Tutto, insomma, fuorché vitale. Chi mangia voracemente la sua fetta d' anguria, chi si scola l' ennesima birra, chi saltella, chi fotografa, chi tiene le mani sulle orecchie di un bambino quando la musica diventa troppo alta, chi si mette a ballare in barba all' anagrafe, chi alza lo striscione (geniale) " CasaProud", con più o meno consapevolezza, in ogni caso con trasporto, contribuisce a una generosa incarnazione. L' incarnazione di un lemma politico evocato di solito con pessimismo o con eccesso di retorica: partecipazione. Per le strade della Capitale sonnolenta, arresa, sfatta, ieri passava un' onda di energia anomala, una scarica d' elettricità perfino divertente. Gente che partecipa! Non è mai cosa da poco. Non lo è nemmeno per chi - fra turisti disorientati o curiosi, fra automobilisti innervositi per le strade chiuse - ha fatto finta di niente o ha gettato un' occhiata più che perplessa. Perché dentro ogni città visibile c' è una somma di città invisibili. Città che spesso non hanno l' occasione, la forza, lo spazio per esistere, per essere riconosciute. Per renderle manifeste, per fare avere al mondo notizie di città discriminate, negate spesso con violenza, bisogna animare anche questo carnevalone chiassoso, coloratissimo, autoironico, sorridente. Un paradosso? Forse. Di sicuro, l' aspetto meno evidente nella scenografia su di giri è che si tratta di un lavoro politico. Ne trae vantaggio il ragazzino timido che, trascinato, contagiato dalla festa, si sente meno solo. Ne trae vantaggio anche chi se ne sta chiuso in casa, spaventato, temendo che il mondo non si accorgerà mai di lui, che non lo accetterà. Ne trae vantaggio perfino chi alza le spalle cinicamente, dimenticando che i diritti degli altri - come sa la quattordicenne che agita il suo cartello - proteggono i nostri.
Elisabetta Reguitti per il “Fatto quotidiano” il 9 giugno 2019. Valentina l'infanzia in seminario all'ombra del Cupolone, oggi studentessa. Attivista del Mit (Movimento identità trans), lavora in carcere e allo sportello per migranti Lgbt (Lesbiche, gay, bisessuali e transgender) di Bologna. Trans non è solo prostituzione ma può significare violenza di genere. Non a caso la madrina dell' edizione 2019 è Porpora Marcasciano figura storica del transfemminismo italiano, "si è detta trans" all' indomani dell' omicidio Pasolini, fu una vittoria con se stessa. "Che si tratti di una donna o di una persona Lgbt conta poco - afferma Valentina -. Le trans hanno il doppio stigma: quello di essere donne e di aver negato il patriarcato del loro sesso di nascita". Il protagonismo maschile gay detiene la parola e in fondo il potere. Roma, piazza Repubblica. Da una parte le bandiere dei sindacati per diritti del lavoro che non esistono più; dall' altra l' arcobaleno per i 50 anni del Gay pride (25 dell' edizione nazionale) per diritti che non esistono ancora. Mille sfumature di lgbt.
Mezzo secolo di Gay pride: Sylvia Riviera la transessuale simbolo del Stonewall, il bar gay in cui irruppe la polizia. Ieri la manifestazione che dall' esterno è per lo più folklore, anche l' eccesso di corpi esibiti. Quello che non appare invece sono le singole storie di vita. Una comunità che rappresenta un bacino elettorale vastissimo che spesso non vota neppure più, la sua politica attiva la pratica nei consultori. La comunità lgbt citata o strumentalizzata quando si tratta di evocare "nuovi" diritti civili. "È il vizio della parte istituzionale del movimento e della sinistra - il commento -. Si concentrano sui diritti civili dimenticando quelli sociali: welfare o lavoro. Diritti universali, che chiede la base". Tra chi ha partecipato alla manifestazione - Arcigay, Cgil, Anpi e Onfalos di Perugia -, la consigliera comunale M5S Maria Agnese Catini che si è augurata come Roma possa diventare la sede del World pride 2015. Presente il vice sindaco di Roma. "Abbiamo chiesto alla sindaca Virginia Raggi di presenziare, ma c' è stato detto che era all' estero, ma per estero intendevano il Vaticano, era alla messa del Papa invece di essere qui con noi", così uno degli organizzatori del Roma Pride. Fabrizio Marrazzo, portavoce Gay center chiede venga portata in Aula la proposta di legge contro l' omofobia presentata dalla stessa maggioranza. Nel corteo di Roma rimbalza l'eco del tweet scritto da Rafal Ziemkiewicz, giornalista di estrema destra della televisione pubblica polacca: "Bisogna sparare alle persone Lgbt", prima di aggiungere: "Non nel senso letterale, naturalmente, ma queste non sono persone di buona volontà o difensori dei diritti di nessuno, (il movimento è) una nuova mutazione dei bolscevichi e nazisti". Ieri i cortei ci sono stati in diverse città all' estero e in Italia, oltre a Roma, anche a Trieste, Ancona, Pavia e Messina. La fotografia della realtà trans appare meno sfocata solamente ascoltando: gli uomini trans sono invisibili nel senso che sono più tollerati, perchè passare dal genere femminile al maschile è meno traumatico sia da un punto di vista fisico, psicologico che sociale. Il corpo di una donna trans invece è più visibile, a volte scatena violenze. L' Italia per il numero di omicidi di persone transessuali è seconda (se si considera la Turchia) in Europa: 37 morti negli ultimi 9 anni, 4 nel corso del 2018.
Alberto Mattioli per “la Stampa” il 28 giugno 2019. Il Gay Pride non è più una notizia, ma quest' anno a Milano lo diventa. Certo: per la parata di sabato si prevede di superare il già cospicuo numero di presenze dell' anno passato, quando furono 250 mila. Le istituzioni cittadine collaborano. A partire da domani, Palazzo Marino, si illuminerà di luci arcobaleno. Il sindaco, Beppe Sala, non sarà alla gaia sfilata per impegni personali ma, giura, «troverò qualunque forma per far sentire la mia vicinanza». Anzi, ha già iniziato facendosi fotografare indossando un clamoroso paio di pedalini rainbow. Insomma, che Milano accolga a braccia aperte la settimana dell' orgoglio gay e il suo gran finale di sabato non è in discussione, e nemmeno una novità. Però è fuor di dubbio che in questo momento la circostanza diventi politicamente significativa. Il governo a trazione leghista non è esattamente gay-friendly, e questo Pride diventerà anche la risposta al contestatissimo congresso mondiale della famiglia di Verona, «solo che a Milano ci sarà molta più gente», chiosa Fabio Pellegatta, presidente del locale Arcigay. Un precedente c' è: domenica, a San Paolo, la sfilata di tre milioni di persone sull' avenida Paulista si è trasformata in una manifestazione di protesta contro l' omofobia del nuovo presidente, Jair Bolsonaro, e di sostegno alla recente sentenza della Corte suprema di Brasilia che ha equiparato l' omofobia al reato di razzismo (e che quindi potrebbe costituire un guaio giudiziario per lo stesso Bolsonaro). A Milano il Pride si salda poi all' atteggiamento sempre più insofferente verso il governo. La città sembra il villaggio di Asterix circondato dai romani ostili, in totale controtendenza com' è rispetto al resto del Paese su tutti i fronti: politico (qui vince il Pd, la Lega non sfonda e i 5S sono irrilevanti, anche se annunciano che almeno al Pride ci saranno con il loro carro), amministrativo, economico, nella visione dell' Europa e anche dei diritti civili. Intanto scendono nel campo arcobaleno le grandi multinazionali. La Nestlé annuncia che i suoi dipendenti (anzi, «le persone Nestlé», più gentile) sfileranno al Pride indossando le t-shirt con il marchio del gruppo realizzate appositamente per l' occasione: a oggi ne sono state distribuite quasi duecento. Idem la Coca-Cola, con la differenza che le magliette in edizione limitata vengono già vendute da volontari aziendali e il ricavato sarà versato alla campagna «Love Unites» che porta nelle scuole progetti educativi su omofobia e bullismo. I diritti sposano il business: si sa che i gay sono una clientela ambitissima. Steam, il più importante negozio online di videogiochi, ha introdotto l' etichetta «Lgbtq+» sui suoi giochi che parlano di temi legati al mondo omosessuale: per esempio, quelli che prevedono al possibilità di interperatre un personaggio gay o transessuale. Idem la moda: Ferragamo, Calvin Klein e Converse hanno lanciato collezioni «Rainbow». Ieri poi la ciliegina sulla torta arcobaleno è arrivata da Londra. Il principe William ha annunciato che troverebbe «assolutamente ok» che in futuro uno dei suoi tre rampolli si dichiarasse gay. Nella famiglia reale britannica ci sono illustri precedenti, ma mai dichiarati. Un gay sul trono, più Pride di così...
Francesco Borgonovo per “la Verità” il 28 giugno 2019. Era il gennaio del 2016. Sul Pirellone, il grattacielo che ospitava gli uffici della Regione Lombardia, comparve una gigantesca scritta luminosa: «Family day». In alcune stanze del palazzo era stata lasciata la luce accesa, in modo da comporre le varie lettere. Qualcuno, però, si mise d' impegno per rovinare il gioco. L' opposizione di sinistra, Partito democratico in testa, cercò in tutti i modi di boicottare l' iniziativa, ovviamente spegnendo alcune luci in maniera dispettosa onde rovinare la scritta. Le polemiche furono particolarmente aspre, anche perché di lì a pochi giorni, Milano avrebbe ospitato una manifestazione a sostegno del ddl Cirinnà sulle unioni civili. Questo episodio è facile da ricordare per via del curioso battibecco sull' illuminazione, ma dal 2016 a oggi di analoghe manifestazioni di intolleranza ne abbiamo viste con allarmante frequenza. Non c' è bisogno di scomodare l' indegna campagna diffamatoria allestita contro il Congresso delle famiglie di Verona, basta fermarsi nei dintorni di Milano. Ogni volta che in Lombardia è stata organizzata una manifestazione a favore della famiglia o della vita, si sono levate urla sguaiate da parte del fronte progressista e dei gruppi Lgbt. Nel novembre dello scorso anno, tanto per fare un esempio, Pd e 5 stelle tuonarono contro l' appoggio offerto dalla Regione Lombardia al solito Family day. La pentastellata Monica Forte si indignò particolarmente: «Patrocinio inopportuno», disse. «La Regione rappresenta tutti i lombardi, dalla famiglia tradizionale alle nuove famiglie ai single, con figli indipendentemente da condizioni personali come razza, cultura, credo o orientamento sessuale». Belle parole. Non si capisce perché, tuttavia, lo stesso discorso sulla rappresentatività delle istituzioni non valga quando si tratta di manifestazioni arcobaleno. Già: quando c' è di mezzo il gay pride, tutto è concesso. In quel caso, patrocini, sponsorizzazioni ed elargizioni sono sempre apprezzate e applaudite. Giusto pochi giorni fa il sindaco di Milano, Beppe Sala, ha pubblicato una foto che lo ritraeva con un paio di sgargianti calzini arcobaleno, manco avesse sbagliato candeggio e gli fossero usciti così dalla lavatrice. Il gesto, di per sé, era grottesco, il che rendeva ancora più irritante l'endorsement pro Lgbt. Sempre in nome dei diritti gay, Sala ha rinunciato ad almeno 200.000 euro di pubblicità che sarebbero finiti nelle casse pubbliche, solo perché non voleva levare le decorazioni rainbow dalla fermata della metropolitana di Porta Venezia. Adesso, non pago, il primo cittadino ne ha scodellata un' altra. «In occasione della parata conclusiva della Milano pride», fa sapere un comunicato stampa del Comune, «Palazzo Marino sarà illuminato con i colori della rainbow flag a partire da venerdì sera. Con questa ulteriore iniziativa l' amministrazione comunale manifesta il proprio sostegno, dopo aver concesso il patrocinio all' intera settimana della Milano pride». Non bastava il patrocinio, ci voleva anche la decorazione luminosa. Immaginiamo che, se qualcuno dell' opposizione protestasse con gli stessi argomenti utilizzati dal Pd per criticare l' appoggio al Family day, subito verrebbe accusato di razzismo e trattato da bigotto medievale. L' iniziativa del Comune, a quanto pare, è stata sollecitata dagli attivisti arcobaleno chiamati Sentinelli. «Poco c' importa quanto sia stato decisivo il nostro appello», hanno dichiarato ieri costoro. «Conta che i colori della bandiera arcobaleno illumineranno Palazzo Marino in questi giorni di avvicinamento al Pride. La politica è anche fatta di simboli. Questo per tanti di noi, aveva un grande valore». Non dubitiamo che per i militanti Lgbt si tratti di un segnale importante. Per tutti gli altri lombardi (e italiani), però, le cose stanno un po' diversamente. Il gay pride non è semplicemente una manifestazione contro la discriminazione degli omosessuali. Se così fosse, non ci sarebbe nulla da ridire. Il fatto è che la parata arcobaleno è a tutti gli effetti un evento politico, che quest' anno si pone pure in maniera piuttosto aggressiva. Tra le altre cose, gli organizzatori del pride milanese scrivono nel loro documento politico: «Rivendichiamo la necessità di iniziare un percorso di riflessione che, nel pieno rispetto della libertà di autodeterminazione e nella piena tutela delle persone coinvolte, porti anche in questo Paese ad un inquadramento che disciplini la gestazione per altre e altri». In sostanza vogliono che sia sdoganato l' utero in affitto, pratica proibita dalla legge e ripetutamente condannata da vari tribunali. Ci chiediamo: perché un Comune dovrebbe sponsorizzare una iniziativa politica che chiede di legalizzare la gestazione per altri? In questo caso le istituzioni non devono «rappresentare tutti», tanto più che c' è di mezzo una pratica vietata? Con la scusa del rispetto e dell' inclusione, i tolleranti capoccia del Pd offrono spazio e sostegno a un' ideologia pericolosa e liberticida. Ma nessuno può protestare, pena passare per omofobo. E allora andiamo avanti così, con l' esibizione di calzini e con le lucine colorate. In attesa che Sala, replicando un celebre gesto del suo predecessore Gabriele Albertini, si mostri in pubblico abbigliato delle sole mutande. A tinte arcobaleno, ovviamente.
Orgoglio gay? Ma per favore!!! Nino Spirlì, dichiaratamente Gay, Domenica, 30 giugno 2019 su Il Giornale. E di cosa dovrebbero essere orgogliose, le processionarie nevrotiche che hanno preso parte all’ennesimo carnevale gaio della Penisola? Dei loro slogan cafoni? Dei cartelli volgari? Degli attacchi a tutti coloro che non la pensano infangata e storta come loro? Delle bestemmie urlate per provocare? Delle offese alle Famiglie e alla gente perbene? Delle ingiurie ai governanti? Delle minacce a Salvini? Delle sozzerie che sono state dette indossate, scritte, mimate, cantate, fischiettate??? Cretini e ignoranti, sono caduti, ancora una volta, nella trappola ormai ultracinquantenaria dei veri omofobi: i loro presunti amici e sostenitori, i quali vogliono gli omosessuali stupidi, assolutamente dipendenti, vuoti di cervello e privi di senso civico, civile, politico, etico, religioso e morale. Insomma, dei fessacchiotti da “infinocchiare” (appunto!). Un plotone, un battaglione, un esercito di sceme da incipriare con qualche trovata mediatica (magari, con la diabolica complicità di qualche merlettaia televisiva), che le tenga sempre sotto il giogo di pochi furbacchioni, che li controllano e li spremono sia di soldi che di (eventuale) personalità. Scemi! Totalmente analfabeti di Italianità, la Virtù che da millenni ha colorato questo nostro Paese di omosessualità celebrata, osannata, beatificata perfino! Se sapessero Quanti e Quali omosessuali hanno onorato l’Italia! E come e quanto noi, Italiani perbene, Li ringraziamo quotidianamente. A volte, disconoscendo i Loro Nomi; spesso, invece, recitandoli quasi come litanie…L’Italia deve tanto, se non tutto, ai froci. E lo sa! Deve, l’Arte, la Scienza, la Filosofia, la Letteratura, la Politica e, perché no, la Fede. Non c’è una pennellata, un mattone, una scheggia di marmo, un verso poetico, una nota musicale, una decisione politica o una preghiera che non siano stati “creati” o “perfezionati” dalle sapienti Anime dei Grandi Ricchioni d’Italia. Discretamente, silenziosamente, con nobile distacco, nel fertile nascondimento. O, anche e perché no, nella dosata esposizione di sé: quel tanto che basta per non creare menzogna. Ma le pagliacciate (e mi perdoneranno i Grandi Pagliacci della tradizione circense italiana, amati nel mondo), quelle NO! Quelle non hanno mai prodotto nulla di buono e mai lo produrranno. Figuriamoci i gaypride! Hanno sciamato come cavallette, nelle scorse settimane e fino alle ultime ore, migliaia di scostumati e scostumate. Arrabbiati fino all’odio. Pronti, magari, a commettere persino reati, pur di imporre una norma che normale non è! Pretendere di negare la Legge della Vita, della natura, del Creato, non è solo un errore è una FALSITÀ! Siamo, infatti, uno differente dall’altro, in questa vita – e chi mai potrebbe pensare il contrario – ma la Regola dell’Esistenza la detta la natura stessa, Dio creatore. Oltre quella, solo cartastraccia ed esperimenti da laboratori senza etica, né morale! E, dunque, torniamo a vivere da umani, froci e non, ché di marziani in giro ce ne sono già troppi. Recuperiamo dignità, onestà e credibilità. A prescindere se quando ci amiamo o ci accarezziamo lo facciamo a coppia o a paio: quelle, da sempre, sono cosenostre! NinoSpirlì
“IL CALCIO FEMMINILE È UN COVO DI LESBICHE”. Da Il Messaggero il 28 giugno 2019. «Una donna che gioca a calcio è rispettabilmente, nella maggior parte dei casi una, lesbica». E poi: «Come l’uomo che gioca con le bambole o che fa il ballerino,nella maggiorparte delle ipotesi è rispettabilmente un omo». Ancora una volta il giornalista Sergio Vessicchio torna ad attaccare le donne nel mondo dello sport. Come aveva fatto qualche mese fa con un arbitro donna, il cronista già sospeso dall'Ordine dei Giornalisti è tornato a insultare il mondo femminile scrivendo sul sito calciogoal.it. Le parole di Sergio Vessicchio, telecronista di un’emittente di Agropoli, hanno fatto già il giro dei social. Proprio come gli insulti nei confronti della direttrice di gara Annalisa Moccia. Lei, fischietto di Eccellenza, era stata attaccata durante Agropoli-Sant'Agnello. Il presidente nazionale degli arbitri Nicchi aveva intrapreso un'azione legale nei confronti del giornalista. Ora si attendono nuove reazioni proprio mentre si stanno giocando i mondiali femminili in Francia.
Gaia Piccardi per Il Corriere.it il 28 giugno 2019. «Ma che fate...?». La prima a stupirsi, quando il vice c.t. Attilio Sorbi ha coinvolto i rarissimi uomini del gineceo Italia per lanciarla in aria appena ottenuto lo storico passaggio ai quarti del Mondiale, è stata lei. Bambina ubbidiente («Mio padre era un po’ brusco e forse anche un po’ autoritario ma alla fine mi ha sempre lasciato fare quello che volevo purché mi comportassi bene»), difensore roccioso (alla Linari), Milena Bertolini da Correggio, 53 anni compiuti alla vigilia di Italia-Cina e festeggiati la sera del match stappando vino bianco con i tifosi sotto l’albergo, alla fine si è evoluta nella donna ispirata dai suoi idoli. Ha la forza tranquilla con cui la finlandese Tina Lillak scagliava lontano il giavellotto («Quando facevo atletica mi piaceva tanto»), un buon senso quasi materno preso in prestito dalla giovialità emiliana di Carlo Ancelotti («Ha vinto tutto senza mai perdere di vista la persona»), conterraneo di Reggiolo, il coraggio di osare di Zdenek Zeman («Amavo il suo calcio propositivo al Foggia e la sua schiettezza») perché non è impresa banale blindare un’impermeabile difesa all’italiana (due gol incassati in quattro match, entrambi su rigore) senza farsi dare della catenacciara dal mondo. L’arma segreta dell’Italia sorpresa del torneo sta seduta in panchina senza trucco, ma con il tricolore preso in prestito dal sindaco di Reggio Emilia nella borsa. Lettrice onnivora («Da Baricco alla Murgia, dal calcio alla psicologia: mi piace spaziare per imparare»), persona riservata, selezionatrice preparatissima, Milena ha travasato in Nazionale il talento che allenava al Brescia arricchendolo delle competenze di Sorbi, l’uomo che amava le donne (mai visto un numero due così discreto, peccato perderlo: è destinato alla panchina dell’Inter femminile promossa dalla B), e di un personale vissuto ossigenato dalle montagne di Sassalbo, i Bertolini scendono da lassù, il luogo in cui il nonno aderì alle formazioni partigiane e l’Adalgisa, la mitica nonna piantata al centro del villaggio e del matriarcato, decise di calare in pianura a coltivare la terra. Terra fertile concimata dalle lotte operaie e dalle spinte riformiste: come Adalgisa era la rezdora della casa, Milena lo è della squadra. Aggiungi un posto a tavola per accomodare tutti, incluso lo zio Vincenzo, segretario del Pci locale. I primi morsi al pane e alla politica (è raccontato in «Quelle che il calcio», di cui Bertolini è co-autrice), poi ecco il pallone. L’erba non manca, i maschi da sfidare neppure. A Lemizzone di Correggio, all’inizio degli anni Ottanta, c’è questa ragazzina con i capelli rasati corti, che pur di giocare dice di chiamarsi Mario. Iniziare sotto mentite spoglie: una storia comune a molte azzurre, ed è proprio la condivisione di esperienze ad aver saldato il gruppo alla leader, che sa sempre quali parole usare senza forzare quello che le donne non dicono. Il Belloli-pensiero («Smettiamo di dare soldi a quattro lesbiche» fu l’infelicissima uscita dell’ex presidente della Lega Dilettanti, cui il calcio donne è appartenuto), come lo chiama Milena, non la turba. «Il calcio è l’ultima roccaforte dello sport maschile: quello è lo stereotipo dell’italiano-medio. Ai giovani stiamo cambiando la testa, a certi adulti ormai è tardi. Il paradosso è che Belloli oggi lo dobbiamo ringraziare: toccato il fondo, siamo ripartite». L’Italia che sabato sfiderà l’Olanda campionessa d’Europa siamo noi. La simpatia di Girelli, la serietà di capitan Gama, il pragmatismo di Bonansea, le idee chiare di Bertolini. «Sognavo di fare una bella figura al Mondiale, proponendo un calcio che appassionasse gli italiani. E spero che un giorno, anche grazie a questa Nazionale, le calciatrici possano definirsi professioniste». Ieri alla Camera, nel testo della legge delega, è entrato un emendamento che prevede pari opportunità tra uomini e donne nell’accesso al lavoro sportivo. Un minuscolo passo verso una rivoluzione che non può più attendere. Degna nipote dell’Adalgisa, la Milena da Correggio. Gustavo Bialetti per “la Verità” il 27 giugno 2019. Allucinazioni lesbo, come ultima frontiera della campagna Lgbt in continua caccia di voti. C' è del paranormale, ma anche del profondamente paraculo, nell' ultima zampata di Monica Cirinnà in tema di diritti civili. La madrina piddina delle unioni e dei matrimoni omosessuali ha visto in televisione il bacio di una calciatrice italiana con una ragazza, che poi era la sorella, e ha prontamente inneggiato all' effusione gay. Unica scusante (o aggravante, fate voi): nelle stesse ore la Cirinnà ha perso la madre, dopo una lunga malattia. Resta il fatto che il goffo infortunio sul bacio tra sorelle è rivelatore di un modo di condurre questa battaglia politica sui diritti gay che, anziché lavorare sui contenuti, sull' etica e sulla cultura, procede per strappi, sempre a caccia di presunti scandali che poi non scandalizzano davvero nessuno. Per non parlare di imbarazzanti coming out sui morti, come è successo per Franco Zeffirelli. Il bacio di Aurora Galli alla sorella, nella stessa immagine usata da Cirinnà su Facebook, è chiaramente sulla guancia. Può trarre in inganno il palmo della mano aperto sul viso, con il pollice appoggiato sullo zigomo, un gesto molto seducente, ma le due bocche restano ben lontane. La senatrice dem ha gioito con tanto di «orgoglio» (che è sempre quell' orgoglio lì, mai altro) e di emoticon arcobaleno. Ieri sera, erano 20 ore che il post sbagliato, che si riferiva addirittura a una partita precedente a Italia-Cina, collezionava un' alternanza di «like» e di prese in giro del tipo: «Monica, mettiti gli occhiali». Tecnicamente, il «bacio lesbo» della calciatrice azzurra è una fake news, come direbbero loro, ma il post è sempre lì. A noi va bene così, per carità: ci ricorda che la politica fatta dal divano di casa e con le lenti dell' ideologia finisce sempre nel ridicolo.
Simona Bertuzzi per “Libero quotidiano” il 27 giugno 2019. Casa Boldrini. Lo schermo acceso sulla partita Italia-Cina, segnano le azzurre, è Aurora (Galli) per tutti, Boldrini esulta, fantastiche ce l' avete fatta, un po' goffa forse nel tailleurino ministeriale con camicia fantasia senza esagerare, ma partecipe e generosa come il 99 per cento degli italiani che martedì pomeriggio hanno assistito al partitone e hanno goduto della volata verso i quarti di finale. Finisce lì? No perché la Boldrini per una volta è una qualunque e una di noi. Il maledetto fascino del mondiale, l' ansia che sale, e quelle ragazze semplici e immense che hanno sconvolto il mondo del calcio, mandato in tilt i tifosi maschi e hanno forza da vendere, passione, eleganza... Dunque la deputata di LeU posta il finale di partita e della sua personalissima esultanza su twitter. Il pezzo a questo punto potrebbe virare sul potere delle azzurre di prendere una ex presidente della Camera - che è stata portavoce dell' alto commissariato per i rifugiati dell' Onu, che ha l' espressione perennemente contrita e professorale, che non è mai smodata e mai sboccata, che disquisisce di Ong e «coscienza del limite» nelle politiche ambientali, che invoca rivoluzioni femministe e abbassamento dell' iva sugli assorbenti - e trasformarla in una simpatica tifosa da stadio convertita alla causa sportiva dalle mirabolanti imprese di Valentina Giacinti e Barbara Bonansea. Invece tocca raccontarvi della follia esplosa sui social contro l' ex presidente della Camera per quel tweet e quel video di sana esultanza calcistica. Un tiro al bersaglio come non se ne vedevano da tempo. Leggete i commenti: "Patetica", "da impettita presidente della Camera a tifosa esagitata da curva da stadio", "stava tifando per le africane forse? Raccapricciante!", "falsa come i minorenni della Sea Watch", "rischia di rendere antipatica la nazionale femminile", "il più grande spot sessista mai visto. Fingere interesse per il calcio femminile... squallore puro". Ai twittatori seriali andrebbe però detto che hanno rotto le palle. Il calcio è di tutti e per tutti e l' ideologia e la politica col pallone c' entrano nulla. Si può essere di Liberi e Uguali, di Fratelli di Italia, o persino del partito Marxista Leninista ma davanti alla Nazionale cambia poco. Tre milioni e 900mila spettatori hanno assistito alla partita l' altro giorno. Erano sei milioni per la disfida con la Grecia. Comprendiamo. La Boldrini col calcio c' entra poco. E ci ha abituato a ben altri toni. Giusto ieri discettava del sadismo del governo nella vicenda della Sea Watch. L' altro giorno dell' esportazione e del transito di armamenti verso nazioni coinvolte nel conflitto in Yemen. E quando parla di sport nazionale normalmente ne fa una questione di quote rosa e di discriminazione tra uomini e donne nella pratica sportiva. Ma se tifa la nazionale, se si concede un saltello scomposto davanti alla tv o grida "avanti, forza azzurre" vogliamo sinceramente farne una questione di stato? O pensare male di lei? Matti tutti. E brava la Boldrini tifosa. Noticina a parte merita invece Monica Cirinnà, esponente del Pd e firmataria della legge sulle unioni civili. La senatrice ha pubblicato sulla sua pagina Facebook la foto della centrocampista della Nazionale Italiana, Aurora Galli, che bacia un' altra ragazza. «La vittoria più dolce», ha scritto, «le nostre azzurre, il nostro orgoglio». Accanto alla foto, l' arcobolaneo delle battaglie per i diritti degli omosessuali e un cuoricino rosso. Hanno provato a spiegarle che quella bella ragazza sugli spalti era la sorella della Galli e non la fidanzata. Ma Cirinnà non ha fatto un plissé e ha reagito con la classica arrampicata sugli specchi: «L' immagine del bacio di Aurora Galli», ha detto, «indica felicità e orgoglio e come tale va intesa». Non ne dubitiamo. Almeno la partita avrebbe potuto azzeccarla. La foto era di Italia-Giamaica e non Italia-Cina. Ma sono dettagli.
INTESTARSI LESBICHE ANCHE DOVE NON CI SONO. Luciana Matarese per Huffingtonpost il 26 giugno 2019. Le Azzurre battono la Cina ai mondiali di calcio, la senatrice del Pd Monica Cirinnà pubblica sul suo profilo Facebook la foto della centrocampista italiana, Aurora Galli, che bacia una donna (la sorella) e si scatena un piccolo caso politico. A sollevarlo sono i Pro vita Toni Brandi e Jacopo Coghe, organizzatori, nel marzo scorso, del Congresso mondiale delle famiglie a Verona. “Per Monica Cirinnà - scrivono in una nota - l’omosessualità è un lavoro da portare a termine”. Il riferimento è al fatto che nella foto in questione Galli sta baciando sua sorella, ma la senatrice dem, mamma della legge sulle unioni civili, nel pubblicarla sul suo profilo, l’ha accompagnata con le immagini di un arcobaleno e un cuore e l’hashtag “LoveWins”. Un rimando - anche se non è scritto espressamente - all’amore omosessuale? Brandi e Coghe ne sono convinti e nella loro nota usano parole di fuoco. Per loro il messaggio della Cirinnà è un “epic fail” e “vergognoso utilizzare un evento sportivo che unisce tutti gli italiani per fare una becera propaganda ideologica basata pure su una fake news”. “Ma quale coming out, ma quale arcobaleno mondiale?” chiedono i due riferimenti dei Pro Life italiani per poi rivolgersi alla senatrice dem: “Lasci in pace le ragazze della nazionale di calcio e non rincorra i loro gusti sessuali, piuttosto festeggi e basta. Assurdo ricondurre tutto alla sua attività politica legata alle lobby Lgbt anche quando non c’entra nulla”.
Boldrini e Cirinnà, femministe nel pallone. Tifano le azzurre tra gaffe e show ridicoli. Per esibirsi sui social una esulta in video, l'altra vede un bacio gay tra sorelle. Felice Manti, Giovedì 27/06/2019, su Il Giornale. Le femministe nostrane finiscono nel pallone. Per un giorno chissenefrega degli immigrati sulla Sea Watch, delle fabbriche che chiudono, dell'economia che non riparte, dei problemi del Paese. Eh sì, perché i follower languono, lo strapotere di Salvini sui social si fa sentire, bisogna annusare l'aria. Qual è l'argomento del giorno? Ma le ragazze azzurre, no? Potenza della nazionale femminile di calcio, bella e vincente, che l'altro giorno ha spezzato le reni alla Cina. Donne, belle e vincenti. Quale migliore alchimia per strappare qualche like in più? E così Laura Boldrini ne ha combinata un'altra: l'ex presidente della Camera ha postato su Twitter un video dove si è lasciata andare «ad un'esultanza senza freni» nel suo ufficio alla Camera. Sullo sfondo le immagini delle azzurre che festeggiano il passaggio ai quarti di finale del Mondiale e lei che urla «Fantasticoooo!!! Ce l'abbiamo fatta». Ora, come presidente della Camera sarà stata anche brava, ma come attrice non vale granché. La maggior parte dei follower infatti l'ha sommersa di insulti. I più teneri? «Patetica, raccapricciante, ridicola». Non se l'è passata meglio la compagna di lotte Monica Cirinnà, che l'ha combinata più grossa. Ha pubblicato la foto di una delle giocatrici, la centrocampista Aurora Galli, mentre bacia una donna. «La vittoria più dolce. Le nostre azzurre, il nostro orgoglio», ha scritto la Cirinnà con tanto di cuoricino rosso e arcobaleno, simbolo del mondo omosessuale. E la rete è insorta perché è stato uno scivolone devastante, un epic fail per dirla con il linguaggio dei social. Eh sì, perché la ragazza che la Galli ha baciato non è la fidanzata ma la sorella. A scoprire l'arcano è stato Jacopo Coghe di Generazione famiglia, il capo dei cattolici ultraortodossi che da sempre combattono le istanze Lgbt. D'altronde il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. Se è vero che le donne sanno giocare a calcio, non è altrettanto vero che le femministe sappiano giocare con la rete.
«Gay convertitevi»: la battaglia di Folau contro la Federazione Rugby che lo ha licenziato. Pubblicato venerdì, 21 giugno 2019 da Silvia Morosi su Corriere.it. Un post omofobo su Instagram gli era costato il licenziamento da parte della federazione australiana di rugby. Israel Folau, 30 anni, estremo dei Waratahs, che con i Wallabies aveva raggiunto la finale della Coppa del mondo nel 2015, aveva pubblicato sui propri profili social, il 10 aprile, un post nel quale invitava gli omosessuali e altri cosiddetti peccatori (ladri, bugiardi, adulteri, idolatri, atei, ubriachi, e fornicatori) a ravvedersi, «diversamente l’inferno vi aspetta». Licenziato dal Rugby Australia, sta raccogliendo fondi per 2,1 milioni di dollari per perseguire una battaglia legale contro l’organo governativo. Folau, devoto fedele della chiesa evangelica, è stato riconosciuto colpevole di violazione del codice di condotta e privato del suo contratto con la federazione sportiva. «Voglio difendere il mio diritto di praticare la mia religione: una lotta che a oggi è costata finora a mia moglie Maria e a me oltre 100mila dollari in spese legali», ha chiarito Folau. «Il Rugby Australia ha un esercito di avvocati a loro disposizione e hanno già detto che useranno molte risorse per combattermi in tribunale», ricorda la Cnn. In seguito alla decisione della Federazione, Folau aveva già chiesto 10 milioni di dollari australiani, ovvero 6,2 milioni di euro, di risarcimento. In febbraio Folau aveva firmato un’estensione del contratto fino alla fine del 2022 e doveva svolgere un ruolo chiave nella campagna australiana per i Mondiali di metà settembre in Giappone. Nella sua azione legale, Folau sostiene che la rescissione del contratto, che gli costerà «i migliori anni» della carriera sportiva, è in violazione della legge sull’equità nel lavoro detta Fair Work Act, nella clausola secondo la quale « è illegale metter fine a un rapporto di impiego per motivi di religione», sostiene la Bbc. L'esternazione aveva spinto la federazione australiana a investire la propria commissione etica. In un comunicato la Aru ha definito il contenuto «inaccettabile. Non rappresenta i valori dello sport e costituisce una mancanza di rispetto verso i membri della comunità del rugby». Va ricordato che esternazioni del genere avevano già spinto la federazione a ritardare il rinnovo del contratto di Folau. A rispondere era stato anche Joe Marler, ex giocatore degli Harlequins Marler, con un post a sostegno della comunità LGBTQ.
Caterina Balivo, la battuta su Ricky Martin le costa l'assedio del mondo gay: addio Milano Pride. Libero Quotidiano il 20 Giugno 2019. Una vendetta gay bella e buona. Caterina Balivo doveva essere madrina del Milano Pride, ma non se ne farà nulla. La conduttrice televisiva, che doveva fare da madrina alla tradizionale parata dell'orgoglio Lgbt in programma per il 29 giugno, è infatti stata accantonata a seguito della polemica esplosa sui social e relativa ad alcuni commenti definiti "omofobi" e da lei fatti in passato. Lo comunicano sono gli organizzatori di "Milano Pride" sulla loro pagina Facebook. "La madrina di un Pride - spiegano - deve essere un fattore unificante. È chiaro che la nostra scelta - di cui ci assumiamo la responsabilità - ha suscitato molte perplessità e polemiche". "E poiché il Pride deve essere un momento di unità e uno spazio in cui tutti e tutte con le proprie differenze possano riconoscersi, abbiamo preso la decisione in accordo con Caterina Balivo di fare un passo indietro. La ringraziamo per la disponibilità e la sensibilità dimostrate in questa circostanza". Fra i commenti pronunciati in passato dalla Balivo e pesantemente criticati, l'epiteto di "frocio" riservato a Ricky Martin seppur in modo ironico. Disse infatti: "Sei bono anche se sei frocio". Chiara l'ironia, che però il mondo gay non ha voluto cogliere. Comunque, è la stessa Balivo che ha voluto fare un passo indietro. "Non ho mai pensato di poter scatenare delle reazioni così violente", scrive su Facebook, "sono da sempre al fianco della comunità LGBT e proprio per questo ho accettato l’invito degli organizzatori del Pride. Se la mia presenza diventa un elemento divisivo, d’accordo con gli organizzatori che ringrazio per la fiducia, rinuncio volentieri alla partecipazione alla manifestazione perché il mio desiderio è quello di portare un sorriso, esaltare l’armonia e l'amore che è quello che in molti (purtroppo ancora troppi!) fingono di non vedere. Spero ci sia un’altra occasione di incontro e, nel mio piccolo, continuerò a sostenere i diritti civili con passione e determinazione perché sono il vero passo avanti nella cultura del nostro paese".
Sinistra e drag queen: polemiche per il tweet del giornalista del Tg2. Pubblicato martedì, 11 giugno 2019 da Corriere.it. La sinistra operaia con il pugno alzato degli anni ‘50, ‘70 e ‘90 è diventata oggi una drag queen con i capelli arcobaleno mezzo nuda sugli stivali con il tacco alto: la vignetta di Improta rilanciata da Luca Salerno, giornalista del Tg2, sul suo account twitter ha scatenato la polemica. E poco dopo il giornalista ha cancellato il suo post. «Un giornalista del Tg2 usa il suo account twitter con una vignetta squallida e denigratoria. Che cosa ne pensano il direttore del tg2 e l’ad Salini? I dipendenti della Rai che vorranno potranno offendere il buon senso? Che cosa aspettano ad intervenire?», dichiara il senatore Pd Davide Faraone, capogruppo dem in Vigilanza. Sulla stessa linea anche un altro deputato dem, Ivan Scalfarotto: «Un dipendente Rai che spende pubblicamente il nome del Tg2 nel proprio nick twitta questa porcheria. Vorrei sapere cosa ne pensino il direttore del Tg2, l’ad della Rai Salini, il presidente della Vigilanza Barachini e ovviamente il governo a cui rivolgerò un’interrogazione».
Rai, per il giornalista del Tg2 l'evoluzione della sinistra finisce con le Drag Queen. Bufera sul tweet di Salerno. Scalfarotto, Pd: "Indegno che un dipendente Rai diffonda queste porcherie". E il direttore Sangiuliano lo fa rimuovere. Giovanni Vitale l'11 giugno 2019 su La Repubblica. Da quando per volere di Matteo Salvini alla guida del Tg2 è arrivato Gennaro Sangiuliano, in redazione è scattata la corsa a esibire non solo le proprie simpatie sovraniste, ma anche l'antipatia verso la sinistra. L'ultimo caso riguarda il cronista degli Esteri e conduttore del telegiornale delle 20,30 Luca Salerno, una decina d'anni fa portavoce dell'allora ministro della Difesa Ignazio La Russa. Giusto per ribadire da che parte sta, stanotte il giornalista ha pubblicato sul suo profilo Twitter una vignetta di scherno contro lo schieramento politico avverso ai leghisti. Titolo: evoluzione sinistra. Si vedono quattro uomini in sequenza, tutti col pugno alzato: il primo è un contadino con la vanga (sotto la scritta "anni 50"), il secondo un operaio in tuta da metalmeccanico ("anni 70"), il terzo un professionista in doppiopetto e copia dell'Unità sottobraccio ("anni 90"), l'ultimo una drag queen seminuda, in stivali viola e capelli arcobaleno (poggiata sotto la scritta "oggi"). Immediata la reazione del deputato dem e omosessuale dichiarato Ivan Scalfarotto: "Un dipendente Rai che spende pubblicamente il nome del Tg2 nel proprio nick twitta questa porcheria. Vorrei sapere cosa ne pensino il direttore del Tg2, l'ad della Rai Salini, il presidente della Vigilanza Barachini e ovviamente il governo a cui rivolgerò un'interrogazione". Una vignetta dal "chiaro significato omofobo e diffamatorio", attacca il segretario della Vigilanza Michele Anzaldi, invitando il numero uno di Viale Mazzini a sollecitarne la rimozione e a valutare "il danno di immagine per il servizio pubblico". L'ennesima bufera sulla Rai. Che non si placa neppure quando Salerno, pressato da ogni dove, decide di cancellare l'incauto "cinguettio". A rivendicare la "spinta" è Sangiuliano in persona: "Quando ho appreso del tweet del collega sono prontamente intervenuto per farlo rimuovere", spiega il direttore del Tg2, prendendo le distanze. "E' ovvio che non ne condivido né la sostanza né la forma".
Davide Turrini per Il Fatto Quotidiano il 12 giugno 2019. L’evoluzione della sinistra? Dal contadino degli anni cinquanta, passando per l’operaio degli anni settanta, dall’intellettuale (con l’Unità sottobraccio) degli anni Novanta, fino alla drag queen del 2019. Questa la vignetta “satirica” del disegnatore Mario Improta retwittata da uno dei conduttori del Tg2, Luca Salerno, che ha creato un gran polverone sui social. Molti utenti contestano il tweet parlando di vignetta “omofoba”, rispondono con parolacce rivolte al conduttore Rai, e segnalano di non voler più spendere euro per il canone. “Un giornalista del Tg2 usa il suo account twitter con una vignetta squallida e denigratoria”, afferma il capogruppo Pd in Vigilanza Rai, Davide Faraone. “Un dipendente #Rai che spende pubblicamente il nome del Tg2 nel proprio nick twitta questa porcheria. Vorrei sapere cosa ne pensino il direttore del @tg2rai, l’ad #Salini, il presidente @abarachini, e ovviamente il governo a cui rivolgerò un’interrogazione”, rilancia con un tweet il deputato Pd vicino alla causa LGBTQ, Ivan Scalfarotto. Chiamato in causa, è intervenuto il direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano: “Quando ho appreso del tweet del collega sono prontamente intervenuto per farlo rimuovere. E’ ovvio che non ne condivido nè la sostanza nè la forma”, ha spiegato. Così, tempo qualche ora e lesto Salerno, che sul suo profilo Twitter si descrive come “laziale estremista, italiano anomalo (…) qui solo opinioni personali e non del mio giornale”, cancella il tweet con il disegnino. A questo punto però l’indignazione social passa alla richiesta di scuse e a un suggerimento: apra un account slegato al Tg2 e, nel caso, dica quello che vuole. D’altro canto c’è anche chi prova a ironizzare. Qualcuno rivede la vignetta disegnando le diverse fasi dell’evoluzione dei giornalisti del Tg2 con nell’ultima casella un suino oppure l’evoluzione dei leghisti con una foto di un tizio con cappello da vichingo ad un raduno del Carroccio. A ruota segue la fine citazione da 2001 Odissea nello spazio, con Salerno rappresentato da uno dei primati che nei primi minuti di film spacca con un osso altre ossa animali, o chi ricorda che la vignetta non è offensiva perché “l’Onda Pride in tutta Italia rivendica DIRITTI PER TUTTI: donne, precari, lavoratori, disabili, migranti, poveri… molto meglio di come abbiano fatto sinora a sinistra”.
Drag queen all’evento per bambini patrocinato dal Comune: «La diversità va rispettata». Pubblicato martedì, 06 agosto 2019 da Corriere.it. La locandina promette «racconti senza barriere», storie per bambini e bambine «con le drag queen Priscilla e La notte brilla». Cremona, 5 agosto, appuntamento al Parco didattico scout di via Lungo Po Europa. Una serata per i più piccoli – organizzata da Arci Cremona con il patrocinio e la collaborazione del Comune – finita al centro delle polemiche. Ad alzare la voce per primo è Alessandro Zagni, consigliere comunale della Lega, che ha affidato a un post su Facebook il suo disappunto: «All’Arci Festa una drag queen intrattiene i bambini con i racconti senza barriere – ha scritto nelle scorse ore –, il tutto con il patrocinio e la collaborazione del Comune. Sono questi i riferimenti della sinistra per la crescita dei nostri figli?». Sotto al post, centinaia di commenti. C’è chi scrive: «Perché dovrei insegnare a mio figlio che può andare in giro vestito come una donna? Perché è questo il messaggio che arriva ai bambini, e cioè che sono maschi ma si possono vestire da donna e atteggiarsi come una donna» e chi commenta: «Ma perché no? Potrebbero essere persone fantastiche, forse aiuterebbero a non diffidare e a non giudicare sempre il diverso». Gli organizzatori della serata rispondono poche ore dopo con una frase di Paulo Freire: «Nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, gli uomini si educano insieme, con la mediazione del mondo», poi precisano: «Crediamo che le diversità siano una realtà inevitabile da riconoscere e rispettare. Possiamo scegliere come vivere il nostro rapporto con le diversità: amare il prossimo, per noi, non prevede discriminazioni o pregiudizi. Il bene degli altri è anche il nostro e la felicità è un presupposto irrinunciabile per relazioni sane, aperte, umane». Zagni aggiunge: «Non ho nulla contro lo spettacolo e men che meno contro le drag queen. Semplicemente ritengo che il patrocinio e il contributo del Comune sia fuori luogo, tutto qui. Personalmente credo che l’accettazione della diversità, che va insegnata, non debba passare attraverso momenti come questo, ma piuttosto attraverso percorsi più strutturati». Dal Comune di Cremona dicono: «Abbiamo dato il patrocinio alla manifestazione nel complesso, ad Arci Festa, come avviene da anni. Non entriamo nello specifico del programma di ogni singola iniziativa prevista».
Cecchi Paone: "La nazionale femminile? Almeno la metà sono lesbiche". Il giornalista difende il calcio femminile ma rivela che le calciatrici azzurre non fanno coming out perché “in un mondo maschilista hanno un problema in più rispetto all’uomo gay”. Alessandro Zoppo, Martedì 11/06/2019, su Il Giornale. Dopo l’esaltante esordio della Nazionale al Mondiale con la bellissima vittoria per 2-1 contro l’Australia, il calcio femminile sta ottenendo attenzione e consensi. Tra i primi a tesserne le lodi c’è sempre stato Alessandro Cecchi Paone. Il giornalista e divulgatore tv è intervenuto da Giuseppe Cruciani a La zanzara su Radio 24 per rivendicare ciò che predica da anni. “Ora – dice Cecchi Paone – tutti zitti a chiedere scusa. Per anni ho sostenuto il calcio femminile e l’ho difeso dai dirigenti federali che lo hanno attaccato dicendo che il calcio non era per le donne, lo spogliatoio e queste cose qui...”. Ma nel corso del suo intervento radiofonico, Cecchi Paone si lascia scappare anche alcune confidenze sulle Azzurre che stanno incantando il Paese alla Coppa del Mondo in Francia.
Cecchi Paone: “Le calciatrici lesbiche hanno un doppio problema”. “Ci sono – confessa Cecchi Paone – molte più donne lesbiche nel calcio femminile che gay in quello maschile. Da anni aspettiamo il coming out di un calciatore, ma dopo il Mondiale ci sarà il coming out di intere squadre femminili. In una squadra almeno la metà sono lesbiche e ovviamente non lo dico in senso negativo. Le ho sempre protette. Sono lesbiche perché c’è una componente maschile in alcune donne lesbiche che trova sbocco in ambiti che una volta erano solo maschili. E questo discorso vale anche per la Nazionale. Alcune le conosco”. Sul perché non si faccia semplicemente coming out, Cecchi Paone ha le idee chiare. “Perché – spiega – in un mondo maschilista hanno un problema in più rispetto all’uomo gay. Hanno un doppio problema”. “Nel calcio femminile – conclude il giornalista – c’è una notevole rappresentanza e ci sono dei settori dove l’orientamento sessuale ha una sua importanza, un peso. Leonardo da Vinci se non era gay non faceva quello che ha fatto. Aveva un tratto e una sensibilità, i modelli erano i suoi compagni o fidanzati. Leonardo è un genio universale, non italiano ed è fondamentale che sia gay. E Michelangelo se non fosse stato gay non avrebbe fatto in quel modo la Cappella Sistina o non faceva altre opere come le ha fatte...”.
“IL GOVERNO E’ PIENO DI OMOSESSUALI IPOCRITI, SE PARLASSI DI QUELLO CHE SO…” Da Radio Cusano Campus l'11 giugno 2019. Imma Battaglia, attivista LGBT, è intervenuta ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta” condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano.
Sul matrimonio con Eva Grimaldi. “E’ avvenuto nella stessa giornata di Meghan e Harry, ma è stato assolutamente casuale –ha affermato Battaglia-. Sia io che Eva siamo rimaste piacevolmente soprese dell’effetto onda che ha avuto. Ci abbiamo pensato tanto se tenere la cosa in un ambito privato o renderla pubblica. Siccome alla fine sono sempre gesti importanti in un Paese in cui a volte hai la sensazione di tornare indietro, la visibilità di una storia d’amore consolidata e funzionante è un modello positivo. Siamo felici di avere avuto tutta questa partecipazione. Il video del matrimonio ha avuto 3 milioni e mezzo di visualizzazioni. L’altro giorno ci hanno fermato per strada degli americani che avevano visto il video”.
Sui pride. “Io non sono vittimista – ha dichiarato Battaglia -. Esiste un fatto. Quando i governatori continuano a voler puntualizzare che esiste un unico modello di famiglia, c’è sempre bisogno di ricordare che la famiglia è il luogo dell’amore e dell’accoglienza. Quando loro smetteranno di dire certe cose, noi smetteremo di ribadire che siamo tutti uguali. Quest’anno ci sono stati 40 pride, l’Italia è stata invasa, evidentemente c’è ancora un bisogno molto forte delle persone di sentirsi libere e rispettate. Il gay pride a Roma è stato un grande successo, persino io sono rimasta sorpresa. C’erano le ambasciate di tutto il mondo, c’erano le aziende. E’ molto divertente quello che ha fatto Netflix, un inno al gay pride, un augurio per il mese dei pride attraverso una parodia molto simpatica. I gay pride possono solo fare bene. Davanti alle svastiche, le magliette nere e le teste rasate un gay pride fa bene a tutti, anche a loro, dovrebbero partecipare tutti perché il mondo è meglio a colori che in nero”.
Sul governo. “E’ pieno di omosessuali ipocriti in questo governo. Quando sei un personaggio politico, credo che la doppia vita, le ipocrisie politiche non siano tollerabili. Quando sei parte di una comunità come quella Lgbt vieni a sapere alcune cose, potrei parlare di fatti e dimostrare certe ipocrisie, ma non lo faccio perché non mi interessa e non l’ho mai fatto. Ma soprattutto i personaggi pubblici devono rendersi conto che sono dei simboli e quello che fanno viene emulato o considerato un’ufficializzazione degli stati d’animo. Se io sono razzista e un politico anche, mi sento legittimato. Bisogna avere un minimo di senso di responsabilità. Salvini bacia il rosario, ma il suo vissuto personale è in totale contraddizione con quei valori. Salvini ha partecipato al congresso di Verona, portatore di istanze omofobe e Salvini non si è dissociato, anzi tutt’altro”.
Sugli insulti a Falcone e Borsellino nella trasmissione "Realiti" su Rai 2. “Adoro Enrico Lucci, ma trovo gravissimo dare spazio a modelli negativi, culturalmente sbagliati. Falcone e Borsellino sono vittime punto. Quando si raggiunge un livello così basso nella comunicazione e nei media ci rimettiamo tutti. Sono ancora titubante rispetto all’effetto che le serie come Gomorra e Suburra hanno sui giovani. Il mito dell’eroe maledetto purtroppo esiste. Quando un delinquente in una narrazione diventa un mito penso che stiamo sbagliando qualcosa”.
Matteo Vincenzoni per Il Tempo il 25 Giugno 2019. Tira aria di tempesta sulla comunità Lgbt cittadina, un muro d’acqua, un acquazzone di veleni e rancori che rischia di oscurare, almeno a Roma, perfino l’arcobaleno, i cui colori sono diventati la bandiera dei movimenti per i diritti degli omosessuali. Perché ora, ad aprire una ferita tra Gay Village e Qube - le due grandi realtà della movida unite fino allo scorso anno dalle scatenate serate della "Muccassassina" – c’è il fallimento della prima e la volontà della seconda di trarre un vantaggio dal quel fallimento, «un tentativo di fare denaro sulla fama degli altri», come ci ha sinteticamente spiegato Imma Battaglia, fondatrice del Gay Village e icona della lotta per i diritti civili del movimento Lgbt (lesbiche, gay, bisex e transgender). È tutto concentrato in queste sue poche parole il risentimento verso l’apertura, all’Eur, quest’anno, del "Village", sorto al posto del suo "Gay Village", tempio della movida omosessuale "edificato" 18 anni fa a Testaccio, cresciuto negli ampi spazi verdi a ridosso della via Cristoforo Colombo e tornato solo la scorsa estate all’interno della "Città dell’Altra economia", nell’ex mattatoio di Roma, per la sua ultima, sfortunata, stagione. E sì, perché tra i motivi del crac finanziario del Gay Village ci sarebbero anche due giorni di pioggia, due serate in cui l’evento, svolgendosi all’aperto, è rimasto chiuso. E dalle sue ceneri, a tempo di record, è sorto il "Village", che ha sì fatto a meno della parola "gay", ma ha comunque conservato i colori dell’arcobaleno nel logo. Tanto è bastato per mandare su tutte le furie Imma Battaglia. Il "Village", infatti, non ha niente a che fare con quella storica realtà, né ha alcun legame con le società Extralive srl e GaviE20, entrambe fallite tra il 2018 e il 2019 e riconducibili a Imma Battaglia, che della prima è stata proprietaria con una quota del 25 per cento e della seconda è stata prima vice presidente del consiglio d’amministrazione, poi consigliere delegato fino a quando la società è stata messa in liquidazione. Tra i soci del "Village" compare invece un altro protagonista della movida romana: il suo nome è Shlomo, patron della discoteca Qube di Portonaccio, che da 15 anni, durante la brutta stagione, ospita la serata itinerante Muccassassina, ideata nel 1991 come autofinanziamento del Circolo di cultura omosessuale Mario Mieli, di cui la stessa Imma Battaglia è stata presidente per cinque anni, dal 1995 al 2000. Il signor Shlomo, insieme ai suoi soci, ha dunque fiutato l’affare e si è dato da fare per offrire alla movida romana, orfana del Gay Village, un’alternativa che potesse essere apprezzata in particolar modo dal mondo omosessuale. E in questo, non c’è niente di male. Ma Imma Battaglia, evidentemente, non la pensa così. L’astio e le frecciatine, fino ad ora, erano state tenute sottotraccia, lasciando che sui social e sui blog si autoalimentasse il chiacchiericcio della comunità Lgbt. E sarà anche per questo che Shlomo – pur non chiamato direttamente in causa dalla Battaglia, ma stuzzicato in merito da Il Tempo – ha preferito non replicare, spiegando di «non accettare provocazioni», ma ha anche sottolineato che «usare come scusa la vicinanza dei nomi tra un’ex realtà ed una nuova - Village invece di Gay Village - non è sufficiente. Anche perché - ha aggiunto - il Gay Village non esiste più semplicemente perché è fallito». Un fallimento che scotta, soprattutto e comprensibilmente per l’orgoglio o il "pride" di Imma Battaglia, che sul triste epilogo finanziario delle due società ha preferito far melina, portando piuttosto il discorso - e quindi il motivo della mancata apertura, quest’anno, del Gay Village - sulla sua recente unione civile con Eva Grimaldi. «Un matrimonio – ha spiegato – a cui si è dovuta dedicare a tempo pieno», tanto da costringerla a «prendersi un anno sabbatico» dagli oneri dell’organizzazione della nuova stagione del Gay Village. Ma perché è fallito il Gay Village? A parte le due sfortunate serate di pioggia dell’estate 2018, che avrebbero causato mancati incassi per 95mila euro, i motivi del crac sono messi nero su bianco dagli amministratori della Gavi E20 Srl sulla "nota integrativa al Bilancio di esercizio", chiuso al 31-12-2017. La "debacle" sarebbe dunque iniziata l’anno precedente, nel 2016, e continuata nel 2017 addirittura per colpa dell’Isis. Leggiamo: «La causa principale della perdita - scrivono - è da imputare al calo di fatturato pari a -25 per cento rispetto al 2016, di circa 633.670 euro, da imputare essenzialmente ad una minore presenza di pubblico pagante, che ha portato ad una contrazione del 28 per cento dei corrispettivi da botteghino e da somministrazione di bevande, solo parzialmente compensato da maggiori introiti da sponsorizzazione. Un calo di presenze di pubblico pagante - spiegano - riscontrato anche con altre realtà dell'Estate Romana tra il 20 per cento e il 30 per cento, risultando quindi negativamente in linea con gli andamenti di settore». La crisi c’è, ed è noto, soprattutto nella Capitale, con il suo «stato economico particolarmente delicato con dati macroeconomici che evidenziano come il Pil pro-capite sia sceso del 15% nel periodo 2008-2016; tale andamento negativo - si legge ancora nel documento - ha effettivamente portato ad un ridimensionamento della capacità di spesa dei singoli utenti, in particolar modo verso il pubblico di riferimento, tra i 18 e i 30 anni».
Ma andiamo avanti, perché la lettura della documentazione contabile riserva una sorpresa. La colpa della fine della gloriosa stagione del Gay Village sarebbe da imputare anche all’Isis. Nientepopodimeno che al califfo nero del sedicente Stato islamico, Abu Bakr al-Baghdadi. Leggiamo: «Tra le possibili cause di un calo così consistente e inaspettato, possiamo sicuramente annoverare: il susseguirsi di attacchi terroristici in Europa e nel mondo che hanno preso di mira grandi eventi e le capitali europee (vedi Manchester Arena del 22/05/2017, oltre a Londra del 03/06/2017 e Barcellona del 17/08/2017)». Non meno avrebbero pesato i «disastrosi eventi di Piazza San Carlo a Torino del 03/06/2017 in cui durante un evento con 40.000 tifosi si sono verificati gravi incidenti». Anche l’Estate Romana, insomma, avrebbe risentito di questo clima di «maggiore insicurezza» diffusosi in Italia e nel resto d’Europa. E di conseguenza ci si sarebbe messo pure il numero uno della Polizia di Stato, Franco Gabrielli, «con provvedimenti di "safety and security" straordinari che hanno portato non solo a maggiori costi, ma anche a misure più stringenti sul pubblico, alimentando una spirale di insicurezza nei confronti dei grandi eventi». Eppure, nonostante il fallimento del Gay Village, il futuro della movida Lgbt non sembra davvero a rischio: da una parte perché il fuoco amico della concorrenza ha dimostrato come, davanti ai colori dell’arcobaleno, la parola "gay" possa anche essere superflua, dall’altra perché, ma queste per ora sono solo voci, dicerie, pettegolezzi interni alla comunità gay-lesbo romana, il marchio o il brand "Gay Village", potrebbe essere presto ceduto. Imma Battaglia non ha confermato questa ipotesi. E abbassando la voce, al telefono, ha aggiunto di non poter dire di più. Che la cessione del brand possa essere l’ultimo atto della gloriosa stagione scenica del Gay Village, è infatti un’ipotesi che ha suggerito lo stesso Shlomo - ma che ha anche una sua logica finanziaria, visto il valore sociale e artistico di un evento che nel corso degli anni ha saputo richiamare giovani anche al di fuori della comunità Lgbt - domandosi: «Cosa altro potrebbe inventarsi, del resto, il curatore fallimentare, per salvare il salvabile?». Aspettando che torni di nuovo a splendere l’arcobaleno, che il Gay Village, come una fenice, risorga dalle sue ceneri, l’augurio è che il tarlo velenoso del pettegolezzo lasci stare la comunità gay-lesbo. Anche perché la bandiera con i colori dell’arcobaleno, prima di essere quella del Gay Pride, è un simbolo di pace, speranza e serenità. Alla faccia di Abu Bakr al-Baghdadi, naturalmente.
· Media, intrattenimento e LGBTI.
Ma almeno al cinema essere gay è "Normal". Al Festival di Berlino si presenta il documovie sull'identità sessuale firmato da Adele Tulli. E dopo "Zen su ghiaccio sottile", sul mondo dell'hockey, è in arrivo "Uno, due" che rompe il tabù nel mondo del calcio, scrive Fabio Ferzetti l'8 febbraio 2019 su L'Espresso. E il cinema intanto non sta a guardare. Se la politica rende la vita difficile alla comunità Lgbt, autori e festival promettono di tenere alta l’attenzione su un mondo tanto fragile quanto ricco di storie, personaggi, sfaccettature. Che fra l’altro potrebbero essere una benedizione per un cinema asfittico e ripetitivo come il nostro. Prima che politico infatti il problema è culturale, come ci ricorda il documentario di Adele Tulli presentato in questi giorni al Festival di Berlino, “Normal”. Una riflessione sui mille condizionamenti destinati a formare l’identità sessuale che tra scuola, mass media, religione, industria del divertimento, ci accompagnano dall’infanzia all’età adulta. Forgiando un’idea di “normalità” che non lascia molto spazio alla libertà individuale. Anche per il cinema dunque la battaglia si annuncia lunga. «Produrre un film a tema Lgbt è ancora complesso in Italia», testimonia la regista Irene Dionisio, da tre anni alla guida del Lovers Film Festival di Torino (24-28 aprile), primo festival gay d’Italia, fondato nel lontano 1986 da Ottavio Mai e Giovanni Minerba col battagliero titolo di “Da Sodoma a Hollywood”. «Ma le cose stanno cambiando. Nascono autori come Margherita Ferri», autrice del sorprendente “Zen su ghiaccio sottile”, ruvida storia di una adolescente lesbica bullizzata dai suoi compagni di hockey, «e altri come Fabio Leli, capaci invece di maneggiare temi forti come l’omofobia con le armi dell’ironia, come si vedrà in “L’unione falla forse”»,uno dei film in cartellone quest’anno al Festival. «Ma c’è anche chi si prepara ad aggredire tabù quasi inviolabili in Italia come le questioni di genere nel mondo dello sport. È il caso di Carlo D’Acquisto e Lorenzo Donati, autori di un copione vincitore del Premio Querelle a Torino ambientato nel mondo del calcio, “Uno, due”, attualmente in preproduzione». E chissà se farà lo stesso rumore provocato dal coming out della pallavolista Paola Egonu. Sembrano finiti insomma i tempi in cui i film a tema gay passavano per forza attraverso il filtro rassicurante della commedia, da “Io e lei” di Maria Sole Tognazzi a “Mine vaganti” di Ferzan Ozpetek al più recente “Puoi baciare lo sposo” di Alessandro Genovesi. Anche se forse è presto per dirlo. Il successo di “Chiamami col tuo nome” di Luca Guadagnino ha rivelato l’esistenza di un vasto pubblico attento al binomio eros & qualità, ma brucia ancora il ricordo del polemico tweet lanciato dai distributori - orgogliosamente gay - di “120 battiti al minuto”, il bel film sull’Aids di Robin Campillo premiato a Cannes e disertato nelle sale italiane («Ve lo meritate Adinolfi»...). «È che la comunità Lgbt è stanca di vedersi rappresentata in chiave vittimistica», riflette Irene Dionisio. Anche per questo in materia di omofobia prevalgono film provenienti da altri paesi. Non che manchino le reazioni, sia chiaro. Il Lovers ad esempio si prepara a festeggiare il 25 aprile con una giornata di “Esercizi di resistenza (e di resilienza)” organizzata con associazioni Lgbt di tutta Italia per imparare a opporsi «fisicamente» al rigurgito di intolleranza. Mentre fra gli eventi in cartellone spicca un focus internazionale, “Corpi negati”, titolo di punta “Rafiki” della keniota Wanuri Kahiu, grande evento all’ultimo festival di Cannes, storia d’amore tra due ragazze in un paese in cui l’omosessualità è vietata per legge. Stranamente, si fa per dire, ancora senza distribuzione in Italia.
«Ero il guru degli omofobi, oggi vi dico: noi gay dobbiamo vivere liberi». Parla David Matheson, l'ex teorico delle "terapie riparative". «Ci credevo davvero, ma era tutto falso», scrive Francesco Lepore su L'Espresso l'8 febbraio 2019. È sempre stato attratto dagli uomini. Ma è stato sposato con una donna per 32 anni. E per più di vent'anni come terapista ha cercato di convincere centinaia di persone con tendenze omosessuali che seguire il suo esempio era l'unico modo giusto per vivere. Oggi David Matheson, psicologo, mormone, pupillo di quel Joseph Nicolosi che ha fondato l'associazione per "lo studio e la terapia dell'omosessualità", ha cambiato clamorosamente idea. E a L'Espresso in edicola da domenica 10 febbraio e già online su E+ racconta: «Oggi credo che nessuna terapia dovrebbe basarsi sull'idea che l'omosessualità sia un disturbo che può essere curato». Dopo essere diventato un punto di riferimento mondiale per fondamentalisti cristiani (cattolici compresi) e partiti omofobi di destra, Matheson ha capito che le "terapie riparative" sono un errore. Che ognuno deve essere libero di vivere la propria sessualità come crede. In questa intervista esclusiva all'Espresso Matheson racconta che cosa lo ha portato a cambiare idea. E come vive oggi, nel mezzo della tempesta che la sua conversione ha provocato: «Sono oggetto di rabbia, odio, paura, sfiducia da entrambe le parti: quella dei gruppi degli ex-gay e quella della collettività Lgtbq». E deve fare anche i conti con i sensi di colpa perché il suo libro "Journey into Manhood", alla base di programmi di terapia riabilitativa usati anche in Italia, «ha finito per danneggiare alcune persone». Fino a spingere al suicidio. Ha ritirato i suoi libri dalla vendita su Amazon. Ha lasciato la moglie. E ha dichiarato su Facebook la sua omosessualità. Discriminazioni, violenze verbali e fisiche. Questa settimana la nostra copertina la dedichiamo alla mappa di un'Italia feroce e dell'odio: negli ultimi mesi sono cresciuti in maniera impressionanti gli attacchi e i raid contro gay e trans e nel frattempo la legge contro l'omofobia affonda nelle Aule del Parlamento con la maggioranza che non ha alcuna intenzione di farla approvare.
Da “Circo Massimo – Radio Capital” 4 febbraio 2019. "Il denaro è l'unico strumento di libertà. E chi paga comanda": fanno ancora discutere le frasi di Daniela Santanchè, protagonista dell'incontro con i bambini di 'Alla lavagna', trasmissione in onda su Rai3. A Circo Massimo, su Radio Capital, la senatrice di Fratelli d'Italia non arretra: "La mia è stata una lezione molto chiara, capisco che per voi uomini è più difficile da comprendere. Volevo dire che il denaro è uno strumento che rende le donne libere. Sappiamo benissimo che fin quando le donne non hanno un'indipendenza economica purtroppo non possono essere libere di scegliere", dice Santanchè a Massimo Giannini e Jean Paul Bellotto, "Non ho fatto un discorso da donna di destra: è lo stesso che facevano le femministe, che mi facevano due palle tante parlando di libertà e di indipendenza economica. Poi io dico una frase banale e viene manipolata. Le donne hanno dovuto subire e sopportare scelte perché non erano libere da un punto di vista economico, perché non essendo libere dovevano sottomettersi al marito, al padre o ai fratelli. È stata una manipolazione di una frase. Se lo diceva una di sinistra invece era una stragiusta". Per la senatrice "non è soltanto il denaro che rende libere le donne: il denaro è uno strumento molto importante di libertà e di indipendenza. E chi dice il contrario è una persona falsa". E il 'chi paga comanda'? "Mio padre, ottavo figlio di contadini, ha insegnato a me e mia sorella a pagare i conti. Tempo fa sono andata a colazione con il direttore Feltri, e finito il pranzo sono andata a pagare il conto. Lui mi ha detto forse è la seconda volta che mi succede. Perché se io e lei andiamo a pranzo devo dare per scontato che il conto lo paghi lei? Penso che chi paga il conto a me ha un privilegio enorme, perché è una mia scelta decidere se fargli pagare il conto o no. Capisco che 'chi paga comanda' è una frase cruda, ma è vero. Le donne devono cominciare a capire, anche quando si separano, che i mariti non sono dei bancomat". Ma a questo punto non c'è il rischio che una bambina che ha una mamma che non lavora la guardi come una sfigata? "No, perché il lavoro non c'è. Io voglio insegnare a quella bambina che deve farsi il mazzo, deve studiare, avere delle ambizioni, deve essere libera, e per essere libera il denaro serve per l'indipendenza". Santanchè poi attacca le femministe ("ci hanno fatto perdere tutti i privilegi, nessuno ci porta più le borse e nessuno ci apre più la porta") e risponde alle critiche di Vladimir Luxuria: "Capisco i suoi attacchi: io mi rivolgevo alle donne, non ai maschi". Poi contrattacca: "La sua lezione? Nel mondo scientifico non c'è una sola prova che si nasca così, come dice lei". Le ribatte Massimo Giannini: "Secondo me la sua lezione è stata più fastidiosa di quella di Luxuria". "Se avesse detto il contrario avrei pensato che forse non era sobrio", dice Santanchè. "Non bevo neanche la sera...", taglia il direttore di Radio Capital. "E allora", risponde la senatrice, "non può far altro che dare ragione a Luxuria, sennò la sua storia sarebbe altra".
Roberto Pellegrino per ''il Giornale'' 3 febbraio 2019. Una strada del quartiere semi centrale di Grácia nella città capitale della Catalogna, ha il record di ristoranti. Nemmeno un cocktail bar per universitarie o un salone di bellezza per signore. E i tre unici bar sono troppo sporchi e fumosi per il genere femminile. Una donna non potrebbe nemmeno chiedere la cortesia di usare il bagno: c' è la famigerata turca. Orrore. Per non parlare della zona di Poble Sec, quartiere popolare di Barcellona: una fila di negozi di elettronica, pezzi di computer, droni e videogames. Nessun boutique di abbigliamento femminile, né un centro massaggi né un fioraio. E nel Raval, nemmeno dovrebbe entrarci una signora per bene, rischia di ordinare un cappuccino sotto gli occhi curiosi di una ventina di avventori tutti maschi che giocano alle video roulette. E se volesse un negozio di lingerie, dovrebbe percorrere due chilometri verso il centro città. O mangiarsi per forza un kebab al posto di un'insalata o un sushi o un piatto di pasta. E poi i colori: Barcellona è una città troppo a misura di maschio. La maggior parte dei quartieri e dei servizi trasudano machismo a scapito del gentil sesso. Si è accorta di tale ingiustizia la sindaca progressista Ada Colau che ha annunciato una commissione di studio che dovrà combattere le diseguaglianze di genere attraverso l'urbanistica. La responsabile per le politiche femministe e LGTBI, Laura Pérez, fa notare che le donne utilizzino di più le infrastrutture municipali e i mezzi di trasporto. E se non interessa ai barcellonesi, in città quasi tutti gli asili nido hanno come unico colore l'azzurro. Troppo da maschietto, non va bene. Meglio dosare in quantità eguali il rosa e l'azzurro, in modo da accontentare anche le bambine. Quindi, per gli amministratori, meglio mettere mano al portafoglio e ridipingere. E questo vale per molti palazzi di edilizia popolare, troppo color grigio, marrone e nero. Meglio colori più femminili, come il fucsia, il giallo, il rosso. Ma in tale proposta, oltre a idee un po' bizzarre e di difficile attuazione, come quella di convincere i commercianti a diversificare le offerte di prodotti, rispettando entrambi i generi, c' è anche la volontà di creare marciapiedi più spaziosi e meglio illuminati, per avere più sicurezza, magari evitando le griglie che potrebbero danneggiare i tacchi femminili. E per fare questo, tutti i tecnici del Comune di Barcellona avranno a disposizione un manuale urbano basato sull' uguaglianza di genere, con regole che dovranno applicare nelle loro relazioni. Obbligo per loro, frequentare corsi di formazione specifica su diversità e genere. In pratica a un geometra verrà chiesta la differenza tra transgender e omosessuale. Perché a Barcellona devono convivere e abitare al meglio le varie caratteristiche sessuali. La volontà è di evitare la ghettizzazione dei generi, come già avviene. In una parte dell'elegante quartiere dell'Eixample, detto Gayxample, infatti, come si può intuire dal nomignolo, la maggior parte degli edifici, delle abitazioni e dei negozi sono abitati e di proprietà di omossessuali. Percorrendo calle Casanova s' incontrano soltanto saune, palestre, spa per gay unitamente a negozi di abiti e accessori per nozze gay. Non va bene, bisogna dare la possibilità a lesbiche e a etero di non sentirsi a disagio in quel quartiere.
Massimilano Parente per ''il Giornale'' 3 febbraio 2019. Il politicamente corretto non smette mai di stupire, l'ultima trovata è quella della sindaca progressista di Barcellona Ada Colau: eliminare dalla città le differenze di genere, perché sono troppo maschiliste, nominando addirittura una commissione urbanistica apposita. Il sessismo riguarderebbe perfino i colori: troppo nero e marrone sono sessisti, perfino l'azzurro è troppo maschilista, bisogna ridipingere molti palazzi di rosa (come se poi le donne non amassero il nero, questi esperti dove li hanno presi, tra gli sceneggiatori di Peppa Pig?). A questo punto immagino vada ritoccata anche la Sagrada Familia, tutto quel marroncino, e con quelle guglie e campanili così fallici, brutta storia. Hanno deciso che il kebab è maschile, e l'insalata è femminile. Quindi se una vostra amica vi invita a prendere un kebab, se non volete essere sessisti, le dovete rispondere: «Ma sei pazza? Io mi prendo il kebab, tu mangiati un'insalatina». Tra l'altro il kebab di solito è visto bene dai progressisti e male dai sovranisti, si mettessero d'accordo. Per non parlare dei bar e pub dove si bevono superalcolici, roba da maschi. Alle donne massimo un rosé, o magari meglio un succo di frutta. Comunque anche a Roma abbiamo una sindaca che potrebbe prendere esempio e ragionare sulla faccenda, mi sembra una cosa che potrebbe intrigarla. Per dire il Colosseo è troppo maschilista, ci combattevano i gladiatori, diamogli una ritinteggiata rosa shocking e con tante paillettes e mettiamoci Laura Boldrini a vendere chador e assorbenti intimi per migranti donne. Gli obelischi, va da sé, abbattiamoli tutti senza consultare Sigmund Freud, e c' è da lavorare anche sull' Altare della Patria, perché già la parola «patria» è stata contestata dalla scrittrice femminista Michela Murgia, la quale ha proposto di chiamarla «matria» (anche se si è dimenticata che si dice madre patria, per cui cosa diventerebbe? Il padre matria?). E la Cappella Sistina, dove il Dio cristiano è un uomo barbuto e tocca il dito di Adamo, altro uomo? Vogliamo almeno mettergli un po' di rossetto e fard? E con tutte le ultime cene dipinte nelle chiese, che ci si fa? Il messia, dodici apostoli, e nessuna donna. E il papa? A quando una papessa Francesca? Al lavoro, c' è molto da fare.
Adrian, la figlia di Ornella Muti a gamba tesa: "Celentano prima salva le donne e poi le tradisce". Naike Rivelli si scaglia contro il molleggiato. Il riferimento va alla liaison che Celentano ha avuto con la madre della showgirl, scrive Anna Rossi, giovedì 24/01/2019 su Il Giornale. Il cartoon di Adriano Celentano ha dato molto di cui parlare. Nella seconda puntata, infatti, diversi temi di attualità sono stati affrontati. Reddito di cittadinanza, quota 100, sicurezza e non per ultimo il tema dei migranti. Ma proprio con questo volersi buttare a capofitto nel dibattito quotidiano, si è portato dietro un mare di critiche. Non per ultima l'accusa di maschilismo. Nel secondo episodio, infatti, il molleggiato salva due ragazze da uno stupro. E dopo averlo fatto, il caro orologiaio commenta: "Se aveste bevuto qualche bicchiere di meno avreste evitato l'approccio con dei tipi poco raccomandabili". Da qui è iniziata la polemica. Polemica nella quale, Naike Rivelli ci entra a gamba tesa. La figlia di Ornella Muti, infatti, tramite il suo account Instagram scrive: "Non ho capito se prima le salva e poi le tradisce... Adrian Adrian ma come le proteggi queste donne?". Il tutto corredato da due foto: nella prima si vede Adriano Celentano con la moglie e nella seconda il molleggiato con Ornella Muti. È fatto risaputo che Celentano abbia avuto una liaison con Ornella durante il suo matrimonio. La provocazione di Naike è evidente.
Adriano Celentano demolito da Naike Rivelli: "Che razza di uomo. Quando stava con mia madre...", scrive il 31 Gennaio 2019 Libero Quotidiano. Naike Rivelli si è raccontata ai microfoni del programma radiofonico I Lunatici di Rai Dario 2, dove ha detto la sua sul tanto discusso Adrian e ha attaccato in modo frontale Adriano Celentano, ex della madre Ornella Muti. Inoltre, si è lasciata andare a piccanti rivelazioni circa la sua vita più privata. Il pubblico è ormai abituato a vederla in versione hot grazie agli scatti che lei stessa pubblica su Instagram, ma Naike ha ammesso: "Spesso mi giudicano perché mi spoglio, ma io sono due anni che non faccio l'amore con nessuno, magari domani lo rifarò e sarò la donna più felice del mondo". Ai conduttori Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, la figlia di Ornella Muti ha mostrato di sapere il fatto suo anche sulla televisione. A proposito del cartoon Adrian la Rivelli ha detto: "Non sono mai riuscita ad arrivare a vedere il cartone. Non mi è piaciuto per niente". Poi ha detto di preferire La dottoressa Giò di Barbara D'Urso. Inoltre, ha criticato fortemente la campagna pubblicitaria che ha acclamato lo show come un successo indiscutibile, ancora prima che venisse trasmesso. E qui si è inserita una personalissima polemica nei riguardi dello stesso Adriano Celentano che secondo Naike è l’opposto di quanto appare: "Conosco un lato di Celentano che è quello più personale. Come padre di famiglia, come marito, come ex di mia madre, io lo trovo un uomo di poco polso, che non rispetta nulla di tutto quello che dice". Dagli spettacoli è poi passata a parlare della sua vita sessuale, o per meglio dire della sua astinenza, dato che ha detto di non fare s***o da ben 2 anni. “Sono rimasta talmente stranita dalla mia ultima storia che mi sono proprio alienata. Al punto che ero arrivata a pensare che forse non avrei mai più provato qualcosa. Senza sesso si vive bene. Ovviamente ci si masturba”. Naike è molto convinta della scelta fatta e ha detto di aver trovato un suo equilibrio al quale vuole rimanere ben salda, per se stessa. Vedremo però quanto resisterà, perché ha ammesso di frequentare una persona per la quale ha iniziato a provare qualcosa. In attesa dell’evoluzione si è detta pronta a tornare a fare l’amore: “Magari domani lo rifarò e sarò la donna più felice del mondo”.
Forum, Telefono Rosa contro giudice Melita Cavallo: "Ignobile attacco in tv a una ragazza vittima di stupro". L'associazione attacca la giudice di Forum, su Rete 4, per le parole rivolte a Carlotta, mamma di un bambino nato da una violenza: "Le ha detto che anche lei aveva bevuto e che lui aveva 18 anni, mica 40. In onda un teatrino triste e senza rispetto", scrive Benedetta Perilli il 24 gennaio 2019 su La Repubblica. "Non possiamo non recepire le centinaia di segnalazioni che sono arrivate in merito alla puntata di Forum, lo storico programma condotto da Barbara Palombelli Rutelli", è il Telefono Rosa a intervenire su Facebook sulle polemiche in seguito alla messa in onda della trasmissione di Rete 4 del 23 gennaio. L'associazione che difende i diritti delle donne, oltre a far sapere di aver inoltrato le lamentele a Mediaset e di stare valutando l'invio al Garante per la comunicazione, riporta così i fatti: "Protagonista della puntata è Carlotta, vittima di uno stupro all’età di 17 anni da cui è nato Riccardo (quella che appare in studio dovrebbe essere - come spesso accade nel programma - non la vera protagonista del caso ma un'attrice che la interpreta, ndr). In trasmissione si parla della richiesta del padre, che ha avuto una pena di sei anni, di potere vedere il figlio. La giovane è arrabbiata e risentita e spiega di non credere nella giustizia perché non avrebbe mai pensato possibile che il figlio fosse costretto a vedere il padre". Poi descrivono la reazione della giudice Melita Cavallo: "Non le ha risparmiato parole molto dure sostenendo che non si è fatta aiutare, perché altrimenti non sarebbe così violenta. La ragazza replica: “mi reggo in piedi e sono qui proprio perché mi sono fatta aiutare!” e ricorda la sofferenza di essersi svegliata nuda in un campo piena di fango e non sapere cosa fosse successo. A questo punto il giudice è piuttosto impietoso e spiega di avere letto gli atti dai quali risulta che i giovani avevano bevuto. “Anche lei aveva bevuto!” Insiste". Il giudizio sulla trasmissione è assolutamente negativo: "Un teatrino davvero triste e non certo di buon esempio e rispettoso di una donna che ha subito una storia di violenza e di imposizioni in giovane età. Decisamente accogliamo e condividiamo le tante proteste che ci sono pervenute perché Carlotta meritava più comprensione e non le continue e sgradevoli minacce di allontanarla dalla trasmissione. Ne esce una pessima immagine e un messaggio che manca di rispetto a tutte le donne e che non aiuta certo la causa del sostegno alle donne vittime di violenza. #telefonorosa #piùfortiinsieme", conclude Telefono Rosa. Dello stesso avviso anche decine di spettatori che sono intervenuti sulla pagina ufficiale di Forum commentando il post che introduceva la storia di Carlotta. "Un giudice - tra l'altro donna - che su un canale nazionale si permette di dire che uno stupro non è un incubo, parla di errori giovanili e addirittura che lui “aveva 18 anni, non 40” è uno schiaffo in faccia a tutte le donne che hanno subito una cosa del genere", scrive Enrica Scielzo. E sono centinaia i messaggi online di spettatori indignati, tra questi anche il blogger Signor Distruggere, il primo a denunciare il caso.
“Ci sono un’infinità di padri – esordisce Palombelli – ci sono anche padri che nessuno vuole, padri che si impongono per forza.” Inizia così la puntata di Forum. La causa tratta di un bambino di quattro anni, nato da uno stupro ai danni di una diciassettenne vergine, da parte di un ragazzo maggiorenne. Il padre in galera, il bambino con la madre. La nonna paterna, però, desidera incontrare il bambino, la madre nega il consenso e quindi le due sono finite a Forum.
Segue la causa il giudice Melita Cavallo, una donna:
“Ogni bambino ha diritto alla propria identità, un bambino ha diritto di sapere chi è suo padre.”
“Quest’uomo in carcere si è comportato in maniera encomiabile, tant’è vero che se avesse avuto una difesa più ferrata sarebbe già uscito.”
“Lei non è stata supportata psicologicamente in maniera adeguata, altrimenti non sarebbe così violenta.”
“Carissima signora, il padre di questo bambino non è assolutamente un mostro.”
“Risulta dal processo che avevate bevuto e quindi già questo è qualcosa…”
Giudice “Se lei aveva 17 anni, lui ne aveva 18, non ne aveva 40.”
Vittima “Ma è uguale!”
Giudice “No, non è uguale”
“Anche lei aveva partecipato al bere eccessivo e si era recata in quel posto.”
Vittima “nei mesi precedenti mi ha mandato dei fiori, ma io non ho mai ricambiato”
Giudice “eh certo, nessuno ricambia i fiori” ironica.
La madre dello stupratore: “Lui ti ha corteggiato però, lui era innamorato.”
Forum, Telefono Rosa contro Melita Cavallo, scrive il 24 gennaio 2019 Repubblica Tv. La giudice: "Io tutelo il bambino, donna stuprata ha troppo rancore". "Io tutelo il bambino che ha diritto di vedere il padre. Credo nella possibilità del ravvedimento, quella madre è piena di rancore. Se ho usato metodi rudi è perché non accetto che lei escluda il ravvedimento dell'uomo, questo mi ha innervosita". Dopo le polemiche per il trattamento della figurante che incarnava una ragazza stuprata durante la trasmissione 'Forum', Melita Cavallo risponde. Telefono rosa mette sotto accusa alcun passaggi della trasmissione, in particolare i momenti in cui la giudice ha sottolineato che la ragazza stuprata "aveva bevuto", quasi colpevolizzandola della violenza subita, e che era "compagna di scuola dello stupratore", quasi fosse una diminutuio del danno subito. La magistrata ha una lunga carruiera alle spalle: giudice minorile a Milano, Napoli e Roma e presidente del Tribunale per i Minorenni di Napoli fino al 2015, presidente della Commissione per le Adozioni Internazionali, dell'Associazione Italiana dei Magistrati per i Minorenni e la Famiglia, di GEMME Italia (Groupement Européen des Magistrats pour la Médiation), ha guidato il Dipartimento per la Giustizia Minorile. Tra i riconoscimenti ricevuti, il Prix Femmes d'Europe (1995) dal Parlamento Europeo e la Légion d’Honneur (2012) dal Presidente della Repubblica francese.
Intervista di Silvia Scotti, Radio Capital, montaggio Maurizio Stanzione.
«Credo che, sempre come giudice, sono stata, come dire, un atteggiamento neutrale. Non è che posso prendere le parti della ragazza, perché lei ha ripercorso, evidentemente, la sofferenza di quella situazione. Chiaro che il ricordo è terribile. Però, se non arriviamo alla dichiarazione di decadenza, che la ragazza non ha chiesto, praticamente questo padre ha il diritto di esercitare la sua responsabilità. Questo è il concetto giuridico. Poi che io non abbia avuto parole di, come posso dire, di conforto e di accoglienza, io non credo che un giudice nel momento in cui, diciamo, si trova a decidere, deve accogliere la ricorrente. Quello è un caso da trattare nell’interesse superiore di un bambino. Lei ha espresso tutto il suo odio, il suo rancore, il suo spregio: lo ha espresso. Lo ha espresso. Però questo non basta per dire che un bambino non ha diritto a vedere il volto di suo padre».
Giudice lei ha detto alla ragazza che aveva bevuto. Questa è una storia di stupro.
«E’ una storia di stupro. Però di inquadra, diciamo, nel rapporto di due giovani che è andato male. Però non è lo stupro del quarantenne sulla ragazza di diciassette anni».
Giudice, non mi può dire che lo stupro di un quarantenne nei confronti di una ragazza possa essere diverso come lo stupro tra due ragazzini. Perché uno stupro è uno stupro e rischia e rischia di aver ferito questa ragazza a morte.
«Sicuramente sì. Voglio dire, in quel momento la ragazza di che cosa ci ha parlato. Ci ha parlato anche del fatto che andavano a scuola insieme. Quindi voglio dire la situazione non cambia sotto il profilo della sofferenza, però sotto il profilo giuridico, cambia».
Certo. Umanamente è più grave, perché, magari, è una persona di cui mi fido.
«Ma io non intervengo sul reato. Il reato è stato qualificato ed è quello. Io per che cosa sono stata chiamata a dire: se il bambino, che era già stato riconosciuto dal padre su provvedimento di altro giudice, poteva o non poteva incontrare il padre. Da un punto divista, come dire, giuridico, questa è la risposta».
Ma da un punto di vista umano? Forse a usato metodi o modi troppo rudi nei confronti di una ragazza vittima di uno stupro?
«Ma guarda, se io ritengo che lo stupro è una cosa gravissima, però la ragazza era talmente…Guardi, io credo nel cambiamento. Io penso che sia questo quello che possa fare la differenza. Io credo che una persona possa cambiare. Quindi vedere quella ragazza così decisamente contraria a pensare minimamente che quel ragazzo potesse cambiare, penso che mi possa aver portato a questo. Questa è la verità».
Però io la capisco la ragazza, cioè capisco l’odio ed il rancore.
«Io lo posso capire, ma non posso capire che poi essere…pretendere di essere sicura che poi non ci sarà un cambiamento. Questo è quello che io non posso accettare. Perché il bambino a diritto al padre».
Giudice, evidentemente, le donne non l’hanno capita, perché l’hanno criticata duramente per il suo atteggiamento troppo rude, per le sue parole troppo severe, troppo rude nei confronti della ragazza.
«Questa, come dire, rudezza che è stata vista nella mio ascolto della ragazza dipende essenzialmente da questo: il fatto io credo, ho sempre creduto, e tutte le storie che ho vissuto come giudice, me l’hanno fatto credere, che è possibile il cambiamento».
Però, se un bambino ha il diritto ad avere un padre, una ragazza di diciotto anni, stuprata, ha diritto al suo odio, al suo rancore, ha diritto di essere trattata da un giudice con tatto, soprattutto da un giudice donna.
«Ma, non lo so, forse se è risultato così, non lo so, Forse in quel momento io chiedevo alla ragazza di ridurre questo pensando al cambiamento e pensando al bambino ed al diritto del bambino».
(A quanto pare, però, si guarda interessatamente al dito, che indica la luna, ossia alla tutela del diritto della donna, e non ovviamente alla luna, ossia al diritto del bambino, che essendo la parte debole della società non ha partigiani che lo appoggiano. NDA)
Bari, opuscolo sulla masturbazione in scuole: «Comune revochi la spesa». L'appello dei consiglieri Carrieri e Caradonna e delle associazioni Generazione Famiglia e Nova Civilitas sul progetto comunale, scrive il 24 Gennaio 2019 La Gazzetta del Mezzogiorno. Conferenza stampa stamane dei consiglieri Carrieri e Caradonna nonché delle associazioni Generazione Famiglia e Nova Civilitas sul progetto comunale di diffusione nelle scuole baresi di un libretto titolato "Che cos'è l'amor". Un progetto costato circa 1.500 euro per l'acquisto di circa 200 copie di un opuscolo contenente indicazioni sulle teorie gender e sulle pratiche di autoerotismo. Contestiamo assolutamente l'idea che il Comune, con i soldi dei contribuenti, voglia entrare nelle scuole per distribuire a minori un libretto che rasenta la pornografia nella parte dedicata all'autoerotismo; un capitolo dove si istruiscono gli adolescenti sulle pratiche di penetrazione anale e vaginale (bisogna essere crudi, visto che di questo si tratta) e gli si invoglia alla masturbazione con tutta una serie di inutili suggerimenti. Un opuscolo, inoltre, che tratta per larga parte altresì delle teorie gender, confondendo gli studenti adolescenti ai quali si rappresenta che oltre il genere maschile e femminile, vi sono almeno altri 10 generi (dal genderqueer al poligender; dal cisgender al terzo genere; etc). Trattasi di una didattica confusionaria e a tratti volgare, per nulla adeguata a soggetti minorenni, che il Comune di Bari, inaccettabilmente, sostiene con l'acquisto dell'opuscolo e la diffusione nelle scuole. Per queste ragioni abbiamo inviato una nota formale al sindaco, con la richiesta di revoca in autotutela del progetto comunale e di blocco immediato della distribuzione dell'opuscolo.
Maschio, addio! Scrive Lunedì, 21 gennaio 2019, Nino Spirlì su "Il Giornale". Addio, maschio, splendida creatura, plasmata dal Creatore a propria immagine. Addio, maschio, nobile archetipo a cui si sono ispirati artisti e scienziati, pensatori e letterati, strateghi, pedagoghi, sacerdoti e contadini…Addio, maschio, eterno divino “Padre” rispetto all’infinito materno femminino. Addio, me e addio mio ricordo paterno più potente. Non serviamo più! Anzi… Non ci siamo più. Non più Soldati. Non più Maestri. Non più Sacerdoti. Solo una informe mescola umana, molle e plurisessuale, gaudente senza godimento e ignorante di antichi piaceri. Puttani per stupidità, alla svendita di amori e umori solo per un calzone o un gommone in più. Alla neve, crudi di montagna; stesi sulla rena di spiagge di cui nemmeno si intuisce la nobiltà. Per la strada, vuoti di mente e tronfi di imposizioni da fiera dell’inutile. Unica meta, l’interpretazione, più o meno vivente, di un’immagine vuota come una maschera di creta. Circa uomini e non maschi. Presenze bipedi senza umanità. Antologia di becera vanità. Eterofroci nelle mutande e nel cervello, bypassando cuore e sentimento, i nipoti dei maschi, figli di una generazione anestetizzata dalle menzogne rockomuniste di cafonissimi cantori dell’uguaglianza contro natura, sbavano una presenza terrena che, alla vita, non somiglia proprio. Ragazzotti effeminati pronti al passaggio menzognero verso l’altra parte del cielo, pretendono di convincerci che bugiardo è regola. Sperano in una nascita futura senza carezze e al gelo di un laboratorio asettico e costoso come il volo sulla luna. Addio, maschio, rispettoso della femmina e del suo ventre. Figlio di femmina e padre, protettivo, di femmine. Cadi e cedi il posto a spietati assassini senza baricentro. Confusi nel ruolo e violenti come bestie primordiali, azzannano, squartano, ammazzano la femmina che non comprendono e non amano. Mentre Tu, crocifisso e criminalizzato, assisti addolorato al tuo martirio per mano dei finti maestri. … Addio, maschio. Con te muore il mondo e la bellezza. La forza e la scienza. Muore la speranza, la fiducia e Dio. A meno che…
Se i due papà-pinguini aiutano la causa gay. Crescono un piccolino allo zoo di Sidney e vengono decretati «i genitori migliori», scrive Felice Manti, Martedì 22/01/2019, su "Il Giornale". «Ma quanto sono bravi questi genitori gay», sono «molto più premurosi e attenti delle altre coppie». Sono «una famiglia perfetta, insieme sono una grande squadra». Eccola, la narrazione politicamente corretta griffata New York Times che ieri ha fatto breccia nei principali siti di informazione italiana. E così in poche ore la parola d'ordine è diventata «due gay crescono meglio un figlio di una coppia etero». La storia che arriva da uno zoo acquario di Sidney è vera, il sentimento probabilmente ancor di più, ma è stata confezionata «ad arte» visto che ha inizio guarda caso poco dopo il referendum via posta con il quale gli australiani si sono espressi in favore della legalizzazione delle nozze gay. Al Sea Life Sydney Aquarium, in effetti, ci sono due pinguini Papua, Sphen e Magic, che appartengono alla specie Gentoo. Ad accorgersi che i due, dice il quotidiano Usa, si sono «innamorati» è stato lo staff che ha notato come i due trascorressero sempre molto tempo insieme, tra bagni e tuffi. E come le altre coppie etero anche i due pinguini, soprannominati Sphengic, con l'avvicinarsi della stagione riproduttiva avrebbero iniziato a raccogliere i sassi necessari per la creazione di un nido, «il nido più grande della colonia». Perché i due pinguini gay «si sono scelti», come ha spiegato la responsabile Tish Hannan: «Hanno iniziato a inchinarsi l'uno di fronte all'altro, a portarsi pietre scelte per il nido poi a cantare insieme». A quel punto sarebbe stato lo stesso staff dello zoo a dar loro un uovo finto con il quale «esercitarsi e sviluppare le loro abilità». E vista «la naturalezza (sic!) con cui si sono presi cura dell'uovo finto» ai due pinguini gay hanno dato un uovo vero, preso da un'altra coppia che ne aveva due e che non si sarebbe accorta della mancanza perché di solito i pinguini si concentrano su un solo uovo, tenendo l'eventuale secondo di riserva. L'esperimento ha funzionato, oggi il pulcino (per il sesso servirà il test del sangue) sta bene e sa quasi nuotare. Ora, stando agli studi del professor Petter Böckman dell'Università di Oslo, l'amore gay esiste in almeno 1.500 specie: oltre l'uomo ci sono orsi, gorilla, gufi e salmoni che fanno sesso «per divertirsi» o «per allenarsi» al sesso eterosessuale che serve a procreare. Ci sono anche degli animali che cambiano sesso se serve alla riproduzione. Ed è questo il passaggio che la narrazione politicamente corretta nasconde ad arte. L'ha detto anche la Hannan al Nyt: «I pinguini nascono con la capacità di crescere i piccoli dall'inizio alla fine, che siano femmine o maschi», ma di questa frase nei siti italiani non c'è traccia. In natura si cerca di tutelare la specie, in molte specie si «adottano» letteralmente i piccoli del branco rimasti orfani. Non c'entra l'essere gay, non c'entra la bravura o la competizione con le coppie etero. È un atteggiamento «naturale», legato alla vocazione primaria delle specie animali, è l'istinto di conservazione della specie. Quello che noi abbiamo perso.
Giulia Jasmine Schiff, il video in cui la pilota frusta un allievo: il caso si complica, scrive il 17 Gennaio 2019 Libero Quotidiano". Fermi tutti. Il caso di Giulia Jasmine Schiff si complica. Lei è l'ex allieva dell'Aeronautica che ha denunciato di aver subito nonnismo ed atti vessatori da parte di commilitoni uomini mentre frequentava l'Accademia. Ma ora spunta un secondo video, di appena undici secondi, sul "battesimo del volo" della Scuola di Latina, nell'ambito della scuola di formazione dell'Accademia militare di Pozzuoli. I riti sono gli stessi, così come sono gli allievi, ma i ruoli si invertono: infatti in questo caso a subire le frustate è un allievo, maschio. E alla fine del video spunta proprio lei, Giulia Schiff, che con sguardo severo rifila tre durissime frustate al malcapitato. Una sorta di rito di iniziazione al quale era stata sottoposta anche lei. Il video è spuntato nelle ultime ore nelle chat frequentate dai suoi ex colleghi. Secondo l'avvocato che assiste la Schiff, Massimo Strampelli, "si tratta della vendetta di chi è stato accusato. Un video suggestivo ad opera evidentemente di uno degli indagati per screditare la credibilità di Giulia. Giulia non ha mai partecipato veramente ad alcun rito: ha sempre tenuto un atteggiamento simulatorio per non incorrere nella denigrazione ed emarginazione dei propri colleghi".
Il femminismo è vivo e plurale: viaggio tra le donne in cerca di libertà. Case, librerie, gruppi: sono voci diverse ma tutte in coro. Da Nord a Sud. Unite nella lotta al patriarcato. Abbiamo provato a raccontarle, scrive Cristina Da Rold il 3 dicembre 2018 su "L'Espresso". Patriarcato. Nel variegato arcipelago tutt’altro che omogeneo dei femminismi italiani, è questa la parola emersa in tutte le conversazioni di questo viaggio. Un percorso in quindici tappe, alla ricerca della “libertà” delle donne. Ma se “libertà da” è terreno comune, riguardo alla “libertà di” gli orientamenti sono diversi. Vi sono differenze sia teoriche sulla definizione di “questione di genere”, che nell’approccio alla lotta. È comunque unanime l’opinione che oggi il femminismo stia rivivendo una stagione di forte propulsione, ardente da Nord a Sud e anche fra le generazioni più giovani. Case delle Donne, collettivi femministi, reti, da Salerno a Cagliari, da Bari a Ragusa. «O è un po’ visionario, un’utopia concreta, o non è femminismo», sintetizza Sara Fichera del Collettivo RIVOLTApagina catanese. Per iniziare un viaggio nei femminismi italiani è necessario partire dai diversi luoghi delle donne: case, librerie, gruppi. L’elenco è lunghissimo, come mostra il progetto Rete delle Reti, che ha creato una prima mappa. Ci sono poi le reti che aggregano realtà diverse e danno vigore alla lotta femminista, come Non Una Di Meno, attiva dal 2016, e D.i.Re – Donne in Rete contro la violenza, che comprende ottanta centri antiviolenza italiani. All’interno di questa grande rete non è facile trovare delle direttrici. E in un panorama così eterogeneo la domanda centrale è se tutti i femminismi italiani mettano oggi ancora al centro la donna. Dipende. In tutti i femminismi troviamo al centro le donne, ma per parte del femminismo italiano, in particolare quello delle più giovani, la questione di genere è più ampia: non per tutti “Donne” e “femminile” sono sinonimi. L’impressione non è quella di un gap generazionale tout court. Colpisce il fatto che nonostante i punti di partenza siano diversi, le logiche dell’ “autodeterminazione” non siano poi così distanti. «La nostra è da sempre una lotta per la libertà femminile e per la valorizzazione della differenza sessuale nelle donne e negli uomini», racconta Clara Jourdan, della Libreria delle donne di Milano, luogo storico del cosiddetto “femminismo della differenza”. «Il femminismo è necessario, ma non ci interessa la differenza biologica dei sessi», spiega Federica Maiucci, 27 anni, del Collettivo Degender Communia di Roma. «Il problema è l’oppressione del patriarcato. Per questo le nostre riunioni sono aperte a tutto tranne ai maschi bianchi ed etero, perché pensiamo che serva un luogo dove le categorie oppresse possano confrontarsi separatamente». Negli anni Settanta l’autodeterminazione partiva dalla riflessione sul corpo, «la bussola del femminismo», come la definisce Monica Lanfranco, fondatrice della storica rivista “Marea” e del primo podcast femminista, “Radio delle donne”. E oggi? L’impressione è che le più giovani parlino ancora di corpo, ma parte di loro lo fa in modo diverso rispetto a un tempo, in nome di una libertà sessuale che comprenda l’attraversamento del genere biologico scardinando le categorie stesse di “eterosessualità”, “omosessualità”, “transessualità”. «Consapevolezza del proprio corpo significa per noi un approccio più libero all’esplorazione sessuale, al di là delle briglie dell’eterosessualità», continua Federica. Le differenze ci sono, ma non si tratta di frammentazione. Siamo in un momento storico di rinnovata unione, specialmente grazie al Piano Femminista di NUDM, che ha come baricentro la lotta contro la violenza maschile sulle donne e la violenza di genere. «NUDM è un movimento intergenerazionale, che è riuscito a unire dopo molto tempo gruppi di femministe diversi tra loro e realtà LGBTQ, producendo un ragionamento politico collettivo basato sull’idea che la violenza di genere sia sistemica», spiega Laura Buono di NUDM Milano. In questa direzione va anche la neonata Prochoice, «la prima rete italiana contraccezione e aborto, per mettere insieme professioni e attivismo e promuovere azioni incisive in ambito di salute sessuale e riproduttiva», spiega Eleonora Cirant, giornalista e attivista. «In Italia è quasi una parolaccia per un politico dirsi femminista, mentre all’estero non è così, ma nonostante tutto il femminismo è riuscito a entrare nell’universo delle più giovani, come testimonia NUDM», aggiunge Anna Pramstrahler della Casa delle Donne di Bologna. È unanime l’opinione positiva rispetto alla forza rivoluzionaria del #MeToo. «Credere alle parola delle donne. Dare forza alla loro narrazione anche quando è dolorosa: noi lo facciamo ogni giorno nei centri antiviolenza, e il #MeToo ha portato senza dubbio conseguenze positive sulla percezione della violenza», racconta Maria Rosa Lotti di D.i.Re. Caldo è il dibattito anche all’interno delle realtà che aderiscono a NUDM sul fatto che il movimento sia l’approccio più vincente per emendare la cultura patriarcale. «Condividiamo le istanze di NUDM ma al contempo pensiamo che sia necessario fare femminismo al di là del movimento. La nostra idea è “Cambia te stessa e poi il mondo”», spiega Ivana Pintadu di Collettiva Femminista Sassari. C’è poi la questione dibattuta da sempre del separatismo: è giusto coinvolgere il maschio? «Siamo separatiste come pratica politica ma siamo aperte al confronto con quei gruppi di uomini che hanno cominciato a riflettere sul patriarcato e si sono messi in discussione», commenta Mariella Pasinati della Biblioteca delle Donne UDI Palermo. «Oggi è diverso. I maschi vanno coinvolti, perché non è stata metabolizzata la grande rivoluzione femminista del passato, e i più giovani non hanno ancora gli strumenti per capire cosa sta accadendo», chiosa Paola Columba autrice di “Il Femminismo è superato. Falso!” (Laterza). Come luoghi fisici dove fare politica, le Case delle Donne sono spesso sotto mira, ma più vive che mai, pur nelle differenze: le racconta Antonia Cosentino ne “Al posto della dote. Casa delle Donne: desideri, utopie, conflitti” (Villaggio Maori edizioni, 2014). «Per noi è stato importante scegliere di definirci “Casa della donna, al singolare, perché ogni donna può trovare il proprio posto, nel rispetto di tutte le differenze», racconta Giovanna Zitiello della Casa della Donna di Pisa. «Le case sono luoghi in cui le donne possono fare politica, incontrarsi, ricevere accoglienza, sostegno se vivono situazioni di violenza o difficoltà, aiuto legale e per la loro salute», racconta Antonella Petricone della Casa Internazionale delle Donne di Roma. E di mobilitazione ne sa qualcosa anche Tea Giorgi, voce energica della Casa Internazionale delle Donne di Trieste: «Ho scritto proprio in questo giorni un’email intitolata “Resistere, resistere, resistere”. E noi resistiamo nonostante la tragica situazione politica, perché abbiamo una rete locale forte e intergenerazionale». La rete, il collettivo, l’intersezionalità per combattere la violenza di genere: possiamo dire sia questa la cifra dei femminismi italiani? Si litiga ancora sui temi della prostituzione, della gestazione per altri, sulle quote rosa, ma si continua a parlare delle altre come “compagne”. Lo hanno fatto quasi tutte le donne incontrate in questo viaggio, giovani e meno giovani. «Anche negli anni Settanta c’erano opinioni e orientamenti politici diversi all’interno del movimento femminista», conclude Nadia Maria Filippini della Società Italiana delle Storiche, «ma, a differenza di oggi, una parte dei partiti e delle istituzioni politiche era in ascolto. Oggi mi sembra che gli spazi si stiano sempre più chiudendo e che da parte delle donne ci sia l’idea sbagliata che i diritti ormai siano acquisiti e non si possa tornare indietro». Il forte attacco che i luoghi delle donne stanno subendo da parte delle istituzioni ci sta insegnando che non è così. Il femminismo, comunque lo si declini, è ancora necessario. Meglio se prendendo le distanze dagli stereotipi con cui è stato raccontato.
· Il Gay Pride cattolico.
Gay minacciano prete anti Pride: "ti abortiremo noi prete di m..." Un gruppo Lgbt, che si è identificato con la sigla "Riscossa Arcobaleno", ha attaccato don Davide Imeneo, portavoce dell'Arcidiocesi di Reggio Calabria-Bova, che si è opposto al recente Gay Pride reggino. Matteo Orlando, Venerdì 02/08/2019 su Il Giornale. Un gruppo gay, che si è identificato con la sigla "Riscossa Arcobaleno", ha minacciato un prete-giornalista che si era opposto ad un recente Pride. Il fatto è accaduto a Reggio Calabria dove don Davide Imeneo, direttore del giornale arcidiocesano L’Avvenire di Calabria, ha trovato nella cassetta della posta un foglio con la scritta: "Tua madre doveva abortirti, ti abortiremo noi prete di m...". Il sacerdote reggino nei giorni scorsi si era opposto al Gay Pride che si era tenuto nella città dello stretto dove meno di 500 persone, provenienti da tutta Italia, hanno organizzato l’evento Lgbt. In particolare don Imeneo era entrato in conflitto con il Sindaco Pd di Reggio Calabria Giuseppe Falcomatà. Il primo cittadino del Partito Democratico colpito nei giorni scorsi dalla notizia dell’indagine per "disponibilità ad assecondare uno ‘Ndranghetista" a carico del cognato Demetrio Naccari Carlizzi, ex vice presidente del Consiglio regionale e assessore regionale, uomo forte dell’area renziana calabrese – era finito nella bufera per avere sostenuto il Pride 2019, sfilando con i gay, le lesbiche, i transgender e altri manifestanti. Mentre nelle scorse settimane molti vescovi italiani hanno preferito soprassedere alle iniziative dei Pride, organizzati in tutto il mese di Giugno nelle loro diocesi, o al massimo hanno rilasciato dichiarazioni ambigue ma si sono rifiutati di appoggiare le preghiere di riparazione portate avanti da diversi gruppi cattolici, la Curia reggina non ha avuto paura ad attaccare Giuseppe Falcomatà. Attraverso un pezzo dello stesso direttore e consigliere nazionale della Federazione italiana dei Settimanali cattolici don Imeneo, Falcomatà è stato accusato di avere usato a sproposito, commentando la sua partecipazione al Pride sui social, uno slogan di un noto prete reggino ("nessuno escluso, mai", riferito dal sacerdote ai "pazzi" che, negli anni '80, liberò dai manicomi). Don Imeneo ha accusato Falcomatà di avere "una doppia morale sui diritti" (rilevando che il Sindaco di Reggio Calabria aveva attaccato l’iniziativa pro famiglia naturale portata avanti attraverso il cosiddetto "Bus della Famiglia") e lo ha sfidato a rispondere a due domande. La prima verteva sulle intenzioni politiche del Sindaco: "può dirci pubblicamente se sostiene anche le posizioni più progressive dei soggetti promotori che sfilavano accanto a lei, quali l’adozione e l’affido dei figli alle coppie omosessuali?" . Rilevando che lo stesso sindaco, gli assessori e i consiglieri comunali, ripetutamente, si sono dichiarati cattolici, la seconda domanda chiedeva perché i diritti non hanno lo stesso peso. Don Imeneo, infatti, ha accusato il sindaco reggino di avere fatto sua l’agenda Lgbt e di avere escluso dalle priorità dell'Amministrazione reggina le vere emergenze, come la fuga dei giovani dalla città, che sta provocando una emorragia demografica, la situazione sociale dei papà divorziati, i genitori costretti a emigrare dalla Calabria per potere fare studiare i figli, il disagio abitativo che molte famiglie reggine vivono e la mancanza di aiuti alle famiglie numerose, dimenticati dall’amministrazione Pd. Sentito da Il Giornale, il portavoce dell’arcidiocesi di Reggio Calabria-Bova don Imeneo ha spiegato che l’intento dell’Arcidiocesi era quello di "smascherare la doppia morale della politica, che strumentalizza i Pride ma che, alla prova dei fatti, è carente sul fronte dei diritti, di tutti i diritti. Ovviamente L'Avvenire di Calabria proseguirà indisturbato le proprie inchieste, la prepotenza non può spegnere la voce di chi è chiamato a raccontare la verità". Don Imeneo si è lamentato anche della manipolazione del richiamo al Sindaco operata dal portale Gaynews.it. "Oltre a omettere alcune parti dell’articolo, ha voluto attaccarmi direttamente", scatenando "commenti recanti gravi offese personali nei miei confronti". Intanto, il Vice Presidente (Gianluca Orefice) e tre Consiglieri del Comitato Arcigay "I Due Mari" (Giorgia Garreffa, Silvio Nocera, Valeria Cucèi) di Reggio Calabria, non riconoscendosi più nella linea politica che ha imboccato il comitato, e non condividendone più strategie e metodi, si sono dimessi dai loro incarichi.
Così una parte di Chiesa cattolica celebra il mese del pride. I progressisti presenti nella Chiesa cattolica, anche a livello ecclesiastico, elogiano il mese dedicato alla promozione dei diritti Lgbt. Polemiche in arrivo. Giuseppe Aloisi, Sabato 08/06/2019, su Il Giornale. C'è una parte di Chiesa cattolica che interpreta la pastorale dell'accoglienza in modo estensivo. Le battaglie della comunità Lgbt - ci si domanda - devono essere solo accolte o possono trovare piena legittimazione negli ambienti ecclesiastici? Per alcuni di questi, specie tra quelli americani e progressisti, non esiste una differenza sostanziale tra i due approcci possibili. Il gesuita statunitense e consultore della Segreteria per la Comunicazione James Martin ha persino augurato "buon mese del pride" via Twitter. Poi c'è chi organizza "preghiere" o "processioni" di riparazione per rispondere alle "veglie" contro l'omofobia. Sono tutte vicende che, di tanto in tanto, hanno luogo pure nelle parrocchie del Belpaese, alimentando lo scontro tra i cattolici tradizionalisti e quelli meno inflessibili, i cosiddetti "cattolici adulti". Dando uno sguardo a quello che sta accadendo in questi primi giorni di giugno, che è il mese dedicato all'orgoglio Lgbt, è possibile segnalare - come si legge sul sito Lifesite News- una celebrazione, la seconda in due anni, predisposta dalla diocesi di Newmark, nel New Jersey, in relazione al pride. Forse è il caso più emblematico. Durante lo scorso Sinodo sui giovani, si è molto dibattuto della dottrina in materia: dopo le prime fasi, quelle in cui sembrava possibile che l'omosessualità venisse sdoganata, si è optato per non modificare il Catechismo. Ma l'acronimo "Lgbt" è sto utilizzato, per la prima volta nella storia del cattolicesimo, per un documento ufficiale del Vaticano. Qualcosa, prescindendo dalla volontà dei teologi conservatori, sta cambiando. C'è un collettivo dell'Università Cattolica di Milano, "LGBcatT", che per giovedì 20 giugno, presso viale Pasubio, ha organizzato un aperitivo tramite cui preparsi alla sfilata per i diritti omosessuali. Il simbolo dell'organizzazione studentesca è un gatto arcobaleno. Alcuni cattolici, in definitiva, non si chiedono più se accogliere o no le persone appartenenti alla comunità Lgbt: è un dato scontato. Il piano della discussione, oggi, è un altro: la Chiesa cattolica, le istituzioni ecclesiastiche e i fedeli possono o non possono promuovere quelli che Joseph Ratzinger, in maniera critica, chiamava "nuovi diritti"? Le iniziative descritte in maniera sintetica tramite questo articolo contengono una risposta implicita, ma vale solo per la corrente progressista. Le critiche dell'altro emisfero, quello che ritiene che tutto questo sia fuori dalla dottrina ufficiale, non si faranno attendere.
Il gesuita augura "Buon mese del pride" alla comunità Lgbt. Il gesuita James Martin, consultore della Segreteria per la Comunicazione, ha lanciato ancora un segnale di dialogo alla comunità Lgbtq, augurando "buon mese del pride". Giuseppe Aloisi, Domenica 02/06/2019, su Il Giornale. Il gesuita James Martin continua a sorprendere per lo spiccato progressismo dottrinale. Quella che ha avuto inizio un giorno fa è la mensilità che la comunità Lgbt di tutto il mondo riserva alla festività del gay pride e il consultore del Vaticano per la Segreteria per la comunicazione, lo stesso sacerdote americano già balzato agli onori delle cronache negli anni passati per via delle sue posizioni dialoganti e aperturiste, tra cui quella - contenuta in un suo noto e discusso libro - che sostiene la necessità di edificare un "ponte" tra la Chiesa cattolica e le persone Lgbtq, ha scritto su Twitter quanto segue: "A tutti i miei molti amici #LGBTQ, cattolici e non, Happy #PrideMonth Sii orgoglioso della tua dignità data da Dio, dei doni che Dio ti ha dato, del tuo posto nel mondo e dei tuoi numerosi contributi alla chiesa. Perché tu sei "fatto meravigliosamente" da Dio (Sal 139). # PrideMonth2019". James Martin, insomma, insiste su quello che ritiene corretto per la Chiesa, dimostrando di non tenere troppo conto delle critiche e degli attacchi che in questi anni gli sono arrivati da parte del "mondo tradizionale". Per alcuni esponenti di quell'insieme di credenti cristiano-cattolici, il consacrato statunitense è direttamente un "attivista" della causa Lgbtq. L'ecclesiastico, già durante il 2018, aveva invitato i cattolici a non provare "diffidenza nei confronti del gay pride". Nel corso della giornata di ieri, il gesuita ha scelto di augurare "buon mese del pride".
Cattolici tradizionalisti in processione a Rimini: "Ripariamo al Gay Pride". Una "processione riparatrice" contro il Summer Pride si è tenuta ieri tra le strade di Rimini. All'evento indetto dai cattolici tradizionalisti hanno aderito centinaia di persone. Gabriele Laganà, Domenica 29/07/2018, su il giornale. Diverse centinaia di persone hanno sfilato ieri pomeriggio lungo le vie del centro storico di Rimini, dalla Chiesa di San Gaudenzo in Piazza Mazzini fino alla Chiesa del Suffragio in Piazza Ferrari, per la “processione di riparazione pubblica”. L’appuntamento è stato indetto dal comitato cattolico tradizionalista “Beata Giovanna Scopelli” di Reggio Emilia in concomitanza del “Summer Pride”, la manifestazione dell’orgoglio Lgbt tenutasi sul Lungomare della città romagnola. Davanti alla chiesa, sotto un attento controllo delle forze dell’ordine, i partecipanti si sono prima raccolti in un momento di riflessione e poi si sono mossi per le strade recitando il Santo Rosario, le Litanie dei Santi e la preghiera di riparazione al Sacro Cuore. Al corteo religioso, oltre ai padroni di casa riminesi, vi erano fedeli giunti da Parma, Reggio Emilia, Forlì, Ravenna e Modena. Numerose anche le famiglie che hanno aderito all’iniziativa in modo entusiasta e che hanno sfilato con i bambini al seguito. Tra i presenti anche attivisti locali di Forza Nuova e dell’associazione femminile “Evita Peron”. Diversi partecipanti indossavano magliette con la scritta “Instaurare Omnia in Christo”. A guidare i fedeli nella preghiera vi erano tre religiosi: due provenienti dalla Fraternità sacerdotale San Pio X fondata dall'arcivescovo Marcel François Lefebvre ed un parroco modenese don Giorgio Bellei. Proprio quest’ultimo ha spiegato che il corteo non deve essere considerato come una manifestazione politica ma un momento di preghiera riparatrice, realizzato con la forma liturgica della processione. “L’obiettivo del Comitato non è protestare politicamente contro le cosiddette unioni civili, che in ogni caso sono da condannare fermamente” ha scandito il prelato ma porre rimedio ad un “atto contro natura”.
Sinodo dei giovani, ora nel testo spunta la parola "Lgbt". È caccia alla «manina» che dedica il paragrafo 197 alle «attese dei gay». Riccardo Cascioli, Domenica 21/10/2018, su Il Giornale. Sembra proprio che il Sinodo sui giovani attualmente in corso in Vaticano (si concluderà il 28 ottobre) passerà alla storia come la prima volta in cui la Chiesa cattolica adotta la terminologia Lgbt. In effetti, quando ormai tre anni fa fu deciso un Sinodo su I giovani, la fede e il discernimento vocazionale, dopo le esperienze del Sinodo sulla famiglia in molti si sono chiesti a quale parte della dottrina sarebbe stato dato l'assalto questa volta. La prima risposta è arrivata con il documento preparatorio del Sinodo, il cosiddetto Instrumentum Laboris, dove in mezzo a un mare di futili chiacchiere veniva buttato lì, con una certa nonchalance, un paragrafo (il 197) in cui si parla delle attese dei «giovani Lgbt». La cosa non poteva passare inosservata, è la prima volta che la terminologia Lgbt entra in un documento ufficiale vaticano. E l'arcivescovo di Philadelphia, Charles Chaput, si è fatto interprete dei malumori; intervenendo nei primi giorni del Sinodo ha chiaramente detto che «la sigla Lgbt o linguaggi simili non dovrebbero essere utilizzati nella Chiesa» perché è «come se le nostre tendenze sessuali definissero chi siamo; come se queste designazioni descrivessero comunità distinte di diversa ma uguale integrità all'interno della vera comunità ecclesiale, il corpo di Gesù Cristo. Questo non è mai stato vero nella vita della Chiesa, e non è vero ora». Infatti, un conto è parlare di persone con tendenze omosessuali, come fa il Catechismo, e un altro usare termini e concetti che appartengono alla militanza gay, all'omosessualità fatta ideologia e orgoglio. In ogni caso quello che gli ottimisti giustificavano come uno scivolone linguistico, si è dimostrato invece soltanto un passo nella direzione voluta. Nella conferenza stampa di presentazione dei lavori, infatti, sull'argomento è stato smascherato il segretario generale del Sinodo, il cardinale Lorenzo Baldisseri. Questi ha cercato di minimizzare dicendo che nell'Instrumentum Laboris sono stati inseriti i contributi dei giovani così come sono stati presentati, ma una giornalista gli ha dimostrato che nessun contributo conteneva quanto scritto nel paragrafo 197. Da dove esce dunque la «rivendicazione» dei giovani Lgbt? Che anche in Vaticano ci siano «manine» che ogni tanto intervengono non è una novità, ma qui la «manina» deve essere molto potente se il cardinale Baldisseri, facendo finta di essere sorpreso, ha escluso categoricamente che quel termine possa essere cancellato. Quindi in questa ultima settimana i padri sinodali saranno loro malgrado costretti a parlare della richiesta dei giovani Lgbt di una apertura della Chiesa all'omosessualità anche se dai giovani non è venuta alcuna richiesta in questo senso. E non solo di quella dovranno discutere: proprio nei giorni scorsi il nuovo Prefetto del Dicastero per la comunicazione, Paolo Ruffini, nel tradizionale briefing ha citato interventi secondo cui «i temi dell'omosessualità e dei matrimoni tra persone dello stesso sesso non possono essere lasciati fuori dalla pastorale». Chissà perché poi, affrontando il tema «giovani e vocazione», si dovrebbe necessariamente parlare di nozze gay? Forse che esiste una vocazione matrimoniale omosessuale o la possibilità di un sacerdozio omosessuale? Certamente no, se guardiamo a cosa la Chiesa ha insegnato per duemila anni riferendosi al progetto creatore di Dio, e però è esattamente ciò che vorrebbe la lobby gay che sembra aver preso il comando delle operazioni in Vaticano. E tanto per non lasciar cadere il discorso, anche l'arcivescovo di Bologna, monsignor Matteo Zuppi, giovedì scorso è intervenuto al briefing quotidiano del Sinodo per dire che «serve una pastorale per i cattolici omosessuali». La cosa interessante è che tutti costoro parlano di «risposte che bisogna dare ai giovani» dando l'idea che finora la Chiesa non abbia mai affrontato il tema. E invece la Chiesa ha parlato e risolto la questione già da molto tempo, con un giudizio chiaro sull'omosessualità (dice nulla San Paolo?) e anche per quel che riguarda la pastorale le linee guida ci sono già nel Catechismo, per non parlare della Nota pastorale del 1986 firmata dall'allora cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. L'unica cosa nuova invece è che si ha l'obiettivo di cambiare la dottrina della Chiesa su questo punto, ed è a questo che mirano gli interventi di certi prelati che vedono il Sinodo sui giovani come il pretesto per fare un decisivo passo avanti in questa direzione. Si può stare certi che, a meno di una rivolta dei padri sinodali, il documento che uscirà da questo Sinodo andrà anche oltre il semplice riferimento ai giovani Lgbt. A spiegare il vero obiettivo ci ha pensato nei giorni scorsi il potente gesuita padre James Martin, autore del libro Un ponte da costruire Una relazione nuova tra Chiesa e persone Lgbt, nominato da papa Francesco consulente al Dicastero per la comunicazione e relatore molto discusso al recente Incontro mondiale delle famiglie a Dublino. Su America, la rivista dei gesuiti americani di cui è direttore, padre Martin ha sostenuto l'importanza di usare la terminologia Lgbt come forma di rispetto e inclusione, e anche di considerare le coppie omosessuali famiglie a tutti gli effetti (il che porta con sé la bontà della benedizione alle coppie gay, passaggio già approvato da alcuni vescovi). Ovviamente parliamo di obiettivi intermedi, perché il traguardo finale è l'effettiva parificazione di ogni tipo di unione e di orientamento sessuale. Ma intanto si comincia con il dirottamento del Sinodo sui giovani.
· Intersex. C’è una “I” in LGBTI.
Intersex: io mutilata da bambina per decidere di che sesso ero. Pubblicato giovedì, 13 giugno 2019 da Cristina Obber su Corriere.it . Cè una ”i” in quella sigla lgbtqia, una i di cui sappiamo poco o niente. E’ una i che riguarda dei neonati e delle neonate che nascono con una condizione biologica, non perfettamente conforme agli stereotipi culturali che identificano un corpo femminile o maschile; le variazioni possono apparire nei cromosomi di una persona, nei genitali, o negli organi interni come testicoli ed ovaie. Alcuni tratti intersex sono identificabili alla nascita, altri si scoprono alla pubertà, o più tardi nel corso della vita. Poche di queste condizioni comportano rischi scientificamente provati per la salute, ma anziché lasciare a loro il tempo per raccontare al mondo chi sono, questi neonati vengono spesso violati. Gli adulti impongono la propria scelta, e in fretta, perché c’è da presentare la creatura ad amici e parenti, c’è un nome da registrare all’anagrafe entro dieci giorni con una crocetta da porre sulla casella del sesso, maschile o femminile, altro non è previsto. Comincia così la vita di alcune piccole persone, con una violenza che non li considera, che asseconda desideri altrui, che nega loro il diritto di essere accolti così come sono nati. Ogni storia è a se, le varianti sono tante intorno alla parola intersessualità, o intersex. Io ho incontrato Francesca (nome di fantasia) che crescendo non capiva bene il perché dei controlli, delle visite mediche, degli esami, di due interventi chirurgici subiti a 12 anni. Ha passato l’infanzia e la pre-adolescenza sentendosi dire dagli adulti una bugia dopo l’altra. Era una bambina esuberante, spigliata, a cui era proibito giocare a pallone, esprimermi attraverso la fisicità. Voleva fare judo ma le imposero di studiare pianoforte, affinché diventasse femmina anche nel senso più stereotipato del termine. Le ho chiesto di raccontarci che cosa vuole dire.
Che cosa ti dicevano i tuoi genitori?
«Mi dicevano che ero nata con due ghiandoline difettate, che bisognava controllarle. Quando a 12 anni sono stata operata hanno detto che bisognava farlo per evitare che potessero sviluppare un tumore. Dicevano che dovevo fare la brava perché era per il mio bene».
E tu facevi la brava?
«Sì, ero stata educata al rispetto e all’obbedienza, così cedevo e non chiedevo di più, ma venivo sottoposta di continuo a controlli e ad esami anche invasivi. Ricordo che spesso, durante i soggiorni in ospedale, stuoli di medici intorno a me, esaminavano le mie parti intime, tutti che volendo esaminare il caso particolare. Non capivo, era bruttissimo, ma obbedivo».
Invece che interventi erano?
«Ci sono molte tipologie di intersex, nel mio caso si trattava di asportazione delle gonadi».
Sei nata con i testicoli?
«Sì. Sono nata intersex, precisamente con deficit di un enzima che si chiama cinque alfa riduttasi; ero una bambina con una clitoride, una vagina, ma anche dei testicoli internalizzati. Nel mio caso la variazione si manifesta alla pubertà, e non si sa in quale direzione possa andare la persona. Avrei potuto crescere come sono o invece andare in una direzione più maschile dello spettro del genere. Invece era prassi, soprattutto 30 anni fa ma ancora oggi in tanti ospedali, intervenire chirurgicamente sui neonati o prima dello sviluppo, questo senza informare la persona, senza il suo consenso e senza il rispetto della sua scelta».
Come mai?
«Non esistono leggi specifiche che tutelino questi minori e proibiscano gli interventi dettati da motivi culturali, ove ovviamente non ci siano rischi per la salute. In Europa solo Malta ha prodotto una legge in materia che ha vietato questi interventi. I medici quindi molto spesso continuano semplicemente a fare come si è sempre fatto. E’ come se la cosa più importante fosse registrarti all’anagrafe invece che rispettarti come persona. E i genitori che si sentono dire che si deve fare, lo fanno».
Beh, è difficile trovarsi preparati a una situazione del genere, immagino ci si affidi ai medici con fiducia.
«Infatti è proprio questo che accade. I genitori sono sotto shock, si aspettano un maschio o una femmina, non qualcosa che gli viene presentato come difettoso. Gli si chiede di prendere decisioni difficilissime in poco tempo. E poi gli si raccomanda il silenzio, per non turbare la crescita».
Ti è mai capitato di sentire una frase di troppo dai tuoi genitori e insospettirti?
«No. Ma ricordo che la sera prima dell’intervento l’infermiera venne a depilarmi il pube, quando io le chiesi il perché mi rispose con un sorriso sornione Dai, perché non lo sai? Allora io chiesi spiegazioni sul tipo di operazione e lei ancora disse Davvero non lo sai? Di fronte alla mia insistenza quasi si arrabbiò e mi impose di sottopormi in silenzio alla sua opera. Provai un profondo senso di disagio e di ingiustizia. Piansi di nascosto e il giorno dopo fui operata. Non solo fanno delle cose su di te senza il tuo consenso, ma non sai nemmeno il perché e cosa stia accadendo al tuo corpo. Così hai solo ansie, paure e sensi di colpa, senza sapere nemmeno per cosa».
Potresti anche avere un sostegno psicologico.
«A seguito dell’intervento mi hanno mandato a un colloquio con una psicologa, un unico incontro, ma mi ha sottoposto ai classici test con le macchie e simili; mi ricordo che quando tornai a casa entrai nello studio di mio padre, che era alla sua scrivania. Mi chiese se la psicologa mi avesse detto che non avrei potuto avere figli. Dissi di no. Dopo quella rivelazione andai in bagno e spaccai il porta asciugamani con violenza e per questo dopo fui rimproverata».
Ma nemmeno tua madre ti aveva mai parlato di sviluppo, pubertà mestruazioni?
«Mai, mi ha detto di recente, perché siamo riuscite a parlarne dopo 20 anni, che aveva seguito le raccomandazioni dei medici, che aveva seguito il protocollo. Mantenere il segreto, questo era fondamentale. Intanto a me cambiava la voce, si mascolinizzava, e non capivo perché. Dall’età di 12 anni prendo farmaci per il controllo ormonale. Le mestruazioni non le ho mai avute, e le aspettavo con impazienza.
A quell’età si aspettano per diventare grandi.
«Sì, a un certo punto ero l’unica che non le aveva avute e mi ricordo che alle superiori, se una compagna chiedeva un assorbente io fingevo di cercarlo nello zaino e poi dicevo “Mi dispiace non ce l’ho”. Se non stavo bene fingevo di avere il ciclo, inventavo. Volevo conformarmi, non volevo sembrare diversa».
Quando ti hanno detto la verità?
«Mai. L’ho scoperto da sola, a 20 anni, in un modo orribile, quando mio padre è morto in modo improvviso. Sistemavo delle carte nel suo studio e ho trovato una cartelletta che mi riguardava. Sono rimasta immobile in quella stanza, con la cartella in mano. C’era scritto che ero nata con un corredo cromosomico xy e altre cose che non sapevo cosa volessero dire, ma mentre davo un senso a quello che mi era successo pensavo proprio che non avesse senso. Mi prese un attacco di panico».
E tua madre?
«Ero molto arrabbiata, e lei poveretta non sapeva nemmeno darmi spiegazioni, aveva fatto opera di rimozione. Credo perché per lei fosse forte la vergogna di aver messo al mondo una figlia imperfetta. Tutto ciò che è legato al genere soffre di un forte condizionamento culturale e ciò che esce dagli schemi è spiazzante quasi deviante. Anche io dopo averlo saputo ebbi paura. Salvo pochissime eccezioni ho custodito quel segreto per altri 20 anni».
Non l’hai detto a nessuno fino ai 40 anni?
«Proprio così, non ne ho parlato nemmeno con mio fratello, solo con due o tre persone nell’arco di vent’anni. L’anno scorso ho cominciato a fare coming out «morbido» come lo chiamo io e mi ha fatto sentire più sicura. Prima pensavo di dover nascondere un segreto terribile, la vergogna aveva preso il sopravvento. Soffrivo d’ansia, avevo poca stima di me stessa. La vergogna ti fa sentire in colpa e avevo paura di subire del male se fossi stata scoperta. Le prime volte che finivo su un sito che parlava di intersex chiudevo subito, in preda al panico».
Quando l’hai scoperto non hai pensato a un supporto psicologico?
«Sì, andavo dalla psicologa, vivevo troppo frequentemente situazioni di grande malessere, era tutto un cadere e rialzarmi, cadere e rialzarmi. Ho sentito dire che le persone intersex sono molto resilienti, sicuramente è una facile generalizzazione, ma io ho dovuto imparare ad esserlo. Ma nemmeno quella psicologa era informata, me ne rendo conto oggi, lei mi aiutava genericamente e dunque alimentava quel segreto. Mi diceva proprio: “Lei non deve sentirsi obbligata a parlarne, nemmeno con il suo ragazzo”».
E come sei arrivata al coming out?
«Dopo alcuni anni senza seguire alcuna terapia psicologica mi sono trovata in un momento di difficoltà dopo la fine di una storia d’amore. Così ho cercato uno psicologo, navigando in internet; tra tanti medici ce n’era uno che tra le specializzazioni aveva scritto intersex, e ho scelto lui. Fin dalla prima seduta mi ha dato delle indicazioni illuminanti su tante cose che mi erano accadute, non solo a livello psicologico ma anche fisico e medico. E ho iniziato un nuovo percorso di consapevolezza e superamento del trauma».
Come ci si sente dopo così tanto tempo a dire al mondo qualcosa di così intimo su di sé?
«Le prime persone a cui l’avevo detto, dopo i 20 anni, quando era ancora un segreto, non erano preparate, si sono allontanate, anche una mia cara amica. Non è facile capire. Il coming out ora invece mi ha rassicurata, capisci che ci sono delle aree di sicurezza, che ci sono persone che non ti respingono, amici o fidanzati che non si allontanano, che continuano a volerti bene. E se c’è qualcuno che se ne va, il fatto mi da la misura di che persona sia, e mi dico “Chi se ne importa?”».
Quindi fondamentale è la competenza medica?
«Sì. Il mio psicologo è preparato, mi supporta e mi è di grande aiuto. Mi sono rivolta anche a un endocrinologo specializzato in intersex e ho capito che mi avevano sbagliato la diagnosi».
Come sbagliato?
«Sì, sbagliato. Mi è stato confermato anche da altri medici successivamente, sempre specializzati sull’intersessualità. Inoltre negli ultimi 15 anni avevo assunto farmaci sbagliati perché avevo incontrato medici non competenti, ed io che vivevo nella rassegnazione, accettavo tutto come se cadesse dal cielo. Il mio corpo è parzialmente resistente al testosterone. Avendo subito l’asportazione delle gonadi devo assumere ormoni, fondamentali per il metabolismo umano, il tessuto osseo e anche per il tono dell’umore. Nel mio caso ho bisogno di estrogeni. Per anni ho assunto anche progesterone che non serve in una donna con le mie caratteristiche, ma che anzi mi dava effetti collaterali come vertigini e capogiri, e disturbi del sonno e dell’umore durante i periodi di sospensione».
Come è possibile sbagliare farmaci così invasivi?
«Queste cose accadono perché esiste una scarsa conoscenza della tematica intersex e qualche medico preferisce tenersi il caso succulento pur non essendone competente piuttosto che cercare altri consulti. E la segretezza e la vergogna mi resero passiva di fronte a quanto succedeva. Mi è capitato anche solo un paio d’anni fa di essere sottoposta alla solita visita di routine affidata all’ennesima nuova specializzanda che mi fa fatto domande assurde di cui oggi sorrido. Mi ha chiesto se avevo peli sulla schiena o perché avessi la carnagione così olivastra. Ho risposto “Perché sono meridionale”! Era ridicola. Mi sentivo trattata come un giocattolo».
E’ terribile.
«Capisco che il sapere medico è qualcosa in continua trasformazione, ma il modo in cui sono stata trattata ha il sapore del torto e ha prodotto un susseguirsi di traumi. Fondamentale per me è stato incontrare altre persone che vivono la mia realtà o condizioni simili alla mia. All’inizio quando incontravo una nuova persona piangevo piena di commozione come se avessi ritrovato una sorella o un fratello. Sono infinitamente grata a loro ed agli alleati medici, psicologi e ai ricercatori che lavorano per migliorare il benessere delle persone intersex».
Cosa vorresti dire alle persone che vivono un’esperienza simile alla tua?
«Non sei solo, non sei sola, non sei invisibile. Cerca un gruppo di supporto o una community, esci dall’ombra e unisciti a noi».
Sono passati più di 40 anni dalla nascita di Francesca eppure ancora oggi la vita delle persone intersex è affidata al caso, dalle conoscenze dei genitori, dalle competenze dei medici a cui si affidano e dalla cultura in cui si è immersi, che definisce le aspettative sociali e fisiche di chi dev’essere per forza maschio o femmina. «E’ impossibile generalizzare, per la natura complessa della tematica», dice Marta Prandelli, ricercatrice esperta intersex. «Quel che è certo è che si tratta di una questione dalle molte sfaccettature che coinvolge diversi aspetti – medico, psicologico, sociale e legale sono solo quelli principali – ma che è ancora principalmente “gestita e trattata” da un punto di vista medico. Nonostante questo, non è materia basilare di studio universitario, ci si laurea in medicina spesso sapendo poco o nulla di queste tematiche e quando si entra in ospedale il come affrontare queste nascite dipende dall’esperto che si affianca, se portatore di vecchie teorie medicalizzanti o se all’avanguardia». «A livello nazionale e internazionale - continua Prandelli - c’è un problema di mancanza di dati ufficiali, non vi è una ricerca organizzata che tracci i percorsi delle persone intersex e gli effetti a lungo termine delle terapie ormonali, degli interventi chirurgici o dell’assenza degli stessi. Storicamente i medici che hanno seguito le persone non hanno tenuto database ufficiali e ancora oggi condividono con i colleghi o con i ricercatori solo alcuni dei casi più eclatanti, prevalentemente in gruppi ristretti di pochi esperti». «Spesso le linee guida sono ancora influenzate dalle teorie di John Money su cui si basava la prassi di intervenire chirurgicamente entro i primi 18 mesi di vita, mantenendo il segreto degli interventi con i neonati operati, i quali da adulti non capivano il senso e la storia delle loro cicatrici. Teorie degli anni ‘50 smentite dalle vite di quegli stessi neonati che crescendo si sono ribellati a ciò che era stato loro imposto -continua Prandelli -. Ancora oggi sentiamo parlare di un disordine (in medicina la dicitura ufficiale è Disorders of Sex Development (DSD) – Disordini dello sviluppo del sesso) di qualcosa da curare, da correggere, mentre le persone intersex potrebbero crescere così come sono nate, senza necessità di alcun intervento se non volontario, in età adulta, poiché ogni caso è a sé e perché nessuno degli interventi principali è da considerarsi salvavita». «È qualcosa che esiste da sempre - continua Prandelli - solo che a inizio secolo queste variazioni delle caratteristiche del sesso biologico passavano pressoché inosservate, nel caso di ambiguità visibili erano le levatrici, i nonni, i genitori o i padrini/madrine a preoccuparsi di affermare un genere e dunque un ruolo sociale. Non c’erano controlli neo natali e la medicina non aveva ancora fatto i passi che hanno segnato la seconda metà del novecento. Anche nella seconda metà del secolo comunque a scegliere erano spesso i medici senza nemmeno informare i genitori, e quando li informava chiedevano il silenzio dopo l’intervento chirurgico (anche sulla somministrazione di farmaci che venivano fatti passare come vitamine o altro), dicendo che era meglio fare finta che i figli fossero nati così, con i genitali interni o esterni modificati dall’intervento chirurgico». Prandelli afferma che spesso sono i medici a guidare la scelta dei genitori, ma a volte sono gli stessi genitori che chiedono ai medici di dare loro una soluzione perché non prendono in considerazione la possibilità che la loro creatura non rientri in una delle due caselle, maschio o femmina. A casa è tutto pronto, un corredino, una cameretta, un fiocco azzurro o rosa. Sono ancora saldi gli stereotipi che ci affibbiano colori e i giochi che a loro volta impongono ruoli, comportamenti, destini. La sua ricerca ha approfondito proprio l’aspetto genitoriale e le aspettative socio-culturali, le difficoltà, le resistenze, i punti di forza e le consapevolezze di chi si trova completamente impreparato a una situazione che destabilizza poiché non vi è corso preparto che ipotizzi la possibilità intersex, che ne faccia comprendere le molte sfaccettature, che chiarisca che non si tratta di una malattia ma di una variante biologica congenita di fronte alla quale si può scegliere di non agire, rispettando la persona che si è messa al mondo e lasciandola crescere in modo del tutto naturale. «Ho lavorato in ambulatori pediatrici e mi è capitato di vedere medici cercare di procrastinare un intervento di fronte alla fretta dei genitori di dire “è un maschio” o “ è una femmina”. C’è un problema culturale da affrontare, l’attivismo intersex è ancora molto giovane. Per i genitori è indispensabile un supporto psicologico specializzato, sia per come parlarne con i propri figli sia tra loro. Il tabù spesso impedisce un dialogo sereno tra gli stessi adulti, raramente la cosa si racconta ai parenti, ai nonni, agli amici o alla scuola, un po’ per riserbo, un po’ per proteggere figli e figli da giudizi o atteggiamenti compassionevoli e stereotipati». Nel mondo si comincia a parlare più serenamente di intersex, grazie anche a coming out di persone note, come la modella Hanne Gaby Odiele. Uscire dal silenzio, portare le proprie storie rivendicando la propria dignità e il proprio orgoglio di essere se stessi è la strada per scardinare ogni tabù. In questo oggi la rete può fornire supporti utili di conoscenza, consapevolezza e aggregazione.
· Misoginia. L'Iper Femminile.
Emily Ratajkowsi si fa crescere i peli sotto le ascelle: la foto per un servizio sulla femminilità. Libero Quotidiano il 9 Agosto 2019. Emily Ratajkowsi ha deciso deliberatamente di farsi crescere i peli sotto le ascelle per un servizio fotografico con Harper's Bazaar US. La modella, spesso criticata per i suoi numerosi nudi su Instagram, ha scritto un articolo per la rivista in merito a cosa significhi la femminilità. "Se decido di radermi le ascelle o far crescere i peli, dipende da me. Per me, i peli del corpo sono un'altra opportunità per le donne di esercitare la loro capacità di scegliere, una scelta basata su come vogliono sentirsi e le loro associazioni sull'avere o non avere i peli del corpo". Ad apportarle tutte queste conoscenze è stato uno studio sul "genere", che ha frequentato all'università: "Certo, sono sicura che la maggior parte delle mie prime avventure indagando sul significato di essere una ragazza siano state pesantemente influenzate dalla cultura misogina. Diavolo, sono anche sicura che molti modi che uso per essere sexy sono fortemente influenzati dalla misoginia. Ma mi fa sentire bene ed è una mia dannata scelta, giusto? Non è questo il femminismo: la scelta?"
Martina Villa per Iodonna.it il 9 agosto 2019. Due estati fa Emily Ratajkowski, nota ai più come “Emrata”, 28 anni (in curriculum, i video musicali di Blurred Lines di Robin Thicke, Love Somebody dei Maroon 5 e una parte da co-protagonista con Zac Efron nel film We Are Your Friends: il resto del successo sta nella raccolta di foto delle sue curve sui social) era in vacanza con alcune amiche, e una le fece un’osservazione, del tutto disinvolta: la definì “hyper-feminine”, una “super femmina” perennemente sensuale. Che poi, è esattamente il modo in cui Emily da tempo si racconta a suon di pose, selfie e micro bikini millmetrici della sua linea Inamorata Swimwear ai suoi milioni di fan. Di fatto, «Rimasi scossa: sentivo che il suo commento era una semplificazione eccessiva della mia identità. La sua osservazione mi sorprese e mi fece sentire improvvisamente imbarazzata», racconta la modella ad Harper’s Bazaar US, che le dedica una cover speciale. Quella del prestigioso numero di settembre, in cui Emrata appare fotografata da Michael Avedon come non si era mai vista: non depilata. Per una volta, non in pose da bambola tutta curve, pelle dorata e maxi labbra col broncio. Come, insomma, da qualche anno, il mondo si è abituato a vederla. Una colpa voler essere esibitamente femminili? È il tema che la rivista e la direttrice Glenda Bailey chiedono alle lettrici, scegliendo come “cover girl” proprio lei, una ragazza da sempre bombardata per aver fatto della propria fisicità e femminilità esibita un carta vincente. E che, con un simbolo femminista come l’ascella non depilata, rivendica una storia tutta diversa. «Più tardi quella notte ho pensato a cosa significa essere “iper femminile” e provato a capire perché mi fossi sentita così offesa. La verità è che, ho pensato, io adoro essere femminile! Fin da bambina: ricordo che 13 anni, forse anche 12, avevo già il desiderio di provare reggiseni di pizzo e lucidalabbra appiccicosi». La modella, ex studentessa in Belle Arti, scomoda il corso di studi di genere frequentato alla UCLA, la sua prima introduzione a temi come parità, libertà, distinzione fra i generi e retorica femminista, che ritiene le abbia dato gli strumenti per affermare quanto racconta oggi ad Harper’s Bazaar. «È stato bello, crescendo, giocare con il mio lato femminile, e lo è ancora adesso. Mi piace sentirmi sexy nel modo in cui mi sento: i modi in cui vengo giudicata per essere sexy ritengo siano fortemente influenzati dalla misoginia: essere occasionalmente iper femminile mi è sempre sembrato una forza. Non pretendo di comportarmi come se la mia identità non mi avesse reso alcune cose più facili. Mi fa sentire bene ed è una mia dannata scelta, giusto? Non è questo, in fondo, il femminismo: la scelta?» chiede sulle pagine di Bazaar. Per misoginia la top intende «la paura delle donne in generale, ma anche, più specificamente, del potere innato che la sessualità femminile possiede. Una donna diventa troppo potente e quindi minacciosa quando prende forza dall’abbracciare il suo sesso. Pertanto insistiamo sul vergogna: insistiamo sul fatto che una donna perda qualcosa quando ostenta o abbraccia la sua sessualità». Cresciuta con il ricordo di un’insegnante di scuola media che le ripeteva «non puoi aspettarti che qualcuno ti rispetti, se ti mostri in determinati modi», oggi, da donna adulta, Emily si dichiara scioccata dal modo in cui, nel 2019, sembra ancora valere quella massima. «Quando sono stato arrestata a Washington per protestare contro la nomina di Brett Kavanaugh alla Corte suprema, un uomo che ha mostrato una grande mancanza di rispetto nei confronti delle donne nella sua vita, i titoli non riguardavano ciò per cui stavo protestando, ma piuttosto cosa indossavo. Anche le donne di sinistra, che hanno pienamente sostenuto lo scopo della mia protesta, hanno fatto commenti sul mio reggiseno mancante sotto la mia canotta bianca e jeans. Nella loro mente, il fatto che il mio corpo fosse del tutto visibile aveva in qualche modo screditato me e la mia azione politica. Ma perché?». Eccovi quindi l’ascella non depilata, se è questo che bisogna far vedere per essere considerate femministe, dice, non troppo fra le righe, in cover. «Se decido di non mettere il reggiseno è una mia scelta. Se decido di radermi o meno le ascelle, dipende da me. Per me, i peli del corpo sono un’altra opportunità per le donne di esercitare la loro capacità di scegliere. Togliere il reggiseno così come lasciarmi crescere i peli può farmi sentire sexy. E non c’è una cosa più sexy dell’altra, una scelta giusta, nessuna che mi renda femminista o una “cattiva femminista”. Finché la decisione è la mia scelta, allora è la scelta giusta. E tutte le donne dovrebbero essere in grado di indossare o rappresentare se stesse come vogliono, che si tratti di un burka o di un bikini a perizoma». I numeri vertiginosi di like che il suo corpo svestito dai micro costumi Inamorata Swimwear raggiunge non dovrebbero sconvolgere più nessuno: non sono una scelta più discutibile o sbagliata, ad esempio, di non radersi, non truccarsi, o fare qualunque scelta riguardo il proprio corpo contro ogni forma di preconcetto, canone e pregiudizio. Chi è d’accordo?
· Il Taglio dei Maschi.
CHIU' PILU PI' TUTTE. Martina Manfredi per Glamour.it il 28 giugno 2019. La depilazione non è certo un’invenzione della nostra società: lo facevano già le egiziane, usando le conchiglie, poi nel 1915 grazie a Gillette anche le donne hanno potuto godere della comodità del rasoio, finché tra gli anni ’50 e ’70 radersi è diventata una normalità. Prima nelle zone più esposte alla vista, poi anche dove non batte il sole (nemmeno con i bikini più microscopici) con la moda della depilazione intima integrale. Oggi però le abitudini di depilazione e rasatura stanno vivendo un cambiamento epocale. Secondo una ricerca Mintel, in America il mercato è in calo del 3,9% rispetto al 2017, nonostante gli uomini glabri siano sempre di più. Mentre infatti la depilazione maschile sta diventando sempre più popolare – anche nelle parti intime con la moda del manscaping – tra le donne la tendenza è inversa: secondo Mintel, tra i 18 e i 24 anni le ragazze che si radono le ascelle sono scese dal 95% nel 2013 al 77% nel 2016, mentre quelle che si radono le gambe dal 92% nel 2012 sono diventate l’85% nel 2016. E se sul calo delle vendite incidono forse anche le tecniche di epilazione definitiva, le ricerche sulle abitudini non mentono: complici anche le star che sempre più spesso mostrano i loro peli – da Cara Delevingne su Instagram ad Halsey sulla copertina di Rolling Stones – il movimento #freeyourpits raccoglie sempre più adesioni. Le donne si radono meno, mentre le novità tra i prodotti depilatori sono sempre di più, dal rasoio di Wilkinson già insaponato alla luce pulsata a domicilio di Bellissima, dal gel depilatorio di Depilzero ai patch post-epilazione di Ayay (guardale tutte nella gallery in alto). Tra le novità comunque non mancano i marchi che cavalcano l’attitudine #hairpositive invitando le donne a radersi solo dove e come vogliono, e non per dovere sociale. Tra questi a colpire di più è stata la nuova campagna pubblicitaria del rasoio Billie, Red, White, And You Do You, che sarà lanciata simbolicamente per il 4 luglio, giorno dell’Indipendenza americana: protagoniste sono 5 donne di varie etnie e taglie che si mostrano in costume da bagno, alcune delle quali mostrando con naturalezza ascelle e inguine non depilati.
FERMIAMO LA DEFORESTAZIONE! Da Dailymail.co.ik il 4 luglio 2019. Ragazze, basta con quest’ossessione del pelo pubico. Passate più tempo a farvi toccare dall’estetista che dal vostro ragazzo. E non è vero che la vagina liscia liscia, come quella di una bambina, sia più igienica. D’altronde se i peli là sotto esistono ci sarà un motivo? Primo tra tutti, quello di proteggere la fessura più esposta e delicata del corpo di una donna. Sempre più ragazze optano per rasarsi in parte o del tutto i peli pubici, riportando la vagina al suo aspetto più infantile. Lo fanno prima del sesso, prima di una festa, dell’estate o di una visita dal medico, per sentirsi più fresche e pulite. Ma gli esperti mettono in guardia: la depilazione intima elimina lo strato protettivo della peluria e aumenta il rischio di contrarre infezioni e malattie sessualmente trasmissibili. A capo dello studio il dottor Benjamin Breyer, professore associato presso il dipartimento di urologia di San Francisco: “Crediamo che la ceretta all’inguine sia associata alla trasmissione di malattie e virus”. Più di 3.316 donne tra i 18 e i 65 anni hanno partecipato allo studio e l’84 per cento di queste era rasata. “La cosa più evidente dai risultati è che le donne si fanno la ceretta intima sulla base di numerose pressioni esterne che sono probabilmente aumentate negli ultimi dieci anni.” Il dottor Tami Rowen, dal reparto di ostetricia, ginecologia e scienze della riproduzione di San Francisco, commenta: “La depilazione è diventata un aspetto fondamentale per le donne del 21esimo secolo”. Tra queste, però vi sono però differenze demografiche sorprendenti. Le donne che si depilano di più hanno meno di 50 anni sono per lo più bianche e hanno frequentato l’università”.
Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 22 luglio 2019. È una pratica sempre più diffusa, e sono sempre di più le donne che la scelgono. La depilazione totale del pube, delle grandi labbra e del perineo, è diventata una vera mania, una drastica scelta per eliminare ogni singolo pelo, eseguita per piacere di più al proprio partner, per poter indossare costumi super sgambati al mare, od anche per sentirsi più pulite e a posto, senza sapere che questo tipo di rasatura nasconde moltissime insidie e addirittura può essere dannosa per la salute. I peli non sono mai "superflui", e se la natura ne ha predisposto nelle parti intime di tipo più spessi e robusti di quelli che abbiamo in altre parti del corpo, un motivo ci sarà, perché quel triangolo peloso svolge funzioni molto importanti, e le principali sono quella di protezione dai batteri ed infezioni, e quella di richiamo sessuale. L' allarme verso la depilazione intima totale arriva dal mondo scientifico, con un articolo pubblicato sul The Indipendent dagli ostetrici e dai ginecologi del Royal College, che mette in guardia uomini e donne sui possibili rischi che si possono incontrare in caso di epilazioni genitali prolungate o definitive, dimostrando come i peli pubici, con la loro flora batterica locale saprofita, rappresentino una barriera naturale contro gli agenti esterni del nostro organo di riproduzione, oltre ad essere un "cuscino protettivo" per la pelle sensibile della zona, il quale ha anche una funzione termoregolatrice, con il compito di mantenere adeguati livelli di umidità, impedendo il proliferare di lieviti e funghi, difendendo i genitali da eventuali germi che ne vengano a contatto, intrappolandoli nel folto cespuglio, prima che facciano danni. Infatti la mancanza totale dei peli pubici può favorire l' avvicinamento, la risalita e la penetrazione di microbi e di virus all' interno del nostro corpo, ed accanto a follicoliti, peli incarniti, piccoli ascessi e reazioni cutanee dovute alle sostanze irritanti contenute dei prodotti per la depilazione, i problemi più frequenti sono la comparsa di piccole lacerazioni delle mucose dovute allo strappo della ceretta, seguite da ustioni, arrossamenti o irritazioni cutanee, specie delle grandi labbra, tutte lesioni che attirano i microbi, e che, se non curate adeguatamente, possono facilmente infettarsi, o contaminarsi per la nota vicinanza con le urine. Generalmente i peli sono visti come poco igienici dal 60% delle donne e lo stesso vale per gli uomini, e dai dati delle ultime ricerche, condotte su oltre 7.400 persone di entrambi i sessi, ben il 66% dei maschi ha provato una depilazione intima, ed uno su quattro almeno una volta ha avuto patologie a seguito di tale pratica ed ha avuto bisogno del medico per risolverle.
Strappo integrale. I problemi infatti sono più frequenti in chi sceglie la rasatura integrale, e più il pelo è villoso più si depila spesso, al punto che molti soggetti ricorrono alla depilazione al laser, un metodo di epilazione progressiva e permanente, che agisce sul bulbo pilifero soffocandolo e bruciandolo, riducendo in tale modo la ricrescita del pelo fino all' 80%. Dopo l' epilazione manuale o meccanica, andrebbe applicata sempre una crema lenitiva, e se la depilazione è stata effettuata con luce pulsata o laser è necessario spalmare una crema antinfiammatoria per i tre giorni successivi, evitando l' esposizione al sole, l' applicazione di profumi, prodotti aggressivi o sostanze irritanti. La depilazione intima risulta irrinunciabile per oltre otto donne su dieci, anche se non tutte ricorrono a quella integrale, forse temendo il dolore, ma l' 85% elimina i peli pubici regolarmente e a radersi sono soprattutto le giovanissime, con cerette "hard" più o meno estese, e lo stesso vale per gli uomini, sottovalutando od ignorando il fatto che chi ricorre alla eliminazione totale del tappeto pilifero rischia di più di contrarre il Papilloma Virus, le verruche genitali, l' herpes genitale, o i vari tipi di micosi cutanee e mucose, e l' assenza totale di peluria pubica contribuisce e favorisce la proliferazione batterica. Inoltre i peli dei genitali hanno la finalità di trattenere gli odori, di favorire l' accoppiamento, essendo un evidente richiamo sessuale, e di evitare lo sfregamento e l' irritazione cutanea durante i rapporti.
Ghiandole preziose La zona inguinale infatti, essendo ricca di ghiandole sudoripare secernenti sostanze chimiche chiamate ferormoni, produce afrori più forti durante l' eccitazione e l' attrazione sessuale, e il genere umano è l' unico tra i mammiferi ad avere peli pubici. Inoltre gli odiati peli svolgono una importante funzione percettiva, poiché sono capaci di captare stimoli tattili altrimenti impercettibili, grazie ad una fitta rete nervosa che li circonda e che opera come una sorta di leva che amplifica gli stimoli tattili, ma tutti i peli del nostro corpo hanno una precisa funzione protettiva delle zone particolarmente delicate (ciglia e sopracciglia, peli del naso e delle orecchie, peli ascellari), mentre quelli del corpo, come anche quelli pubici, hanno anche il compito di termoregolazione e protezione dal freddo, trattenendo ed ostacolando la perdita di calore corporeo locale. Eppure, secondo una ricerca di Ashmen, pubblicata dall' HuffingtonPost, che indaga i gusti maschili, solo il 41% degli uomini apprezza le parti intime completamente depilate, il 38% trova che i peli possano essere eccitanti, mentre The Wire ha addirittura lanciato un appello per il "Rinascimento del pelo", rivalutando il suo antico significato erotico, ed esortando le donne a rendere di nuovo visibili i peli pubici, pubblicando un sondaggio che punisce clamorosamente l' esilio forzato o la crescita impedita della peluria del monte di Venere, per tornare a far sognare, a parlare di desiderio, restituendo al pelo pubico il suo significato simbolico ed intrigante. Perché il paradosso è che questo triangolo peloso, che noi donne strappiamo, bruciamo, polverizziamo, dal punto di vista medico, sessuale, erotico ed estetico, è il meno superfluo di tutti i peli del nostro corpo.
IL NUOVO RASOIO GILLETTE TAGLIA VIA I MASCHI, scrive Francesco Borgonovo per “la Verità” il 16 gennaio 2019. Il meglio per un uomo è non essere un uomo. Volendo semplificare un po', il messaggio dello spot della Gillette, nota marca di prodotti per la rasatura, potremmo riassumerlo così. Lo scopo del filmato pubblicitario diffuso nei giorni scorsi dovrebbe essere quello di combattere la «mascolinità tossica», ma a quanto pare i creativi hanno deciso di combattere la maschilità, punto. Sullo schermo vediamo una rassegna grottesca di stereotipi sul maschio, che viene di fatto dipinto come un bruto senza cervello governato dai propri organi genitali. Il tutto dura poco meno di due minuti. Ad aprire il filmato sono alcuni uomini che si guardano allo specchio nel bagno, prima di rasarsi. In sottofondo sentiamo i titoli dei tg che parlano di molestie sessuali all' epoca del Me too. Uno speaker domanda: «È questo il meglio di un uomo?». Poi parte la raffica di banalità. Prima ci sono alcuni ragazzini bulli che inseguono il compagno più debole per malmenarlo (e poco importa se nelle scuole italiane ed europee si viene educati per lo più da donne). Subito dopo viene stigmatizzata la comicità «sessista», mostrando lo sketch di una sitcom in cui un padrone di casa fa l'allupato con la cameriera. Ovviamente non poteva mancare il capoufficio arrogante che umilia la sottoposta. Un secondo più tardi siamo nel giardino di una casa borghese, dove due bambini si azzuffano mentre il padre li guarda sorridente e commenta «Sono maschi...». Insomma, tutta la prevedibile trafila di esempi negativi. Quindi vengono snocciolati i modelli virtuosi: un padre che interviene per fermare i bulli; un altro papà che impedisce ai piccoletti di picchiarsi in cortile; un maschio che ferma l'amico su di giri prima che abbordi una bella ragazza per strada. C' è pure una scenetta esilarante che si svolge durante una festa in piscina: un manzo con il bicipite gonfio, accompagnato da un sodale con telecamera, invita una dolce figliola in costume a sorridere. Fortuna che interviene un altro maschio «consapevole» a dirgli di smetterla... Gillette ha deciso, per l'occasione, di riutilizzare e ridefinire il suo storico slogan: «Il meglio di uomo». Ve lo ricordate? Rimbalzava sulle emittenti italiane già negli anni Ottanta, accompagnato da una intrigante canzoncina. È molto interessante notare come siano cambiati gli spot da allora a oggi. Si potrebbe pensare che nei filmati di trent' anni fa si vedessero chissà quali discriminazioni o furibonde esibizioni di machismo...E invece no. Nella pubblicità del tempo che fu scorrono immagini per lo più positive. Un padre che insegna al figlio a farsi la barba. Un uomo che abbraccia la sua amata alla fermata del treno. Il resto è roba da edonismo reaganiano che fa sorridere: atleti vincenti, uomini d' affari di successo...Nel peggiore dei casi, si tratta di messaggi innocui, che però nell' era della psicosi molestie divengono pericolosi, proibiti. Siamo passati dal maschio performativo a quello remissivo. Sono due stereotipi, ma il secondo è peggiore. Nello spot degli anni Ottanta, almeno, il maschio non era indicato come un molestatore o un bullo. In quello odierno, invece, la maggioranza degli uomini è descritta proprio così. Sono tutti fondamentalmente violenti, dunque vanno rieducati. E alla rieducazione, ovviamente, provvede lo spot. Un piccolo miracolo neoliberale: prima hanno convinto gli uomini a lavorare come pazzi, a competere come se non ci fosse un domani, a schiacciare il prossimo con ogni mezzo. Adesso li informano che il loro tempo è finito, e che devono adeguarsi alla femminilizzazione di massa. Perché ora tocca alle donne competere e farsi a pezzi con crudeltà. Chissà che ne penserebbe King G. Gillette, fondatore del marchio noto per le idee socialiste e le amicizie con alcuni scrittori molto impegnati come Upton Sinclair... Intendiamoci: tutto questo meriterebbe di essere liquidato con una risata (la pubblicità di un rasoio usa e getta che ha per target le femministe? Davvero?). Ma se si osserva come è stato recepito lo spot si diventa seri all' improvviso. I maschi che, sui social network, hanno contestato il filmato vengono trattati da sessisti vergognosi: la correttezza politica impone che la pantomima di Gillette vada elogiata. «Lo spot racconta un prima e un dopo», ha scritto Antonella Boralevi sulla Stampa. «Il "prima" sono molestie, umiliazioni sessiste, violenza, bullismo: la dimostrazione di una "virilità" intesa come sopraffazione. Il "dopo" mostra uomini consapevoli che intervengono per proteggere le donne, per fermare i violenti, per insegnare ai ragazzi e ai bambini il dialogo». Il fatto è che i maschi hanno agito così per secoli: hanno protetto le femmine e i figli, hanno trasmesso valori alle nuove generazioni, hanno combattuto soprusi. Ora, però, l'intero genere maschile è ridotto alla fiera dei bassi istinti, si salva solo chi sta mogio in disparte con la copertina sulle ginocchia. Oh, certo, noi ragazzi ci siamo anche menati con gli amichetti perché, sì, «siamo maschi». Qualcuno ha pure rincorso una ragazza in strada, rapito dal suo profumo. Non per questo siamo diventati tutti stupratori. Non per questo abbiamo bisogno di essere rieducati. In compenso, però, forse ci serve un nuovo rasoio elettrico. Con quelli a lama rischiamo di tagliarci e, oddio, sarebbe troppo violento, no?
La pubblicità della Gillette fa discutere. "È questo il meglio di un uomo". Gillette è contro bullismo e sessismo nel nuovo spot che fa discutere, la destra americana critica il messaggio del brand, scrive Carlo Lanna, Mercoledì 16/01/2019, su "Il Giornale". Il nuovo spot della Gillette ha diviso il pubblico del web. Il noto marchio di rasoi da barba ha sempre sponsorizzato un figura di un uomo forte, che non deve chiedere mai. Eppure nell’epoca del #Metoo e dei grandi cambiamenti socio-culturali, il brand si è posto una domanda più che lecita: “È questo il meglio di uomo?” Lo spot Gillette chiede di smettere di tollerare il bullismo, il sessismo e l’aggressività nei riguardi del sesso più debole. “Non si può far finta di niente” si sente dalla voce fuori campo, “non possiamo riderci sopra e attaccarci alla scusa che sono solo ragazzi. L’uomo deve prendersi la responsabilità delle proprie azioni.” Un messaggio che, alla luce dei recenti fatti di cronaca, è impossibile da ignorare. In poche ore lo spot del brand ha totalizzato ben 231mila visualizzazioni e, oltre ai sostenitori, ci sono molti detrattori che non hanno apprezzato fino in fondo la campagna messa in atto da Gillette. Le accuse sono arrivate soprattutto dalla destra americana che accusa gli ideatori dello spot di rendere gli uomini meno uomini. Infatti il magazine “The New American” che è intervenuto sulla questione, in un articolo ha affermato che la pubblicità di Gillette ha promosso assunzioni sbagliate, affermando che “gli uomini sono il sesso più selvaggio che gioca con la loro pericolosità.” Alcuni parlano anche di un atto contro una virilità. Eppure non si può ignorare un messaggio di questo tipo. Al di là di tutto la campagna pubblicitaria ha destato il giusto interesse.
''Il meglio di un uomo'' in chiave #MeToo: lo spot Gillette che ha fatto arrabbiare i ''maschi'', scrive il 15 gennaio 2019 La Repubblica TV. Il nuovo spot di Gillette, che sposa la campagna di #MeToo e denuncia il bullismo sessista degli uomini, ha scatenato le ire di gran parte dei consumatori che si sono sentiti "criminalizzati". Nella pubblicità, dal titolo "il meglio che un uomo può essere" che sostituisce l'ormai celebre slogan "il meglio di un uomo", l'azienda americana della Procter and Gamble, specializzata in rasoi e prodotti per la cura del corpo, esorta gli uomini a cambiare comportamento e a essere più rispettosi delle donne, criticando la "mascolinità tossica". Il video, che dura poco meno di due minuti, si apre con riferimenti alle molestie sessuali e agli abusi denunciati da #MeToo, e si chiude con elementi positivi, come un uomo che impedisce all'amico di molestare una ragazza per strada. La scelta è stata considerata coraggiosa da diverse persone, ma a molti uomini, principale clientela dell'azienda, non è piaciuta. In tanti hanno invocato il boicottaggio. Sulla polemica è intervenuto anche il direttore del marchio Gillette per il Nord America, Pankaj Bhalla, in alcuni casi tirato direttamente in causa. "La discussione è importante e in quanto società che incoraggia gli uomini a essere al meglio, ci sentiamo in dovere di parlarne e agire", ha spiegato Bhalla."Abbiamo guardato realisticamente a ciò che sta accadendo oggi e miriamo a ispirare il cambiamento", ha aggiunto. Nel giro di 48 ore il video su YouTube ha totalizzato quasi 5 milioni di visualizzazioni. Tuttavia i like sono poco più di 100mila a fronte degli oltre 380mila "non mi piace".
L’assalto alle lamette Gillette. Il mea culpa della famosa marca per tutti questi anni di mascolinità tossica e le conseguenze del #MeToo, scrive Simonetta Sciandivasci su Il Foglio il 16 Gennaio 2019. Metti che sei un maschio, cosa molto grave in sé, e ti sbarbi da sempre con un rasoio Gillette. Sei un cliente fedele, e anche una persona fedele, a modo e perbene, non hai mai molestato, insultato, perseguitato nessuno. A volte hai persino pianto, persino al cinema, vergognandotene sì, ma non abbastanza da reprimerti. Ti ha sempre fatto sorridere quello slogan di Gilette, quello che dice “Il meglio di un uomo”, e non ti ci sei troppo interrogato, né sentito ritratto, incluso, omaggiato, difeso – dopotutto era solo uno strillo pubblicitario. Adesso, però, Gillette ha deciso di smetterla di coccolarti e di principiare a educarti, quindi ti ha dedicato una pubblicità progresso di quelle che usano ora, quelle che ti vendono qualcosa rimproverandoti, e ti ha fatto vedere tutto quello che sei stato, quello che siete stati tu e quelli come te (i maschi), e ti ha detto che devi migliorare, e che il meglio tuo, il meglio di un uomo, deve ancora venire, avanti, dimostracelo, dimostratecelo. E tu e molti altri come te (maschi) vi siete incazzati, e cosa farete, adesso, boicotterete Gilette, smetterete di farvi la barba, farete ritornare di moda gli hipster, ora che credevamo di essercene liberati? Gillette si impegna al fianco del #MeToo, ha scritto il Guardian. Molte donne si sono commosse, hanno pensato: finalmente questi qua hanno capito che la correzione del maschio è onere dei maschi, non nostro, lo dice persino il loro rasoio. Nella galleria di esempi di mascolinità tossica del clippino progresso non manca niente: un branco di maschi alfa appostati dietro un barbecue, un capo che toglie la parola a una dipendente, un cretino che pizzica il culo a una casalinga, bulli in tenera età. Poi, la voce narrante chiede se quella robaccia sia il meglio di un uomo, e certo che no, noi crediamo che gli uomini possano essere migliori di così. E parte la galleria della rieducazione, una video didascalia molto precisa su come tu, che finora hai pensato di essere potente perché toccavi il culo a una femmina, dovrai impedire che quelli che verranno dopo di te facciano lo stesso (sedando le risse, abbracciando chi piange, mettendo tua figlia davanti a uno specchio e facendole dire “io sono forte, io sono forte”). Negli Stati Uniti la reazione dei conservatori è stata durissima, e certi portavoce del Man’s right activism hanno detto che Gillette descrive i propri clienti come se fossero tutti, indiscriminatamente, violentatori potenziali. Tirata fuori dal bollito scontro tra attivismo femminista e attivismo in difesa del maschio, e fuori dalla militanza #MeToo, la questione è assai più larga, e racconta come nel principio di precauzione sia finito sussunto il pregiudizio, creando un terrificante mostro che chiamiamo sicurezza. La prevenzione, conseguentemente, è diventata un esercizio di controllo integralista – nota di costume, e spassosa coincidenza: Sergej Ejzenstejn, maniaco del controllo, nel suo studio teneva appesa una foto del signor Gillette, inventore della lametta di sicurezza. Una pubblicità che prende a sberle i propri clienti, incaricandosi del loro futuro, è un madornale errore di comunicazione? A Gillette si saranno pur fatti i loro calcoli (tra adulti ci possiamo dire che non hanno agito per l’igiene morale dell’umanità in favore delle donne): è meglio metterci dalla parte dei maschi o delle femmine, cosa ci rende più etici, ora che la bella eticità è una caratteristica indispensabile di un prodotto e/o del marchio che lo produce? Meglio le femmine, via: erediteranno la terra, avranno sempre bisogno di una lametta, fosse anche per tagliarsi le vene.
Non più virili ma femministi: lo spot Gillette attacca il patriarcato, scrive Cristina Gauri il 15 Gennaio 2019 su Primato nazionale. Il femminismo invade anche l’industria dei rasoi. Ve lo ricordate lo slogan pubblicitario Gillette “Il meglio di un uomo”? Da oggi, quale sia “il meglio di un uomo” lo stabilisce il pensiero unico. La nuova pubblicità del rasoi di marca Gillette esorta infatti il maschio bianco eterossesuale a compiere un esame di coscienza sulla propria mascolinità e sul modo – problematico – in cui cresce i propri figli. Lo spot, intitolato “We Believe: The Best Men Can Be,” è essenzialmente una generalizzazione, tutta declinata in negativo, su come gli uomini agiscono e pensano. La pubblicità rappresenta ragazzini impegnati in risse o attività da “bulli”, schiere di uomini che cucinano carne davanti a un barbecue, che importunano donne o si rivolgono ad esse con atteggiamento paternalistico: un medley dei cosiddetti atteggiamenti di “mascolinità tossica” tanto stigmatizzati dalle lobby femministe e lgbt. Nel polpettone paternalista (o forse sarebbe meglio dire maternalista) c’è anche spazio per alcuni fotogrammi che rimandano al #MeToo. Alla fine dello spot, i vari protagonisti si redimeranno e si spoglieranno di tutte le caratteristiche di virilità “negativa” attribuite da femministe e compagnia bella. In un’intervista sul Wall Street Journal, Pankaj Bhalla, il direttore del brand, afferma che lo spot vuole fornire uno spunto di riflessione sui cambiamenti che l’uomo americano (ma è chiaro che la riflessione riguarda soprattutto l’uomo bianco) deve iniziare ad apportare su se stesso. “La nostra azienda vuole incoraggiare gli uomini a dare il loro meglio”, dice Bhalla. “Diamo uno sguardo realistico a cosa sta succedendo oggigiorno, e miriamo a ispirare un cambiamento riconoscendo che il vecchio adagio "gli uomini si devono comportare da uomini" non può più essere una scusa per avvallare comportamenti tossici”. Lo spot ha immediatamente suscitato lo sdegno di gran parte della clientela Gillette; in molti hanno espresso il proprio disappunto sui social dichiarando che non si serviranno mai più dei prodotti dell’azienda. Su Youtube i “mi piace” al video sono circa un quinto rispetto alle reazioni di pollice verso:
Un utente Twitter tuona: “Cercherò in casa mia ogni prodotto della Procter & Gamble, li getterò tutti nella spazzatura, non ne comprerò mai più finché tutti gli autori dello spot non verranno licenziati e l’azienda non diffonderà un comunicato di scuse rivolto a tutti gli uomini che ha insultato”. Un altro scrive: “Care donne, la ‘mascolinità tossica’ è accettabile solo quando vi salva da un edificio in fiamme, quando parte per la guerra per proteggere voi e la vostra libertà, o quando porta in salvo cuccioli, gattini o cavalli dagli allagamenti provocati dagli uragani?” Cristina Gauri
Gillette, lo spot del rasoio da barba è troppo femminista. Aiuto! Scrive il 16 Gennaio 2019 Monica Lanfranco, Giornalista femminista, formatrice sui temi della differenza di genere, su "Il Fatto Quotidiano". È ben evidente che nessuna impresa commerciale, dalle grandi multinazionali alle piccole aziende famigliari passando per il commercio equo e solidale lavora per perdere consenso, ovvero acquirenti. È chiaro quindi che i messaggi per pubblicizzare i propri prodotti sono pensati (pagando profumatamente team di donne e uomini che realizzano le campagne promozionali) per sedurre il target e quindi continuare a vendere. Eppure talvolta si può andare controcorrente, rischiando anche di tagliare utili, se è per una buona causa. Che si tratti di marketing e non di politica non ha molta importanza, perché il dibattito sull’apprezzamento, o sulla disapprovazione, per la modalità di lancio di un prodotto diventa politica tout court, se affronta temi fondamentali per la società. E sì: se si tratta di uomini e di responsabilità maschile sulla violenza contro le donne le cose si fanno serie, pur trattandosi di “reclame”. Ne sanno qualcosa alla Gillette, una delle multinazionali più note nella produzione di prodotti per la rasatura e il corpo maschile. Chi ha più di 30 anni ricorderà l’headline per il prodotto di punta per la rasatura: “Il meglio di un uomo”. Le immagini degli spot si differenziavano, già negli anni 90, dallo stereotipo maschista più evidente, per esempio, in quelle della altrettanto storica e famosa campagna della Denim, che evocava l’uomo che non deve chiedere mai: faceva ridere, magari, ma risultava inossidabile e, sfidando i decenni, è diventato un evergreen, durando fino al 2012 (dove molto evidente è l’allusione porno soft). Oggi Gillette, marchio della potente Procter and Gamble, è nell’occhio del ciclone perché ha lanciato un video promozionale più lungo dei classici promo (già questa scelta di storytelling, come si usa dire oggi, è controcorrente) nella quale invita gli uomini ad abbandonare la cultura maschilista, perché quel “meglio di un uomo” si palesi in linea con i tempi e il cambiamento. “Non è forse arrivato il momento di smettere di trovare scuse per i cattivi comportamenti?” è uno dei passaggi dello spot, nel quale si vedono uomini che ne bloccano, o criticano, altri che fanno i bulli, si invita il mondo maschile ad abbandonare la virilità tossica e, i padri in particolare, a insegnare ai figli rispetto e vicinanza verso le ragazze e le donne. Inevitabile, dato l’incipit del video che richiama in modo molto riconoscibile la campagna #MeToo, che questa citazione e il tono generale del video creassero un sorplus di attenzione. Purtroppo le reazioni non sono state molto positive. A guardare il dislivello tra i like e i dislike sembra proprio che la maggioranza dei fruitori delle lamette siano lontani dalla sensibilità anti machista e womenfriendly della campagna. In molti, nei commenti sui social, si sono addirittura sentiti “criminalizzati”, hanno invitato al boicottaggio, hanno dichiarato che non compreranno mai più i prodotti, hanno evocato una imprecisata “propaganda femminista”, e c’è chi, infine, ha chiesto delle scuse (non si sa perché e a chi, ma tant’è). Nel giro di due giorni il video su YouTube ha totalizzato 5 milioni di visualizzazioni, con 100mila like a fronte degli oltre 380mila non mi piace. “La discussione è importante, e in quanto società che incoraggia gli uomini a essere al meglio ci sentiamo in dovere di parlarne e agire”, ha dichiarato Pankaj Bhalla, direttore del marchio per il NordAmerica. Come già avvenuto nella storia della pubblicità siamo di fronte alla funzione educativa della comunicazione pubblicitaria delle grandi aziende globali: non accade spesso, ma accade. Essa talvolta precede e invita al cambiamento rispetto alla realtà e al sentire diffuso: è stato, per esempio, il caso della famiglia gayritratta da Ikea o della campagna per i giochi intelligenti della GoldieBlox per le future ingegnere, che nell’ultima versione usa la notissima We are the champions per incoraggiare le bambine a pensarsi meno come principesse e più come scienziate. Vuoi vedere che ci toccherà comprare le lamette per sostenere la campagna anti machista, proprio noi femministe che notoriamente non ci depiliamo nemmeno le ascelle?
SE NELLA PUBBLICITÀ C'È SPAZIO SOLO PER IL MASCHIO "TOSSICO". Comportarsi da uomini è divenuto sinonimo di violenza, bullismo e sessismo. Se corteggia, l’uomo è un molestatore. Se dice no ai figli, è un autoritario senza scrupoli. La sua forza è solo prevaricazione distruttiva. Lo spot della Gillette (che ha diviso il web) è solo l’ultima conferma, scrive Antonio Sanfra il 16/01/2019 su Famiglia cristiana. Povero maschio, come se non bastassero tutti i guai che già ha, ora ci si mette anche la Gillette a fustigarlo senza pietà. Intendiamoci: se uno spot pubblicitario fa discutere significa che è fatto bene e ha raggiunto il suo obiettivo. Ma il punto non è questo. L’ultima pubblicità dell’azienda americana che produce lamette e accessori da barba, s’intitola “We believe”, ammicca al movimento contro le molestie sessuali #MeToo, mette insieme immagini di sessismo nei film e nelle pubblicità ma anche sul luogo del lavoro e atti di bullismo e violenza tra ragazzi. Fuori campo una voce si chiede se è proprio questo il meglio che un uomo può ottenere da se stesso, riprendendo quel “meglio di un uomo”, lo slogan fortunato della Gillette che spopolava negli anni Novanta e incarnava, va detto, tutto un altro immaginario della virilità. Nulla di particolarmente eccentrico, allora: uomini che si sposano, si regalano momenti di tenera complicità con la propria moglie, insegnano ai propri figli a camminare, ad andare in bici e infine a farsi la barba. Un uomo normale, dunque, che svolge il suo ruolo di marito e di padre con senso di responsabilità e uno spiccato slancio di protezione (che è poi la vocazione autentica dell’uomo) verso le persone che gli sono vicine. Nello spot attuale, invece, si parla di “mascolinità tossica” e si sbatte sul banco degli imputati l’uomo in quanto tale. C’è chi ha parlato di spot “femminista”, chi ha protestato sui social (un utente ha scritto: «Care donne, la “mascolinità tossica” è accettabile solo quando vi salva da un edificio in fiamme, quando parte per la guerra per proteggere voi e la vostra libertà, o quando porta in salvo cuccioli, gattini o cavalli dagli allagamenti provocati dagli uragani?»), chi ha contato su Youtube, dove ha totalizzato quasi 11 milioni di visualizzazioni, i “mi piace” (232.276), molto inferiori alle bocciature (602.600). La voce fuori campo continua implacabile: «Non possiamo più far finta di niente, è andato avanti per troppo tempo, non possiamo ripetere la solita scusa: “sono solo ragazzi”». Insomma, dall'"uomo che non deve chiedere mai", slogan cult della campagna pubblicitaria della Denim degli anni Ottanta, siamo passati all'uomo che deve chiedere scusa a tutti di tutto, anche di esistere. In un’intervista al Wall Street Journal, Pankaj Bhalla, il direttore del brand, afferma che lo spot vuole fornire uno spunto di riflessione sui cambiamenti che l’uomo americano deve iniziare ad apportare su se stesso. «La nostra azienda vuole incoraggiare gli uomini a dare il loro meglio», ha spiegato Bhalla. «Diamo uno sguardo realistico a cosa sta succedendo oggigiorno, e miriamo a ispirare un cambiamento riconoscendo che il vecchio adagio “gli uomini si devono comportare da uomini” non può più essere una scusa per avvallare comportamenti tossici». Ecco, qui sta il cuore della questione. È mai possibile che negli ultimi anni l’immagine dell’uomo veicolata da alcuni media, campagne informative e dall’industria pubblicitaria sia una soltanto? Quella, cioè, di un uomo naturaliter violento, prevaricatore, che usa la forza solo per minacciare, offendere, distruggere e uccidere? In una pubblicità di una rivista femminile del 2008 si vedeva un bimbo di appena due anni con sotto la scritta “carnefice”. Accanto, una bimba con la scritta “vittima”. È mai possibile che se oggi uno afferma, come dice Bhalla, che “un uomo deve comportarsi da uomo” l’allusione (neanche troppo velata) è alla violenza, al sessismo, al bullismo? Se corteggia, l’uomo è un molestatore. Se dice no ai figli, è un autoritario senza scrupoli. Ancora bambino, è già sbattuto sulle pagine dei giornali e bollato come “carnefice” come se dovesse scontare la colpa di essere nato. Nessuna difesa d’ufficio, sia chiaro. Che l'uomo di oggi sia smarrito e in cerca d'identità è un dato di fatto. Il tema è complesso e il dibattito scatenato attorno a questo spot pubblicitario lo dimostra pienamente. Ma, forse, certi stereotipi sulla mascolinità sono un boomerang per tutti e non aiutano a riflettere seriamente. Non a caso, l’antropologo Franco La Cecla in Modi bruschi (Elèuthera) lo scrive chiaro e tondo: «La nostra epoca non sa che farsene di una riflessione sul carattere maschile, non sa che farsene del carattere maschile. Il carattere maschile si dà oggi per contrazione (per ritirata, per rancore, per reazione rabbiosa), o per ironia, uno “scusatemi”, un “non se ne dovrebbe parlare”. Certamente è un malinteso». Tornando allo spot della Gillette, la seconda parte risente un po’ meno degli stereotipi iniziali e mostra esempi di uomini che fermano i litigi tra i ragazzi o rimproverano altri che dicono cose inappropriate alle donne. Un avvertimento ragionevole, se vogliamo. Come dire: uomini non si nasce ma si diventa. E questo, ça va sans dire, vale per tutti, maschi e femmine. D'altra parte, tutta la tradizione favolistica, spirituale e religiosa occidentale, a cominciare dal Cristianesimo, non si stanca di ribadire questo punto cruciale dell’esperienza umana. L’uomo viene alla vita senza deciderlo, ma non diventa uomo senza deciderlo. Però questa, forse, è già un’altra storia…
· Accuse di molestie sessuali: "Metodo Iene" o "Metodo Brizzi"?
Da “I Lunatici - Radio2” il 21 maggio 2019. Nicolas Vaporidis è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta ogni notte dall'1.30 alle 6.00 del mattino. L'attore romano ha parlato un po' di sé: "Da bambino sognavo di fare l'astronauta, per accontentare il valore di mio nonno, che non so perché mi sognava astronauta. La passione per la recitazione nasce ai tempi del liceo, alla fine della scuola. Nasce parallelamente alla scuola, anche perché non c'erano dei corsi di teatro, cosa che a mio avviso dovrebbe essere obbligatoria quasi. Il teatro è un modo bellissimo per cercare di conoscere meglio sé stessi e gli altri. Un corso di teatro dovrebbero metterlo nelle scuole e nei licei. All'inizio ero molto spaventato, poi tanto più recitavo, tanto più mi piaceva farlo. In famiglia hanno sempre assecondato la mia volontà, qualunque cosa io avessi voluto provare a fare. Non mi hanno mai detto di no, però mi prendevano per i fondelli, mi chiamavano l'attore, non nell'accezione positiva del termine". Poi è arrivata la grande occasione: "E' stata 'Notte prima degli esami'. Lì davvero è intervenuto il destino. Lavoravo già da cinque anni, avevo fatto una comparsata nel film di Pieraccioni, fatto un film da protagonista con Giancarlo Giannini, ma stavo iniziando a pensare di fare l'attore continuando a fare l'università. A un certo punto per seguire il mio percorso universitario sono andato a Torino. Lì arrivò Fausto Brizzi, con il provino di 'Notte prima degli esami' che io all'inizio non volevo nemmeno fare. Non pensavo avesse portato grandi frutti. Onestamente il nostro mestiere è molto bello, ma poterci vivere è molto difficile. All'epoca avevo deciso di concentrarmi di più sull'università. Poi è arrivato Brizzi e mi ha convinto a tornare a Roma. Nessuno sul set si rendeva conto che 'Notte prima degli esami' sarebbe diventato un cult. Nasceva con Laura Chiatti come protagonista, poi lei fece un film con Sorrentino ed arrivò Cristiana Capotondi. Eravamo tutti giovanissimi e praticamente sconosciuti, anche Brizzi era lo sceneggiatore dei film di De Laurentis, non aveva mai girato nulla. Eravamo tutti freschi, inconsapevoli, dedicati totalmente a quel progetto. Siamo rimasti tutti sorpresi da quel film, è stato un tsunami, una cosa che ti arriva addosso e ti stravolge totalmente la vita. Sono passati 12 anni da quel film ma ancora oggi, soprattutto in questo periodo, 'Notte prima degli esami' sembra come "Una poltrona per due" a Natale". Su Fausto Brizzi: "Cosa penso di tutto quello che gli è accaduto? A distanza di quasi due anni non riesco a dare un giudizio oggettivo e distaccato. Qualunque cosa dicessi potrei essere considerato uno stronzo maschilista che fa parte del sistema oppure un giustizialista che non si rende conto delle particolarità dei casi. Conosco Fausto da tanti anni, mi sembra molto difficile conoscendo il sistema e conoscendo lui che tutto ciò possa essere vero, ma non lo so per certo. Quindi mi fido di fonti più autorevoli. Io a Fausto sono affezionato e gli voglio molto bene. Ha una bellissima figlia, quello che gli è stato fatto è una gogna mediatica che a me spaventa perché chiunque potrebbe finirci dentro. La modalità mi terrorizza. E' agghiacciante. Io a Fausto voglio bene come essere umano e come amico, come regista lo stimo molto".
Storie Vere, Giorgia Wurth choc su Fausto Brizzi: "Le donne non sono tutte sante? Ci sono uomini che...". Libero Quotidiano il 7 Giugno 2019. Come risaputo le accuse di violenza e molestie sessuale mosse contro il regista Fausto Brizzi avevano spinto molti volti del panorama cinematografico a prendere una posizione. Tra coloro che, da sempre, hanno difeso a spada tratta il regista c'è sicuramente Giorgia Wurth. L'attrice, che è stata anche fidanzata di Brizzi in passato, aveva già in passato parlato del caso a Verissimo sottolineando quanto le accuse avessero rovinato la famiglia del regista. Ospite di Storie Italiane la Wurth è tornata sulla vicenda evidenziando come alcune accuse fossero totalmente non veritiere. Una difesa totale la sua di cui il pubblico ha notato l'intensità. "Una cosa bellissima stare dalla parte delle donne“, dice l’attrice alle telecamere di Rai1, “bisogna vedere chi sono le donne. So che questo discorso è impopolare ma stare sempre dalla parte delle donne bisogna vedere, non è un discorso di uomini e donne, ma di persone. Io non dico a prescindere che le donne sono tutte sante e uomini mostri. Ci sono anche uomini vittime. Poi se si parla di abuso di potere, quello c’è e fa parte solo del mondo del cinema e della tv. Ma nello stesso tempo ci sono anche tante donne a cui questa situazione sta bene. A me non è mai capitato, mi sento fortunata da una parte. Un uomo lo sa se ammicchi”.
Fausto Brizzi, archiviate le accuse di violenza sessuale. Le Iene: "Portateci in tribunale". Il regista era stato iscritto nel registro degli indagati dopo la denuncia di tre donne per episodi avvenuti nel 2014, 2015 e 2017. Il legale: "Si chiude così lo scandalo delle molestie apertasi con i servizi de Le Iene", scrive il 23 gennaio 2019 "La Repubblica". Dopo che lo scorso luglio la procura di Roma aveva chiesto l'archiviazione delle accuse a carico del regista Fausto Brizzi, indagato per violenza sessuale a seguito delle denunce presentate da tre donne che sarebbero state invitate nel suo loft per un provino, ora arriva la conferma: "Il gip di Roma, Alessandro Arturi, rigettando l'opposizione delle persone offese, ha emesso decreto di archiviazione delle accuse di violenza sessuale a carico di Brizzi", ha spiegato il legale del regista, Antonio Marino. Che ha poi commentato: "Si chiude così definitivamente la vicenda relativa allo scandalo delle molestie apertasi con i servizi de Le Iene". Nelle cinque pagine del provvedimento di archiviazione, il gip Arturi spiega che la denuncia presentata da una donna di 30 anni alla quale era stato affidato il ruolo di comparsa in un film di Brizzi per 200 Euro complessivi, è stata considerata "vaga e generica", anche alla luce dell'ambiguità del comportamento tenuto dalla stessa presunta vittima che nei giorni successivi ai fatti raccontati all'autorità giudiziaria "non si è astenuta dal ritornare presso lo studio professionale" del regista. Il gip ha infine ritenuto tardive le querele presentata dalle altre due parti offese. "Questo giudice, in sintonia con la chiara posizione espressa dall'organo inquirente, non intende relativizzare la gravità di certe condotte in ragione di una peculiare categoria di appartenenza della vittima - è scritto nel decreto di archiviazione - bensì soppesare il disvalore di determinati atti, inquadrandoli nell'ambito dello specifico contesto di intimità nel quale sono stati compiuti, indipendentemente dalle modalità e dai passaggi attraverso i quali si è venuta a costituire quella particolare situazione nella quale il palpeggiamento o il gesto ancor più invasivo è oggettivamente privo delle connotazioni di insidiosità e imprevedibilità, ancorchè repentino e improvviso e non può essere stigmatizzato al pari delle azioni materiali sottese alle pronunce della giurisprudenza di legittimità citate dalla difesa delle opponenti". Le difese, come le controaccuse al regista, non si sono fatte mancare. Enrico Lucherini, press agent cinematografico che si è occupato di diversi film di Brizzi, ha dichiarato: "Me lo aspettavo. Ero sicuro che avrebbero archiviato tutto. L'ho conosciuto ai tempi di Notte prima degli esami e non ho mai creduto che avesse fatto certe cose. È un uomo di grande semplicità e purezza di animo ed è innamorato pazzo della moglie. Poi che sul set possa aver fatto un apprezzamento magari un pò sopra le righe è un'altra cosa". A parlare così all'AdnKronos dell'archiviazione dell'indagine a carico del regista Fausto Brizzi su presunte molestie sessuali è il press agent cinematografico Enrico Lucherini, che si è occupato di diversi film di Brizzi. Sul fronte Le Iene, invece, è intervenuto Davide Parenti, ideatore e patron del programma: "La legge è fatta così, ce lo aspettavamo. D'altra parte, se un giudice dice che sono scaduti i termini questo non significa che le 15 storie che abbiamo raccontato su Brizzi non siano vere, semplicemente nessun giudice le ha valutate. Portateci in Tribunale - è l'appello di Parenti - perché questa cosa merita di essere chiarita fino in fondo. Io trovo che sia tutto surreale. Se abbiamo detto bugie è giusto che si chiarisca, ma quanta ipocrisia c'è da parte delle persone che domani ci attaccheranno? Ci diranno 'Iene chiedete scusa' ma noi non chiediamo scusa, le cose non stanno così". E ancora: "Se Brizzi ci chiamasse in causa noi saremmo pronti a dimostrare la veridicità dei nostri servizi - ha aggiunto l'autore tv - Le ragazze che ci hanno raccontato le loro storie sono tutte persone che non si conoscono tra loro, che non cercavano pubblicità, che non ci hanno messo la faccia perché non potevano mettercela e che hanno cercato una giustizia non nella legge perché quello che avevano passato non lo avevano detto nemmeno ai loro genitori"."Noi abbiamo svelato un fenomeno, quello delle molestie nel mondo del cinema, che è mondiale. Non possiamo pensare che non ci sia in Italia. In tutto il mondo c'è, negli Stati Uniti c'è. Non siamo stati noi a fare per primi il nome di Brizzi. Sono stati i giornali a tirarlo fuori sulla scia delle nostre inchieste. All'inizio non lo avevamo citato - e forse abbiamo fatto una cosa sbagliata - per tutelare queste ragazze: sono giovani, vengono dalla provincia, non hanno difesa o comunque ne hanno meno di altre. Ancora oggi se qualcuno decidesse di denunciarle noi le aiuteremmo". "Tutti hanno fatto click grazie al nostro lavoro ma ora, sono certo, tutti prenderanno le distanze - si amareggia Parenti - Eppure Dino Giarrusso nelle sue indagini ha raccolto decine di testimonianze e il mondo del cinema da questa inchiesta è uscito cambiato. Non c'è niente di male in una storia d'amore tra un regista e un'attrice, ma questa è un'altra cosa".
Accuse di molestie sessuali: "Metodo Iene" o "Metodo Brizzi"? Scrivono Le Iene il 10 marzo 2019. Torniamo sul caso Brizzi. Roberta Rei si concentra su una testimone, Tania, che sostiene che Alessandra Bassi, una delle tre donne che ha accusato il regista di violenza sessuale (reato per cui ha appena ottenuto l'archiviazione), le aveva proposto di accusare anche lei Brizzi per diventare famosa. Peccato che, quando le facciamo incontrare Alessandra, Tania nemmeno la riconosca. Roberta Rei incontra quella che sarebbe Tania che durante un procedimento giudiziario ha messo a verbale un’accusa infamante contro Alessandra Bassi, una delle tre donne che ha accusato il regista Fausto Brizzi. A luglio il pm ha chiesto l’archiviazione per Brizzi, richiesta accettata dal gip il 23 gennaio scorso. È stata la fine del #MeToo italiano, quel movimento che dopo il caso Weinstein in America aveva portato al centro dell’attenzione in tutto il mondo il tema delle molestie sessuali su attrici e attori e non solo.
Noi de Le Iene abbiamo raccolto le testimonianze di 15 ragazze, che non si conoscevano tra loro e che hanno raccontato tutte in maniera indipendente lo stesso “copione” di molestie e abuso di potere che avrebbero subito in passato da parte di Brizzi (ricordiamo che in Italia il reato va denunciato entro sei mesi, pena la prescrizione). Molti, come per esempio Matteo Renzi, hanno accolto con soddisfazione la notizia dell’archiviazione e, prima, della richiesta di archiviazione delle accuse per Brizzi. Anche il più importante critico televisivo italiano, Aldo Grasso ha scritto sul “Corriere della Sera” un articolo su “Il ‘metodo Iene’ e quella gogna mediatica contro Brizzi”. Abbiamo risposto chiedendo pubblicamente a Brizzi: “Denunci noi, non le ragazze”, così potremmo discutere in Tribunale se raccontando le storie di quelle 15 ragazze, che non possono più denunciare il regista perché è passato troppo tempo dai fatti, abbiamo diffamato Brizzi o abbiamo fatto semplicemente il nostro dovere. Nel processo mediatico di “riabilitazione”, "Il Fatto Quotidiano" intanto il 15 agosto ha riportato una notizia che gettava un’ombra sul nostro lavoro: una ragazza spagnola, Tania Sanchez Diaz, 27 anni, nata a Bilbao, ha messo agli atti che Alessandra Bassi (una delle tre ragazze che hanno denunciato Brizzi per molestie sessuali), che aveva conosciuto in vacanza a Ibiza, le avrebbe detto che “per avere un po’ di fama in Italia, bastava andare in tv e dire di essere stata molestata da Brizzi durante un provino”. Altre ragazze avrebbe accettato (lei no). Questa verbale, presentato dall’avvocato di Brizzi, ha influenzato opinione pubblica e procedimento. Alessandra Bassi dice però non solo di non aver mai visto Tania ma di non essere mai stata a Ibiza. L’unica soluzione è mettere queste due ragazze a confronto. Roberta Rei va con Alessandra Bassi a incontrare Tania Sanchez Diaz. La Iena e Alessandra si presentano come turiste. Tania, 27enne di Bilbao, non riconosce Alessandra, nonostante ripetute domande (quando invece ha dichiarato a verbale che si erano conosciute a Ibiza e che la Bassi le aveva fatto quella “proposta”). Dice di conoscere Brizzi. Poi, quando le facciamo vedere il verbale della dichiarazione nega di chiamarsi “Sanchez Diaz”, nega pure quanto detto prima, ovvero di essere nata a Bilbao, nega di conoscere Fausto Brizzi e perfino, dopo, di conoscere l’inglese (mentre poco prima lo parlava). Dice che il suo cognome è “Cambra”. Perché allora sui social, dove è amica dell’ex moglie di Brizzi, Claudia Zanella, si chiama “Tania Sanchez”? Spazientita se ne va, e non ci mostra nemmeno un documento, cosa che nel caso avrebbe risolto ogni dubbio. I dubbi restano aperti ancora di più: c’è un “metodo Iene” o un “metodo Brizzi”?
Marina Cappa per vanityfair il 13 marzo 2019. «So che può esserci un tradimento, lo capisco in un matrimonio durato tanti anni, con figli grandi. In un matrimonio giovane com’era il nostro non dovrebbe accadere, e se poi succede dovrebbe rimanere fra le quattro mura di casa, dove parliamo, ci spieghiamo, affrontiamo la crisi noi due. Quando invece lo sanno tutti e tutti ne parlano, non è possibile: vado a prendere il pane e so che il negoziante sa… Non voglio fare la bigotta, in questo ambiente ne ho viste di tutti i colori. Ma quando diventa una cosa così invadente è come se un fantasma vivesse sempre con te, nella conversazione quella cosa inevitabilmente viene fuori. E una Claudia con quel fantasma sempre presente non mi sarebbe piaciuta». Così, alla vigilia dei suoi 40 anni (li compie il 3 marzo), l’attrice Claudia Zanella spiega a Vanity Fair, in un’intervista pubblicata nel numero in edicola da mercoledì 13 marzo, la decisione di separarsi dal regista Fausto Brizzi – suo marito da 4 anni e da 3 padre di Penelope Nina – dopo le accuse di molestie sessuali che numerose donne gli hanno rivolto. Accuse recentemente archiviate, ma che hanno messo in luce l’infedeltà di Brizzi alla moglie. «La crisi», racconta Claudia, «poteva finire risolta in famiglia, come penso debbano finire tutti i rapporti tra due persone che si sono amate. In passato, alle amiche che mi dicevano di essere state tradite io consigliavo: pensaci, parlatene, ti do il numero del mio analista… Ci vado da 13 anni. Quando ho iniziato a recitare, stavo male, ho girato Quo vadis, baby? di Salvatores, il film più bello che abbia mai fatto, ma ero una donna che si uccideva, tornavo a casa e piangevo. Con l’analisi ho imparato a scindere vita e lavoro. Oggi, a seconda dei periodi, ci vado più o meno spesso. Sì, quest’anno con l’analista ho avuto molti incontri…». Con Brizzi, dice, «stiamo cercando di avere un rapporto da bravi genitori, che si rispettano, per il bene e la serenità di nostra figlia. Cerco di essere molto rispettosa del rapporto della bimba con suo padre. Lui per lei è un eroe e io voglio che lo ami». Alle accuse – le attrici parlavano di avances pesanti e rapporti non consenzienti – giura di non avere creduto: «Mai. Perché ho visto come mi ha corteggiato, come è stato nell’inizio del nostro amore, pieno di rispetto. Anzi, ero molto io che lo volevo». Del MeToo sostiene che «poteva essere un movimento fortissimo, ma è finito in “Al lupo, al lupo”, facendo perdere potere alle donne che, mi dice un magistrato, in un caso su due denunciano abusi che non sono stati fatti, il che danneggia le vittime vere». «Questo», dice, «è stato un anno molto doloroso ma incredibilmente anche uno dei più felici della mia vita, perché ho preso consapevolezza di tante cose. Ho imparato che nella vita precedente sbagliavo quando accantonavo il dolore, perché per rinascere devi attraversarlo tutto. L’ho fatto, e sono molto fiera di me. Sono molto cambiata». A partire dal rapporto con il cibo: era vegana crudista, piangeva nelle interviste per le vongole messe in padella. «Invece adesso ho imparato che le cose si lasciano andare. Il mio estremismo mi faceva perdere anche la socialità, il piacere di mangiare con gli amici. Adesso invece la pasta alle vongole può capitare che la mangi. Non sono più così rigida, e poi la bambina mi ha reso più libera: lei per esempio il pesce azzurro lo mangia, perché è salutare». Ha un nuovo compagno, Luigi, istruttore sportivo, che ha una decina d’anni meno di lei. «Ci frequentiamo dalla fine della scorsa primavera. È una persona che mi ha veramente aiutata. Una sera, dopo sei mesi chiusa in casa, avevo ricominciato a uscire ed ero andata a ballare con alcuni amici. Lui era lì, ci siamo guardati, mi ha sorriso e in quello sguardo mi sono sentita al sicuro. Ero irriconoscibile, avevo sei chili in meno e i capelli rosa fucsia. Ma poi, quando ha capito chi ero, è stato abbastanza coraggioso: ovunque andassimo, eravamo placcati dai paparazzi. Ho conosciuto anche amici suoi, e questa generazione di trentenni mi sembra spettacolare». Si sente «fortemente libera» e i suoi 40 intende iniziarli «da leonessa. Dopo 78 mesi in cui non capivo quello che mi stava succedendo, sono riuscita a fermarmi e ragionare. Tutti i giorni però continuo a chiedermi: perché?».
Le Iene vogliono affondare Fausto Brizzi: "Dossier-choc sulle molestie, ecco cosa abbiamo in mano", scrive il 19 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Nuovi atti che inficerebbero una delle testimonianze raccolte dalla difesa, nel procedimento, ora archiviato, che ha coinvolto il regista Fausto Brizzi per violenza sessuale. Li avrebbe raccolti la trasmissione Le Iene che ha consegnato nelle mani del giudice Alessandro Arturi un dossier con le nuove prove raccolte dalla trasmissione che getterebbero ombre su una teste. Nel servizio, che andrà in onda martedì' sera, si fa riferimento alla testimonianza di una ragazza spagnola che ha affermato all'avvocato difensore del regista, Antonio Marino, di avere conosciuto ad Ibiza una delle tre ragazze, tutte aspiranti attrici, che hanno denunciato Brizzi. Quest'ultima, a detta della ragazza spagnola, le avrebbe confidato che per "avere un po' di fama in Italia, bastava andare in tv e dire di essere stata molestata da Brizzi durante un provino". Secondo quanto sostengono Le Iene l'attrice che ha denunciato Brizzi "nega di conoscere la ragazza al punto da non riconoscerla nel corso di un incontro organizzato dagli autori del servizio". Al momento in Procura, in base a quanto si apprende, non sono stati trasmessi esposti o nuovi atti. "Quando arriveranno li valuteremo", spiegano gli inquirenti. Dal canto suo l'avvocato difensore del regista preferisce non commentare.
Da https://www.iene.mediaset.it il 19 marzo 2019. "Oggi porterò i nuovi elementi che avete raccolto in Procura. Con nuove prove si può chiedere la riapertura delle indagini". Così il giudice Alessandro Arturi, che ha archiviato il procedimento su Fausto Brizzi, denunciato per violenza sessuale da tre ragazze, a Roberta Rei de Le Iene. Che ha consegnato nelle mani del giudice il plico con le nuovi elementi raccolti dalla trasmissione Le Iene, che dimostrerebbero che una testimonianza nel procedimento che ha portato all'archiviazione del regista sarebbe falsa. L'intervista al giudice Alessandro Arturi andrà in onda a Le Iene domani, martedì 19 marzo, nel corso della nuova inchiesta della trasmissione di Italia1 sul caso Brizzi. La falsa testimonianza sarebbe quella della spagnola Tania Sanchez, che ha messo agli atti grazie all'avvocato di Brizzi Antonio Marino che aveva conosciuto a Ibiza Alessandra Bassi, cioè una delle tre ragazze che hanno denunciato Brizzi per molestie sessuali, e che le avrebbe detto che “per avere un po’ di fama in Italia, bastava andare in tv e dire di essere stata molestata da Brizzi durante un provino”. Secondo la spagnola altre ragazze avrebbero accettato, mentre lei no. L'attrice Alessandra Bassi ha negato di aver mai conosciuto la spagnola e di essere mai stata a Ibiza. Così quando la Iena Roberta Rei porta Alessandra Bassi davanti a Tania Sanchez, quest'ultima non la riconosce, facendo sorgere il dubbio di non conoscerla. Ammette invece di conoscere Fausto Brizzi, ma quando la Iena pone le domande sul procedimento, la spagnola scappa e nega persino di chiamarsi Tania Sanchez. Il giudice Alessandro Arturi aggiunge inoltre a Roberta Rei, che gli ha chiesto dell'archiviazione del regista questa mattina a Roma: "Le denunce di due delle tre ragazze sono state archiviate per via dei tempi. A questo non si può porre rimedio se non modificando la legge", dice Arturi riferendosi ai sei mesi di tempo a disposizione di una donna per denunciare una violenza sessuale dal momento della sua consumazione. "Io ho sostenuto anche il fatto che per le ragazze c'è anche comprensione e solidarietà per le situazioni in cui si sono trovate", continua il giudice alla Rei. "Nel mio provvedimento ho fatto capire che ci poteva anche essere spazio per un approfondimento. Se è vero che è stata fatta una dichiarazione falsa, Alessandra Bassi deve denunciare, o comunque il pubblico ministero deve essere portato a conoscenza del fatto che la spagnola avrebbe detto una cosa falsa".
Fausto Brizzi, una testimone confessa di aver detto il falso. Tania Sanchez Diaz è accusata dalla procura di Roma per false dichiarazioni. A Le Iene la sua confessione: "Mi hanno chiesto aiuto", scrive Giorgia Baroncini, Sabato 06/04/2019, su Il Giornale. Tania Sanchez Diaz è accusata dalla procura di Roma per false dichiarazioni al difensore in seguito alla denuncia di Alessandra Bassi, una delle tre attrici che ha fatto causa al regista Fausto Brizzi per molestie sessuali. Rintracciata da Le Iene la donna ha confessato di aver detto il falso e cioè che Alessandra Bassi l'aveva contattata dicendole che, se avesse accusato il regista di molestie, avrebbe ottenuto in cambio soldi e visibilità nel mondo dello spettacolo. Come rivela il servizio di Roberta Rei in onda domani, Tania Sanchez Diaz sostiene di essere stata contattata per testimoniare a favore di Brizzi e contro le accuse della Bassi. "Ricevo una chiamata da Alessandro Rosica che mi dice che c'è un problema, che c'è un regista molto importante che è stato accusato di alcune cose. Mi hanno chiesto aiuto. Tu dovresti andare a difenderlo", raccontato la spagnola a Le Iene. "Se va bene, guadagneremo molto", le aveva detto Rosica. Così la Sanchez è arrivata a Roma, con il biglietto aereo pagato dall'allora moglie di Brizzi, Claudia Zanella, per un incontro. "C'era l'avvocato, il suo assistente e Claudia. È come se mi avessero preparato tutto - ha spiegato la spagnola -. Quando sono arrivata lì, prima ancora che iniziassi a parlare, l'avvocato stava già prendendo le mie dichiarazioni". Così la ragazza ha ammesso di essere stata manipolata. E le sue parole sono poi finite nel procedimento giudiziario in cui è stato archiviato Fausto Brizzi dall'accusa di molestie sessuali.
Molestie e caso Brizzi: archiviazione con false testimonianze, scrive l'8 aprile 2019 la redazione de Le Iene. Aveva dichiarato di essere stata contattata per accusare Fausto Brizzi di molestie sessuali, in cambio di soldi e visibilità. Oggi Tania Sanchez Diaz dice a Roberta Rei dice che era tutto falso. Intanto le accuse contro il regista sono state archiviate. Cosa farà ora la Procura? Roberta Rei parla con Tania Sanchez Diaz. Lei è la spagnola che ora sarebbe accusata dalla Procura di Roma per false dichiarazioni al difensore in seguito alla denuncia di Alessandra Bassi, una delle tre attrici che ha accusato il regista Fausto Brizzi per molestie sessuali, come vi abbiamo raccontato nei precedenti servizi. Dopo la messa in onda ci ha contattato l’ex fidanzato di Tania, che si è messo a disposizione per farci da tramite con la spagnola. Tania Sanchez gli confessa di aver detto il falso all’avvocato di Brizzi, e cioè che non era vero che Alessandra Bassi, una delle tre attrici che ha denunciato il regista, l’aveva contattata per dirle che se avesse accusato Brizzi di molestie sessuali ci avrebbe guadagnato in soldi e visibilità in Italia. A noi de Le Iene spiega che per queste dichiarazioni avrebbe ricevuto da persone vicine a Brizzi il pagamento del biglietto aereo per venire a Roma a rendere le sue deposizioni e poi una borsetta firmata al suo ritorno in Spagna. "Ricevo una chiamata da Alessandro Rosica (un conoscente dell’allora moglie di Fausto Brizzi, Claudia Zanella, ndr) che mi dice che c'è un problema, che c'è un regista molto importante che è stato accusato di alcune cose”, racconta la Sanchez. “Mi hanno chiesto aiuto. ‘Tu dovresti andare a difenderlo’, mi ha detto Rosica". Il 20 dicembre Rosica, secondo quanto dice la Sanchez, le avrebbe scritto: “Se va bene, guadagneremo molto". Così la Sanchez vola a Roma con il biglietto aereo che le sarebbe stato regalato da Claudia Zanella e ci sarebbe stato un incontro in via Veneto al Doney Cafè. "C'era l'avvocato, il suo assistente e Claudia. È come se mi avessero preparato tutto. Quando sono arrivata lì, prima ancora che iniziassi a parlare, l'avvocato stava già prendendo le mie dichiarazioni". Il suo racconto è poi finito nel procedimento giudiziario in cui è stato archiviato Fausto Brizzi dall'accusa di molestie sessuali. Ora però, in seguito alla denuncia di Francesca Bassi, Tania Sanchez Diaz sarebbe indagata per false dichiarazioni al difensore dalla Procura di Roma.
IL METODO ''IENE''? NO, IL METODO BRIZZI! Marco Lillo e Valeria Pacelli per ''il Fatto Quotidiano'' il 7 aprile 2019. Tania Sanchez Diaz, la giovane spagnola che aveva reso dichiarazioni contro Le Iene e in favore di Fausto Brizzi è accusata dalla procura di Roma per false dichiarazioni al difensore. Non è l' unica novità sul caso Brizzi. Intanto oggi Le Iene trasmetteranno un' intervista alla ragazza spagnola che sostanzialmente confessa di avere detto il falso e di avere ricevuto dall' allora moglie di Fausto Brizzi (ora separata) Claudia Zanella il pagamento del biglietto aereo per venire a Roma e rendere le sue dichiarazioni e poi una borsa di Gucci in regalo, al ritorno in Spagna. L' iscrizione nel registro degli indagati giunge dopo la denuncia di Alessandra Bassi, una delle attrici che aveva accusato il regista di molestie sessuali. L' accusa di alcune ragazze nei confronti di Fausto Brizzi, veicolata sui media da Le Iene, è stata archiviata dal gip Alessandro Arcuri il 23 gennaio scorso. Comunque nell' archiviazione del giudice e nella richiesta dei pm non si fa riferimento alla testimonianza della Sanchez Diaz, raccolta dai legali del regista e trasmessa però solo al giudice e non ai magistrati. Quindi l' indagine sulla teste spagnola è molto interessante però non impatta sull' archiviazione di Brizzi. I legali del regista ci tengono a sottolineare che, a prescindere da quel verbale, il pm e il gip hanno ritenuto comunque innocente Brizzi perché i presunti atti sessuali con le aspiranti attrici non sono stati posti in essere con violenza, minaccia o abuso di autorità. Le dichiarazioni della spagnola infatti non erano state usate ai fini della decisione sul caso. Adesso Tania Sanchez ritratta in tv quel che aveva detto ai legali di Brizzi e racconta di aver conosciuto Claudia Zanella a Roma grazie al suo amico Alessandro Rosica. Il risultato di quel caffé è il verbale di indagini difensive redatto l' 8 gennaio 2018 e depositato durante l' udienza preliminare del gip. Qui Tania Sanchez raccontava di esser stata avvicinata da Alessandra Bassi, incontrata durante una festa a Ibiza: "Mi disse che se volevo diventare famosa e avere un po' di pubblicità in Italia avrei dovuto raccontare in televisione di aver sostenuto un provino con Brizzi e dichiarare in particolare di aver subito una molestia sessuale proprio in occasione di tale incontro di lavoro". Alessandra Bassi ha sempre sostenuto di non conoscere la giovane spagnola e, dopo averla inseguita con l' inviata de Le Iene Roberta Rei per le strade di Madrid, dopo aver dimostrato che non si conoscevano, l' ha denunciata. Al programma Mediaset ora la Sanchez racconta tutta un' altra verità. Prima dice che la sua versione fornita l' 8 gennaio 2018 è falsa, poi mostra alle telecamere i messaggi e una mail scambiata con Claudia Zanella. Infine descrive il ruolo determinante di Alessandro Rosica. Dice la Sanchez: "Questa storia è iniziata con Alex perchè io lo conosco da almeno quattro o cinque anni. Ricevo una chiamata di Alex che mi dice che c' è un problema, che c' è un regista molto importante che è stato accusato di alcune cose. () Mi hanno chiesto aiuto. Tu dovresti andare a difenderlo. E io ho risposto: 'Ma io cosa c' entro? Perchè devo intervenire?'". Per settimane - a detta della Sanchez - Rosica insiste. Il 20 dicembre 2017 le scrive: "Si va bien emos ganado mucho", ossia "se va bene, guadagneremo molto". Rosica nega tutto (vedi intervista a Claudia Zanella). "Prima di questo - continua la ragazza - Alex mi aveva già avvertita su cosa avrei dovuto dire (). Lui conosce Claudia, non Fausto". La ragazza dice che è stata poi la moglie di Brizzi a pagare il volo per venire in Italia e mostra la mail con la quale la Zanella le ha inviato il biglietto. L' appuntamento è fissato con un sms della Zanella per l' 8 gennaio 2018: "Ciao Claudia ci vediamo alle 15 in Via Veneto - Doney Cafè". Durante quell'incontro "c' era l' avvocato, il suo assistente e Claudia. - continua la Sanchez a le Iene -. L' avvocato Marino qualcosa, non ricordo (Antonio Marino è il legale di Brizzi, ndr). Rosica non c' era lì. È come se mi avessero preparato tutto. Quando sono arrivata lì, prima ancora che iniziassi a parlare, l' avvocato stava già prendendo le mie dichiarazioni. Ma io ero stata chiamata solo per parlare, non per scrivere tutto questo né per firmarlo senza sapere cosa ne avrebbero fatto. Era tutto così strano". "Quando stavi raccontando questa cosa, loro sapevano che stavi ripetendo una versione che ti ha detto Alessandro?", chiede la Iena Roberta Rei. E la Sanchez: "Sì penso di sì, perchè loro parlavano con Alessandro". Rosica dopo l' archiviazione di Brizzi, continua la ragazza, "diceva che si era messo in contatto con loro Siccome avevamo fatto 'qualcosa', lui era intenzionato a chiedere qualcosa in cambio. () Poi ho ricevuto, non so da dove una borsa di Gucci, che è molto carina". Non c' è il mittente, ma alla domanda "chi può avertela mandata?", la Sanchez risponde: "Beh, mi sembra ovvio la persona che ho difeso". Poi lei dice a Rosica della borsa: "Mi ha detto di controllare se c' erano soldi dentro, ma gli ho detto di no". Davanti alle telecamere la Sanchez stragiura che questa è la verità, non quella fornita nel verbale della difesa di Brizzi. La vicenda quindi potrebbe presentare nuove sorprese. Sarà la Procura a dover verificare chi mente.
Da ''il Fatto Quotidiano'' il 7 aprile 2019.
Claudia Zanella, come è venuta in contatto con Tania Sanchez Diaz, la testimone della difesa del suo ex marito Fausto Brizzi?
«Mi ha contattato su Facebook Alessandro Rosica, che io non conoscevo, e mi ha detto che aveva informazioni importanti su Fausto perchè la sua migliore amica, Tania Sanchez, era stata contattata da qualcuno per parlare male di mio marito, per dire che era stata abusata, circostanze false perchè Tania non conosceva mio marito. Ho detto che se era la verità dovevano venire a testimoniare. La Sanchez mi ha spiegato che non aveva soldi e così le ho pagato il biglietto da Madrid a Roma. Lei una mattina è venuta a Roma, ci siamo incontrate al bar con l' avvocato, lei ha fatto la testimonianza e poi è ripartita la sera. Quindi lo scopo non era farsi una vacanza qui. Non ha avuto un euro da noi».
Che interesse avrebbe una sconosciuta a firmare gratis un verbale con una storia falsa che favoriva suo marito?
«Quando Le Iene hanno detto che la sua testimonianza era falsa, io sono caduta dalle nuvole. Anche dopo la trasmissione, lei mi ha detto che quanto aveva dichiarato a noi era vero. L' ho sentita una decina di giorni fa».
Perchè le ha regalato una borsa Gucci?
«Quando è venuta a testimoniare mi ha detto che aveva perso una giornata di lavoro, mi sembrava una cosa carina da fare. È un piccolo portafoglio, mi sembrava il minimo».
Tania dice che lei avrebbe spedito il regalo in forma anonima, perché?
«L' ho fatta spedire dall' assistente di mio marito, l' ho fatta comprare da lei. Ma poi le ho mandato un messaggio, quindi sapeva che ero stata io».
Perchè avrebbe dovuto inventare da sola la versione fornita all' avvocato di suo marito? Le hanno chiesto soldi?
«Se fosse stato per i soldi, me li avrebbero chiesti immediatamente. Invece i soldi me li ha chiesti Rosica, ma un anno dopo la testimonianza. Mi ha detto che aveva problemi economici e mi ha chiesto 2 mila, 2500 euro».
Li ha avuti?
«Assolutamente no, ho tutti i Whattapp. Gli ho detto che non potevo dare i soldi a un testimone. Rosica lo ho sentito ieri e mi ha detto che voleva denunciare Tania perchè è lei che si è inventata tutto. È una situazione assurda. Non so darmi una spiegazione».
Fausto Brizzi si fa beffe delle femministe. Beccato da Signorini: chi è la sua giovanissima (e famosa) fiamma, scrive Giampiero De Chiara il 16 Gennaio 2019 su "Libero Quotidiano". «Quando usciamo lei mangia vegano e io, ogni tanto, una pasta cacio e pepe me la faccio... Sono stato onnivoro per 47 anni e non riesco a seguire mia moglie completamente». Fausto Brizzi, cultore a suo dire di amatriciana e mozzarelle di bufala, parlava così della moglie Claudia Zanella, ormai ex, attrice e «vera e propria terrorista vegana», secondo un'altra definizione sempre del regista. Di questa sua particolare esperienza ha scritto anche un libro (Ho sposato una vegana). Per Brizzi sono però finiti quei tempi particolari. La moglie, dopo lo scandalo molestie, lo ha lasciato. Lui, nel frattempo, si è rifatto una vita: oggi Chi pubblica le immagini che lo ritraggono in atteggiamenti affettuosi con Silvia Salis, ex campionessa di atletica leggera di lancio del martello. Diciassette anni di differenza tra i due che - scrive il settimanale - non sembrano però essere un problema per entrambi. Migliori auspici - La coppia, infatti, è stata sorpresa a Roma dopo una corsa sul Lungotevere conclusasi «con un defaticamento molto passionale fatto di baci e carezze trattenute a stento». Così per Fausto Brizzi il nuovo anno sembra essere iniziato sotto i migliori auspici. Il fascicolo d' indagine aperto nei suoi confronti in seguito a tre denunce per molestie sessuali sta per essere definitivamente archiviato per «insussistenza dei fatti», almeno secondo la richiesta dell'accusa. Si aspetta soltanto la decisione del gip, prevista nei prossimi giorni, per chiudere una vicenda paradossale ed emblematica. Tutto ha inizio nell' ottobre del 2017 quando un'inchiesta del programma tv Le Iene raccoglie una serie di testimonianze (quasi tutte anonime) di attrici che incolpano il regista di molestie. Lui si dichiara estraneo alle accuse, ma viene escluso dalla promozione del suo film Poveri ma ricchissimi. Soltanto ad aprile, dopo essere finito nel mirino dei cultori del politically correct e delle femministe, viene iscritto nel registro degli indagati. A luglio l'accusa, che dovrebbe sostenere la tesi delle molestie, chiede invece l'archiviazione: «In nessuna delle denunce sono stati riscontrati elementi di natura penale», scrivono il il procuratore aggiunto Maria Monteleone e il sostituto Francesca Passaniti. Vita nuova - Insomma, in poco più di un anno, il regista di Notte prima degli esami si è visto cambiare totalmente la propria vita privata e pubblica. La carriera, grazie anche a Luca Barbareschi - il primo ad offrirgli un contratto di 4 film nei mesi bui delle accuse - è ripartita. Brizzi ha anche scritto il soggetto di Amici come prima, il film che ha visto, dopo 13 anni, ricongiungere la coppia cinematografica Boldi-De Sica (più di 8 milioni di euro di incasso). Nel film c' è un particolare accanimento verso tutte le protagoniste femminili. E non si può non pensare alla mano del soggettista Brizzi, come una piccola vendetta per il brutto periodo passato. Ora, guardando le foto di Chi, quei giorni sembrano lontani. E chissà se il "carnivoro" Brizzi senza la moglie super-vegana tornerà a dire, come nel 2016 quando nacque la figlia Penelope, «è un periodo bellissimo, tornerò a mangiare la pasta con le vongole...».
«Io e il mio ex marito Brizzi, un incubo senza fine. I suoi tradimenti? Una cosa privata». Pubblicato martedì, 09 aprile 2019 da Alessandra Arachi su Corriere.it.
Claudia Zanella, questa storia che ha travolto suo marito, Fausto Brizzi...
«Ex marito, ci siamo separati».
Ex-marito adesso, ma quando è esplosa la vicenda delle molestie sessuali eravate sposati. È rimasta sempre zitta, all’epoca, come mai adesso parla?
«Perché è davvero assurdo passare da essere una moglie tradita a procacciatrice di testimoni».
Nell’ultima puntata, le Iene hanno detto che Fausto Brizzi sarebbe stato assolto grazie a testimoni falsi, una certa spagnola Tania Sanchez...
«Mamma mia quante falsità...».
Perché dice così?
«L’archiviazione di Fausto è stata piena — per infondatezza dei fatti — e non c’entra nulla con questa modella che pure è venuta apposta dalla Spagna per rendere dichiarazioni in suo favore».
È stata interrogata dai magistrati romani e accusata di falsa testimonianza.
«Fausto è stato assolto a prescindere, anche grazie ai messaggi WhatsApp delle ragazze. “Grazie dei bellissimi momenti”, gli avevano scritto. Poi lo hanno denunciato».
Però è stata lei a trovare Tania Sanchez. Come siete entrate in contatto?
«Un certo Alessandro Rosica, mi ha contattato su Facebook per proporci la testimonianza di questa Sanchez».
Che doveva dire?
«Ha raccontato a me e al legale di Fausto di essere stata avvicinata a Ibiza da una certa Alessandra Bassi che le avrebbe chiesto: “Ti va di diventare famosa in Italia? Devi parlare male di un certo regista e dire che ti ha molestata».
Così all’improvviso? Le ha chiesto soldi?
«Lei non un centesimo, ha reso le dichiarazioni a verbale ed è ripartita per Madrid. Stop».
In realtà lei le ha regalato una borsa di Gucci. E poi che cos’altro?
«Molto dopo, Alessandro Rosica voleva duemila euro, un prestito. Diceva che mi ridava fino all’ultimo centesimo. Minacciava di suicidarsi perché inseguito dagli strozzini».
Sono accuse pesanti. Può dimostrarlo?
«Non gli ho dato soldi».
Cosa credeva di suo marito?
«Prima dello scandalo credevo di avere un matrimonio felice, ero innamoratissima di Fausto».
Non immaginava nulla?
«Come si dice? Un fulmine a ciel sereno? Io sono la prima a dire che in un matrimonio ci stanno i tradimenti. Ma dopo un matrimonio lungo, non certo appena sposati».
Quando è scoppiato lo scandalo da quanto eravate sposati?
«Due anni e mezzo, con una bimba nata da un anno e mezzo, e meno male che tutto questo è accaduto che era tanto piccola, non ha capito nulla».
E dopo?
«Fausto dopo lo scandalo mi ha sempre detto di non aver mai avuto rapporti sessuali se non consenzienti».
Quindi li ha ammessi?
«Sì, ma quelli sono stati tradimenti che avrebbero dovuto rimanere privati, e invece sono diventati i fatti di tutta Italia».
E adesso?
«Questa storia è un incubo che non finisce. Difficile mettere una pietra sopra quando non posso fare un passo che tutti si sentono in dovere di dire loro: “Potevi perdonarlo”. Oppure: “Accidenti che mascalzone, tutti uguali gli uomini”. Però sono contenta dell’assoluzione, per mia figlia. Quando sarà grande saprà che suo padre non è un mostro».
Lei e Fausto Brizzi adesso siete separati, c’è qualcun altro accanto a lei?
«Un nuovo compagno, sì, da quasi un anno mi dà gioia e mi sostiene, è grazie a lui che riesco ad andare avanti. E per fortuna non c’entra con l’ambiente del cinema».
Cosa fa?
«L’istruttore di boxe».
Utile per imparare a mollare fendenti?
«Già».
Brizzi si confessa: "Non sono un santo, ma nemmeno un orco". Il regista, intervistato da Vanity Fair, respinge le accuse di molestie per cui è stato indagato, accuse poi archiviate: "Mai al letto con donne non consenzienti", scrive il 5 febbraio 2019 su La Repubblica. "Non sono un santo, ma neanche un orco o Barbablù. Non voglio certo sembrare un martire, magari sono stato superficiale e imprudente, ma non sono mai stato a letto con una donna che non fosse ampiamente consenziente". Fausto Brizzi si racconta in una lunga intervista a Vanity Fair dopo l'archiviazione da parte della Procura di Roma delle denunce a suo carico per molestie sessuali. Il regista, in procinto di uscire nelle sale con il nuovo film 'Modalità aereo', dice che "la persona che più mi ha aiutato in assoluto" è stata Claudia Zanella, sua moglie e madre di sua figlia: "La prima a non credere a nulla, a scrivere una lettera per dire che gli eventuali tradimenti erano una questione che riguardava soltanto noi due". Brizzi sottolinea di essere stato sempre disponibile a collaborare con la giustizia dopo le accuse: "I processi non si fanno nei talk show, ma in tribunale. Quando è uscito il mio nome ho detto al mio avvocato di far sapere che ero disponibile a essere ascoltato in qualsiasi momento. Quando sono stato interrogato, ho messo a disposizione il mio telefono e ho consentito l'accesso ai miei dati, alle mie mail e alla mia sfera privata in assoluta trasparenza e buona fede". E lamenta di essere "diventato il capro espiatorio di un intero ambiente". "La molestia - aggiunge il regista - è una cosa seria in molti ambiti di lavoro, compreso ovviamente il mio, ma è un argomento che andrebbe trattato nei tribunali seguendo le leggi dello Stato e non quelle degli indici d'ascolto o dell'opinione pubblica". Brizzi nega di avere "mai fatto un provino o un casting che non fosse nella sede della produzione. Tra l'altro, chi mi ha denunciato in Procura non parla affatto di provini. Se un regista incontra una ragazza a casa sua, la questione attiene alla sfera privata. Si chiama vita". E conclude: "Non è una molestia tentare di sedurre o approcciare una persona, lasciandole la possibilità di accettare o dire no all'avance".
Verissimo, Fausto Brizzi rompe il silenzio: "Molestie, ecco chi mi ha tradito", scrive il 21 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. Fausto Brizzi rompe il silenzio a Verissimo con Silvia Toffanin, per la sua prima intervista televisiva che andrà in onda sabato su Canale 5. Travolto dalle accuse di molestie sessuali, è stato scagionato dal tribunale che ha archiviato il caso. Alla Toffanin, Brizzi, nonostante la risonanza che ha suscitato il suo caso, racconta di come è riuscito comunque a scrivere e dirigere il suo ultimo film, Modalità aereo. Una pellicola dai tratti esilaranti ma anche autobiografici e profondi: "È stato un anno complicato, in cui il mio obiettivo era trovare l’umore giusto per scrivere un film divertente e Modalità aereo lo era. Quando Paolo Ruffini me l’ha portato ho capito che era terapeutico: era la risposta pop a tutto quello che mi stava succedendo. E il lavoro è stato una cura”. "La vera terapia di quest’anno è stata circondarmi di persone che mi volessero bene", ha detto il regista, che si è fatto le ossa come sceneggiatori di cinepanettoni, "questa cosa mi ha permesso di passare da duemila a cento numeri sulla rubrica del cellulare. Improvvisamente capisci chi sono le persone superflue e quelle fondamentali. È stato un periodo un po’ rocambolesco in cui sfuggivo ai giornalisti e in cui molte persone, che pensavo semplici conoscenti, invece mi hanno dato le chiavi della loro casa in caso di emergenza. Giravo con le chiavi di una quindicina di abitazioni sparse in tutta Italia anche perché i miei amici mi volevano vedere in casa”. Tra queste persone troviamo sicuramente Paolo Ruffini, amico di vecchia data e protagonista del suo ultimo film: “Paolo l’anno scorso ha realizzato un documentario bellissimo sulla Resilienza, che io quest’anno ho imparato. Significa fare in modo che un evento negativo possa diventare positivo. Non bisogna scoraggiarsi davanti a una difficoltà apparentemente insormontabile perché la puoi fronteggiare, aggirare e trasformare in qualcosa di buono".
"A migliaia massacrati come Brizzi", parlano gli avvocati, scrive il 24/01/2019 Patrizia Perilli su Adnkronos. Quella che ha riguardato Fausto Brizzi "è una delle decine di migliaia di vicende processuali che si risolvono in una archiviazione o in un proscioglimento, con la differenza che qui il personaggio è pubblico. E quella che sembra un'aspettativa di giustizia non è altro che il desiderio dell’opinione pubblica di trovare un responsabile, un capro espiatorio per tranquillizzarsi". Così Gian Domenico Caiazza, presidente dell'Unione delle Camere penali italiane commenta all'Adnkronos l'archiviazione dell'indagine a carico del regista su presunte molestie sessuali. Secondo il presidente Ucpi, "il problema è che i principi fondamentali, costituzionali del processo penale, come la presunzione di non colpevolezza, dovrebbero essere rispettati rigorosamente dai magistrati che indagano, dai giudici che giudicano e dai giornalisti che raccontano i fatti. Quando questi principi non si rispettano il risultato è il massacro della dignità umana". "Se la cosa riguarda Brizzi - riflette l'avvocato penalista - se ne accorgono tutti perché è conosciuto dall'opinione pubblica, ma quanti sono gli arrestati, processati, condannati che poi vengono assolti, ma nel frattempo sono stati massacrati in ambito famigliare e lavorativo?" Questo tema, annuncia, "sarà al centro dell'inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti italiani che si terrà a Padova e che si intitola proprio 'le vittime del processo ingiusto. Errori giudiziari, ingiuste detenzioni, durata irragionevole dei processi'. Con questo vogliamo dire che non si deve parlare solo delle vittime dei reati ma anche delle vittime dei processi. Il caso di Brizzi è uno di questi".
· La nuova piaga sociale: il finto stupro con ricatto.
La nuova piaga sociale: il finto stupro con ricatto. È boom delle false denunce per ottenere denaro. Ma adesso un'azienda ha inventato il rimedio. Roberto Pellegrino, Venerdì 17/05/2019, su Il Giornale. Santiago F., dopo la tremenda esperienza che l'ha costretto a un accordo extragiudiziale in denaro con una ragazza che frequentava da due giorni, dice che avrebbe preferito prendersi una malattia infettiva al posto di ricevere una falsa denuncia per stupro. Ora, su consiglio dell'avvocato, chiede alle potenziali partner di firmare un documento di consenso se a un incontro segue un rapporto intimo, così da essere scagionato da qualsiasi accusa di violenza sessuale. È un fenomeno che avviene spesso negli ultimi anni nelle grandi città argentine. Non sono serviti gli ammonimenti delle autorità che tentano di prevenire un malcostume sessuale che colpisce gli uomini tra i venti e i cinquanta anni: divorziati e pensionati molto benestanti sono i più flagellati. Conoscono una ragazza giovane, attraente e spigliata. Lei mette le mani avanti dicendo che non deve bere perché altrimenti perde ogni freno inibitorio e non vuole, ma in Argentina, uscire di sera, significa ubriacarsi. E tanto. In questo caso lo scopo della giovane non è divertirsi con un uomo più maturo, ma farsi portare a letto per consumare un veloce rapporto sessuale, in modo, poi da denunciarlo per essere stata costretta e abusata. Uno stupro, in pratica falso. La denuncia è accolta, anche con la testimonianza delle amiche che dicono che era palese che lei rifiutasse le sue avance e i drink molto alcolici che lui le offriva generoso. Nel verbale si legge che lui, con la scusa di riaccompagnarla a casa, aiutandola perché era ubriaca, non potendo guidare, l'ha portata da lui e ne ha abusato, nonostante i suoi tentativi di respingerlo. Le ragazze più audaci e spregiudicate, assumono anche un particolare calmante, detto la droga del giorno dopo, che cancella i ricordi delle ultime sette ore. È un oppiaceo chimico molto usato dai veri stupratori, basta un esame delle urine per riconoscerne la presenza e, se vi è traccia, la ragazza ha, molto probabilmente, subito uno stupro. O ne ha assunto una dose minima che le ha permesso una veglia cosciente, per incastrare al mattino l'uomo, minacciandolo di chiamare la polizia, mentre poi chiama l'amico, avvocato e complice. Il falso stupro è una piaga sociale che va aumentando nei tribunali di Buenos Aires, Rosario e Cordoba. Mentire costa penalmente una semplice multa con denuncia, mentre la condanna a stupro vale dai sei ai quindici anni di galera. «Quelli che firmano subito l'assegno senza dare troppe spiegazioni sono i mariti fedifraghi. Temono poi di ricevere la lettera del divorzio con richiesta di danni ben più consistenti», spiega il consulente legale Luciano Nicolas Rusconi. «Il piano per incastrare un cinquantenne benestante sfiora la perfezione, è diabolico, costruito con molta attenzione. Un mio assistito si stupiva che una ragazza così bella e giovane gli rivolgesse tutte quelle attenzioni, flirtando già dopo pochi minuti che si erano conosciuti al banco di un bar. Si accertano se sei sposato, se lavori, se hai una casa al mare e che tipo d'auto». E nella maggior parte dei casi, le presunte stuprate, non informano nemmeno la polizia, non denunciano per non attivare il meccanismo giuridico che potrebbe danneggiarle. «La polizia, si sa, fa molte domande», spiega l'avvocato Rusconi, «Un bravo difensore potrebbe facilmente contraddirle e sbugiardare il loro piano per farsi qualche soldo, meglio 10, 15mila euro subito e non se ne parla più». Una vera estorsione legalizzata che potrebbe avere i giorni contati. L'azienda argentina Tulipan sta lanciando «il profilattico del consenso» perché il suo involucro si apre soltanto con l'utilizzo di quattro mani, quindi di due persone, che consensualmente stanno per consumare un rapporto sessuale e premendo assieme due pulsantini scelgono di rispettarsi. E sul lattice c'è la scritta «sì, acconsento». «È un successo quasi pari al Viagra», spiegano i direttori creativi di Bbdo, Joaquin Campins e Christian Rosli, «Aggiungiamo qualcosa in più al piacere sicuro, attestiamo che ogni rapporto sessuale, pure quello di una volta e via, il piacere è possibile solo se prima esprimi il tuo consenso». La fama del Consent pack è arrivata anche negli Stati Uniti, riscuotendo un successo enorme: le maggiori multinazionali di profilattici vorrebbero acquisirne il brevetto, poiché a parte prevenire gravidanze non volute e malattie sessuali, l'invenzione rivoluziona i rapporti tra i due sessi. Al topic #PlacerConsentido su Twitter da settimane ognuno esprime la sua opinione, anche se la maggior parte non l'ha provato, data la scarsa distribuzione. Il profilattico per ora è in edizione limitata, una scatola da sei costa 20 euro, anche se spesso, per motivi di marketing, è regalato nei bar e agli eventi di moda di Buenos Aires e delle principali città sudamericane. Presto, però secondo quanto informa la Tulipan, si potrà acquistare con l'e-commerce. E oltre ai dati terrificanti sui presunti stupri, un sondaggio dell'Ahf argentina (associazione nazionale di informazione e prevenzione dell'Hiv) fa rabbrividire: su un campione di 30mila persone interrogate, soltanto il 14,5% degli uomini argentini ha ammesso di usare regolarmente il profilattico. Un segno che virus e denunce non spaventano più di tanto il maschio argentino del XXII secolo.
· Fondi antiviolenza: un business?
Affidati alla sinistra.
Dove c'è l'affare lì ci sono loro: i sinistri e le loro associazioni. E solo loro sono finanziate.
La lotta alla mafia è un business con i finanziamenti pubblici e l'espropriazione proletaria dei beni.
I mafiosi si inventano, non si combattono.
L'accoglienza dei migranti è un business con i finanziamenti pubblici.
Accoglierli è umano, incentivare le partenze ed andarli a prendere è criminale.
L'affidamento dei minori è un business con i finanziamenti pubblici.
Tutelare l’infanzia è comprensivo. Toglierli ai genitori naturali e legittimi a scopo di lucro è criminale.
L'aiuto alle donne vittime di violenza è un business con i finanziamenti pubblici.
Sorreggere le donne, vittime di violenza è solidale. Inventare le accuse è criminale.
La Violenza dei sinistri. Stefano Montefiori per il “Corriere della Sera” il 29 novembre 2019. Invitato a parlare davanti agli studenti dell' università di Tolosa, l' economista superstar Thomas Piketty spiega il concetto di «socialismo partecipativo» e le altre idee contenute nel suo nuovo Capitale e ideologia , séguito del bestseller Il capitale nel XXI secolo (sei milioni di copie vendute nel mondo). L' incontro sembra svolgersi secondo il copione di altre centinaia di conferenze di Piketty, ma al momento delle domande dal pubblico si alza una ragazza. Prende il microfono e stavolta chiede all' economista: «Lei che nel 2009 ha riconosciuto di avere picchiato la sua ex compagna, che ci fa qui, proprio nei giorni dei cortei contro le violenze sulle donne?». E agli organizzatori: «Non trovate che la sua presenza sia indecente?». Con determinazione e voce calma, la studentessa rompe un silenzio che durava da 10 anni e che aveva finora permesso a Piketty un'ascesa senza fastidi. I fatti del 2009 sono almeno parzialmente noti ma nessuno finora glieli aveva rinfacciati direttamente. E anche nei numerosi ritratti dedicati in questi anni all' autore del nuovo «Capitale» dopo quello di Marx, raramente si trovava un accenno a quell'episodio. Che cosa successe nel 2009? Nel febbraio di quell' anno l'allora deputata socialista Aurélie Filippetti denunciò per percosse Thomas Piketty, all' epoca consigliere economico del Ps e suo compagno. L' uomo venne trattenuto in commissariato e interrogato per alcune ore dai poliziotti della BRDP (Brigata repressione delinquenza contro la persona). La procura aprì un' inchiesta che si chiuse dopo alcuni mesi, a settembre. Piketty riconobbe i fatti e presentò le sue scuse a Filippetti in una dichiarazione scritta e registrata dagli avvocati; la vittima allora ritirò la denuncia, «per il bene delle nostre famiglie e per evitare risonanza mediatica». Il procuratore comminò comunque un avvertimento ufficiale a Piketty e lo richiamò al rispetto della legge. Le strade di Filippetti e Piketty si sono separate e di quella storia non si è quasi mai più parlato, assecondando i desideri di riservatezza di entrambe le parti. Lei nel 2012 è diventata ministra della Cultura sotto la presidenza Hollande, e l' anno scorso ha scritto il suo terzo libro, «Les Idéaux». Lui nel 2013 è arrivato alla fama con il suo bestseller sull' economia, e in queste settimane è impegnato nella promozione della nuova, corposa indagine sulle ingiustizie del capitalismo contemporaneo. Ma la conferenza di Tolosa si svolge, giovedì 21 novembre, proprio alla vigilia delle manifestazioni in difesa delle donne. Con la domanda sulla violenza del 2009, la studentessa indica l' elefante nella stanza. Thomas Piketty risponde nervosamente e nel tentativo di difendersi fornisce - per la prima volta - altre informazioni su quel che sarebbe accaduto la sera dello scontro: «L' ho buttata fuori di casa perché lei era estremamente violenta con le mie tre figlie, che all' epoca erano piccole». «Altri si sarebbero arrabbiati ancora di più». «L' ho spinta fuori di casa e lei è caduta tra lo stipite e la porta, questo non le ha impedito di andare a lavorare, ma mi dispiace». Piketty se la prende con la studentessa - «Indecente è la sua domanda, se vuole condurre un' indagine entri in magistratura, la sfido a trovare verità nascoste» - e insiste sul fatto che «l' inchiesta è stata archiviata, sono stato prosciolto da ogni accusa». A questo punto il quadro è cambiato. Il silenzio non è più possibile per Filippetti, che secondo la ricostruzione dell' ex compagno da vittima diventerebbe colpevole in base al noto meccanismo: è stata picchiata? Se l' è cercata. L' ex ministra contesta radicalmente questa versione e ieri ha annunciato di avere querelato Piketty per diffamazione. Secondo lei i colpi dell' uomo non si limitarono a quella sera ma erano ripetuti; è falso che lei fosse violenta con le tre figlie di lui; con la dichiarazione scritta resa nel 2009, e rimasta agli atti, Piketty stesso riconobbe in privato colpe che oggi nega in pubblico.
Dieci anni e un movimento MeToo dopo, sarà difficile stavolta evitare il tribunale. L’ex ministra Filippetti: «Piketty mi picchio più volte e ora mi dà la colpa». Pubblicato venerdì, 29 novembre 2019 su Corriere.it da Stefano Montefiori, da Parigi. Una settimana fa il celebre economista ha accusato l’ex compagna di essere violenta. Lei ha deciso di sporgere querela: «Una menzogna. Incredibile mentire così nel dopo MeToo». «Ha risposto come fanno molti uomini autori di violenze: dando la colpa alla donna». Una settimana fa, alla fine di una conferenza a Tolosa, il celebre economista Thomas Piketty è tornato per la prima volta sui fatti di 10 anni fa, quando venne denunciato per percosse da Aurélie Filippetti, futura ministra della Cultura e all’epoca sua compagna. «Era violenta con le mie tre figlie piccole — ha spiegato Piketty —, altri si sarebbero arrabbiati ancora di più. Quella sera l’ho spinta fuori di casa». Filippetti adesso lo ha querelato per diffamazione, riaprendo il caso. Che cosa contesta della ricostruzione di Piketty?
«Tutto. Io nel 2009 lo avevo denunciato per violenze che non riguardavano solo quella sera ma erano ripetute. E ho ritirato la denuncia solo dopo la sua dichiarazione scritta».
Che cosa contiene quella dichiarazione del 2009?
«Aveva riconosciuto episodi di violenza ripetuti e se ne era scusato. È un documento ufficiale depositato presso l’avvocato Jean-Pierre Mignard, che in quella fase si prestava a un ruolo di mediatore tra noi. A quel punto, ottenuti il riconoscimento dei fatti e le scuse, per evitare un’ulteriore mediatizzazione ero stata io a ritirare la denuncia. Lui non venne affatto prosciolto totalmente come cerca di fare credere. Il procuratore della Repubblica gli dette comunque un avvertimento e un richiamo alla legge».
Quanto è durata l’inchiesta all’epoca?
«Non è stata una cosa semplice. È stato messo in custodia cautelare, interrogato, l’inchiesta durò alcuni mesi. Una settimana fa, alla vigilia dei cortei in tutta la Francia contro le violenze sulle donne, una studentessa dell’università di Tolosa gli ha chiesto conto delle sue azioni passate. Ho visto il video, ho preso conoscenza di quello che lui ha risposto pubblicamente in quell’anfiteatro, poi ho contattato l’avvocato e giovedì ho presentato la querela per diffamazione».
Piketty dice di averla spinta, lei sarebbe caduta tra la porta e lo stipite di casa.
«Mente, non è successo niente di tutto questo. Sono cose dolorose per me. Getta la colpa sulla donna, su di me, la vittima. È pazzesco, per difendersi ha deciso di inventare una storia, da cima a fondo. Avrebbe potuto limitarsi a dire “preferisco non parlare di questo argomento”, invece ha inventato tutta una storia perché non ha ancora preso coscienza della sua stessa violenza».
Piketty le rivolge l’accusa di essere stata violenta con le sue tre figlie piccole.
«È totalmente falso, tanto è vero che sono io ad avere presentato denuncia contro di lui per violenze, all’epoca, non lui ad avere denunciato me per violenze contro le sue figlie. È una totale menzogna. La vittima che si è rivolta alla polizia sono io. Lui cerca di capovolgere totalmente le cose».
Pensa che il suo ex compagno sia stato colto di sorpresa dalla studentessa?
«Non lo so. Alcuni caratteri maschili sono convinti di essere al di sopra della legge. Quel che è incredibile è che possa dire una cosa simile ancora adesso, dopo tutto quello che è successo con il movimento MeToo e la presa di coscienza sulle violenze fatte alle donne. Eravamo a due giorni dal grande corteo, in un momento in cui la Francia è totalmente mobilitata su questi temi. È terribile che la negazione dei fatti si spinga fino a questo punto».
Alla luce di quello che è successo dopo, è pentita di avere ritirato la denuncia, dieci anni fa?
«Non si può giudicare la scelta di allora con la mentalità di oggi. All’epoca si tendeva a minimizzare le violenze, come lui fa ancora adesso: quando suggerisce che è capitato una volta sola, quando parla di una spinta invece che di botte ripetute, minimizza. Comunque il caso anche allora era scoppiato, ma senza grandi conseguenze, forse perché la società non era pronta. Il movimento MeToo non c’era ancora stato».
Non vi siete più parlati?
«No, mai, è impossibile. Il suo comportamento a Tolosa è sintomatico di una violenza di fondo. Le sue frasi sono un altro atto violento. Contro di me, e anche contro mia figlia, che all’epoca aveva 11 anni e si ricorda benissimo di tutto».
Anais Ginori per “la Repubblica” il 25 settembre 2019. Superare il capitalismo, desacralizzare la proprietà privata, reinventare un socialismo partecipativo. Thomas Piketty è tornato e i ricchi tremano. Dopo Il Capitale del XXI secolo uscito nel 2013, l' economista francese prosegue lo studio della storia delle disuguaglianze con un nuovo, voluminoso saggio (1200 pagine) che ha già acceso Oltralpe violente polemiche. Capitale e Ideologia non solo allarga lo sguardo fuori dall'Occidente, ma avanza proposte rivoluzionarie per ridistribuire la ricchezza. Nel mirino di Piketty c'è quell' 1% della popolazione che continua ad accumulare oltre metà del patrimonio lasciando agli altri solo le briciole. Qualcuno lo accusa di voler sostituire la lotta di classe con la lotta delle percentuali. Piketty non se ne cura e rifiuta l'etichetta di novello Marx. «Penso che i rapporti di forza non si costruiscano più attorno al sistema produttivo ma siano organizzati intorno a vera e propria ideologia che dobbiamo decostruire».
Le sue statistiche mostrano però anche notevoli progressi nella lotta alla povertà.
«Credo nel Progresso. Il mio libro inizia con un'osservazione ottimistica, sottolineando il prodigioso miglioramento dei livelli di istruzione e salute. Il cammino verso la giustizia sociale non segue un cammino lineare. Negli ultimi due secoli abbiamo vissuto epoche di grandi progressi e poi terribili fasi di regressione. Anche la Rivoluzione francese, ovvero la formidabile affermazione di un principio di uguaglianza, aveva i suoi limiti. Durante il dibattito sull'abolizione della schiavitù c'erano intellettuali liberali come Toqueville che si battevano per versare indennizzi ai proprietari. Era una forma di sacralizzazione della proprietà privata simile a quella che osserviamo oggi non solo sul capitale ma anche sulle risorse naturali e sulla conoscenza».
Siamo in una nuova fase di regressione?
«È cominciata intorno alla metà degli anni Ottanta a causa della rivoluzione conservatrice reaganiana e del crollo dell'Unione Sovietica. Questi due eventi hanno portato una fiducia esagerata, ideologica appunto, nell'autoregolamentazione del Mercato. La Russia è l'esempio più estremo. In un paese dov'era vietata qualsiasi proprietà privata, tutte le risorse naturali sono ora nelle mani di dieci oligarchi. In Russia non esiste alcuna imposta sulle successioni e sul reddito, c'è una flat tax del 13% per tutti, indipendentemente dal fatto che il tuo reddito sia di 100 o 1 miliardo di rubli. Anche in Cina non c'è tassa sulle successioni, mentre in regimi capitalistici come Taiwan o la Corea del Sud può arrivare fino al 50% per le grandi proprietà. Ma non è la fine della Storia, ci sono sempre movimenti a pendolo».
Cosa provoca questi movimenti storici?
«L'esempio della Svezia è molto significativo. In Europa citiamo spesso il modello egualitario svedese. Ma fino a non molto tempo fa, era uno dei sistemi politici ed economici con più disuguaglianze in Europa. Fino al 1911, solo il 20% più ricco poteva votare e il numero di voti era proporzionale alla ricchezza. Le mobilitazioni popolari hanno portato i socialdemocratici al potere e per sessant'anni c'è stato un cambio completo di priorità. Detto questo, le mobilitazioni o i conflitti sociali sono elementi forti nel cambiamento storico, ma non sono sufficienti».
Perché?
«La lotta di classe è buona, ma la lotta ideologica è ancora meglio. Altrimenti, tutti finiscono per auspicare un crollo generale del sistema senza anticipare il seguito. È quello che è successo dopo il rovesciamento del regime zarista in Russia: i bolscevichi non avevano pensato al dopo, sono affondati nella logica dei capri espiatori per finire nel regime più carcerale della storia. E il post-comunismo è diventato il miglior alleato dell'iper-capitalismo».
Lei propone di organizzare il versamento da parte dello Stato di una "eredità per tutti". Ci crede davvero?
«Non è un' utopia. I sistemi di reddito universale fanno già parte di molti paesi europei ma la ridistribuzione del capitale non esiste ancora. Oggi due terzi della popolazione non eredita nulla. Il sistema che propongo ha lo scopo di consentire a tutti, a 25 anni, di ricevere 120mila euro per avviare un' attività in proprio, acquistare una casa, realizzare progetti».
Per trovare i fondi necessari lei pensa a un' aliquota fino al 90% sui redditi più alti. Odia i ricchi?
«Anche qui ci sono precedenti, è già successo negli Stati Uniti a metà del Novecento. E nel Regno Unito è grazie a tasse di successione fino all' 80% del patrimonio che dal primo dopoguerra in poi c' è stata una ridistribuzione delle proprietà terriere. Oggi purtroppo sembrano epoche lontane».
Vuole abolire la proprietà privata?
«La proprietà privata deve rimanere entro limiti ragionevoli. Quando spiego che vorrei fare avere ai figli delle classi più povere un' eredità di 120mila euro i difensori dei diritti e delle libertà restano indifferenti, mentre se dico che i miliardari possono stare bene anche con un patrimonio di 100 milioni tutti insorgono. È pazzesco. Molti sono accecati da un liberalismo elitario e autoritario».
Alla «Prova del cuoco» la concorrente ringrazia il marito: «È geloso ma mi ha lasciato partecipare». Pubblicato lunedì, 25 novembre 2019 su Corriere.it. Sposata da un anno, di Vasto, in provincia di Chieti, in Abruzzo, la concorrente della Prova del cuoco di oggi ha sollevato polemiche per aver confidato alla conduttrice, Elisa Isoardi, che il marito è un po’«gelosino»: motivo per cui le ha concesso solo a fatica di partecipare alla trasmissione. Lo scambio di battute è un po’ surreale: la signora Natascia dice durante la preparazione del piatto di voler salutare e soprattutto ringraziare suo marito Emidio, perché le ha permesso di venire in tv.
Isoardi inizialmente la asseconda, scherzando: «Questa è una novità». Ma quando poi le chiede: «Perché bisogna ringraziarlo?», e la signora spiega che è a causa della sua gelosia, la conduttrice sbotta: «E se è geloso è un problema suo», riscuotendo un applauso del pubblico. E ribadendo: «E non poteva venire alla Prova del cuoco? Ehhhh», commenta con un ampio gesto della mano. Qualcuno non inquadrato è più esplicito: «Le ha permesso di venire, e che siamo nel Medioevo?». Al di là della diretta, la spiegazione della signora ha riscosso diverse critiche anche su Twitter: alla luce della giornata speciale, in cui si manifesta contro la violenza sulle donne, l’atteggiamento apparentemente maschilista del marito fa discutere.
Giornata della violenza sulle donne: una su tre perdona i soprusi. Redazione di Il riformista il 25 Novembre 2019. Una ricerca condotta da Skuola.net e l’Osservatorio Nazionale Adolescenza, in collaborazione con il Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha messo in evidenza l’importanza di combattere la violenza di genere partendo dall’educazione all’affettività delle nuove generazioni. Infatti, sono molte le giovani donne che subiscono soprusi soprattutto in età adolescenziale. Nell’ambito del progetto “Don’t slap me now” sono state oltre 7.500 le ragazze tra i 14 e i 20 anni intervistate per delineare i contorni del fenomeno della violenza sulle donne. Sono proprio loro, infatti, a essere spesso ‘vittime’ del partner. Circa 2 su 3 hanno subito scenate di gelosia e una su 10 ha confessato di aver paura delle reazioni del fidanzato. Infatti, tra le ragazze raggiunte dalla ricerca, quasi due su 10 ritengono che il proprio fidanzato sia eccessivamente geloso. Il morbo della gelosia e della volontà di possesso è molto più diffuso di quanto ci si possa immaginare, anche tra i giovanissimi che si approcciano da poco al sentimento dell’amore. Una condizione che in poco tempo potrebbe sfociare, e capita la maggior parte delle volte, in una vera e propria ossessione. Al 66% delle ragazze è capitato almeno una volta di aver subito una scenata di gelosia, mentre al 14% di essere stata addirittura offesa pesantemente, in molti casi anche di fronte agli altri. Il 50% delle ragazze dichiara che lo sfogo è avvenuto per motivi giudicati banali o futili. Tra i dati riportati, i casi di violenza fisica messi in atto da giovani partner sono molto limitati: si tratta comunque di quattro ragazze su cento, numeri che in questa fascia di età destano comunque preoccupazioni. Ma sono molte di più le ragazze che vivono nella paura che possa capitare anche a loro: più di una ragazza su 10 dice di temere che il fidanzato, quando si arrabbia, prima o poi vada oltre. Paura che va ad intaccare il benessere psico-fisico diventando, di fatto, già una forma di violenza. E qui la copertura del campione è quasi totale: il 79% ha dichiarato di essersi, almeno una volta, limitata proprio per timore delle reazioni che avrebbe potuto avere il partner. Molto spesso capita però che le donne tendono a soprassedere quando il partner diventa violento. Il 63% racconta che il fidanzato, dopo averle picchiate, ha chiesto scusa, ammettendo di aver esagerato e promettendo di non farlo mai più. Di fronte a questo atteggiamento solitamente le vittime finiscono per credere al proprio fidanzato, concedendogli un’altra possibilità. Il pentimento, dunque, diventa la chiave di volta nel rapporto. Una ragazza su 3, dopo aver subito violenza, dice di aver perdonato il partner, fidandosi delle sue parole. Inoltre, il 75% non ne ha parlato con nessuno. Dato che l’indagine si focalizza sulle giovani ragazzi, non si può non affrontare l’argomento da un punto di vista delle "nuove tecnologie". Molti fidanzati, infatti, manifestano una "violenza digitale" attraverso un’ossessione verso smartphone, social network e chat del partner. Al 68% delle giovani intervistate è capitato almeno una volta che il ragazzo pretendesse di leggere le sue conversazioni su WhatsApp, mentre al 37% di dare l’accesso ai propri profili social e il 13% è stata costretta a cancellare alcuni amici dai social network. Tutte forme di cyber-violenza che, sommate alla gelosia e alla possessività, hanno un impatto ulteriormente negativo su benessere, autostima ed emotività delle giovani vittime. Questi fenomeni sono relativamente recenti e soggetti ad una continua evoluzione, dettata dai repentini cambiamenti delle piattaforme tecnologiche. Esiste, perciò, un solo antidoto per prevenire le molteplici estreme conseguenze della violenza di genere: la formazione di ragazzi e ragazze, nei luoghi da loro frequentati e con linguaggi che possano comprendere. Per questo è stato istituito il progetto "Don’t slap me now", toccando diverse scuole d’Italia con gli esperti dell’Osservatorio Nazionale Adolescenza che si sono confrontati su questi temi direttamente con i ragazzi e arrivando a milioni di giovani grazie ai contenuti digitali informativo-educativi pubblicati sul portale digitale Skuola.net.
Le donne di 'ndrangheta non devono mai sorridere. Michele Caccamo Scrittore e poeta su huffingtonpost.it 25/11/2019. Non le hanno mai fatte cantare alle cerimonie nuziali. E hanno poi creduto bastasse fargli vedere gli acciarini nel buio della stanza per farle stare quiete: la prima notte era già una minaccia. Ma loro che avevano i ventri contaminati avevano già capito che avrebbero dovuto far passare da sotto la porta il cordone ombelicale, per farli nascere altrove, che quei bambini non avrebbero potuto lottare e che poi i padri li avrebbero buttati dentro alla porta oscura della ’ndrangheta. E allora hanno preso a parlarsi a distanza: dalla fonte della sudiceria alla sfera miracolosa del creato. Lo facevano in silenzio, perché sapevano di essere circondati dagli animali fedeli alla famiglia. Madre e figli, avevano paura. E allora andavano sopra le nubi sotto le nubi all’interno delle pietre per non essere ascoltati. E poi arrivavano gli annunci natali, con i fiocchi di festa attaccati ai pali della luce e i fuochi artificiali che già avevano il suono della tragedia. Quelle mamme erano scrofe, venivano scopate quando la luna era buona, quando il pezzente credeva così di mostrarsi maschio. Non c’era mai un desiderio galante, solo 37 secondi di scuotimenti. Poi la domenica le portavano a passeggiare, come cagne al guinzaglio, al centro del paese. E poi gli “uomini” compravano le paste. Loro erano libellule meravigliose, ma stavano con la testa bassa con un disegno dritto sulle labbra, perché le donne di ’ndrangheta non devono mai sorridere. Dina Lauricella, in “Il codice del disonore”, le ha aperte come delle melagrane, ha scardinato quei meccanismi arrugginiti del codice d’onore. E ha reso volgari, miserabili, inutili, a uno a uno quegli uomini che tutt’ora si credono di valore. Quegli uomini che hanno pronti i vestiti neri da indossare dopo aver ucciso madri padri fratelli figli.
Dina Lauricella ha messo il puntale nella bestialità di questa razza, e lo ha tenuto schiacciato affinché nessuno potesse scappare dalla sua denuncia. “Il codice del disonore” stabilisce un campo d’azione; una rinascita da una mentalità assassina prodotta da una cultura, piuttosto che da un popolo.
La prima violenza sulle donne è quella islamica. Corrado Ocone 25 novembre 2019 su NicolaPorro.it.Chi non tiene alla emancipazione e alla liberazione della donna, un processo storico fra l’altro già in buona parte avvenuto dalle nostre parti? Chi può mai credere oggi giusto considerare la violenza nei loro confronti, fisica o anche solo psicologica, come qualcosa da rubricare a reato di serie b, quasi una giusta reazione a torti di lesa maestà maschile? Eppure si ha come l’impressione che il movimento femminile, giunto a questo momento storico, dalle nostre parti, ma non solo, prenda spesso, o quasi sempre, a pretesto il nobile obiettivo per altri e molto politici fini. Il femminismo come una sottospecie del sinistrismo, per dirla in modo esplicito. Tanto per cominciare oggi se una battaglia dovrebbe stare a cuore alle femministe, se fossero veramente tali, è quella per la liberazione delle donne islamiche, soggiogate e ridotte in condizioni di vassallaggio, sia in famiglia sia in società, da una religione che si fa politica e commina pene e manda a morte chi osa opporsi ai suoi dettami. Eppure, oggi, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, nelle piazze italiane non si è sentito alzare nemmeno un flebile grido di protesta su questa vera e propria piaga che, con l’immigrazione non controllata, rischia di diffondersi sempre più anche nelle nostre “emancipate” contrade. Lo stesso è avvenuto sui giornali, ormai quasi tutti egemonizzati dal mainstream di sinistra, e nei commenti. Il femminismo sinistro, in tutti i sensi, non ammette il cortocircuito che si crea fra le sue richieste e quelle che, provenienti dalla “casa madre”, impongono di rispettare le altre culture in tutte le loro manifestazioni, anche le più sessiste, a prescindere. L’importante, oggi come sempre, è dar sotto all’Occidente. Con l’assurdo di arrivare a dire che il “corpo delle donne” sarebbe violato più qui da noi da presunti persuasori occulti delle nostre menti, che ci impongono un immaginario erotizzato, che non nel vicino Oriente dall’imposizione coatta del velo. Una coltre di bigottismo pervade questo nuovo femminismo politicamente corretto, dimentico delle battaglie fatte dalle femministe storiche per liberare veramente il loro corpo e non essere automaticamente bollate come donne di malaffare se osavano scoprire qualche centimetro in più della loro pelle. Quasi a preparare il terreno all’avvento dei nuovi padroni islamici, la stessa capacità di seduzione femminile viene vista non come un gioco sottile di intelligenza, e quindi di libertà, ma come un sottostare a un potere maschile che imporrebbe ancora oggi le proprie regole. Oggi, nelle piazze, si è sentito molto imprecare contro il femminicidio, con il sottinteso che si tratta di un omicidio diverso e molto più diffuso rispetto al semplice omicidio. Ora, a parte che le statistiche ridimensionano tutte drasticamente il fenomeno, la diversità aggravante del femminicidio dipenderebbe dal fatto che esso sarebbe figlio di certi retaggi culturali che generano insicurezze maschili. Sarà! Ma intanto come non osservare, ancora una volta, sta che proprio ove certa “cultura” ha ancora un peso, e non può essere considerata un semplice “retaggio”, proprio lì le nostre sedicenti femministe non osano gettare lo sguardo. Un caso di strabismo, forse. O, molto più probabilmente, del “doppiopesismo” a cui la sinistra coi suoi comportamenti ci ha da sempre abituati. Corrado Ocone, 25 novembre 2019
Violenza sulle donne, il sondaggio Istat: «Per il 24% degli italiani è colpa del vestito». Pubblicato lunedì, 25 novembre 2019 da Corriere.it. Più di una persona ogni quattro pensa che le donne possano provocare violenza sessuale con il loro modo di vestire. Addirittura il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. Il 23,9% pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire. Il 15,1%, invece, è dell’opinione che una donna che subisce violenza quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile. È questo il quadro — sconcertante — che emerge da una rilevazione statistica sugli stereotipi sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza, realizzata dall’Istat, diffusa nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne del 25 novembre 2019 (qui l’infografica che riassume i risultati del report). Alla domanda sul perché alcuni uomini sono violenti con le proprie compagne/mogli, il 77,7% degli intervistati risponde che le donne sono considerate oggetti di proprietà (84,9% donne e 70,4% uomini), il 75,5% — invece — dice che fanno abuso di sostanze stupefacenti o di alcol e un altro 75% chiarisce che si tratta del bisogno degli uomini di sentirsi superiori alla propria compagna/moglie. La difficoltà di alcuni uomini a gestire la rabbia è indicata dal 70,6%, con una differenza di circa 8 punti percentuali a favore delle donne rispetto agli uomini. Il 63,7% della popolazione considera causa della violenza le esperienze violente vissute in famiglia durante l’infanzia. A una donna che ha subito violenza da parte del proprio compagno/marito, il 64,5% della popolazione consiglierebbe di denunciarlo e il 33,2% di lasciarlo. Il 20,4% della popolazione la indirizzerebbe verso i centri antiviolenza (25,6% di donne contro 15,0% di uomini) e il 18,2% le consiglierebbe di rivolgersi ad altri servizi o professionisti (consultori, psicologi, avvocati, ecc.). Solo il 2% suggerirebbe di chiamare il 1522, il servizio pubblico promosso dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le Pari Opportunità. Si tratta di numero, gratuito, attivo 24 h su 24, che accoglie con operatrici specializzate le richieste di aiuto e sostegno delle vittime di violenza e stalking. Per il 10,3% della popolazione spesso le accuse di violenza sessuale sono false (più uomini, 12,7%, che donne, 7,9%); per il 7,2% «di fronte a una proposta sessuale le donne spesso dicono no ma in realtà intendono sì», per il 6,2% «le donne serie» non vengono violentate. Solo l’1,9% ritiene che non si tratta di violenza se un uomo obbliga la propria moglie/compagna ad avere un rapporto sessuale contro la sua volontà.
Pregiudizi sulla violenza sessuale. Augusto Bassi su Il Giornale il 26 novembre 2019. «Più di una persona ogni quattro pensa che le donne possano provocare violenza sessuale con il loro modo di vestire. Addirittura il 39,3% della popolazione ritiene che una donna è in grado di sottrarsi a un rapporto sessuale se davvero non lo vuole. Il 23,9% pensa che le donne possano provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire. Il 15,1%, invece, è dell’opinione che una donna che subisce violenza quando è ubriaca o sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile. È questo il quadro — scioccante — che emerge da una rilevazione statistica sugli stereotipi sui ruoli di genere e l’immagine sociale della violenza, realizzata dall’Istat, diffusa nella Giornata internazionale contro la violenza sulle donne del 25 novembre 2019». Ne dà scandalizzata notizia la 27esimaOra, voce femminile del Corriere della Sera. Per chi ha veramente a cuore le donne e si batte per difenderle dalle violenze, questa maniera pedestre di affrontare il tema offende e preoccupa. La circolarità semplice che si ostenta, in spregio ad ogni logica, per cui si assume come vero ciò che andrebbe dimostrato, rappresenta già in partenza il vero pregiudizio. Se Beppe ritiene che il modo di vestire di una donna e il suo contegno possano essere concause di una violenza subita non porta l’impronta del raziocinio e del principio di realtà, ma quella dell’oscurantismo; se Beppe pensa che una donna sia sufficientemente intelligente da poter eludere con una condotta assennata certe aggressioni, Beppe è un maschilista. Uno stereotipo negativo. Addirittura scioccante secondo la 27esimaOra. Naturalmente prodotto di una formazione scolastica primitiva: «Il 15,1% della popolazione crede che se una donna subisce una violenza sessuale quando è ubriaca o è sotto l’effetto di droghe sia almeno in parte responsabile, quota che raggiunge il 19,1% tra le persone di 60-74 anni, sia uomini che donne, e il 22,3% di chi ha livelli di istruzione bassi. Tra le donne, in particolare, la differenza è eclatante: ha questa opinione il 23,7% delle donne con nessun titolo o le elementari e il 6,3% delle laureate (per gli uomini si rileva rispettivamente 19,9% e 9,1%)». Stavo diligentemente accingendomi a smembrare i veri stereotipi di cui sopra, ma trovo più leggero e pertinente riproporre il dialogo del 13 settembre 2017:
Hai sentito di quei due Carabinieri?
Sì. Che vergogna!
Ma nessuno ne parla!
In realtà ne parlano. Ma c’è chi vuole aspettare la sentenza! Fanno schifo…
Quando c’era di mezzo un migrante però… erano tutti pronti a gridare allo stupratore, al mostro!
Il razzismo è duro da estirpare.
Secondo me la colpa è dei giornali. Quelli di destra alimentano l’odio.
Sciacalli! Xenofobi! Populisti!
Ascoltavo quelle signore di educatissime letture mentre dibattevano così lucidamente sulla vescicante attualità… anche lì… fra i tavolini di un caffè di Largo Treves. La dama in tortora degustava una centrifuga melanzana e sedano. Quella in cremisi, carota, kiwi, mango, più un pizzico di zenzero. E con che urbanità!
Tua figlia l’ha saputo?
Sì. Secondo me è rimasta scioccata. Non vorrà più avvicinarsi alle Forze dell’Ordine.
La capisco. Ci hanno tradito. E anch’io ho un po’ di paura.
Uno per fare il poliziotto deve essere fascista secondo me…
Lo sono, lo sono tutti!
Io li farei arrestare! Adesso il fascismo è reato!
Finalmente!
Quanti ne dovevano morire ancora!?
E quest’estate che hai fatto? Sei andata a Santa con Carola?
No, lei è stata in giro per il mondo, con amiche e amici.
Giusto! Deve aprire la mente.
Sì. A Milano sente il soffitto basso. E la capisco.
Quanto conformismo!
E’ stata a Formentera, in Nepal, Cambogia e poi in Sardegna.
Però la signorina! Si tratta bene!
Deve viaggiare! Deve conoscere culture lontane…
E non hai avuto paura?
No. E perché?
Beh, la Cambogia…
Ho più paura qui a Milano! In Cambogia non è mai successo niente di brutto da che mondo è mondo. Vivono in armonia con la natura. Carola mi ha portato dei cestini intrecciati a mano carinissimi! Polpottini li chiamano! Qui invece se ne sentono ogni giorno… e ci mancavano i follower di Mussolini! Gli orrori della storia ci perseguitano…
E’ l’ignoranza. Tutta colpa dell’ignoranza.
Quella conversazione di così ampie vedute, animata da giovani mamme tanto erudite, mi prendeva per la coda, ma il senso di inadeguatezza aveva il potere di paralizzarmi. Dopo qualche minuto presi il coraggio sotto braccio e mi avvicinai con il pretesto di dare un’occhiata a Repubblica…
Non ho potuto fare a meno di ascoltare, signore, e me ne scuso. Ma davvero c’è di che aver paura a Milano? Anch’io ho una figlia adolescente e lei vorrebbe fare l’università qui. Sapete, noi veniamo dalla provincia…
Ma si figuri, ora le spiego io. Certo che è pericolosa! Ma non per gli immigrati come dice quello scimmione di Salvini e i populisti dalla parte del popolo bue! Sono i professori i veri maniaci!
I professori?
Sì! Mia figlia fa il liceo e mi racconta cose allarmanti. Da denuncia!
Anche la mia! Si guardi dai professori!
Grazie. Lo farò. Ma devo dire che quando vedo le compagne di classe della mia bambina rimango perplesso. Si presentano in classe con braghine talmente corte, con canottiere così scollate! E sono così audaci poi… quasi spudorate! Ai miei tempi le liceali giravano con la focaccia nel cestino della Holland; adesso sfrecciano in due sullo scooter, con i biker ai piedi, la sigaretta in mano, piselli di gomma nella borsa e una bestemmia tatuata sulla schiena…
Non ci vedo niente di male. Una ragazza deve poter esprimere se stessa senza tabù. Siamo mica dei bacchettoni che ci scandalizziamo per un pantaloncino un po’ corto. Ahahah! Ha sentito che caldo faceva quest’estate? Le vorrebbe vestite come in Iran? Cultura che comunque rispetto moltissimo, sia chiaro. Anzi. Quest’inverno vorrei andare a sciare a Dizin. Sei mai stata Geraldine?
No. In Iran mai. Ma sono stata in Vietnam due anni fa. Adoro!
Anch’io! Tre volte. Quest’estate per un mese. Il Vietnam è top!
Certo, ma se poi un malintenzionato mette loro una mano sulle chiappe… beh, lì allora un po’ bacchettoni diventiamo. Almeno… io da papà lo divento… sono molto geloso, lo confesso.
Ma che paragoni sono?! Che il mio compagno solo provasse a dire cose del genere! Una donna deve poter essere libera di uscire come le pare, fare quello che le pare, senza per questo venir molestata!
Naturalmente. Eppure succede. Purtroppo. Mi scusi la grettezza dell’empiria…
Sì! Perché gli uomini non sanno controllarsi! Siete dei maiali!
Appunto. Siamo dei maiali. Spesso non sappiamo controllarci. Come scrisse Céline: «A dire il vero ero un gran maiale. Lo restai». Quindi succede…
Ma siete voi i maiali. E invece si punta il dito sulle donne. C’è anche chi osa dare loro delle troie, delle puttane, delle baldracche. Dire che se la sono andata a cercare!
No! Certo che no! Nessuna provocazione, involontaria o volontaria, può giustificare una molestia. Però… proprio in considerazione del fatto che gli uomini non sanno controllarsi, forse sarebbe il caso di tutelarsi e…
E già! Torniamo all’Iran! La cui cultura comunque amo moltissimo. Il burqa poi è chicchissimo. Io adoro la tradizione dell’outfit etnico.
Ah, anch’io! Alcuni sono supercarini!
Est modus in rebus…
Cosa?!
Dico, esiste una misura nelle cose. Quando vedo ragazze minorenni vestite come zoccole da saloon… mi chiedo che cosa passi per la testa dei genitori…
La prego! La volgarità mi ripugna!
Scusi. Quando vedo ragazzine vestite da cocotte…
Da che?!
Diciamo da impertinenti lolite, che fanno gestacci, che bestemmiano come mongoli…
Si chiamano diversamente abili!
No… intendevo di razza mongolica, lingua altaica, religione musulmana…
Lei è un leghista?
Cielo no! Perché?
Così… mi pareva….
Anche a me!
Dicevo, se queste ragazzine girano in abiti succinti, magari barcollando per la città con una boccia di vino in mano e urlando “fuck me! Fuck me!… beh… forse possono attirare l’attenzione dei malintenzionati. E’ come sanguinare davanti agli squali, non credete?
Perché gli uomini non sanno controllarsi! Sono dei maiali! Altro che squali!
Appunto. Quindi rischiano di essere violate…
Si dice violentate. Usiamo le cose con il loro nome! Quanta ipocrisia!
Scusi. Rischiano di essere violentate…
Ma che lei forse non lo sa!? Se una ragazza è ubriaca o ha fatto uso di droghe, è un soggetto in condizioni di minorata difesa; quindi è un’aggravante!
Non lo sapevo, in effetti. Ma lo capisco. Se una ragazza si riduce in quelle condizioni, alterata dall’alcol e inebetita dall’hashish, ha poche scusanti…
Sta scherzando o è ubriaco anche lei?! E’ un’aggravante per chi ne approfitta! Perché approfitta di chi non è consapevole di ciò che fa!
Santi numi! Che bizzarria! Mi perdoni signora, ma sembra si tratti del sopruso su un disabile. Chi si riduce a camminare sui gomiti è perché lo sceglie. Perché volontariamente vuole mettersi in condizioni di minorata difesa. Non è una giustificazione verso chi ne approfitta, va da sé, ma mi pare sia indicativo…
Di cosa?
Di una condotta poco assennata. Non credo che la leggerezza di comportamento riveli la libertà, anzi. Dopotutto lo asserì anche Simone de Beauvoir: «Una donna libera è il contrario di una donna leggera».
Io devo essere libera di ridurmi come voglio senza che lei osi toccarmi! Io dico così e la legge dice così!
Sacrosanto. Ma che cosa cambia per sua figlia? Al selvaggio non interessa la legge; perché è un fuorilegge. E non ha nulla da perdere. Coglie solo l’occasione migliore. E quale migliore occasione dell’avere di fronte una ragazza annebbiata, inerme?
Selvaggio sarà lei! Si chiamano immigrati e sono molto più civili di noi!
No, abbia pazienza… ha frainteso. Non mi riferivo al selvaggio in senso etimologico, di chi viene dalla selva; selvaggio come belluino assalitore in senso lato.
Ma dalla selva ci verrà lei e beduino anche, mi scusi!
Scappano da guerre sanguinose, non dalla foresta! Ma lei dove vive?! Ah già, in provincia…
D’accordo, chiedo scusa. Ma tutto ciò non cambia il fatto che sua figlia, così facendo, si mette nelle condizioni di essere nuda di fronte al piglio grifagno del furfante…
Mia figlia?!? Lei che ne sa di cosa fa o come si concia mia figlia?!
Questo è fuori Matilde Sofia, lascialo perdere! Andiamo a pilates piuttosto, sono quasi le otto!
Aspetta un attimo! Mia figlia si concia come vuole se permette!
Appunto. Quindi immagino che…
A lei piacciono gli short corti come a tutte le sue amiche e quelli usa. Poi beve la birra, mica i superalcolici. E le ho insegnato a non essere razzista. Quello è l’importante!
Però ha visto il recente episodio di Roma… fidarsi è bene…
Che luoghi comuni! Che generalizzazioni! E invece dei Carabinieri ci si può fidare?
Bene, concediamolo. Immagini dunque, se non ci si può fidare neppure di un Carabiniere in divisa… figuriamoci di un immigrato poco civilizzato, scorbutico e arrapato, che magari non giace con una donna da molti mesi e che alla donna stessa attribuisce il valore di una capra nana africana…
Ma poco civilizzato mi sembra lei che fa questi discorsi! Il suo sessismo è disgustoso!
Forse ha ragione. Ma a me pare, e lo dico da padre, che rischi di passare codesto scivoloso messaggio: Figlia mia, tu tira pure fuori il culo e devastati. Se ti violentano, sbagliano loro, rammentalo bene. Non colpevolizzarti. E più ti ubriachi, più ti droghi, più ti alteri, meno sei presente a te stessa, più sbagliano loro.
Ma non blateri sciocchezze! Andiamo Geraldine… questo se non vota Salvini, come minimo è un lettore del Giornale! La saluto…
Rimasi crucciato da quel commiato, allocchito dall’intero colloquio, immerso nei dubbi e in quel sentore di zenzero alla carota. Ordinai un frullato al finocchio per riprendermi dalla strigliata e iniziai a sfogliare Repubblica per capire da dove ripartire:
«Ma quali sono i posti che i visitatori e soprattutto gli appassionati di fotografia non possono assolutamente perdere in Vietnam? Li descrive perfettamente Luca Bracali, fotografo esperto del Sud Est Asiatico. Bracali ha fatto un viaggio di otto giorni, attraversando il Vietnam a bordo di una vespa, visitando posti celebri come Ha Long Bay, Sa Pa, Hoi An Ho Chi Min City, e Can Tho, e ha realizzato un diario fotografico in collaborazione con Emirates».
Adoro!
Fondi antiviolenza: un business? Flora Casalinuovo il 11 01 2018 su donnamoderna.com. Negli ultimi 4 anni i centri e le case rifugio per le donne maltrattate si sono moltiplicati. Un boom che sorprende, perché la cronaca rimanda a una realtà diversa: strutture sempre più in affanno e a rischio chiusura. Tanto che alcune onlus denunciano: «Molti si improvvisano esperti pur di spartirsi i finanziamenti statali». Quando si parla di abusi e femminicidi, di solito si puntano i fari sull’inquietante conteggio delle vittime. Poi passa il clamore legato al singolo caso, i riflettori si spengono ma i numeri rimangono. Alcuni sono meno eclatanti, eppure fanno pensare. Nel 2013, per esempio, in Italia c’erano 188 centri antiviolenza e 163 case rifugio. Oggi i primi arrivano a quota 296, le seconde a 258. Un boom che non può passare inosservato, anche perché in realtà la cronaca ci racconta di strutture in affanno (non ultimo il caso della Casa internazionale delle donne a Roma), o che vivono con lo spettro della chiusura. È vero, come denunciano gli addetti ai lavori, che ha preso piede il cosiddetto “business della violenza” e tanti si improvvisano esperti pur di sedersi al tavolo dei fondi? Abbiamo cercato di capirne di più.
Ad aggiudicarsi i soldi sono spesso strutture che si occupano di povertà o migranti. Tra i primi a lanciare l’allarme c’è Raffaella Palladino, presidente di D.i.Re-Donne in rete contro la violenza, l’associazione che coordina oltre 80 centri: «Dopo il 2013, anno del Piano straordinario del governo, questi luoghi sicuri hanno cominciato a moltiplicarsi. Sarebbe un fatto positivo, peccato che manchi trasparenza. Nel 2014 la Conferenza Stato-Regioni ha approvato una normativa proprio per definire i centri e regolamentare così la concessione dei fondi del governo: devono essere organizzazioni nate per prevenire e contrastare il problema della violenza contro le donne, o comunque occuparsene in maniera prevalente, e devono vantare almeno 5 anni di esperienza. Nella pratica, però, non è così. Ogni Regione lancia dei bandi per distribuire i finanziamenti e, purtroppo, vi partecipa chiunque. Le istituzioni non verificano la documentazione oppure si accontentano dell’autocertificazione. In questo modo ad aggiudicarsi i soldi sono anche strutture che si occupano di povertà o migranti. Enti validi, ma che non hanno esperienza sul campo».
Non basta accogliere una vittima e aiutarla: bisogna stare al suo fianco per anni. La presidente di D.i.Re avrebbe anche una “black list” di strutture. «Conosco bene la situazione in Campania, perché è la mia Regione: e quindi mi chiedo perché mai debba arrivare tra i primi in graduatoria una onlus che ha sempre gestito uno sportello per la vita?». Abbiamo cercato di approfondire, interpellando l’associazione per dei chiarimenti, ma non abbiamo avuto risposte. Il problema, in ogni caso, riguarda parecchie altre zone d’Italia. Manuela Ulivi è avvocata e presidente della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano, il primo centro italiano. «In Lombardia la Regione ha aperto un albo dei centri e ha istituito, con un decreto della Giunta, i criteri delle strutture: sono enti o fondazioni che abbiano personale con esperienza di almeno 3 anni. Significa che chiunque può occuparsene, che basta aver fatto il volontario per 36 mesi per aprire un centro ed è rischioso. Non è una questione di singoli professionisti, non è sufficiente accogliere una vittima e aiutarla nella denuncia, bisogna stare al suo fianco per anni. Il governo ha promesso di triplicare i fondi e di passare da 10 a 30 milioni di euro annui totali: ottenere 50.000 euro, la cifra media per struttura, fa gola a molti».
Nel mirino ci sono anche i costosissimi corsi di formazione per operatori. I soldi non girano solo nei centri o nelle case rifugio. «Si stanno moltiplicando i corsi di formazione per operatori» avverte Raffaella Palladino di D.i.Re. «Vengono proposti da atenei e associazioni e costano anche migliaia di euro. Noi crediamo invece che ci si prepari a questo mestiere sul campo: i nuovi arrivati fanno pratica con le nostre operatrici storiche, è un percorso lungo che dura almeno 9 mesi ed è gratuito». Eppure è proprio qui che si gioca il futuro. «La preparazione iniziale e continuata dei protagonisti è la chiave di volta per risolvere il problema» spiega Simona Lanzoni, vicepresidente di Fondazione Pangea e seconda vicepresidente del Grevio (Gruppo esperti per il contrasto della violenza sulle donne) al Consiglio d’Europa. «Master e specializzazioni sono i benvenuti, ma questi temi si dovrebbero affrontare già negli studi universitari di base. Assistenti sociali, medici, infermieri e avvocati dovrebbero conoscere il fenomeno e saper gestire casi concreti».
Serve una rete tra forze dell’ordine, servizi sociali, tribunali e datori di lavoro. Strutture che si improvvisano, operatori poco esperti: se questo è il quadro, anche l’aiuto alle vittime viene messo a rischio. «Il problema non riguarda solo la diffusione dei centri» continua la vicepresidente di Fondazione Pangea Simona Lanzoni. «Anzi, secondo il Consiglio d’Europa dovrebbe essercene uno ogni 100.000 abitanti e siamo ben lontani da raggiungere questo traguardo. Per l’Istat questi luoghi di aiuto e di rifugio accolgono solo il 4,9% delle donne maltrattate, la maggior parte chiede aiuto a parenti e amici, poliziotti, legali. Quindi non possiamo focalizzarci solo sulle strutture e polemizzare su tipologie, connotazioni politiche o religiose, perché qui serve una rete territoriale capillare con la partecipazione di tutti gli operatori coinvolti. Lo dice anche la Convenzione di Istanbul, il Trattato contro la violenza di genere approvato dal Consiglio d’Europa: ogni Stato deve mettere a disposizione ogni mezzo per aiutare le vittime, con il supporto anche di forze dell’ordine, servizi sociali, mondo della giustizia e del lavoro, tutti con l’adeguata formazione professionale. Altrimenti continuerà a succedere ciò che è accaduto proprio a una mia amica: un poliziotto ha cercato di dissuaderla nel sporgere denuncia sotto Natale “perché è meglio trascorrere le feste in famiglia”. Oppure a Sara, una donna con 2 figli che ha vissuto in una casa rifugio per alcuni mesi ma non ha ancora un’occupazione dignitosa e una casa dove vivere».
In viaggio con le operatrici. «In questi luoghi dove passano il dolore, la rabbia, le solitudini, le paure delle donne maltrattate ma a volte anche delle stesse operatrici, ci sono una vitalità, e una voglia di lottare incontenibili». Luca Martini è un uomo, e questo è già un fatto straordinario. Si occupa di risorse umane, ma segue anche il mondo delle associazioni. Nel libro Altre stelle (Mimesis) racconta il suo viaggio da Bolzano a Catania per dare voce alle donne che, tra mille difficoltà, lavorano nei Centri Antiviolenza del nostro Paese. Un punto di vista inedito, quello maschile, che raccoglie la fatica, la dedizione, la professionalità di chi si dedica alle vittime di questa piaga sociale. «Qual è il ruolo degli uomini in questo scenario?» si chiede Luca. «Non essere violenti è il primo passo. Ma servono anche ascolto, collaborazione, supporto».
Perché non si usano i fondi per i centri antiviolenza? Flora Casalinuovo il 27 07 2016 su donnamoderna.com. È un paradosso che sta mettendo in pericolo centinaia di persone: i soldi per soccorrere le vittime di abusi ci sono, ma sono bloccati dalla burocrazia. Così le associazioni non possono più garantire assistenza né protezione. E il rischio di nuovi femminicidi aumenta. Bloccati. In ritardo. A volte dispersi. È l’amaro destino dei fondi per i centri antiviolenza italiani: più di 20 milioni di euro a favore delle associazioni che si occupano delle vittime di abusi, di fatto indisponibili a causa di inspiegabili lungaggini burocratiche. Eppure, nel nostro Paese l’emergenza è altissima: una ricerca dell’università romana Lumsa sottolinea che negli ultimi 12 anni 2.000 donne sono state uccise da mariti, ex compagni o fidanzati.
Non esiste una mappa delle strutture. «La legge contro il femminicidio del 2013 ha stanziato 16,5 milioni di euro per il biennio 2013-2014 e 10 milioni di euro all’anno dal 2015» spiega Titti Carrano, presidente di D.i.Re, l’associazione che riunisce 75 centri italiani. «Finora sono stati erogati quelli del primo biennio, mentre la scorsa legge di Stabilità ha ridotto a 7 milioni il budget per il 2015 e a 8 quello del 2016. La norma, poi, precisa che solo il 20% va a strutture esistenti, il resto serve per altre iniziative». Non solo: i primi 16,5 milioni sono stati dati alla Regioni che poi avrebbero dovuto distribuirli, ma soltanto 10 lo hanno fatto. Le altre? I soldi sono bloccati perché non esiste un criterio per assegnarli. La legge del 2013 obbligava alla mappatura dei centri antiviolenza per velocizzare le assegnazioni, ma l’elenco non è stato fatto.
C’è incertezza per il futuro. Da Milano a Palermo nelle associazioni che aiutano le donne vittime di abusi si respira un’aria carica di preoccupazione. «Un paio di strutture hanno chiuso e tante hanno ridotto i servizi» nota Titti Carrano, presidente di D.i.Re. «Non siamo una priorità del governo. A maggio 2015 è stato approvato un Piano straordinario contro la violenza sessuale e di genere: molti centri hanno presentato progetti ma non se ne è saputo più nulla. Siamo stati 2 anni senza un ministro per le Pari opportunità (aveva la delega Matteo Renzi, ndr). A maggio l’incarico è andato al ministro Boschi, che non ha risposto ai nostri appelli».
La denuncia delle onlus. Iside (Venezia) «Abbiamo dimezzato le ore di sostegno: a pagare sono le donne» «Ci decurtiamo lo stipendio, paghiamo di tasca nostra le bollette. Ma potrebbe non bastare». Genny Giordano è una delle operatrici della onlus Iside, che gestisce 3 centri antiviolenza tra la Laguna e Castelfranco Veneto. «Abbiamo chiuso l’orientamento al lavoro e dimezzato le ore di sostegno psicologico e di reperibilità telefonica. È un dramma. A noi si rivolgono donne che hanno appena lasciato un compagno violento e che attraversano quindi il momento più critico, quello a rischio femminicidio. Se perdono il nostro appoggio devono affidarsi al caso e sperare di trovare qualcuno che le aiuti. Ma quando hai smarrito la fiducia non hai nemmeno la forza di rivolgerti alla Polizia». Erinna (Viterbo) «Accogliamo 500 persone all’anno, i soldi finiranno a febbraio. E poi?» L’associazione Erinna è nata nel 1998 e fino al 2006 non ha avuto nemmeno una sede fissa. «Eppure accogliamo 500 persone all’anno: diamo sostegno, supporto legale, facciamo corsi di alfabetizzazione per le migranti» dice la presidente Anna Maghi. «Ma dall’anno scorso non riceviamo più fondi: quelli previsti dalla legge del 2013 sono fermi in Provincia. Noi non abbiamo sponsor politici quindi non ci considerano. Dovrebbero considerare almeno le 40 donne che, negli ultimi 6 mesi, sono venute da noi disperate. Tiriamo avanti con il sostegno di fondazioni private, siamo coperti fino a febbraio. Dopo? Non so che succederà». Le Onde (Palermo) «Lavoriamo gratis e nel weekend non garantiamo più l’assistenza» «Se una signora chiama sabato o domenica trova la segreteria telefonica». Non usa giri di parole Maria Grazia Patronaggio, presidente della onlus Le Onde, storico centro del capoluogo siciliano. «Abbiamo tagliato il servizio di ascolto, che ora funziona 6 ore al giorno da lunedì a venerdì: le nostre 16 operatrici lavorano gratis, non possiamo fare di più. Nel 2014 abbiamo chiuso una casa rifugio, nell’altra accogliamo solo ragazze con figli. Aspettiamo i fondi del 2014: il Comune deve approvare il bilancio per dare il via libera, li avremo prima della fine dell’estate? Si tratta di poche migliaia di euro e il centro ne costa 100.000 all’anno».
Le testimonianze. «Ho detto basta a urla e botte» Lina C. ha 35 anni, è senza lavoro e abita a casa del fidanzato, un uomo violento e irascibile. Dopo mesi di colloqui con le operatrici dell’associazione Iside di Venezia, ha deciso di lasciare il compagno. «Ma è difficile» dice. «All’inizio credevo mi picchiasse per colpa mia. Poi ho compreso di avere diritto alla felicità. Prima di andare via, però, devo trovare una casa e un lavoro. Il venerdì sera entro in un tunnel perché il sostegno telefonico non c’è più durante il weekend. Prego che non succeda nulla fino al lunedì quando posso bussare alla porta dell’associazione».
«Il mio ex mi ha accoltellato» Due anni fa suo marito l’ha ferita alla pancia mentre dormiva nel letto con il figlio. Da allora la vita di Carla F., seguita dalla onlus Erinna di Viterbo, assomiglia a un volo senza paracadute. «Le operatrici mi hanno sostenuta passo dopo passo» racconta. «Mi hanno aiutato a trovare una casa e un lavoro e con il gruppo di auto aiuto sono riuscita a superare l’ansia e la paura che mi paralizzavano. Qualche settimana fa le ragazze del centro si sono persino autotassate per pagarmi l’iscrizione alla scuola guida: la patente mi darà libertà, autonomia. Sono i miei angeli».
Telefono Rosa. In principio fu comunista.
Morta Giuliana Dal Pozzo, fondò Telefono Rosa. Sollevando il velo sulle violenze domestiche. All'età di 91 anni se n'è andata la giornalista che nel 1988 ebbe l'intuizione di uno "sportello" al Comune di Roma trasformatosi poi in un servizio innovativo dedicato alle donne molestate a casa o al lavoro. Direttrice di Noi Donne dopo Miriam Mafai, affrontò i grandi temi dell'emancipazione femminile: divorzio, aborto, contraccezione. La Repubblica. Giuliana Massari Dal Pozzo, giornalista dalla parte delle donne, fondatrice del Telefono Rosa, è morta a Roma all'età di 91 anni. Nel 2007 il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, l'aveva nominata Grande Ufficiale al merito della Repubblica proprio per la sua "attività meritoria" in aiuto delle donne vittime di violenza. Giuliana era nata a Siena, contrada dell'Oca, aveva diretto il settimanale Noi Donne. Nel 1988, quando il termine "femminicidio" non apparteneva al linguaggio comune, ideò il Telefono Rosa, un'associazione di volontarie a sostegno delle donne vittime della violenza tra le pareti domestiche e nei luoghi di lavoro. I funerali di Dal Pozzo si svolgeranno a Roma, nella chiesa Mater Dei, in via della Camilluccia 120, martedì 17 alle ore 10.30. Nel 1988, il Telefono Rosa nacque come sportello temporaneo del Comune di Roma, diventando anno dopo anno il salvagente lanciato nelle acque tempestose in cui annaspavano donne disperate e bisognose di una mano tesa. Oggi il Telefono Rosa è una realtà autorevole, radicata con sedi in tutta Italia e un'attività che da accoglienza telefonica (oltre al proprio numero gestisce anche l'istituzionale 1522) è diventata più in generale di formazione alla cultura anti-violenza di genere. Fu per quella grande intuizione che Giuliana fu convocata nel 2007 dal presidente Napolitano per essere nominata Grande Ufficiale della Repubblica. Eppure Giuliana non veniva dal volontariato, ma dal giornalismo. Dopo una crescita professionale maturata nelle redazioni dell'Unità e di Paese Sera, tra la fine degli anni '60 e i '70 aveva affiancato e poi preso il posto di un'altra grande toscana, Miriam Mafai, alla direzione del settimanale Noi Donne, organo ufficiale dell'Unione Donne Italiane. Che, dalla fondazione nel 1944, viveva in quegli anni, di pari passo con l'emancipazione della figura femminile, il suo picco di diffusione. Con Giuliana al posto di comando, Noi Donne si trasformò da organo "ufficiale" in una rivista in grado di interpretare i tempi e anticipare i temi forti di un femminismo ancora sotto traccia. Ed ecco Giuliana sfogliare, attraverso la posta delle lettrici, il divorzio, l'aborto, la contraccezione. Una rubrica ventennale, la posta di Giuliana, diventata il racconto in soggettiva di grandi trasformazioni nel costume, nel linguaggio, nel rapporto con l'altro sesso. Senza eccezioni: è del 1969 un'inchiesta sul maschio di sinistra che rompeva un altro tabù, mettendo in luce le ipocrisie della parte progressista. Poi l'intuizione nel 1988 del Telefono Rosa e l'apertura di uno squarcio su quello che le pareti domestiche sanno e non possono rivelare. Sulle donne vittime della violenza domestica e delle molestie nei luoghi di lavoro Giuliana pubblicò anche un libro, Così fragile, così violento (Editori Riuniti), che raccontava quell'inferno con le parole delle protagoniste. Storie che spesso restavano sulla pelle, quasi mai nei verbali degli operatori sanitari o delle forze dell'ordine. Il Telefono Rosa consisteva in una stanza con cinque volontarie armate di quaderno e penna ad alternarsi nell'ascolto delle chiamate e delle richieste di aiuto. Oggi le volontarie sono decine, mentre alla guerra del Telefono Rosa contro le violenze si sono arruolate avvocate penaliste e civiliste, psicologhe, mediatrici culturali di diversa nazionalità. Premio Saint-Vincent per il giornalismo, Giuliana Dal Pozzo ha anche firmato La donna nella storia d'Italia, vari saggi, un romanzo, Ilia di notte, scritto con Elisabetta Pandimiglio (Editrice Datanews), e il diario La Maestra. Una lezione lunga un secolo (Memori).
Violenza sulle donne: il nodo dei finanziamenti e i centri antiviolenza a rischio chiusura. Simona Rossitto il 23 Novembre 2017 su Il Sole24ore. Roma, fine giugno 2016: in una Capitale ancora scossa per il femminicidio di Sara di Pietrantonio, bruciata viva dal suo ex fidanzato, scatta l’allarme per il rischio di chiusura del centro antiviolenza finanziato dal comune Sos Donna h24. Ma il Casale Rosa di via Grottaperfetta non è il solo centro che ha lottato negli ultimi anni per la sopravvivenza. E, questo, nonostante la legge 119 del 2013 preveda il potenziamento delle forme di assistenza e sostegno alle donne vittime di violenza e ai loro figli, con il rafforzamento della rete dei servizi territoriali, dei centri antiviolenza e dei servizi di assistenza. Oggi, in attesa del nuovo Piano strategico del governo per la lotta alla violenza maschile sulle donne, Piano che sottolinea il ruolo fondamentale dei centri antiviolenza, emergono ancora perplessità sul nodo del finanziamento alle strutture. Particolarmente critica è D.i.Re, associazione che raccoglie oltre 80 Centri: per la rete presieduta da Lella Palladino i soldi previsti finora sono stati insufficienti. Inoltre la governance dei finanziamenti resta troppo accentrata a livello ministeriale e istituzionale. Molto più positiva è la prospettiva di Telefono Rosa che sottolinea come, di fronte a risorse scarse, sia un notevole passo in avanti assegnare ai centri ogni anno finanziamenti certi. Le strutture ricevono principalmente fondi dallo Stato (ovvero dal dipartimento per le Pari opportunità che li gira alle regioni), dalle stesse regioni e dai comuni, oppure grazie alla partecipazione a bandi europei e privati. In particolare, l’articolo 5 bis del decreto legge del 2013 stabilisce che i centri e le case rifugio abbiano un finanziamento statale di 10 milioni l’anno. Sono stati stanziati circa 18 milioni sia per il biennio 2013-14 sia per il 2015-16. Per il 2017 si aspetta la distribuzione di circa 12 milioni. La situazione potrebbe nettamente migliorare dal 2018. Nella prossima legge di bilancio è stata inserita la previsione di fondi all’incirca triplicati a 33,9 milioni di euro nel 2018 e 34 milioni nel 2019.
LA DENUNCIA DELLA CORTE DEI CONTI. Ma facciamo un passo indietro. Nel 2016 la Corte dei Conti ha acceso un faro sulla cattiva gestione regionale delle risorse nel biennio 2013-14, le uniche ripartite nel periodo esaminato dalla magistratura contabile. La mancanza di un censimento ufficiale dei centri antiviolenza, lacuna che dovrebbe essere presto colmata grazie alla mappatura affidata dal dipartimento al Cnr, ha avuto infatti un impatto distorsivo sull’allocazione dei finanziamenti statali. Le regioni, come ha denunciato la magistratura contabile, hanno speso male nel 2013-14 le risorse destinate alle strutture che accolgono e si prendono cura delle donne vittima di violenza di genere. In base alla legge del 2013 è stata destinata al dipartimento per le Pari opportunità la gestione di due linee di finanziamento: una per l’attuazione del piano d’azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere (adottato nel 2015) e l’altra per il potenziamento delle forme di assistenza alle donne vittime di violenza e ai loro figli, attraverso modalità omogenee di rafforzamento dei servizi territoriali, dei centri antiviolenza e dei servizi di assistenza. «Quanto al finanziamento specificamente destinato al potenziamento delle strutture destinate all’assistenza alle donne vittime di violenza e ai loro figli – afferma la Corte – deve farsi presente che del tutto insoddisfacente è risultata la gestione delle risorse assegnate per gli anni 2013-2014, le uniche ripartite nel periodo ai centri antiviolenza». Numeri alla mano, i fondi assegnati alle regioni risultano «pari a 16.449.385 di euro, di cui un terzo riservato all’istituzione di nuovi centri antiviolenza e case rifugio e i restanti 2/3 sono stati così suddivisi: 80% al finanziamento aggiuntivo degli interventi regionali già operativi (progetti già in essere nelle regioni) e solo il 20% al finanziamento di centri antiviolenza e case rifugio (10% ciascuno)». Quindi, secondo la Corte dei conti, a ogni centro antiviolenza sono stati assegnati in media circa 5.800 euro e a ogni casa rifugio circa 6.700 euro. «Abbiamo preso atto – commenta Francesca Puglisi, presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sui femminicidi – della dura relazione della Corte dei conti. Alcune regioni hanno gestito le risorse molto bene, in altre sono rimaste inevase. Inoltre sono nati come funghi organizzazioni e associazioni non qualificati. Noi daremo, nel nostro lavoro conclusivo, indicazione affinché si cambi la governance dei finanziamenti».
NUOVE NORME PER UN MAGGIORE CONTROLLO DELLE RISORSE. Un primo cambiamento nelle modalità della ripartizione delle risorse è avvenuto con il decreto del presidente del Consiglio (Dpcm) relativo ai fondi per il 2015-16. E’ stata cioè inserita una serie di paletti che ha come obiettivo il controllo delle risorse e delle loro modalità di impiego, come richiesto dalla Corte. Si stabilisce che il dipartimento trasferisca alle regioni i fondi, una volta ricevuta la specifica richiesta con una scheda programmatica contenente gli obiettivi e un piano finanziario coerente. Dopo la comunicazione di avvenuta presa d’atto da parte del dipartimento, le regioni trasmettono al dipartimento stesso, non appena adottati, copia dei provvedimenti di programmazione delle risorse. In più si prevede l’obbligo da parte delle regioni di trasmettere una relazione di monitoraggio a cadenza semestrale. Rispetto alla questione dell’entità dei finanziamenti, inoltre, è stata innalzata la quota destinata ai centri antiviolenza e alle case rifugio già esistenti. Dei fondi destinati dall’articolo 5 bis, infatti, il 33% è riservato dalla legge alla creazione di nuovi centri antiviolenza e nuove case rifugio. Il restante 67% era stato suddiviso, nel biennio 2013-14, per il 20% a case rifugio e centri antiviolenza esistenti e per l’80% agli interventi regionali. Con il Dpcm del 2016 è stata del tutto ribaltata la filosofia: ai centri antiviolenza e alle case rifugio è andato il 90%, mentre il 10% è stato destinato agli interventi regionali. Così è avvenuto nel mese di maggio 2017 quando sono stati erogati alle regioni finanziamenti per oltre 18 milioni di euro.
IL PARERE DEI CENTRI ANTIVIOLENZA. L’entità dei finanziamenti stabiliti fino al 2017, tuttavia, è stata insufficiente a parere di molti centri. «I centri – afferma Lella Palladino, neopresidente dell’associazione Di.Re-donne in rete contro la violenza – sono costantemente a rischio chiusura, la situazione per chi è veramente un centro antiviolenza non è cambiata». Va più cauta Gabriella Carnieri Moscatelli, presidente di Telefono Rosa: «I soldi mancano sempre, ma credo che dal niente arrivare ad avere tutti gli anni dei finanziamenti sia positivo. Bisogna poi considerare che la lotta alla violenza non è iniziata da molti anni. Per fare le cose bene ci vogliono tempo e soldi. È evidente che le risorse per i centri non siano sufficienti, ma l’auspicio è che si arrivi ad avere maggiori finanziamenti e migliori criteri di utilizzo dei fondi».
I FINANZIAMENTI E IL PIANO DEL GOVERNO PER LA LOTTA ALLA VIOLENZA. Il nuovo Piano 2017-2020 messo a punto dal governo mette subito in luce l’importanza dei cosiddetti servizi specializzati (soprattutto centri antiviolenza e case rifugio) che costituiscono lo snodo centrale della rete territoriale. Da un lato, i soggetti pubblici garantiranno la disponibilità di risorse adeguate per il supporto alle strutture specializzate; dall’altro, queste dovranno essere correttamente identificate attraverso una mappatura per verificarne la qualità nell’interesse delle donne che vi trovano accoglienza. Quanto ai finanziamenti, «un punto di snodo – fanno notare al dipartimento per le Pari opportunità – sarà rappresentato proprio dal nuovo Piano strategico nazionale: avrà durata triennale (un anno in più rispetto ai precedenti) e punterà a superare la logica della straordinarietà. I fondi saranno stanziati sulla base di una programmazione più strutturata e condivisa, per garantire una maggiore continuità nei finanziamenti ai centri». (Tratto dall’ebook #HoDettoNo, come fermare la violenza contro le donne, scaricabile gratuitamente dal sito del Sole 24 Ore)
Truffava le donne vittime di violenza, arrestata la presidente di una onlus emiliana. Elsa Corsini giovedì 12 settembre 2019 su Il Secolo d'Italia. Un’altra brutta storia emiliana. I carabinieri di Riccione hanno arrestato (ai domiciliari) l’ex presidente dell’associazione onlus Butterfly di Cattolica, nel Riminese. L’inchiesta sulla onlus, ora chiusa, è scattata in seguito alla denuncia effettuata da una vittima, che ha raccontato di aver subito da parte della donna a guida della onlus un’estorsione di denaro per presunte “prestazioni extra”, tra cui attività investigative private. L’associazione, che si occupa di donne abusate, nel 2017 ha gestito un centro antiviolenza in Romagna, dopo aver vinto un bando di gara pubblico. La donna, 35 anni, è accusata di truffa, estorsione e malversazione: secondo quanto emerso dalle indagini, infatti, intascava i soldi erogati dalle amministrazioni locali e dalla Regione come rimborsi o finanziamenti per progetti di aiuto sociale e psicologico per minori. La donna si sarebbe anche proposta come investigatore privato. Le sue vittime principalmente sono donne abusate sessualmente o maltrattate con figli minori. L’ente senza scopo di lucro era già stato chiuso nel gennaio del 2018: in due anni di indagini i carabinieri hanno scoperto che la donna, in qualità di presidente dell’associazione, si sarebbe improvvisata anche psicologa o investigatrice, proponendo questi e altri servizi a pagamento a donne vittime di abusi familiari che si rivolgevano alla onlus, in molti casi, con limitate possibilità economiche e figli minorenni. La onlus è formalmente impegnata nel settore della tutela delle vittime di violenza di genere e di stalking. Il provvedimento è stato eseguito al termine di un’indagine coordinata dal sostituto procuratore Davide Ercolani. Imbarazzato il commento della Regione Emilia Romagna. «La premessa è d’obbligo, ed è che le accuse dovranno essere confermate. E questo vale sempre, per tutti», dice Emma Petitti, assessore alle Pari opportunità della Regione, «ma sapere che ci potrebbe essere stato chi, anziché difendere donne vittime di violenza, come avrebbe dovuto fare, potrebbe aver invece commesso reati che vanno dalla truffa, alle minacce, all’estorsione nei confronti di chi avrebbe dovuto difendere, è cosa assolutamente grave. Peraltro, percependo fondi pubblici per farlo. Se tutto ciò dovesse trovare fondamento, saremo durissimi e determinati a difendere, in ogni sede, il diritto delle donne a essere aiutate in circostanze per loro difficilissime, non lasciando alcuno spazio a chi volesse tentare di approfittare, in qualche modo, della situazione». La Regione Emilia-Romagna – prosegue l’assessore – è particolarmente impegnata sul tema violenza alle donne, un tema che drammaticamente continua ad essere di tragica attualità. «Se una cosa è certa – conclude Petitti – è che in Emilia-Romagna c’è una vera rete di Centri antiviolenza, fatta di persone competenti e responsabili, che ogni giorno, con il loro lavoro, ci dimostrano che la battaglia contro la violenza alle donne si può vincere».
I centri e i servizi antiviolenza in italia: quanti sono e come funzionano secondo l'indagine Istat-Cnr. Cnr.it 10/07/2019.
Centri antiviolenza anno 2017. Sono complessivamente 338 i centri e i servizi specializzati nel sostegno alle donne vittime di violenza, ai quali si sono rivolte almeno una volta in un anno 54.706 donne; di queste il 59,6% ha poi iniziato un percorso di uscita dalla violenza. È la fotografia scattata da Istat e Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (Irpps) del Cnr, sulla base di accordi con il Dipartimento per le Pari Opportunità, per monitorare nel tempo le prestazioni e i servizi offerti alle vittime, con l’obiettivo di migliorare la copertura territoriale e la competenza del personale. I risultati dell’indagine, che rientra tra le azioni previste dal Piano Strategico nazionale sulla violenza maschile contro le donne, si riferiscono al 2017. Sul totale di 338 centri e servizi antiviolenza monitorati, 253 sono quelli che sono riconosciuti dalle regioni e segnalati al Dipartimento per le pari opportunità come finanziabili in quanto aderiscono all’intesa Stato-Regioni sottoscritta nel 2014, mentre i restanti 85 non vi aderiscono.
La distribuzione regionale. In Italia, dunque, esistono 1,2 centri/servizi per ogni 100mila donne con 14 anni e più. Il dato medio è uniforme tra Nord e Centro, ed è più elevato nel Mezzogiorno dove i centri/servizi antiviolenza risultano 1,5 per 100.000 donne residenti.
Superano la media italiana le Regioni Abruzzo con 2,3 centri/servizi per 100 mila donne, la Provincia autonoma di Bolzano con 2,3, il Molise con 2,1 e la Campania con 2,0. In Sicilia, Basilicata e Lazio il numero dei centri/servizi è invece di poco inferiore a 1 per 100 mila donne. In media sono presenti circa 16 centri/servizi in ogni Regione/Provincia autonoma. In numeri assoluti, Campania (51) e Lombardia (47) accolgono quasi il 30% dei centri/servizi antiviolenza presenti in Italia.
Le prestazioni e i servizi offerti. I centri antiviolenza si fanno carico delle vittime insieme ai servizi del territorio e alla rete territoriale. I risultati delle rilevazioni sulle prestazioni fornite dalle 338 strutture oggetto dell’indagine hanno fatto emergere:
- un’ottima offerta di alcune prestazioni fondamentali, quali ‘colloquio di accoglienza, orientamento e accompagnamento ad altri servizi presenti sul territorio’, ‘consulenza psicologica’, ‘consulenza legale’, che sono presenti e offerte in più del 90% dei centri/servizi antiviolenza;
- una buona offerta della prestazione ‘accompagnamento all’inserimento lavorativo/autonomia lavorativa’ (83,4%), soprattutto tra i servizi rilevati non aderenti all’intesa Stato-Regioni (96,5%), e della ‘disponibilità di alloggi sicuri come Case rifugio a indirizzo segreto e di primo livello’, quindi della salvaguardia della sicurezza della donna che si rivolge ai centri/servizi specializzati (82%), soprattutto tra i centri antiviolenza aderenti all’intesa Stato-Regioni (85,7%);
- una discreta diffusione di centri/servizi specializzati che effettuano la valutazione del rischio (77,5%), dato che risulta inferiore per i Centri non aderenti all’intesa tra Stato e Regioni (63,5%);
- una discreta presenza (73,4%) di servizi specializzati che effettuano l’accompagnamento all'autonomia abitativa, prestazione meno diffusa tra i centri antiviolenza aderenti all’intesa Stato-Regioni (65,6%);
- un’area problematica nell’accoglienza in emergenza (o al pronto intervento) offerta dal 63,6% dei centri/servizi specializzati presenti sul territorio italiano, caratterizzata da una rilevante eterogeneità territoriale, dovuta alla minore presenza di centri/servizi antiviolenza che offrono questo supporto nel Centro Italia rispetto al Nord e al Sud;
-un’area problematica nell’offerta di prestazioni rivolte a minori e a donne migranti in cui i centri/servizi specializzati che forniscono prestazioni rivolte a questo target di destinatari/e si attestano tra il 60% e il 65%. Le attività di supporto ai/alle figli/e minorenni vittime di violenza assistita risultano meno diffuse tra i centri antiviolenza aderenti all’intesa Stato-Regioni (50%), cosi come quelle di sostegno alla genitorialità (62,5%) e di mediazione linguistica-culturale (49%).
Le vittime e il percorso di uscita dalla violenza. Le donne che nel corso del 2017 hanno contattato almeno una volta un centro/servizio antiviolenza sono state in Italia complessivamente 54.706, in media 172 per ciascun centro/servizio. Nelle Regioni del Centro Italia si osserva un più elevato numero medio di donne che hanno contattato le strutture. 32.632 (59,6%) sono le donne che, sempre nel 2017, hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza, in media 103 per ogni centro/servizio sui 316 che hanno risposto al questionario. Le strutture del Nord hanno accolto, in media, 143 donne, quasi il doppio di quelli al Sud (58). Le donne che hanno iniziato per la prima volta, nel 2017, il percorso di uscita dalla violenza sono state 23.999, in media 76 a centro/servizio, con un’affluenza più elevata nei centri/servizi localizzati al Nord (107); molto più basso il numero medio (42) delle donne che hanno avuto accesso per la prima volta ai centri/servizi del Sud. Le donne straniere che hanno iniziato un percorso di uscita dalla violenza sono risultate in totale 8.711, 28 in media nazionale per ogni servizio o centro antiviolenza. I centri aderenti ai requisiti dell’intesa Stato-Regioni hanno registrato una media di 31 straniere per centro/servizio antiviolenza, mentre i centri non aderenti all’intesa ne hanno conteggiate 15.
L’accessibilità e il lavoro in rete. Le caratteristiche strutturali e organizzative dei centri/servizi antiviolenza devono esser tali da garantire un efficace supporto e un’adeguata protezione alle donne che subiscono violenza e ai loro figlie/i, secondo quanto previsto dalla Convenzione di Istanbul. Dall’analisi dei dati per l’anno 2017 risulta:
- una buona diponibilità all’offerta: la maggioranza assoluta dei centri/servizi rimane aperto più di 5 giorni a settimana. Si tratta di 280 centri/servizi, pari all’82,8% del totale, con una maggiore presenza di centri/servizi con aperture oltre i 5 giorni nel Nord e tra i centri aderenti all’intesa Stato-Regioni;
- una non completa copertura della rintracciabilità telefonica: la reperibilità 24 ore su 24 è garantita da 231 centri, pari al 68,3%. I centri/servizi che la offrono sono prevalentemente al Sud (122, in valore assoluto), mentre al Centro e al Nord si ritrovano in misura minore. Esistono tuttavia altri strumenti di reperibilità: molte strutture antiviolenza si sono dotate di un numero verde e della segreteria telefonica;
- la positiva sinergia del sistema di aiuto: la grande maggioranza (88,5%) dei centri/servizi antiviolenza aderisce al numero di pubblica utilità 1522, soprattutto nel Nord e in misura significativamente maggiore tra i centri accreditati dalle Regioni;
- il consolidamento dell’approccio di rete come metodologia di lavoro: il 77,2%, dei centri/servizi fa parte di una Rete Territoriale Sono soprattutto i centri del Nord quelli che perseguono questo approccio, meno diffuso al Sud. Le strutture non riconosciute dalle Regioni risultano significativamente meno integrate nelle reti territoriali antiviolenza;
-l’anonimato e la privacy delle donne che si rivolgono ai Centri sono assicurati dalla presenza di più dell’80% di centri/servizi con operatrici che condividono un codice deontologico su riservatezza, segreto professionale e anonimato, in modo omogeneo tra le ripartizioni.
I finanziamenti. Nel 2017 oltre i tre quarti dei centri/servizi antiviolenza hanno ricevuto un finanziamento pubblico: sono 255 nel complesso, pari al 75,4%. Solo 58 Centri/servizi antiviolenza (17,2%) in tutto hanno ricevuto finanziamenti privati. Una rappresentanza del tutto marginale i 6 centri/servizi antiviolenza (1,8%) che hanno ricevuto nel 2017 finanziamenti per progetti specifici da parte della UE.
Violenza contro le donne: il nodo dei fondi è ancora da sciogliere. Simona Rossitto il 14 Novembre 2019 su Il Sole 24 Ore. Fondi pubblici per i centri anti violenza e case rifugio ancora insufficienti, riparto per il 2019 al palo, distribuzione delle risorse ancora a pioggia senza distinguere tra le varie realtà che esistono. A due anni dall’approvazione del primo piano nazionale anti violenza, e a pochi giorni dal 25 novembre, quando si celebra la Giornata internazionale contro la violenza maschile sulle donne, centri e associazioni impegnate nella lotta alla violenza di genere chiedono maggiori fondi e soprattutto maggiore attenzione nel passaggio delle risorse dalle Regioni ai Comuni. E cercando le cause di un sistema che ancora non funziona, puntano il dito sui continui cambi di esecutivo. Intanto Il 12 novembre l’aula della Camera ha approvato le mozioni della maggioranza e di Forza Italia che impegnano, tra l’altro, il governo anche sulla distribuzione dei finanziamenti. E la neoministra per le Pari opportunità, Elena Bonetti, ha di recente assicurato la ripartizione celere dei 30 milioni previsti per il 2019.
La ministra Bonetti: i soldi per il 2019 ci sono, puntiamo ad accelerare l’iter. “Il tema dell’effettivo utilizzo delle risorse esiste e mi è stato rappresentato – spiega la ministra ad Alley Oop – Il Sole 24 Ore – anche dalle associazioni. Tanto è vero che nel corso della riunione della cabina di regia nazionale anti violenza, lo scorso 30 ottobre, abbiamo convenuto sulla necessità di potenziare il monitoraggio sull’utilizzo delle risorse, sia a livello centrale, sia supportando le Regioni. Immaginando, per esempio, l’attivazione di un tavolo di monitoraggio per ciascuna Regione, al quale parteciperà anche il dipartimento per le Pari opportunità”. Quanto ai fondi per il 2019, assicura Bonetti, “i soldi ci sono” e “gli uffici stanno lavorando in queste ore al decreto per la ripartizione dei 30 milioni di euro che contiamo di sottoporre alla conferenza Stato Regioni entro la fine del mese. Una volta firmato il decreto, cosa che avverrà immediatamente dopo la conferenza, puntiamo anche ad accelerare la tempistica del consueto iter di distribuzione delle risorse”. Ma occorre fare un passo indietro, a due anni fa, per comprendere quanto la questione dei fondi e del loro utilizzo sia centrale per affrontare il tema della violenza di genere in maniera sistematica e strutturale. 17 novembre 2017: il dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio vara, qualche giorno prima della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne che si celebra il 25 novembre, il piano strategico nazionale. Il primo impianto strutturale che, in attuazione dei principi della Convenzione di Istanbul, prevede un intervento a 360 gradi e si basa su tre pilastri principali: la prevenzione, che punta molto su formazione e istruzione, la protezione delle donne, la punizione dei colpevoli. Il piano contempla anche l’azione congiunta di Istat e Cnr per effettuare un monitoraggio, anche qualitativo, dei centri anti violenza esistenti con l’obiettivo di individuare le strutture che hanno i requisiti e quindi ripartire le risorse in maniera più efficace, dopo le criticità rilevate dalla Corte dei Conti.
Novembre 2019: due anni dopo il varo del piano, i centri anti violenza continuano a denunciare le stesse criticità individuate già in passato riguardo alla ripartizione delle risorse. Risorse che ai centri non arrivano o che arrivano alle strutture che non hanno i requisiti, centri che conseguentemente chiudono, Regioni poco virtuose, risorse che si bloccano quando arrivano nei Comuni. Al piano nazionale è seguito a luglio scorso il piano di azione firmato dal sottosegretario Vincenzo Spadafora con la finalità di attuare concretamente le misure previste, ma anche quest’ultimo, col cambio dell’esecutivo, ha subito battute d’arresto. “Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi” , diceva Tancredi ne’ Il Gattopardo, e purtroppo c’è un fondo di verità in queste parole anche nella gestione della lotta alla violenza sulle donne. Tra le criticità principali non aiuta, com’è intuibile, il continuo cambio di esecutivo, come rileva Lella Palladino, presidente dell’associazione D.i.Re-Donne in rete contro la violenza. “Il piano operativo che porta la firma del mio predecessore – dichiara la ministra Bonetti – e che definisce le modalità di utilizzo delle risorse stanziate nel 2019, è stato varato alla fine del mese di luglio. Appena mi sono insediata ho voluto confrontarmi con le associazioni, con le parti sociali e con i colleghi della cabina di regia proprio per capire come evitare ulteriori ritardi. A breve, nel corso della prossima riunione della cabina di regia, stabiliremo se vi siano correttivi da apportare. Ciò che mi preme sottolineare è che non vi è alcun intento demolitorio del piano che, anzi, puntiamo ad arricchimenti e integrazioni anche attraverso interventi e risorse nel 2020. E’ vero che i passaggi di testimone possono creare rallentamenti in tutte le amministrazioni, ma la violenza contro le donne non consente inerzie e, anzi, ci impone un’azione sinergia. Anche per questo motivo il piano operativo che ho trovato non sarà stravolto ma attuato. Con l’impegno di volgere lo sguardo e lavorare sin da ora alla strategia programmatica anti violenza del triennio 2021-23”.
I numeri dei fondi stanziati dal 2017 ad oggi, in aumento ma ci sono ritardi. Ma guardiamo ai numeri. I fondi pubblici per i centri (che sono distribuiti attraverso le Regioni) sono saliti dai 12 milioni del 2017, che che divisi per il numero di donne prese in carico secondo calcoli di D.i.re danno 76 centesimi per vittima, ai 20 milioni del 2018 ai 30 milioni, confermati anche dalla ministra Bonetti, del 2019. In genere, per le politiche anti violenza, compresi dunque anche i fondi per i centri anti violenza, nel 2015-16 sono stati stanziati 39 milioni, nel 2017 21,6 milioni, nel 2018 35,4 milioni, nel 2019 37 milioni. Nel contesto generale, dunque, per l’anno in corso le risorse destinate i centri sono aumentate parecchio rispetto al 2018 (+50%). Nonostante il nuovo governo abbia dimostrato la volontà di ascoltare le esigenze delle associazioni e si stia cominciando a muovere per il riparto dei fondi del 2019, tuttavia a inizio novembre si registra già un ritardo di 10 mesi. A cui, come ha denunciato Valeria Valente, senatrice del Pd e presidente della Commissione d’inchiesta sui femminicidi, si dovrà sommare “quello medio di altri 8 o 9 delle Regioni per la procedura di effettiva assegnazione”.
La voce dei centri anti violenza. Il punto è che i centri anti violenza lamentano ancora: la distribuzione a pioggia dei fondi (nonostante ci siano stati i primi risultati del censimento del Cnr sui centri) e i troppi passaggi per assegnare i fondi, in particolare il passaggio da alcune Regioni ai Comuni, dove spesso si bloccano e non vengono distribuiti. Denuncia Lella Palladino, presidente di D.i.Re-donne in rete contro la violenza che raccoglie sotto lo stesso ombrello 80 centri: “C’è una grossa disomogeneità nella distribuzione delle risorse nel Paese. In alcune Regioni ci sono esempi virtuosi, i soldi della legge 119 vanno direttamente ai centri che hanno i requisiti. In altre Regioni ci sono gravi criticità. Pensiamo alla Campania, la Calabria, la Sicilia”. Il punto dove il meccanismo si inceppa è proprio il passaggio delle risorse attraverso i Comuni. Alcune Regioni vigilano con attenzione, come ad esempio la Puglia, unico esempio virtuoso al Sud, ma altre sono deficitarie in tal senso”. Per risolvere il problema, secondo Palladino, occorre “distinguere i veri centri anti violenza dalle realtà che non ne hanno i requisiti. Spesso infatti si danno risorse a questi ultimi che non riescono a prendersi cura delle donne”. Tutto ciò avviene nonostante il censimento del Cnr che “ha scattato una fotografia dell’esistente, ma quello che c’è nei territori non sempre è di qualità. La prima parte del censimento è stata fatta, ora bisogna decidere come utilizzare questa conoscenza”. E infine l’appello: “Chiedo – dice Palladino – di fare distinzione tra i centri anti violenza e l’offerta multiforme che c’è su tutti i territori. Stanno chiudendo tanti centri storici, mentre nuovi centri lavorano. Due: bisogna evitare i tanti passaggi delle risorse eliminando quello dalle Regioni ai Comuni. Altrimenti i tempi di attesa ci strozzano”. “”Il problema – afferma Simona Lanzoni, vice presidente di Pangea Onlus – è di lungo periodo, siamo solo al terzo piano d’azione nazionale, e siamo di fronte a una questione strutturale di gestione dei finanziamenti indipendente dal nuovo ministero delle Pari opportunità insediato da poco. Ovvero la vera questione è quella del coordinamento tra il dipartimento per le Pari opportunità e le Regioni, tra le Regioni e i Comuni. E’ lì il nodo che si deve sciogliere: bisogna cioè agire sulla governance territoriale delle risorse e sul monitoraggio delle stesse. Non possiamo aspettare che sia la Corte dei Conti a fare chiarezza. Sarebbe auspicabile che il nuovo governo, oltre a provvedere al riparto urgente delle risorse per il 2019, riesca a mettere a sistema la distribuzione dei finanziamenti.”
Carfagna: “I ritardi nell’erogazione dei fondi mettono in pericolo le donne”. Di recente si è registrata l’approvazione dell’Aula della Camera alle mozioni di maggioranza e di Fi sulle iniziative di prevenzione e contrasto di ogni forma di violenza contro le donne. Il governo è quindi impegnato, tra l’altro, “ad assumere iniziative al fine di rivedere ed adeguare i meccanismi di finanziamento statali, garantendo su tutto il territorio nazionale una presenza delle case rifugio sufficiente in linea con i parametri internazionali, privilegiando quelle che possono con sicurezza garantire la qualità dei servizi e la loro competenza di genere e sui diritti umani, oltre alla qualità professionale”. Su questa problematica, dichiara la vicepresidente della Camera, Mara Carfagna (Fi) ad Alley Oop, il problema è che “ogni Regione lancia dei bandi per distribuire i finanziamenti ma sono aperti a chiunque e, talvolta, le istituzioni non verificano la documentazione, oppure si accontentano dell’autocertificazione. Soprattutto, al di là dei singoli casi, è importante che i fondi previsti dalla legge 119 del 2013 che vanno obbligatoriamente distribuiti ai centri non siano versati in ritardo, perché il ritardo generale in tutte le fasi di programmazione, sia di stanziamento sia di erogazione delle risorse, ha gravi ripercussioni sull’attività dei centri anti violenza e delle case rifugio, e mette a rischio la possibilità delle donne di accedere ai servizi necessari per salvarsi la vita e liberarsi da maltrattamenti e violenza”. L’impegno dell’esecutivo e delle forze politiche, e questo lo riconoscono anche le associazioni c’è, ora è il momento che dagli enunciati si passi all’azione concreta per registrare un reale cambio di passo.
Il consigliere della Lega: «Violenze sulle donne? Il 90% sono false». Pubblicato martedì, 26 novembre 2019 da Corriere.it. Dopo essersi fatto notare per aver «sfidato» il movimento delle «Sardine», in piazza Maggiore a Bologna, vestito da pinguino mangia-pesciolini, il consigliere comunale della Lega a Casalecchio di Reno, Umberto La Morgia, si è di nuovo piazzato sotto i riflettori delle polemiche. Nella giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, La Morgia ha scritto su Facebook che «il 90% delle denunce di violenza di uomini su donne sono false e vengono archiviate intasando procure e tribunali. Ma questo non fa notizia». Un'affermazione che ha scatenato sonore critiche sul social, incluso qualche richiamo a fare attenzione a quello che esterna, in quanto personaggio pubblico con responsabilità politiche. E ha attirato anche la reazione del Pd: «Parole inaccettabili, una follia», secondo la segretaria cittadina dei dem Alice Morotti, che pure è consigliere comunale, sempre a Casalecchio di Reno -. Questi dati non so da dove siano presi. La Morgia rappresenta una situazione molto diversa dalla realtà. Questo è molto grave». Poche ore prima era stata una donna, Giorgia Furlanetto, consigliere comunale (Fdi) di Adria, ad affermare che «il 50% delle denunce per violenza presentate da molte donne alle forze dell’ordine sono false». Numerose, anche in questo caso, le reazioni di indignazione. «Dovrebbe vergognarsi», la reazione della deputata Lucia Annibali, capogruppo in commissione Giustizia. «Affermare che il 90% delle denunce di violenza sono false non solo è una menzogna, ma implica la negazione di un dramma vissuto ancora da troppe donne. Semmai il problema è che sono ancora poche le denunce rispetto al numero di violenze subite». «Anche quando viene richiesta un'archiviazione o viene assolto l'imputato, non si può dire che le denunce siano strumentali - ha detto ancora Annibali -. In molti casi è mancata la possibilità di dare la prova del fatto o la donna è stata indotta a mitigare le affermazioni, anche per la solita idea di non mandare in carcere il padre dei suoi figli». Dalle parole di La Morgia si è dissociata la Lega Emilia: «Il consigliere La Morgia parla evidentemente a titolo personale con affermazioni da cui ci dissociamo», ha detto il segretario, Gianluigi Vinci. Un «negazionismo» che stride in particolare nel momento in cui i dati Onu confermano che una donna su tre nel mondo è stata in qualche modo vittima di violenza. Con l'Istat che diffonde un sondaggio drammatico, secondo cui più di una persona ogni quattro pensa che le donne possano provocare violenza sessuale con il loro modo di vestire. «La violenza non ha sesso. Se vogliamo veramente parlare di pari opportunità, vorrei far presente - ha scritto ancora La Morgia - che esiste anche la violenza delle donne sugli uomini, purtroppo ancora poco riconosciuta, poco condannata e poco dibattuta. Violenza non solo fisica, ma che si manifesta anche attraverso l’alienazione parentale, la distruzione del rapporto padre-figlio da parte della madre, e le migliaia di false denunce che le donne usano per avvantaggiarsi sull’uomo in sede di separazione civile, il quale spesso viene ridotto al lastrico». Di «dato falso» e «affermazione profondamente offensiva e irrispettosa» per le tantissime donne che hanno denunciato e per le tante che ancora non hanno trovato il coraggio di farlo, parla la senatrice del Pd Valeria Valente, presidente della commissione d'inchiesta sul femminicidio. Che sottolinea come le parole di La Morgia assumano un peso e una gravità maggiore, visto che sono state pronunciate «da chi è chiamato a rappresentare le nostre istituzioni tutti i giorni».
“Violenze? Troppe false denunce”. Attacco alla sinistra: “Strumentalizza una tragedia”. Barbierato: “Prevenzione insufficiente”. Polesine24 il 23/11/2019. Il femminicidio e più in generale la violenza sulle donne è un dramma sociale che va combattuto sul piano della prevenzione con l’educazione, ma anche con la repressione con condanne certe e adeguate. Ma non solo. Tuttavia “la violenza sulle donne sta diventando sempre più una bandiera della sinistra per strumentalizzazioni a fini politici, per demolire la famiglia e portare avanti una rivoluzione antropologica con l’annullamento delle differenze tra maschio e femmina”. E’ quanto emerso dal convegno promosso da Fratelli d’Italia sotto il titolo “Violenza sulle donne: stop!” che ha visto alternarsi leader del partito e autorevoli studiosi di diritto, il tutto per anticipare la ricorrenza della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne in programma domani. In apertura dell’incontro il saluto del sindaco Omar Barbierato ha rilevato “che i tanti strumenti di prevenzione messi in campo finora hanno dimostrato che non sono sufficienti”. Quindi ha annunciato che “l’Ulss 5 sta avviando un progetto pilota sugli uomini per cercare di capire se e come certe reazioni possano essere comprese e interpretate prima che sfocino nella violenza”. A mettere subito l’incontro sul binario controcorrente è stata Giorgia Furlanetto, capogruppo Fdi a palazzo Tassoni, affermando con decisione che “per parlare seriamente di femminicidio bisogna affrontarlo a tutto campo, considerando anche i tanti casi, oltre il 50%, di false denunce di violenze da parte delle donne”.
Senato della Repubblica. Allegato A. False accuse: un fenomeno emergente, evidenziato da fonti autorevoli.
Gli studi sulle problematiche della separazione denunciano, da circa 16 anni, un uso strumentale della carta bollata: l’utilizzo della denuncia per violenza di varia natura, pianificata per raggiungere obiettivi diversi da quelli dichiarati. Può essere un’arma di ricatto per ottenere vantaggi economici, uno strumento per allontanare il “nemico” dai figli con accuse costruite ad arte, una rivalsa per il piacere di vedere l’ex in rovina. Quale che sia lo scopo occulto, è ben lontano dall’essere una reale tutela per l’incolumità di chi denuncia. Anche se non esiste una concreta situazione di rischio, è utile costruirla: garantisce risultati certi, da 30 anni, invariabilmente. Gli approfondimenti sulle false accuse in ambito separativo dicono che il soggetto abusante, nella maggior parte dei casi, non esiste affatto. Oggi, dopo lunghi anni di silenzio, il fenomeno ha ormai raggiunto proporzioni talmente macroscopiche da non essere più sottovalutabili; sul riconoscimento dell’emergenza convergono operatori di diverse aree coinvolte: Polizia, Magistratura, Avvocatura, Neuropsichiatria, Psicologia, Criminologia. Una doverosa precisazione: nessuno ha intenzione di sottovalutare la gravità delle ignobili violenze fisiche e sessuali delle quali sono vittime le donne. Quando sono vere. Chi invece le inventa e le utilizza in tribunale per scopi diversi da quelli dichiarati, non nuoce solo ai figli e all’ex coniuge: la falsa denuncia insulta in primis chi una violenza l’ha subita davvero. Mille vittime di stupri e/o percosse non possono essere messe sullo stesso piano della persona che si morde le labbra e corre in ospedale a denunciare l’ignaro ed incolpevole ex partner. Magari con l’avallo di avvocati e servizi sociali conniventi, che hanno costruito un muro di indifferenza sul dramma sociale delle false accuse. Il muro di indifferenza si sta incrinando, per rispetto delle vittime innocenti - adulti e minori coinvolti senza motivo - ma anche delle donne che una violenza l’hanno subita davvero.
Estratti «I maltrattamenti in famiglia stanno diventando un'arma di ritorsione per i contenziosi civili durante le separazioni...», «...è appurato che le versioni fornite dalle presunte vittime sono gonfiate ad arte. Solo in 2 casi su 10 si tratta di maltrattamenti veri, il resto sono querele enfatizzate e usate come ricatto nei confronti dei mariti durante la separazione...». «una tiratina d’orecchi ai centri antiviolenza, che istigano a denunciare senza fare la dovuta azione di filtro, ma poi si disinteressano di come va a finire...». Carmen Pugliese, Sostituto Procuratore c/o Trib. di Bergamo - inaugurazione anno giudiziario 2009, previa autorizzazione del Proc.Gen Addano Galizi, 29/1/2009
«Sempre più spesso si ricorre alla querela del coniuge o del convivente per risolvere a proprio favore i contenziosi civili per l’affidamento dei figli o per l’assegno di mantenimento...». Barbara Bresci, Sostituto Procuratore c/o Trib. di Sanremo – Il Secolo XIX, 25/11/2009
«Onestà intellettuale vuole che (...) si parli anche dei casi di “false” violenze o meglio di “false” denunce di violenza subita...».., «Inutile dire che per l’esperienza fatta le false denunce provengono quasi nella totalità da donne, spesso madri che in tal modo tentano di allontanare gli ex mariti dai figli...». Jacqueline Monica Magi, Sostituto Procuratore c/o Trib. di Pistoia – il Sole 24 Ore, 25/10/2009
«L’accusa di violenza sessuale è il modo più facile per estromettere il padre dalla vita dei figli. La donna non solo si libera del partner come coniuge ma anche come padre, facendolo uscire definitivamente dalla sua vita....», «La legge attuale non garantisce né il padre, né il minore. Per quanto riguarda il bambino (...) quando si rivela la falsa accusa, che di solito è fatta su istigazione della madre, la situazione si rivolta proprio contro di lui...». Maria Carolina Palma, CTU c/o Trib. di Palermo – Avvenire, 13/4/2009
"Uno dei miti diffusi nella nostra società è che la violenza domestica è qualcosa che gli uomini fanno alle donne [...] Le donne istigano la maggior parte delle violenze in ambiente domestico e costruiscono false accuse”". Rossana Alfieri, pedagogista clinica
“Tematiche spesso ignorate e sottaciute....il concetto di violenza di genere viene inteso come indissolubilmente legato alla vittima femminile, ma la realtà è diversa… …A fronte della violenza cieca, diretta dell’uomo, esiste una violenza subdola, fredda, vendicativa, tipica della donna…L’utilizzo emergente delle false accuse in caso di separazione è solo uno degli aspetti…. Chiara Camerani – docente di Criminologia, Università de L'Aquila
“Se ci sono i minori in ballo, si mettono in atto dinamiche crudeli: le donne costruiscono false denunce di maltrattamenti o molestie sui figli a scapito del coniuge, per togliere a quest'ultimo la patria potestà” Cristina Nicolini – avvocato matrimonialista
“credo che la tendenza stia crescendo: questo è sintomo di un disagio della mancanza di un punto d'ascolto. [...] Ad adottare questi sotterfugi sono sempre le donne: se la separazione è in corso, non ci sono strumenti prima dell'udienza per allontanare uno dei due genitori da casa. L'ordine di allontanamento giunge solo in caso di violenza fisica, ed ecco perché arrivano le denunce verso i mariti, per la maggior parte dei casi inventate” Clara Cirillo – Presidente AGI (Associazione Giuristi Italiani) 4 feb 2010
“…le false accuse di maltrattamenti, percosse, abusi sessuali e violenze di vario genere su donne adulte e figli minori - le querele costruite al solo scopo di eliminare l’ex marito dalla vita dei figli - oscillano nelle procure italiane da un minimo del 70 ad un massimo del 95%…” Sara Pezzuolo, Psicologa giuridica – Convegno ANFI (Associazione Nazionale Familiaristi Italiani) Firenze, 29 aprile 2010
“…il “vizietto” nostrano di approfittare della legge, quando c’è, proprio non vuole morire. E, spesso si configura un reato, legato al mero interesse (economico) della presunta vittima di molestie. Non è un caso che spesso si ricorra alla querela del coniuge o del convivente per risolvere a proprio favore i contenziosi civili per l’affidamento dei figli o per l’assegno di mantenimento”. Valentina Noseda – giornalista, consulente RAI
“…una ricerca pubblicata dal Prof. Giovanni Camerini della Cattedra di NPI a Modena, relativa ad una casistica di 60 denunce di abuso sessuale all'interno di separazioni conflittuali, porta ai seguenti risultati: 3 casi di condanna, i rimanenti 57 esitati in archiviazione, proscioglimento in istruttoria o assoluzione perché il fatto non sussiste. Sarebbe utile indagare sulle conseguenze, non solo per gli adulti ma per gli stessi bambini, di questi coinvolgimenti in denunce infondate. Occorre più ricerca sull’uso strumentale delle denuncie di abusi, oltre ad un’inchiesta sul modus operandi dei centri.che le favoriscono…” Benedetta Priscitelli, neuropsichiatria infantile, Modena
«… false denunce generate nel contesto delle controversie legali della separazione. È quest’ultimo l’ambito nel quale viene evidenziata la maggiore incidenza (…)in letteratura l’accento è stato posto sulle ripercussioni per il minore abusato che non viene creduto, ma anche nel caso di una falsa denuncia ritenuta fondata il bambino è destinato a subire un trauma.(…) non solo rimane intrappolato nella spirale dell’iter processuale, ma è avviato a percorsi terapeutici per vittime di abuso (…) invasivi e potenzialmente iatrogeni» Jolanda Stevani, Psicologa Forense, CTU c/o Trib. Di Roma – Psicologia Contemporanea, nov. 2010, pp 18-23
"(…) sebbene siano utili in caso di abusi reali e non costruiti, è necessario sollecitare un controllo sui centri antiviolenza (…)…Studiando le numerose vicende giudiziarie dei padri privati ingiustamente del ruolo genitoriale, (ferma restando la necessità della tutela dei minori in caso di abusi e/o disagi acclarati e non solo millantati), da donna e madre, prima ancora che da avvocato, esprimo la mia solidarietà. Sottolineo però l'esigenza, alla luce delle ingerenze economiche (sovvenzioni pubbliche) comuni a tutti i casi che stanno emergendo, di promuovere una raccolta firme da inoltrare alle Autorità competenti al fine di fare emergere la reale dimensione sociale del problema - che sembra essere esteso su tutto il territorio nazionale - e sollecitare un intervento qualificato che miri al controllo sulle gestioni di questi centri antiviolenza, sulle competenze e professionalità coinvolte e, soprattutto, che sfoci in una più attenta normativa sui limiti dei loro poteri di azione. Mi sembra, infatti, che allo stato, non sia garantita una giusta perequazione tra l'esigenza di tutela dei minori in presunto stato di disagio ed il diritto del genitore privato del suo ruolo di contestare legittimamente i provvedimenti, troppo spesso assunti inaudita altera parte”. Daniela Piccione – Avvocato, Delegato Regionale Sicilia Familiaristi Italiani, 31 10 2009
Dall’ipotesi di abuso all’abuso di ipotesi Diritti Riservati – nessuna parte della pubblicazione può essere tradotta, riprodotta o pubblicata, tutta o in parte, senza autorizzazione della casa editrice Franco Marasco, Foggia Monica Lupo, 2007 – avvocato, specializzata in abuso sui minori presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università di Modena e Reggio Emilia
L’abuso dell’abuso e del maltrattamento MASTER di II Livello in Scienze Forensi (CRIMINOLOGIA-INVESTIGAZIONE-SECURITY-INTELLIGENCE) Coordinatore Scientifico: Prof. Francesco Bruno Coordinatore Didattico: Avv. Prof. Natale Fusaro Tesi di Master . abstract “…a fronte di una separazione coniugale, sono sempre più frequenti accuse di abusi/maltrattamenti del tutto strumentali, finalizzate ad arrecare forte danno all’ex partner; la letteratura parla persino di “Sindrome da accuse sessuali in divorzio”. In questi casi la rottura passa attraverso la più totale distruttività nei confronti dell’altro, attraverso accuse gravissime che sconvolgono l’esistenza del soggetto minore coinvolto e del genitore ingiustamente accusato. Il fenomeno è in crescita esponenziale soprattutto in assenza di modelli strategici atti ad arginarlo nonostante siano stati stilati protocolli finalizzati ad una corretta valutazione sia della testimonianza del minore, sia del contesto di riferimento. La mia tesi è che si assista comunque alla negazione del diritto al giusto processo nei confronti di indagati e di imputati coinvolti; infatti spesso l’esito è un processo di tipo “verificazionista”: “di abuso si parla e l’abuso si deve trovare”. Chi è chiamato a giudicare viene condizionato da quella che personalmente chiamo “Sindrome di Stoccolma per procura”, secondo la quale, in presenza di prassi devianti, si preferisce evitare un trauma psicologico alle vittime presunte causandone uno altrettante grave che consiste nel ritenere aprioristicamente verosimile l’accusa, emettendo ordini di protezione dalla persona falsamente accusata. Le ideologie sacrificano nel loro nome il diritto alla difesa. Si attribuisce a chi denuncia un credito riconducibile al pregiudizio, sacrificando integralmente il diritto di difesa degli indagati a causa della non riconosciuta necessità di rispettare, specie nella fase iniziale delle indagini, canoni scientifici, linee guida e protocolli riconosciuti a livello nazionale ed internazionale. L’abuso dell’abuso/maltrattamento rappresenta una prassi dalla quale è molto difficile difendersi. Credo che le intenzioni dei magistrati e degli operatori coinvolti nelle valutazioni debbano essere quelle di tutelare il minore affinché non subisca ulteriori e inutili traumi, ma anche di garantire l’adulto che, in questi casi, è stato accusato falsamente di un reato infamante. Inoltre, credo che una ulteriore garanzia debba essere posta nei confronti del legame genitoriale che viene strumentalmente ed ingiustamente reciso per lunghissimo tempo”.. Loretta Ubaldi - Pedagogista Forense, Specializzata in Diritto del Minore, Esperta gestione e risoluzione dei conflitti (ADR), Consulente dei Tribunali di Roma
“(…) molti genitori sono mostruosamente orgogliosi, consapevoli di usare i propri figli per teatrini macabri e nel proprio esclusivo interesse (…) falsi abusi, falsi maltrattamenti, false corruzioni a danno dei figli, per togliere di mezzo l’altro genitore, ritenendolo rottamabile con mezzi disonesti e rapidi (…)” Annamaria Bernardini De Pace - avvocato Divorzi difficili e menzogne - Quei padri-mostri costruiti a tavolino – Il Giornale, 27 giugno 2011
Polizia Moderna – organo ufficiale della Polizia di Stato “(…) si registra una epidemia di denunce nei confronti di ex mariti e padri degeneri accusati, fra l’altro, di maltrattamenti ed abusi sessuali sui loro stessi figli. Alcune di queste accuse sono purtroppo fondate come recenti e terribili fatti di cronaca confermano, ma la maggior parte di esse, spesso le più infamanti, si dimostrano, dopo un iter doloroso e certamente non breve, false o inattendibili. Le denunce “false” costituiscono un’ampia gamma di resoconti non corrispondenti alla verità/realtà dei fatti che vanno dalle dichiarazioni menzognere sostenute dalla precisa volontà e finalità di danneggiare l’ex marito-padre, alle dichiarazioni erronee a causa di una interpretazione distorta (…)” – giugno/luglio 2011 ---------------- Inoltre in alcuni casi emerge un’operazione di lobbyng antimaschile a prescindere dalla fondatezza o meno delle accuse formulate; alcuni centri antiviolenza pubblicizzano apertamente la propensione del proprio pool legale ad aggirare la legge. Sul sito differenzadonna.it, nello spazio “Assistenza Legale” si legge:1 “...le nostre legali intervengono a favore della donna solo nei casi di separazione decisa per violenza agita nei confronti della donna stessa e dei bambini. Professioniste molto motivate, sempre al corrente delle ultime leggi, molto valide nel sottolinearne le novità negative e trovare il modo di aggirarle...” Vale a dire: con l'affido condiviso i figli non sono più proprietà esclusiva di un genitore? E' una novità negativa, quindi urge studiare una strategia per aggirarla. L’unico criterio di esclusione del coniuge è la pericolosità dovuta alla violenza. Ergo: se la violenza c'è si denuncia, se non c'è si trova il modo di costruirla. Le operatrici del Diritto - tutte di genere femminile - testimoniano come tale strategia venga messa in atto in percentuali che oscillano, a seconda delle Procure, tra il 70 ed il 95%.
· Cacciati di Casa.
Marzia Coppola per liberoquotidiano.it il 14 dicembre 2019. Le vacanze invernali sono alle porte ed è tempo che i genitori separati o divorziati si confrontino per decidere con chi dei due i figli debbano trascorrere il Natale e il Capodanno. Mamma e papà sono, così, chiamati a concordare come spartirsi i rispettivi periodi di vacanza, facendo conciliare impegni lavorativi, esigenze logistiche, tradizioni familiari e opinioni personali. A guidare i genitori in questa scelta è il provvedimento di separazione o di divorzio che, infatti, non deve trascurare di prevedere espressamente sia il calendario di visita nel periodo natalizio sia le modalità con le quali debba avvenire l’alternanza tra i genitori. La prassi vuole che i figli trascorrano il Natale o il Capodanno con l’uno o con l’altro genitore ad anni alterni. Al minore viene così garantita la possibilità di sperimentare – o rafforzare – le tradizioni e l’affetto sia della famiglia materna sia di quella paterna. I genitori possono, nel periodo loro spettante, organizzare giornate sugli sci, gite fuori porta, decidere di restare a casa o di cogliere l’occasione per fare un viaggio. In questo ultimo caso, normalmente e salvo diverso accordo, il costo delle vacanze deve essere sostenuto interamente dal genitore con il quale il figlio le trascorre. Questo, naturalmente, non implica una sospensione o una riduzione dell’onere di mantenimento che grava sul genitore tenuto al versamento di un assegno mensile in favore dei figli. Purtroppo, però, quello che sulla carta sembra facile e accessibile a tutti si trasforma spesso in occasione di lite, polemica e contesa. Accade, addirittura, che i genitori, incapaci di mettersi d’accordo perché accecati dalla rivalsa nei confronti dell’altro, chiedano l’intervento del Giudice Tutelare affinché sia lui a decidere quando, con chi e dove i figli debbano trascorrere questo periodo dell’anno. Oppure, scelta che probabilmente a livello di ripercussioni sui minori è ancora più grave, i genitori rimettano ai figli l’onere di decidere con chi trascorrere quei periodi. Risultato: i bambini si trovano davanti a un insormontabile conflitto di lealtà che li porterà, sia che scelgano di stare con il papà sia che scelgano di stare con la mamma, a soffrire la mancanza dell’altro genitore poiché si auto-imputeranno la sua assenza. I più sensibili, poi, vivranno un forte senso di colpa per aver lasciato l’altro genitore “da solo” in un giorno così significativo. Allora proprio la gestione del periodo che, per antonomasia, è sinonimo di serenità può diventare la scena perfetta per mettere in atto una battaglia. Con l’evidente rischio di distruggere, agli occhi dei minori, un momento così magico e sostituirlo con l’ennesima lite tra mamma e papà. L’ennesima scelta davanti alla quale sono posti. L’ennesimo senso di colpa. L’ennesimo dispiacere. L’ennesima dimostrazione di come i bambini, nella loro ingenuità, possano essere più maturi e ragionevoli degli adulti accecati dalla rivalsa. Indubbio, quindi, che buonsenso e collaborazione restano gli ingredienti determinanti (ma purtroppo molto rari) per non rovinare ai bambini il periodo più atteso durante tutto l’anno. Perché la responsabilità genitoriale, da qualunque punto la si guardi, non va mai in vacanza. O almeno non dovrebbe.
Da La Stampa. Fonte: ilfamiliarista.it il 13 ottobre 2019. In caso di allontanamento di uno dei coniugi dalla casa coniugale, spetta al coniuge richiedente l’addebito, provare non solo detto allontanamento, ma anche il nesso causale tra questo comportamento e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza, grava invece sulla controparte la prova della giusta causa. Il caso. L’ex marito ricorreva in Cassazione avverso la sentenza della Corte d’appello di Catania la quale aveva confermato la pronuncia di addebito nei suoi confronti e la previsione a suo carico di un assegno di mantenimento a favore della moglie. La S.C. investita della questione ritiene che la pronuncia di addebito non possa fondarsi solamente sulla violazione dei doveri posti a carico dei coniugi dall’art. 143 c.c., poiché è necessario accertare se tale violazione abbia assunto un’efficacia causale nel determinarsi dalla crisi del rapporto coniugale. Inoltre, l’apprezzamento relativo alla responsabilità di uno o di entrambi i coniugi nel determinarsi dell’intollerabilità della convivenza è riservato al giudice di merito. L’onere della prova. Riguardo l’onere della prova, i giudici osservano che grava sulla parte che richieda l’addebito della separazione all’altro coniuge, per la violazione dell’obbligo coniugale di convivenza, l’onere di provare la relativa condotta e la sua efficacia causale nel rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza, mentre è onere di chi eccepisce l’inefficacia dei fatti posti a fondamento della domanda, provare le circostanze su cui l’eccezione si fonda, vale a dire l’anteriorità della crisi matrimoniale all’accertata violazione. L’onere della prova si connota in maniera specifica e autonoma nel caso di dedotta violazione degli obblighi di coabitazione e al nesso di causalità. La violazione dell’obbligo di convivenza. Nell’ipotesi in cui sia dedotta la violazione dell’obbligo coniugale di convivenza, la prova dell’avvenuto allontanamento dal domicilio coniugale, a cura del coniuge che lo denuncia, basta per integrare la fattispecie di cui all’art. 146, comma 1, c.c. (a meno che colui che si sia allontanato non provi che ciò sia avvenuto per giusta causa).La Corte d’appello ha correttamente ritenuto che il marito abbia violato il dovere coniugale, essendosi il medesimo limitato a sostenere che l’allontanamento era una conseguenza dell’intollerabilità della prosecuzione della convivenza. Quanto al profilo probatorio relativo al nesso di causalità, spetta al richiedente l’addebito per abbandono della casa coniugale provare non solo il fatto storico dell’allontanamento, ma anche la sussistenza di un nesso di causalità tra il dedotto comportamento e l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza. Nessun elemento probatorio idoneo a comprovare la crisi. Nel caso di specie la Corte d’appello ha evidenziato il fatto che il giudizio di separazione, proposto dalla moglie, era stato introdotto due anni dopo l’abbandono del tetto coniugale da parte del marito e che, pertanto, non poteva dirsi integrata la fattispecie disciplinata dall’art. 146 c.c., comma 2 avendo accertato il verificarsi della violazione del dovere di coabitazione e l’assenza di una giusta causa dell’allontanamento, in assenza di elementi idonei a dimostrare l’esistenza di pregresse cause della crisi coniugale.
Il dramma dei padri separati: "Noi, genitori di serie B abbandonati dalle istituzioni". Depressi e sul lastrico: quella dei padri separati è una vera e propria emergenza sociale. In Italia secondo la Caritas su 4 milioni di papà che si separano 800mila finiscono sotto la soglia di povertà. E c'è anche chi compie gesti estremi. Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti, Domenica 01/12/2019 su Il Giornale. “Avevo deciso che mi sarei buttato dal quel ponte, che non sarei tornato indietro, sono salvo soltanto grazie ai carabinieri che passavano di lì per caso”. Il calvario di Michele è iniziato nel momento in cui il suo matrimonio ha cominciato a vacillare. L’insofferenza, le liti e poi la decisione di separarsi. I due figli della coppia restano con la madre. Per Michele, originario di Foggia e trapiantato nell’hinterland bolognese, vederli è sempre più difficile. Arriva la depressione, poi il tentativo di uccidersi e il ricovero in una struttura psichiatrica ad Imola. Ci resta due mesi, nel frattempo perde il lavoro. E così, una volta terminato il percorso di riabilitazione si ritrova in mezzo ad una strada. Deve scegliere, o l’affitto o l'assegno di mantenimento. “Alla fine mi hanno sfrattato e per nove mesi sono stato costretto a vivere in macchina, mangiavo alla Caritas – ci racconta - i miei figli continuavo a vederli un week end sì e uno no e quando mi chiedevano perché non li portavo mai a casa mia dovevo mentirgli continuamente”. Michele ora sta cercando di cambiare vita. Ha trovato una casa e avviato una piccola attività. Fa il falegname e ogni due fine settimana percorre oltre 50 chilometri in auto per andare a prendere i suoi bambini a scuola e passare un po’ di tempo con loro. “Ormai però – ci confessa – mi vedono come un estraneo, non come un papà, e questo fa veramente male”. In Italia i genitori che si trovano nelle sue stesse condizioni sono tantissimi. Secondo l’organismo pastorale della Cei per la carità su 4 milioni di padri separati presenti nel nostro Paese 800mila sarebbero sotto la soglia di povertà. Tra loro c'è anche chi si arrende e si abbandona a gesti estremi come il suicidio. Lo scorso luglio, ad esempio, a Roma un uomo di 45 anni si è lanciato dal tredicesimo piano del palazzo delle Poste, all’Eur, perché non riusciva più a sostenere la sua "difficile situazione familiare”. “I padri separati sono uomini fatti a pezzi, sotto il profilo prima morale e poi finanziario – denuncia Anna Poli, psicologa, blogger e presidente di Ancore (Associazione Nazione Cogenitorialità Responsabile) che incontriamo a Bologna – quando si affronta un divorzio ormai gli uomini hanno soltanto da perdere, sul fronte della separazione non esistono le pari opportunità”. “La verità è che è diventato un grande business, tra avvocati, cooperative e case famiglia”, denuncia Roberto Castelli, padre separato che ha fondato Genitori Sottratti, organizzazione attiva a Bologna, che si occupa di supportare i papà in difficoltà durante e dopo le cause di divorzio. “La legge 54 del 2006 disciplina l’affido condiviso ma lascia ampia discrezionalità al giudice, che nella stragrande maggioranza dei casi decidono di collocare i bambini presso le madri, così – ci spiega – si innesca un processo di alienazione parentale che trasforma i papà in genitori di seconda classe che servono soltanto a pagare il mantenimento”. “Il padre – continua Castelli - diventa una figura di servizio che non riesce più ad avere un vero rapporto con i figli, mentre il diritto dei bambini, che dovrebbe essere garantito proprio da questa legge, sarebbe quello di poter avere entrambi i genitori”. “La separazione spesso viene vissuta come un lutto, e vi assicuro che si muore interiormente”, ci confessa Mariano. Dopo un matrimonio naufragato, due figli da vedere a orari prestabiliti e lo stalking da parte della ex moglie, ha deciso di scendere in campo per aiutare chi ha vissuto il suo stesso dramma attraverso dei gruppi di self-help. “È un percorso molto difficile dal quale non si esce facilmente – precisa – spesso questa gente non può contare su nessun tipo di sostegno, li aiutiamo proprio perché sappiamo bene che chi viene lasciato solo alla fine soccombe”. “Le somme che devono essere versate per gli assegni di mantenimento sono cifre standard che non tengono conto del reddito dei papà, così un genitore si ritrova a dover pagare il mutuo della casa coniugale, l’affitto di una nuova casa, e a fine mese rimangono pochi spicci per vivere – spiega Anna Poli – per questo in più di un caso si finisce a dormire in macchina o in mezzo alla strada”. “Non è possibile che all’interno di una separazione, evento che già di per sé impoverisce la famiglia, ci sia una figura che viene letteralmente annientata”, ragiona la psicologa. A contestare la prassi utilizzata dai giudici in materia di affido è anche Castelli. “Non è possibile spendere migliaia di euro in avvocati e consulenti per vedersi riconosciuta una cosa ovvia: ovvero il diritto di mantenere un rapporto con i propri figli”. “Bisogna fare qualcosa per cambiare questa situazione”, chiosa. Il precedente esecutivo aveva tentato di applicare dei correttivi alla normativa vigente con il cosiddetto ddl Pillon che, tra le altre cose, si proponeva di introdurre l’obbligo per i figli di vedere ciascun genitore non meno di 12 giorni al mese e l’eliminazione dell’assegno di mantenimento. Al suo posto il senatore leghista firmatario della proposta aveva previsto un "contributo diretto" da parte degli ex coniugi che sarebbe stato utilizzato in favore dei figli durante il tempo trascorso insieme. Ma il disegno di legge è stato aspramente criticato da più parti. L'accusa principale è quella di mettere in difficoltà le donne, che spesso si trovano nella situazione economica o lavorativa più svantaggiata e quindi in posizione di sudditanza rispetto ai mariti. Per questo una delle prime decisioni della nuova ministra della Famiglia, Elena Bonetti, è stata quella di chiudere in un cassetto la proposta del senatore della Lega. Ma proprio dalle istituzioni questo esercito di invisibili aspetta una risposta. "Ad oggi non esiste una rete di supporto che si occupi di queste persone", denunciano le associazioni, che chiedono allo Stato di intervenire.
· Le regole per l’assegno di divorzio.
Assegno di divorzio, il vento è cambiato. Il caso Lario-Berlusconi, ma non solo, raccontano la svolta concettuale in tema di separazioni. Daniela Missaglia l'1 settembre 2019 su Panorama. Che il vento fosse definitivamente cambiato e che, nel diritto di famiglia, spirasse un maestrale di rigorismo più aderente allo spirito della legge, lo si è capito nel maggio 2017 e nel luglio 2018 con il doppio pronunciamento della Suprema Corte di Cassazione in materia di assegno di divorzio. Fiumi di commenti sono stati spesi e persino il più distratto dei fruitori di media e giornali ormai sa che, oggigiorno, il matrimonio non è più un’assicurazione sulla vita per il coniuge cosiddetto debole, la donna nella stragrande maggioranza dei casi. Oggi chi si sposa deve cercare di mantenere la propria autonomia economica, sempre che si possa, per non precipitare in caduta libera al momento del divorzio. Negli ultimi due anni, insomma, gli assegni di divorzio di importo superiore allo stretto necessario per poter sopravvivere, sono scomparsi dai radar. Fatte alcune eccezioni. Ed è così che la Corte di Cassazione, in questo finale d’agosto dominato dalla crisi di Governo, ha chiuso la partita: game – set – match. Sancendo la correttezza di una precedente sentenza della Corte d’Appello di Milano sulla saga familiare che più ha appassionato l’Italia dall’approdo dei Mille a Marsala (guerra giudiziaria Berlusconi / Lario), ha ribadito che chi abbia percepito assegni divorzili non dovuti li deve persino restituire. Inutile scendere in tecnicismi, facciamola molto semplice: se io pago qualcosa che non dovevo versare, ho diritto a riaverlo indietro. Un tempo si cercava, nelle pieghe della legge, una soluzione all’italiana, quella del "chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, scurdammoce ‘o passato" (chiedo venia ai partenopei veraci), togliendo – ma molto di rado – l’assegno di divorzio al percettore e amen. I giudici oggi dicono no: chi incassa ciò che non doveva essere versato deve restituirlo, tanto più se di importo che supera di slancio quello necessario per la mera sussistenza. Di sicuro il milione e mezzo (circa) che la Signora Myriam Bertolini (in arte Veronica Lario) riceveva dal Cavaliere più famoso d’Italia non serviva per le spese spicce all’Esselunga o dal droghiere. Ed ecco la condanna alla ripetizione dell’indebito, in gergo la retroattività della pronuncia che ha dichiarato non dovuto il versamento. L’uomo della strada, a questo punto, può lecitamente domandarsi: ma non potevano, i precedenti Giudici che si sono occupati della vertenza e che hanno premiato l’ex moglie con un assegno mensile da nababbi, pensarci prima? Domanda da un milione di euro per rispondere alla quale occorrerebbe la stessa presunzione di chi voglia contare le stelle una ad una. Io dico di sì, ma non faccio testo. Certamente non commetto lesa maestà se affermo che quanto meno un errore di valutazione deve essere stato fatto nella causa divorzile in primo grado: diversamente la Signora Bertolini non sarebbe oggi obbligata a restituire quanto percepito. I Giudici già sapevano delle straordinarie elargizioni mobiliari ed immobiliari che l’hanno resa ricca, come erano edotti dell’assenza di un suo personale contributo alla formazione della ricchezza del marito. Nondimeno si è deciso di premiarla ulteriormente con il divorzio. Bene (o male, a seconda della prospettiva da cui si guarda): certo è che nelle sentenze in tema di assegni di divorzio, ormai vige po’ più di rigore, virtù che nel Belpaese serve sempre. Senza dimenticare che “dove c’è una sentenza c’è un’ingiustizia, sussurrò il piccolo uomo”. diceva Tolstoj in Guerra e pace.
Divorzio, ecco come cambia l’assegno: potrà essere a termine. Pubblicato martedì, 14 maggio 2019 da Valentina Santarpia su Corriere.it. Il tribunale potrà predeterminare la durata dell’assegno nei casi in cui la ridotta capacità reddituale del coniuge che chiede l’assegno sia dovuta a ragioni contingenti o comunque superabili. È una delle novità previste dal disegno di legge che la Camera sta approvando, prima dell’esame del Senato: il voto dovrebbe essere scontato, dopo l’accordo in commissione della scorsa settimana. Come è noto, con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale può disporre l’attribuzione di un assegno a favore di un coniuge. Il parametro del tenore di vita viene superato: l’entità dell’assegno di mantenimento sarà definita in attuazione della Sentenza 18287/2018 delle Sezioni Unite della Cassazione. Saranno altri gli aspetti ad essere tenuti in considerazione, insieme alla durata del matrimonio, « come l’età, le condizioni di salute e la ridotta capacità reddituale dovuta a ragioni oggettive del richiedente, il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune- spiega Francesca Businarolo, presidente della Commissione Giustizia della Camera - L’assegno, infatti, dovrà avere in futuro natura assistenziale ed insieme compensativa e perequativa». Il tribunale dovrà valutare quindi vari elementi: la durata del matrimonio; le condizioni personali ed economiche in cui i coniugi si trovano a seguito dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio; l’età e lo stato di salute del richiedente; il contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio di ciascuno e di quello comune; il patrimonio e il reddito netto di entrambi; la ridotta capacità reddituale dovuta a ragioni oggettive, anche in considerazione della mancanza di un’adeguata formazione professionale o di esperienza lavorativa, quale conseguenza dell’adempimento dei doveri coniugali nel corso della vita matrimoniale; l’impegno di cura di figli comuni minori, disabili o comunque non economicamente indipendenti. L’assegno cambia anche se si modifica la situazione sentimentale del coniuge che lo riceve. Nel caso di nuove nozze, di unione civile con altra persona o di stabile convivenza, anche non registrata, di chi richiede l’assegno, il contributo viene a decadere. E se l’ex moglie o marito ritornano liberi, non possono tornare a riceverlo.
ECCO COME CAMBIERANNO LE REGOLE PER L’ASSEGNO DI DIVORZIO. Barbara Acquaviti per “il Messaggero” il 4 maggio 2019. Sarà perché, come dice la prima firmataria, la dem Alessia Morani, «questa è una realtà che alla fine, in un modo o nell' altro, tocca tutti». Sta di fatto che la commissione Giustizia della Camera si accinge a varare all' unanimità una legge che pure riguarda da vicino un tema sensibile (e tante volte divisivo) come la famiglia: si tratta della proposta che cambia le regole per l' attribuzione dell' assegno di divorzio eliminando il criterio del tenore di vita, già messo in discussione dalla famosa sentenza Grilli della Cassazione. Per il primo via libera si attendono soltanto i pareri delle altre commissioni competenti, ma l' approdo in aula è già fissato per il 13 maggio, raccogliendo una maggioranza di fatto bipartisan. «Questa - spiega Alessia Morani, che è anche relatrice - è una proposta in quota opposizione, ma devo dire che il lavoro che abbiamo fatto nella passata legislatura e riproposto in questa, ha avuto un riconoscimento anche da parte della maggioranza e infatti il disegno di legge sta procedendo spedito e sono fiduciosa in una sua approvazione». Di fatto, con questa legge, si cerca di mettere ordine alla stratificazione di sentenze intervenute negli ultimi anni, cercando di eliminare le incertezze. «La giurisprudenza cambia e abbiamo ritenuto doveroso scrivere una legge con cui si danno delle indicazioni precise», ribadisce l'esponente dem. Via il concetto di tenore di vita, dunque, per stabilire se e di quale entità debba essere l' assegno, vengono individuati una serie di criteri: durata del matrimonio, età e stato di salute di chi richiede il mantenimento, contributo dato da entrambi «alla conduzione familiare e alla formazione del patrimonio comune», «la ridotta capacità reddituale dovuta a ragioni oggettive», la cura dei figli under 18, disabili o economicamente non indipendenti. Per la definizione dell' ammontare dell' assegno, inoltre, la valutazione economica del beneficiario non si baserà più soltanto sul reddito ma dovrà tenere contro anche della condizione patrimoniale. Di fatto, l' ampio concetto di condizioni dei coniugi previsto dalla normativa attuale viene sostituito con quello più specifico di «condizioni personali ed economiche in cui i coniugi vengono a trovarsi a seguito della fine del matrimonio». Le sentenze sull' assegno di divorzio, dunque, saranno diverse a seconda che ci si trovi di fronte, per esempio a un matrimonio lampo o a una unione duratura, o ancora, dovranno considerare se uno dei due ex coniugi ha dovuto abbandonare il lavoro per ragioni familiari. Una delle novità che vengono normate è la previsione di un assegno a tempo, ovvero un mantenimento che duri per un periodo stabilito dal giudice nel caso in cui la difficile situazione economica del coniuge richiedente sia dovuta a «ragioni contingenti o superabili». Ma c' è un altro caso in cui l' erogazione viene interrotta, ovvero quando l' ex marito o l' ex moglie decidano di risposarsi (vale anche in caso di unione civile) o abbiano una stabile convivenza. Di fatto, si mette nero su bianco nella legge un criterio che già oggi è attuato in molte sentenze. La proposta stabilisce inoltre che il diritto all' assegno non venga ripristinato nemmeno se il nuovo vincolo o la convivenza dovessero interrompersi. «L' obiettivo di questa legge - spiega ancora Morani - è quello di non ritrovarsi in situazioni in cui un coniuge finisce sul lastrico mentre l' altro se ne approfitta. È un modo per venire incontro a diverse problematiche emerse negli ultimi anni senza però mettere in conflitto le parti, cercando un punto di mediazione. Il fatto che sia stata così ben voluta dalla maggioranza dimostra che è un provvedimento equilibrato». Anche Francesca Businarolo, presidente pentastellata della commissione Giustizia, ci tiene a sottolineare l' importanza del testo. «Si tratta di recepire in una norma di legge la sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione secondo cui l' assegno di divorzio ha natura assistenziale, compensativa e perequativa. Le audizioni di esperti autorevoli hanno confermato l' opportunità dell' intervento legislativo per stabilire criteri chiari e stabili».